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BENEDETTO CROCE -1- Collana E sprit 12

De Martino, Croce e il problema delle categorie

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Collana Esprit 12

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BENEDETTO CROCE Teoria e Orizzonti

a cura di Ivan Pozzoni

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DE MARTINO, CROCE E IL PROBLEMA DELLE CATEGORIE

(Sergio Fabio Berardini)

In un articolo del 1938 Ernesto De Martino (Napoli, 1908 – Ro-ma, 1965), nel rimeditare alcuni concetti analizzati da Rudolf Otto nella celebre opera Il sacro del 1917, scriveva che al tedesco era «sfuggito che il tremendum mitico, in una sfera religiosa più pro-priamente magica, eccita, nel rito, una reazione violenta che permette di parlare di un’ira hominum contrapposta all’ira deorum», ovvero di un’ira «del credente verso il nume»1. Nell’affermare ciò, il napoleta-no aveva in mente due concezioni a quel tempo dominanti di consi-derare il fenomeno religioso: da un lato l’approccio fenomenologico di Otto, che individuava l’essenza dell’esperienza religiosa in quel «sentimento creaturale» che ogni uomo prova di fronte a una forza numinosa che lo sovrasta e lo induce ad affondare nella sua nullità; dall’altra la posizione propria dell’«idealismo attuale», che riduceva la religione a misticismo, considerandola come quel momento spiri-tuale in cui il soggetto si annulla nell’oggetto religioso2. All’atteggiamento di sottomissione rilevato da Otto e all’annulla-mento mistico prospettato dall’attualismo di Gentile, De Martino contrapponeva una religione attiva; ovvero una religione che, nella sua vicinanza alla magia, si precisava come una violenta reazione – una ira hominum – contro gli dèi, e in generale, contro il numinoso:

Noi abbiamo segnalato, in un saggio intorno ai Gephyrismi Eleusini, tutta una serie di disposizioni violente verso il Numinoso, in netto

1 E. DE MARTINO, Ira deorum (1938), in Scritti minori su religione, marxi-smo e psicanalisi, a cura di R. Altamura e P. Ferretti, Nuove Edizioni Ro-mane, Roma, 1993, p. 88. 2 In un articolo del 1932 estratto dalla sua tesi di laurea, De Martino affer-mava che «falsissima appare la definizione dell’idealismo attuale», la quale riduce la religione al «momento dell’oggetto», cioè al misticismo (E. DE

MARTINO, Il concetto di religione [1932], ivi, p. 49).

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contrasto con codesto sentimento creaturale; ed è anzi nostra convin-zione, che, nella sfera più propriamente magica, questo accentramen-to spasmodico di energie sia la regola, e il sentimento creaturale l’eccezione3.

Lo studioso napoletano scorgeva nell’azione magica la resistenza dell’uomo a una forza numinosa; e alla luce di tale resistenza egli comprese che «in ogni pratica magica, vista ab intra, noi vediamo una insurrezione del soggetto contro qualcosa, un accentramento spasmodico di energie per ridurre questo qualcosa nel dominio della volontà, una giustizia fisica instaurata dal soggetto attraverso un co-dice di violenza, un ordine naturale morale e rituale insieme, ma che nel rito s’incentra e dal rito procede»4. In tal senso, De Martino rile-vava nell’atteggiamento religioso l’urgenza di porre una separazione tra un «assoluto altro» (alter) avvertito come «minaccioso e oscuro» (ater)5 e il mondo degli uomini. Queste prime ricerche demartiniane, volte a dare maggiore dignità storica alla religione e alla magia, cioè a riscattare la prima dalla sua riduzione a philosophia inferior e rico-noscere alla seconda una specifica positività, non costituivano moti-vo di grande interesse per Benedetto Croce, o comunque non aveva-no posto all’interno del suo sistema: la religione, infatti, diversamen-te dall’arte e dalla filosofia, dalla prassi economica e dall’etica, non poteva essere considerata una distinta forma del circolo spirituale; mentre la magia, volendo usare un’espressione di Adolfo Omodeo, era un negativo di cui non si poteva «fare la storia»6. E tuttavia, que- 3 Ivi, p. 48. 4 Ivi, p. 49. 5 Cfr. E. DE MARTINO, “Alter” e “ater” (1937), ivi, pp. 86-88. 6 «In una lettera a me diretta [annota De Martino], datata 24 febbraio 1941, Adolfo Omodeo osservava che “a rigor di logica la storia del magismo non esiste, perché la storia si può fare del positivo e non del negativo: il magi-smo è una potenza di cui ci si spoglia nel processo della ragione, appunto perché si rivela inadeguata, e non creativa”» (E. DE MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo [1948], Bollati Boringhieri, Torino, 1973, p. 162, nota 133). In modo analogo, Croce negava la possibi-lità di fare la storia del negativo, il quale, infatti, è da intendersi come «emi-sferio di tenebre» non ancora rischiarato dalla «luce del vero» – sicché «si

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sto non impedì a De Martino di scegliere Croce come miglior viatico per il suo peregrinare. Il motivo di questa scelta risiedeva nella con-vinzione, fatta propria dal giovane studioso, che lo storicismo cro-ciano fosse il solo approccio possibile per comprendere quei “mondi culturali” entro i quali la religione e la magia ebbero un ruolo deter-minante ai fini della loro edificazione e protezione – mondi ed “età primitive” che lo sguardo naturalista, precipuo di molte scuole etno-logiche, specie quelle francesi e angloamericane, finiva per frainten-dere grossolanamente. Il risultato di questo fertile incontro, tra De Martino e gli insegnamenti di Croce, maturò così in un saggio di ca-rattere etnologico, pubblicato nel 1941 presso l’editore Laterza.

1. Intorno a Naturalismo e storicismo nell’etnologia, verso Il

mondo magico

Durante la stesura di Naturalismo e storicismo nell’etnologia De Martino ebbe modo di confrontarsi con gli studi intorno alla mentali-tà primitiva condotti da Durkheim e Lévy-Bruhl e in particolare con la teoria del prelogismo di quest’ultimo. Pur riconoscendo ad essi al-cuni meriti, lo studioso napoletano criticò aspramente il naturalismo dei due francesi, e soprattutto ricusò con forza le tesi espresse ne Les functions mentales dans les societies inférieures (1910), secondo cui esistono, in ogni uomo, due mentalità separate e in opposizione tra loro, l’una «primitiva» che partecipa in modo affettivo al mondo, l’altra «adulta» che invece discrimina l’esistente secondo i principi di identità e non contraddizione e di causalità. Per superare tale posi-zione, sulla cui paradossalità non ci possiamo ora soffermare, De Martino propose di qualificare come primitive «quelle età e quelle culture in cui prevale la fantasia e l’economicità»7. Determinato non fa la storia del successivo rischiaramento, non della tenebra, che è senza sto-ria perché accompagna ogni storia» (B. CROCE, Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia [1913], a cura di A. Savorelli, Biblio-polis, Napoli, 2006, p. 76). 7 E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941), a cura di S. De Matteis, Argo, Lecce 1997, p. 94.

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cronologicamente, bensì logicamente, secondo il napoletano il «mon-do primitivo» era dunque segnato dal prevalere delle categorie infe-riori della teoresi e della prassi – una prevalenza che implicava, di contro, una povertà delle superiori categorie della logica e dell’etica. Una simile prospettiva, per quanto ingegnosa e (in apparenza) coe-rente con il sistema crociano, poteva tuttavia portare turbamento en-tro tale ordine, arrecando squilibrio là ove uno squilibrio non poteva assolutamente darsi8. Secondo Gennaro Sasso questa soluzione, lungi dal superare le aporie del prelogismo, insisteva sul medesimo piano astratto in cui si trovava Lévy-Bruhl; e dunque, anziché dimostrare fedeltà a Croce, De Martino finiva col tradirlo:

Era inevitabile che, nell’analisi che dedicava a Lévy-Bruhl, egli ope-rasse secondo il procedimento intellettualistico e separante che, se-gnandolo nigro lapillo, criticava nel suo autore. Era inevitabile che, lui pure, desse luogo all’”astrazione”. Era inevitabile che mentre, per usare il linguaggio della filosofia, riteneva di essersi innalzato alla sfera della ragione, permanesse invece in quella dell’”arido” intellet-to9.

In tal senso, Sasso procede evidenziando l’errore speculativo celato nell’idea di prevalenza:

Inteso come capacità di produrre schemi e astrazioni, spazio, tempo, causalità, quantità, lo pseudoconcetto o, che si dica, l’intelletto astratto, non può non presupporre il concetto puro, o, se si preferisce, la ragione. E questo è il primo argomento che, nei termini della “sua” filosofia, dev’essere opposto all’idea che nelle “culture magiche”, e nel mondo primitivo in cui si esplicano, a “prevalere” siano la fanta-sia e l’economico […]. Questa “idea” è in effetti inammissibile, non

8 Carlo Antoni, pur recensendo favorevolmente il saggio demartiniano, rile-vò tale squilibrio e affermò che l’idea di «prevalenza», così impostata, «sembra un residuo vichiano» (la recensione, pubblicata in «Leonardo», a. XII, 1941, è ristampata in E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., pp. 297-299). 9 G. SASSO, Ernesto De Martino tra religione e filosofia, Bibliopolis, Napo-li, 2001, p. 149.

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solo perché lo pseudoconcetto suppone il concetto e, dunque, tutto lo spirito nella sua realizzata potenza categoriale: tutto lo spirito e non, come qui invece avviene, la fantasia10.

Tale idea è inammissibile perché essa comporta una asimmetria nel sistema categoriale – una asimmetria che Croce avrebbe ricusato senza mezzi termini. Sicché, come ha potuto De Martino, nel suo te-sto più crociano, professare una simile teoria? Possibile ch’egli non fosse consapevole di questo strappo, oppure che non se ne curasse? Non sarà agevole trovare una risposta ferma a queste domande. E tut-tavia, potremmo innanzitutto avanzare l’ipotesi che De Martino, nel formulare l’idea della prevalenza, abbia inteso la «fantasia» e l’«economicità» quali forme «primitive», l’una della «cerchia teore-tica» l’altra della «cerchia pratica»11, rielaborando alcuni passi pre-senti nella Filosofia della pratica di Croce, in cui si affronta la «rela-zione tra le forme economica ed etica» come «doppio grado» e si af-ferma che la prima forma (inferiore) può essere concepita indipen-dentemente dalla seconda, mentre la seconda (superiore) non può es-sere concepita senza la prima:

La distinzione e autonomia rispettiva delle due forme, economica ed etica, […] come è espressa anche nelle parole “inferiore” e “superio-re” […], è quella di due gradi distinti e uniti insieme: tali cioè che il primo possa concepirsi in certo senso indipendentemente dal secon-do, ma il secondo non sia concepibile senza il primo. In quella con-cepibilità di esistenza indipendente del primo è il momento della di-stinzione; nell’inconcepibilità dell’esistenza indipendente del secon-do è il momento dell’unità12.

10 Ivi, p. 152. 11 «In senso ideale, primitiva è la fantasia nella cerchia teoretica e la pura economicità, la pura vitalità economica, nella cerchia pratica» (E. DE MAR-

TINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., p. 94). 12 B. CROCE, Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909), a cura di M. Tarantino, Bibliopolis, Napoli, 1996, p. 242. Lo stesso dicasi per l’arte e la filosofia (ivi, pp. 245-246). Su questo punto, in particolare sul problema del «doppio grado», si veda Filosofia e idealismo di Gennaro Sasso, il quale mette bene in mostra l’aporeticità e il travaglio che spinse Croce a oltrepas-

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Marcello Mustè ha inoltre rilevato che già Croce «aveva parlato del prevalere di una forma sulle altre, per indicare l’attualità della singo-la categoria e del decadere delle altre a sua materia nel circolo indivi-sibile dello spirito»; ma egli ha altresì messo in mostra la sostanziale differenza tra le due posizioni, e dunque il vulnus provocato da De Martino nel sistema crociano: rispetto all’autonomia delle forme cro-ciane, infatti, «il “prevalere” dell’intuizione e dell’utilità nel mondo primitivo assumeva tutto un altro aspetto, e rischiava di delineare una situazione nella quale le forme escluse (il concetto e la moralità) re-stavano obliate e rimosse dall’atto spirituale, come se la loro costitu-tiva cooriginarietà cedesse alla diversa configurazione fenomenolo-gica e storica del loro apparire»13. E tuttavia, altrove, nei suoi studi storiografici, Croce aveva già fatto ricorso al concetto di prevalenza, e lo aveva fatto in un modo simile a quello demartiniano: nel 1934, quando l’aspro presente lo sollecitava a meditare sulla categoria della «vitalità», egli lo utilizzò per indicare quelle epoche storiche di «de-cadenza» nelle quali è rilevabile un prevalere della forma «vitale», cioè un discendere dalle più alte sfere dello spirito (dell’arte, della filosofia, della morale) alla sfera meramente «utilitaria, economica, edonistica»14. E prima ancora, in Teoria e storia della storiografia,

sare tale posizione (G. SASSO, Filosofia e idealismo. I: Benedetto Croce, Bibliopolis, Napoli, 1994, pp. 101 e sgg.). 13 M. MUSTÈ, Filosofia dell’idealismo italiano, Carocci editore, Roma, 2008, p. 192. 14 B. CROCE, Il concetto di decadenza, in Conversazioni critiche, serie quin-ta, Laterza, Bari, 1939, p. 185. Nel saggio La storia contro le illusioni del 1948, giunse ad affermare che «la distinzione di civiltà e di barbarie, di pro-gresso e di decadenza è da intendere in relazione al duplice ordine di forze dello spirito, quelle vitali e quelle oltre e più che vitali, e al prevalere in cer-te epoche delle une o delle altre» (B. CROCE, La storia contro le illusioni, in Filosofia e storiografia [1949], a cura di S. Maschietti, Bibliopolis, Napoli, 2005, p. 150). Sulla riflessione di Croce intorno al problema della «deca-denza» rinvio a D. CONTE, Storia universale e patologia dello spirito. Sag-gio su Croce, “Istituto Italiano per gli Studi Storici in Napoli”, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 214-215.

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Croce parlò di «prevalenza della fantasia»15, affermando che l’età medioevale, o meglio lo «spirito cristiano», «superava l’antico non già con la sicurezza e la calma del pensiero, ma con la violenza del sentimento e con l’émpito della fantasia»16. Guardando al nostro problema, è possibile presumere che quando De Martino asseriva che «il concetto di mondo primitivo deve essere determinato logicamente come prevalenza della fantasia nell’ambito della teoreticità e della mera vitalità economica nell’ambito della praxis», e dunque che «il mondo primitivo non può essere definito in senso cronologico, come l’umanità che visse “all’alba dei tempi”», giacché «ciò che viene prima nel tempo potrebbe essere dal punto di vista logico e storiogra-fico meno “primitivo”»17 (per cui il «primitivo» noi lo «ricerchiamo nell’alto medioevo europeo molto più che nella precedente Roma Augustea»18); è possibile presumere, si diceva, che egli pensasse a una distinzione analoga a quella crociana tra epoche di civiltà e di barbarie; e che egli pensasse a questa distinzione quando, nel guarda-re alla follia che aveva avvinto l’Europa del suo tempo, affermava che il «mondo primitivo […] oggi più che mai dà segni di presenza, simile a una tradizione quasi inaridita che rinverdisca, simile a un linguaggio liturgico quasi obliato che ritorni in piena evidenza alla memoria»19. Ed è possibile altresì presumere che, nel parlare di pre-valenza, egli facesse riferimento all’interesse precipuo dell’età primi-tiva –un “interesse della vita” che dirige quel mondo, “facendosi” fantasia e vitalità economica.20 Il tema dell’interesse, che nel saggio del ‘41 restava inespresso, dovette tuttavia attendere alcuni anni pri-

15 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia (1917), a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, 1989, p. 235. 16 Ivi, p. 231. 17 E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., p. 227. 18 Ivi, p. 146. 19 Ivi, p. 58. 20 In un diverso contesto, Benedetto Croce parlò dell’«interesse della vita presente» (B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit. p. 14) quale espressione dello «svolgimento della cultura» (ivi, p. 15) – un interesse che «ci muove» in quanto «interesse della vita che si fa pensiero», oppure «della vita che si fa intuizione e fantasia» (ivi, p. 41).

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ma di essere affermato con forza, pur sotto una diversa impostazione categoriale. Nel 1948 uscì Il mondo magico, nel quale veniva enun-ciato il problema dell’Esserci (Dasein) che, nel patire l’angosciante possibilità di non essere, manifesta «la volontà di esserci come pre-senza»21: una volontà che esprime il proprio doverci-essere, il pro-prio supremo interesse ad esserci. E fu proprio nel tentativo di deli-neare questo mondo in fieri – il «mondo magico» – rispetto cui le tradizionali forme «non costituiscono, né possono costituire un inte-resse dominante»22, che De Martino pensò di poter ampliare i confini del sistema crociano rivolgendosi a diverse prospettive mutuate dalla filosofia, dall’etnologia e dalla psicanalisi23, e dar vita a uno storici- 21 E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 73. 22 Ivi, p. 164 (corsivo mio). 23 Ne Il mondo magico, al fianco della filosofia di Croce e una ricca lettera-tura etnologica, compaiono temi elaborati in ambito psicoanalitico da Pierre Janet, così come gli studi sul pensiero mitico di Ernst Cassirer e i problemi sollevati dall’esistenzialismo (al riguardo, una visione panoramica ce la of-fre il saggio di S. BARBERA, «Presenza» e «Mondo». Modelli filosofici nell’opera di Ernesto De Martino, in R. DI DONATO [a cura di], La contrad-dizione felice? Ernesto De Martino e gli altri, ETS editrice, Pisa, 1990, pp. 103-127). Per quanto riguarda il rapporto De Martino-Janet si veda il saggio di A. TALAMONTI, La labilità della persona magica, in C. GALLINI (a cura di), Ernesto De Martino e la formazione del suo pensiero. Note di metodo, Liguori Editore, Napoli, 2005, pp. 79-114). Riguardo al rapporto De Marti-no-Cassirer, rinvio a G. SASSO, Ernesto De Martino tra filosofia e religione, cit., pp. 187-203; G. IMBRUGLIA, Ernesto De Martino tra Croce, Vico e Cassirer, in Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana, Bibliopo-lis, Napoli, 2003, pp. 217-256. Per l’esistenzialismo, si noti che durante il periodo della stesura de Il mondo magico (1941-’45) non risulta alcuna let-tura diretta di Heidegger (cfr. il commento di R. Pàstina in E. DE MARTINO, Le note sull’esistenzialismo, in C. GALLINI [a cura di], Ernesto De Martino e la formazione del suo pensiero, cit., pp. 179-186), seppure Essere e tempo risulta tra le opere citate (cfr. E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 160 [nota 131]). Roberto Pàstina ha in tal senso rilevato che il riferimento in questione è estrapolato da L. PAREYSON, La filosofia dell’esistenza e Carlo

Jaspers, Loffredo, Napoli, 1940, p. 23 (cfr. E. DE MARTINO, Le note sull’esistenzialismo, cit., p. 185). È probabile che lo studio diretto di Essere e tempo si collochi tra il ‘53 e il ‘56 (cfr. M. MASSENZIO, La problematica

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smo aperto ad altre Weltanschauungen – uno storicismo per il quale fosse doveroso parlare di «presenza» non come «dato», bensì come «problema» proprio di una «età storica»: quella del magismo.

2. Il mondo magico: la «presenza» e il problema della «storicizza-zione delle categorie»

Attraverso Il mondo magico De Martino tentò di porre in questio-ne il valore storico tanto del “mondo primitivo” quanto del passaggio tra questo e il “mondo civilizzato”. Già in Naturalismo e storicismo egli affermò che l’etnologia storicista è chiamata a cogliere le «alter-native da cui siamo usciti» al fine di comprendere meglio «ciò che noi siamo, qui ed ora» e di «dare incremento e consapevolezza al no-stro essere e al nostro dover essere»24; mentre in un articolo succes-sivo egli si chiedeva: «Quale fu il processo per cui dall’ideale della personalità magica come espressione più alta del vivere civile si pas-sa all’ideale della persona unitaria, che vive la sua giornata culturale solo nel pieno esser presente a se stessa e al mondo?»25. In questo in-terrogativo è possibile scorgere il preludiare del concetto di «presen-za» – un concetto di cui, in quel periodo, tra il ‘41 e il ‘45, durante la genesi dei suoi prolegomeni a una storia del magismo, era in atto una prima formulazione – un concetto, quello di «presenza», attra-

storico-religiosa di Ernesto de Martino: il rimosso e l’inedito, in E. DE

MARTINO, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Argo, Lecce, 1995, p. 31). Per un’analisi dei temi esisten-zialistici in De Martino rinvio a P. CHERCHI e M. CHERCHI, Ernesto De Martino. Dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori Editore, Napoli, 1987 e P. CHERCHI, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori Editore, Napoli, 1994 (visti gli anni di pubbli-cazione, questi due saggi, cui si aggiunge quello di Barbera, non tengono però conto dei rilievi di Pàstina e di Massenzio che rinviano l’incontro diret-to con Heidegger a un periodo successivo a Il mondo magico). 24 E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., p. 231. 25 E. DE MARTINO, Percezione extrasensoriale e magismo etnologico, “Stu-di e Materiali di Storia delle Religioni”, XIX-XX, 1942, p. 81.

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verso il quale per De Martino fu possibile distinguere un’età magica, drammaticamente aperta al rischio del proprio crollo, da un’età (la nostra) in cui quel rischio non costituisce più un problema; e indivi-duare il percorso storico lungo il quale la persona, dapprima segnata da una labilità esistenziale, giunge infine ad essere saldamente «pre-sente a se stessa e al mondo». La «presenza», o «Esserci», nelle pa-gine de Il mondo magico, viene spesso adombrata in negativo, cioè evocando il rischio che la minaccia. A tal proposito, De Martino fece ricorso all’abbondante materiale che la psicologia e l’etnologia gli offrivano relativamente al fenomeno della disgregazione della perso-nalità. Circa lo stato olon, osservato dall’etnologo Shirokogoroff, il napoletano scriveva:

Se analizziamo lo stato olon, ravvisiamo, come suo carattere, una presenza che abdica senza compenso. Tutto accade come se una pre-senza fragile, non garantita, labile, non resistente allo choc determi-nato da un particolare contenuto emozionante, non trovasse l’energia sufficiente per mantenersi presente ad esso, ricomprendendolo, rico-noscendolo e padroneggiandolo in una rete di rapporti definiti. In tal guisa il contenuto è perduto come contenuto di una coscienza presen-te. La presenza tende a restare polarizzata in un certo contenuto, non riesce ad andare oltre di esso, e perciò scompare e abdica come pre-senza. Crolla la distinzione fra presenza e mondo che si fa presente: il soggetto, in luogo di udire o di vedere lo stormir delle foglie, di-venta un albero le cui foglie sono agitate dal vento, in luogo di udire la parola diventa la parola che ode ecc.26.

De Martino ci avvertiva che l’olonismo non può essere interpretato come l’esito di una azione magica; e nel descrivere il processo che, in seno alla storia, ha condotto alla «dis-individuazione» dell’uomo dalla natura27, egli procedeva compiendo una triplice distinzione.

26 E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 72. 27 Cfr. E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., pp. 228-229. In una lettera inviata a Croce nel 1940, De Martino scriveva al maestro: «Se la Natura è, come voi dite, storia disindividuata, storia non più nostra, e quindi da noi non più dominabile secondo spirito, è possibile […] che vi sia stata un’epoca in cui ciò che ora pur resta normalmente disindivi-

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Apprendiamo così che da un lato vi è l’Esserci stabile nella sua pre-senza (e questo è il caso del nostro mondo), mentre dall’altro vi è il non-Esserci, cioè il precipitare della presenza, il suo crollo senza compenso (e questo è il caso dello stato olon). Al centro di questa polarità sta il «mondo magico», entro il quale l’Esserci combatte per il proprio riscatto, nel tentativo di farsi pienamente «presente nel mondo» e di costituire culturalmente una solida separazione tra l’Io e il non-Io. Lo scatenarsi dell’olon non ha dunque nulla di magico, ché il «magico» è già un mondo culturale ove quella distinzione, seppure fragile e non del tutto conquistata, è pure tracciata; mentre il dissol-versi della presenza comporta altresì il dissolversi del mondo: «Il fat-to negativo della fragilità della presenza, del suo smarrirsi e abdicare, è incompatibile per definizione, con qualsiasi creazione culturale, che implica sempre un modo positivo di contrapporsi della presenza al mondo, e quindi una esperienza, un dramma, un problema, uno svolgimento, un risultato»28. Ebbene, quando sorge il mondo magi-co? Esso sorge nel momento in cui, contro il rischio del crollo, si op-pone una resistenza; ovvero quando il crollo della presenza, anziché compiersi de facto, avviene nell’angoscia, e quindi nell’avvertire la possibilità del “proprio” nulla – una «angoscia caratteristica», questa, che «esprime la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci»29. Come per l’ira hominum, anche ora la magia si configura come resistenza, come angosciata volontà di distinguere e allontanare una terribile e minacciosa alterità che rischia di dissolve-re l’uomo. Se nel caso di «crollo senza compenso» vi è la perdita del-

duato (la natura) non lo sia stato per una proto-umanità e che, quindi, erano allora possibili modi di azioni e di dominio sulla natura, che ora, normal-mente, sono andati perduti. […] La magia è la “Storia come pensiero e co-me azione” dei primitivi: e se la natura è, come voi dite, storia senza storia da noi scritta, la magia è una storia della natura rappresentata e agita se non proprio dalle piante e dagli animali che l’hanno fatta, da uomini molto pros-simi alle piante e agli animali, e perciò in grado di rifarla più di noi» (E. DE

MARTINO, Dal laboratorio del «Mondo magico». Carteggi 1940-1943, a cura di P. Angelini, Argo, Lecce, 2007, pp. 61-63). 28 E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 73. 29 Ibidem.

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la presenza e del mondo (e di questo crollo non si può fare la storia), nel caso di crollo nell’angoscia30 vi è una resistenza, una volontà di riscatto, un fine e un valore, e dunque vi è il mondo magico (di cui si può fare la storia), il quale continua a sussistere sino a che la presen-za non viene a consolidarsi:

Per una presenza che crolla senza compenso il mondo magico non è ancora apparso; per una presenza riscattata e consolidata, che non avverte più il problema della sua labilità, il mondo magico è già scomparso. Nel concreto rapporto dei due momenti, nella opposizio-ne e nel conflitto che ne deriva, esso si manifesta come movimento e come sviluppo, si dispiega nella varietà delle sue forme culturali, ve-de il suo giorno nella storia umana31.

Il mondo magico si caratterizza dunque per quest’opera di riscatto, ove ad essere riscattata è la presenza che patisce la propria labilità – che patisce un rischio, quello di non esserci, che continua ad ango-sciare e a manifestarsi, e che deve essere incessantemente affrontato e risolto. L’interesse dominante si precisa qui nell’operare contro la possibilità di non esserci. Una possibilità che non riguarda questa o quella cosa, bensì l’Esserci, cioè lo stesso soggetto della possibilità – ed è per questo essa angoscia: in quanto ne va della presenza riuscire ad affrontarla e a compiere il riscatto da essa. E dunque, è proprio nella differenza tra il crollo effettivo e la possibilità del crollo (l’angoscia) che occorre cogliere la peculiarità del mondo magico en-tro cui si elude il primo combattendo la seconda – un crollo di cui non si fa esperienza se non come possibilità32. Volendo ricorrere a un 30 «Il crollo della presenza diventa un rischio appreso nell’angoscia» (ivi, p. 74). 31 Ibidem. 32 «L’oggetto [dell’angoscia] non si presenta secondo un contorno definito, dentro limiti stabili per cui possa essere appreso come oggetto: il suo limite è travagliato da infinite possibilità sconosciute, che accennano a un oltre carico di angosciante mistero» (ivi, p. 104). In un’opera del 1959 De Marti-no scriverà che, entro la pratica magica, «la negatività non è attuale, ma è un possibile che concerne il futuro» (E. DE MARTINO, Sud e magia [1959], Fel-trinelli, Milano, 2000, p. 107).

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esempio, la vertigine che mi assale mentre percorro un tratto di sen-tiero di montagna presentifica in me la caduta nel burrone. Tale ver-tigine è l’angoscia che allude a questo rischio. Ciò non vuol dire che sto effettivamente cadendo – tale angoscia non coincide con la cadu-ta effettiva, ma con la sua possibilità. Nella vertigine anticipo la ca-duta pur rimanendo saldo coi piedi a terra – vivo quella caduta pur senza averne mai fatto reale esperienza. E poco può servire, in questo caso, la voce amica di chi ha salda la sua presenza e che mi ricorda, con logico realismo, che non sto rovinando verso il basso e che la via permane sicura sotto i miei passi: poco può servire poiché io mi tro-vo su quella via “come se precipitassi”. A salvarmi può essere soltan-to la decisa presa del mio compagno di ascesa, il quale ben conosce dramma entro cui sto crollando e che egli ha superato – a trarmi in salvo può essere soltanto la sua presa che m’infonde forza e le sue parole che mi dicono: “tieniti stretto a me”. La possibilità del non-Esserci, anziché essere tolta attraverso la dimostrazione della sua im-possibilità, rinvia al bisogno di un sostegno affettivo, in quanto il niente, come Heidegger ha evidenziato, non è rilevato dalla logica (la quale, al contrario, ne mostra la contraddittorietà) ma è rivelato dall’angoscia33. E dunque, la risoluzione di questo problema, cioè il problema della labilità della presenza, non può avvenire tramite con-futazione, ma soltanto tramite una pratica affettiva34. Una pratica,

33 Compreso che il problema del niente è “soppresso” dalla logica (cfr. M. HEIDEGGER, Was ist Metaphysik? [1929], trad. it. di F. Volpi, Che cos’è me-tafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 63), l’uomo può comun-que portarsi dinanzi ad esso: «Questo accadere è possibile e, benché assai di rado, è pure reale, solo per degli attimi, nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia» (ivi, p. 67). 34 A chi è angosciato dal niente, un uomo saggio potrebbe anche dimostrare, richiamandosi a Parmenide, che il «non essere non è e non può essere». E tuttavia, agli occhi di chi è colto dall’angoscia il niente non è una contraddi-zione che semplicemente deve essere fatta cadere, giacché essa emerge co-me dramma – un dramma rispetto cui la logica si fa inascoltata. Per questo motivo nel «mondo magico» a comparire come «eroe della presenza» non è Parmenide, bensì uno sciamano – oppure, volendo individuare una figura di maggior prestigio, Orfeo (in tal senso, Vittorio Macchioro, noto studioso di

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dunque, capace di guardare al dramma (che la logica nega), di gher-mirlo e riplasmarlo nel valore del suo superamento35. Questo soste-gno affettivo è assicurato per mezzo di un «istituto magico», un sape-re e una tecnica capaci di salvare la presenza dal crollo, di afferrarla quando essa si trova in bilico sull’abisso della possibilità; mentre co-lui che opera al fine di stornare tale possibilità è lo sciamano, la cui azione salvifica, culturalmente fondata e regolata, lo rende meritevo-le di essere chiamato «Cristo magico»36. Insomma, contro lo sporge-re del dramma esistenziale (rispetto il quale Benedetto Croce avrebbe suggerito di utilizzare la ragione, che è la sola a schiarire e a disper-dere l’oscurità tanto nel pensiero quanto nelle passioni) De Martino riconosceva il valore positivo dell’intervento magico – un intervento culturale, salvifico, eroico, pedagogico, di cui era doveroso racconta-re la storia. La figura dell’«eroe della presenza», che aveva turbato non poco il filosofo di Palazzo Filomarino37, il quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, mal guardava alle celebrazioni di ipo-

religioni misteriche che per un breve periodo della vita del giovane De Mar-tino fu di questi suocero e mentore, era persuaso che Orfeo, quale persona storica, fosse uno «sciamano» capace «di indurre nei suoi adepti l’estasi e di ridestarli dal sogno ipnotico: la facoltà cioè, secondo la mentalità realistica greca, di condurre i vivi all’Ade e ricondurli in terra» [V. MACCHIORO, Za-greus. Studi intorno all’orfismo, Vallecchi, Firenze, 1930, p. 337]). 35 Giustamente, Fabio Ciaramelli afferma che «esula dalle competenze […] del sapere speculativo l’avvertire la crisi e il farvi fronte» (F. CIARAMELLI, Croce, de Martino e il problema filosofico dell’origine, in G. CACCIATORE, G. COTRONEO, R. VITI CAVALIERE [a cura di], Croce filosofo: tomo I, Rubet-tino, Soveria Mannelli, 2003, p. 157). 36 La figura dello sciamano, del «Cristo magico» si precisa in questa sicura stretta di mano, nell’intervento di colui che ha vinto la vertigine dell’angoscia, che la sa affrontare e che opera per il riscatto di quanti invece subiscono la labilità e la crisi del proprio «ci sono». 37 «La santificazione o per lo meno la venerazione, che il De Martino colti-va per lo stregone, ponendolo a capo dell’origine della storia e della civiltà, mi dà qualche pensiero. Preferisco allo stregone il “bestione” primitivo, che, secondo il mito vichiano, allo scoppio e al lampo dei fulmini sentì in sé sve-gliarsi l’idea latente di Dio» (B. CROCE, Intorno al «magismo» come età storica, in Filosofia e storiografia, cit., p. 199).

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tetici Übermenschen capaci di trascinare le masse, questo «eroe della presenza», si diceva, assume i caratteri di quella personalità che, avendo la forza di vincere la propria labilità, prende su di sé il desti-no della sua comunità, ritualizzando la vittoria sul negativo, provo-cando la crisi del «ci sono» attraverso forme controllate, facendo par-tecipare alla sua personale riuscita quanti, nel rischio di smarrirsi, abbisognano di trovare la giusta via per dirigersi verso una rischia-rante anabasi. Ebbene, seppure ne Il mondo magico ne viene taciuto il confronto, qui pare di scorgere la primordiale incarnazione di que-gli «individui della storia mondiale» (i weltgeschichtliche Individuen teorizzati da Hegel) mossi dalla «volontà dello spirito del mondo»38. Con le dovute precauzioni, si badi, è possibile vedere nello sciamano la manifestazione dello spirito del «mondo magico»: il Weltgeist di quell’età impegnata a proteggere la presenza e a conquistare la liber-tà di esserci nella distinzione, contro la possibilità dell’indistinto e dell’impossibilità di qualunque storia39. Così adombrato, lo sciamano è un «eroe della libertà» che, resistendo al rischio del crollo, facen-

38 G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte (1840), trad. it. di G. Bonacina e L. Sichirollo, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari, 2003, Introduzione, p. 28. A tal proposito, Be-nedetto Croce criticò l’idea hegeliana secondo cui si danno «uomini non storici e storici, ordinarî e straordinarî» (B. CROCE, Intorno alla teoria hege-liana degli individui storici, in Filosofia e storiografia, cit., p. 143): corret-tamente intesi gli «eroi» della storia, così «cari ai poeti», altro non sono che «espressioni di commozioni, sentimenti e speranze» (ivi, p. 141) presenti in ogni uomo. Come Hegel e più di Hegel, ritenendo che non è il singolo a fare la storia, Croce precisava: «L’attore, l’unico attore della storia è lo spirito del mondo, che procede per creazioni di opere individuali, ma non ha per suoi impiegati e cooperatori gli individui, i quali, in realtà fanno tutt’uno con le opere individue che si vengono attuando e, tratti fuori di esse, sono ombre di uomini, vanità che sembrano persone» (ibidem). 39 In tal senso, su questa originaria presa della libertà, e dunque sul senso storico del «mondo magico», si chiude il saggio di De Martino: «Hegel non sembra rendersi conto che anche la semplice e umile presenza, che sembra accompagnarci senza dramma nell’agone quotidiano per i valori dello “Spi-rito”, anche l’esserci può diventare problema culturale, centro di storia e ar-gomento di libertà» (E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., pp. 221-222).

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dosi «presente in tutti gli altri»40, agisce in forza di un ordine cultura-le capace di coinvolgere l’intera comunità – la quale è coinvolta ed accoglie in sé la presenza di questo “salvatore” in quanto in essa (e qui si rileva una differenza col tipo hegeliano, che sconta la propria solitudine) ogni uomo, non meno dello sciamano, esprime una volon-tà di riscatto: infatti, in assenza di un comune valore che unisce lo sciamano alla comunità, pur nella distinzione dei ruoli, l’azione ma-gica non si esplicherebbe. Per rispondere a tale obiettivo, l’opera sciamanica ordisce una trama entro la quale ciascun individuo può trovarsi e conquistare se stesso in un solido «ci sono». Il dramma evocato in questo ordine culturale è pertanto una rappresentazione drammatica della crisi: non la produzione (effettiva) del rischio, ma la sua riproduzione (protettiva) che ne decide il decorso e ne custodi-sce la risoluzione – ché vi è magia quando la crisi, in luogo del suo insorgere incontrollato, è decisa e indirizzata verso un fine; quando il crollo del «ci sono» è scongiurato attraverso una sua formale antici-pazione:

Si consideri p. es. il latah che riprende lo stormir delle foglie e dei rami mossi dal vento. In questa forma di imitazione passiva o ecoci-netica si realizza in pieno la fusione affettiva del soggetto e dell’oggetto: ciò non di meno qui non si ha per nulla una imitazione magica. Solo quando il rischio del “ci sono” è avvertito, solo quando il “ci sono” si fa centro dell’imitazione guidandola e dirigendola a un fine determinato, nasce la imitazione magica come istituto storico definito. Chi imita lo stormir delle foglie per ecocinesia non fa della magia imitativa: lo farà solo quando, facendosi centro dell’imi-tazione, imiterà lo stormir delle foglie e dei rami per produrre il ven-to. Solo per entro questa resistenza e questo riscatto del “ci sono” minacciato dall’ecocinesia si costituisce e vive, nella sua caratteristi-ca tensione, la imitazione magica: che è sì, immediata presenza, ma in atto di riscattarsi mercé la finalità dell’azione personale41.

L’intento di descrivere la «primitiva» urgenza di stornare il rischio del non-Esserci e di sancire una stabile separazione tra l’Io e il mon- 40 Ivi, p. 98. 41 Ivi, p. 111.

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do (e dunque di dare stabilità tanto all’Io quanto al mondo attraverso un’opera culturale), indusse De Martino a tenere distinta l’unità tra-scendentale dell’autocoscienza dalle quattro forme (l’arte,la filosofia, l’utile, l’etica) del sistema crociano, e a dare alla prima uno statuto privilegiato: ché se in essa si esprime l’«unificazione secondo for-me» del reale, è per essa che sorge il dramma storico originario, il dramma del mondo magico, attraverso il quale il soggetto viene a co-stituirsi nella sua opposizione al proprio oggetto. E come ciascuna delle quattro forme, nella sua positività, custodisce il rischio del pro-prio negativo (il brutto, l’errore, il disutile, il male), secondo l’etnologo napoletano anche «il supremo principio dell’unità tra-scendentale della coscienza» aveva in sé il suo negativo, ovvero il supremo rischio di perdere quella unità – di perdere la presenza:

Ogni contenuto di coscienza è determinabile solo per entro un certo valore logico, o estetico, o pratico, ecc. E qui si rivela in tutta la sua portata il «supremo principio» dell’unità trascendentale dell’auto-coscienza. Affinché sia possibile il contrapporsi di un «soggetto» a un «mondo», il distinguersi di una unità soggettiva dell’io da un’unità oggettiva del reale, affinché sia possibile la polivalenza qua-litativa dei contenuti di coscienza, è necessario l’atto della funzione sintetica trascendentale, la unificazione secondo forme. Ma a questo punto si apre una ulteriore prospettiva della ricerca. L’unità trascen-dentale dell’autocoscienza non fonda soltanto l’autonomia della per-sona, ma anche la possibilità del rischio a cui questa autonomia è di continuo esposta. Proprio perché qui la forma è un atto di plasmazio-ne, un farsi, essa include in sé la opposizione e quindi il rischio. Per entro la forma del concetto il rischio è l’errore, per entro la forma dell’arte è il brutto, per entro la forma della vita morale è il male ecc. anche il supremo principio dell’unità trascendentale dell’autoco-scienza comporta un supremo rischio per la persona, e cioè, appunto, il rischio per essa di perdere il supremo principio che la costituisce e la fonda42.

In polemica con Kant, il quale, assumendo «come dato astorico e uniforme l’unità analitica dell’appercezione», aveva pensato la «pre-

42 Ivi, p. 158.

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senza» nella sua «immediatezza originaria» e pertanto «incapace nel-la sua propria sfera di qualsiasi dramma e di qualsiasi sviluppo»43, De Martino tentò di allargare la coscienza storica del suo presente e far comprendere che nella storia non soltanto entrano «lo scegliere e il decidere per entro le forme dell’arte, del linguaggio, della religione e del mito, del sapere scientifico, della economicità, della politicità e del diritto», ma altresì «lo scegliere e il decidere per entro la forma fondamentale – il supremo principio – dell’unità trascendentale dell’autocoscienza»44. Intesa in questo modo, la storia, svolgendosi attraverso il vario operare delle quattro forme spirituali, abbraccia anche le vicende che vedono farsi salda la stessa unità dell’autocoscienza. Così, soltanto nel momento in cui la presenza smette d’essere un problema, ché l’Esserci è solidamente presente a se stesso, si giunge all’«ipostasi metafisica di una formazione stori-ca», ovvero si fa dell’unità trascendentale dell’autocoscienza qualco-sa «di mai deciso o (che poi è lo stesso) di sempre deciso e perciò stesso come ciò che non entra nel mondo delle decisioni storiche»45, e dunque si fa dell’Esserci qualcosa di dato, di ovvio, di non proble-matico, come un ente «gettato nel mondo»46.

Appena sia vinta la limitazione inerente alla nostra attuale consape-volezza storiografica, e si scopra il mondo magico come forma di ci-viltà in cui l’esserci della persona emerge come risultato mediato, si produce allora un allargamento della consapevolezza e si apprende la sua precedente limitazione; l’esserci si configura ora per quel che è effettivamente, cioè come «dato a me nella storia umana», come be-

43 Ivi, p. 159. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 160. 46 «L’espressione esser-gettato (Geworfenheit) sta a significare l’effettività dell’esser consegnato» (M. HEIDEGGER, Sein und Zeit [1927], trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, § 29, p. 173). In tal sen-so, «esser-gettato» sta a significare l’esser consegnato di questo «ente» che è l’Esserci «al suo essere», e dunque al suo «Ci», cioè «al sentimento della propria situazione» (ibidem). L’uomo (l’Esserci), è pertanto consegnato sia al mondo (l’ente che non è) sia a se stesso (l’ente che è); e così egli non è padrone, data questa assegnazione, né dell’uno né dell’altro.

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ne culturale che si è fatto attraverso lotte, pericoli, sconfitte, com-promessi, vittorie e infine come decisione e come scelta che ancor oggi vivono in ogni nostra decisione e in ogni nostra scelta. Attraver-so la storia della magia, l’oscuro sum, la deiezione del nostro esserci, la congiunta esperienza della caduta del peccato, sono detronizzati dalla loro pretesa assolutezza, e sono riassorbiti nel processo della storia, di cui sono una formazione particolare. Un’altra epoca, un mondo storico diverso dal nostro, il mondo magico, furono impegna-ti appunto nello sforzo di fondare la individualità, l’esserci nel mon-do, la presenza, onde ciò che per noi è un dato o un fatto, in quell’epoca, in quell’età storica, stava come compito e maturava co-me risultato47.

Insomma, De Martino voleva individuare, nella storia, il momento in cui l’interesse dominante si precisa «come movimento e sviluppo della forma suprema dell’unità trascendentale dell’autocoscienza»48; il che implica un interesse di minor grado per i valori propri delle al-tre forme (arte, filosofia, economia, etica): non una loro eliminazio-ne, bensì, lo ripetiamo, un minor interesse. In altri termini, egli non voleva affermare che le categorie tradizionali «non si applicano alle età primitive»49, bensì che per le età primitive non quelle categorie, che ivi pure operano, ma la «presenza» si eleva a problema, in quan-to deve essere contrastato il «supremo rischio» che la insidia. Pertan-to la «ragione storica» che, nel tentativo di comprendere quelle età, non guarda a questo preciso problema, «non investe il magico del suo interesse individuante»50. Questa posizione venne ulteriormente precisata quando De Martino affermò che «senza dubbio anche nelle civiltà magiche vi sono prodotti che possono essere considerati come arte, filosofia, o ethos ecc.», e tuttavia «ciò che qui si vuol mettere in evidenza è il fatto che le forme tradizionali non costituiscono, né possono costituire, per entro il mondo magico, un interesse dominan-

47 E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 161. 48 Ivi, p. 163. 49 B. CROCE, Il mondo magico, in Nuove pagine sparse, Laterza, Bari, 1966, vol. II, p. 79. Croce rinvia qui alla pagina 164 de Il mondo magico. 50 E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 164.

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te»51. Dalla lettura de Il mondo magico, Croce rilevò il tentativo di abbassare le quattro forme dello Spirito dal piano ideale che spetta loro al piano fenomenologico, al mondo storico, dal quale esse non traggono origine, ma del quale invece sono l’eterno motore; e criticò con fermezza e con una certa preoccupazione l’audace sforzo di De Martino di ripercorrere l’umbratile via già calcata da maghi e scia-mani al fine di pervenire a una maggiore consapevolezza storica. Guardando a questo percorso, Croce vide la contrapposizione tra il nostro mondo, che è regolato dalle categorie spirituali, e un mondo magico in cui tali categorie non sono operanti, e in cui ad operare è una forza che, impegnata a conquistare la presenza, e dunque la loro unità, precede la loro comparsa52. La critica insisteva nel ricordare al

51 Ivi, pp. 163-164. Nella pagina precedente troviamo scritto: «L’interesse dominante del mondo magico non è costituito dalla realizzazione delle for-me particolari della vita spirituale, ma dalla conquista e dal consolidamento dell’esserci elementare, o presenza, della persona» (ivi, p. 163). A riprova dell’incomprensione che induce a pensare al mondo magico come a un mondo in cui le categorie tradizionali non operino, o in cui non esista alcuna quotidianità, ma solo una lotta per la presenza, nella sua introduzione a Il mondo magico, Cesare Cases si chiede come mai «l’homo magicus demar-tinianus» è sempre «dedito ai drammi dell’olonismo, dell’amok o della fat-tura, mentre non lo vediamo mai distendersi un po’ per costruirsi la sua ca-panna, fare all’amore o celebrare una festa» (C. CASES, Introduzione, ivi, p. XXIV). La risposta alla domanda polemica di Cases è già presente nel passo demartiniano sopra citato, nel quale si evince chiaramente che l’uomo ma-gico avrà pure una quotidianità (cercare cibo, costruire un riparo, fabbricare strumenti, scambiarsi beni, celebrare una festa, ecc.), la quale non può e cer-to non deve essere negata, ma tale quotidianità non è il suo interesse domi-nante; e pertanto è a questo interesse che è necessario guardare per com-prendere quel mondo. 52 Benedetto Croce, nella sua seconda recensione a Il mondo magico, mostrò che l’errore di De Martino stava nell’aver «storicizzato le categorie», ovve-ro nell’aver asserito che «l’età del magismo» creò «l’unità dello spirito», quando, al contrario, «essa [l’età del magismo] fu l’azione di quella unità e delle sue categorie» (B. CROCE, Intorno al «magismo» come età storica, cit., p. 194). In modo analogo, Enzo Paci osservò che «De Martino scambia la storicità con l’eternità della filosofia» (E. PACI, Il nulla e il problema

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suo allievo «che né le categorie della coscienza, il linguaggio, l’arte, il pensiero, la vita pratica, la vita morale, né l’unità sintetica, che tut-te le comprende, sono formazioni storiche, prodotti di epoche dello spirito, ma tutte sono lo spirito stesso che crea la storia»53. In tal sen-so, l’idea di affermare che «la Grecia creò la poesia e la filosofia», mentre «il cristianesimo la coscienza morale», nasce solo da intenti pratici di natura storiografica – tant’è che pure Hegel peccò «nel rap-presentare le forme dello spirito come epoche storiche e il corso della storia come quello in cui lo spirito crea le sue categorie o crea la sua libertà»54. E questo riferimento a Hegel, forse meglio di altri passi, riesce a mostrare le ragioni che portarono Croce a parlare di «stori-cizzazione delle categorie». Infatti, il passaggio dal mondo magico al nostro mondo può far pensare a un progresso di tipo hegeliano (e al-tresì vichiano) – un progresso che Croce, come è noto, non poteva assolutamente accettare. Un passaggio, quello tra l’età magica e l’età «della mente tutta spiegata», che paradossalmente dovrebbe compor-tare la precedenza di un’ipotetica età impegnata nella conquista dell’unità sintetica (vuota di categorie) rispetto un’età (la nostra) in cui le categorie sono invece presenti (in quella unità)55; ovvero la precedenza del mondo magico rispetto la storia e le sue eterne cate-gorie. L’obiezione del grande filosofo idealista era chiara: l’unità è già unità delle forme e le forme sono tali nell’unità; in altri termini, esse – unità e forme – sono eterne e sono lo stesso Spirito che produ-

dell’uomo [1950], Bompiani, Milano, 1988, p. 89), ovvero «con l’eterna struttura categoriale del pensiero» (ivi, p. 88). Le recensioni (le due di Croce e quella di Paci) sono pubblicate in appendice a Il mondo magico (pp. 240-241, 242-253 e 254-262). 53 B. CROCE, Intorno al «magismo» come età storica, cit., p. 193. 54 Ibidem. 55 In tal senso, Croce parlò di vulnus entro il sistema delle forme: «Il battere che fa De Martino sul rischio del perdersi, al quale, secondo lui, andrebbe incontro se stessa anche l’unità acquistata […], verrebbe a distaccare con un taglio impossibile l’unità spirituale dalle sue forme, che non sono aggiunte a quella unità, ma sono l’unità stessa, onde, a volere considerare questa per sé, resterebbe nelle mani nostre un’unità, peggio che inerte, vuota» (B. CROCE, Intorno al «magismo» come età storica, cit., pp. 193-194).

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ce la storia. Eppure De Martino non capiva il motivo della critica, o meglio: concorde circa tale affermazione, non capiva perché gli si imputava di averla contraddetta. Che De Martino fosse convinto di non aver operato una simile «storicizzazione» (e dunque di non aver tradito il sistema crociano) è possibile desumerlo da un breve scrit-to56 in cui il napoletano affermava: «mi si accusa di aver supposto nel Mondo magico due realtà diverse, una valevole quasi in tutto nel nostro mondo europeo-occidentale e l’altra propria del mondo primi-tivo e magico. Ma io non dico questo, non proponendomi affatto di storicizzare la categoria di realtà. Io ho inteso semplicemente pro-muovere e accrescere la coscienza dell’unica categoria di realtà mer-cé un allargamento dell’orizzonte storiografico che si svolge per en-tro di essa»57. Sicché, nello svolgere i suoi prelogomeni a una storia del magismo, questo voleva fare De Martino: scrivere una «storia»; e non edificare quello che Croce, riferendosi agli studi sulla «preisto-ria», definì «un “atrio” o un’”antisala” dell’edificio storico»58. Dun-que, una storia. Una storia con tutte le categorie; e tuttavia, non solo le categorie tradizionali, ma altresì (quasi si aggiungesse a quelle come ulteriore distinto) il principio fondamentale dell’unità trascen-dentale dell’autocoscienza (e la crisi ad essa correlata) – un principio in virtù del quale si attua la lotta per la difesa della presenza contro il rischio del suo crollo, una lotta per la libertà del «ci sono» entro il mondo, di cui lo sciamano ne è l’eroica incarnazione. Convinto di non aver ridotto il piano logico al piano fenomenologico, De Martino si difendeva in tal modo: «Non ho teorizzato il cangiamento storico della categoria di realtà, ma ho raccontato la storia, e quindi il can-giamento, di realtà di cui non si era riusciti ancora a raccontare la storia»; e aggiungeva: «Se, per avventura, l’umanità smarrisse la

56 Lo scritto, che è custodito presso l’Archivio De Martino (q. 26.1), è pub-blicato in G. SASSO, Ernesto De Martino tra religione e filosofia, cit., pp. 280-281. Si tratta di una prima replica alla critica di Croce – una replica che, tuttavia, finì nel cassetto. 57 Ivi, p. 280. 58 B. CROCE, Considerazioni sulla preistoria, in Indagini su Hegel e schia-rimenti filosofici (1952), a cura di A. Savorelli, Bibliopolis, Napoli, 1998, p. 190.

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memoria di poeti come Omero, Shakespeare e Dante, non soltanto perirebbero determinati prodotti storici del genio poetico ma ne risul-terebbe altresì oscurata la coscienza stessa della poesia come catego-ria»59. In tal senso, nel recuperare alla memoria gli istituti storici che hanno contribuito alla difesa della presenza, De Martino tentò di por-tare a coscienza la «forma fondamentale dell’unità trascendentale dell’autocoscienza». Alla severa critica del maestro, De Martino pen-sò inizialmente di giustificarsi così: «L’accusa mossami dal Croce di voler storicizzare le categorie trae origine da una reale oscurità e manchevolezza del Mondo magico, e cioè dalla non eseguita dedu-zione della nuova categoria di esistenza, e dall’aver contratto in una sua forma storica – il dramma esistenziale magico – la sua produtti-vità categoriale»60. E tuttavia egli preferì non giustificarsi. Probabil-mente perché voleva rimediare a quella oscurità in forma più distesa, De Martino decise di non replicare immediatamente a Croce. D’altronde, ubi major minor cessat: egli chinò il capo e, alcuni anni più tardi, prima in un articolo del 1956 e poi nel ‘58 in Morte e pian-to rituale, fece ammenda di una colpa che forse non sentiva propria, ma che comunque assunse come propria – e l’assunse anche per faci-litare lo schiarimento di quella «categoria di esistenza» che a suo av-viso, per proprio demerito, era rimasta in ombra. Della retractatio demartiniana diremo a breve. Ciò che invece preme ora sottolineare, dopo la lettura della sua soffocata difesa, è che il suo proposito non era mostrare la formazione della categoria di realtà e la conseguente storicizzazione delle forme, ma scrivere la storia di quegli istituti cul-turali che stornano la possibilità, vissuta drammaticamente dall’uomo magico, di poter perdere l’unità della presenza.

59 Citato da G. SASSO, Ernesto De Martino tra religione e filosofia, cit., p. 280. È evidente che per Croce quei «prodotti storici del genio poetico», an-che se dovessero cadere in oblio, non potrebbero mai «perire», ma restereb-bero custoditi nel grembo dello spirito. Ed è proprio perché ivi sono custodi-ti e non sono cancellati che De Martino può affermare di voler recuperare alla memoria gli «istituti magici», di riportali cioè da Lete a Mnemosyne. 60 Ivi, p. 281.

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3. Dopo Il mondo magico: Croce, la forma del «vitale» e l’«ethos del trascendimento»

Nel 1956, in un articolo intitolato Crisi della presenza e reinte-grazione religiosa, Ernesto De Martino riprese il discorso de Il mon-do magico «dal punto in cui allora fu lasciato»61. Da subito egli mise in causa la «grave contraddizione» in esso presente, dichiarando che non avrebbe mai dovuto far valere il «concetto di presenza» come «concetto di un’unità precategoriale della persona» e guardare al mondo magico come a un’età impegnata nella «conquista» di quella unità62. Ebbene, tralasciando per il momento la questione circa la sua buonafede e l’autenticità di questa affermazione, potremmo da subito mettere in chiaro alcuni punti. Se prendiamo il saggio del ‘48 leg-giamo che il rischio e l’angoscia hanno per oggetto la persona e il mondo: tali sono contraddistinti per la loro labilità, ma pur sempre una persona e un mondo sono. E proprio il rischio e l’angoscia mo-strano che la persona e il mondo non sono semplicemente dati, o na-turalmente garantiti nel loro essere, ma sono un problema. Inoltre, quando si parla di «conquista», l’accento cade sempre sull’azione di-fensiva. A tal proposito, le espressioni che più ricorrono sono: «fun-zione protettiva», «resistenza del “ci sono”», «riscatto dal rischio di non esserci». Infine, il «rischio» ha la sua radice nell’«unità trascen-dentale dell’autocoscienza»63; pertanto quello non precede questa, ma la accompagna come un’ombra. Il passaggio dal «mondo magi-co» al mondo della «mente tutta spiegata» deve essere dunque pensa-to come il passaggio (entro il mondo, entro la storia) da una situazio-ne affettiva in cui la labilità della presenza è avvertita come proble-ma, alla risoluzione di questo problema (e al successivo oblio del processo risolutorio). Sicché, l’età del magismo non anticipa «l’unità 61 E. DE MARTINO, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, “Aut Aut”, 31, 1956, p. 17. 62 Ibidem. 63 «L’unità trascendentale dell’autocoscienza non fonda soltanto la possibi-lità dell’autonomia della persona, ma anche la possibilità del rischio a cui questa autonomia è di continuo esposta» (E. DE MARTINO, Il mondo magi-co, cit., p. 158).

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dello spirito», ma la difende dal perturbamento dell’animo (sempre che possa essere difesa o perturbata da alcunché), o meglio, difende la persona dall’angoscia, dall’insorgere della crisi e dalla temuta pos-sibilità di perdere quella unità – la quale non può e non deve essere pensata separata da quelle categorie ch’essa unifica. L’autocritica se-gnò la volontà di chiarificare la propria ricerca in quei punti rimasti oscuri e svilupparla; ma segnò anche un “ritorno” a Croce. Un ritor-no, tuttavia, sui generis: in primo luogo perché egli non pensava di essersene allontanato (almeno nella forma in cui gli era stata imputa-ta); in secondo luogo, perché questo ritorno segnò un ulteriore di-stacco. Egli, infatti, in vista degli spazi che voleva includere nel pro-prio panorama di ricerca, sempre di più e con maggiore consapevo-lezza cominciò a soffrire della “limitatezza” della filosofia crociana, e pertanto avvertì la necessità di aprirsi, come già era accaduto con Il mondo magico, ma ora con più forza, a nuove esperienze, a nuovi orizzonti speculativi, pur mantenendo uno sguardo storicista e pur conservando (seppur modificato da ulteriori elaborazioni) l’impianto categoriale del suo caro maestro64. Nel riprendere il discorso là ove era stato lasciato, dunque, egli si soffermò proprio su quella «energia distinguente» che nel testo del ‘48 era stata definita quale «unità tra-scendentale dell’autocoscienza» e che tante critiche aveva generato.

Il Croce aveva ragione: il «taglio», per entro la storia umana, è «im-possibile», nel senso che si possa mai immaginare un’unità a sé che

64 Il «distacco da Croce», scrive Giuseppe Galasso, si determinò «in quanto questi appariva ora come un metro troppo corto per misurare le nuove di-mensioni del mondo di oggi» (G. GALASSO, Croce, Gramsci e altri storici, Il Saggiatore, Milano, 1969, p. 238). Un metro troppo corto e forse anche troppo rigido, come De Martino confessò nel 1953 quando, nel ripensare alla «distinzione fra umanità e natura» e al modo crociano di indicare i Naturvölker come quei popoli aggiogati alla natura e incapaci di fare storia, anziché come quei popoli soggiogati dal colonialismo e dalla morsa natura-lista che divide l’umanità in “civiltà” e “barbarie”, vide nella filosofia cro-ciana il riflesso di una «ideologia borghese», segnata da un «limite d’umanesimo» (E. DE MARTINO, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, “Società”, 9, 1953, p. 317).

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formi problema storico particolare, o addirittura dominante, un’unità che davvero non si intende di che e come sarebbe diventata unità, e di quale riscatto avrebbe reso partecipe. […] Tuttavia, per entro la storia umana, il rischio del taglio esiste. […] E poiché il rapporto che costituisce la presenza è lo stesso rapporto che rende possibile la cul-tura, il rischio di non esserci una storia umana si configura come ri-schio di perdere la cultura e di recedere senza compenso nella natura. Quando tale rischio insorge in un determinato momento «critico» dell’esistenza storica, la presenza perde la potestà di deciderlo od ol-trepassarlo, e vi resta impigliata, entrando in una profonda contrad-dizione esistenziale con se stessa: allora si avvia alla crisi proprio come presenza, poiché la sua realtà è tutta – senza residuo – nell’atto di decidere o oltrepassare secondo valori le situazioni della propria storia (che questo e null’altro è lecito intendere quando si parla dell’umano ex-sistere). Un rischio radicale ha dunque luogo, un ri-schio che non è certo la perdita della mitica unità anteriore alle cate-gorie, ma ben è la perdita della unità dinamica delle categorie, l’estinguersi di quella energia di distinzione secondo valori che costi-tuisce la realtà stessa dell’esserci nella storia umana65.

Ebbene, qui vi sono almeno tre passi da rilevare: il primo riguarda il momento in cui, dando ragione a Croce, De Martino diceva essere impossibile immaginare «un’unità a sé che formi problema dominan-te». E che ora parlasse di «problema dominante» di una «unità a sé» (cioè di una unità che precede le forme), anziché, come si è visto ne Il mondo magico, di «interesse dominante» per l’unità, che è comun-que unità di forme, ma la cui percepita labilità la pone s’un piano di maggiore preoccupazione (di interesse, appunto) rispetto quelle; che ora parlasse di «problema dominante» di una «unità precategoriale», si diceva, significa che De Martino aveva in mente di assumere quel-la colpa per poter affermare con maggiore chiarezza quanto in realtà era già stato affermato. Il secondo punto è relativo alla «contraddi-

65 E. DE MARTINO, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, cit., p. 19. Questo passo è quasi identico al primo paragrafo che dà inizio al saggio del ‘58 (cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), Bollati Boringhieri, Torino, 1975, pp. 15 e sgg.).

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zione esistenziale». Qui De Martino si riferiva proprio al fatto che la possibilità del «taglio», che è dalla logica rifiutata (così come è rifiu-tato il niente che l’angoscia rivela), sul piano esistenziale è invece avvertito in virtù di una «contraddizione nella ragione»66; e dunque che, in luogo di un dato rischioso, la persona labile esperisce dram-maticamente e con angoscia una possibilità che contraddice la ragio-ne. Per questo motivo, in riferimento al mondo magico, è possibile parlare di priorità dell’unità rispetto le forme: perché, patendo la sua labilità, la presenza vive nell’angoscia, la quale, anziché essere risol-ta dalla ragione, ha bisogno innanzitutto di un sostegno affettivo (la pratica magica), ovvero di un istituto culturale capace di entrare in 66 E. DE MARTINO, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, cit., p. 24 (cfr. anche E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, cit. pp. 23 e sgg.). A tal proposito De Martino rinvia al paragrafo 408 della Enciclopedia di He-gel in cui si trova scritto: «Quando resta […] irretita in una determinatezza particolare, la coscienza non assegna a tale contenuto il posto intellettivo e la subordinazione che gli spetta nel sistema individuale del mondo – in quel sistema, cioè, che costituisce un soggetto. Il soggetto si trova allora nella contraddizione tra la sua totalità, sistematizzata nella sua coscienza, e la de-terminatezza particolare che, in questa totalità, non ha fluidità, e non è né ordinata né subordinata. Questa contraddizione è la pazzia» (G.W.F. HE-

GEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse [1830], trad. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in com-pendio, Bompiani, Milano, 2000, § 408, p. 685). E ancora, in Morte e pianto rituale, nel citare un passo dalla Critica della ragion pura in cui Kant ipo-tizza per assurdo la possibilità che le rappresentazioni non siano comprese, nella loro molteplicità, in un’unica coscienza (in tal caso si avrebbe, in luo-go dell’unità sintetica, «un Me stesso variopinto, diverso, al pari delle rap-presentazioni delle quali ho coscienza» [I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1781-1787), trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ra-gion pura, Laterza, Roma-Bari, 1981, pt. I, libro I, cap. 2, sez. 2, § 16, p. 112]), De Martino chiosa: «la tesi che forma il nerbo del secondo capitolo del Mondo magico interpreta come reale rischio esistenziale ciò che nella critica kantiana sta solo come argomento polemico» (E. DE MARTINO, Mor-te e pianto rituale, cit. p. 21). Quindi il «taglio» è visto, nella sua impossibi-lità logica, sia come «contraddizione esistenziale», sia come «reale rischio esistenziale» (cioè come contraddizione patita da chi, nella storia, vive e muore).

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contatto con quella contraddizione, di affrontarla positivamente e ri-solverla. Se ne Il mondo magico De Martino aveva taciuto che l’interesse dominante per l’unità spirituale è una «contraddizione», ora questa veniva dichiarata; e tuttavia, nell’essere dichiarata, era al-tresì affermata e dunque ripresentata secondo una formula più chiara: il «taglio» è sì logicamente impossibile, e tuttavia, esperito come ri-schio, ovvero come «trauma»67, esso deve essere considerato esisten-zialmente reale. Il terzo punto riguarda l’«unità dinamica delle cate-gorie», e dunque l’«energia di distinzione secondo valori», cioè una forza spirituale in grado d’imprimere in solide forme culturali il di-venire – una forza che, per De Martino, si precisava in un’attività edificante che «costituisce la realtà stessa dell’esserci nella storia umana». Questa energia altro non è che il «principio supremo dell’unità trascendentale dell’autocoscienza», visto qui, nel suo di-namico svolgimento, come slancio valorizzante produttore di storia e di civiltà – «potenza» volta a «dialettizzare il vitale con l’ethos e col logos»68. Pertanto, una energia capace, in seno alle eterne forme del-lo spirito, di superare la forma della vitalità nel valore (economico, morale, poetico e scientifico). E tuttavia, e non per ragioni di «dop-pio grado», come vedremo, per De Martino il superamento della vita-lità doveva compiersi soprattutto col “sostegno” della forma etica. In tal senso, nel citare un passo de L’automatisme psychologique di Janet69, egli parlò di «potenza morale», di «ethos fondamentale dell’uomo» come «potenza dialettica che tramuta la natura in cultu-ra»70. Una forza etica, dunque, ovvero un «élan moral», come più tardi troveremo scritto ne La fine del mondo71, quando il napoletano riformerà lo slancio vitale bergsoniano in termini culturali. Ma a questo punto occorre accostarsi al saggio del ‘58 per cogliere piena-

67 E. DE MARTINO, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, cit., p. 20. 68 Ivi, p. 21. 69 P. JANET, L’automatisme psychologique, Alcan, Paris, 1889, p. 478. 70 E. DE MARTINO, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, cit., p. 21 (cfr. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, cit., p. 22). 71 E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalis-si culturali (1977), a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino, 2002, br. 10, p. 15.

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mente il portato di queste prime e decise riflessioni circa l’attività va-lorizzatrice dell’ethos rispetto il vitale. Il richiamo all’ethos avveni-va, in Morte e pianto rituale, attraverso un riferimento al capitolo L’attività morale de La storia come pensiero e come azione di Croce, in cui leggiamo che «il bene è il continuo ristabilimento e assicura-mento dell’unità, e perciò della libertà»72; bene che, unito dialettica-mente al suo contrario, il male, uscendo dal ristretto quadro della so-la etica per interessare ogni forma, coincide con la «vita stessa», la quale «perpetuamente si distingue nelle sue forme e nel circolo di es-se si unifica»73. Insomma, l’«attività morale» regge e dirige ogni at-tività: quella poetica, quella economica e quella filosofica, distin-guendo e unificando ognuna di esse, alimentandone il fine, dando slancio alla realizzazione del loro valore. E a tal proposito De Marti-no sottolineava che l’ethos doveva essere considerato non più «come una distinta forma del circolo spirituale, ma come la potenza supre-ma che promuove e regola la stessa distinzione del vario operare umano»74. L’ethos, non più visto come categoria superiore della prassi, era qui inteso in modo del tutto analogo all’unità trascenden-tale dell’autocoscienza teorizzata ne Il mondo magico; e dunque, di nuovo, esso assumeva uno statuto privilegiato rispetto quelle forme spirituali che, nella loro distinzione, doveva unificare. Alla citazione del passo crociano egli faceva seguire tali parole:

Questo ethos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione. È infatti norma costitutiva della presenza l’impossibilità di restar im-mediatamente immersa, senza lume di orizzonte formale, nella sem-plice polarità del piacere e del dolore e nel gioco delle reazioni e dei riflessi corrispondenti: se vi si immerge, dilegua come presenza. La

72 B. CROCE, La storia come pensiero e come azione (1938), a cura di M. Conforti, Bibliopolis, Napoli, 2002, p. 51. 73 Ibidem. Una analoga espressione la ritroviamo in un successivo scritto ove è detto che la moralità, tenuta ferma la distinzione delle forme, «può dirsi la potenza unificante dello spirito» (B. CROCE, Intorno al mio lavoro filosofico, in Filosofia e storiografia, cit., p. 65). 74 E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, cit., p. 17.

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mera vitalità che sta «cruda e verde» nell’animale e nella pianta deve nell’uomo esser trascesa nell’opera, e questa energia di trascendi-mento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza. Esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una distinta potenza dell’operare, trascenderlo in un valore particolare: ciò definisce insieme la presenza come ethos fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio ra-dicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo – è esposto75.

È in questa precisazione dell’ethos come «presenza» che De Martino, confrontandosi con Croce, approfondì la sua meditazione sul «vita-le». Una riflessione che metteva in mostra come, nel pensare quella forma, nel maestro e in molti dei suoi discepoli vi fosse «incertezza e contraddittorietà» a causa della «mancata distinzione tra vitale ed economico»76. La vitalità, infatti, dal filosofo idealista era presentata in modo non distinto dall’utile, e in essa si precisava il carattere «verde e crudo» dell’esistenza, scevro da ogni aspetto morale, artisti-co o logico.

Terribile forza questa, per sé affatto amorale, della vitalità, che gene-ra e assorbe o divora gli individui, che è gioia ed è dolore, che è epo-pea ed è tragedia, che è riso ed è pianto, che fa che l’uomo ora si sen-ta pari a un dio, ora miserabile e vile; terribile forza che la poesia doma e trasfigura con la magia della bellezza, il pensiero discerne e conosce nella sua realtà e nella realtà delle sue illusioni, e la coscien-za e volontà morale impronta di sé e santifica ma che svela sempre la sua forza propria, con le sue ragioni che si fanno valere oltre la no-stra volontà e riimmergono di volta in volta l’umanità nella barbarie, che precede la civiltà e alla civiltà succede, interrompendola per far sorgere in lei nuove condizioni e nuove promesse77.

75 Ibidem. 76 Ivi, p. 18 (nota 6). 77 B. CROCE, Intorno alla categoria della vitalità, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 144.

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Nel leggere questo passo saremmo quasi tentati di pensare a un puro bios scevro di spiritualità, e tuttavia occorre tenere fermo questo aspetto: che la vitalità è forma, e non soltanto (o soprattutto) materia. Giova ricordare che Benedetto Croce aveva fatto rientrare l’utile (economico e vitale) entro il circolo dello spirito per non lasciare nulla fuori di questo: nulla che non fosse pura astrazione o fantasti-cheria. Così pensata, la vitalità, in quanto «forza amorale», cioè forza «cruda e verde», si pone dialetticamente come materia per ogni slan-cio etico, artistico e filosofico; ma anche come fiacchezza morale, come tentazione alla disgregazione dello spirito, ove il bene ne è la potenza unificante. Guardata sotto questa luce, anche se la vitalità è da considerarsi positiva al pari delle altre forme, più delle altre sem-bra custodire la radice del negativo78 – un negativo del quale la storia è sempre stata e sempre sarà testimone e del quale l’umanità non po-trà liberarsi, ché «la Vitalità è irrequietezza e non si soddisfa mai»79. Pertanto, lo svolgimento dello spirito, qui inteso non in modo «cu-spidale» (scandito da momenti imperfetti sino a una forma ultima e perfetta), bensì «circolare» (che non prevede alcuna fine, alcun arre-sto), ha nella vitalità (in quanto perpetua «irrequietezza» che di con-tinuo offre «problemi» che le forme dell’arte, della filosofia, della morale di volta in volta risolvono) materia e sempre nuova energia80. 78 Enzo Paci, che aveva proposto di risolvere l’utile crociano nel «concetto di esistenza», cioè come sola «materia» e non anche come «forma», osservò che l’utile è in realtà quel negativo che «spiega la distinzione e l’opposizione tra le forme e tutte le distingue con la sua negatività, ed a tutte si pone come contrario e tutte costringe a lottare contro di lui» (E. PACI, E-sistenzialismo e storicismo, Mondadori, Milano, 1950, p. 217). 79 B. CROCE, Hegel e l’origine della dialettica, in Indagini su Hegel e schia-rimenti filosofici, cit., p. 39. In questo senso, il «circolo delle forme», visto come totalità che comprende altresì il vitale, «è l’accettazione piena della realtà come dato nel quale, secondo l’espressione paolina tante volte ri-chiamata da Croce, vivimus et movemur et sumus» (M. MAGGI, La filosofia di Benedetto Croce, Bibliopolis, Napoli, 1998, p. 360). 80 Sicché, senza la vitalità le diverse forme dello spirito «non avrebbero vo-ce, né altri organi, né forze» (B. CROCE, Hegel e l’origine della dialettica, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., p. 38). Giuseppe Galasso a questo proposito scrive: «La vitalità, dunque, non solo come integrazione,

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Nel passo demartiniano citato poco sopra abbiamo letto che «la mera vitalità che sta “cruda e verde” nell’animale e nella pianta deve nell’uomo esser trascesa nell’opera, e questa energia di trascendi-mento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza»; e altresì che il «rischio» di «non trascendere» il vitale nell’opera appartiene soltanto all’uomo. Ebbene, occorre ri-levare che per De Martino il vitale «non sta mai come forma, ma come materia: come materia trascesa nella coerenza culturale»81. Di-versamente da Croce, il vitale è assunto come fondo naturale rispetto il quale l’uomo, e solo l’uomo, attraverso un’opera di plasmazione culturale, compie (e mantiene) un distacco. Materia, dunque, che viene trascesa da quell’«ethos fondamentale della presenza» che «vuole esserci in una storia umana». Tale ethos non si riduce alla so-la categoria morale82, ma coinvolge tutte le forme dello spirito (ché la presenza si precisa nell’unità di queste). Inoltre, entro il continuo passaggio da una forma all’altra, viene a svolgersi una «spirale della vita culturale»83, ché il vitale sempre si «ripropone», in quanto «ma-teria» informe e indefinita che alcuna forma e coerenza riesce a esau-rire, per cui l’ethos, non potendo compiere un definitivo distacco da esso, sempre vi ritorna, ma vi ritorna più ricco, cioè arricchito dal «vario operare» economico, morale, artistico e filosofico; e dunque vi torna con rinnovate forze, «pronto […] ad un più vigoroso sforzo di economica coerenza», per innalzarsi nuovamente «alla poesia e alla scienza e alla vita morale», a incrementare l’ethos nel suo «civile realizzarsi»84. Lo scarto rispetto Croce non stava tanto nella forma a

bensì anche come promozione del circolo spirituale; non solo come com-plemento materiale, bensì anche come garanzia del carattere umano della vicenda spirituale» (G. GALASSO, Croce e lo spirito del suo tempo, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 424). 81 E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, cit., pp. 17-18. 82 Negli Scritti filosofici leggiamo che l’ethos non è «un valore categoriale confondibile con la consapevolezza morale» (E. DE MARTINO, Scritti filoso-fici, a cura di R. Pàstina, “Istituto Italiano per gli Studi Storici in Napoli”, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 64). 83 E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, cit., p. 19. 84 Ibidem.

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spirale del «civile progresso» dello spirito, giacché anche per il filo-sofo idealista la storia era progresso, e mai regresso; bensì stava nella irruzione di questa forza – l’ethos – capace di un continuo trascen-dimento della vitalità nella varietà delle forme; e altresì nella “rifor-ma” dell’utile, il quale, per De Martino, non si precisava più e come economico e come vitalità, bensì si distingueva da quest’ultima. In-somma, nell’indicare la vitalità come materia trascesa, e non come forma (ovvero, crocianamente, come forma che è materia delle altre forme), egli la differenziava dall’utile85 – utile che (ad esempio attra-verso la «progettazione comunitaria degli utilizzabili»86) era visto come l’inaugurale distacco da quella. Occorre dunque cogliere il movimento valorizzante fra «la vitalità, che è sempre materia, e la presenza come volontà di forma»87; movimento che mostra come, nell’uomo, il vitale sia sempre in atto d’esser trasceso, ove il rischio, entro questo quadro, riguarda l’impossibilità di trascenderlo, cioè di far passare la naturalità del vivere nel valore della cultura:

Questo rischio concerne in primo luogo i momenti del divenire [qua-li, ad esempio, la perdita di una persona cara, una terribile malattia, ecc.] che nel modo più scoperto fanno scorgere la corsa verso la mor-te che appartiene al vitale nella sua immediatezza: nell’estrema e non eludibile tensione di questi momenti, allorché è in causa l’esserci o il non esserci come presenza, può consumarsi la crisi di oggettivazio-ne, lo scacco del trascendimento: ed invece di far passare ciò che passa (cioè di farlo passare nel valore) noi rischiamo di passare con ciò che passa, senza margine di autonomia formale88.

Qui il rischio non si configura più come un tratto caratteristico di quell’età magica che non ha ancora conquistato una presenza solida, ma diventa un ineliminabile carattere dell’umano. Occorre a questo

85 Ad esempio, per l’etnologo napoletano il bisogno di cibarsi era distinto dalla produzione di strumenti tecnici atti a procurarselo: il primo rientrava nel vitale, la seconda nella categoria dell’utile. 86 Cfr. E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., br. 8, p. 9 e br. 241, p. 437. 87 E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, cit., p. 20. 88 Ivi, pp. 20-21.

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punto richiamare un passo di Enzo Paci che sinora abbiamo taciuto. Nel suo scritto dedicato al saggio demartiniano del ‘48, egli suggeri-va di fare chiarezza: o il mondo magico è separato dal nostro mondo «e non si capisce perché ne parliamo», oppure esso è, come le altre forme dello spirito, eterno. E così scriveva: «Se il De Martino, in ba-se alla sua esperienza del mondo magico, vuol far rientrare il mondo magico nelle categorie metodologiche della storia, comunque le con-cepisca, deve riconoscere che la forma magica non è mai superata ma è eterna, e, come tale, presente in ogni momento della storia come sono presenti, per esempio, l’arte, la filosofia, la morale», e dunque invitava il napoletano a intendere il mondo magico come «un mondo non superato e morto ma sempre possibile»89. Questa critica eviden-ziava l’errore di considerare l’epoca magica come un’epoca chiusa e isolata in se stessa. Ebbene, seppure già ne Il mondo magico (almeno velatamente) si alludeva alla possibilità di ricadere «sul piano arcaico dell’esperienza magica», nella misura in cui «abdichiamo al carattere della nostra civiltà»90; e seppure ancor prima, in Naturalismo e stori-cismo (qui meno velatamente), in riferimento all’Europa del suo tempo il «mondo primitivo» era indicato come risorgente91; De Mar-tino fece proprio questo a partire da Morte e pianto rituale: considerò il «rischio della presenza» non come un dramma esclusivo di un’età passata che ci siamo lasciati dietro le spalle, ma come un «rischio an-tropologico permanente»92. Pertanto, che il «supremo rischio» fosse «permanente» e non esclusivo di un’età magica che si contraddistin-gue per la sua labilità e altresì per una particolare coscienza del ri-schio (dato il suo «interesse dominante» ad esserci), occorreva ora esplicitarlo93. Durante il periodo dedicato alla stesura de La fine del mondo, l’ethos trovò la sua ultima determinazione come «ethos tra-scendentale del trascendimento della vita nel valore»94. Tale ethos 89 E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, cit., p. 89. 90 E. DE MARTINO, Il mondo magico, cit., p. 167. 91 E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, cit., p. 54. 92 E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., br. 9, pp. 14-15. 93 Cfr. E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, cit., pp. 85-87 e 90-92. 94 «L’ethos del trascendimento è una forza operante molto più nel profondo [rispetto la consapevolezza morale], una forza che condiziona il dispiegarsi

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assumeva nuovamente l’aspetto di una forza non trascendibile che sta alla base di ogni trascendimento della vitalità nelle forme (eco-nomica, morale, artistica o filosofica). Così adombrato, l’«ethos tra-scendentale» non è l’«Io penso» kantiano, che organizza e unifica (senza poterla creare) la molteplicità delle rappresentazioni; ma piut-tosto è da intendersi, se ci viene passato il termine, come un «Io tra-scendo» che crea un mondo culturale plasmando l’informe materia del vitale e che dà sempre nuova forma all’essere95. De Martino giunse in questo modo ad affermare che «l’ethos del trascendimento è il dover essere dell’essere, cioè l’essere in quanto valorizzazione. Come dover essere del valore l’essere si realizza sempre nella effet-tiva valorizzazione e d’altra parte nessuna opera storica può mai de-finitivamente esaurirlo: la Divina Commedia realizza senza esaurirla la poetabilità dell’essere»96. L’intendere l’ethos trascendentale come forza sorgiva capace di realizzare continuamente il valore dell’essere, senza per questo poterlo esaurire, era possibile in quanto, per il napo-letano, tale non era l’essere di Parmenide, l’Uno immobile ed eterno, bensì era dover-essere. È un tema, questo (per cui la realtà viene in-tesa concretamente come divenire), squisitamente idealistico. Ma più che a Croce, De Martino guardava ora all’esistenzialismo positivo di Abbagnano e Paci. A tal proposito, egli fu conquistato da alcune ri-flessioni di Paci su Kant:

di tutti i valori categoriali, a cominciare da quello economico sociale. L’ethos del trascendimento è unicamente l’impulso ad oltrepassare la vitali-tà naturale nei valori categoriali, e la totalità di questi trascendimenti valo-rizzanti condiziona la esistenza, in quanto vita individuale che l’ethos fa passare nella universalizzazione economico-sociale, e nelle altre» (E. DE

MARTINO, Scritti filosofici, cit., p. 65). 95 De Martino annota un passo in cui Paci afferma che «l’esistenza è lo sfor-zo dell’essere verso se stesso», cioè «è l’essere che si trascende e pone il fondamento trascendentale di sé» (E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, cit., p. 37), e poco oltre precisa che «il termine trascendentale ricorda Kant ma si pone come concreto fondamento dell’esistere, mentre in Kant il tra-scendentale potrebbe sembrare una pura legalità e pura forma del pensiero, sì che l’esistenza sfugge e si apre il dualismo» (ivi, p. 38). 96 E. DE MARTINO, Scritti filosofici, cit., p. 18.

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Che cosa è ciò che è umano? La filosofia di Kant rappresenta la ri-sposta più chiara e più alta che l’umanità ha saputo dare a questa domanda, rappresenta cioè l’esame più completo che l’umanità deve porre a se stessa, l’indicazione del suo fine e del suo destino. Qual è questo fine? Non è quello di conoscere l’essere perfetto e assoluto ma di vivere in modo da fare, da costruire, con la nostra azione, un essere che sia il più possibile perfetto e assoluto. Può darsi che noi non ci riusciamo: ma questo e non altro è il compito dell’umanità. L’essere assoluto non si conosce, si fa97.

E più oltre continuava: Che cos’è l’uomo? È l’essere che va al di là, l’essere che si trascen-de, l’essere che non conosce Dio ma costruisce Dio nei secoli e sente la costruzione di quest’immensa cattedrale come compito della sua vita, come scopo finale della natura, della storia, dell’universo98.

L’uomo come «essere che si trascende» il cui telos coincide con la costruzione di un fine universale che oltrepassa la sua vita empirica, ma che lo accoglie in un abbraccio comunitario. Questo approccio “positivo” permise a De Martino di affermare, contro le posizioni “negative” della Existenzphilosophie di Heidegger e Jaspers, che l’essere non è trascendente, non giace in un fondo abissale, ascoso, indifferente al travaglio e all’umana speranza; che esso non è incono-scibile o irraggiungibile, bensì è realizzabile, e perciò è conoscibile e raggiungibile attraverso tale opera di realizzazione99. In questo modo, il napoletano tentò di superare l’antiumanistica “indifferenza per l’ontico” che segue all’heideggeriana «differenza ontologica» (a quel pensiero che, nel tentativo di rimediare alla trascuranza dell’essere,

97 E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, cit., p. 58. 98 Ivi, p. 59. 99 «L’ethos del trascendimento della vita nel valore comporta la risoluzione dell’essere nel dover-essere-per-il-valore. Con ciò viene dissolta la trascen-denza dell’essere con la corrispondente alternativa dell’irraggiungibilità di questo trascendente, e viene giustificata la continua accessibilità e inesauri-bilità dell’essere in quanto essere qualificato secondo valore» (E. DE MAR-

TINO, Scritti filosofici, cit., p. 12).

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togliendo all’azione una finalità e un dovere, finisce col trascurare l’ente100) e cercò di stabilire, pur tenuta ferma quella differenza, una (se così si può dire) “differenza ontica”, riconoscendo la positività (la non-indifferenza) delle opere umane alle quali l’essere è legato e per le quali l’essere viene a determinarsi. Una differenza ontica rispetto cui l’uomo è sempre chiamato a decidere la forma dell’essere, la mi-gliore forma, la quale non s’imprime secondo un inviolabile e tra-scendente destino (che disegna la storia), bensì secondo il pensiero e l’azione umana (che sono artefici di storia). Fatta propria tale pro-spettiva, che univa, nelle sue indagini sui “mondi culturali” e sul te-ma del “valore”, storicismo ed esistenzialismo positivo, Ernesto De Martino intendeva contrastare le tentazioni del relativismo (per cui ogni forma vale l’altra) e dell’irrazionalismo (per cui ogni forma tra-disce l’essere nel tradurlo) – cioè quelle “forme” di fiacchezza spiri-tuale che indeboliscono l’uomo e lo inducono a rinunciare al proprio ruolo storico. Ma ad essere affermata, accanto alla non-indifferenza delle opere, era altresì una differenza ontologica che sanciva l’impossibilità di esaurire l’essere nelle sue particolari determinazio-ni storiche e di porre un termine al dovere dell’uomo. Insomma, non essere, bensì dover-essere; non Esserci, bensì dover-Esserci101: un essere che, coincidendo con l’ethos del trascendimento102, si realizza

100 Nella Lettera sull’«umanismo», affidando ai poeti e ai pensatori l’autentica cura dell’essere, per cui «i pensatori e i poeti sono custodi» della «casa dell’essere» (M. HEIDEGGER, Brief über den Humanismus (1946), trad. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, cit., p. 267), Heidegger svaluta il ruolo pratico del politico e dell’uomo etico. Secondo il tedesco, infatti, occorre «pensare con attenzione la dimensione della verità dell’essere», ma «solo per la dignità dell’essere e a beneficio dell’esserci che l’uomo sopporta e-sistendo, e non a causa dell’uomo affinché con la sua attività si affermino la civiltà e la cultura» (ivi, p. 282). 101 «Se l’essere è dover essere, esso non può non essere quel doverci essere cui sono chiamate le singole esistenze storiche, e che costituisce le esistenze come tali, facendole emergere dalla vita e costituendole sempre di nuovo nel loro esserci» (E. DE MARTINO, Scritti filosofici, cit., p. 18). 102 «L’essere è il dover essere della valorizzazione, è l’ethos trascendentale del trascendimento della vita nella distinzione valorizzante» (ivi, p. 67).

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continuamente e in modo inesauribile in forme culturali e che, per-tanto, incessantemente chiama l’uomo al dovere della valorizzazione; un Esserci che, nel rispondere a questo dovere, si precisa come «mo-vimento di valorizzazione» (o «apertura verso l’opera che vale»103) e «centro operativo» per l’edificazione, la conservazione e l’inno-vazione di un mondo culturale104.

4. La fine del mondo: tra storicismo crociano e umanesimo etnologico

Gli studi e gli interessi di De Martino, dopo essere passati dal mondo magico al mondo subalterno delle genti del mezzogiorno, ap-prodarono infine al mondo culturale tout court; per cui, ad essere mi-nacciata non era più la persona individuata nella sua fragilità esisten-ziale, riflesso, questa, di una fragilità comunitaria; bensì lo era ogni cultura, ogni epoca, ogni storia. Nell’orizzonte demartiniano il «ri-schio» di non esserci «in alcun mondo culturale» diventava un carat-tere permanente della conditio humana – ed entro tale orizzonte l’ethos del trascendimento rispondeva non tanto all’heideggeriano in-der-Welt-sein, bensì a un doveroso in-der-Welt-sein-sollen. Un sein-sollen che si realizza in quella rete semantica che è il mondo cultura-le entro cui ogni uomo trova il suo habitus: mondo fidato e condiviso intersoggettivamente; mondo domestico e appaesato ove i singoli, lungi dal disperdersi in un neutro «essere-assieme»105, in una imper-sonale collettività (nell’anonimo Man), hanno la possibilità di esser-ci e di trovarsi. Un mondo ove la tradizione non è l’iniquo fardello dei padri che tutti i figli debbono trascinare, un peso del quale non si comprende né l’origine né il fine e che schiaccia l’uomo al duro suo- 103 Ivi, p. 13. 104 «La persona è il centro operativo, il cui ethos sta nel realizzare valori di-stinti» (E. DE MARTINO, Scritti filosofici, cit., p. 18), sicché «l’essere si arti-cola in individui finiti, emergenti come esistenze storiche per entro il dover-ci essere del trascendimento valorizzante» (ivi, p. 169). 105 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit (1927), trad. it. di F.Volpi, Essere e tempo, cit., § 27, p. 163.

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lo; ma è il suolo stesso che ogni uomo percorre, custode della sua origine e del suo fine, il solido suolo su cui sapientemente poggiano le case e s’aprono le piazze, il fertile suolo che traduce la voce in pa-rola, il gesto in lavoro, la natura in cultura. Nell’intima unione di “mondo quale è” e “mondo quale deve essere”, il crollo dell’ethos non solo toglie forza alla spinta valorizzante; ma determina altresì lo sgretolamento di quella «fidatezza mondana» che è sia fiducia nel passato (fiducia che si precisa nel fare affidamento alla tradizione, nel riconoscere la sua bontà ed efficacia), e sia fiducia nel futuro (l’aver presente il compito che deve essere svolto). Il crollo del-l’ethos impedisce il “con-muoversi”, cioè quel comune marciare che si svolge con «fedeltà» (al fidato ordine dei significati) e «iniziativa» (a innovare tale ordine). Il crollo di questo «élan moral» apre uno squarcio tra terra e cielo, lasciando emergere da esso un vissuto da «fine del mondo». Una crisi culturale (che allude a una drammatica «fine della civiltà») di cui pure Croce, il Croce degli ultimi anni, quando il peggiore degli eventi generato dalla peggiore barbarie con-sumò la sua fiamma, si interessò e sul quale con grande profondità scrisse: «ora gli animi sono pervasi dalla tristezza, le menti dalla pre-visione del peggio, e l’impeto fidente, che il buon lavoro richiede, manca, e a stento lo sostituisce il penoso senso del dovere, a cui non è dato sottrarsi»106. Un inquietante sentimento che De Martino tentò di decifrare; non per rispondere a un’estetica attrazione per la déca-dence, bensì per mostrarne la fiacchezza, e per indicare la necessità di immettersi nuovamente entro il corso della storia e di contribuire a un nuovo umanesimo.

Il mondo in quanto sfondo familiare, domestico, appaesato, ovvio, normale, abitudinario sta come indice di possibili percorsi operativi in cui vivono la operosità umana di millenni, le plasmazione utilizza-trici maturatesi in evi di tradizioni, e infine la biografia del singolo sino alla situazione presente: per questa multanime e corale risonan-za di sforzi comunitari tradizionalizzati e trasmessi il mondo acquista inauguralmente un fondamentale senso di operabilità, e il familiare, il domestico, ecc., non vogliono altro dire che questo: avanti, non sei

106 B. CROCE, La fine della civiltà, in Filosofia e storiografia, cit., p. 284.

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solo, non sei il primo, non sei l’unico, ma stai in una immensa schie-ra che marcia, e che solo per una parte infinitamente piccola è com-posta attualmente di viventi107.

In questa prospettiva, il mondo culturale edificato, sostenuto e rinno-vato dall’ethos del trascendimento si precisa come quel valore che risponde al dover-essere. Qui il mondo non si configura solo come un telos, il fine per cui ogni uomo è chiamato ad operare, ma anche, secondo un movimento circolare (o a spirale), come base sulla quale potersi appoggiare per compiere lo slancio valorizzante – una base il cui crollo porta altresì al crollo di tale slancio108. Insomma, per rea-lizzare il dover-essere, all’uomo è necessario un mondo, una fidata «patria dell’agire». E tuttavia, questa patria si conserva solo finché lo stesso ethos del trascendimento che la forma e la riforma non viene a «mutare di segno»: là ove l’anastrofe della valorizzazione non è pos-sibile, ché non vi è risposta al dover-essere, si precipita nella cata-strofe. In questo caso, l’intera temporalità dell’uomo viene a scon-volgersi: egli patisce l’esserci presente, non potendo progettare un futuro, avendo perduto il rapporto di fiducia col proprio passato. E non a caso, guardando alle espressioni nichiliste ed antiborghesi della letteratura a lui contemporanea – espressioni decadenti che Croce, nella sua Storia d’Europa, qualificò come segni di un «male del se-colo»: il «romanticismo morale»109 – De Martino colse i sintomi del-la malattia del nostro tempo. Una malattia per la morte che, contratta dal comune sentire, ha trovato compiuta (e a volte voluttuosa) forma nelle pagine di celebri scrittori: Rimbaud, Kafka, Camus, Sartre; e ancora: Mann e Beckett, Lawrence e Moravia110. Secondo De Marti-no erano «scrittori dell’apocalisse», questi, la cui arte era meritevole

107 E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., br. 261, p. 471. 108 Giustamente Clara Gallini e Marcello Massenzio osservano che «la di-struzione della domesticità, della patria culturale in quanto tale, priva tale ethos della base che lo sorregge, determinandone il crollo, che s’identifica con la fine di tutto» (C. GALLINI e M. MASSENZIO, Introduzione, ivi, p. XIII). 109 B. CROCE, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, 1991, p. 61. 110 E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., pp. 504 e sgg.

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di grande attenzione, in quanto testimone della crisi e dell’avvertito tramonto della civiltà che teneva loro in grembo. Ma non solo tali esiti artistici mossero il suo interesse: lo studioso napoletano scanda-gliò in profondità anche il tema apocalittico ed escatologico delle re-ligioni, nonché della rivoluzione marxiana, e soprattutto, con partico-lare attenzione, analizzò i casi psicopatologici di Weltuntergangser-lebnis, di «delirio da fine del mondo». E si potrebbe andare al fondo della questione e vedere come, per De Martino, una via di uscita da questa mortifera impasse era possibile soltanto attraverso un nuovo umanesimo, un «umanesimo etnografico» capace di guardare all’ethnos non occidentalizzato e dare più ampio respiro e consape-volezza al nostro pensiero e alle nostre azioni (così come l’umanesimo rinascimentale riuscì a trovare nuova linfa per l’Europa dei secoli XIV e XV riportando alla luce dal lungo oblio dell’età di mezzo le humanae litterae). Dirigere lo sguardo verso l’ethnos e le sue scelte culturali, dunque, al fine di mettere in discussione le nostre contraddizioni e comprendere che queste non sono un dato struttura-le, naturale e irrisolvibile, bensì sono determinate da decisioni umane – decisioni, dunque, e in quanto tali emendabili111. E pertanto, saper «mettere in causa»112 il nostro patrimonio culturale, non per liquidar-lo attraverso un infecondo relativismo culturale, ma «per meglio pos-sederlo e accrescerlo, per distinguere chiaramente l’attivo dal passi-vo»113, per affermare la «scelta della ragione» e la nostra storia. Ma al momento non ci sarà possibile approfondire la trattazione di que-sto tema,114 e di altri temi che si perdono nella vastità e nell’etero-

111 «Crisi vuol dire scelta, e un’epoca di crisi per una civiltà significa che si pongono per essa alternative estreme, col rischio che il suo telos si esaurisca per esaurimento del suo stesso ethos, della “volontà di storia”» (E. DE

MARTINO, Promesse e minacce dell’etnologia, in Furore Simbolo Valore [1962], a cura di M. Massenzio, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 106). 112 L’espressione «mettere in causa» De Martino la riprende (e la mette a sua volta in causa) da C. LÉVI-STRAUSS, Tristes tropiques (1955), trad. it. di B. Garufi, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 1960, p. 377. 113 E. DE MARTINO, Promesse e minacce dell’etnologia, cit., p. 93. 114 Per la questione demartiniana dell’«umanesimo etnografico» rinvio al saggio di P. CHERCHI, Il peso dell’ombra. L’etnocentrismo critico di Erne-

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geneità di quest’opera rimasta incompiuta. Il De Martino dell’ultimo periodo, pur avendo ormai accolto entro il proprio orizzonte filosofi-co autori di diversissimo orientamento (tra cui Husserl, Heidegger, Sartre e Paci), continuò a restare fedele allo storicismo idealista, convinto, con Croce, che «la realtà è storia e niente altro che sto-ria»115. Le indagini che, concretizzandosi in frammentari appunti e ipotesi di lavoro, incrementavano via via il voluminoso materiale preparatorio de La fine del mondo, furono segnate da una densa ana-lisi del nostro tempo storico (passato e presente) e lo condussero all’idea che l’Occidente contemporaneo si fosse infine liberato dalle «maschere metastoriche» del mito, della religione e delle ideologie. Maschere, queste, che nascondono il carattere storico dell’esistenza e che consentono all’uomo di «stare nella storia “come se” non ci stes-se», cioè di rifugiarsi all’interno di un edificio culturale protettivo che si erge, entro e sopra l’angosciosa mobilità esistenziale, come luogo di immobilità e di resistenza.

La destorificazione è l’occultamento protettivo della storicità dell’esistere, del nesso fra situazione e trascendimento secondo for-me di coerenza culturale. La destorificazione mette a capo pertanto ad un orizzonte simbolico mitico-rituale, all’essere metastorico tra-scendente e in sé già “compiuto”, e che, per essere già compiuto, non può essere modificato, ma soltanto “ripetuto” (attraverso la iterazio-ne rituale). La parola “destorificazione” equivale in questo senso a “mistificazione” e “alienazione”: ma accentua ciò che propriamente viene mistificato e non riconosciuto come proprio, cioè la storicità. L’uomo – è questa la sua condizione – “fa la storia”, la costruisce, scegliendo e valorizzando: non può non storificarsi per questo suo concreto scegliere e valorizzare. Ma quando il riconoscimento inte-grale di tale condizione minaccia di compromettere lo stesso ethos del trascendimento, l’uomo, per proteggersi dalla crisi esistenziale, destorifica il suo “far storia”, e istituisce il dispositivo mitico-rituale, per il quale sta nella storia “come se non ci stesse”, cioè riassorbendo

sto De Martino e il problema dell’autocoscienza culturale, Liguori editore, Napoli, 1996. 115 B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 59.

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la proliferazione storica del divenire, e dei momenti critici in cui la storicità sporge, nella iterazione di una metastorica realtà sempre identica a se stessa116.

Nella misura in cui è angosciato dall’esistenza e ne patisce lo svol-gimento, l’uomo trova sicuro rifugio all’interno d’un spazio metasto-rico, affidando così il proprio esserci a una storia già scritta – e qui riesce a nascondere a se stesso ch’egli è sempre in atto di scriverla. In questo modo l’uomo vive protetto e alienato da questa tremenda verità: che la storia emerge attraverso di lui, quasi ne fosse la soglia, e che nulla di trascendente, nessun Atlante, sta sotto il mondo a reg-gerne il peso; e che a sostenerlo, il mondo, e a dargli direzione vi so-no solo le decisioni umane e queste soltanto. Ogni cultura è nata e altresì ha potuto dare forma e valore all’esistenza grazie a questo oblio; ma l’Occidente, in seguito all’innestarsi della tradizione giu-daico-cristiana sul robusto ramo della sapienza greca e ai suoi suc-cessivi sviluppi (dall’umanesimo e dal rinascimento, passando per l’idealismo tedesco, sino allo storicismo crociano); l’Occidente ha compreso il proprio carattere storico. Così l’ethos del trascendimen-to, libero dalle coperture metastoriche del mito e del rito, delle reli-gioni e delle ideologie, è infine emerso alla luce pervenendo a se stesso. La maschera è stata tolta e oggi l’uomo avverte d’essere chiamato a guardare direttamente il volto della storia – il solo volto concreto della realtà:

Ma ora c’è da chiedersi: che cosa significa questo? Ove mai il desti-no dell’uomo fosse quello di star mascherato nell’esistenza o di peri-re, significa questo umanesimo semplicemente la sconfitta dell’uomo o almeno dell’uomo occidentale? E ancora: dato che non possiamo neppure cambiar maschera in quanto ora non potremmo farlo che per giuoco carnevalesco e qui non si tratta di far carnevale, ma di esistere come uomini in società – questo non poter cambiar maschera non equivale forse ad una sentenza di morte? Il sillogismo sarebbe tre-mendo: l’uomo può vivere nella storia solo mascherandola, la vita culturale è questa maschera, ma d’altra parte l’uomo che sappia que-sto non può assumere più nessuna maschera, e quindi – tale è questo

116 E. DE MARTINO, Storia e metastoria, cit., p. 122.

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«sillogismo» – l’uomo (e sia pure l’uomo che ha espresso la civiltà occidentale) è destinato a perire nella misura in cui demistifica la sto-ria117.

E ancora:

L’uomo vive nella storia mascherandola, una storia smascherata, ri-dotta a se stessa, è la morte dell’uomo, l’uomo muore perché è ormai prigioniero della consapevolezza che la maschera – qualunque ma-schera – non è che tale, e perché d’altra parte il volto dell’esistenza è composto nel rigore della morte118.

Ebbene, quello dell’Occidente contemporaneo è il «tempo etico della responsabilità»119. Il tempo in cui il dover-essere lancia un appello che invita l’uomo a decidere in prima persona del proprio mondo, nei limiti della condizione presente, dimettendo dèi, demoni o santi dal luogo della scelta; un tempo consapevolmente umano e sempre in fieri che risponde qui ed ora al dovere cui l’essere direttamente lo chiama; il tempo eroico dell’edificazione del valore secondo decisio-ni che nascono non da necessità trascendenti, bensì da possibilità umane. E tuttavia, cosa fare per rispondere eticamente a questo com-pito, oggi, che la maschera della storia che rende vivibile la vita è ca-duta? Cosa fare, oggi, dinanzi alla minacciosa prospettiva d’una apo-calisse culturale e al rischio della fine del nostro mondo? Ben sapeva De Martino che ne va del nostro esserci e dello stesso Occidente riu-scire a rispondere a questa domanda – e ben sapeva che solo un nuo-vo umanismo storicistico, una etnologia capace di allearsi con quella philosophia perennis di cui Croce fu educatore, può darci la forza etica per imboccare la migliore via che l’Occidente, ancora oggi, di fronte al crocicchio della sua storia, è in procinto di scegliere:

L’alternativa è chiara: o si accetta o non si accetta la realtà della con-dizione umana, che è limite ed iniziativa che oltrepassa il limite, si-tuazione e valore che trascende la situazione, morte e opera che so-

117 E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., br. 196, pp. 353-354. 118 Ivi, br. 197, p. 354. 119 P. ANGELINI, Ernesto De Martino, Carocci editore, Roma, 2008, p. 138.

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pravvive alla morte. Se non si accetta questa condizione, perché l’accettarla comporterebbe l’annientamento dello stesso coraggio ci-vile creatore di civiltà e di storia, allora non resta che negare realtà a questa condizione, e occultarla e mascherarla nei grandi temi protet-tivi della vita religiosa, del mito e del rito, della teologia e della me-tafisica, della magia e della mistica. Non resta cioè che svalutare a mondo di segni e di simboli i ritmi dell’opera quotidiana, e svolgere all’ombra di un ordine già istituito in illo tempore il compito di isti-tuire, qui ed ora, un ordine nuovo. Il fare sarà allora mascherato nel ripetere e nell’imitare, lo star desto sarà ricompresso in un sognare, e nella storia si starà come se non ci si stesse, perché si è già fuori; ma intanto, per questa pia fraus, si opererà e si creerà, e si innalzerà l’edificio della civiltà. Se invece si accetta la condizione umana, e si riconosce senza scandalo che essa ha un limite che l’opera è chiama-ta senza sosta a valicare, e si scorge nell’al di là dell’opera dotata di valore l’unico modo di distaccare l’uomo dalla natura e di avviarlo dal transeunte al permanente; se si ha coraggio e forza di creare ope-re di poesia e di scienza, di economia e di vita morale senza bisogno del sistema tecnico-protettivo di una vera patria in cui tutto è già a suo posto, e nella quale saremo alfine integrati: allora si batte la via dell’umanismo storicistico, della civiltà moderna, della coscienza che i beni culturali hanno integralmente origine e destinazione uma-na, sono fatti dall’uomo per l’uomo, e chiamano al giudizio e all’opera secondo questo criterio fondamentale. L’alternativa è chia-ra: ma la prima delle due resterà in piedi sempre che la rete di limiti dentro la quale siamo chiamati ad operare è troppo fitta e tenace per-ché ci sia dato districarcene senza fare appello a un mondo metasto-rico già fatto, a una civiltà divina, che rassicuri il fanciullino di Ce-bete; e la seconda alternativa resta un compito da realizzare, e una dignità da proteggere contro l’insidia rinascente della prima opzione, che sospinge verso la magia e la religione. Se dovessimo definire la nostra epoca, e noi stessi in essa, dovremmo dire che noi siamo at-tualmente impegnati proprio nell’alternativa, e la stiamo decidendo con pena e tormento: alla mente abbiamo già davanti il quadro di un umanesimo integrale, ma in noi e intorno a noi c’è l’insidia dell’angoscia e il bisogno del porto sicuro120.

120 E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., br. 198, p. 356.

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INDICE PREFAZIONE (Girolamo Cotroneo) .................................................................................... 5

TEORIA

IL RITORNO E LA PRESENZA DI CROCE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO (Santo Coppolino)....................................................................................... 11 CRITICA E STORIA DEL TRASCENDENTALE COME CIFRA DEL-L’ETÀ MODERNA (Gabriele Zuppa)......................................................................................... 33 RIFLESSIONI SUL RAPPORTO TRA L’INTUIZIONE, L’ESPRESSIO-NE ED IL SENTIMENTO IN CROCE (Luca Viglialoro) ........................................................................................ 69 L’ESTETICA (Ernesto Paolozzi)....................................................................................... 81 SUL CONCETTO DI DEMOCRAZIA IN CROCE. DAL RIFIUTO DEL DEMOCRATISMO ALLE RIGENERATE ESIGENZE STORICHE (Rossella Pisconti) .................................................................................... 105 IL PROBLEMA DEL MALE IN CROCE TRA LA LOGICA E LA FILOSOFIA DELLA PRATICA (Angelo Chielli) ........................................................................................ 131 IL LIBERALISMO CROCIANO TRA LIBERISMO E SOCIALISMI. ETICA E POLITICA (Ivan Pozzoni) .......................................................................................... 141

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ORIZZONTI

C’ERA UNA VOLTA … (E) BENEDETTO CROCE (Manuela Cottini - Alberto Carli) ............................................................. 173 CROCE, ORTEGA E L’ANTISTORICISMO DELL’UOMO-MASSA (Fabio Gembillo) ...................................................................................... 213 NORBERTO BOBBIO E BENEDETTO CROCE (Franco Manni) ......................................................................................... 229 CROCE E MORIN: CONSONANZA, FONTI E AVVERSARI COMUNI (Annamaria Anselmo) .............................................................................. 281 BENEDETTO CROCE E IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO (Deborah Donato) ..................................................................................... 305 DE MARTINO, CROCE E IL PROBLEMA DELLE CATEGORIE (Sergio Fabio Berardini) ........................................................................... 327 L’ INTERROGAZIONE JOBICA: CARACCIOLO INTERPRETE DI CROCE (Margherita Valeria Raciti) ....................................................................... 377 IL GIUDIZIO STORICO IN VAILATI E CROCE (Antonino Crimaldi) ................................................................................. 397 CARLO ANTONI INTERPRETE DI BENEDETTO CROCE (Danila Pirri) ............................................................................................. 427 GAETANO SALVEMINI E BENEDETTO CROCE LA STORIA E I DUE PARADIGMI ETEROGENEI (Antonino Di Giovanni) ............................................................................ 463