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11 Mario Consoli Debito pubblico e sovranità monetaria Dalla nascita della Banca d’Inghilterra al moderno debito pubblico – La diffusione delle Banche centrali private – L’emissione di biglietti di Stato in USA e in Italia – Le metamorfosi del denaro – La stretta connessione tra debito pubblico e perdita di sovranità monetaria – Dallo status quo alla rivolta; dalla rivolta alla rivoluzione.

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Mario Consoli

Debito pubblico e sovranità monetaria

Dalla nascita della Banca d’Inghilterra al moderno debito pubblico – La diffusione delle Banche centrali private –

L’emissione di biglietti di Stato in USA e in Italia – Le metamorfosidel denaro – La stretta connessione tra debito pubblico e perdita

di sovranità monetaria – Dallo status quo alla rivolta; dalla rivolta alla rivoluzione.

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Seguendo le notizie della crisi finanziaria globale su giornali e telegiornali,sembrerebbe emergere il volto del responsabile di ogni male, del nemico prin-cipale da sconfiggere: il debito pubblico.

Si dice che sia il risultato di una spesa statale scriteriata e clientelare, ed inparte è sicuramente vero. Si dice che sia stato creato da una politica spendac-ciona e ladra oltre ogni ritegno, e anche questo è vero.

Si dice poi che sia proprio lui, il debito pubblico, il responsabile della insta-bilità della moneta, della crisi economica e del rallentamento dello sviluppoproduttivo. Ma su ciò qualche dubbio sorge.

Più si analizza la situazione infatti, cercando di liberarsi da pregiudizi, para-occhi e dalle suggestioni create dai mass media, più la questione del debitopubblico non appare così semplice e sorgono spontanee domande alle quali èlegittimo cercare risposte.

Come nasce il debito pubblico? Quali sono e come funzionano i meccanismiche lo fanno diventare un fenomeno cronico? Chi è oggi il proprietario deldebito pubblico delle nazioni in crisi? Che rapporto intercorre tra debito pub-blico e libertà dei popoli?

Sarà bene cominciare dall’inizio.

Louis Even, il propugnatore del Credito Sociale, scrisse sull’argomento unracconto illuminante: cinque naufraghi riuscirono a raggiungere un’isoladeserta. Si trattava di un muratore, un contadino, un allevatore, un esperto inagraria e un ingegnere minerario.

Secondo le rispettive competenze, i cinque si dettero da fare per realizzareuna comunità funzionale e soddisfacente. Il muratore si mise a costruirecapanne; l’allevatore cominciò a catturare e porre in recinti gli animali utili perottenere latte, uova e carne; l’agronomo e il contadino si dedicarono ai frutti

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della terra; l’ingegnere procurò i metalli per forgiare utensili, pentolame, chiodie quant’altro era necessario.

La vita procedeva serena; un solo inconveniente creava qualche problema diconvivenza: lo scambio dei beni, frutto delle rispettive attività, non potevaavvenire in uno stesso momento e la mancanza di appropriati strumenti econo-mici imponeva una serie di riunioni con discussioni piuttosto complesse.

Successivamente arrivò sull’isola il sopravvissuto di un altro naufragio.Sbarcò da una scialuppa malridotta con la quale aveva portato poche cose fret-tolosamente salvate, tra cui una pressa, una cassa piena di carta e un barilesigillato. Il nuovo arrivato fu ben accolto dai cinque, contenti di veder la pro-pria comunità crescere, e la loro gioia aumentò quando seppero che si trattavadi un banchiere. Proprio quello che mancava: una persona capace di organiz-zare l’economia dell’isola.

Il banchiere, preso atto delle attività dei cinque, disse: «Per far funzionarebene le cose vi manca solo il denaro. È con il denaro che il contadino può com-prare oggi ciò di cui ha bisogno senza dover aspettare la stagione del raccolto,e così gli altri il momento in cui avranno finito di costruire una capanna o difabbricare un utensile. Io posso facilmente risolvere i vostri problemi. Con lacarta e la pressa posso stampare 1000 dollari. Il barile che ho con me è pienod’oro; lo sotterrerò in un posto segreto e lo lascerò in garanzia della coperturadel denaro coniato. Vi presterò duecento dollari a testa a un interesse bassis-simo: il 2% annuo. Io sarò garantito dai frutti delle vostre attività, dalle vostrecapanne e dai vostri attrezzi».

Tutti si sentirono soddisfatti perché, risolta la questione della liquidità com-merciale, ognuno poté tornare alle proprie attività senza avere più problemi.Ma la serenità durò fino a quando, passato un certo tempo, cominciarono a faredei conti e scoprirono una situazione assai spiacevole. L’ammontare del lorodebito – capitale più gli interessi maturati – era superiore all’intero importo delcircolante. Arrivò quindi il momento in cui fu indispensabile, per pagare gliinteressi, mantenendo inalterata la liquidità necessaria all’economia dell’isola,chiedere altri prestiti, che il banchiere fu ben contento di concedere.

In quell’isola era così nato il debito pubblico. Un debito destinato adaumentare anno dopo anno.

Inevitabilmente il banchiere, a forza di conteggiare interessi, e gli interessisugli interessi, stava diventando il padrone di tutti i beni presenti sull’isola emanifestava il proprio potere imponendo ai cinque quello che a parer suo dove-vano o non dovevano fare. I cinque allora compresero quale errore fosse statoaccettare quei 1000 dollari e che, se il denaro se lo fossero stampato loro, senzal’intromissione di quel banchiere venuto dal mare, non avrebbero avuto i pro-blemi che ora li affliggevano.

Il denaro rappresentava il valore dei beni presenti sull’isola e quindi,essendo loro i proprietari dei beni, avrebbero dovuto essere anche i proprietaridel denaro sul quale nessuno avrebbe potuto pretendere il pagamento di inte-

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ressi. I cinque allora, compresa la truffa, si ribellarono, rimisero il banchieresulla barca con la quale era arrivato, e lo ricacciarono violentemente in mare.

A completare la vicenda, Even racconta che, quando i cinque andarono adissotterrare il barile che doveva rappresentare la copertura aurea della monetastampata, scoprirono che era pieno di sassi.

Nella realtà storica le cose sono andate pressappoco nello stesso modo, aparte la risolutiva conclusione della vicenda, la ricacciata in mare del banchieree della sua barca.

Nel 1694, in Inghilterra, succeduto in modo turbolento a Giacomo II Stuart,regnava Guglielmo III d’Orange, che aveva vissuto in Olanda in un ambiente dimercanti e banchieri ed era stato educato secondo i valori calvinisti. Guglielmoera impegnato in un grande sforzo bellico contro la Francia di Luigi XIV, il ReSole. La flotta era stata raddoppiata e l’esercito rifatto ex novo. Le spese mili-tari superavano il 74% dell’intera spesa pubblica e la necessità di reperire nuovifondi aumentava a vista d’occhio.

L’imposizione fiscale era altissima e Guglielmo temeva, esigendo nuovetasse, di perdere il consenso della nobiltà e della borghesia. In quegli anni l’e-conomista francese Jean-Baptiste Colbert scriveva: «La tassazione è l’arte dispennare l’oca in modo tale da avere il massimo di piume con il minimo possi-bile di starnazzi».

Si fece quindi allettare dalle proposte di un banchiere scozzese, WilliamPaterson – capofila di una cordata di banchieri e appoggiato dal tesoriere delloScacchiere, Lord Montague – che gli offrì un prestito a interesse di un milionee 200 mila sterline. Ciò significava spostare il problema. Disporre del denarosubito e rimandare a tempi successivi le conseguenze negative per i cittadinicontribuenti.

Le condizioni poste furono queste: oltre ad incassare gli interessi dell’8%,Paterson doveva essere autorizzato ad emettere banconote per un importo parial prestito concesso al governo. Scrisse il banchiere: «Se i proprietari dellabanca potranno far circolare la somma di un milione e duecentomila sterlinesenza avere in giacenza più di duecentomila o trecentomila sterline, questabanca immetterà nella Nazione nuova moneta per un importo di novecentomilao un milione di sterline». Poi si seppe che, nella realtà, la quantità di sterlineemesse e la copertura offerta dalla nascente banca in questa operazione eranostate differenti: nel 1696, a fronte di 1.750.000 sterline stampate, esisteva unariserva di cassa di sole 36.000 sterline d’oro.

Il parlamento, sotto la pressione del re, autorizzò l’operazione e Patersonfondò, assieme ai suoi soci, la Banca d’Inghilterra che, nonostante il nome chefarebbe pensare ad una istituzione dello Stato, era una ditta assolutamente pri-vata, allora con soli 19 dipendenti.

William Paterson sintetizzò il senso dell’operazione con una frase estrema-mente chiara: «La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta lamoneta che crea dal nulla».

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Quell’emissione di sterline fu solo la prima di una lunghissima serie. Laconvertibilità in oro di quella cartamoneta fu da subito un fatto formale, poichéil reale rapporto tra quantità di denaro stampata e disponibilità aurea presentenei depositi della banca era tenuto assolutamente segreto, sia all’esterno cheall’interno dell’istituto; era informazione riservata esclusivamente al Governa-tore.

È poi il caso di ricordare che la convertibilità in oro della sterlina fu sospesanel 1914, molto prima del dollaro (15 agosto 1971) e di tutte le altre valute.

Fino al 1694, sia in Inghilterra che altrove, l’unica moneta ufficialmente cir-colante era stata quella coniata dallo Stato. Da allora, invece, la moda di dele-gare l’emissione del denaro a banche private si è diffusa ovunque. E gli Statipagano a questi soggetti gli interessi per il denaro stampato.

Sul modello della banca di Paterson furono istituite: nel 1695 la Bank ofScotland, nel 1765 la Königliche Giro und Lehnbanco di Berlino, nel 1782 ilBanco di San Carlo di Madrid, nel 1800 la Banca di Francia.

Un tempo il potere di coniare moneta era riservato alla massima autorità: re,duca o principe. Chi possedeva oro o argento poteva portarlo alla zecca delloStato che provvedeva a trasformare il metallo prezioso in monete. Una piccolaparte di questo metallo veniva trattenuta come compenso per l’operazione diconio. Questo compenso si chiamava signoraggio ed era un privilegio gelosa-mente custodito e difeso dall’autorità, perché rappresentava anche un’impor-tante fonte di entrate. Oltre al compenso per il conio, che alla bisogna potevaessere anche gonfiato, erano evidenti i numerosi vantaggi derivanti dal con-trollo delle zecche. Non fu raro che la padronanza dell’emissione della monetagarantisse allo Stato consistenti entrate finanziarie, apparentemente senzapesare sui contribuenti. Il termine signoraggio si è conservato, ed ancor oggiindica tutti i benefici che sono riservati a chi emette moneta, che però non è piùil signore – lo Stato – ma le banche private il cui mestiere non è perseguire gliinteressi della Nazione, bensì i propri utili e farsi complici dei giochi degli spe-culatori.

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Fondazione della Bancad’Inghilterra

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Dunque, non si comprende in virtù di quale criterio di legittimazione, i pro-prietari del denaro smettono di essere il re, o lo Stato, o il popolo, e lo diven-tano i banchieri.

Nasce così il moderno debito pubblico, il debito pubblico permanente.Dalla data della fondazione della banca di Paterson al 1788 – meno di un

secolo – il debito pubblico dell’Inghilterra passa da 13 milioni di sterline a 245milioni, con un incremento del 1800%.

Non è che una volta il debito pubblico non esistesse: i monarchi nella storia,soprattutto per finanziare guerre, hanno sempre fatto ricorso a ingenti prestiti.Ma generalmente erano vicende che avevano un inizio e una fine.

A guerra vinta il denaro veniva restituito e gli interessi pagati – anchequando raggiungevano le quote usurarie del 30-40% – o, a guerra persa, venivadestituito il re o il governo e il prestito spesso andava a farsi benedire. General-mente la questione veniva trattata come un affare andato male o un investi-mento sbagliato. Sono rimasti famosi i casi dei Bardi e dei Peruzzi, finiti inrovina per l’insolvenza di re Edoardo III d’Inghilterra, e della filiale di Brugesdei Medici, messa in liquidazione dopo il pessimo esito del finanziamento con-cesso al duca di Borgogna Carlo il Temerario. I creditori di Filippo IV di Fran-cia – il Bello – oltre a non riscuotere il dovuto, furono cacciati dal regno.

Più che di debito pubblico in effetti si trattava di vicende legate a caseregnanti e a singoli eventi storici.

Dopo il 1694, un po’ come abbiamo visto nel racconto dei naufraghi, quelladel debito pubblico diviene invece una malattia cronica.

In queste settimane si fa un gran parlare di disavanzo e avanzo primario. Sitratta della differenza tra le entrate e le spese pubbliche al netto degli interessi.Appare evidente che ogni situazione, anche la più complessa e apparentementecompromessa, con una politica oculata e una sufficiente dose di buona volontà,potrebbe essere sistemata. Sono gli interessi che fanno la differenza e condan-nano alla cronicità e al peggioramento i debiti pubblici.

Sotto gli occhi abbiamo il caso della Grecia. Indubbimente una congiunturamolto pesante; per questo motivo le agenzie di rating declassano la solvibilitàdi quel debito e gli «aiuti» vengono offerti a interessi sempre più alti. Può, aquesto punto, una nazione, ragionevolmente, riuscire a sanare la propria situa-zione economica e contemporaneamente pagare interessi usurari in continuacrescita (nel caso specifico per ora hanno superato il 19%), per giunta maggio-rati in funzione dell’anatocismo (gli interessi sugli interessi)? Si tratta di unasemplice follia di carattere economico o, più propriamente, di un disegno malcelato di dominio planetario attuato con cinismo sulla pelle dei popoli?

Può una nazione rimanere libera e sovrana vivendo una tale realtà se nonricorre alla rivolta e al rigetto della carità pelosa degli usurai?

* * *

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Marchi tedeschi stampati nel 1939 dalla Banca Centrale nazionalizzata, la Reichsbank.

Le banche di emissione, dunque, dopo il 1694 diventano quasi tutte private.Nel 1937, sotto Stalin, divenne privata persino quella dell’Unione Sovietica: ildeus ex machina dell’operazione fu il plurimiliardario petroliere ebreo-ameri-cano Armand Hammer.

Il Federal Reserve Act – l’atto istitutivo della Banca Centrale americana, lapiù grande banca privata del mondo – è del 23 dicembre 1913.

Si trattava di organizzare la gran massa di «promesse di pagamento» emessein ogni angolo degli Stati Uniti. Si respirava aria di guerra. In Europa stava perscoppiare il primo conflitto mondiale e per gli americani l’occasione si presen-tava ghiottissima. L’industria bellica poteva moltiplicare la produzione e con-cludere affari d’oro. Persino l’Inghilterra, per la prima volta nella storia, avevavarcato l’oceano per chiedere denari in prestito all’America.

Con l’istituzione della Riserva Federale si reperirono soldi direttamentepresso i contribuenti statunitensi. Scrive l’economista Gertrude M. Coogan:«L’America fu sottoposta alla prima sottoscrizione per la ”Libertà” – Liberty

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Loans –. Il modo in cui avvenne tale finanziamento era estremamente semplice,grazie all’esistenza di questo grande sistema bancario centralizzato. Le banchedelle piccole comunità anticiparono alla Banca della Riserva Centrale il 5%del totale del prestito che era stato proposto. Il governo stampò i titoli e li inviòalle banche delle comunità. Ricevuti i titoli, le banche delle comunità ne accre-ditarono il valore totale sul conto di deposito del Governo degli Stati Uniti. Erasemplicemente un metodo legalizzato col quale le banche creavano, medianteartifici contabili, il 95% dei fondi anticipati al Governo degli Stati Uniti. IlGoverno degli Stati Uniti, ovviamente, si rivelò magnanimo e fu disposto apagare gli interessi a queste banche in cambio del loro grande privilegio dicreare moneta da prestare al Governo. In effetti è proprio un Governo magna-nimo quello che concede a pochi individui il privilegio di creare moneta peresso e consente poi che i suoi cari cittadini, avvezzi a lavorare duramente,comprino quella moneta artificiosa e paghino anche successivamente un tri-buto sotto forma di interesse».

Charles Lindbergh – non a caso avversato e vilipeso dall’intero establish-ment finanziario e politico rooseveltiano – definì il Federal Reserve Act «ilpeggior crimine legislativo di tutti i tempi».

Anche la Federal Reserve fu clonazione dell’Istituto di emissione di Londra,come la gran parte delle Banche Centrali del mondo. Eccezione alla tendenzagenerale, tra le due guerre mondiali, fu la Germania, che nazionalizzò la suabanca di emissione. L’art. 2 della legge sulla Reichsbank recitava: «I compitidella Banca Tedesca del Reich derivano dalla sua posizione di banca d’emis-sione del Reich. Essa sola ha il diritto di emettere banconote. Deve inoltreregolamentare le transazioni e le operazioni finanziarie in Germania e all’e-stero. Deve anche provvedere alla utilizzazione dei mezzi economici disponibilidell’economia tedesca nel modo più appropriato per l’interesse collettivo epolitico-economico».

L’Italia si situò in una posizione intermedia che fu frutto di una serie dicompromessi. Nel 1874 le banche autorizzate a emettere moneta erano sei:la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale della Toscana, laBanca Toscana di Credito, la Banca Romana, il Banco di Napoli e il Banco diSicilia.

Poi, con una legge del 1893, promulgata a seguito del fallimento dellaBanca Romana, i 4 istituti dell’Italia centro-settentrionale vennero fusi, dandovita alla Banca d’Italia, e rimasero ancora attivi per l’emissione della lira ancheil Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Solo con la riforma del 1926 la Bancad’Italia resta l’unica con diritto di battere moneta.

Diverse correnti del fascismo avrebbero voluto la nazionalizzazione dellaBanca Centrale, ma Mussolini fu frenato dalle pressioni che arrivavano dall’e-stero, particolarmente dalla Federal Reserve e dalla Banca d’Inghilterra, cheminacciavano di sabotare la stabilità della moneta italiana.

Le opinioni di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano particolarmente pesoperché proprio con queste due nazioni il Governo italiano si era indebitato neglianni della Prima Guerra Mondiale, per finanziare i propri impegni militari. A

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Il ministro Alberto De Stefani sovraintende allo scarico dei sacchi di banconote destinate all’incenerimento per contrastare l’inflazione.

causa di ciò il debito pubblico italiano si era gonfiato a dismisura fino a rag-giungere il 150% del PIL. Pesante eredità che il fascismo, arrivato al potere, sitrovò a gestire.

Tra il 1922 e il 1926 il governo Mussolini – ministro di Finanze e TesoroAlberto De Stefani – si fece promotore di una serie di operazioni decise ecoraggiose, accompagnate da una politica economica internazionale diploma-tica e accomodante.

I risultati furono numerosi e importanti: in quattro anni il debito pubblicopassò dal 150% al 50% del PIL; fu azzerato il debito con l’estero; il 2 giugno1925 De Stefani annunciò il raggiungimento del pareggio di bilancio; la spesapubblica passò dal 35 al 13% del PIL; i disoccupati diminuirono da 600.000 a100.000; l’inflazione fu bloccata da una serie di iniziative tra le quali siricorda – la più spettacolare – l’incenerimento di sacchi pieni di banconote;furono distrutti oltre 320 milioni di lire. L’immagine di De Stefani chesovraintente l’eliminazione di ingenti quantitativi di denaro marca la diffe-renza tra un mondo nel quale il potere politico aveva la forza di governare l’e-conomia e l’odierno, squallido panorama nel quale le decisioni vengonoassunte dai Signori del denaro e ai politici è riservato il ruolo di servizievolicamerieri.

Nell’agosto del 1926 Mussolini, risanata l’economia nazionale, poté incam-minarsi verso la conquista di «quota novanta» – quotazione di novanta lire per

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una sterlina inglese, facendo rientrare la nostra moneta nel gold exchange stan-dard – imponendo un nuovo vigore al ruolo internazionale dell’economia ita-liana e della lira.

Il 18 agosto, a Pesaro, in un discorso improvvisato rimasto famoso, Musso-lini, dopo aver lodato le qualità e le caratteristiche della popolazione marchi-giana, affermò: «Noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia eco-nomica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico chedifenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue. Non infliggeròmai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come uneroe e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del falli-mento della lira. Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi dijugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stroncarle quando sianoindividuate all’interno».

L’obiettivo «quota novanta» fu raggiunto nel dicembre 1927.Questa operatività la si poteva ottenere solo disponendo direttamente della

sovranità economica e monetaria. Mussolini non volle nazionalizzare la BancaCentrale, e con ciò andare in urto con i due massimi creditori internazionalidell’Italia ma, con la riforma del 1926, escogitò un sistema di controllo – indi-retto ma efficace – dell’Istituto di emissione della lira.

La Banca d’Italia rimase un Istituto indipendente – prima una Società auto-noma, poi una Società per Azioni – la cui proprietà però fu affidata a un con-sorzio di Enti statali e di Banche, con preponderanza delle Casse di Risparmioe delle grandi Banche di interesse nazionale che qualche anno dopo sarebberodiventate, con l’IRI, proprietà dello Stato.

La legge prevedeva che le variazioni del tasso di sconto dovevano essereconcordate con il ministero delle Finanze e autorizzate dal governo, e che laBanca d’Italia fosse obbligata ad acquistare i Titoli di Stato emessi dal governo.

Nel dopoguerra la situazione non variò sostanzialmente, fino agli anniOttanta. Nel 1981 – era governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e mini-stro del Tesoro Beniamino Andreatta – fu sancito il diritto della Banca Centralea non sottoscrivere – sia parzialmente che in toto – i Titoli di Stato.

La Federal Reserve aveva ottenuto nei confronti del Governo USA un ana-logo provvedimento già nel 1951. Su preciso ordine delle tre potenze occiden-tali occupanti la «zona Ovest», la Banca di emissione tedesca rifondata neldopoguerra – la Deutsche Bundesbank – fu costituita libera da ogni vincoloverso i Titoli di Stato.

Nel 1992 l’ex governatore Guido Carli, nelle vesti di ministro del Tesoro,abolì il controllo del governo sul tasso di sconto, che rimase appannaggioesclusivo della Banca d’Italia. Il definitivo divorzio tra Stato e Istituto di emis-sione fu decretato poi in quegli anni dalle privatizzazioni gestite da RomanoProdi e Mario Draghi. La stragrande maggioranza delle azioni di Bankitaliainfatti, fino allora nelle mani di Enti statali o di Banche o Assicurazioni delloStato, grazie alle privatizzazioni, passarono a soggetti assolutamente privati.

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Banca d’ItaliaElenco dei possessori delle quote di proprietàdella banca (i dati sono in percentuale)

I proprietari riportati in nerettosono Enti di Stato.

Intesa Sanpaolo spa 34,34UniCredit spa 22,11Assicurazioni Generali spa 6,33Cassa di Risparmio in Bologna spa 6,20INPS 5,00Banca Carige spa - Cassa di Risparmio di Genova e Imperia 3,96Banca Nazionale del Lavoro spa 2,83Banca Monte dei Paschi di Siena spa 2,50Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli spa 2,10Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza spa 2,03Cassa di Risparmio di Firenze spa 1,89Fondiaria - SAI spa 1,33Allianz Società per Azioni 1,33Cassa di Risparmio di Lucca Pisa Livorno spa 1,22Cassa di Risparmio del Veneto spa 1,21Cassa di Risparmio di Asti spa 0,93Cassa di Risparmio di Venezia spa 0,88Banca delle Marche spa 0,82INAIL 0,67Milano Assicurazioni 0,67Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia spa 0,62Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia spa 0,38Cassa di Risparmio di Ferrara spa 0,32Cassa di Risparmio di Alessandria spa 0,29Cassa di Risparmio di Ravenna spa 0,26Banca Regionale Europea spa 0,25Cassa di Risparmio di Fossano spa 0,25Banca Popolare di Vicenza scpa 0,23Cassa di Risparmio di Cesena spa 0,23altre 35 banche con quote inferiori allo 0,22%per un totale di 2,82

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La maggioranza delle azioni è oggi in mano a Intesa San Paolo e Unicredit.Gli unici enti di Stato rimasti dentro Bankitalia sono l’INPS, con uno strimin-zito 5% di azioni e l’INAIL con un simbolico 0,6%.

A completare l’opera, con le grandi fusioni bancarie, cessarono di esisteremolte Casse di Risparmio – le più importanti – che, anch’esse comproprietariedella Banca d’Italia, erano fino a quel momento vincolate a comportamentiestranei alla disinvolta speculazione finanziaria e a conservare i propri radica-menti territoriali.

Il 28 dicembre 2005 si è verificato un fatto in controtendenza. Nell’àmbitodella cosiddetta Legge a tutela del Risparmio, numero 262, al punto 10 dell’ar-ticolo 19, si stabilisce che entro tre anni, a decorrere dal 12 gennaio 2006,dovevano essere trasferite a enti statali tutte le quote di partecipazione al capi-tale della Banca d’Italia in possesso di soggetti privati.

Ma il gennaio 2009 è passato da un pezzo e nulla di ciò è avvenuto. Illegal-mente, dunque, i proprietari di Bankitalia sono ancora le banche private.

Perché nessuno ne ha parlato? Perché nessuno protesta, nemmeno GiulioTremonti che quella legge volle e firmò?

C’è qualcuno, in questi mesi di grandi manovre fiscali e di tagli della spesapubblica, che ha avanzato la proposta di vendere l’oro della Banca d’Italia –sono 2.500 tonnellate – per abbassare il livello del debito pubblico. Ma, sempli-cemente, non lo si può fare. Perché quell’oro, che è nei bilanci delle banche,non è del popolo italiano: non è nell’attivo dello Stato.

Recentemente hanno destato stupore le controverse vicende che hannocaratterizzato la nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia. Alla candi-datura di Fabrizio Saccomanni, direttore generale dell’Istituto e delfino diMario Draghi, si era opposta quella di Vittorio Grilli, direttore generale delministero del Tesoro, caldeggiata da Giulio Tremonti e Umberto Bossi. Doposettimane di incertezza la scelta ha finito per premiare un terzo nome, quello diIgnazio Visco.

Per comprendere ciò che è realmente accaduto, al di là delle laconiche, eva-sive cronache giornalistiche, occorre fare un passo indietro e mettere in primopiano l’Istituto di cui nessuno in questa occasione ha mai parlato: la BRI diBasilea, la Banca dei Regolamenti Internazionali.

La BRI fu istituita dopo la Prima Guerra Mondiale per organizzare i trasferi-menti valutari relativi al piano di riparazioni imposto alla Germania dopo ilTrattato di Versailles. Esaurito il suo ruolo originario, la BRI divenne l’Istitutodi coordinamento di tutte le Banche centrali del mondo; la Federal Reserve e laBanca d’Inghilterra hanno in mano il 40% della sua proprietà, una quota suffi-ciente a garantirne l’assoluto controllo.

Dunque, Saccomanni è uomo della BRI – membro del Consiglio di ammini-strazione – mentre Grilli è un tecnico dello Stato italiano, e per questo sponso-rizzato da alcuni ministri del governo. Alla fine, con «soddisfazione di tutti»,seguendo il vecchio adagio «tra i due litiganti il terzo gode», è stato nominato

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Colonial Script.Il biglietto coloniale di cui Benjamin Franklin relazionò al parlamento britannico nel 1757.

I dollari di Stato stampati nel 1862 a seguito del Legal Tender Act emanato da Abramo Lincoln.

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Visco. Un uomo nuovo, un outsider? No, nessuno lo ha rimarcato, ma si trattadi un altro uomo targato BRI; anche lui fa parte di quel Consiglio di ammini-strazione.

Dunque, oplà! Due piroette e tre salti mortali e tutto è rimasto come prima:a capo della Banca d’Italia c’è ancora un esponente del sistema bancario inter-nazionale.

* * *

È quindi ineluttabile che il monopolio dell’emissione della moneta rimangain mani private? Nessuno si è mai ribellato tentando strade diverse?

Le cose non stanno proprio così.Abramo Lincoln, per quadrare il bilancio degli Stati Uniti, nel 1862, aveva

bisogno di 449 milioni di dollari. Le banche inglesi fecero conoscere la lorodisponibilità ad erogare un prestito al 30% di interesse.

Lincoln sdegnosamente rifiutò ed affermò che «ogni governo può creare,emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare leproprie necessità di spesa ed il potere d’acquisto dei consumatori». Ed ancora:«La moneta è la creatura della legge e l’emissione originaria della monetadeve essere mantenuta quale esclusivo monopolio del governo nazionale».

Con una legge del 25 febbraio 1862 – Legal Tender Act – si dette il via all’e-missione di dollari di Stato – che per il colore dell’inchiostro usato furono chia-mati greenbacks, «biglietti verdi» – sui quali il governo non avrebbe dovutopagare alcun interesse.

D’altronde lo scontro tra la classe dirigente statunitense e le banche privatenon era una novità fin dall’epoca coloniale. Nel 1757 Benjamin Franklin fuchiamato, in qualità di rappresentante delle colonie, a relazionare al parlamentobritannico e, per spiegare la prosperità dei territori amministrati in America,affermò: «Nella colonia emettiamo la nostra moneta, chiamata Colonial Script[biglietto coloniale]. La emettiamo in proporzione alla domanda commercialeed industriale per facilitare il passaggio delle merci dal produttore al consuma-tore. In questo modo, creando noi stessi la moneta, ne controlliamo il potered’acquisto e non dobbiamo pagare interessi a nessuno».

Tra i presidenti statunitensi che precedettero Lincoln si schierarono contro itentativi dei banchieri di controllare la moneta USA Thomas Jefferson, JamesMadison e Andrew Jackson. È nota l’affermazione di Jefferson: «Io credo chele istituzioni bancarie siano più pericolose per la nostra libertà di quanto nonlo siano gli eserciti nemici. Esse hanno già organizzato una potente lobbie cheha attaccato il governo con arroganza. Il potere di emissione deve essere toltoalle banche e restituito al popolo, al quale legittimamente appartiene».

Tornando a Lincoln, i banchieri statunitensi e quelli inglesi, peraltro traloro strettamente collegati, non digerirono facilmente la decisione di stam-pare dollari di Stato. Il Times di Londra in quella circostanza scrisse: «Se laperversa politica finanziaria adottata dalla repubblica dell’America setten-

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trionale nel corso dell’ultima guerra combattutasi in quel paese dovessepiantar radici ancor più solide, allora quel Governo provvederà alla forni-tura della propria moneta senza alcuna spesa. Esso salderà i suoi debiti e sene libererà. Avrà tutta la moneta necessaria a svolgere le proprie attivitàcommerciali. Diventerà prospero al di là di qualsiasi precedente nella storiadei Governi civili del mondo. I cervelli e le risorse di tutti i paesi conflui-ranno nell’America settentrionale. Quel Governo deve essere distrutto o essodistruggerà ogni monarchia del globo».

Nel 1864 Lincoln si ricandidò alla presidenza degli Stati Uniti e durante lacampagna elettorale dichiarò, ripetutamente, la sua intenzione di continuare ademettere i dollari di Stato, ma il 14 aprile 1865 fu ucciso. Qualche storico èarrivato a insinuare che dietro John Booth, l’assassino di Lincoln, ci fosseroaddirittura dei legami riconducibili a casa Rothschild.

Per l’occasione, il capo del governo prussiano, Otto von Bismarck, dichiarò:«La morte di Lincoln fu un disastro per la Cristianità. Non v’era negli StatiUniti un uomo che fosse abbastanza grande da calzare i suoi stivali e i ban-chieri hanno rinnovato i loro sforzi per impossessarsi delle ricchezze delmondo. Temo che saranno proprio loro, con la loro astuzia e con i loro espe-dienti tortuosi, ad assumere pieno controllo delle abbondanti ricchezze dell’A-merica e a servirsene sistematicamente per corrompere la moderna civiltà. Essinon esiteranno a far sprofondare l’intera Cristianità nelle guerre e nel caos,affinché la Terra diventi loro proprietà».

Sta di fatto che con quell’assassinio l’esperimento dei dollari di Stato si con-cluse. Ciò nonostante è stato calcolato che l’emissione del 1862 fece rispar-miare nel corso degli anni, al governo degli Stati Uniti, oltre 11 miliardi di dol-lari di interessi.

Tragica analogia con questi avvenimenti la troviamo con John FitzgeraldKennedy.

I dollari di Stato stampati nel 1963, a seguito dell’ordine esecutivo n. 11.110 firmato dal presidenteJohn F. Kennedy.

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Negli anni Sessanta la consistenza del debito pubblico statunitense avevaraggiunto dimensioni preoccupanti e il giovane presidente, succeduto a Eisen-hower, riconsiderò il meccanismo che determinava l’emissione dei dollari.

Il marchingegno della Federal Reserve – così come quello delle maggiori ban-che centrali del mondo – è, come abbiamo visto, quello di stampare moneta che,gravata da interessi, viene prestata al governo il quale si rifà sui cittadini, incas-sando le tasse. È a tal proposito interessante ricordare che il XVI emendamentodella Costituzione degli USA è stato promulgato nel 1913, contemporaneamenteal Federal Reserve Act. Si tratta dell’emendamento che attribuisce al Congresso«la facoltà di imporre e riscuotere tasse sui redditi derivanti da qualunque fontesenza ripartirle tra i vari Stati e senza dover tenere conto di alcun censimento»;configura cioè il collegamento indispensabile per far confluire direttamente, dalletasche dei contribuenti statunitensi alle casse della Federal Reserve, i denarinecessari al pagamento degli interessi sull’emissione dei dollari.

Kennedy riteneva che il debito pubblico poteva essere ridotto semplice-mente smettendo di pagare gli interessi sull’emissione dei dollari e, il 4 giugno1963, appellandosi all’articolo I, sezione 8, parte 5 della Costituzione che attri-buisce al governo il potere di «battere moneta, stabilire il suo valore e quellodelle monete straniere», firmò l’ordine esecutivo presidenziale numero 11.110con il quale disponeva l’emissione di una prima tranche di dollari di Stato –stampati cioè dal ministero del Tesoro e non dalla Federal Reserve – per 4miliardi e mezzo in tagli da due e da cinque. Erano dollari quasi identici aquelli già in circolazione, ad eccezione della scritta in alto che, invece di«Federal Reserve Note», era «United States Note», e del colore – rosso anzichéverde – con il quale era stampato il marchio e il numero di serie.

Dopo cinque mesi, il 22 novembre 1963, Kennedy fu ucciso a Dallas.

C’è una relazione tra questo assassinio e l’ordine esecutivo numero 11.110?

Si tratta di uno di quegli avvenimenti storici attorno ai quali è stata diffusauna nebbia così fitta da ritenere che una risposta certa non la si potrà mai for-mulare, ma molti storici e giornalisti che hanno approfondito l’argomento sonopropensi a individuare, come probabili mandanti, gli ambienti dell’AltaFinanza internazionale.

Certo è che da allora nessun presidente statunitense ha osato parlare più didollari di Stato sui quali non pagare interessi.

Ma i biglietti di Stato non sono la moneta dei marziani. Possono rappresen-tare una soluzione assai agevole, logica, probabilmente anche decisiva. Nonsono cose d’altri mondi. Perché oggi, nel bel mezzo di una crisi galoppante, trauna manovra e l’altra, nessuno ne parla? Forse è vietato? E da chi?

Eppure anche in Italia si è spesso fatto ricorso a provvedimenti del genere. Ilgoverno Minghetti fece stampare biglietti di Stato nel 1874, De Pretis nel 1882e nel 1883, Giolitti nel 1893 e nel 1904, Zanardelli nel 1902, Mussolini ne

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Alcuni dei biglietti di Stato emessi in Italia dall’Unità ad oggi

19401874 1904

19401882 1923

19511883 1925

1893 1935 1966

1902 1939 1975

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emise due volte prima della riforma della Banca Centrale, nel 1923 e nel 1925,altre quattro volte in seguito, senza contare il periodo della Repubblica Sociale.

Persino De Gasperi emise biglietti di Stato da cinquanta e cento lire nel1951. L’ultimo a farlo fu Aldo Moro, due volte, nel 1966 e nel 1975.

Vi ricordate i biglietti da 500 lire? Erano biglietti di Stato, come i dollari diLincoln e di Kennedy, biglietti per i quali nemmeno una lira di interessi è statamai pagata dallo Stato, quindi dai contribuenti. Biglietti sui quali era stampato«Repubblica Italiana» e non «Banca d’Italia».

Anche le monete metalliche, ancora oggi, sono coniate dallo Stato e noncostano interessi. Infatti, mentre gli euro in cartamoneta sono identici in tutte lenazioni europee, le monete hanno in comune una sola facciata, l’immagine delretro è differenziata da Stato a Stato. I denari cartacei sono stampati dallaBanca Centrale Europea, che è banca privata in quanto proprietà delle BancheCentrali europee, le cui azioni – come abbiamo visto nel dettaglio per ciò cheriguarda la Banca d’Italia – sono in mano alle banche private. Le monete sonoprodotte invece nelle zecche dei singoli Stati, ma il loro valore complessivo,rispetto al totale della moneta cartacea, è così infimo da rendere questo residuodi sovranità monetaria unicamente simbolico.

* * *I soldi furono inventati per rendere più agevole il funzionamento dell’eco-

nomia e risolvere tutti quegli inconvenienti che nelle società primitive eranodeterminati dal baratto. Uno strumento dunque, non un bene in sé. È opportunotenere bene in mente questo concetto in questi tempi nei quali, da decenni, ildenaro è stato posto addirittura a ricoprire il ruolo del fine da perseguire, delmetro di valutazione di ogni cosa e di ogni fatto; a rappresentare il valore domi-nante.

Correttamente osserva l’economista Bruno Amoroso: «La moneta, da facili-tatore neutro dello scambio dei beni e veicolo di scambio, si camuffa essastessa in merce, con l’obiettivo unico dell’esproprio del lavoro, dei beni e deirisparmi degli altri a fini di arricchimento».

Gli antropologi, studiando le società primitive, hanno rilevato come la primaespressione di scambio di beni si fosse manifestata, soprattutto all’interno delgruppo, attraverso il «dono»; un comportamento che veniva spesso rivestito diritualità anche religiose, densa di significati. Oggetto del dono era sovente ilsuperfluo, ma anche e soprattutto il prodotto dell’attività individuale.

Attorno a queste consuetudini si è sviluppata una serie di relazioni interper-sonali. Il dono implicava una reciprocità che ha preparato il sorgere di una verae propria comunità economica basata su uno scambio che, col passare deltempo, veniva ad essere regolato da un articolato sistema di sempre più precisenorme.

Il ruolo del dono, pur mutando forma e nome, è rimasto presente nellesocietà fino ai nostri giorni. L’economista Geminello Alvi, nella sua recente

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Quattro esemplari degli oltre 800 tipi di miniassegni messi in circolazione in Italia tra il 1975 e il 1978.

Il SIMEC, esperimento di nuova moneta messa in circolazionenel 2000 a Guardiagrele, in Abruzzo.

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opera Il capitalismo, afferma: «Non v’è soluzione o rimedio al capitalismosenza il riconoscimento del dono come un atto economico [...] L’atto del donopermane costante archetipo dell’economia, riordino di essa, in armonia coglialtri campi della vita e suo risanamento».

Fin dalle prime collettività primitive, l’oggetto dell’economia è dunque sem-pre stato il bene o il servizio – l’attività umana rappresenta anch’essa un bene –anche quando l’ingrandirsi della società e il complicarsi delle tipologie di scam-bio hanno imposto l’utilizzo di strumenti di intermediazione commerciale.

Il denaro ha poi assunto mille forme, adattandosi ai tempi e alle esigenze deipopoli. Come ausilio negli scambi e nei pagamenti furono utilizzate le pecore(da cui il termine latino pecunia) e il sale (da cui la parola salario). In Inghil-terra, attorno al 1100, furono inventati i tallies: bastoncini di legno spessi duecentimetri e mezzo. Vi si incideva, tramite apposite tacche, il valore che rappre-sentavano; poi venivano spezzati longitudinalmente in modo da conservare, inognuna delle due parti, traccia delle iscrizioni. Una sezione veniva consegnatain pagamento, l’altra veniva conservata nel Tesoro dello Stato, per poterne, inqualsiasi momento, affiancandoli, controllarne la validità. Il termine talliesderiva dal verbo inglese to tally, che significa coincidere.

Si trattava di un sistema macchinoso e scomodo – erano bacchette lunghedai 60 ai 120 centimetri – ma ciò nonostante fu utilizzato per più di sette secoli:i tailles furono aboliti, con una legge del Parlamento, solo nel 1783. La monetache venne poi, la sterlina, emessa dalla privata Banca d’Inghilterra, essendogravata da interessi, indusse diversi economisti a rimpiangere le vecchie e dis-agevoli barre di legno, riconosciute «moneta sana e legittimamente emessadallo Stato».

Ma ciò che circolò maggiormente, per praticità e diffusione, negli ultimi duemillenni sono state le monete: coniate in oro, come il romano solidus, il bizan-tino bisante e l’arabo dinar, o in argento come il persiano dirham e il denarius.Quest’ultimo fu emesso – con un nome che volutamente si ricollegava con lamoneta dell’Impero romano – da Carlo Magno e fu il risultato di una riformache introdusse un sistema di conto che resistette per oltre un millennio. InEuropa – ad eccezione della Spagna che aveva adottato un altro sistema, di ori-gine araba – fino alla Rivoluzione francese; in Inghilterra addirittura fino al1971. L’unità di misura era la lira (o libbra, a indicarne anche il peso), che sidivideva in 20 soldi; il valore di ogni soldo era di 12 denari, piccole monete dicirca due grammi d’argento.

L’invenzione della cartamoneta è poi un fatto molto recente, e l’attualeintroduzione del denaro virtuale e delle carte di credito, già ne sta prefigurandol’estinzione.

Il denaro dunque non ha mai smesso di essere un semplice strumento dell’e-conomia, peraltro estremamente mutevole e non sempre utilizzato. Nel XVIIsecolo in molte zone d’Europa – prevalentemente agricole – era ancora invigore il baratto e solo eccezionalmente si faceva ricorso alle monete. È oppor-tuno poi considerare che, quando ce n’è stato bisogno, i soldi sono stati inven-

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tati nei modi più diversi. L’unica condizione è sempre stata quella di essereaccettati dai cittadini che dovevano incassarli o spenderli.

Quando in Italia, nel 1975, si era creata una penuria di spiccioli – cui lazecca sopperì solo nel 1978 con un’abbondante conio di monete – furono dap-prima usati francobolli e gettoni telefonici (nei bar addirittura caramelle), poidei «miniassegni» emessi dalle banche. Ne circolarono per un importo totale dioltre 200 miliardi di lire; molti andarono distrutti, o finirono negli album deicollezionisti, procurando al sistema bancario utili a nove zeri.

Quando negli anni del primo conflitto mondiale le esigenze degli armamentisi scontrarono con le regole valutarie in vigore, vinse l’«economia di guerra» esi stampò moneta in quantità spesso esorbitante, rimandando al dopoguerra lasoluzione dei problemi inflazionistici che si sarebbero generati. Lo stato mag-giore tedesco si fregiò, in quella occasione, del motto «Geld spielt Keine rolle»(il denaro non ha alcuna importanza). Il Direttore generale della Banca d’Italiadichiarò nel 1917: «La Banca ha avuto coscienza della necessità di Stato didare alla produzione di biglietti un impulso corrispondente a quello che hannoavuto le officine meccaniche con la produzione di proiettili».

L’economista Giacinto Auriti, in polemica con la Banca d’Italia, provocato-riamente, nel 2000 sperimentò nel paese di Guardiagrele, in Abruzzo, il funzio-namento di una nuova moneta, il SIMEC, di proprietà del portatore e non del-l’Istituto di emissione. I SIMEC, finché la Guardia di Finanza non li sequestrò,furono utilizzati tranquillamente dalla popolazione, dando nuovo impulso alleattività commerciali. Il processo che ne seguì si concluse con una sentenzafavorevole ad Auriti; la provocazione era riuscita.

Dunque l’oggetto economico non può che essere il bene; al denaro deveessere riservata l’esclusiva funzione di rappresentare il valore del bene e, soloin questo senso, deve essere utilizzato.

Conseguentemente il denaro dovrebbe essere emesso strumentalmente dalloStato in una misura adeguata alla ricchezza della nazione. E per ricchezza siintende il valore dei beni mobili ed immobili, dei beni prodotti e di quelli in viadi produzione.

Se un governo decide di costruire una grande opera pubblica, ad esempioun’autostrada capace di velocizzare gli spostamenti e semplificare i trasporti,non realizza forse un incremento della ricchezza nazionale? Sarebbe logicoallora che lo Stato emettesse moneta pari al valore del nuovo bene con la qualepagare materiali e maestranze.

Perché invece, oggi, è costretto, per pagare il nuovo bene, a emettere Titolidi Stato, quindi accendere un debito, che dovrà essere restituito e sul qualedovrà anche pagare gli interessi?

Scrisse Ezra Pound: «Dire che uno Stato non può perseguire i propri scopiper mancanza di denaro, è come dire che non si possono costruire strade permancanza di chilometri».

Inoltre, da quando l’emissione della moneta è passata nelle mani delle ban-che, la quantità di denaro circolante si è moltiplicata a dismisura. Un denaro

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che inoltre, col passare dei decenni, ha perso ogni forma di garanzia. Si pensialla copertura aurea. Inizialmente le monete erano scambiate sulla base dellaloro contropartita in oro, che era accettato come valore di riferimento interna-zionale. Le banche di emissione delle varie nazioni dovevano conservare neiloro caveau una quantità di lingotti sufficiente a convertire una prefissata per-centuale della cartamoneta messa in circolazione.

Nel luglio del 1944, nella conferenza internazionale di Bretton Woods – unacittadina del New Hampshire, negli USA – le potenze in guerra contro l’Europasottoscrissero un accordo che prevedeva un nuovo metro di scambio internazio-nale: il dollaro. Dal «gold standard» si passava al «dollar standard». Il dollaro,a sua volta, a differenza delle altre valute del mondo, rimaneva agganciatoall’oro col valore di 35 dollari l’oncia.

Ciò nonostante, la Federal Reserve, dopo la Seconda Guerra Mondiale, nonsempre rispettò il rapporto di copertura previsto e il dollaro si vide esposto apericolose fragilità. Nell’agosto del 1971 il presidente Richard Nixon si videcostretto, pur ribadendo per il dollaro il ruolo di unica valuta di riferimentointernazionale, a svincolare definitivamente la moneta statunitense dalla coper-tura aurea.

Liberate da regole e controlli, le Banche Centrali hanno a questo punto mol-tiplicato l’emissione di cartamoneta, non più facendo riferimento alla quantitàdi beni esistenti, né alle garanzie disponibili, ma solo rapportandosi alle neces-sità di liquido occorrenti al sistema monetario e bancario per le proprie specula-zioni.

Oltre al denaro stampato, infatti, va considerato il meccanismo della«riserva frazionaria» grazie alla quale le banche si arrogano il diritto di prestarsoldi in misura enormemente superiore ai propri depositi. Le banche sono arri-vate a inventar soldi, e a prestarli, fino a 50 volte in più del denaro realmentedisponibile. Poi ci sono i giochi di valuta, per cui si fanno figurare momenta-neamente in cassa somme di denaro che praticamente non esistono. E infine,grazie alla compravendita di pacchetti finanziari – come si è recentementevisto, spesso pieni di carta straccia – e al gonfiamento artificioso di titoli diborsa, la massa di denaro virtuale – che non corrisponde a ricchezza reale –continua a moltiplicarsi.

Riferisce Sergio Romano sul Corriere della Sera del 27 ottobre 2011: «Iportafogli delle maggiori banche d’investimento americane sono passati, dadue trilioni di dollari vent’anni fa, a 22 trilioni di dollari nella fase che haimmediatamente preceduto la crisi: quasi il doppio del PIL americano».

Alla fine del 1999 i cosiddetti derivati circolanti nel mondo ammontavano a30.000 miliardi di dollari, pari al 285% del PIL mondiale; solo dieci anni piùtardi, alla fine del 2009, avevano raggiunto la quota di 690.000 miliardi di dol-lari, cioè il 1057% del PIL mondiale.

Sir Josiah Stamp, direttore della Banca d’Inghilterra dal 1928 al 1941 – untestimone diretto e inconfutabile – scrisse: «Il moderno sistema bancario crea

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denaro dal nulla. Il processo è forse il più sbalorditivo trucco da prestigiatoreche sia mai stato escogitato. Il sistema bancario fu concepito nel crimine egenerato nel peccato. I banchieri posseggono il mondo; se glielo si sottraesse,ma gli si lasciasse ancora il potere di creare denaro, con un tratto di pennariuscirebbero ad avere abbastanza denaro per ricomprarselo [...] Gli si sot-traesse invece il potere, tutti i grandi patrimoni come il mio scomparirebbero,rendendo il mondo migliore e più felice. Ma se tu accetti di continuare adessere schiavo delle banche, lascia che le banche continuino a creare denaro econtrollare il credito».

Quantificare con esattezza la mole di denaro – reale e virtuale – oggi circo-lante in tutto il globo è molto difficoltoso, ma grosso modo si è calcolato chesia dieci o dodici volte superiore alla quantità di denaro necessaria per acqui-stare tutti i beni esistenti al mondo.

E allora a cosa serve tutto questo del denaro?Solo a dare forza al potere di chi ha in mano i cordoni della borsa, un potere

incondizionato sui popoli e sulle nazioni del mondo.Questi Signori del denaro, gli epigoni della speculazione, come è oggi di

moda definirli, o più concretamente, come la chiamava Ezra Pound, dell’usura,hanno passato tre fasi distinte nella loro scalata al potere. La prima è stata lamillenaria pratica di prestare a interesse somme di denaro di cui si disponeva.Seconda fase è stata quella di stampare in proprio i soldi da prestare a interesse.La terza è stata quella di prestare soldi che non esistono nemmeno; che nonsono stati stampati da nessuna Banca Centrale. Questa è la fase attuale, quelladel denaro virtuale.

* * *Mentre questi giochi finanziari da guerre stellari stanno affamando popoli e

schiavizzando nazioni, ogni volta che si suggeriscono strade diverse da quelleimposte dal monetarismo, si contrappongono allarmi di derive inflazionisticheche tendono a scoraggiare qualsiasi riformatore.

Quando nel 1985 Bettino Craxi propose di varare la lira pesante (con unrapporto da 1 a 1000) si disse che l’operazione avrebbe favorito un incrementod’inflazione e l’idea fu bocciata. In questi giorni qualcuno ha cominciato a pro-porre un ritorno alla lira e la risposta è giunta immediatamente: scatterebbeun’inflazione, anche di diversi punti!

Innanzitutto nessuno si è premurato di sostanziare queste affermazioni conspiegazioni economicamente convincenti. Inoltre nessuno si cura di ricordareciò che avvenne quando, dodici anni fa, dalla lira si volle passare all’euro, ope-razione questa fortemente voluta dal sistema bancario e finanziario internazio-nale. Quella scelta produsse un’inflazione addirittura del 100%. Ciò checostava 10.000 lire in pochissimo tempo arrivò a costare 10 euro, cioè 20.000lire.

Come mai c’è chi ancora si professa orgoglioso di quella manovra – Prodi,Ciampi, Amato e compagnia bella – e nessuno ricorda loro il pesantissimoprezzo d’inflazione che gli italiani furono costretti a pagare?

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Mario Monti, prima di formare il nuovo governo, quello «tecnico», quellodelle banche, in una lettera dedicata a un Berlusconi premier «euroscettico»,pubblicata sul Corriere del 30 ottobre 2011, ha spudoratamente indicato, tra imeriti dell’euro, l’averci garantito, per dodici anni, un «bassissimo tasso d’in-flazione».

Strano poi che la preoccupazione per le impennate inflazionistiche scompaiacompletamente quando si tratta di tutelare la stabilità del sistema bancario.

È notizia di questi mesi che i ministri finanziari, assieme ai vertici delleBanche Centrali riuniti nel G20 di Washington, hanno deciso di immettere nelsistema bancario una ingente quantità di nuovi dollari. Oltre 3000 miliardi. Per-ché mai, allora, quando si tratta di economia reale, si esclude ogni possibilità diemissione di nuova liquidità, magari sotto forma di biglietti di Stato?

Siamo al paradosso finale o, meglio, al «dopo il danno la beffa». L’attualecrisi è stata causata dal sistema finanziario – una precisa responsabilità, univer-salmente riconosciuta – e non dall’economia reale. Non sono colpevoli i lavo-ratori, gli imprenditori, gli studenti, i contadini, i commercianti: non è respon-sabilità del popolo, ma delle banche, della finanza internazionale – i cosiddetti«speculatori» –, del potere mondialista che si articola nei suoi istituti tentaco-lari: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca dei RegolamentiInternazionali, Trilateral, Bilderberg, Goldman Sachs, etc. Ebbene, le decisionidei concitati vertici che si susseguono in giro per il mondo sono tutte nel segnodi aiutare – e doviziosamente – il sistema bancario, non i popoli. Anzi, aipopoli si chiede di pagare il conto.

Seguendo i diktat progressivi dei Signori del denaro, l’atteggiamento delgoverno greco verso i dipendenti statali è stato emblematico; prima licenzia-menti di massa, poi, per chi rimane, decurtazione fino al 40% degli stipendi einfine trattenuta alla fonte di tutti gli impegni con il sistema bancario: mutui,finanziamenti, carte di credito, scoperti di conto corrente. Praticamente ilgoverno greco si è mobilitato per tutelare gli «affari» delle banche, disinteres-sandosi della sopravvivenza delle famiglie.

* * *

Un’altra domanda sorge spontanea, se si osserva la graduatoria dei debitipubblici delle nazioni del mondo. Il clamore di queste settimane ha posto inprimo piano la Grecia, la Spagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’Irlanda e il Porto-gallo. Ma la nazione con il debito pubblico percentualmente più alto rispetto alPIL è il Giappone, che supera addirittura il 233%.

Ma del Giappone non si parla. Come mai?La risposta la si può trovare osservando un’altra graduatoria, quella riguar-

dante le percentuali dei Titoli di Stato piazzati all’estero. Lì troviamo al primoposto l’Irlanda, con un 85%, a seguire: il Portogallo con un 75%, la Grecia col70 %, gli USA con il 51%, la Spagna con il 46% e l’Italia con il 44%.

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CANADA

PORTOGALLO

GERMANIA

INGHILTERRA

SPAGNA

OLANDA

SVEZIA

Rapporto tra debito pubblico e PILDati in percentuale aggiornati al settembre 2011

Percentualedei Titoli di Statodetenuti all’esteroDati in percentuale aggiornati all’aprile 2011

* I dati ufficiali riguardanti gli USA sono da molto tempo addomesticati, pergiustificare la supervalutazione effettuata dalle agenzie di rating, costrette a«premiare» la nazione trainante dell’Alta Finanza internazionale. ScriveRoberto Festorazzi: «Le stime sul reale debito pubblico USA, diretto e indiretto,indicano che esso avrebbe ormai raggiunto il 180% del PIL: di esso il 110[61%] sarebbe nelle mani di investitori stranieri».

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E il Giappone? È in fondo alla graduatoria, con uno striminzito 4%.

Allora il problema non è la consistenza del debito pubblico o il mancatopareggio di bilancio, ma di chi ha in mano i Titoli. Se le banche internazionali oi risparmiatori nazionali. Allora il problema è di sovranità finanziaria.

Quando è distribuito all’interno della nazione il debito pubblico può essereanche un’opzione di politica economica non necessariamente negativa. Scri-veva l’economista francese Jean Francois Melon: «I debiti dello Stato sono idebiti della mano destra verso la sinistra, e perciò il corpo non ne è indebolito,se ha il corretto nutrimento e sa come distribuirlo».

Per molti secoli in Italia il debito pubblico è stato assorbito dai risparmiatoriall’interno dei singoli Stati. Scrive Mauro Carboni: «Nelle città-stato italiane lapianta del debito pubblico si sviluppò in maniera rigogliosa, recando dividentipolitici senza provocare contraccolpi economici, dal momento che quasi ovun-que il possesso dei titoli era concentrato nelle mani dei residenti e l’onere deldebito attivava una circolazione di risorse del tutto interna alla comunità».

A questo riguardo è molto interessante osservare il grafico del debito pub-blico italiano negli ultimi quarant’anni. Con lievi oscillazioni il valore si erastabilizzato sul 50% del PIL. A una certa data ha cominciato a salire fino a sfio-rare il 120%.

Quella data è il 1981.E non è forse proprio il 1981 l’anno in cui Andreatta e Ciampi hanno esen-

tato la Banca d’Italia dall’acquisto dei Titoli di Stato ed è cominciata la ricerca

Andamento del rapporto tra debito pubblico e PIL in Italia dal 1967 al 2000

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Abolizione dell’obbligoda parte dellaBanca d’Italiaad acquistare

i Titoli di Stato

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di acquirenti all’estero? Potrebbe essere dunque corresponsabile dell’aumentodel debito pubblico la diminuzione di sovranità finanziaria? E non è proprionegli anni Ottanta che si è verificato un aumento della pressione fiscale dal 31al 40%?

Allora, forse, le cose non sono esattamente come ci vengono presentate.

L’oggetto della crisi finanziaria e della conseguente crisi economica èsempre una Nazione succube di forti poteri esterni. Senza libertà e indipen-denza economica il popolo, al momento del bisogno, scopre che non può sce-gliere soluzioni alternative. È la mancanza di sovranità finanziaria che ciparalizza, che ci pone in una situazione di crisi ed aggrava un debito pubblicogià appesantito da decenni di dissennata politica incompetente e clientelare. Eall’origine della sovranità finanziaria non può che esserci la sovranità mone-taria.

Disse Henry Ford: «È un bene che la gente non sappia come funziona ilnostro sistema bancario e monetario, perché se lo sapesse credo che prima didomani scoppierebbe una rivoluzione».

Sarebbe dunque bene che qualcuno si prendesse la briga di informare lagente. Ma l’informazione è ancora blindata dal controllo che i poteri fortihanno dei mass media.

Ciò nonostante, le informazioni «politicamente scorrette» sono sempre piùnumerose e la possibilità che qualcuna di queste possa attraversare le magliedella censura si fa sempre più grande. E in ciò si sta dimostrando molto pre-zioso il ruolo di Internet.

Riportiamo alcuni esempi di recenti notizie che, appena uscite, sono statesfumate, non è stato dedicato a loro né rilievo, né commenti, e sono state archi-viate in un limbo che ricorda molto da vicino il ministero della Verità di orwel-liana memoria.

Nel 1913, quando fu delegata ad operare come Banca Centrale americana laprivata Federal Reserve, tutti i parlamenti dei singoli Stati, come d’uopo in unanazione federale, furono chiamati a ratificare il voto del Senato.

Tutti approvarono, tranne il North Dakota, uno Stato al confine con ilCanada, tra il Montana e il Minnesota, che invece dette vita ad una propriaBanca di Stato. Si era formato un forte movimento d’opinione, la NonpartisanLeague, che vinse le elezioni ed impose la propria politica ostile a Wall Street eai banchieri privati.

La Banca del North Dakota è rimasta un istituto pubblico indipendente dalFederal Reserve System, con una storia di tutto rispetto. Anche nel 1929, men-tre la grande crisi fece traballare tutte le banche statunitensi, continuò impertur-babile, senza particolari scossoni, la propria attività. Inoltre, mentre tutte lebanche del circuito federale sono governate da personaggi nominati dall’«alto»e tutti provenienti dai vivai di Wall Street, i tre massimi dirigenti della Banca

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del North Dakota sono eletti dai cittadini. E questo, al popolo, giustamente,piace e dà fiducia.

Inoltre si tratta di una Banca che concede finanziamenti a tasso agevolatoalle aziende, alle famiglie e agli studenti, ma chiude i bilanci sempre in attivo edistribuisce gli utili ai cittadini sotto forma di detrazioni fiscali.

Oggi, mentre la crisi negli USA schiaccia l’incremento del PIL ad uno stri-minzito 1% e dilata la percentuale di disoccupazione oltre il 10%, il NorthDakota vanta un incremento del PIL a due cifre e ha una disoccupazione sotto il4%. Pura combinazione?

Altra notizia sfumata: quattro mesi fa il parlamento dello Utah, con unaforte maggioranza di 47 voti contro 26, ha deciso di coniare direttamentemonete d’oro e d’argento e di emettere biglietti di Stato.

Altra notizia sfumata: gli Stati di California, Ohio e Florida hanno deciso dimettere allo studio una riforma del tipo del North Dakota: Banca di Stato esganciamento dal Federal Reserve System.

Altra notizia sfumata: in luglio lo Stato del Minnesota ha dichiarato falli-mento; tutti i dipendenti pubblici sono stati licenziati e tutti i servizi statali eassistenziali sospesi in attesa che ad occuparsene arrivassero altre autorità connuovi fondi.

Altra notizia sfumata, anzi del tutto ignorata: nella graduatoria dei debitipubblici del mondo, nell’ultimissima posizione – solo il 3% rispetto al PIL –c’è la Libia e la Central Bank of Libya è di completa proprietà dello Stato. Evi-dentemente l’impossibilità di agire sulla Libia, attraverso gli abituali ricattimonetari, aiuta a porre nella giusta luce gli otto mesi di bombardamenti dellaNATO appena conclusi.

Altra notizia sfumata: il presidente Hugo Chávez ha chiesto il rimpatriodelle 100 tonnellate di oro che il Venezuela aveva in deposito nel caveau dellaBanca d’Inghilterra.

La vicenda nasce alla fine degli anni Ottanta, al tempo delle presidenze diJaime Lusinchi e di Carlos Andrés Pérez, quando il Venezuela chiese ed ottenneun prestito dal Fondo Monetario Internazionale e gli fu imposto di depositare,in garanzia, 211 tonnellate d’oro nei caveau delle Banche Centrali d’Inghil-terra, Svizzera, USA, Francia e Panama.

Saldato da molti anni il debito – grazie al petrolio e all’oro di cui quel paeseamericano è ricco – Chávez ha, in un primo momento, deciso di lasciare incustodia – regolarmente retribuita – l’oro nei caveau dove si trovava. Oggi,probabilmente in considerazione della turbolenza dei mercati e della gravitàdella crisi finanziaria internazionale, ne ha invece chiesto la restituzione. Ma larichiesta di Chávez a Londra ha creato un forte imbarazzo. Per le proprie spe-culazioni, la Banca sembrerebbe abbia venduto non solo il proprio oro, maanche quello del Venezuela che aveva in custodia.

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Banca Centrale EuropeaElenco delle Banche proprietarie della BCEcon percentuale del capitale sottoscritto

Le Banche in neretto sono quelle dei paesi chenon hanno adottato l’euro.

Deutsche Bundesbank 18,94Bank of England 14,51Banque de France 14,22Banca d’Italia 12,50Banco de Espana 8,30Narodowy Bank Polski 4,89De Nederlandsche Bank 3,99Banca Nationala a României 2,46Banque Nationale de Belgique 2,43Sveriges Riksbank 2,25Bank of Greece 1,96Oesterreichische Nationalbank 1,94Banco de Portugal 1,75Danmarks Nationalbank 1,48Ceska Narodni banka 1,44Magyar Nemzeti Bank 1,38Suomen Pankki-Flnlands Bank 1,25Central Bank of Ireland 1,11altre 9 banche centrali con meno dell’1% a testa, 3,20di cui tre di nazioni che non hanno adottato l’euro

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Ora si stanno agitando; devono trovare un modo per uscire d’impaccio, mal’acquisto – in una volta sola – di 100 tonnellate d’oro sul mercato internazio-nale, farebbe ulteriormente gonfiare le quotazioni che in questo momentohanno già toccato i massimi storici. Si sta diffondendo il sospetto che Londraabbia messo gli occhi sui depositi aurei della Libia di Gheddafi: sono giustegiuste 140 tonnellate...

Questa storia, oltre ad appartenere alla categoria delle notizie sfumate, è unastoria preoccupante. Infatti gran parte delle 2.500 tonnellate dell’oro dellaBanca d’Italia non è a Roma, ma a Londra e negli Stati Uniti, a Fort Knox.Sembra che l’ultima ispezione in quei caveau risalga a molti anni fa. Ci puòessere il rischio che l’oro di Bankitalia abbia fatto la fine di quello del Vene-zuela? Non è dato saperlo.

Questi sono solo esempi delle tante notizie alle quali i mass media nondanno spazio. Notizie inquietanti, ma che possono essere anche stimolanti.

* * *Dunque, tutte le considerazioni che abbiamo sin qui sviluppato portano

verso un’unica conclusione. La madre di tutte le crisi finanziarie è la perditadella sovranità monetaria, che inevitabilmente si trasforma nella perdita disovranità tout court, di quella politica, culturale e financo militare e territoriale.

È molto eloquente, in questo senso, la lettera di Jean Claude Trichet eMario Draghi sulle condizioni dettate al governo Berlusconi, come contropar-tita all’acquisto da parte della Banca Centrale Europea di una tranche di Titolidi Stato italiani. Lettera che, successivamente, si è trasformata nella pietraangolare degli avvenimenti che hanno condotto alla crisi politica, alle dimis-sioni di Berlusconi e all’incarico a formare il nuovo governo, affidato a MarioMonti. In quel documento non si esprimono pareri o si elargiscono consigli,come in un primo momento – finché sui contenuti della missiva si è riuscito amantenere un certo riserbo – si era cercato di far credere.

Spudoratamente si trasmettono precise disposizioni, come si usa fare conun dipendente: «Riteniamo essenziali le seguenti misure: [...] piena liberaliz-zazione dei servizi pubblici e dei servizi professionali [...] riformare ulterior-mente il sistema di contrattazione salariale collettiva [...] revisione dellenorme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti [...] antici-pare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottatenel pacchetto del luglio 2011 [...] intervenire ulteriormente nel sistema pensio-nistico [...] riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzandole regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi [...] riduzioneautomatica del deficit con tagli orizzontali sulle spese discrezionali». E ven-gono anche indicati gli strumenti legislativi che il governo dovrà usare: «Tuttele azioni indicate siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito daratifica parlamentare».

La Banca Centrale Europea è un ente a proprietà privata che dispone di ungrandissimo potere su tutte le economie europee, che si permette di inviare i

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propri ispettori a controllare il lavoro di ministri e parlamenti e arriva, come nelcaso della Grecia, a piazzare i propri uomini direttamente a dirigere i governidelle nazioni che hanno problemi di natura finanziaria. Al tempo stesso la BCErivendica, anche a nome di tutto il sistema delle Banche Centrali, «la più asso-luta indipendenza da qualsiasi istituzione politica».

Nell’art. 3 dello Statuto della BCE si legge: «Compito fondamentale dellaBanca è definire e attuare la politica monetaria della Comunità europea». Enell’art. 7 si legge: «Né la BCE, né una Banca Centrale nazionale, né un mem-bro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzionidalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri né daqualsiasi altro organismo».

Se ce ne fosse ancora bisogno, per mettere ulteriormente a fuoco la strananatura istituzionale della Banca Centrale Europea, è il caso di soffermarsi sudue altre questioni.

Innanzitutto tra le 27 banche centrali proprietarie della BCE ben dieci sonodi nazioni che non hanno aderito all’euro ed hanno continuato ad usare la lorotradizionale moneta; prima fra tutte la Banca d’Inghilterra che possiede il14,51% delle quote, ma continua a stampar sterline. Poi è significativo il fattoche la BCE abbia la facoltà di non render nota la quantità di denaro prodotta edi crediti erogati. D’altronde il «segreto» è una caratteristica che ha semprecontraddistinto tutti i «palazzi del denaro».

Nella conferenza stampa di metà settembre 2011, Trichet, invitato da ungiornalista a riferire sul dibattito interno alla BCE circa l’acquisto dei Titoli diStato, molto seccato ha risposto: «Mi stupisco, non sa che le riunioni dellaBCE sono assolutamente segrete?».

Una conclusiva domanda, a questo punto, penso sia doverosa.Se dunque non è il debito pubblico la matrice di tutti i mali, ma la mancanza

di sovranità monetaria; se non sono i governi a comandare, ma le banche; se lebanche sono dirette da uomini che nessuno ha eletto e nessuno può controllare;se le decisioni vengono prese nel segreto delle riunioni degli uomini del denaroe non nelle pubbliche sedute dei parlamenti; in cosa si sostanzia la tantodecantata democrazia?

Chi sono dunque i veri nemici dei diritti e della libertà dei popoli?Le considerazioni che ho qui esposto non sono state e non volevano essere

ragionamenti a carattere squisitamente economico, ma propriamente politico,perché ciò che è primario è stabilire che in uno Stato organico l’economia deveessere uno dei tanti strumenti utilizzati per il buon funzionamento della società,guidati da una politica espressione dei valori del popolo e della nazione. Laquantità della moneta da emettere o da «incenerire», il tasso di sconto, l’infla-zione e la deflazione, il debito pubblico, la gestione del credito e quant’altrosono materie che devono essere dibattute e studiate dagli economisti, ma soloin funzione del più ampio disegno gestito dalla politica nella costruzione dellasocietà e nella realizzazione del destino del popolo.

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Se, per un cataclisma o un tracollo finanziario fulminante o per un incante-simo, d’improvviso sparissero o perdessero completamente il proprio valoretutti i soldi del mondo, cosa accadrebbe? Indubbiamente un gran panico, unabatosta madornale per i risparmiatori e i creditori, un periodo di disoccupazionee di caos. Poi, e anche piuttosto velocemente, le cose si rimetterebbero in cam-mino, si comprenderebbe che case e fabbriche sono ancora in piedi, che i campisono pronti per essere arati, che i figli continuano a nascere, che la mattina ilsole sorge e la sera tramonta. Si ricomincerebbe a lavorare, a strutturarsi econo-micamente e si inventerebbe una nuova moneta.

È successo parecchie volte nella storia. Le vicende del marco ai tempi dellaRepubblica di Weimar ne sono un esempio. Per uno scellino o una lira o unfranco francese nel 1913 occorreva un marco. Nel 1923, solo dieci anni dopo,ne servivano mille miliardi. Si era scatenata quell’inflazione passata alla storiacome il «delirio dei miliardi». Per pagare il tram occorreva portarsi appressoqualche milione. Ogni mattina i giornali pubblicavano i prezzi del giorno, cheerano il doppio, il triplo, il quadruplo del giorno prima. Il marco era pratica-mente morto, si barattavano gioielli e mobili di casa per un sacchetto di salsiccee un po’ di pane.

Non passarono nemmeno altri dieci anni che l’economia tedesca prese aviaggiare a pieno ritmo e suscitare l’invidia dell’intera Europa. L’industria erarifiorita e il lavoro dei tedeschi aveva ritrovato forza ed efficacia. Il marco diWeimar era morto, ma il popolo e la nazione no.

Se una moneta non funziona più, se ne può creare un’altra: occorre averebene in mente, con concretezza, questa possibilità, quando si affrontano i temifinanziari ed economici nei momenti di grave crisi. Voltaire scrisse: «Le banco-note tornano, prima o poi, al loro valore intrinseco, cioè il nulla».

D’altronde oggi il mondo del denaro è palesemente impazzito: nell’ultimorilevamento reso noto – luglio 2011 – il governo degli Stati Uniti d’Americaaveva una disponibilità finanziaria inferiore a quella della Goldman Sachs, edella Bank of America, e della Morgan; persino la Apple e ben 29 banche dis-ponevano di una cassa più ricca di quella della Casa Bianca.

E quando tutto il potere viene assunto da chi manovra il denaro, i popolivanno in tilt, le nazioni si ritrovano allo sbando e si perde la stella polare dellaciviltà.

Quello del denaro è il mondo degli affari. Quando qualcuno fa un buonaffare vuol dire che possiede doti di furbizia e senso speculativo, ma anche chein giro c’è qualcuno che, specularmente, ha preso una bella fregatura. Nellesocietà organiche il ruolo di regolamentare la vita economica, controllandolegittimità e correttezza di scambi e rapporti, e tutelando anche i diritti dei piùdeboli, spetta al governo politico. Tutto questo si chiama civiltà.

Quando invece i poteri si confondono o addirittura, come oggi avviene, siribaltano, si torna alla legge della giungla, al prevaricare del più forte, del piùaggressivo e spregiudicato. Un potere gestito direttamente dai Signori del

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denaro non ha mai prefigurato alcuna civiltà: ha sempre preparato epocheoscure e dolorose.

Oggi la crisi mette in evidenza i limiti, le contraddizioni e le aberrazioni delpensiero unico del liberalismo e del mondialismo. Fino a ieri ci volevano addi-rittura convincere che la globalizzazione e la società multirazziale fossero cosebuone e foriere di benessere. Intanto hanno distrutto le economie locali, quellereali, che davano da mangiare ai popoli. Ci hanno strappato l’anima e hannovanificato il futuro dei giovani.

Anche chi vorrebbe tornare indietro scopre di essere ormai ridotto allo ste-rile ruolo di prestatore di servizi, in una economia dove i prodotti di base sonostati soppiantati dai cellulari, dai giochini e da un’informazione-spettacolotanto veloce quanto effimera. Per i bisogni primari siamo completamentedipendenti dalle multinazionali.

Una volta si diceva «bisogna adattarsi ai tempi nuovi» e si procedeva, fidei-sticamente convinti di andare verso un progresso pieno di cose belle e di benes-sere. Oggi no. Siamo in un cul de sac, lo scopriamo ogni giorno con maggiorechiarezza, ma vorrebbero ugualmente convincerci che, nonostante tutto, non visia una strada alternativa percorribile.

Dovremmo insomma rassegnarci e continuare a vivere da schiavi in unmondo governato dai Signori del denaro che, ormai sicuri del fatto loro, hannogettato la maschera e sono usciti dagli imponenti portoni dei loro palazzi. Con-seguentemente, il potere mondialista ha smesso di essere individuato solo dapochi analisti – che, come noi, per decenni sono stati tacciati di cospirazioni-smo e paranoia – e la pubblica opinione, con sempre maggiore fastidio, si starendendo conto di chi veramente comanda.

Persino sul The Economist, il cui editore è un assiduo frequentatore delgruppo Bilderberg, si legge che le decisioni «che contano», che determinano ifatti del mondo, non sono prese dai parlamenti, o dai governi, o nei grandi ver-tici internazionali, ma dal Council on Foreign Relations, dalla Trilateral, dalCarnegie Endowment for International Peace, dal Gruppo dei Trenta, dalgruppo Bilderberg, dal World Economic Forum di Davos, dalle grandi banched’affari internazionali, insomma, da una potente «élite globocratica».

Il fronte dello scontro si sta delineando con una chiarezza sempre maggiore:da una parte i popoli con la loro identità, storia, cultura, con il loro lavoro e laloro volontà di costruirsi un domani, dall’altra i Signori del denaro con le lorobanche e le loro riunioni segrete.

I cortei degli «indignados» hanno smesso di marciare contro i palazzi delgoverno e del parlamento, e puntano su Wall Street, sulle sedi della GoldmanSachs, su Palazzo Koch.

Nonostante il massiccio impiego dei mass media nell’addomesticare leinformazioni, si sta diffondendo la convinzione che occorre superare lo statusquo e molti temi, sinora considerati tabu, cominciano ad essere dibattuti.

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Nella zona euro si poteva benissimo non entrare. Le nazioni che hanno con-servato la loro moneta oggi stanno meglio di noi e subiscono meno ricatti. Dal-l’euro si può uscire e tornare alla lira, ad una lira di Stato!

Il debito pubblico lo si può bloccare e rifiutarsi di pagare gli interessi. A chimanifesta, in proposito, delle preoccupazioni moraleggianti, va ricordato che iTitoli in mano ai risparmiatori italiani sono una piccola minoranza – e perquelli si potrebbe anche prevedere un sistema di tutela – ma il «grosso» è dete-nuto dalle banche nazionali e internazionali, che sono le stesse che giocano coldenaro virtuale e praticano la truffa monetaria. Scriveva Gilbert K. Chesterton:«appropriarsi legalmente del denaro di un usuraio non è una rapina, ma ilrecupero di beni rubati».

L’Argentina l’ha fatto ed oggi procede con una nuova economia feconda ecostruttiva; in Argentina oggi si vive bene e la riconferma plebiscitaria di Cri-stina Kirchner alla guida del Paese è il simbolo di una nazione che ha ritrovatoil giusto equilibrio tra politica, finanza e lavoro, la fiducia in se stessa e nel pro-prio futuro.

L’Islanda ha messo alla porta gli ispettori del Fondo Monetario Internazio-nale e ha deciso di risolvere, da sola, i propri problemi. L’Ecuador ha ripudiatoil debito e smesso di pagare. La rivolta della Grecia rumoreggia: è alle porte.

Una volta chiarito, in modo inequivocabile, chi è il nemico dei popoli, lapolitica non potrà che prenderne atto e non, come fa ancora oggi, attardarsi aservire i poteri forti.

I Signori del denaro, in un delirio di potenza, si sono autoconvinti della dis-ponibilità dei popoli a rimanere passivi sudditi, schiacciati nell’angolo delleprogressive manovre «lacrime e sangue».

L’Alta Finanza internazionale è convinta che la spirale della crisi le porteràmaggiore supremazia e quindi, oltre a provocarla, infierisce e cerca di amplifi-carla. Laddove i problemi non si sono ancora manifestati – lo si può verificareogni giorno – pessimismo e allarmismo diffusi dai mass media – di proprietàdegli stessi che hanno generato la crisi – producono un effetto paralizzante. Ecoloro i quali vorrebbero ugualmente rimanere attivi, continuare a lavorare,intraprendere e costruire, si scontrano con il sistema bancario che, contravve-nendo ad ogni logica e legittima aspettativa, chiude – proprio quando ce nesarebbe maggiore bisogno – i rubinetti del credito.

Durante la grande crisi del 1929, di fronte ad una situazione analoga aquella odierna, il deputato statunitense Mc Fadden disse che «sono operazionicreate scientificamente per fare emergere la disperazione e fare in modo che ibanchieri internazionali possano impadronirsi di tutti noi».

Ma è proprio su tutto ciò che i Signori del denaro rischiano clamorosamentedi sbagliare: esiste infatti un punto limite oltre il quale i popoli non sono dispo-sti ad andare. E questo punto in molte zone del mondo è già raggiunto o lo sista raggiungendo.

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Possono allora arrivare i giorni della rivolta e, con essa, esprimersi nuove,giovani rappresentanze politiche. Un momento risolutore, capace di rimesco-lare le carte della storia e offrire ai popoli un futuro diverso. In quel momentole giovani rappresentanze politiche potranno trasformarsi in nuove, alternativeclassi dirigenti.

Allora, solo allora, si potrà verificare un autentico cambio di direzione e lerivolte potranno trasformarsi in rivoluzione.

Mario Consoli

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