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Delitti in Toscana. Le Verita, i Misteri, - Mario Spezi

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Mario Spezi

Delitti in Toscana

le verità, i misteri, le ipotesi

Prefazione di Piero Luigi VignaIllustrazioni di Mario Spezi

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Da codice a codice

Il libro di Mario Spezi si presta a letture di diverso e vario livello: il ripercorrere episodi, alcuni ormai lontani nel tempo che, pure, furono particolarmente significativi per l’interesse che accentrarono su un fatto di «cronaca nera»; l’offrire uno «spaccato», con la collocazione dei fatti narrati nel contesto socio-ambientale ove maturarono, di questa nostra Toscana dai primi anni Cinquanta a quelli della seconda metà degli Ottanta, andando da Livorno a Firenze attraverso Cortona, Arezzo e Pisa; ma, ancora, riproporre il dilemma, eterno per il giudice, di dover indicare una persona come colpevole o innocente e le difficoltà, sempre presenti, da superare per scioglierlo, per accertare, insomma, la «verità».

Su quest’ultimo punto vorrei soffermarmi.L’investigatore, il pubblico ministero, il giudice tendono all’accertamento della verità

reale, di quella, come si dice, con la «V» maiuscola, ma in realtà — e così deve essere — il loro punto di arrivo non può essere che la verità con la «v» minuscola, quella che gli strumenti, le forme e le regole del processo consentono di accertare.

È il rispetto del «giusto processo» quello che rende accettabile il suo esito alla collettività e che, dunque, mette capo ad una verità e ad un modo di render giustizia condivisibile in un certo momento storico.

Ogni sforzo va pertanto posto nell’individuare il «processo giusto» e la storia del processo penale negli ultimi secoli dimostra appunto questo sforzo e la relazione che intercorre fra i procedimenti conoscitivi del magistrato e la cultura del suo tempo.

Dapprima il problema di come ricostruire il fatto veniva risolto in termini assiomatici e, pertanto, il valore delle prove veniva predeterminato dalla legge ed il compito del giudice consisteva in una specie di somma algebrica: da qui le regole, di tempi ormai lontani, secondo cui la testimonianza dell’uomo prevaleva su quella della donna o secondo cui quella del laico cedeva a quella del chierico.

In un secondo momento e specie nel processo penale ove al problema logico si aggiunge quello morale di infliggere una pena, la verità «convenzionale» non viene ritenuta sufficiente ed appagante e si va alla ricerca di un terreno più sicuro che si pensa di poter trovare nella confessione. Chi, infatti, — si pensa — meglio dell’inquisito può sapere come sono andate davvero le cose, qual è la verità? Da qui il sistema inquisitorio che si risolve in una partita a due fra giudice ed imputato, visto, quest’ultimo, come il depositario di una verità da spremere, con qualunque mezzo. È il tempo del dominio della ricerca solitaria, da parte del giudice, della verità riposta nell’inquisito. Già (e a tacer d’altro): ma se l’inquisito è innocente? O se è un incallito delinquente che regge ad ogni pressione?

Ed ecco allora il terzo momento, quello aperto in pieno dal nuovo codice di procedura penale, con una scelta d’ordine non solo tecnico giuridico, ma filosofico, ove si ritiene che verità accettabile sia quella raggiunta mediante la partecipazione delle parti — pubblico ministero e difensore — nella formazione della prova. La verità non è raggiungibile solitariamente, ma in maniera dialettica: solo dallo scontro fra i portatori di diversi interessi che direttamente esaminano, in via incrociata (la cross-examination), l’imputato e le fonti di prova (testimoni, consulenti, periti) può giungersi, di fronte ad un

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giudice «non impegnato» lui stesso nella ricerca e quindi davvero terzo, all’accertamento della verità.

Si colloca, dunque, il libro di Mario Spezi, in questo particolare momento di novità processuale ed anche per tale ragione è stimolante nel riproporre alla nostra attenzione fatti di un tempo con i loro esiti, in taluni casi forse legati al tipo di processo che allora vigeva.

Certo la Toscana, pur se insula felix rispetto ad altri territori, è stata ed è attraversata anche da altre vene di criminalità, come quella terroristica o quella legata allo spaccio degli stupefacenti ed ai sequestri di persona e, dunque, la materia non mancherà al nostro autore per altre «rivisitazioni».

Piero Luigi Vigna

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Il caso Piram-BelliLivorno 26 novembre 1951

Cinema “Centrale”

ultimo spettacolo

Gli anni Cinquanta del crimine sono l’ultima pagina del libro nero scritto durante la guerra e negli anni immediatamente successivi alla sua fine; nello stesso tempo sono come i primi film gialli che arrivano nei cinema in quel periodo. Anzi, fin dalle prime battute la realtà ne anticipa le storie, i personaggi e le passioni che nella finzione li spingono al delitto.

Vengono ogni giorno lette sui giornali da milioni di appassionati lettori e lettrici cronache che tuttavia sembrano essere sopravvissute a un’epoca irrimediabilmente finita. Ci si appassiona alla sorte del diplomatico Grande, accusato di avere assassinato la bella moglie a Bangkok, e che in quel periodo viene processato a Bologna.

Colpevole? Innocente?Ancora una volta — una delle ultime — l’Italia si divide in due fazioni disposte a

darsi battaglia verbale nei caffè, nei salotti, negli uffici. Ma quell’intricata vicenda ha ormai inevitabilmente il sapore di un film datato, pieno di telefoni bianchi, di “boys” silenziosi che si aggirano in splendide ville esotiche disposti a dire sempre e solo “sissignore”, di aristocratiche dame ricoperte di seta e di diplomatici che sanno impeccabilmente portare cravatta e giacca anche ai Tropici.

Dietro le sbarre del tribunale di Viterbo si accalcano i membri della banda Giuliano, ucciso l’anno prima, si dice in un conflitto a fuoco con i carabinieri, anche se inchieste giornalistiche affermano che i fatti andarono in modo molto diverso. Ad assassinare nel sonno Turiddu sarebbe stato, prezzolato dalla polizia di Scelba, il fedele luogotenente e cugino Gaspare Pisciotta. Anche Pisciotta è sul banco degli imputati di Viterbo e, in quel finire del 1951, si aspetta la sua deposizione.

Dirà cose clamorose? Farà nomi di personaggi importanti e al di sopra di ogni sospetto? Qualcuno sta già preparando per lui un micidiale caffè, lo stesso che più di trenta anni dopo, in un altro carcere, ucciderà un altro siciliano, Michele Sindona.

Nel processo alla banda Giuliano si confondono due epoche diverse: c’è ancora la saga del bandito, anzi del brigante, che stabilisce il suo regno nelle campagne, che taglieggia, ruba, uccide anche per vendetta, che non sa che farsene, oltre a pagarsi la latitanza, dei soldi che accumula, che riesce ad amoreggiare con intrepide giornaliste nordiche calate fino in Sicilia per intervistarlo.

E ci sono, in quella buia storia, i primi misteri e veleni d’Italia: la strage di Portella delle Ginestre con il sospetto di strumentalizzazione politica di un fenomeno di malavita; i “corvi” che svolazzano tra i cadaveri pronti a seminare pericolosi dubbi che hanno gli stessi effetti destabilizzanti di un attentato; le deviazioni di certi organi di polizia legati a carri politici che a loro volta agiscono solo su mandato e interesse di potentati economici; c’è la Sicilia che da terra di mafia rurale si sta trasformando nella casa madre della

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multinazionale Cosa Nostra, con il conseguente enorme giro di capitali, di droga, di insospettabili connessioni.

A Roma viene processato il “mostro di Primavalle” Lionello Egidi, accusato di avere seviziato e ucciso una bambina e anche questa vicenda è emblematica del passaggio da un’epoca a un’altra: da un lato antiche storie di “orchi”, di uomini cattivi che portano via i bambini; dall’altro un primo esempio di delitto maniacale che la propaganda fascista aveva insegnato che avveniva solo all’estero, specie nei paesi anglosassoni, e che le cronache, purtroppo, ci diranno che alligna a qualsiasi latitudine, diffondendosi con maggiore facilità con l’aumento del benessere e del parallelo disagio della società.

L’Italia di quegli anni somiglia ai film neorealisti di Rossellini e di De Sica, tutta in bianco e nero, con sullo sfondo ogni tanto qualche maceria della guerra e, in primo piano, bene ostentati i primi segni di un benessere prossimo venturo: una Topolino, un appartamento moderno, una vacanza al mare. Ci si interessa di nuovo allo sport, ma anche al calcio facciamo la figura di chi ha appena perso la guerra: a Lugano riusciamo appena a pareggiare — grazie a un gol di un certo Boniperti — contro i cadetti della Svizzera, sicché un giornale scrive che quegli undici più che azzurri sembrano grigi.

Dà maggiore soddisfazione l’automobilismo dove gareggiano nomi per i quali erano già aperte le porte della leggenda: nell’edizione del 1951 della Carrera Panamericana vince Taruffi, secondo è Ascari.

Se in Corea imperversa la guerra e le truppe dell’Onu tentano di superare il trentottesimo parallelo, in Italia è di nuovo tragedia e disastro dei quali viene accusata la natura, ma che sono frutto del malgoverno e della scarsità di mezzi. Il Po rompe gli argini e dilaga nelle campagne; Adria è completamente allagata; la gente abbandona in massa le zone su ogni mezzo e sembra tornato lo spettro della guerra con le masse di sfollati.

La vita di ogni giorno, anche a chi è più fortunato di altri, non appare quasi mai a colori; gli orizzonti sono stretti e fanno sognare che al di là sia tutto più bello, più colorato, più possibile. Non ci sono i film americani a dircelo?

Molti giovani in quel tempo sognano di passare quegli orizzonti, magari con qualsiasi mezzo. Ancora pochi anni e quell’ansia verrà descritta in maniera esemplare in un film francese che avrà un grande successo (e scandalo) e che sarà, per certi versi, emblematico di quel tempo: “Peccatori in blue jeans”, in cui un gruppo di ragazzi, che sognano esotiche felicità, uccidono un loro ricco parente, collezionista di francobolli, per potere così scappare dalla grigia quotidianità degli anni Cinquanta, che pure per loro, era a Parigi.

La sensazione, comune a molti giovani, di vivere dentro una campana di piombo, di essere defraudati di una facilità di vita che scambiavano per felicità era diffusa quasi ovunque in Europa. La guerra, con la sua immoralità, aveva lasciato un’eredità di violenza. Nasceva il crimine moderno, fatto per denaro, per un miraggio di vita intravisto in una pellicola o in un fotoromanzo, per avere un benessere subito e facilmente.

Non faceva differenza, in quel senso, che si vivesse a Parigi o a Livorno.C’erano due giovani a quel tempo a Livorno, che erano molto amici e che agli occhi di

tanti altri saranno sembrati fortunati, molto fortunati. Alti, belli, sui 26 anni, potevano condurre una vita meno grigia di tanti altri loro coetanei.

Uno dei due, Aldo Piram, che tutti chiamavano Tullio, aveva addirittura un’automobile. Aveva sposato la figlia di Corrado Gragnani, uno dei personaggi più noti

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di Livorno anche perché proprietario di sale cinematografiche, tra le quali anche il frequentatissimo “Centrale”. Già benestante di suo, Piram poteva permettersi una vita un po’ da playboy e un po’ di lusso, con una propria scuderia di cavalli che gli costava un occhio della testa.

Il suo migliore amico Mario Belli era il cineoperatore del “Centrale”: certo meno ricco di Piram, ma tuttavia senza problemi economici. Avere un lavoro a 25 anni era già molto all’epoca e dove Belli non sarebbe arrivato con i propri mezzi, avrebbe supplito l’amico…

Si diceva, allora a Livorno, che Tullio Piram avesse fatto non pochi debiti per via della sua passione per i cavalli, ma la faccenda era rimasta a livello di diceria. D’altra parte, tra suocero, padre — anzi il patrigno, commendator Ferrara — e i fratelli, due dei quali erano stimati medici, avrebbe potuto uscire con limitata difficoltà dai suoi eventuali problemi.

Belli non era in quella posizione, non aveva bisogno di denaro per necessità inderogabili e con quello che guadagnava poteva anche spassarsela a Livorno.

Chissà quanti film, però, avrà visto dalla sua stanzetta di cineoperatore, quanti luoghi di sogno avrà ammirato sul lenzuolo bianco del “Centrale”; chissà quante volte i due amici ne avranno parlato insieme nelle tarde passeggiate invernali?

Era circa l’una di notte del 26 novembre 1951 quando la guardia giurata Petroni, nel suo giro in bicicletta, passò accanto a una delle porte secondarie del cinema “Centrale”. La porta era solo accostata, faccenda che lo preoccupò moltissimo, tanto che scese dalla bici, l’appoggiò al muro e, con una certa circospezione si avvicinò. La sua preoccupazione divenne allarme quando sentì dietro quella porta venire dei lamenti, poco più che gemiti, come se qualcuno fosse ferito gravemente.

Petroni entrò e seguendo il filo dei lamenti arrivò in una stanzina, forse l’ufficio del cinema, dove a terra, il cranio fracassato su una larga macchia di sangue, era un uomo che stava per morire. Accanto era una spranga di ferro anch’essa sporca di sangue cui era rimasto attaccato un ciuffo di capelli bianchi, come quelli dell’uomo che agonizzava sul pavimento.

L’ambulanza portò il moribondo all’Ospedale Civile, dove i medici si resero subito conto che salvarlo sarebbe stata un’impresa disperata. L’assassino lo aveva colpito quattro o cinque volte con il pesante bastone di ferro sfondandogli il cranio.

L’uomo fu identificato per Marzio Marzi, 61 anni, che al “Centrale” faceva un po’ da maschera, un po’ da guardiano, tanto che spesso restava a dormire nel cinema.

La polizia vide che dalla cassa era sparito il denaro che, stando ai registri, doveva assommare a circa un milione e trecentomila lire, una discreta cifra per quei tempi. Una rapina, dunque.

Nel suo ufficio era, nonostante la tarda ora, il questore Carmelo Marzano, personaggio mitico della polizia. Era lui che aveva arrestato Gaspare Pisciotta, il luogotenente e l’assassino di Salvatore Giuliano, il personaggio che dalla gabbia delle Assise di Viterbo teneva mezza Italia con il fiato sospeso per le rivelazioni che aveva annunciato.

Dicono che Marzano soffrisse di insonnia e che piuttosto che girovagare per casa, preferiva andarsene a passare le sue notti bianche in questura, se non altro a sbrigare lavoro e, esaminando fascicoli e dossier, fare il detective, cosa che lo appassionava più di ogni altra.

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Fu così che quella notte del 26 gennaio 1951 decise di assumere in prima persona l’indagine per il delitto del “Centrale”.

Per prima cosa Marzano andò all’ospedale per verificare le condizioni di Marzi e vedere se era possibile interrogarlo per saperne qualcosa. I medici lo sconsigliarono persino di entrare nella stanza dove il pover’uomo stava sicuramente vivendo gli ultimi minuti della sua vita. D’altra parte, gli dissero, non era in grado di parlare e, forse, neanche più di comprendere.

Marzano entrò ugualmente per accertarsi che le cose stessero davvero in quel modo. Forse, gli parve, qualche tenue reazione Marzi l’aveva avuta vedendolo entrare.

Bisognava agire in fretta, prima che la morte arrivasse. Il ragionamento di Marzano fu gelido, forse cinico, ma non sbagliato.

Marzi era stato ucciso durante una rapina, ma scopo dei responsabili non doveva essere stato quello di ammazzarlo. Doveva essere stato un incidente, un imprevisto, tanto che anche l’arma usata sembrava piuttosto di fortuna, raccattata sul posto.

C’era ragionevolmente, un solo motivo per cui dei rapinatori si fossero trasformati in assassini: essere stati riconosciuti. Quindi i responsabili dovevano essere dell’ambiente del “Centrale”, compagni di lavoro di Marzi o, comunque, da lui conosciuti.

D’altra parte chi aveva organizzato la rapina doveva conoscere bene il cinema, doveva sapere che i soldi non venivano portati fuori fino al giorno dopo, doveva sapere dove venivano custoditi. Soprattutto doveva avere una possibilità di entrare nel cinema dopo l’orario di chiusura. O, forse, restarci da prima.

Una conferma al ragionamento di Marzano venne dalla scoperta che la porta della stanza della cabina di proiezione era stata trovata aperta: c’era da supporre che l’assassino si fosse nascosto là e avesse aspettato la chiusura del cinema e che Marzi andasse a dormire per uscire e andare a prendere i soldi.

Marzi doveva avere sentito qualcosa, doveva essere andato a vedere che cosa succedeva e, riconosciuto il ladro, sarebbe stato selvaggiamente aggredito perché non parlasse più.

Ma, seppur per poco e nonostante i medici la pensassero diversamente, per il questore, Marzi poteva ancora dire qualcosa.

Fu deciso allora quello che probabilmente resterà come il più drammatico riconoscimento negli annali della polizia italiana. Marzano sguinzagliò le sue auto perché andassero a casa di tutti i dipendenti del “Centrale”, li tirassero giù dal letto e li portassero all’Ospedale Civile. Erano in tutto una mezza dozzina di persone, tra le quali, naturalmente, anche l’operatore Mario Belli.

Il questore Marzano, con un funzionario della questura e un paio di agenti, si mise accanto al letto dove giaceva Marzio Marzi. Non guardava chi veniva fatto entrare nella stanza, ma teneva gli occhi fissi sul volto sofferente del moribondo, pronto a cogliere un minimo cenno che potesse essere interpretato come un riconoscimento. Mise il viso vicino a quello di Marzi, per poter cogliere anche la più flebile voce.

Uno alla volta i dipendenti del “Centrale” vennero fatti entrare e sostare ai piedi del letto di Marzi che stava giocando l’ultima partita con la morte.

Entrò il primo, ma Marzi sembrò neanche guardarlo, quasi fosse completamente indifferente a quello che avveniva attorno a lui.

Marzano a bassa voce, ma con decisione, lo incitava a guardare e a indicare il suo

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assassino. I medici fuori della stanza scuotevano la testa. Quello che accadeva là dentro era decisamente contrario alla loro deontologia. Ma con il questore Marzano c’era ben poco da discutere. E, poi, erano altri tempi.

Entrò il secondo e si commosse nel vedere il compagno di lavoro ridotto in quello stato. Marzi socchiuse gli occhi ma il velo opaco che separava ormai la sua mente dal mondo non si alzò. Marzano continuava a sollecitarlo, a suggerirgli di riconoscere chi aveva voluto ucciderlo.

Entrò il terzo. Marzi girò la testa da una parte, lo sguardo perso dentro il bianco della parete.

Poteva avere senso quella drammatica corsa contro la morte? Che significato avrebbe potuto avere un gesto, una parola del moribondo? Avrebbero potuto essere interpretati come una prova per accusare una persona di omicidio?

A tutte queste cose sicuramente anche Marzano doveva avere pensato. Ma lui non voleva una prova legale da quel povero moribondo, non voleva un elemento da potere esibire in un processo. Aveva troppa esperienza per non capire che qualsiasi avvocato l’avrebbe smontato in pochi minuti e nessun giudice avrebbe condannato alcuno sulla base di una prova tanto labile.

Marzano voleva un indizio, un suggerimento per avviare l’indagine. Marzi gliela doveva fornire prima di morire. A trovare le vere prove avrebbe pensato lui.

Entrò il quarto, Mario Belli, l’operatore del “Centrale”. Con il viso bianco e teso guardò il volto massacrato di Marzi. Il questore gli suggerì il nome di Belli all’orecchio. «È lui?» insistette.

Fu allora che Marzi si agitò, che cercò addirittura di alzarsi sui cuscini. Tentò di alzare la mano destra, riuscì appena a smuoverla, guardò Belli, aprì la bocca e cercò di farne uscire dei suoni, gli occhi si sgranarono. Poi, di schianto, ricadde indietro e non si mosse più. Gli occhi vitrei rimasero fissi sul soffitto. Era morto.

Marzano, e con lui nessun altro, poteva essere sicuro che quello che era avvenuto fosse stato un riconoscimento. Avrebbe potuto benissimo essere la tragica ultima convulsione di un moribondo ferito alla testa.

Ma a quel punto Marzano non aveva altro in mano e decise di giocare quella carta, che forse non valeva niente, come fosse l’asso di briscola. E bluffò.

Afferrò Belli per un braccio, come si prende un colpevole, e lo affidò ai suoi agenti ordinando di portarlo immediatamente in cella di sicurezza in questura. Il viso di Belli era sgomento. Accennò vagamente una protesta.

Marzano non sapeva se aveva l’assassino, ma aveva un punto di partenza. Forse, nella stessa notte dell’omicidio, avrebbe risolto il caso.

Albeggiava quando nello stesso suo ufficio Marzano cominciò l’interrogatorio di Mario Belli. Un interrogatorio stringente, come si usava dire in quei tempi. La resistenza dell’operatore durò poco.

Improvvisamente crollò e non solo ammise di essere l’assassino, ma indicò anche il nome del complice nella sciagurata rapina e fu un nome che fece subito sensazione, anche negli uffici della questura.

Tullio Piram era un personaggio conosciutissimo a Livorno, il genero del proprietario del cinema “Centrale”, frequentatore di ambienti mondani e sportivi, parente di personalità in vista della città. Anche Piram fu prelevato a casa, dove viveva con la

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giovane moglie e la bambina nata da poco. E anche lui crollò dopo poco, anche se negò di essere stato lui ad avere materialmente colpito Marzi. Belli, da parte sua, indicò anche dove aveva nascosto il denaro rubato, che fu trovato in una cassettina sotto terra nel cortile di casa sua.

Il giorno dopo la sensazione in tutta Livorno fu enorme. Le generalmente avare cronache di questo genere di atti in quei tempi furono tuttavia più generose, anche se non esisteva nei «media» quel gusto dello scandalismo che poi avrebbe fatto la fortuna di un certo tipo di stampa. Al rigore delle informazioni, per così dire ufficiali, si suppliva a Livorno nei caffè e nei salotti aggiungendo tutta una serie di particolari e di interrogativi ai quali si cercava di dare le più diverse risposte.

Certo, si diceva, Piram aveva tentato di rubare l’incasso del “Centrale” perché sommerso dai debiti dovuti alla sua passione per i cavalli; ma perché Belli avrebbe dovuto seguirlo? Che interesse aveva?

Doveva esserci un altro movente dietro a quel delitto.

Una serie di circostanze fece sì che appena otto giorni dopo Piram e Belli comparissero in corte d’assise che fu presa letteralmente d’assalto dal pubblico, tanto che molte persone seguirono il processo stando nelle vie adiacenti e sentendone le cronache improvvisate passate di bocca in bocca. Una settimana, più che scemare l’interesse per il caso, lo aveva solo alimentato. C’era poi il fatto che quello sarebbe stato il primo processo a Livorno nel dopoguerra amministrato da giudici italiani. Le vicende di Tombolo, la situazione particolare della città portuale avevano fatto sì che essa fosse l’ultima dove a condannare o a assolvere erano stati gli Alleati, anche in questioni di giustizia normale.

Si riapriva, quindi, quel grande teatro che inevitabilmente è ogni tribunale e la «prima» livornese era quanto mai interessante.

In aula i due amici divennero nemici. Piram raccontò che l’idea di fare il furto era stata di Belli. Avevano bisogno di denari per pagare dei debiti, ma contavano di restituirlo appena fosse stato loro possibile.

Secondo Piram, Belli la sera del 26 novembre, finito l’ultimo spettacolo, invece di uscire dal cinema, si era nascosto nella cabina di proiezione aspettando che tutto fosse calmo. Quando pensò che Marzi era andato a dormire, scese e da una porta di servizio fece entrare anche Piram.

Per andare alla cassa avevano bisogno di prendere le chiavi che si trovavano nello stanzino dove Marzi riposava. Dovettero fare del rumore che svegliò il guardiano. Marzi afferrò la pistola e grande fu il suo stupore quando vide che a volere rapinare il cinema erano l’operatore e soprattutto il genero del proprietario. Li conosceva bene tutti e due e, forse, più che minacciarli cominciò a gridare allo scandalo, alla vergogna. Disse Piram in corte d’assise che Belli perse la testa e cominciò a colpire Marzi con la sbarra di ferro, mentre lui stava a guardare senza potere intervenire.

Fu allora che Belli decise di legare il suo ex amico al suo carro: «Quando ormai Marzi era a terra, ma solo ferito e io avevo smesso di colpirlo — disse ai giudici — Piram insistette perché lo finissi dicendo che era meglio che morisse e non parlasse più».

Tra i due ci fu un drammatico confronto: Piram scoppiò a piangere, si agitò sulla sedia, fece anche il gesto di volere aggredire Belli, lo scongiurò di ritrattare quello che aveva detto. Belli rimase impassibile, freddo, indifferente. Confermò le sue accuse.

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Due giorni dopo fu decisa anche una ricostruzione del delitto sul luogo dove era avvenuto. La polizia ebbe difficoltà a contenere la folla che voleva vedere quello spettacolo.

Qualcuno notò che Piram, in manette, passando sotto le finestre di casa sua, guardò in su e vide dietro una persiana accostata la giovane moglie che gli mandò un saluto portando la mano alla bocca.

Anche durante la ricostruzione, Belli non cambiò una virgola a quanto aveva sostenuto trascinando così Piram nella sua stessa rovina.

Del delitto di Livorno un aspetto fondamentale non è mai stato completamente chiarito: il movente. Se davvero Piram aveva bisogno di soldi, che interesse aveva avuto Belli?

Il sogno di evasione dai grigi anni Cinquanta di Mario Belli e Tullio Piram non durò neanche una notte. Furono entrambi condannati a trenta anni di carcere.

Quando, una decina di anni fa, ne uscirono, quel periodo era ormai storia.

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Don CaloniCortona 29 gennaio 1956

Il “Bobo nero” e l’apiolo verde

Una mattina del gelido dicembre 1955, che sembrava che la Siberia si fosse trasferita a Cortona, il parroco della chiesa di San Filippo attraversava la piazza, spazzata da un vento crudele, per andare alla Curia dove aveva chiesto un colloquio con il vescovo Monsignor Franciolini. La sua faccia era contratta in una smorfia che sembrava di dolore e non si sapeva se per il freddo, tagliente come cento lame, o per il motivo di quel colloquio che da qualche tempo lo tormentava. Doveva parlare al vescovo di un altro prete, il parroco della canonica di San Marco, don Amilcare Caloni, sul cui conto in tutta Cortona circolavano voci poco lusinghiere che certamente erano entrate anche nei severi ambienti della Curia.

Di Don Caloni, un prete piccolo e magro di trentasette anni, con un paio di spesse lenti divise da un lungo e tagliente naso, uno sguardo profondo e inquietante, labbra carnose e solo le orecchie a sventola che rendevano meno drammatico quel volto, si dicevano molte cose. Si sapeva che si dava da fare con un commercio di sigarette, di biancheria, di macchine fotografiche, arrivate anch’esse in Italia di contrabbando, e che rivendeva a prezzo assai caro, tanto che aveva avuto anche una vivace discussione con un suo concorrente che, tenendo i prezzi più bassi, «gli rovinava il mercato»; ma si parlava, neanche troppo a bassa voce, di una condotta molto poco sacerdotale di don Caloni nei confronti delle donne, in particolare di una servetta, Celeste Palustri, e più recentemente di una vedova di mezza età, Maria Lorenzini.

E tuttavia non era di queste cose, o non direttamente di esse, che il parroco di San Filippo voleva parlare quel giorno con il suo vescovo. Il prete aveva scoperto che don Caloni aveva commesso, nell’esercizio del suo ufficio sacerdotale, una scorrettezza, forse un illecito, fatto di per sé non grave, ma che poteva apparire gravissimo se solo si andava a ipotizzare i motivi per cui si era comportato in quel modo.

Tre anni prima, dunque, don Caloni aveva celebrato nella sua canonica il matrimonio di Celeste Palustri con un soldato polacco rimasto in Italia dopo la guerra, un certo Antonio Marchic. Grazie a quel matrimonio la servetta aveva dato un padre al piccolo Ugo, nato l’anno precedente a Perugia dove, diceva la donna, era a servizio presso una famiglia.

Ma quel matrimonio era strano e per più motivi: non solo nessuno aveva mai visto lo sposo; non solo nessuno vi aveva assistito; non solo era finito perché 15 giorni dopo Antonio Marchic, con la scusa di una breve visita in Polonia, era partito e non era più tornato; ma soprattutto perché, agli occhi del parroco di San Filippo, era stato celebrato nella canonica di San Marco e non nella sua chiesa come prescriveva il regolamento canonico.

Considerate le voci che a Cortona circolavano sui rapporti tra don Caloni e Celeste Palustri, c’erano motivi sufficienti perché il vescovo Franciolini disponesse una piccola inchiesta sull’episodio segnalatogli dal parroco di San Filippo.

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Anziché portare luce, l’indagine presentò nuovi elementi di dubbio sul comportamento di don Caloni. Si scoprì subito che le nozze tra Celeste Palustri e il soldato polacco Marchic erano state celebrate senza che fossero state esposte le pubblicazioni, un’ anomalia che avrebbe potuto essere spiegata se la stessa curia avesse concesso una speciale dispensa a don Caloni. Ma negli archivi del vescovado non c’era traccia della dispensa.

Monsignor Franciolini, vescovo di Cortona, decise che era arrivato il momento di un chiarimento con don Amilcare Caloni e lo convocò in Curia. L’incontro dovette essere abbastanza penoso per entrambi, anche se il giovane parroco cercò di superare le contestazioni facendo ricorso al suo carattere vivace, alla sua facilità di parola e, soprattutto, alla sua fantasia.

Quando monsignor Franciolini contestò a don Caloni l’assenza delle pubblicazioni per il matrimonio tra Celeste Palustri e il soldato polacco, don Amilcare rispose sicuro di avere chiesto la dispensa all’arcivescovo di Perugia monsignor Vianello e di averla ottenuta.

«Ma benedetto figliolo — gli rispose monsignor Franciolini — sai che non potevi fare così, sai che la dispensa rilasciata da altra diocesi non aveva validità».

Don Caloni rispose che in un primo momento il matrimonio avrebbe dovuto essere celebrato in Umbria e che solo successivamente la ragazza decise di spostarlo a Cortona.

Lui prese per buona la dispensa rilasciata dal vescovo umbro. Intanto, però, il vescovo di Perugia Vianello era morto e non era possibile fare una verifica.

Il colloquio tra don Caloni e monsignor Franciolini si interruppe lì. Ma il vescovo non considerava certo chiusa la storia. Decise di sviscerarla fino in fondo e per fare questo avrebbe parlato proprio con Celeste Palustri. Nella sua agenda il vescovo fissò come data dell’incontro il lunedì 30 gennaio 1956.

Celeste Palustri era quella che, nell’Italia agricola degli anni Cinquanta, poteva essere definita una bella ragazza: ventotto anni, piuttosto robusta e di temperamento vivace. Ma era soprattutto una ragazza sfortunata, con una nascita oscura alle spalle, un’infanzia e un’adolescenza segnate da quell’evento che ne avevano fatto una persona incapace di dirigere la propria vita senza dovere fare ricorso alle persone che le stavano attorno e sognando sempre impossibili uscite dalla sua banale realtà verso un mondo che intravedeva solo in sogno o sui fotoromanzi.

Celeste era un’orfanella e a Cortona si diceva che era figlia di un fratello del padre di don Caloni e di una donna napoletana che, subito dopo la nascita, l’aveva abbandonata. Celeste e don Amilcare sarebbero stati, dunque, cugini.

A due anni e mezzo la bambina era stata adottata dallo spazzino di Cortona Giovanni Bucci.

I Bucci, che pure avevano altri figli, avevano allevato Celeste come fosse loro. L’avevano mandata a scuola, ma lei non aveva dimostrato tanta voglia di studiare, così che quando ebbe 12 anni e le spese per mantenere la famiglia furono tante la bambina capì che doveva rendersi utile: le fu concesso di andare a servizio da una famiglia di Bettolle, un paesino vicino a Cortona.

Celeste ci rimase qualche tempo e poi tornò a casa e così, interrompendo spesso i lavori che intraprendeva, crebbe diventando una bella ragazza. Lavorò a Roma, in alta Italia, a Perugia. E fu proprio qui che nacque il piccolo Ugo. Celeste non disse niente ai genitori adottivi che seppero di essere nonni solo un anno dopo, quando ormai il bambino

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già camminava.Quando agli esterrefatti Bucci fece vedere Ugo aggiunse: «Sapete? Mi sono sposata.

Mio marito è un polacco, ora è tornato a casa per qualche giorno, quando torna ve lo farò conoscere. Il babbo del bambino è lui».

Ovviamente i Bucci rimasero molto, molto perplessi a sentire quella storia, ma i loro dubbi furono cancellati da don Caloni che mostrò loro il certificato del matrimonio con il soldato Antonio Marchic e che, disse, proprio lui aveva celebrato qualche settimana prima.

Di don Caloni i Bucci avevano fiducia: il sacerdote aveva cominciato a interessarsi della ragazza circa un anno avanti; sapeva che Celeste non aveva una vera famiglia, ma sapeva anche che era una sua parente; la cura della fanciulla gli era stata raccomandata dai suoi stessi familiari. Celeste si appoggiò molto al prete e, quando divenne madre, portò frequentemente il piccolo Ugo dal parroco che lo teneva spesso anche a dormire. Il bambino finì per chiamare il prete «zio».

La prima ad avere saputo come stavano effettivamente le cose era stata Stella Catorcioni, la migliore amica di Celeste. Le due ragazze si erano conosciute alcuni anni prima a Roma dove entrambe erano a servizio: cortonesi tutte e due, strinsero presto amicizia.

Sapeva Stella, per esempio, che a Perugia Celeste abitava in un appartamento che le era stato comprato da don Caloni e, ovviamente, che il sacerdote era il vero padre di Ugo. Sapeva che in quel gelido gennaio 1956 Celeste era di nuovo incinta di circa 3 mesi e che il padre del nascituro era di nuovo don Caloni.

Sapeva anche che negli ultimi tempi i rapporti tra i due si erano piuttosto deteriorati, sembra per colpa di don Caloni che mostrava un interesse eccessivo per la vedova Maria Lorenzini, tanto che Celeste era diventata molto gelosa.

Una volta la «ragazza del prete», come ormai a Cortona tutti chiamavano la Palustri, confidò a Stella Catorcioni che don Caloni aveva venduto i mobili della casa di Perugia e non le aveva dato niente del ricavato.

«Io me lo immagino — le disse Celeste — dove sono andati a finire questi quattrini. Ma che cosa posso fare? Vuol dire che mi troverò un servizio e andrò via. E sai una cosa? Lui voleva vendere anche la casa di Perugia, ma io gli ho detto che non si provasse neanche: quella era per il bambino, se la vendeva doveva comprarne un’altra, questa creatura quando sarà grande, sennò, che cosa fa, sta per la strada?».

Un’altra volta Celeste andò a casa di Stella, alla periferia di Cortona, e le disse: «Ma lo sai che quel bobo nero è geloso? Non vuole che io vada a Roma e soprattutto non vuole che ci porti il bambino. Ma io non glielo lascio davvero. Ora a Roma gli cerco un collegio, fra una quindicina di giorni ritorno e me lo porto via. Sai che mi ha detto lui? Il bambino non lo porterai. E io gli ho risposto: e tu cosa farai per impedirmelo? Te ne accorgerai, mi ha detto. Ma dai retta a me, gli conviene lasciarmi tranquilla, perché sennò quando torno a prendere Ugo vado dal pretore, gli racconto tutto, e gli farò mangiare anche le unghie».

Quest’ultimo colloquio si svolse la mattina di domenica 29 gennaio 1956, il giorno prima dell’appuntamento che il vescovo di Cortona Franciolini si era fissato con Celeste Palustri per chiarire la vicenda del suo misterioso matrimonio e dei suoi rapporti con don Caloni.

Ma quell’appuntamento non ebbe mai luogo: domenica 29 gennaio fu l’ultimo giorno

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di vita di Celeste.La notte tra domenica 29 e lunedì 30, una notte di nubi nere dalle quali, fitta, cadeva

una pioggia che non lasciava tregua e con il termometro che sfiorava i 10 gradi sotto zero, un contadino che era stato a veglia in una casa colonica non lontana dalla sua, al di là del fiume Esse, poco più di un torrente, tornava a casa a piedi e nel riattraversare il ponte dell’Ossaia notò qualcosa di insolito sulla spalletta. Accuratamente piegato e anche abbottonato c’era un cappotto da donna e, accanto, un paio di scarpe pure da donna.

L’uomo guardò giù dal ponte e vide qualcosa di pallido, quasi bianco in mezzo alle acque nere, proprio accanto al greto. Era senz’altro un corpo umano. Il contadino di corsa ritornò sui suoi passi a chiamare gente.

Riversa, la gonna blu alzata fin quasi alla vita, la gamba destra impigliata in un arbusto che la tratteneva ancorata alla riva, senza più vita, era Celeste Palustri.

Non sembrava avesse ferite, a parte un avallamento sulla fronte provocato probabilmente dall’urto contro un sasso dopo la caduta dal ponte. La morte, disse il medico condotto dottor De Judicibus doveva risalire a sei, sette ore prima.

Se la scena, il luogo, la posizione del cadavere e l’assenza di ferite suggerivano immediatamente l’ipotesi del suicidio, altri elementi lo negavano in maniera categorica. In primo luogo le scarpe della povera Celeste trovate sulla spalletta del ponte dell’Ossaia: erano bagnate, certo, ma pulite, senza neanche un grumo di fango. Quindi la ragazza non era venuta a piedi fino al ponte, ma sicuramente ci era stata portata con un’automobile. Non solo: poiché l’ora della morte doveva risalire a molte ore prima a quella del ritrovamento del cadavere, bisognava dedurne che Celeste era già morta quando era stata buttata giù dal ponte.

Già, ma morta come? Il cadavere non aveva alcuna ferita, né si potevano vedere segni di soffocamento o di strangolamento. La risposta venne durante l’esame necroscopico: sul braccio destro di Celeste fu trovato il minuscolo segno di un ago, di una puntura endovenosa fatta sicuramente il giorno della sua morte.

Veleno?Nel cappotto di Celeste furono trovate alcune fotografie del piccolo Ugo, quasi sempre

ritratto assieme a un grosso cane lupo, il cane di don Caloni.C’erano poi due biglietti: uno su cui era tracciato un indirizzo di Roma, probabilmente

quello della famiglia dove Celeste contava di lì a poco di andare a servizio; l’altro con l’intestazione di un’ostetrica di Firenze.

Gli inquirenti nominarono dei periti con l’incarico di stabilire se una sostanza tossica, ed eventualmente quale, fosse stata iniettata nel braccio di Celeste Palustri. I periti chiesero 40 giorni di tempo per rispondere.

L’inchiesta, intanto, non poteva aspettare. Ovviamente essa partì cercando di ricostruire il più precisamente possibile l’ultima giornata di vita di Celeste.

L’indagine, quindi, si trasferì subito nella canonica di San Marco, quella di don Amilcare Caloni. Tutto portava là: le fotografie trovate nelle tasche di Celeste, le voci popolari sulla relazione tra il prete e la servetta, e, soprattutto, la circostanza che l’ultima volta che Celeste era stata vista era proprio in casa di don Caloni.

Quella domenica Celeste si era alzata molto presto, alle 6, fatto che le succedeva di rado, anzi, come dissero i genitori adottivi, forse non le era mai accaduto prima. Era molto allegra e, incontrato il patrigno in cucina, gli disse, «Babbo, oggi voglio essere felice, voglio proprio fare festa, vai a comprare i tortellini e il dolce».

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Che cosa rendeva la ragazza tanto felice? Che cosa c’era da festeggiare?Gli inquirenti segnarono i due interrogativi sui loro taccuini: bisognava trovare le

risposte.Dopo pranzo, che allegramente Celeste aveva aiutato a preparare, la ragazza uscì.

Erano circa le 16 e fu vista passeggiare, apparentemente con l’aria di chi non ha niente altro da fare, per le vie di Cortona. Alle 17 andò al cinema «Berrettini», poco lontano dalla piazza principale, ma non entrò per vedere il film; si fermò a parlare con la cassiera, Ada Pichi, che era sua amica e che abitava al piano di sopra all’abitazione dei Bucci. Parlarono del più e del meno, ma anche, seppure di sfuggita, di don Caloni. La Pichi avrebbe riferito che Celeste ne parlava con disprezzo, ma che comunque non si lasciò andare ad alcuna confidenza. Quando Celeste lasciò il cinema «Berrettini» era sempre di ottimo umore.

Ma solo mezz’ora dopo la ragazza era completamente cambiata: alle 17,30 entrò nella canonica di San Marco visibilmente eccitata, anzi, nervosa. Lo notarono tutti i parrocchiani che a quell’ora erano nel salotto di don Caloni per giocare a tombola. C’erano Secondo Caprini, Giuseppe Torresi con la sua fidanzata, Benito Bucci, fratellastro di Celeste, la «Menchina», una vecchia zia di don Caloni che gli faceva da perpetua, una donnetta piccina piccina la quale, dopo la tragedia prese a difendersi dalle domande indiscrete, alle quali d’altra parte non aveva con molta probabilità niente da rispondere, dicendo: «Che volete da me? Io sono grulla!», e Pasquale Di Matteo, di professione maestro di musica, pensionante in canonica. In tutto, quindi, sei persone che aspettavano l’arrivo di Celeste che avrebbe portato il sacchetto con i numeri della tombola e, soprattutto, un’occasione di segreta osservazione per controllare i sempre più insistenti pettegolezzi che circolavano per Cortona a proposito della supposta sua relazione con don Caloni.

Il maestro Di Matteo, al quale don Caloni circa un mese e mezzo prima aveva dato una grande delusione vendendo il pianoforte della canonica, quel giorno aveva male a un dente, ma nonostante il gonfiore alla guancia si sedette al tavolo per giocare. Proprio la sera prima don Caloni gli aveva chiesto come mai non andava da un dottore e siccome il maestro aveva risposto che come era venuto, il dolore se ne sarebbe andato, aveva insistito. «Qui le ci vuole una bella iniezione di penicillina. Gliela faccio io» e, presa siringa e fiala nel suo armadietto farmaceutico, gliela aveva fatta.

La tombola cominciò con Celeste che tirava fuori i numeri, ma che si era rifiutata di prendere parte al gioco, nonostante la «Menchina» l’avesse sollecitata due o tre volte. Don Caloni se ne stava in cucina, mentre il piccolo Ugo girellava per le stanze sul suo triciclo rosso.

A un certo punto, Celeste si alzò e uscì dalla stanza, ma nessuno ci fece caso. Anche don Caloni uscì senza che nessuno lo notasse. Il sacerdote ritornò nel salotto una ventina di minuti dopo; Celeste no. Don Amilcare sembrava normale; poco dopo riprese l’uscio e se ne andò: nessuno ci fece caso, era un tipo irrequieto.

Tornò che erano da poco passate le 7. La tombola era finita e nel suo salotto erano rimasti solo il maestro Di Matteo e la «Menchina».

«Ma sapete — disse don Caloni senza che nessuno gli avesse chiesto alcunché — che sono stato a Terontola a prendere al treno Beppe Bettacchioli e lui non è arrivato?».

Beppe Bettacchioli era il sagrestano di don Caloni che doveva tornare da Roma dove aveva passato alcuni giorni di vacanza. Aveva perciò mandato una cartolina al fratello

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annunciando il rientro per lunedì e chiedendo se don Amilcare poteva andare a prenderlo con la macchina alla stazione. «Bisogna che glielo dica a quello smemorato — insistette don Caloni — Anzi ci vado subito». E uscì di nuovo.

Ora, come si è visto, non era il fratello del suo sagrestano a essersi sbagliato relativamente alla data del ritorno di Beppe da Roma; era don Caloni a non ricordare che sulla cartolina era stato scritto che sarebbe tornato lunedì e non domenica.

Ma don Caloni non andò da Bettacchioli. Andò invece a fare visita al farmacista malato, gli misurò la temperatura, poi passò dalla piazza e tornò a casa prima delle 8. Trovò apparecchiato, ma sostenendo di non sentirsi troppo bene, disse che non avrebbe mangiato. Buttò giù qualcosa solo per le insistenze della «Menchina».

Alle 8,30 arrivò Maria Lorenzini, la vedova che aveva suscitato la gelosia di Celeste. Aveva una rivista religiosa in mano che voleva mostrare a don Caloni. Si parlò di miracoli e don Amilcare disse che la Chiesa era l’ultima a riconoscere per tali quegli avvenimenti sia pure prodigiosi.

Poi la donna se ne andò. Don Amilcare prese in braccio il piccolo Ugo, disse buonanotte a tutti e salì nella sua camera. Insieme alla «Menchina» in cucina rimase il maestro di musica che voleva stare ancora accanto alla stufa per via del dente. La canonica piombò in un profondo silenzio.

Ricostruita, praticamente minuto per minuto, l’ultima giornata di vita di Celeste, che cosa potevano avere segnato sui loro taccuini gli investigatori dopo la prima domanda, quella di cui si è già accennato sui motivi che quella domenica mattina avevano reso particolarmente euforica la ragazza?

In primo luogo, ovviamente, che Celeste era scomparsa alle 17,30 mentre si trovava nella canonica di don Caloni. Poi, naturalmente, che dopo pochi minuti anche il sacerdote aveva abbandonato gli altri giocatori della tombola. Dopo un quarto d’ora don Caloni era tornato per sparire dopo poco di nuovo.

Terzo elemento: non era stato trovato alcun testimone che avesse visto Celeste per le strade di Cortona dopo la sua scomparsa dal salotto della canonica, quasi che le sue tracce si perdessero proprio dentro la parrocchia di San Marco.

Quarto elemento, derivante dal racconto dell’impiego del tempo che don Caloni aveva fatto tra le 17,45 circa, ora della sua breve riapparizione nel salotto della tombola, e le 19: il prete se ne era andato dalla canonica in macchina, nella sua «Topolino» seconda serie, senza dovere uscire in strada, perché dal suo salotto poteva scendere direttamente in garage.

Quinto elemento: l’orario della morte di Celeste risaliva, secondo la perizia necroscopica, più o meno attorno all’ora della sua scomparsa dalla, o piuttosto, nella canonica. Sesto elemento: l’impiego del tempo di don Caloni tra le 17,30 e le 19 necessitava di una verifica.

Aveva, dunque, raccontato il parroco di essere andato a Terontola a prendere il suo sagrestano che tornava da Roma e di essersi sbagliato di giorno, perché effettivamente Beppe Bettacchioli — questo era il nome del sagrestano — sarebbe arrivato solo il giorno dopo lunedì. È questo racconto quello che i giornali dell’epoca chiamarono «l’alibi di Terontola» e che necessita di una più ampia descrizione.

La mattina del sabato 22, dunque, arrivò a Pasquale Bettacchioli, fratello di Beppe, una cartolina da Roma con la quale il sagrestano annunciava il suo rientro per lunedì 24 alle 21,30 alla stazione di Camucia.

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Pasquale ebbe la domenica mattina l’incarico dal padre di andare a portare la cartolina a don Caloni per fargliela leggere affinché il prete andasse a prendere il suo sagrestano alla stazione. Pasquale si dimenticò di farlo e a mezzogiorno, a tavola, lo disse al padre che rimediò andando nel primissimo pomeriggio di persona dal prete di San Marco. Il vecchio Bettacchioli si disse sicuro di avere detto a don Caloni giorno, ora e stazione, secondo quanto gli aveva scritto il figlio Beppe. Don Amilcare gli aveva confermato che sarebbe andato con la macchina a prendere il suo sagrestano.

Dovettero annotare sui loro taccuini gli investigatori: come aveva potuto don Amilcare, solo poche ore dopo, essersi sbagliato di giorno, ora e stazione? E ancora: perché dopo essersi lamentato per il presunto errore di Bettacchioli non andò a protestare da lui come aveva annunciato che avrebbe fatto parlando con la «Menchina» e con il maestro di musica Di Matteo?

In mano agli investigatori c’era poi l’indirizzo di un’ostetrica di Firenze, rinvenuto in una tasca del cappotto trovato sulla spalletta del ponte dell’Ossaia e la certezza che Celeste, al momento della morte, era incinta di tre mesi.

Gli inquirenti dovettero annotare altri particolari: nella canonica la sera del sabato era stata fatta un’iniezione, quella che Don Caloni aveva praticato al maestro di musica sofferente a un dente. Infine il prete, tornato da Terontola, non aveva avuto voglia di mangiare e si era ritirato il più presto possibile nella sua camera.

Era chiaro, fin troppo chiaro, che tutti gli indizi portavano a don Caloni, alla sua canonica e forse alla sua vecchia «Topolino»: non avevano indicato le scarpe pulite trovate sul ponte dell’Ossaia che Celeste Palustri non aveva camminato nel fango e non era stato stabilito che era stata portata già morta al ponte dell’Ossaia?

Il sospetto, solo il sospetto, era di per sé clamoroso: nell’Italia del’56, in cui le contrapposizioni politiche e ideologiche erano nette, forti, polemiche, si stava per scoprire che tra Peppone e don Camillo, il secondo poteva addirittura essere indiziato di avere provocato la morte di una donna con la quale, per di più, aveva avuto una lunga relazione con tanto di figlio. Le prevedibili e inevitabili speculazioni che si sarebbero innestate sul caso avrebbero avuto come non ultima conseguenza anche quella di non permettere di guardare con serenità alla vicenda e di giudicare, eventualmente, don Amilcare Caloni come un uomo, sia pure con la tonaca, ma solo un uomo che poteva avere sbagliato.

L’indagine partì con estrema precauzione, ma nel giro di pochissimi giorni la clamorosa notizia di un prete sospettato di omicidio, forse solo colposo, esplose sulle pagine di tutti i giornali. E questo nonostante l’«alibi di Terontola» avesse, perlomeno in parte, retto alla verifica degli inquirenti.

Era successo però contemporaneamente che un’altra «verità» di don Caloni si era sciolta come neve al primo tiepido raggio di sole: il matrimonio tra Celeste Palustri e il soldato polacco Antonio Marchic non era mai esistito. Tutta la storia, compresa la scomparsa del polacco che nessuno aveva mai visto, era stata un’invenzione del prete per potere camuffare in qualche maniera la paternità del piccolo Ugo. I sospetti, quindi, del parroco di San Filippo, che avevamo riportato all’inizio di questo racconto, erano pienamente giustificati. Come anche lo erano i dubbi del vescovo di Cortona monsignor Franciolini il quale, come si ricorda, avrebbe voluto parlare con Celeste Palustri il lunedì 24 gennaio, per l’appunto il giorno seguente alla sua morte.

Ma procediamo con ordine, cominciando dall’«alibi di Terontola» e dalla sua verifica.

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Ebbene, effettivamente don Caloni andò alla stazione di Terontola nel pomeriggio di domenica 23; effettivamente cercò il suo sagrestano che credeva dovesse quel giorno arrivare da Roma: lo confermò il facchino Giuseppe Meucci che interrogato dai magistrati, disse di ricordare l’episodio aggiungendo che il prete gli chiese se fosse da poco arrivato un treno da Roma.

Meucci disse che saranno state più o meno le 18,40. Ma la conferma del racconto di don Caloni anziché rafforzare il suo alibi dimostrava che esso era qualcosa di posticcio, qualcosa di inventato frettolosamente proprio per trovare una copertura all’impiego del suo tempo tra le 17,30 e le 19.

A parte l’incredibile errore di data e la confusione tra le stazioni di Terontola e di Camucia, emergeva in primo luogo che don Caloni, che era uscito dalla canonica attorno alle 17,45, avrebbe impiegato circa un’ora per coprire gli appena dieci chilometri che separano, passando proprio per il ponte dell’Ossaia, Cortona da Terontola. Venti minuti, poi, gli sarebbero bastati per tornare a casa.

Il raffazzonato «alibi di Terontola», insomma, si era trasformato in un boomerang che metteva ancora di più in difficoltà don Caloni.

La tesi che l’accusa stava delineando appariva chiara, anche se, nell’ipotesi che essa fosse risultata vera, sarebbe stata, come vedremo, ben lontana dal rispondere a tutti — e soprattutto ai più gravi — interrogativi che il tenebroso caso presentava. A quello stato dell’indagine, tirando le somme di quanto avevano raccolto sui loro taccuini, gli investigatori potevano ipotizzare questo scenario: Celeste Palustri era incinta di 3 mesi e voleva abortire; don Caloni, che non avrebbe certo potuto inventare un secondo matrimonio «polacco», era d’accordo; il prete praticò una iniezione alla donna nella sua canonica nel pomeriggio di domenica 23, quando entrambi lasciarono la tombola che si giocava in salotto e il sacerdote fece ritorno dopo una ventina di minuti; per qualche motivo l’iniezione aveva avuto un esito tragico provocando la morte di Celeste Palustri; don Caloni avrebbe portato il cadavere direttamente nel garage e lo avrebbe nascosto sulla sua «Topolino», quindi, lo avrebbe trasportato fino al torrente Esse gettandolo dal ponte dell’Ossaia; infine il prete avrebbe improvvisato l’«alibi di Terontola» confidando che gli investigatori potessero credere all’errore di data e di stazione.

Una ricostruzione plausibile, certo, ma che non chiariva per niente gli aspetti più importanti del caso, anzi gli aspetti che ne avrebbero determinato gli esatti contorni. Vediamoli: in primo luogo, se davvero don Caloni aveva provocato la morte di Celeste Palustri, si era trattato di un errore, quindi di un omicidio colposo o preterintenzionale, oppure aveva voluto assassinarla macchiandosi così del gravissimo reato di omicidio volontario e premeditato? Secondo interrogativo: il movente. Perché don Amilcare, nell’ipotesi peggiore, avrebbe voluto la morte di Celeste? Terza domanda: quale liquido era stato iniettato nelle vene della giovane donna per provocarne una morte che, presumibilmente, doveva essere stata istantanea o quasi? Dove e da chi, quindi, il prete si sarebbe procurato il potentissimo veleno? Una perizia tossicologica avrebbe dato alcune risposte, soprattutto quella alla domanda se la quantità di sostanza iniettata fosse stata «volutamente» eccessiva.

Le domande non finivano là. C’era da chiedersi: se la puntura era stata fatta (nel caso dell’omicidio colposo) come anestetizzante in vista di un aborto meccanico, sicuramente doveva essere presente una terza persona, medico o ostetrico o praticona, che avrebbe dovuto fare l’intervento. C’erano, allora, dei complici?

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In ogni caso sembrava inevitabile indicare don Amilcare Caloni come il responsabile della morte di Celeste Palustri. Anche se questa conclusione andava a sbattere contro una considerazione di tipo logico che sembrava piuttosto dura da abbattere. Sia che il sacerdote avesse voluto fare un’iniezione solo per provocare un aborto, sia che avesse progettato di assassinare Celeste, erano quelli il luogo e l’ora migliori?

Insomma perché farlo in una stanza attigua a un’altra dove sei persone erano riunite e potevano sentire, se non vedere, cose troppo compromettenti?

A queste domande, devono essersi detti allora gli investigatori, non spetta a noi trovare adesso risposta: i fatti parlano chiaro e sono difficilmente contestabili. Senza considerare che nei delitti non sempre la logica è l’elemento preminente.

Tutte queste considerazioni, i risultati stessi dell’inchiesta condotta rimasero tuttavia per alcuni giorni nel chiuso degli uffici dei magistrati e dei carabinieri. Don Caloni, del quale comunque in tutta Cortona si parlava come legato alla morte di Celeste Palustri, finì, entrando nella cella di un carcere, in pasto all’opinione pubblica nazionale sei giorni dopo l’inizio di questi fatti con un’accusa che apparentemente poco aveva a che fare con le cause di quella morte.

Pochi minuti prima di mezzogiorno del 1 febbraio un capitano e tre carabinieri suonarono alla porta della casa di don Caloni. Lo pregarono di vestirsi perché doveva andare con loro, ad Arezzo. Prima di uscire don Amilcare abbracciò la madre e le disse: «Ma guarda che pasticci per avere aiutato una povera ragazza alla quale nessuno voleva bene: però, stai tranquilla, stasera torno».

Ad Arezzo il sacerdote fu a lungo interrogato dal procuratore della Repubblica Bigazzi. Uscì da quell’ufficio solo per entrare nel carcere di San Benedetto. L’accusa: falso in atto pubblico e uso di quello. Don Caloni, insomma, era entrato in carcere solo per il finto matrimonio che asseriva di avere celebrato tra Celeste Palustri e il fantomatico soldato polacco Antonio Marchic.

L’opinione pubblica, però, era arrivata ad altre conclusioni. Quell’inverno del’56 l’Italia era stretta da una morsa eccezionale di gelo; la neve cadeva abbondante e, oltre ai disagi, offriva come al solito motivo di gioco ai ragazzi che si divertivano a fare i pupazzi di neve. Quell’anno ci giocarono anche i più grandi, visto che la polizia, a Cortona come ad Arezzo, era dovuta intervenire più volte per distruggere fantocci di neve particolari: avevano gli occhiali, erano vestiti con una lunga palandrana nera chiusa sul davanti da una fitta serie di bottoni. Circolavano ritornelli osceni, barzellette, e anche calunnie. Don Caloni era condannato.

L’indagine continuava e arrivò a scoprire che nella vita di Celeste Palustri c’era, per così dire, un vuoto di un paio di giorni circa un mese prima della sua morte. In quel tempo, dunque, Celeste aveva lasciato Cortona per recarsi a Firenze dove si sposava un cugino. Era stata invitata e aveva stabilito di rientrare a casa con gli sposi che proprio a Cortona avrebbero fatto la prima tappa del loro viaggio di nozze. Ma la ragazza non tornò. Si rivide a Cortona solo due giorni dopo e non volle dire neanche ai genitori adottivi che cosa aveva fatto in quel tempo, dove aveva alloggiato, con chi si era vista.

Considerato anche il biglietto trovato nella tasca del cappotto all’Ossaia, con l’indirizzo di un’ostetrica di Firenze, quel vuoto fu messo in relazione con la nuova gravidanza di Celeste. La ragazza si sarebbe messa in contatto con una donna che avrebbe potuto favorire il suo progetto di aborto. Secondo voci raccolte, però, ci sarebbe

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stato disaccordo sulla cifra. Celeste disponeva di una piccola somma, una ventina di migliaia di lire; l’altra, pare, che volesse quasi il doppio. Celeste avrebbe finito per rinunciare e qualcuno l’avrebbe sentita dire: «No, questa somma non gliela do: vorrà dire che il bambino nascerà, tanto ne ho già uno…».

Una frase che, se fosse stata davvero pronunciata dalla ragazza e se corrispondeva realmente al suo pensiero, sarebbe pesata come un macigno sulla posizione di don Amilcare Caloni. Perché in tal caso bisognava prendere in considerazione l’ipotesi più grave, quella dell’omicidio premeditato.

A questi sospetti si aggiungevano altri elementi accusatori raccolti nel corso dell’indagine: il colloquio che il vescovo di Cortona avrebbe voluto avere con Celeste il lunedì 24 e che non poté avere luogo proprio per la morte della ragazza; la micidiale potenza della sostanza che era stata somministrata e che era stata dimostrata dai primi risultati della perizia. Il giorno stesso del ritrovamento del cadavere di Celeste i medici avevano iniettato campioni del suo sangue in alcune cavie: la sera gli animaletti furono trovati stecchiti.

Infine, durante un sopralluogo nella canonica, i carabinieri trovarono una siringa usata con tracce di liquido sospetto, una siringa di marca «Record» del tipo per fare punture endovenose. Dell’innocenza di don Caloni era oramai inutile parlare.

L’opinione pubblica aveva solo anticipato le conclusioni dell’inchiesta, e il 6 febbraio la magistratura contestò a don Caloni la morte di Celeste Palustri.

Il «giallo» di Cortona sembrava ricominciare di nuovo. Un «giallo» particolare in cui non si cercava un responsabile, ma se delitto c’era stato. E quale. Una disgrazia, ovvero un omicidio colposo? Un evento forse prevedibile ma andato al di là delle intenzioni di chi lo aveva provocato, e quindi, un omicidio preterintenzionale? Oppure un omicidio volontario, premeditato e portato a termine con fredda determinazione?

Fu la perizia tossicologica a risolvere il giallo: Celeste era stata uccisa da una dose massiccia di «apiolo verde», un farmaco fuori commercio che, preso nei primi giorni di gravidanza, avrebbe funzione di «siero espulsivo». Iniettato più tardi non avrebbe nessun effetto e fu per questo che Celeste si praticò in tempi successivi tre iniezioni di apiolo acquistato in maniera clandestina durante il soggiorno fiorentino aumentando sempre le dosi. Fu anche rintracciata e denunciata la donna dalla quale la stessa Celeste aveva comprato il micidiale preparato.

Il giallo era solo la sciagurata storia di un uomo troppo piccolo per la veste che aveva scelto di indossare e di una donna che certo la vita non aveva favorito. I due avevano progettato l’aborto con quel sistema che ricorda brutti racconti popolari.

Quando finalmente al processo, che si tenne nel maggio di quello stesso anno, don Caloni ammise le sue responsabilità, continuò comunque a dire di non sapere che quella fatale iniezione conteneva il micidiale apiolo. Disse anzi che non aveva alcuna intenzione di fare abortire Celeste, perché, aggiunse: «non sapevo neanche che aspettasse un figlio. Avevo solo qualche vago sospetto. E poi — si difese — sapevo che un aborto al terzo mese di gravidanza può essere portato a termine solo con un mezzo meccanico. Io quindi non sapevo niente del contenuto della fiala per l’iniezione che Celeste quella domenica in canonica mi fece trovare già pronta. Trovai la siringa carica».

Se il caso aveva suscitato un enorme scalpore, il processo dimostrò che appena due mesi dopo molto interesse era calato. Nell’aula della corte di assise di Arezzo c’erano

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solo poche persone incuriosite da quel piccolo uomo dal grande naso stretto in un maglione nero, unico ricordo della sua condizione sacerdotale.

Don Caloni fu condannato a 8 anni e 2 mesi di reclusione per «procurato aborto in donna consenziente, seguito da morte». Non fu neanche ritenuto colpevole di occultamento di cadavere perché il modo come esso avvenne fu ritenuto dai giudici inidoneo a fare scomparire Celeste Palustri.

Prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio e come di rito chiesero all’imputato se aveva altro da dire, Caloni, che spesso durante l’inchiesta era stato sentito pronunciare la sibillina frase «L’ho fatto a fin di bene», si alzò e disse: «Desidero solo espiare davanti a Dio e riparare davanti agli uomini».

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Il delitto MelacarneArezzo 3 febbraio 1958

Una strage per malocchio

Il terrore arrivò ad Arezzo all’ora di pranzo. Quella fu una giornata diversa, di quelle che si credeva allora che accadessero solo in America dove, ogni tanto, si leggeva sui giornali, un pazzo, un «mostro», riusciva a seminare il panico e la morte sfuggendo alla caccia della polizia. Non erano piene in quei giorni le cronache dei racconti degli orribili delitti del «mostro del Nebraska»?

Nel 1958 Arezzo non aveva certo il volto di città industriale che ha ora; il mondo della campagna, con i suoi personaggi, le sue abitudini, le sue credenze poteva a tratti ancora incontrarsi per le sue strade.

L’Italia che cambiava, la Milano del «boom» e la Roma della «dolce vita», erano molto lontane. Gli echi arrivavano attraverso i settimanali illustrati e la televisione, che spesso si andava a guardare tutti insieme al bar, perché non erano molti quelli che possedevano un apparecchio in casa.

Che i tempi stessero cambiando era chiaro anche da piccoli segni molto diversi tra loro: a Milano, in via Osoppo, era stata compiuta una «cinematografica» rapina da sette uomini in tuta blu; il vescovo di Prato monsignor Fiordelli veniva condannato da un tribunale penale e Pio XII, per manifestare il suo dispiacere, sospendeva la festa della sua incoronazione. La gente trovava il tempo di appassionarsi alla storia dello Scià di Persia che ripudiava la splendida Soraya, «rea» di non sapergli dare un erede; le ragazze si innamoravano andando a vedere «Sayonara» con Marlon Brando; la favola dell’attrice diventata principessa continuava con la nascita a Montecarlo di una bambina alla quale fu dato il nome di Carolina; per le strade si fischiettava «Volare», la canzone di Modugno che aveva appena vinto il festival di Sanremo.

Ad Arezzo, quel 3 febbraio 1958, un uomo si alzò più cupo del solito. Non era un violento, anzi molti lo ritenevano un timido, uno «che non sarebbe stato capace di fare male a una mosca». Si chiamava Franco Melacarne ed era arrivato ad Arezzo anni prima dalla Puglia come appuntato della pubblica sicurezza. Si era sposato, con una donna che in questo racconto scegliamo di chiamare Anna, e aveva avuto tre figli. Si era dimesso dalla polizia, ma era riuscito a restare in questura a lavorare come impiegato civile ed era stato addetto all’ufficio passaporti. Aveva 50 anni e, a quanto si sa, un solo difetto, un’inclinazione un po’ troppo accentuata per il vino. Questo suo vizio era stato causa di frequenti litigi con la moglie, che pure lui amava e dalla quale non avrebbe mai voluto separarsi.

Temeva, invece, che qualcuno cercasse di allontanarlo per sempre da Anna e dai suoi figli e si era convinto che quel qualcuno aveva fatto ricorso a misteriosi riti di magia nera che ancora erano diffusi nelle campagne attorno ad Arezzo, come in genere in ogni zona rurale d’Italia. Franco Melacarne, insomma, era convinto che qualcuno gli stesse facendo un malocchio e lui diceva di sentirselo sotto la pelle.

Ovviamente la moglie cercava di convincerlo che le sue erano tutte fantasie, che certe

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faccende in realtà non esistono e sono solo superstizioni. Lui replicava di sentirsi piano piano invadere da una «fattura» e che doveva cercare il modo di scongiurarla prima che fosse troppo tardi e magari raggiungesse lo scopo per cui era stata fatta.

Anna aveva delle amiche e a loro confidava le preoccupazioni che il marito le dava per il suo vizio di bere e, più recentemente, per quella fissazione del malocchio. Lui, Franco, non era contento che la moglie incontrasse quelle amiche, non voleva che le sue faccende fossero messe in giro e soprattutto si stava convincendo che a fargli la fattura erano state proprio due donne che la moglie frequentava.

Quella mattina del 3 febbraio 1958 Franco Melacarne, seppure piuttosto depresso, non ebbe alcuna discussione con la moglie, non bevve vino. Ma quando uscì di casa, la prima cosa che fece fu entrare in un negozio di casalinghi a comprare un coltello. Un lungo coltello affilatissimo. Poi andò in ufficio. A metà mattinata chiese il permesso di uscire per andare a prendere un caffè. Non ritornò più.

Un paio di ore dopo Felice Fratini, un piccolo impresario edile, ritornava a casa in via Vittorio Veneto con il figlio maggiore Mario, geometra. I due suonarono, ma attesero invano la risposta della moglie Lucia che pure avrebbe dovuto essere in casa. Non avendo le chiavi e temendo che la donna si fosse sentita male o che, comunque, fosse successo qualcosa, padre e figlio decisero di entrare in casa scavalcando una finestra.

Lo spettacolo era orribile: Lucia Fratini, che aveva 50 anni, era distesa sul pavimento, proprio sulla soglia della cucina, in un lago di sangue. La gola era orrendamente squarciata. Fu il figlio, superati i primi momenti di angoscia, a notare un biglietto sul tavolo della cucina. C’era scritto: «Lasciate in pace mia moglie».

La polizia si precipitò a sirene spiegate in via Vittorio Veneto. Non si riusciva a capire il movente del tremendo delitto, né il significato del messaggio sicuramente lasciato dall’assassino. Poteva comunque affermarsi che la donna conosceva il suo uccisore, visto che l’uomo era entrato senza forzare la porta. A meno che non avesse fatto ricorso a uno stratagemma.

Enrico Fabri, un impiegato delle poste che a piedi stava rientrando a casa in via San Niccolò per l’ora di pranzo, si chiedeva che cosa mai fosse successo con tante sirene di polizia in giro, circostanza piuttosto insolita in una città tranquilla come Arezzo. Qualcuno che conosceva e che incontrò per strada gli spiegò che era stata ammazzata una donna.

Fabri trovò la porta di casa aperta, appena accostata. Entrò di corsa, sospettando qualcosa di brutto, forse per via di quella storia che aveva sentito per strada. La moglie Annunziata era distesa sul pavimento della cucina, agonizzante. Non c’era sangue in giro, ad eccezione di un taglio a un mignolo.

Fabri pensò che la moglie era stata aggredita e che, sofferente di cuore, avesse avuto un collasso. Di nuovo ulularono le sirene della polizia. Annunziata Fabri, 54 anni, morì pochi minuti dopo all’ospedale senza dire una parola. Solo allora ci si accorse che sulla schiena aveva una profonda ferita che le aveva leso i polmoni.

Sul tavolo della cucina dei Fabri la polizia trovò ancora un biglietto, identico al primo: «Lasciate in pace mia moglie». Era la firma dell’assassino.

Ma, in quel momento non c’era alcun elemento per poterlo identificare. Tra le due vittime, Lucia Fratini e Annunziata Fabri, apparentemente, non esisteva alcun rapporto.

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Certo anche la seconda vittima doveva conoscere il suo assassino, se gli aveva aperto la porta. Sul tavolo poi, accanto al biglietto, era stata trovata una bottiglia di cognac e due bicchieri.

Davvero l’assassino colpiva a caso?Davvero un maniaco si aggirava per Arezzo colpendo le donne che trovava sole?

In un baleno la notizia si diffuse per tutta Arezzo. E fu il terrore. Le voci aumentavano la portata del già gravissimo fatto e descrivevano il folle assassino come una persona dall’aspetto normalissimo ma molto astuto che riusciva ad avvicinare donne sole senza farle insospettire, anzi catturandone la fiducia. Poteva essere chiunque.

A metà pomeriggio ormai per la gente in preda al panico le vittime del maniaco erano già sei, tutte donne assassinate con la lunga lama che aveva squarciato gole, trafitto cuori, inflitto ferite tremende.

Il pazzo, si diceva, era lucido, perfettamente in grado di controllarsi, tanto che riusciva a uccidere le sue vittime con un solo colpo di coltello e non infierendo ripetutamente su di esse, come chi è in preda a un raptus.

Questo particolare, anche se ovviamente riferito alle uniche due vittime dell’assassino, era vero: in entrambi i casi l’aggressore aveva vibrato una sola coltellata, dimostrando di essere in preda a una follia fredda. Era come se stesse perseguendo gelidamente un piano che solo la sua mente malata poteva comprendere.

Nelle mani della polizia erano appena quei due biglietti, che indicavano solo che l’assassino era un uomo sposato. Bisognava cercare un elemento che collegasse Lucia Fratini ad Annunziata Fabri.

Cominciarono, così, gli interrogatori dei mariti delle due vittime, alla ricerca del collegamento che avrebbe permesso, forse, di identificare l’assassino e di bloccarlo prima che effettivamente commettesse altri delitti. Anche se questo, contrariamente alla voce popolare, non era ancora avvenuto, nessuno poteva escluderlo. Lo stesso questore di Arezzo, preoccupatissimo, diede ordine che l’intera città fosse pattugliata da «volanti» che dovevano circolare in continuazione.

Intanto padri e mariti, lasciati i posti di lavoro, correvano a prendere mogli e figlie ovunque si trovassero, al cinema o in un negozio. Le donne si chiusero in casa e non aprirono più la porta a nessuno.

Quanto sarebbe durato l’incubo?Intanto però la polizia era riuscita a identificare l’assassino, grazie all’interrogatorio di

Enrico Fabri. L’uomo si ricordò di avere incontrato, poco prima di arrivare a casa, Franco Melacarne che sembrava venire proprio dalla sua abitazione. L’uomo non gli piaceva e Fabri gli aveva chiesto anche un po’ bruscamente: «cosa fai tu qui?». Quello non aveva veramente risposto, ma aveva bofonchiato una frase del tipo «Avete rovinato me e la mia famiglia».

Il racconto giustificava un pesante sospetto su Melacarne, che fu confermato quando si scoprì che le due vittime erano entrambe amiche della moglie dell’impiegato della questura. Da una rapida verifica all’ufficio passaporti si seppe infine che Melacarne era sparito da metà mattina. A casa non c’era e nessuno ne aveva più saputo niente.

Era chiaro che l’assassino era lui, spinto dalla convinzione che le due donne gli avessero fatto il malocchio di cui farneticava negli ultimi tempi.

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Per l’intera città e anche nei dintorni tutte le forze di polizia furono lanciate alla ricerca di Franco Melacarne.

Sapere che l’assassino aveva un nome, non serviva a dissipare il terrore. Nel timore di qualche reazione inconsulta, la polizia andò a prelevare la moglie e i figli di Franco Melacarne e li portò al sicuro in questura. Qualcuno aveva già manifestato pazzi propositi di vendetta.

In quel pomeriggio un uomo dall’aspetto trasandato saliva faticosamente a piedi lungo un tratturo melmoso che portava a un gruppetto di case di contadini chiamato Gragnone Nero, e che era abitato dalla famiglia Versani. Lo sguardo era stravolto, con una mano teneva un fazzoletto insanguinato premuto sull’altra. Così si presentò alla vecchia contadina di Gragnone Nero, che tutti chiamavano nonna Elvira.

Lassù, di quanto stava succedendo ad Arezzo non era arrivata neanche l’eco. E poi nonna Elvira conosceva quell’uomo che, durante la guerra, era stato per qualche tempo sfollato a casa sua. Perciò lo fece entrare. Era Franco Melacarne.

«Le è successo qualcosa?» chiese gentilmente nonna Elvira indicando la mano e il fazzoletto insanguinati. L’uomo aveva fame, disse che non mangiava da molto. Parlava in un modo strano come se non fosse completamente presente a se stesso. Nonna Elvira ebbe paura, ma gli diede del pane e dell’olio.

«Ho sete. Non avete del vino?» chiese Melacarne. Forse la vecchia contadina dovette avere intuito che non era il caso che quell’uomo bevesse vino e disse una bugia. Gli disse che in casa non ce ne era e lui si accontentò dell’acqua.

«Nonna, mi raccomando — disse Melacarne — addentando svogliatamente la fetta unta di pane — se i miei bambini avessero fame, date anche a loro un pezzo di pane e olio».

«Perché lei non torna a casa?»«Per me non c’è più bene» fu la risposta che nonna Elvira non capì.Passarono insieme il pomeriggio, tra lunghe pause di silenzio e frasi che non avevano

molto senso. Alle cinque, improvvisamente, Franco Melacarne chiese di accendere la radio per sentire le notizie.

«Perché — chiese sempre più inquieta nonna Elvira — che cosa vuol sentire?».«Voglio sentire della luna rossa». E poiché la vecchia contadina lo guardava con aria

tra il perplesso e lo spaventato, aggiunse: «Si fa per sentire di quelle maledette donne. Guarda qui come mi hanno ridotto».

Il giornale radio non disse niente di quanto era successo ad Arezzo. Le notizie nel 1958, evidentemente, viaggiavano molto più lentamente di oggi.

Dopo un po’ Melacarne chiese di potere scrivere e nonna Elvira gli diede carta e penna. L’uomo riempì dei fogli, poi li prese e li gettò nel camino acceso.

Erano in silenzio seduti attorno al grande tavolo della cucina, quando un ragazzino che era rimasto a giocare nell’aia si affacciò sulla porta. «Nonna, ci sono le guardie!».

In quel momento entrarono il maresciallo Ricci e il brigadiere Caprai che riconobbero subito Melacarne alla cui ricerca, come tutti i poliziotti di Arezzo, erano stati comandati. Estrassero le armi:

«In alto le mani, non ti muovere!» gli intimarono. Melacarne sembrò uscire di colpo dallo strano torpore che lo aveva avvolto tutto il pomeriggio. Scattò dalla sedia brandendo il coltello con cui aveva già ucciso due volte e fece per avventarsi sugli agenti.

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Caprai fece fuoco, in alto, per tre volte. Melacarne si bloccò, poi di scatto si gettò dietro una porta che portava in un corridoio sul quale si affacciavano diverse stanze della grande casa colonica. Melacarne si chiuse alle spalle la porta a chiave.

Nonna Elvira avvisò i due poliziotti che in una delle stanze dove era entrato Melacarne erano custoditi i fucili da caccia con le cartucce. Bisognava essere prudenti o sarebbe stato un massacro.

Cominciò così l’assedio. Da Arezzo arrivarono moltissimi rinforzi guidati dallo stesso questore. Si provò un’opera di mediazione con un megafono, ma tentare l’assalto alla colonica era difficile, perché non si sapeva in quale stanza Melacarne si fosse rifugiato e un errore di valutazione sarebbe costato altre vite umane.

A chi dall’aia lo implorava di arrendersi, che sarebbe stata usata clemenza, che doveva pensare ai suoi figli, dalla casa colonica non rispondeva nessuno. Calò il buio e la situazione non si era modificata di un millimetro. Alle 20 fu deciso l’attacco, non frontale, ma giocato sull’astuzia. Il piano comportava dei rischi, ma bisognava pure arrivare a catturare l’assassino.

Una lunga scala a pioli fu appoggiata sul retro della casa affinché degli agenti potessero salire sul tetto. Con cautela cercando di non fare rumore, furono tolte alcune tegole e fu fatto un foro sufficientemente largo perché una persona potesse passarci. Quindi l’attacco: gli agenti gettarono dentro la casa alcune bombe lacrimogene e, muniti di maschere antigas, scesero nel fumo brandendo i mitra. In quello stesso istante altri poliziotti armati entrarono dalle finestre servendosi di scale.

Percorsero con precauzione tutte le stanze senza udire alcun rumore. L’ultima era piena di pannocchie messe a essiccare. In un angolo alcune erano rosse di sangue: steso su di esse era Franco Melacarne che con il suo maledetto coltello si era tagliato la gola.

Probabilmente si era ucciso subito dopo l’arrivo della polizia.

Non aveva preso nessuno dei fucili da caccia che si trovavano custoditi in una stanza appesi a una rastrelliera; non aveva probabilmente mai pensato di opporre una resistenza alla polizia che voleva catturarlo; non voleva che altre persone morissero oltre quelle contro le quali aveva diretto il suo assurdo odio.

Probabilmente si era ucciso subito dopo l’arrivo della polizia, convinto di completare un destino che qualcun altro, in qualche misteriosa maniera, aveva tracciato per lui.

Due giorni dopo, il 5 febbraio, in contemporanea, si svolsero i funerali di Lucia Fratini e di Annunziata Fabri. Vi partecipò una folla impressionante, tanta era stata l’emozione con la quale Arezzo aveva vissuto la drammatica giornata del 3 febbraio.

Quello stesso giorno, ma nel pomeriggio, si sarebbero svolti i funerali di Franco Melacarne e il fatto suscitava non poche preoccupazioni tra i responsabili dell’ordine pubblico. Si temevano gesti inconsulti da parte di qualche esagitato; si progettò di inumare il corpo dell’omicida in un luogo segreto e in un orario segreto. A queste preoccupazioni se ne aggiunse un’altra che, male interpretata dalla gente avrebbe potuto creare ulteriori problemi. L’autorità ecclesiastica, in effetti, rifiutò di dare a Melacarne un funerale religioso e proibì la messa. Melacarne, infatti, era morto suicida.

E, tuttavia, avvenne un fatto inaspettato che testimoniò l’enorme pietà della gente, degli aretini, capaci di comprendere che anche l’assassino era, in questo caso, una vittima, colpito da una inspiegabile follia. Ci furono istanze che arrivarono in Vescovado

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affinché anche quell’uomo affrontasse il suo ultimo viaggio munito di qualche conforto e accompagnato da un segno di umana pietà. Senza pubblico, alla sola presenza dei più stretti familiari, il Vescovo di Arezzo benedì la salma di Franco Melacarne.

Nel pomeriggio la bara fu calata in una fossa scavata in una zona sconsacrata del cimitero, quella riservata ai suicidi. Anche al suo funerale, inaspettatamente, partecipò molta gente, in silenzio, senza alcuna manifestazione di odio, quasi in una forma di rispetto per qualcosa di tremendo che sfugge alla ragione umana e che pure appartiene alla natura umana.

Melacarne aveva assassinato due donne e si era ucciso perché era convinto che qualcuno gli avesse fatto un malocchio, una fattura per la quale sarebbe stato per sempre separato dalla moglie e dai figli. Ma le fatture, si sa, non esistono.

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Suor DomitillaFirenze 23 settembre 1961

Assassinio all’ospedale

«Amico del giaguaro» è un’espressione abbastanza comune con la quale, come dice il Nuovo Zingarelli, si indica «chi, di fatto, e spesso senza vedere una contraddizione nel suo atteggiamento, appoggia potenziali avversari del proprio amico stesso».

Nel 1961 l’«Amico del giaguaro» era anche il nome di una popolare trasmissione televisiva a premi condotta da Corrado, Raffaele Pisu, Gino Bramieri e dalla soubrette Marisa del Frate. I concorrenti, a coppia, dovevano trovare un fagiolo d’oro risolvendo una serie di indovinelli, di giochini, superando prove più o meno divertenti per lo spettatore durante le quali erano guidati dal proprio amico che, se sbagliava nel dare le indicazioni per arrivare alla meta, finiva per favorire l’avversario.

L’unico canale televisivo che allora esisteva mandava in onda l’«Amico del giaguaro» il sabato sera alle 21,15. Sabato 23 settembre 1961 il brigadiere di pubblica sicurezza Alfredo Valenti passò alle 20,10, un’ora prima dell’inizio dell’«Amico del giaguaro» secondo quanto poi avrebbe riferito agli inquirenti, nella piazza antistante l’Arcispedale di Santa Maria Nuova a Firenze e vide fermo a un angolo il collega e amico Giacinto Mancaruso che stava parlando con una donna.

«Giovane e bella», avrebbe poi aggiunto parlando con l’allora sostituto procuratore della Repubblica Raffaele Cantagalli, poi diventato procuratore capo.

Non si sa perché Valenti fosse tanto sicuro dell’ora, né lo si saprà mai: quarantaquattro giorni dopo quel sabato, infatti, il brigadiere morì in circostanze drammatiche e la sua testimonianza non poté mai essere definitivamente controllata.

A unire questi elementi eterogenei — una trasmissione televisiva di varietà, due sottufficiali di polizia che di lì a poco sarebbero andati entrambi incontro a drammatici destini, una sconosciuta «giovane e bella», l’Arcispedale di Santa Maria Nuova ed altri fatti ancora — sarebbe stata una suora di 56 anni di Barberino del Mugello, Tina Forasassi, che da 26 anni vestiva il candido abito delle Oblate ospedaliere e portava il nome di suor Domitilla.

La sera di sabato 23 settembre 1961, come ogni sera, suor Domitilla si trovava nel laboratorio di analisi di Santa Maria Nuova. In quell’ufficio la religiosa lavorava occupandosi delle cartelle cliniche, dei registri, della cassa. Una notevole mole di lavoro che la suora mandava avanti prolungando tutte le sere la sua presenza ben oltre l’orario previsto delle 18,30 e restando, sola, nei grandi locali del laboratorio, fino alle 21,30 e a volte fino alle 22.

Ogni giorno erano nelle casse dell’ufficio tra le cinquanta e le sessantamila lire, che suor Domitilla riponeva in un cassetto vicino allo sportello al quale si affacciavano i clienti del laboratorio per consegnare le richieste o per ritirare i risultati delle analisi. Solo ogni due settimane suor Domitilla faceva i versamenti in banca.

Quel movimento di denaro aveva fatto più volte gola ai ladri, tanto che un giorno c’era stato un furto di sessantamila lire e un’altra volta ancora i ladri erano stati scoperti e

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messi in fuga da una guardia giurata.Da allora suor Domitilla evitava di tenere troppi soldi nel cassetto aspettando di

depositarli in banca e preferiva piuttosto custodirli nella sua camera nel convento annesso all’ospedale.

Un’abitudine che, nell’ospedale, tutti conoscevano, per cui solo un ladro sprovvisto di informazioni provenienti dall’interno poteva sperare di mettere mano su un gruzzolo superiore a poche decine di migliaia di lire.

E, d’altra parte, è difficile credere che qualcuno che non conoscesse abbastanza bene l’ambiente dell’Ospedale potesse pensare di commettervi un furto.

Era, quel 23 settembre 1961, un giorno come tanti nella vita di Firenze. La gente faceva la fila per andare a vedere nello scomparso Alhambra «Ben Hur» con Charlton Heston, il film degli 11 Oscar. I più raffinati, invece, andavano all’Ariston dove si proiettava «Un grappolo di sole» con Sidney Poitier, il film che aveva vinto l’ultima Palma d’oro a Cannes a dimostrazione evidente che a una pellicola non basta vincere un prestigioso premio per restare nella memoria degli spettatori.

A Palazzo Strozzi era dovuta intervenire la «Celere» per controllare l’afflusso di pubblico alla seconda Biennale internazionale dell’Antiquariato, attirato dalle tre star di quel giorno: Sophia Loren, la principessa Paola di Liegi e la fantastica tabacchiera appartenuta a Federico II di Prussia tempestata di brillanti rosa ed esposta nello stand dell’antiquario parigino Kugel.

I fiorentini erano fieri, giustamente, di avere ricostruito, «com’era e dov’era», secondo lo slogan del comitato promotore, il ponte Santa Trinita, inaugurato tre anni prima. Purtroppo non era stata ritrovata la testa della «Primavera», una delle quattro statue che ornano il ponte. Giuseppe Fantacci, che era l’importatore per l’Italia delle penne Parker, aveva avuto l’idea di fare affiggere ai quattro angoli del mondo, da Montreal a Singapore, dei manifesti con la celebre testa e la scritta «Chi l’ha vista?», e la promessa di un assegno di 100.000 lire per chi la consegnasse. La speranza era che un soldato alleato che si era portato la «Primavera» a casa come souvenir del passaggio a Firenze, fosse indotto a restituirla.

Il sindaco Giorgio La Pira, da parte sua, inaugurava una sartoria in via Alamanni. Molti turisti erano ancora a Firenze in quel fine settembre. Tra la tanta gente che ingombrava i marciapiedi della città era anche un giovane livornese, Marino Mattonai, 28 anni, con alle sue spalle quello che comunemente si chiama un «passato». Sette anni prima Mattonai, nel pomeriggio del 7 gennaio 1954, insieme con altri due complici — il siciliano Michele Gulisano e Lando Desideri di Pontedera — aveva compiuto ai danni della filiale del Monte dei Paschi di Siena di San Giuliano Terme, vicino a Pisa, una rapina che le cronache del tempo avevano definito «audacissima». Il terzetto dopo avere immobilizzato il personale, aveva preso sei milioni ed era fuggito in bicicletta e, forse, proprio questa circostanza suggerì al giornalista l’aggettivo «audacissima» da accoppiare a rapina.

La stessa sera, sulla via Aurelia, vicino al bivio dell’Arnaccio, alla periferia di Livorno, una pattuglia dei carabinieri bloccò una «giardinetta» con a bordo tre persone che, al momento del controllo dei documenti, tentarono la fuga. Nacque una sparatoria durante la quale uno degli occupanti della «giardinetta» rimase ucciso, uno ferito e il

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terzo illeso. Il morto fu identificato per Michele Gulisano, il ferito per Aldo Bartolini che era completamente estraneo alla vicenda (era stato ingaggiato come autista dopo la rapina). Quello rimasto illeso era Lando Desideri che finì col confessare. E, naturalmente, fece anche il nome di Marino Mattonai. La sera della sparatoria il livornese non aveva voluto seguire gli amici in macchina e aveva preferito tornare in pullman a Livorno.

Quando i carabinieri si presentarono a casa sua, tentò la fuga, ma inutilmente. Appena in caserma, confessò. Quella storia gli costò cinque anni di galera.

Tornato libero, Mattonai, colpito da una malattia, fu ricoverato a Firenze all’ospedale di Santa Maria Nuova per un certo periodo di tempo.

Lì ebbe modo di conoscere suor Domitilla, anzi, stando alle voci che circolavano, ne divenne un «protetto». Tanto che Mattonai, anche anni dopo essere stato dimesso, non trascurava, ogni volta che veniva a Firenze, di andare a fare visita a suor Domitilla.

Mattonai era a Firenze anche il 23 settembre 1961, un giorno come un altro nella vita della città, se non vi fosse stato commesso un delitto, un omicidio molto particolare: per il luogo, per il movente misterioso e, soprattutto, per la vittima: suor Domitilla.

Teatro del delitto è l’Arcispedale di Santa Maria Nuova e la scenografica piazza antistante. Il dramma forse comincia alle 17,30 con un fatto insignificante, ma che successivamente verrà fatto rientrare nell’inchiesta. A quell’ora due agenti di pubblica sicurezza passano in piazza Santa Maria Nuova e vedono il sottufficiale Giacinto Mancaruso che si aggira per quei luoghi apparentemente senza avere niente da fare. È una circostanza che di per sé non significa granché, e non significherà molto neanche dopo. Come si è detto Mancaruso abita non lontano dall’ospedale, in Borgo Pinti, e spesso va in quel che era stato il suo luogo di lavoro forse con la speranza di incontrare qualcuno di sua conoscenza e potere così scambiare qualche parola.

Un’ora dopo, alle 18,30 quindi, il direttore del laboratorio di analisi mediche professor Pasquinelli e il suo aiuto professor Lamanna, lasciano gli uffici.

All’interno, come al solito, resta solo suor Domitilla che ha parecchio lavoro da sbrigare.

Mezz’ora dopo Giacinto Mancaruso, secondo quanto racconterà agli inquirenti, e la moglie confermerà, rientra a casa.

Alle 20 il frate cappuccino che svolge la sua missione all’interno dell’ospedale di Santa Maria Nuova, passando vicino al cortile dal quale si accede al laboratorio di analisi dove lavora suor Domitilla vede due individui che lo insospettiscono. I due se ne stanno fermi, quasi cerchino di non richiamare l’attenzione di nessuno, appoggiati alla parete di fondo della grande stanza che si trova vicino al cortile. La stanza normalmente è illuminata, ma quella sera non c’è luce: per un fortuito guasto o perché qualcuno ha interesse che il locale sia al buio?

Il frate, assorto nei suoi pensieri, nota i due sconosciuti, poco più di due ombre, si insospettisce, ma poi pensa che se ne stanno in quel luogo perché devono essere dell’ambiente dell’ospedale. Non si sofferma a guardarli meglio, non si avvicina. In seguito, non sarebbe stato capace di darne una descrizione sufficientemente chiara.

La scena ora si sposta fuori dell’ospedale, di nuovo in piazza. Sono passati pochi minuti dall’incontro del frate cappuccino con le misteriose due ombre, quando il brigadiere di pubblica sicurezza Umberto Valenti, passando in piazza Santa Maria Nuova, vede l’amico Giacinto Mancaruso fermo all’angolo con via Portinai mentre parla con una

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donna «giovane e bella»: Mancaruso, che dice di essere rientrato in casa alle 19, è di nuovo uscito? Ha già cenato? Come farà a essere di nuovo a casa per vedere alla televisione l’«Amico del giaguaro»?

Pochi minuti dopo, più o meno attorno alle 20,20, un’infermiera di Careggi, Maria Grazia Pernici, che deve portare alcuni preparati istologici a fare analizzare, attraversa la piazza ed entra nell’ospedale. Percorre il lungo corridoio, supera la grande stanza buia dove una ventina di minuti prima il frate cappuccino aveva intravisto le due inquietanti ombre, non nota nessuno e va per bussare alla porta del laboratorio di analisi dove lavora suor Domitilla. L’infermiera si ferma, la porta del laboratorio è aperta. Sull’uscio, di spalle, è un uomo apparentemente giovane e alto, vestito con una gabbanella grigia che sta parlando con suor Domitilla. Maria Grazia Pernici si ferma, non si avvicina per non disturbare il colloquio.

Chi è l’uomo dalla gabbanella grigia? Perché è nel laboratorio di analisi due ore dopo l’orario di chiusura? Di che cosa sta parlando con suor Domitilla?

L’uomo se ne va senza mostrare il volto all’infermiera di Careggi che si avvicina alla religiosa e le consegna il piccolo pacco.

Sono le 21, Maria Grazia Pernici sarà l’ultima persona ad avere visto viva suor Domitilla, a parte l’assassino o gli assassini. Il telegiornale è finito, sul piccolo schermo in bianco e nero si apre il siparietto di «Carosello», lo stesso da poco riesumato e colorato.

Tra un quarto d’ora i bambini andranno a letto, i grandi guarderanno una delle ultime puntate dell’«Amico del giaguaro» che di lì a poche settimane sarà sostituito da una nuova trasmissione chiamata «Studio 1», alla quale parteciperanno, come già annunciano i giornali, le gemelle Kessler, Mina, 12 Bluebell e il Quartetto Cetra.

Il brigadiere Mancaruso è ancora in piazza Santa Maria Nuova. Almeno stando all’affermazione di un’altra infermiera, Maria Couz, che dirà di averlo visto fermo all’angolo con via Sant’Egidio. Ma poi, durante l’inchiesta, la donna non sembrerà molto convinta, perlomeno sull’orario.

Alla stessa ora, all’interno dell’ospedale, i medici del gabinetto di radiologia, non lontano dal laboratorio di analisi dove è suor Domitilla, sentono il familiare ticchettio della macchina da scrivere della religiosa.

Un quarto d’ora dopo nel laboratorio c’è il silenzio assoluto. Il dottor Bigagli, che deve andare a svolgere il suo turno di guardia nella cappella mortuaria dove è la salma del professore Fedele Fedeli, suo maestro, morto proprio quella mattina, trova la porta della cappella chiusa. Va allora a cercare qualcuno che sia in possesso della chiave e passa davanti al laboratorio di analisi. Il dottor Bigagli vede la porta spalancata; i locali sono completamente illuminati, ma dall’interno non viene nessun segno di vita; il medico chiama più volte, ma nessuno risponde. Bigagli non entra e continua la sua ricerca per potere andare nella cappella mortuaria.

Alle 22 due persone cominciano a pensare che qualcosa di strano è accaduto negli uffici dove lavora suor Domitilla. Il dottor Carlori, che lavora dentro l’ospedale, si insospettisce nel vedere dalla sua finestra ancora illuminato il laboratorio di analisi e decide di andare a vedere. Contemporaneamente o quasi, la madre superiora del convento delle Oblate, preoccupata di non avere visto tornare a quell’ora suor Domitilla, chiama suor Emilia e suor Cecilia e dice loro di andare a chiamare la consorella.

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E sono le due suore che scoprono con orrore il cadavere di suor Domitilla, riverso per terra, le candide fasce attorno alla testa tinte di sangue.

Non si era ancora spenta l’eco delle grida di terrore di suor Cecilia e di suor Emilia che la notizia del crimine aveva percorso tutto l’antico edificio dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova. Pochi minuti dopo, facendo stridere le gomme sul lastricato della piazza, si fermarono davanti all’ingresso principale le auto della polizia, che allora erano ancora di un colore grigioverde di tipo militare. Ne scesero, tra gli altri, lo stesso procuratore della Repubblica Sica, il suo sostituto Cantagalli, il capo della Squadra Mobile Anania, i tecnici della «scientifica».

Fuori dell’ospedale si radunò la piccola folla fatta dei soliti curiosi che la polizia tenne a distanza.

Arrivarono anche due giornalisti, che non sapevano né potevano sapere, ancora niente del delitto. Venivano a Santa Maria Nuova per il consueto «giro» notturno. Dall’insolito movimento, dalla presenza delle auto della polizia capirono che era accaduto qualcosa di grave. Uno dei due cronisti, ancora prima di entrare nell’ospedale vide una persona conosciuta e gli chiese se sapeva che cosa era accaduto.

«C’è una suora morta» gli rispose l’uomo. Quell’uomo era il brigadiere Giacinto Mancaruso che, quindi, pochi minuti dopo le 23 era di nuovo in piazza Santa Maria Nuova. E sapeva che cosa era successo dentro l’ospedale.

Nel laboratorio di analisi era cominciato il primo sopralluogo. Il cadavere di suor Domitilla giaceva supino, la testa orrendamente sfregiata da numerosi colpi che l’assassino aveva inferto con notevole violenza. E tuttavia non molto sangue era sgorgato dalle ferite, perché le fasce bianche che avvolgevano il capo della religiosa lo avevano trattenuto. Presumibilmente questo aveva favorito l’assassinio che aveva potuto lasciare il teatro del delitto senza portarsi addosso macchie accusatrici.

Non fu difficile trovare l’arma: l’uomo che aveva assassinato suor Domitilla l’aveva lasciata sul cadavere. Era un tubo di ferro dipinto di bianco che era stato preso da un mucchio di ferri uguali che si trovava nel cortile adiacente al laboratorio di analisi.

Sulla macchina da scrivere, alla quale suor Domitilla stava lavorando quando l’assassino aveva fatto il suo ingresso, era rimasta una cartella clinica per un’analisi di emocromo non ancora completata.

Il registro generale era aperto: un investigatore ebbe l’idea di andare a controllare i nomi segnati alla pagina che era stata consultata per ultima. Forse l’assassino, per carpire la fiducia della religiosa, si era presentato con la scusa di avere urgenza di ritirare un’analisi e aveva detto il proprio nome alla suora. Tutti i nomi che figuravano in quella pagina furono evidentemente registrati dalla polizia.

Per trovare un movente al delitto e potere quindi dare subito un indirizzo all’indagine prevalse una tesi che, se si imponeva come la più facile, non avrebbe tuttavia dovuto far dimenticare di prenderne in considerazione altre, magari di più difficile e faticosa dimostrazione. Fu deciso, probabilmente la sera stessa della scoperta dell’omicidio, che il movente era da ricercare in un tentativo di furto perpetrato da qualcuno conosciuto da suor Domitilla. Vistosi scoperto, e certo che sarebbe stato denunciato, il ladro avrebbe ucciso la suora.

Pochi dubitarono di questa tesi, che pure si scontrava con alcuni elementi di non secondaria importanza rilevabili dalla scena del delitto e da altre circostanze. Una sola

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certezza poteva quella sera essere raccolta: l’assassino non era arrivato all’Arcispedale di Santa Maria Nuova con l’intenzione di uccidere, tanto che vi era entrato disarmato e aveva dovuto cercare un oggetto contundente per colpire la suora.

Ma questa ricostruzione, peraltro sicura, avrebbe dovuto porre un interrogativo piuttosto inquietante: se il ladro si era trasformato in assassino perché era stato scoperto e riconosciuto da suor Domitilla, la sua reazione omicida avrebbe dovuto essere, per così dire, istantanea e quindi, come avrebbe avuto tempo e modo di uscire dal laboratorio di analisi, andare nel cortile, prendere il tubo di ferro, tornare e aggredire la religiosa? Non avrebbe suor Domitilla gridato e chiesto aiuto? Non avrebbe avuto il tempo di fuggire?

Certo non lo fece: i medici del vicino laboratorio di radiologia potevano benissimo sentire il ticchettio della sua macchina da scrivere e, quindi, avrebbero anche sentito le sue invocazioni di aiuto o un grido di allarme.

I risultati delle perizie fatte dalla «scientifica» sul tubo di ferro che l’assassino aveva lasciato sul cadavere avrebbero dovuto suscitare almeno qualche perplessità. Sull’arma non furono trovate impronte digitali: quindi, o l’assassino era entrato nell’ospedale con le mani guantate, oppure aveva accuratamente pulito il tubo dopo l’omicidio, dimostrando in tal caso un sangue freddo che mal si concilia con lo stato d’animo di un ladro che uccide perché sorpreso con le mani nel sacco.

E, soprattutto, perché lasciare l’arma del delitto proprio sul corpo della vittima? L’assassino voleva nel modo più evidente indicare alla polizia che quella era l’arma usata? Oppure voleva far «credere» che quella era stata l’arma?

E se questo fosse vero, perché? Forse perché la vera arma del delitto — è una nostra ipotesi — aveva su di sé le impronte dell’assassino che pensò di dissimularle nel modo più facile: ributtandola dove l’aveva presa, nel mucchio di tubi di ferro bianchi, che era nel cortile adiacente al laboratorio di analisi e sostituendola, questa volta con le dovute precauzioni, con un altro tubo identico.

Furono esaminati dalla «scientifica» i tubi che erano nel cortile per verificare se un altro recava tracce di sangue.

Altre circostanze avrebbero dovuto, se non cancellare, perlomeno circondare di seri dubbi l’ipotesi del ladro scoperto. Ora, in primo luogo, come si è detto, un ladro avrebbe dovuto avere una certa conoscenza dei luoghi e soprattutto delle abitudini che vigevano all’interno del laboratorio dove lavorava suor Domitilla e, quindi, avrebbe saputo che la sera di un sabato era la meno adatta per trovare abbastanza denaro che giustificasse il «colpo». Gli inquirenti stabilirono, leggendo il bollettario, che sabato 23 settembre 1961 erano entrate in cassa 200 mila lire. Nel cassetto furono trovate 34 mila lire.

Forse il ladro assassino aveva preso le 166 mila lire? No, perché questi soldi furono trovati chiusi in cassaforte, dove suor Domitilla l’aveva messi evidentemente per non correre rischi.

Ma c’è un altro elemento che contrasta con l’ipotesi del furto. Suor Domitilla portava in tasca e legate alla cintura le chiavi della cassaforte. Le chiavi erano al loro posto e l’assassino non aveva fatto alcun tentativo per strapparle.

Certo questa serie di interrogativi non è sufficiente per eliminare l’ipotesi del ladro che, scoperto, si trasforma in assassino. Tuttavia è ampiamente sufficiente per ritenere che il movente dell’omicidio possa essere stato un altro. Se esso resta misterioso, pochi

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dubbi, invece, possono sussistere sullo scopo del delitto: suor Domitilla doveva tacere per sempre. Che cosa sapeva di così grave una suora che lavorava dentro l’Arcispedale di Santa Maria Nuova? Quale segreto custodiva?

Ce ne era comunque abbastanza perché il delitto suscitasse enorme impressione in tutta Firenze e riscaldasse la fantasia di molti. Ventiquattro ore dopo il delitto la procura, la questura e la caserma dei carabinieri di Borgo Ognissanti furono sommerse da un’ondata di lettere anonime che formulavano le ipotesi più stravaganti per spiegare l’omicidio e indicavano a volte con nomi e cognomi impossibili assassini.

Attraverso i giornali l’opinione pubblica ebbe subito la risposta che l’indagine avanzava veloce. «Un tipo freddo fermato dalla polizia nelle indagini per l’assassinio della suora» titolava «La Nazione» già il giorno in cui si svolsero i funerali di suor Domitilla. Il giornalista riportava la notizia, ma a leggere il suo articolo si intuiva che lo faceva più per dovere di cronaca che perché credesse che effettivamente si stesse andando verso la soluzione del mistero.

In effetti gli inquirenti, in assenza di una traccia precisa da seguire, procedevano con il metodo di interrogare il maggior numero di persone possibile alla ricerca di un filo conduttore. Quando trovavano qualcuno incerto sulle risposte facevano scattare il fermo di polizia, che allora poteva durare sette giorni, perché convinti non tanto di avere inaspettatamente messo le mani sul colpevole, ma forse su un testimone reticente che qualche ora o giorno in una cella di sicurezza della questura avrebbero spinto a ricordare meglio quello che sapeva. Era, in quegli anni, una prassi normale: di più, un metodo di indagine.

Il 3 ottobre le cronache dei giornali hanno un nuovo sospetto da presentare all’opinione pubblica e, questa volta, abbastanza credibile. La polizia ha fermato Marino Mattonai, il giovane livornese implicato anni prima nella rapina al Monte dei Paschi di Siena di San Giuliano Terme e che durante un suo periodo di degenza all’ospedale di Santa Maria Nuova aveva conosciuto suor Domitilla e ne era anzi divenuto un «protetto». Invece di starsene a Livorno il 23 settembre, giorno del delitto, Mattonai aveva avuto la pessima idea di venire a Firenze. La polizia, che a quei tempi aveva buone informazioni dal mondo della «mala», lo aveva saputo. Come aveva saputo che Marino Mattonai ogni volta che veniva a Firenze non trascurava di andare a trovare suor Domitilla.

Quali altri indizi c’erano a carico del livornese? Rileggiamo i giornali di allora: «Gli investigatori gli hanno chiesto perché e che cosa abbia fatto quella notte; ma egli non solo ha negato di essersi trovato qui ma si è rifiutato di rispondere alle altre domande. Per questi motivi l’autorità giudiziaria ha concesso alla polizia l’autorizzazione al fermo».

Se il cronista, come molte altre cose lasciano capire, era bene informato, non c’era molto a carico di Marino Mattonai, a parte il suo passato e l’amicizia con suor Domitilla. E, tuttavia, il delitto coinvolgeva a tal punto l’opinione pubblica che anche la notizia del ritrovamento, il venerdì 6 ottobre, della tanto ricercata testa della Primavera sul greto dell’Arno ad opera dell’operaio Timoteo Lucaroni, finì, almeno nelle pagine fiorentine, ben presto in secondo piano rispetto a quelle del delitto.

È più facile pensare che il cronista, certo che di lì a poco ci sarebbe stata una clamorosa svolta nell’indagine, avesse voluto tenere sveglio l’interesse dell’opinione pubblica sul caso.

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Il 23 ottobre i giornali escono con un titolo a sensazione: «Un ex agente di polizia fermato nelle indagini per il delitto dell’ospedale». Un titolo a tre sole colonne, mitigato da una riga che avverte: «L’uccisione della suora ancora avvolta nel mistero». È evidente che il fermo del poliziotto sospettato dell’omicidio consiglia la prudenza, e, tuttavia, il caso, come prometteva fin dall’inizio, diventa sempre più clamoroso. Il fermato è il brigadiere di pubblica sicurezza Giacinto Mancaruso, l’agente che per tanto tempo aveva lavorato all’interno di Santa Maria Nuova, a contatto, praticamente, con suor Domitilla. Da alcuni mesi in convalescenza, il 10 ottobre, una quindicina di giorni dopo il delitto quindi, aveva dato le dimissioni dal corpo di polizia.

Che cosa aveva fatto cadere i sospetti degli investigatori su Giacinto Mancaruso?

Certo, le testimonianze di chi lo aveva visto, a ore diverse, prima e dopo il delitto, aggirarsi nei pressi dell’ospedale quel sabato 23 settembre, in particolare il racconto del suo amico, il brigadiere Umberto Valenti. Senza contare che certamente Mancaruso era stato visto da diverse persone sempre a Santa Maria Nuova subito dopo la scoperta dell’omicidio, tanto che aveva collaborato alle primissime indagini con gli agenti della «mobile».

Dopo 48 ore, il fermo dell’ex agente fu rinnovato e Mancaruso finì in cella d’isolamento. Che cosa poteva avere aggravato la sua posizione agli occhi degli inquirenti? Mancaruso ricordava tutto di quel giorno, e sapeva dire con sufficiente precisione che cosa aveva fatto. Con una sola eccezione: aveva un vuoto di memoria per quanto riguardava il periodo di tempo tra le 20 e le 22. Purtroppo per lui, era proprio il periodo di tempo in cui era stata uccisa suor Domitilla.

Ma perché Mancaruso avrebbe dovuto uccidere la suora?Ancora una volta, non potendo trovare altro movente, gli investigatori pensarono al

furto tentato da una persona ben conosciuta da suor Domitilla. Quindi andarono a indagare sulla situazione economica di Mancaruso. E, ancora purtroppo per Mancaruso, trovarono elementi che potevano sorreggere la loro tesi. L’ex brigadiere, non troppo ben visto dai superiori proprio per un tenore di vita superiore ai propri mezzi risultò impigliato in una rete di cambiali e con i mobili pignorati. Insomma, era in chiare difficoltà economiche.

Come si difese l’ex agente di polizia?Mancaruso continuò a sostenere di essere rientrato nella sua casa di Borgo Pinti alle 19

e di esservi rimasto sino all’inizio della trasmissione che seguiva «L’amico del giaguaro», un documentario dal titolo «Cento all’ora» realizzato dall’ex attore «povero ma bello» Antonio Cifariello. Il racconto di Mancaruso continuava asserendo di essere uscito di casa verso le 22,30 per andare a prendere un caffè in un bar di via della Pergola. Lì, disse Mancaruso, seppe che un delitto era stato commesso a Santa Maria Nuova e, incuriosito, si spinse fino all’ospedale dove, stando alla sua ricostruzione, dovrebbe essere arrivato attorno alle 23.

Ora il racconto era in contrasto con ben tre testimonianze. Interrogati, i camerieri del bar di via della Pergola dissero di avere saputo dell’omicidio solo la mattina seguente, domenica 24 settembre: i due giornalisti confermarono di avere incontrato Mancaruso davanti all’ospedale tra le 22 e le 22,15; il suo amico e collega Umberto Valenti ripeté di avere notato Mancaruso in piazza Santa Maria Nuova alle 20,10.

Così il 30 ottobre, trentasette giorni dopo l’uccisione di suor Domitilla, allo scadere

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dei sette giorni di fermo, Giacinto Mancaruso fu formalmente accusato di omicidio.

Sette giorni dopo, il 6 novembre, alle 15,20 due colpi secchi ma deboli risuonarono all’interno della caserma di Pubblica sicurezza «Fadini» di via Faenza, la stessa dove, tra gli altri, ufficialmente risiedevano i brigadieri Umberto Valenti e Giacinto Mancaruso. Quei colpi avrebbero potuto essere anche presi per revolverate, ma nessuno ci pensò o se qualcuno ci prestò attenzione, dovette piuttosto credere che si era trattato del rumore provocato dal tubo di scappamento di un motorino.

Una ventina di minuti dopo un poliziotto entrò in un gabinetto al piano terra della caserma. La porta era aperta: sul pavimento del piccolo vano, steso sul suo sangue era Umberto Valenti. Era ancora vivo, ma bastava poco per capire che la sua vita sarebbe finita quel giorno. Nella mano destra stringeva ancora la pistola d’ordinanza; la tempia destra era un’orribile voragine.

Valenti fu subito trasportato all’ospedale di Careggi dove i medici avrebbero tentato un’operazione. Prima, però, il capo della «mobile» Anania chiese ed ottenne di entrare nella stanza dell’uomo che con la sua testimonianza aveva incastrato l’amico Mancaruso. Non riuscì a fargli dire una sola parola. Valenti non avrebbe più parlato: alle 18,30, nonostante l’intervento chirurgico, morì.

Strano suicidio, quello di Valenti: i colpi erano stati due; una pallottola fu trovata conficcata nel soffitto del piccolo gabinetto e la perizia balistica stabilì che era quella esplosa per ultima, quando la prima, quindi, si trovava già dentro il cranio di Umberto Valenti. L’inchiesta giunse alla conclusione che il sottufficiale, caduto a terra dopo il primo colpo, avrebbe involontariamente esploso il secondo per effetto di una contrazione muscolare.

Perché Valenti avrebbe dovuto uccidersi?Quaranta anni, una moglie e due bambini uno dei quali ancora in fasce, l’esame da

sottufficiale brillantemente superato appena un mese prima, apparentemente l’uomo non avrebbe dovuto avere gravi preoccupazioni. Si andò a frugare nel passato e nella vita privata di Valenti e si scoprì che soffriva di un forte esaurimento nervoso, dovuto, forse, proprio allo stress sopportato per superare l’esame. «Mi sento giù», avrebbe detto qualche volta alla moglie.

Poi arrivò il delitto di suor Domitilla. I giornali cominciarono a parlare di un uomo «sospettato a distanza» e che la sua posizione era legata a una sottile questione di orari. Negli ambienti della polizia tutti sapevano che il «sospettato a distanza» non poteva essere altri che Giacinto Mancaruso e fu allora che Umberto Valenti ricordò, o credette di ricordare, di avere visto la sera del delitto l’amico in piazza Santa Maria Nuova alle 20,10 mentre parlava con una donna.

Mancaruso negò la circostanza in un primo momento, poi, di fronte alla testimonianza di un poliziotto, ammise che forse avrebbe potuto trovarsi alle 20,10 davanti all’ospedale di Santa Maria Nuova, ma non seppe indicare con quale donna stava parlando. Un comportamento che aveva aggravato la sua già precaria situazione.

Valenti sapeva che la sua testimonianza era importante, ma nel suo fondo doveva essere tormentato dal dubbio: «Chissà — aveva detto a un collega — avrò fatto bene, avrò fatto male?».

Alle 15 del 6 novembre fu visto entrare nella caserma «Fadini» e alcuni suoi colleghi gli fecero notare che non era lui di turno quel giorno. «Non importa, resto un poco qui lo

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stesso» rispose Valenti.Appariva preoccupato, teso, fu visto passeggiare su e giù per il cortile per una decina

di minuti. Poi sparì.

Scomparso in modo tanto tragico l’amico che lo aveva in buona fede «incastrato», e divenuti, quindi, ormai impossibile ogni verifica o confronto, non si poteva comunque dire che la posizione di Giacinto Mancaruso fosse per questo migliorata. Altre testimonianze continuavano a collocarlo di fronte all’ospedale di Santa Maria Nuova in orari troppo vicini a quello presumibile in cui suor Domitilla era stata assassinata.

C’era poi la bruciante smentita dei camerieri del bar di via della Pergola dove, secondo Mancaruso, egli avrebbe appreso la sera stessa del delitto che una suora era stata uccisa a Santa Maria Nuova, mentre loro dicevano di averlo saputo solo la mattina seguente.

E, inoltre, erano proprio le contraddizioni e le lacune di memoria di Mancaruso, per quanto riguardava il suo impiego del tempo tra le 21 e le 22 ad aumentare i sospetti. “Io ero in casa a vedere alla televisione l’«Amico del giaguaro»” continuava a ripetere l’imputato. “Mio marito è rimasto in casa per tutto l’«Amico del giaguaro» e per un pezzo della trasmissione seguente, «Cento all’ora»”. Giurava la moglie.

Gli inquirenti chiesero allora a Mancaruso di descrivere in maniera abbastanza particolareggiata la trasmissione di sabato 23 settembre. Il racconto fu decisamente deludente: o il sottufficiale aveva visto quella sera la televisione sonnecchiando, oppure dava l’impressione di raccontare qualcosa che a sua volta aveva sentito raccontare e neanche troppo bene.

E tuttavia gli inquirenti insistettero: era l’«Amico del giaguaro» l’unico elemento che poteva evitare a Mancaruso di finire davanti a una corte d’assise e, per chi indagava, la verifica per non accusare un innocente.

E Mancaruso qualcosa ricordò: non molto, ma così particolare che effettivamente solo chi aveva guardato quella sera la televisione poteva avere notato. Il sottufficiale disse che sabato 23 settembre, poco prima dell’inizio dell’«Amico del giaguaro» l’annunciatrice, della quale non ricordava il nome, aveva detto che «in conseguenza di difficoltà tecniche il documentario dovuto alla regia di Antonio Cifariello non avrebbe avuto poi luogo», anche se poi in realtà la trasmissione fu mandata in onda. Inoltre Mancaruso ricordò che durante la trasmissione di Corrado uno dei concorrenti, un barista romano, al momento di trovare nel nascondiglio l’ambito fagiolo d’oro aveva alzato e agitato le mani in segno di giubilo.

Ce ne era abbastanza perché gli inquirenti decidessero di verificare il tenue alibi di Giacinto Mancaruso. Il 18 novembre il gruppetto di investigatori fiorentini si trasferì a Roma in via Teulada dove si fece proiettare l’«Amico del giaguaro» del 23 settembre registrato in ampex. Inoltre interrogarono la presentatrice che quella sera era stata di servizio, Ines Zegna.

Mancaruso aveva ragione: aveva raccontato pochissimi particolari del suo 23 settembre davanti alla televisione, ma erano esatti. Mancaruso, «incastrato» da un amico in buona fede, veniva scagionato dall’«Amico del giaguaro».

E gli altri indizi? Le altre testimonianze che lo davano in piazza Santa Maria Nuova più o meno all’ora del delitto? E i camerieri del bar di via della Pergola che avevano smentito Mancaruso?

Errori, o perlomeno, imprecisioni della memoria, almeno in parte, e poi, fu detto,

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un’ingenuità colossale del sottufficiale: Mancaruso aveva più volte contraddetto i testimoni che dicevano di averlo visto quella sera in quella piazza, perché il 23 settembre egli era ancora in forza alla pubblica sicurezza e, come sua abitudine, invece di presentarsi al servizio, si era preso un’altra «vacanza non autorizzata». Insomma, Mancaruso aveva sfiorato l’ergastolo per paura di una sanzione disciplinare. Alla fine si rese conto del guaio che aveva combinato e raccontò la verità.

Per quanto riguarda la testimonianza negativa dei camerieri del bar di via della Pergola, fu detto che Mancaruso quella sera aveva saputo lì solo che qualcosa era successo all’ospedale di Santa Maria Nuova, data la presenza di polizia e giornalisti, e solo successivamente, arrivato all’ospedale, seppe da un agente che una suora era stata assassinata.

Giacinto Mancaruso fu scagionato e rimesso in libertà.Pochi giorni dopo lasciò Firenze e se ne andò, per non più tornare, nella sua Cosenza.Che cosa restava dell’indagine sull’uccisione di suor Domitilla?Solo ombre: due sagome oscure intraviste da un frate in una stanza buia vicino al

laboratorio dove la suora fu assassinata; un uomo giovane e alto con una gabbanella grigia visto di spalle dall’infermiera Maria Grazia Pernici. E soprattutto il mistero del movente dell’omicidio.

Una sola certezza: suor Domitilla sapeva qualcosa che non doveva mai dire. A costo della vita.

Il caso di suor Domitilla è rimasto insoluto.

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Il caso LavoriniViareggio 31 gennaio 1969

Al cuore di una città

«Caro diario, oggi è iniziato il 1969. Auguro a te che sei come un amico confidenziale un anno fortunato e pieno di gioie e di conquiste. Tuo Ermanno».

Questa ingenua prima pagina del diario di un ragazzo di 13 anni fu smentita brutalmente appena trenta giorni dopo: chi l’aveva scritta, Ermanno Lavorini, fu sequestrato e ucciso; il 1969 fu l’anno che aprì l’epoca della violenza, tragicamente sottolineato nel dicembre dallo scoppio della bomba nella Banca dell’Agricoltura di Milano.

Tra i due episodi, oggettivamente lontani, corre un viscido filo che li collega. Il «caso Lavorini» fu certo il primo kidnapping in Italia, ma fu soprattutto il primo episodio — rozzo, artigianale, in un certo senso quasi spontaneo — della strategia della tensione e della manipolazione dei «media» per depistare indagini, coscienze e opinione pubblica.

Due sono gli aspetti della tragica vicenda di Ermanno: il «giallo», che va dalla sua scomparsa nel pomeriggio del 31 gennaio, passa per il 9 marzo quando il suo cadavere viene trovato sotto venti centimetri di sabbia a Marina di Vecchiano e arriva al 19 aprile giorno in cui un amico sedicenne del bambino, Marco Baldisseri, si decide a confessare, seppure in maniera contraddittoria; poi c’è il «caso Lavorini» che comincia proprio quando finisce il «giallo» e che in un turbine di notizie, di voci, di maldicenze travolse Viareggio — e non solo Viareggio — provocando altre due vittime, Rodolfo Meciani, suicida in cella, e Giuseppe Zacconi, figlio del grande attore Ermete, morto di crepacuore.

Dei due, senz’altro il secondo è l’aspetto più importante, ma di esso non si può parlare senza fare riferimento a un grande cronista, Marco Nozza, che inviato dal «Giorno» a Viareggio subito dopo la scomparsa di Ermanno, fu il primo — e per lungo tempo l’unico — ad avere individuato la verità dietro la spessa cortina di bugie sapientemente diffuse non solo dai «ragazzi terribili», Pietrino Vangioni, Rodolfo Della Latta, Marco Baldisseri e Andrea Benedetti «faccia d’angelo» (responsabili della morte di Ermanno), ma anche da qualche sapiente regista che è riuscito sempre a restare nell’ombra.

Con ogni mezzo l’oscuro «burattinaio» cercò di accreditare la tesi che dietro la scomparsa e la morte del giovane Ermanno ci fosse un torbido mondo di pedofili che trovavano spazio grazie alla permissività presunta di certe idee che si concretizzavano nei partiti politici di sinistra che in quei giorni governavano Viareggio. Un messaggio che, amplificato dai «media», andava ben oltre i confini della Versilia.

I responsabili — un gruppetto di ragazzi il maggiore dei quali aveva 20 anni e il più piccolo appena 13 — erano invece proprio degli iscritti al Fronte Monarchico, simpatizzanti per l’estrema destra, decisi a tutto per finanziare il loro gruppo perché disponesse dei mezzi per compiere azioni terroristiche «tinte di rosso» che avrebbero suscitato nell’opinione pubblica una reazione contraria. Erano ragazzi, certo, ma non erano soli: qualcuno li guidava.

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Questa la ricostruzione che, venti anni dopo, Marco Nozza ha fatto di quei giorni, del clima torbido che li circondava, degli avvenimenti singolari che accaddero: «Ermanno Lavorini quel venerdì 31 gennaio, antivigilia del primo corso del Carnevale di Viareggio, era uscito di casa nel pomeriggio e aveva inforcato la nuova Superaquila rossa fiammante e se l’era filata chissà dove, lasciando il Piazzone, cuore della città. I Lavorini avevano, hanno ancora, un negozio di tessuti nel Piazzone. Proprio là davanti era nato Mario Tobino, lo scrittore, il figlio del farmacista».

Venti anni fa Viareggio era politicamente una città in crisi. Il centrosinistra si stava sfaldando e il sindaco socialista Berchielli era sempre sotto tiro. La «contestazione», partita da piazza della Scala con un nutrito lancio di pomodori, era arrivata a Capodanno in Versilia dove, di fronte alla Bussola, un gruppo di giovani al grido di «Lasciamo lo champagne ai padroni, noi abbiamo i pomodori» se la presero contro quella che per loro era solo l’esibizione di uno spreco borghese. Intervenne la polizia, furono esplosi alcuni colpi di pistola e uno studente, Soriano Ceccanti, fu colpito alla spina dorsale e rimase paralizzato.

«Erano settimane di violente polemiche — prosegue il racconto di Marco Nozza — Il 2 novembre ad Avola due braccianti morirono durante una manifestazione. L’opinione pubblica discuteva sul disarmo della polizia, in Parlamento anche alcuni democristiani, compagni di partito del ministro degli Interni Restivo, chiedevano, come gli studenti e gli operai che contestavano, la polizia disarmata durante le manifestazioni. In questo clima teso ecco la buona occasione per polizia e carabinieri di rifarsi la faccia. Gliela offre una telefonata. Quella che una voce maschile da adulto fa al negozio del Lavorini alle 17,40 del 31 gennaio 1969: «L’Ermanno sta bene. Torna a casa stasera se preparate quindici milioni».

Le indagini su un ragazzo scomparso — in un’epoca in cui i rapimenti di persona praticamente non esistevano e soprattutto non quelli di bambini — presero quasi inevitabilmente la strada del «bruto». Gli inquirenti sezionarono Viareggio facendone uscire un sordido mondo — non diverso probabilmente da quello che si sarebbe trovato in altre città — ma che in quell’occasione fu esposto senza alcun freno sulla piazza nazionale.

Uscì fuori un mondo di provincia, fatto di beghe in cui il confine tra politico e personale non esisteva, di rivalità commerciali; ed uscì fuori la pineta, il luogo frequentato dall’imbrunire da gruppi di pederasti e «ragazzi di vita», come si diceva allora prendendo a prestito un’espressione di Pasolini, ma che a volte erano solo ragazzini.

Di Ermanno si sapeva bene che non aveva alcuna inclinazione in quel senso, che era un ragazzo sano, ma si sospettò che qualcuno — un adulto — potesse con un tranello averlo attirato in un giro di deviati.

«Roma — prosegue il racconto di Marco Nozza — inviò i suoi Maigret per risolvere più in fretta possibile il caso. Il numero uno era il generale dei carabinieri De Julio, braccio destro dell’ex capo del Sifar De Lorenzo, quello del golpe, che allora sedeva in Parlamento con i monarchici accanto ad Almirante. Era lui che aveva la direzione delle indagini. Indagini che presero subito la strada della pineta: la colpa del rapimento doveva essere attribuita ai pederasti.

Gli investigatori lo avevano saputo da un ragazzo sbandato, Marco Baldisseri. Lo

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avevano interrogato quasi subito in caserma, per via di una vecchia storia.Con un gruppetto di amici Baldisseri aveva preso un pomeriggio una ragazzina e ne

avevano approfittato.«Io — continua Nozza — ebbi i primi sospetti su Baldisseri e i suoi amici perché

avevano addosso un distintivo del Fronte Monarchico Giovanile. Non ti vergogni, gli dissi. E lui: se lei tira fuori questo la querelo.

Della strategia della tensione il caso Lavorini fu l’anteprima: nel senso che i giornalisti vennero scientemente depistati. Meglio parlare di pederasti che di giovani del Fronte Monarchico il cui presidente nazionale era allora Amedeo d’Aosta».

Pure, che non si trattasse di una storia di pedofilia, del delitto di un maniaco cioè, fu abbastanza evidente appena due giorni dopo la scomparsa di Ermanno. In piazza Grande appoggiata a un albero fu trovata dal presentatore viareggino Mario Colsi la Super aquila rossa. Era chiusa a chiave. Possibile che in quelle 48 ore, nonostante le ricerche, nessuno l’avesse notata?

Era stata portata là successivamente?In tal caso doveva essere chiaro che dietro alla scomparsa di Ermanno non poteva

essere un «bruto», ma una persona molto logica, che cercava addirittura di depistare le indagini.

«Io non ebbi mai dubbi — dice Nozza —. Mi ero infatti accorto che la bicicletta era asciutta mentre invece era piovuto tutti e due i giorni. Così come fui il primo a rintracciare Marco Baldisseri che chiamavano Marchino».

Con Baldisseri entrarono nella scena anche Rodolfo Della Latta, di professione necroforo, detto Foffo e il tredicenne Andrea Benedetti, detto «faccia d’angelo». Erano tutti monarchici iscritti al Fronte e da poco avevano fondato una propria sede in un garage di via della Gronda. Il loro capo era Piero Vangioni, il maggiore, 20 anni, mentre Baldisseri aveva il titolo di cassiere.

«Un cassiere dalle casse vuote. — commenta Nozza — Volevano andare a Cascais per riverire re Umberto in esilio».

Trentanove giorni durò l’incubo. L’esercito percorreva di continuo le pinete attorno alla città, perlustravano i cofani delle macchine in uscita, rovistavano nei bauli, scandagliavano le acque del Burlamasco, i canali, i fossi, la darsena; la tv trasmetteva tre volte al giorno corrispondenze, evento assolutamente inedito per un fatto di nera, venne dall’Olanda il «mago di Utrecht», il celebre Gerard Croiset che «vide» Ermanno morto annegato.

Il padre di Ermanno continuava a sperare: «Sono stati — diceva — i contestatori della Bussola perché vogliono contestare anche il Carnevale. Sono sicuro che finito il quarto e ultimo corso, me lo restituiranno».

La mattina di domenica 9 marzo il maresciallo dell’Aeronautica Renato Tofanelli, che abitava a Torre del Lago, uscì verso le 11,30 per portare il suo setter sulla spiaggia di Marina di Vecchiano a sgambare. In una zona deserta, a una quindicina di chilometri dal centro di Viareggio, il cane cominciò ad annaspare spostando sabbia. Sotto uno strato di appena venti centimetri era il cadavere di un ragazzo. Il maresciallo non pensò ad Ermanno, chiamò subito i carabinieri.

Sul posto si precipitò il colonnello De Julio e poi tutti gli altri.Gli abiti addosso al cadavere erano gli stessi che Ermanno indossava il giorno in cui

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era scomparso. Il compito del riconoscimento fu assunto da Marcella Pescaglini, la commessa del negozio dei Lavorini.

Chi l’aveva rapito?Perché?L’autopsia sul cadavere di Ermanno dimostrò che il bambino era stato soffocato lo

stesso pomeriggio della sua scomparsa.Nozza riprende il suo racconto: «I poliziotti locali seguivano una loro pista (quella

giusta), ma vennero brutalmente messi da parte. I Maigret romani insistettero sull’ipotesi dei pederasti. I flagellatori di costumi piovvero a Viareggio come cavallette e tracciarono impietosi ritratti della città. Un notissimo giornalista scrittore, di provata fede monarchica colse l’occasione per fustigare lui pure «i giovani capelloni privi di ideali», contrapponendoli alla bella gioventù di un tempo, «felice e dedita al culto della Patria». Ma scrisse un solo articolo.

L’indomani, infatti, fu contraddetto dalla comparsa sulla scena di un folto gruppo di ragazzi iscritti al Fronte Monarchico Giovanile. Il rapimento era nato in mezzo a quei ragazzi. Ma c’era di più: il loro capo, Piero Vangioni, era uno che frequentava assiduamente la caserma dei carabinieri durante le indagini e aveva avuto la spudoratezza di chiedere la taglia al ministero, dato che aveva indicato il colpevole. Che era poi il suo cassiere, Andrea Benedetti, non perseguibile dalla giustizia perché appena tredicenne.

Nel tentativo di salvarsi, i ragazzi terribili di Viareggio, debitamente consigliati, decisero di metterla in politica, e puntarono l’indice contro il sindaco della città, il socialista Berchielli, contro Giuseppe Zacconi, il figlio del grande Ermete, contro Adolfo Meciani, colpevole di possedere una «Duetto» rossa.

Incredibilmente, senza trovare riscontri oggettivi alle fantasiose versioni dei ragazzi terribili, la polizia li seguiva. Sembrava credere alle storie di orge e «balletti verdi» che si sarebbero svolti ora in una villa ora in un appartamento.

Meciani fu dato in pasto all’opinione pubblica ancora prima del suo arresto, che avvenne il 2 maggio. In carcere l’uomo, sposato da poco e padre di una bambina di pochi mesi, si impiccò legando le lenzuola alle sbarre della finestra. Rimase sette giorni in coma, poi morì.

Lo Zacconi, alcuni mesi dopo, morì di crepacuore. Quanto durò quella furia? Qualche settimana. Ma, durante quei giorni, Viareggio fu completamente rivoltata, come un calzino sporco.

Poi, piano piano, lentissimamente (ci vollero anni) la verità venne a galla, grazie alla pazienza e al coraggio di un giudice testardo, Luigi Mazzocchi, che resistette alle pressioni che gli provenivano da ogni parte e riuscì a ricostruire il panorama che aveva fatto da sfondo a quel rapimento e a quella morte».

La primissima verità era quella vera. Il 19 aprile Marco Baldisseri si decise a parlare: «Lo abbiamo rapito noi. Io l’ho colpito con un pugno. Della Latta lo ha soffocato con un fazzoletto. Volevamo i soldi del riscatto per finanziare un’azione contro l’estrema sinistra».

Sarebbe bastato seguire questa verità perché il «caso Lavorini» restasse solo un delitto, per quanto orribile. Ma poco dopo Baldisseri cambiò versione (ne diede complessivamente dodici): «Dovevamo portare — disse — Ermanno a un festino particolare. Con noi c’erano noti personaggi. Ovviamente, omosessuali». E cominciò il

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«caso Lavorini».Dopo tante battaglie processuali, la verità tornò a essere la prima detta da Marco

Baldisseri. Così scrisse il giudice Mazzocchi a conclusione della sua istruttoria: «Tutti (gli imputati) facevano parte dell’organizzazione affine. Fra le due organizzazioni era in progetto una fusione. Nei giorni immediatamente precedenti il 31 gennaio si era inaugurata la sede dell’organizzazione, quella del Fronte, e ferveva l’attività degli aderenti. Proprio in quei giorni covava anche tra i gruppi di estrema destra della Versilia uno spirito di rivalsa per i recenti fatti della Bussola. Resta il fatto che gli indiziati del processo facevano parte di un gruppo dalle caratteristiche precise: cioè un gruppo omogeneo nei confronti di determinate prospettive di ideali e di azione, pervaso di fanatismo, incline per natura a colpi di mano. Spicca naturalmente in questo quadro la figura di Pietrino Vangioni, animatore e coordinatore».

La storia del «giallo» Lavorini è tutta qui: il ragazzo fu rapito per cercar di estorcere una quindicina di milioni al padre e finanziare il gruppetto di estrema destra. Tra le loro tante versioni, i ragazzi terribili di Viareggio dissero anche che Ermanno in un primo momento era d’accordo con loro, ma che poi si sarebbe impaurito, avrebbe cambiato idea. Sarebbe nato allora un litigio durante il quale sarebbe stato colpito — forse da Baldisseri, forse da Della Latta — da un violento pugno. Ermanno avrebbe perso conoscenza e sarebbe poi stato soffocato da Della Latta.

È una versione poco credibile: non si può pensare che una banda di delinquenti, per quanto giovani, potessero fidarsi di un bambino di 13 anni contando sul fatto che non avrebbe mai raccontato la verità.

Ermanno, dunque, fu ucciso quello stesso 31 gennaio in cui sparì. Non si sa dove, forse nel garage di via della Gronda. È certo — per sua stessa ammissione — che a seppellirlo a Marina di Vecchiano fu il becchino Foffo Della Latta. Macabro particolare, fu lo stesso Della Latta a incaricarsi della salma di Ermanno dopo il ritrovamento, talché si può dire che lo seppellì due volte.

Molto complessa fu la vicenda giudiziaria del «caso Lavorini». Il processo di primo grado dinanzi alla corte d’assise di Pisa si concluse dopo trentanove udienze il 6 marzo 1975. Il verdetto venne emesso dopo sette ore e mezza di camera di consiglio. I giudici condannarono Marco Baldisseri a 15 anni di reclusione, Rodolfo Della Latta a 19 anni e 4 mesi per omicidio preterintenzionale, mentre assolsero Pierino Vangioni per insufficienza di prove.

In questa occasione la corte seguì ancora la teoria delle orge, dei festini, tesi sostenuta dal pubblico ministero Giovanni Sellaroli.

Al processo di appello a Firenze, nel giugno 1976, il pubblico ministero Enzo Fileno Carabba e i giudici riconobbero, invece, la tesi di Mazzocchi. Carabba chiese 30 anni di carcere per Della Latta e Vangioni, 22 anni per Baldisseri. La corte condivise la tesi dell’accusa per quanto riguarda il sequestro e le sue motivazioni, ma ritenne che si trattò di omicidio preterintenzionale. Condannò Baldisseri a 8 anni e 6 mesi, Della Latta a 11 anni e 10 mesi, Vangioni a 9 anni.

Il 13 maggio 1977 la Cassazione confermò la sentenza della corte d’assise d’appello di Firenze.

Nessuna condanna, per la sua età, ebbe «faccia d’angelo» Andrea Benedetti.

Che cosa ne è dei ragazzi terribili di Viareggio?

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Marco Baldisseri lavora come cuoco in una pensione di Camaiore e si arrangia guidando camion per conto terzi o cucendo suole e tomaie a casa. È sposato e ha due figli.

Rodolfo Della Latta, dopo avere frequentato l’università di Urbino, ha messo su un negozio di videocassette a Massa. Qualche volta si improvvisa discjockey per una tv locale.

Pietrino Vangioni, l’ex capo dei giovani monarchici, aiuta il padre nel suo deposito di rottami. Giura ancora di essere innocente.

Andrea Benedetti suona il contrabbasso in qualche orchestra.Nessuno di loro ha mai raccontato chi venti anni fa gli suggeriva le pericolose storie

che sconvolsero Viareggio.

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L’omicidio dell’ArchettoPisa 18 maggio 1971

L’oste deve morire

La distanza tra la libertà e trenta anni di galera può essere a volte di soli pochi metri o di una manciata di minuti. Può capitare che chi giudica non veda la differenza, o sbagli il calcolo che deve invece essere molto preciso. Tutto diventa poi maledettamente difficile se, per prendere la misura, si ha a disposizione non uno, ma più metri e, anche se di poco, uno diverso dall’altro, né si può sapere quale sia quello autentico.

È qui l’angoscia di un «giallo» che sembra costruito appositamente per un film di Clouzot: un mondo piccolo, addirittura minimo, personaggi che sotto una vita apparentemente scialba nascondono forti passioni, uomini e donne legati a doppio, triplo filo per di più intrecciato, piccole strade di una città di provincia in cui tutti si conoscono. Un film da girare in bianco e nero, pieno di sfumature grigie, scene che rifiutano il colore.

È il delitto dell’Archetto, una storia che per oltre un anno, al ritmo di continui colpi di scena, coinvolse Pisa dal finire del maggio 1971; un assassinio avvenuto in uno spazio angusto dove si affollavano persone e sentimenti che nello stesso tempo si attiravano e si contrastavano e che in quei pochi metri quadrati divisi da pochi muri e in qualche minuto si sono giocate la vita.

Nei piccoli locali dell’Archetto, la trattoria che diede nome all’assassinio del suo proprietario, in via La Nunziatina, nel più popolare quartiere di Pisa, si svolse nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1971 una delle più intricate vicende delittuose che siano state fornite alle cronache giudiziarie. Si annodò quella notte in maniera così stretta un gomitolo di diverse verità che ancora oggi è lecito chiedersi, dopo due processi, se esso fu completamente srotolato. E potrà essere interessante andare adesso a riprendere i fili che più di venticinque anni fa furono liberati per riesaminarli, confrontarli e vedere se davvero alla fine i conti sono tornati.

Tre mesi prima il delitto dell’Archetto ebbe un prologo, anch’esso tragico, ma che fu messo in rapporto con l’omicidio di maggio solo con molto ritardo e con molta difficoltà. L’assassinio di un oste pisano fu in effetti preannunciato da un attentato politico.

Era la notte tra il sabato 13 e la domenica 14 febbraio 1971, un’epoca in cui cominciavano a germogliare gli «anni di piombo». Erano da poco passate l’1,30: a bordo della sua «1750» Giovanni Persoglio Gamalero, 29 anni, laureando in ingegneria, facoltà scelta evidentemente in funzione dell’attività che gli avrebbe lasciato il padre Alfredo, proprietario della «Gambogi», costruzione di autostrade, tornava a casa con la moglie Graziella. I due giovani sposi, che abitavano in una bella villa di Tirrenia, avevano passato la vigilia di San Valentino a Lucca in un ristorante. Chiacchieravano delle ore appena passate quando lentamente percorrevano il lungomare di Marina di Pisa. Arrivati alle ultime case, là dove il tratto di strada prende il nome di Lungomare Padre Agostino, lo sguardo di Giovanni fu attirato da qualcosa di insolito. Dalla saracinesca abbassata di

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un negozio, una macelleria, usciva una sottile ma densa colonna di fumo bianco. Un principio d’incendio, pensò il giovane, che fermò l’auto deciso ad andare a vedere che cosa stava succedendo.

Graziella lo consigliò di lasciar perdere, semmai avrebbero telefonato da casa ai vigili del fuoco. Persoglio insistette: «Ma se si tratta di un incendio — disse — non si fa a tempo ad andare a casa. Bisogna chiamarli subito i pompieri».

Il generoso comportamento gli sarebbe valsa una medaglia d’oro al valore civile. Non appena sceso dall’auto, infatti, mentre era proprio davanti alla saracinesca, la bomba scoppiò. Le schegge lo investirono in pieno. Graziella accorse e tenne la testa del marito agonizzante sulle sue ginocchia fino alle 2,20 quando finalmente arrivò un’ambulanza. Era troppo tardi.

Certamente gli attentatori non avevano voluto uccidere nessuno e tantomeno Giovanni Persoglio che solo una somma incredibile di coincidenze aveva portato all’appuntamento con la morte. Obbiettivo della bomba, più dimostrativa che altro, era la macelleria di Aldo Meucci, ricco commerciante di carni, malvisto da certi elementi locali dell’estrema sinistra e dagli anarchici non tanto perché professasse idee di destra, quanto perché recentemente si era rifiutato di aderire a uno sciopero proclamato per solidarietà con gli operai della Fiat in lotta. L’attentato avrebbe dovuto essere un esempio e i bombaroli dovevano senz’altro avere letto il Mao di «colpisci uno per educarne cento», molto in voga in quei tempi.

La morte di Giovanni Persoglio, anche per la tragica catena di casi fortuiti che avevano concorso a provocarla, suscitò un’enorme impressione. Purtroppo non si tardò molto a capire che l’inchiesta avrebbe dovuto ben presto segnare il passo. Nel fascicolo degli investigatori erano solo gli interrogatori di quasi tutti i personaggi pisani legati all’estrema sinistra o segnalati come tali. Perciò c’era anche l’interrogatorio di Luciano Serragli, il proprietario della trattoria l’Archetto, con tavola calda e rosticceria annesse, 600 lire un pasto completo e la libertà di parlare di bombe e di rivoluzione. Serragli non aveva mai nascosto le sue simpatie anarchiche e il suo locale era frequentato da chi la pensava come lui. Le voci, poi, avevano aggiunto senza mai provarlo che all’Archetto erano stati visti personaggi mitici delle cronache politico-giudiziarie di allora, Giangiacomo Feltrinelli, «Saetta», Saba, Lazagna, la figlia adottiva di Togliatti. Certo era che l’Archetto era una sorta di quartier generale degli anarchici pisani, tanto che, durante i disordini dell’ottobre 1969, la trattoria si era trasformata in arsenale dove partivano molotov e bastoni per i giovani che si scontravano per le vie di Pisa con la polizia.

Dall’interrogatorio di Serragli, ascoltato come tanti altri senza alcun indizio preciso ma solo allo scopo di raccogliere il maggior numero di informazioni possibile, i carabinieri non trassero niente che potesse fare luce sull’attentato di Marina di Pisa.

Quando, tre mesi dopo, i carabinieri lo rividero, Luciano Serragli era un cadavere.

Il primo a vederlo così in realtà fu Attilio Berdoati, un anziano contadino che la mattina di venerdì 21 maggio, come faceva quasi ogni martedì e venerdì, si era arrampicato sul monte Castellare, una collina che domina Asciano Pisano e tutta la pianura di Pisa fino al mare, e in vetta alla quale si può arrivare, oltre che a piedi, solo attraverso una ripida e tortuosa mulattiera percorribile meglio in moto o su un fuoristrada. Berdoati andava fin lassù per raccogliere mortella, un’erba che poi rivendeva a un fioraio che la usava per abbellire i mazzi di fiori.

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C’è un rudere in cima al Castellare, una villa diroccata che la gente della zona ha ribattezzato «la villa del polacco». Più o meno a centocinquanta metri dal rudere, salendo ancora, c’è la «Buca delle fate», un crepaccio senza fondo che deve il suo nome forse all’eco che rimanda e che sembra risalire dai visceri della terra. E fu a 20 metri dalla «Buca delle fate» che, verso le 8 di quella mattina il cane di Attilio Berdoati trovò il cadavere di Luciano Serragli. Era supino e rannicchiato, il viso nella terra. Doveva essere morto da un po’, dovette pensare il contadino portandosi il fazzoletto al naso. E dovevano averlo ammazzato: non si arriva per caso in cima al Castellare e, soprattutto, se si muore per cause naturali, non ci si mette sopra al corpo una coperta e poi la si fissa con una bella pietra sulla testa perché non si scopra ciò che nasconde.

Berdoati si affrettò a ridiscendere e quando vide il primo vigile gli raccontò che cosa aveva trovato in mezzo alla mortella, su, vicino alla «Buca delle fate». I carabinieri ci andarono in campagnola e con i vigili del fuoco che avevano l’ingrato compito di raccogliere il cadavere e di riportarlo a valle. Luciano Serragli finì sul tavolo di marmo dell’istituto di medicina legale.

Sembrava che avesse ferite alla testa, che appariva piuttosto malridotta, come se fosse stato massacrato a bastonate o a colpi di pietra. Ma presto i periti si accorsero che quella devastazione era stata provocata dagli animali. A parte quelle ferite il cadavere non presentava altre lesioni e, anche se certamente di un omicidio si trattava, era difficile dire come era stato commesso. Forse, ipotizzarono i medici legali, era stato soffocato.

Serragli aveva un paio di pantaloni grigi, scarpe nere di pelle intrecciata, calzini marroni; sulla canottiera, una maglietta celeste a mezze maniche. Non aveva niente in tasca, neanche il portafogli e le mani, come i polsi, erano nude: né orologio, né anelli, neanche una fede. Il portafogli fu trovato dopo, più o meno a cinque metri dal punto dove era il cadavere. C’era la patente intestata a Luciano Serragli, qualche altra carta, nessun soldo.

Nel pomeriggio fu il figlio Walter a riconoscere ufficialmente che quel cadavere era stato suo padre.

L’indagine, ovviamente cominciò in via La Nunziatina, dentro all’Archetto e cominciò con una sorpresa. Luciano Serragli era scomparso da casa già da tre giorni, la notte tra il 18 e il 19, ma nessuno ne aveva denunciato la scomparsa.

Ora, Luciano Serragli, un tipo piccolo e magro, 44 anni, viveva con la moglie Elsa, sua coetanea, e la figlia Paola, che preferiva chiamare Luciana, anzi Nana, di neanche 17 anni, in un appartamento attiguo all’Archetto. Quasi di famiglia erano poi i due camerieri che lavoravano nella trattoria, Vincenzo Scarpellini, 34 anni mal portati, viso sottile e un lungo naso, e Glauco Michelotti, 39 anni, aria da bel tenebroso, ciuffo sulla fronte, lunghe basette. Oltre alla professione i due camerieri avevano altre cose in comune: la stessa fede anarchica, due mogli dalle quali si erano separati, un appartamento da dividere in via delle Belle Donne a pochi passi dall’Archetto e due vite balorde alle spalle. Serragli aveva, poi, altri parenti, la madre, il padre, cognati, ma nessuno, seppure informato della sua scomparsa già dalla mattina del 19 maggio, si era preoccupato di denunciare il fatto ai carabinieri.

Bisogna dire che Luciano Serragli era un personaggio un po’ particolare. Il suo vizio di bere lo aveva rovinato: già minato dalla silicosi, aveva anche una grave forma di cirrosi epatica, una tremenda insufficienza polmonare e altri malanni tanto che i medici, poco prima della sua morte violenta, gli avevano pronosticato non più di cinque mesi di

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vita. E poi Serragli, dati i clienti particolari che frequentavano il suo locale, aveva fatto amicizia con personaggi almeno dubbi con i quali faceva a volte piccoli e oscuri traffici al limite della legalità e spesso oltre.

I carabinieri sentirono per prima la moglie Elsa e capirono subito di avere messo le mani su un intreccio tremendo che sarebbe stato assai difficile districare. Ne tirarono fuori molti fili e poi si convinsero che la trama era stata chiarita. Come dicevamo all’inizio di questa storia, è interessante rimettere a confronto quei fili, che sono poi le differenti verità dei personaggi implicati nella vicenda. Cominciando anche noi da quella di Elsa, la moglie della vittima.

Il primo filo, la prima verità. Elsa Serragli e la figlia Nana raccontarono ai carabinieri che la sera del 18, mentre cenavano nel ristorante assieme ai due camerieri, lo Scarpellini e il Michelotti, avevano ricevuto degli amici, Romano Mugnanini con la figlia Manuela, e dei parenti, la sorella Silvia con il marito Luciano Cecchi e la loro figlia Stefania. I Cecchi se ne sarebbero andati via verso le 23, quando ormai l’Archetto era stato chiuso e Mugnanini aggiunse di avere salutato Luciano Serragli mentre saliva in casa appoggiando affettuosamente un braccio sulle spalle di Nana. I due camerieri e Mugnanini sarebbero andati al circolo «Etruria», che era sempre in via La Nunziatina, dove sarebbero rimasti fin dopo mezzanotte.

In casa di Luciano Serragli a quell’ora, seguendo il «filo» di Elsa e di Nana, tutti dormivano. Ma verso le 2 accadde che quell’ubriaco del «Boghero» che passava nella stretta strada cominciò a fare un chiasso tremendo costringendo un sacco di gente ad affacciarsi alle finestre. Il sonno fu spezzato anche in casa dell’oste dell’Archetto. Luciano Serragli si svegliò con il pessimo umore che può avere un alcolista che non ha ancora smaltito l’ultima sbornia. Scoppiò un litigio, volarono pugni e schiaffi. Poi Luciano, disse Elsa, si fece aprire la cassaforte, si fece dare i soldi che vi erano — più o meno 400 mila lire — e se ne andò. «Vado via, non vi voglio più vedere».

Tra il racconto della moglie Elsa e della figlia Nana c’era, è vero, una differenza, ma talmente piccola che si poteva dire che i due «fili» combaciassero. Nana aveva in effetti detto che era stato il padre da solo a prendere i soldi nella cassaforte.

C’erano però altri due elementi, per il momento non di particolare importanza, che dovettero sensibilizzare le esperte antenne dei carabinieri. Il primo: il plaid scozzese che sul Castellare nascondeva il cadavere di Luciano Serragli era, per ammissione di Elsa, lo stesso che veniva tenuto nel magazzino dell’Archetto.

Secondo: Elsa, nel tentativo di spiegare la tragica sorte toccata al marito e per giustificare il fatto di non averne denunciato la scomparsa, avanzò l’ipotesi che Luciano se ne fosse andato, la mattina stessa del 19 maggio a Genova con un pregiudicato suo amico, un ladro di nome Samuele Dei, per comprare, certo non in una gioielleria, un anello per la figlia Nana. Elsa insinuò che forse qualcosa di brutto poteva essere successo tra i due. Ma il sospetto non poteva essere ripreso, perché Dei era stato arrestato proprio il giorno prima della scomparsa di Luciano Serragli e quindi con essa non poteva avere niente a che fare.

Piccole incongruenze che, fin dalle prime ore, convinsero i carabinieri che l’indagine non avrebbe dovuto spostarsi dall’Archetto.

Ovviamente gli investigatori raccolsero anche tutte le voci — e non erano certo poche — che nel rione circolavano sull’Archetto e sui personaggi che ci vivevano. Vero è che

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non dovettero faticare molto, perché certamente sulla trattoria e sui suoi clienti dovevano da tempo avere un voluminoso dossier in caserma.

In via La Nunziatina e dintorni, dunque, correva su tutte le bocche la voce che uno dei camerieri, Glauco Michelotti, se la intendeva con la giovane Nana e qualcuno era certo che anche Elsa avesse ricevuto le sue non sgradite attenzioni. L’oste, più che delle chiacchiere sulla moglie, si tormentava dei sospetti che aveva sulla figlia che, con «siciliano» amor paterno, voleva portare vergine all’altare. E, così, tra un’ubriacatura e l’altra, ogni tanto Luciano Serragli alzava la voce per gridare che avrebbe portato Nana da un ginecologo per appurare la verità. Proposito che parenti e amici gli sconsigliavano di portare a compimento per non provocare traumi nella giovanissima ragazza e soprattutto per non crearle attorno del discredito.

La visita ginecologica era il chiodo fisso di Luciano: puntualmente veniva minacciata seguita da truculenti avvertimenti: avrebbe lavato l’onore col sangue, avrebbe ammazzato tutti, avrebbe affettato mamma e figlia con l’affettatrice e via dicendo.

Quanto peso si dovesse dare alle «terribili» minacce è difficile dire: una volta Luciano aveva confidato alla sorella Franca che se anche fosse risultato che Nana non era vergine se la sarebbe tenuta «così come sarà»; e a chi gli consigliava di allontanare dall’Archetto Glauco Michelotti, rispondeva che preferiva arrivare alla verità cogliendolo sul fatto. Non c’era, però, riuscito neanche 17 anni prima, un anno prima della nascita di Nana, quando, avvertito da un amico, non era riuscito a scoprire la tresca tra la moglie e un certo Fufi.

I carabinieri raccolsero quel giorno un altro particolare sospetto. Da Esilda Parola, una donna che aiutava nella trattoria a fare le faccende di cucina, seppero che la mattina del 19, il giorno, quindi, della scomparsa di Luciano, Elsa verso le 10,30 si era appartata in camera con Michelotti per una buona mezz’ora. Doveva, disse, farsi dare indicazioni sugli interessi commerciali del marito. Nana ne era rimasta contrariata e bestemmiando chiamò più di una volta la madre. Quando Elsa ridiscese nella trattoria aveva al collo una catena d’oro con un medaglione che fece vedere alla sguattera dicendo: «Luciano non voleva che la portassi, aveva anche tentato di strozzarmi con la catena. Ora che se ne è andato me la metto».

Solo una dimostrazione di scarso affetto per un marito misteriosamente scomparso?Non molto più affettuosa si dimostrò la figlia Nana che sempre alla Parola disse che

presto se ne sarebbe andata a vivere con il «suo» Glauco. E quando la donna le disse che prima o poi il padre sarebbe tornato da Genova, Nana rispose: «Chi se ne frega? Io con Glauco ci torno, tanto gli daranno il divorzio».

Ultimo elemento del primo giorno: Luciano Serragli andandosene via con le 400 mila lire prese in cassaforte, aveva lasciato moglie e figlia senza una lira. Eppure, nel pomeriggio del 19 il fornitore di vino Giuseppe Vaiani consegnò due damigiane che gli furono pagate, anzi riuscì a incassare anche i soldi di una terza che era stata ceduta a credito qualche settimana prima.

Raccolti questi elementi, era certo che gli inquirenti non si sarebbero mossi dall’Archetto.

Il secondo giorno i carabinieri andarono a interrogare in carcere Samuele Dei, il ladro che avrebbe dovuto fare, stando a Elsa, un viaggio a Genova con Luciano Serragli. E il «filo» che Dei diede loro era corto, ma inaspettatamente interessante. Disse Dei che pochi giorni prima della scomparsa di Luciano Serragli il cameriere Vincenzo Scarpellini gli

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aveva chiesto di procurargli un veleno molto potente perché voleva fare fuori l’oste dell’Archetto.

Scarpellini era dunque l’assassino? E perché? Perché, soprattutto, un pregiudicato come Samuele Dei, abituato, come diceva lui stesso, «a non fare la spia a nessuno» serviva ai carabinieri, senza farsi neanche tanto pregare, il responsabile di un omicidio che di lui si era fidato?

«Se quelle donne non si fossero comportate in questo modo — spiegò Dei alludendo ai sospetti che Elsa e Nana avevano tentato di fare cadere su di lui — non avrei mai detto niente».

Ora, poiché sicuramente Luciano Serragli era arrivato in cima al monte Castellare quando era già morto, sicuramente doveva esservi stato trasportato con una macchina. Del gruppetto dell’Archetto, l’unico a possedere un’autovettura, una vecchia «1100», era Glauco Michelotti. I carabinieri la vollero ispezionare e proprio sotto il sedile accanto al posto di guida trovarono un bocchino identico a quelli che Luciano Serragli usava.

Non restava a questo punto che interrogare i due camerieri. Ma i due negarono di sapere alcunché della morte di Luciano Serragli.

I dubbi, gli indizi raccolti sarebbero stati, a quel punto, insufficienti per avanzare un’ipotesi su come Luciano Serragli era stato ucciso e forse l’inchiesta sarebbe ammuffita dentro l’Archetto se, in aiuto degli investigatori non fosse venuto il più insospettabile dei personaggi che possa essere dato di trovare in un «giallo», soprattutto in un ruolo risolutore: un cercatore di farfalle.

Spesse lenti incorniciate da una sottile montatura metallica, capelli corti pettinati un po’ «alla frate» e una barba scura, Stefano Talocchini, 22 anni, era uno studente di legge al terzo anno con l’hobby di collezionare farfalle. La sera del 18 maggio Talocchini uscì con un gruppetto di amici e con uno di loro, Ferruccio Maltese, tirò tardi, sicuramente l’una della notte. Erano nella zona di Porta a Lucca quando Maltese guardò l’orologio e disse: «Da un’ora ho compiuto i 21 anni». Il mercoledì, infatti, sarebbe stato il suo compleanno. Il particolare è importante perché servirà in seguito a determinare gli orari del «giallo».

I due amici, quindi, si salutarono e Maltese raccomandò a Talocchini di andare da lui nel pomeriggio del giorno dopo per festeggiare l’anniversario. Il cercatore di farfalle non andò a letto. Poiché certi esemplari di insetti possono essere catturati solo di notte e in certe zone lontane dai centri abitati, salì sulla sua «Mehari», dove teneva la retina per acchiappare farfalle, e decise di andarsene sul monte Castellare. Saranno state le 2,30, calcolando i tempi di percorrenza, quando Talocchini si trovò la stretta strada sbarrata da una vecchia «1100» celestina ferma e con i fari spenti. Stava per scendere per vedere che cosa era successo, quando dalla sua sinistra e dal buio sbucò un uomo e, subito, dopo, dalla parte opposta un altro, un po’ più alto del primo, tutto sudato e con una torcia elettrica accesa in mano. Talocchini chiese se avessero bisogno di aiuto, ma quelli dissero di no. Parlava il più basso, quello con il ciuffo in fronte e le basette lunghe, e chiese allo studente di fare manovra perché lui potesse girare la sua auto e tornare giù. La manovra avvenne non senza difficoltà, tanto che la «1100» strusciò contro un grosso sasso che le scalfì una fiancata.

Dopo quell’incontro Talocchini arrivò fino alla «casa del polacco», e, tirato fuori il retino, cominciò a dare la caccia alle farfalle. Non notò un plaid scozzese che nascondeva

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qualcosa di molto strano. Verso le 3,30 se ne andò finalmente a dormire. Qualche giorno dopo, viste le foto dei camerieri Scarpellini e Michelotti sul giornale, li riconobbe e andò a raccontare ai carabinieri la storia del suo incontro sul monte Castellare. Talocchini non ebbe esitazioni a riconoscere i due quando gli furono mostrati.

Era la svolta del «giallo»: Luciano Serragli era stato ucciso la sera stessa della sua scomparsa, il 18 maggio, e a portarne il cadavere lassù erano stati i due camerieri dell’Archetto. Anche se poteva già essere dedotto, non poteva comunque allo stato delle cose ancora essere affermato con sicurezza che chi aveva occultato il cadavere fosse anche l’assassino. E, comunque non poteva essere escluso che altre persone fossero implicate nel delitto.

E, inoltre, mancava un movente credibile e, addirittura, non si sapeva come Luciano Serragli era stato assassinato.

Interrogato, il primo a cedere — ma non poteva fare altrimenti di fronte alla schiacciante testimonianza del cercatore di farfalle — fu Vincenzo Scarpellini. Anche se, disse, che di come fosse morto Serragli lui non sapeva niente. E dall’intricato gomitolo tirò fuori un altro «filo», un’altra verità.

Erano, cominciò il suo racconto Vincenzo Scarpellini, l’1,30 della notte tra il 18 e il 19 maggio e lui se ne stava solo a dormire nell’appartamento di via delle Belle Donne quando fu svegliato dall’amico Glauco Michelotti che in modo più brusco che energico gli disse, quasi gli ordinò, di alzarsi e di andare con lui all’Archetto. Nel magazzino della trattoria, disteso su una sedia a sdraio c’era Luciano Serragli, il volto cianotico, già morto, anche se da poco perché, aggiunse il cameriere, il corpo era ancora caldo. Senza spiegargli che cosa fosse accaduto, Glauco gli disse che ormai l’essenziale era portare via il cadavere, di farlo sparire in un posto che lui conosceva.

«E se non ci stai — lo minacciò Michelotti — do la colpa a te. Non sei tu che gli fai le iniezioni quando sta male?».

Incredibile, ma Scarpellini si prestò a dare una mano all’amico che in macchina lo avrebbe di nuovo minacciato, non più con la parola, ma con una pistola: «Se ci ripensi, stanotte i morti sono due».

Arrivati sul Castellare, Glauco, aiutato da Scarpellini si era caricato il cadavere sulle spalle e lo aveva nascosto dietro un muretto, sotto dei cespugli. Poi era avvenuto l’incontro con il cacciatore di farfalle. Quando i due camerieri furono arrestati era il primo giugno. La notizia delle prime ammissioni fatte da Scarpellini circolarono presto e arrivarono in via La Nunziatina. Quella sera una folla minacciosa si radunò davanti alla porta sbarrata dell’Archetto minacciando di linciare Elsa e Nana che per gli amici di Luciano Serragli erano da considerare responsabili della sua morte. Dovettero intervenire i carabinieri che dispersero la piccola folla e portarono le due donne in un luogo più sicuro.

Ma per gli inquirenti non era, allo stato delle cose, affatto provato che Elsa e Nana potessero essere implicate direttamente nel delitto. Tutto avrebbe potuto essere accaduto dopo che Serragli aveva lasciato la moglie e se ne era uscito di casa con i soldi in tasca. Certo i sospetti c’erano e non erano pochi.

Intanto la magistratura aveva disposto che la salma di Serragli fosse esumata per scoprire eventuali tracce di come era stato ucciso. Ormai era chiaro che i riferimenti al veleno fatti da Samuele Dei e il ruolo di infermiere di Vincenzo Scarpellini, che effettivamente aveva in quella qualità lavorato all’ospedale prima di fare il cameriere,

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facevano pensare che l’arma del delitto fosse stata l’iniezione di un potente veleno.Una prima scoperta fu fatta sulla bara. Sul legno era stato inciso con un coltellino

«Tua Nana». Era evidentemente l’ultimo saluto che la figlia aveva dato al padre incidendolo durante la notte della veglia funebre.

Il nuovo esame necroscopico non portò risultati definitivi, anche se i periti dissero che causa della morte poteva essere stata la somministrazione o di un veleno che non aveva lasciato tracce o di un sedativo che aveva addormentato Serragli che poi sarebbe stato soffocato.

Fu anche fatto un nuovo sopralluogo sul Castellare e fu rinvenuta, a non molta distanza dal punto in cui era stato trovato il cadavere di Luciano Serragli, una sedia metallica del tipo usata nei bar, rivestita di strisce di plastica gialla. Non aveva le gambe che erano state segate. Fu subito avanzata l’ipotesi che la sedia era servita per trasportare il morto che ad essa doveva essere stato legato con qualche cinghia. La scoperta era importante perché poteva indicare che l’assassinio era stato premeditato e che tutto era stato disposto perché fosse più agevole l’opera di occultamento del cadavere.

Tra i tanti interrogativi che ancora restavano uno sembrava più immediato: il corpo di Serragli era stato trovato a poche decine di metri dallo stretto ingresso della «Buca delle fate». Perché Scarpellini e Michelotti non l’avevano gettato in quell’abisso dove nessuno lo avrebbe più ritrovato? Forse li aveva disturbati l’incontro con il cacciatore di farfalle? Ma perché non riprendere l’operazione quando quello se ne era andato o addirittura il giorno dopo, visto che erano liberi di agire non essendo neanche stata denunciata la scomparsa di Serragli?

Restava, poi, soprattutto da stabilire il movente dell’omicidio. Apparentemente avevano più motivi per eliminare l’oste la moglie e la figlia che i due camerieri, soprattutto Scarpellini che, al contrario di Michelotti, non aveva rapporti di particolare natura con le due donne. E, comunque, perché fare fuori un uomo che, stando a quanto avevano pronosticato i medici, di lì a pochi mesi sarebbe morto naturalmente? Eppure tutto portava ai due camerieri, non solo come occultatori, ma anche come assassini. Agli inquirenti si presentò un giorno Giacomo Giacomelli, un infermiere della clinica neurochirurgica dell’ospedale, la stessa dove aveva lavorato lo Scarpellini, per dire di avere visto verso le 20,30 del 17 maggio l’ex collega che si aggirava attorno al carrello degli anestetici dentro la sala operatoria e che, anzi, aveva maneggiato alcuni flaconi. Bisogna dire che la presenza di Scarpellini nell’ospedale non era tanto rara, poiché egli andava di tanto in tanto a trovarvi la moglie separata che vi lavorava.

Giacomelli non aveva notato se Scarpellini avesse preso una bottiglietta o se dal carrello ne mancasse una: in seguito la circostanza sarebbe stata impossibile da stabilire. Ma il racconto certo aggravava la posizione di Scarpellini e indicava che il «filo» che aveva tirato fuori — la verità circa il suo ruolo di occultatore di cadavere — era solo una mezza verità.

A suggerire un’ipotesi di movente fu lo stesso Scarpellini che, seppure fornito di una mentalità non dotata di particolari raffinatezze, dimostrava comunque di avere una certa abilità nell’estrarre dal groviglio di verità che si era annodato dentro l’Archetto solo i «fili» che non aggravavano la sua posizione. Il suo movente, sesso, relazioni pericolose, paura, si adattava meglio a qualche altro protagonista del giallo lasciando a lui il ruolo di semplice comprimario. Durante un interrogatorio Scarpellini disse che nel febbraio di

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quell’anno la Nana, rimasta incinta di Michelotti, aveva abortito nel rione di San Giusto aiutata da una certa «Gianna». Una faccenda del genere, se scoperta da Serragli, ne avrebbe potuto scatenare l’ira tremenda. Chiaramente il movente di Scarpellini serviva a spostare l’interesse principale degli investigatori su Michelotti e anche su Elsa e Nana. E cominciarono ad accadere episodi strani.

Sul finire di giugno Walter Serragli, figlio del povero Luciano, ricevette una misteriosa telefonata. Una voce femminile artefatta gli disse: «Vai nella cassetta postale della tua mamma, poi avrai la differenza». Il ragazzo si precipitò nell’ingresso della casa della madre, ma non riuscì a individuare quale delle quattro cassette che vi erano appartenesse alla sua famiglia, perché una sola aveva la targhetta con il nome. Dovette per forza chiedere aiuto a Elsa che aprì la cassetta: dentro vi erano dieci biglietti da 10.000 lire.

L’assassino restituiva a rate il denaro sottratto alla sua vittima?O, piuttosto, non era quello un maldestro tentativo di dimostrare che il responsabile

era ancora in libertà e che quindi Scarpellini e Michelotti erano innocenti? Chiaro che chi aveva messo il denaro era qualcuno molto vicino alla famiglia Serragli, visto che neanche il figlio del defunto sapeva quale era la cassetta della posta che forse non era stata neanche mai usata. Scarpellini, nel raccontare il trasporto del cadavere fino al Castellare, aveva accennato al fatto che Michelotti a un certo momento lo aveva minacciato con una pistola. Che fine aveva fatto l’arma?

Fu ancora Scarpellini a fornire indicazioni. Disse che, pochi giorni dopo il 19 maggio, aveva visto Glauco nascondere la pistola «su un muretto divisorio tra il magazzino e il gabinetto del ristorante» e che più tardi aveva gettato i proiettili nel gabinetto di casa loro in via delle Belle Donne.

I carabinieri andarono a vedere, ma le cose stavano diversamente. La pistola, una piccola calibro 22, fu effettivamente trovata nella vaschetta metallica del gabinetto dell’Archetto e aveva cinque cartucce; ma nel gomito del WC dell’appartamento di via delle Belle Donne furono trovate cartucce che avevano una sostanziale differenza. Erano sei pallottole calibro 9 di un’arma da guerra. Doveva esserci in giro quindi un’altra pistola, oltre alla piccola calibro 22. Ed ecco entrare in scena un nuovo personaggio: Alessandro Corbara, impiegato della Provincia, spiccate simpatie per l’ultrasinistra, ben noto ai carabinieri che lo definivano di intelligenza superiore alla media e con la mentalità del capo, amico di Michelotti, di Scarpellini e di Serragli.

La calibro 9 sarebbe stata proprio di Luciano Serragli che qualche mese prima aveva dato l’arma a Corbara perché la lubrificasse. Il geometra della Provincia l’aveva restituita, ma senza le cartucce che aveva messo in un cassetto di casa. Il mobile, poi, e le relative cartucce finirono nell’appartamento di Michelotti e di Scarpellini. Temendo una perquisizione, i due si erano disfatti dei proiettili gettandoli nel gabinetto.

E la pistola? Elsa, per paura che il marito in un momento di ubriachezza combinasse qualche guaio, l’aveva data al fratello Raffaello in casa del quale fu effettivamente trovata.

La presenza di armi, l’ombra di personaggi attivi nell’ultrasinistra pisana, come Alessandro Corbara, il luogo stesso in cui era maturato il delitto, l’Archetto usato come «santabarbara» durante gli scontri con la polizia, disegnavano dietro all’omicidio di Luciano Serragli uno strano fondale che sembrava contrastare con le personalità dei protagonisti della vicenda: in primo piano si vedeva, o si cominciava a intravedere, un intrigo fatto di non edificanti rapporti amorosi, di tresche nascoste e incrociate, di tristi

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storie di aborti clandestini; dietro, molto sfumata, la scena rappresentava anarchici e ultrà che, seppure in modo casereccio, trafficavano con rivoluzione e guerriglia urbana.

Che cosa collegava le due scene? Difficile dirlo a quel momento, anche se improvvisamente uno dei personaggi disegnati sullo sfondo, Alessandro Corbara, si era per così dire, avvicinato alla scena in primo piano, quella dell’assassinio di Luciano Serragli.

Fu allora, che come in ogni intrigo che si rispetti, da dietro le quinte uscirono i «supertestimoni». Una voce anonima — così almeno fu definita in un rapporto dei carabinieri — avvertì gli inquirenti sul finire di giugno che pochi giorni prima e, quindi, dopo l’uccisione di Luciano Serragli, la figlia Nana aveva di nuovo abortito.

Veniva rilanciata, anzi rinforzata, l’ipotesi del movente basato sul triangolo «sesso-relazioni pericolose-paura». Se la voce anonima aveva detto il vero, dunque, Nana era di nuovo incinta quando il padre era stato ucciso.

Ed entrò in scena Tecla Puccini, una donna anziana che era legata a Glauco Michelotti da uno stretto rapporto di affetto, quasi materno. Tecla cominciò a frequentare assiduamente Elsa e Nana Serragli dopo l’arresto di Glauco; conquistò la fiducia delle due donne tanto che spesso si tratteneva anche a dormire da loro; riceveva le loro confidenze. E intanto, anche fuori da ogni regola, si incontrava con carabinieri e magistrati per riferire quello che aveva appreso. O che diceva di avere appreso.

Gli investigatori mettevano a posto i tasselli che segretamente Tecla gli forniva, ma non dimenticavano di lavorare anche in altre direzioni. E fu altrove che, improvvisamente, trovarono un secondo movente per l’omicidio di Luciano Serragli. A fornirglielo fu un altro «supertestimone».

In via La Nunziatina gli investigatori raccolsero una voce, che evidentemente dovettero giudicare affidabile, secondo la quale Scarpellini faceva una gran confusione con le sue differenti e contraddittorie versioni che periodicamente forniva a chi lo interrogava, perché in realtà voleva nascondere il vero movente dell’assassinio di Luciano Serragli, un movente che andava ricercato in un altro grave fatto avvenuto non molto tempo prima a Pisa. La voce si premurò di aggiungere che uno studente, abituale frequentatore dell’Archetto, doveva saperne qualcosa di più.

Interrogata, Elsa disse che lo studente doveva essere un certo Michele che una volta veniva all’Archetto a mangiare insieme alla fidanzata. Alla vedova di Luciano Serragli dovette sembrare un regalo caduto dal cielo la possibilità che dietro all’omicidio del marito ci potesse essere un movente che allontanava i sospetti da lei e la figlia.

Se il delitto dell’Archetto era pieno di misteri, si deve dire che anche l’indagine aveva i suoi.

Curiosamente, infatti, quel Michele, proprio pochi giorni prima di venire indicato da Elsa, si era, pieno di paura, spontaneamente presentato ai magistrati per togliersi dallo stomaco un peso che gli gravava tanto. Si chiamava Michele Montemoli, anarchico in via di conversione verso il partito repubblicano, e raccontò che una sera di febbraio, mentre era a cena all’Archetto con la fidanzata Veronetta Mezzani sentì come d’abitudine parlare di rivoluzione e di bombe. Ma quella sera il cameriere Scarpellini gli disse che anche a Pisa era in programma una serie di attentati contro commercianti fascisti che avevano tenuto aperti i loro negozi invece di aderire a uno sciopero.

Scarpellini avrebbe aggiunto che la sera seguente sarebbero cominciati i «botti» e che sarebbe saltato un negozio di Marina di Pisa. In quell’ambiente singolare che era

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l’Archetto poteva capitare anche che un cameriere, invece di proporre un piatto di spaghetti, suggerisse a un cliente la partecipazione a un attentato. E Scarpellini, stando al racconto di Montemoli, avrebbe proposto allo studente di prendere parte all’azione, aggiungendo che gli attentatori erano tre, compreso un esperto di esplosivi. Montemoli rifiutò la proposta e passò alla frutta. Era il 12 febbraio.

Quando la mattina del 14, in un bar seppe che davvero a Marina di Pisa era stata fatta scoppiare una bomba contro una macelleria e che un ragazzo, Giovanni Persoglio Gamelero, era morto, Montemoli ne fu sconvolto.

Andò all’Archetto e chiese a Scarpellini se era stato lui il responsabile di quella tragedia. «Purtroppo è andata così» quello allargò le braccia.

Il sempre più turbato studente ne parlò anche con Luciano Serragli, particolare che avvalora la tesi secondo la quale a un certo momento l’oste dell’Archetto, sapeva chi aveva messo la bomba assassina di Marina di Pisa. Serragli rispose a Montemoli: «La via della rivoluzione è lunga e piena di sangue».

Lo studente si tormentò per mesi cadendo in una vera depressione nervosa. Quando poi seppe dell’uccisione di Serragli decise di andare a raccontare tutto. Per lui non potevano esserci dubbi: l’oste dell’Archetto era stato ucciso perché sapeva troppe cose sull’attentato di Marina di Pisa. Il suo vizio di bere, che lo metteva nelle condizioni di parlare senza controlli e quindi di rivelare al primo venuto cose tanto delicate e pericolose, gli sarebbe costato la vita.

Adesso gli investigatori non avevano una, ma due ipotesi di moventi per un solo delitto.

Il fatto è che i due moventi, anche se ancora piuttosto labili, andavano benissimo addosso alle stesse persone, Scarpellini e Michelotti, che già erano in carcere. Restava da vedere se qualche altro personaggio aveva interessi, per così dire concomitanti, per fare fuori il povero Luciano.

E proprio a questo punto l’indagine imboccò una strada anomala che non mancò di suscitare sospetti e motivi di rimprovero anche tra gli stessi magistrati. Il 14 luglio, quindi, i carabinieri accusarono Scarpellini anche dell’attentato di Marina di Pisa commesso «in concorso con altre due persone da identificare».

Scattarono in tutta la zona decine di perquisizioni in casa soprattutto di gente che abitualmente frequentava via La Nunziatina e, quindi, anche in quella di Alessandro Corbara. Con una procedura che non può che meravigliare, poi, il pubblico ministero Di Stefano diede incarico di notificare il nuovo ordine di cattura a Scarpellini non attraverso un anonimo ufficiale giudiziario, bensì «a cura del maresciallo Saverio Tursi».

E il maresciallo Tursi quello stesso giorno raccolse da Scarpellini «dichiarazioni spontanee» con le quali il cameriere da una parte negava di avere preso parte all’attentato di febbraio, dall’altra svelava che l’esperto di esplosivi di cui aveva parlato Montemoli era Corbara che, anzi, era stato l’esecutore materiale dell’attentato assieme a un pensionato di 65 anni, Piero Michelozzi, un vecchio anarchico dai folti baffi alla Guareschi.

Bastarono queste dichiarazioni, raccolte perdipiù in modo assai dubbio, per convincere il sostituto procuratore Di Stefano a fare arrestare quello stesso giorno Corbara e Michelozzi.

Entrambi negarono gli addebiti e, bisogna riconoscere che, a parte le accuse dello Scarpellini, a carico loro c’erano ben pochi elementi di prova.

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L’estate avanzava ma l’indagine, anziché assopirsi nella calura estiva ebbe un nuovo, quanto insolito sussulto proprio alla vigilia di ferragosto. Una telefonata anonima la rimise in moto. Una telefonata anonima che dimostrava che fuori del carcere e fuori del cerchio abbastanza ristretto dei sospettati c’era qualcun altro che sapeva e che muoveva i fili indirizzando l’inchiesta a suo piacimento.

Sulla base di quella segnalazione, dunque, il 14 agosto i carabinieri perquisirono gli uffici della Provincia dove lavorava Alessandro Corbara. L’armadietto del geometra anarchico era chiuso a chiave e perciò i carabinieri andarono in cella da Corbara a chiedergliela. Corbara disse di avere dato la chiave a un suo zio, Cirano Favilla, che fu rintracciato e che assistette alla perquisizione. Nel mobiletto di Corbara i carabinieri trovarono tutto quello che si aspettavano di trovare: appunti in cui si parlava di azioni clandestine e di gruppi armati; un libro intitolato «Gli esplosivi» completo di annotazioni e sottolineature; un sacchetto di plastica con polvere rosa, il monferrito, composto di nitrato di ammonio e tritolo; due detonatori.

Per quanto incredibile, l’esito della perquisizione fu riferito a Corbara solo nel novembre successivo. Il geometra ammise che libri e appunti erano suoi, anche se disse che li teneva per pura «esercitazione accademica», ma che dell’esplosivo non sapeva niente. A incastrare ancora di più Corbara, però, ci pensò la solita Tecla Puccini, la donna che voleva un bene da mamma al cameriere Glauco Michelotti in carcere per l’omicidio di Serragli. Disse la Tecla di avere saputo che fu proprio Elsa Serragli ad avere avvisato Corbara di fare sparire le armi che aveva in casa. Questo sarebbe avvenuto pochi giorni prima della perquisizione negli uffici della Provincia. Saputo che l’esplosivo era stato trovato l’Elsa avrebbe esclamato, stando sempre alla Tecla: «È tanto scemo, lo avevo anche avvisato».

Il ruolo di Tecla nell’indagine si fece sempre più importante, divenne anzi determinante. Come in un feuilleton la donna sfornava puntate a sorpresa. Mentre l’inchiesta sull’attentato di Marina di Pisa seguiva la sua strada, il 3 dicembre quella sull’uccisione di Luciano Serragli ha un nuovo colpo di scena. Autrice, ovviamente, Tecla Puccini.

Disse la Tecla di avere saputo da Elsa Serragli che la bomba di Marina di Pisa era stata confezionata proprio dentro l’Archetto in presenza di Luciano. A portarla alla macelleria erano stati Corbara, Scarpellini e un altro che non sapeva indicare. Accesa la miccia, i tre sarebbero saliti in casa di Michelozzi e si sarebbero messi alla finestra per vedere lo spettacolo «pirotecnico».

Come era da aspettarsi, Tecla aggiunse che anche il suo «pupillo» Michelotti le aveva confermato la versione non sapendo neanche lui indicare — segno che nella faccenda non c’entrava per niente — il nome del terzo uomo. Veniva, insomma, rafforzata da parte della Puccini, il movente «politico» per l’assassinio di Luciano Serragli, un movente che doveva servire ad allontanare i sospetti dal suo Glauco.

Michelozzi, indicato addirittura come la «mente» dell’attentato, negò tutto fino a quando la stessa Tecla dovette ammettere che il nome non lo aveva mai saputo da Elsa Serragli ma che lo aveva, se non inventato, solo dedotto da una serie di circostanze. Un sopralluogo poi in casa di Michelozzi dimostrò che sarebbe stato impossibile da una delle sue finestre potere assistere all’esplosione della macelleria.

Ormai, però, il filo che Tecla Puccini estraeva dal groviglio di verità intrecciatosi

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dentro l’Archetto era l’unico che sembrava in grado di fare avanzare l’indagine e, nonostante le incongruenze e le contraddizioni, fu a quello che gli investigatori si aggrapparono.

Il fatto curioso è che mentre l’inchiesta proseguiva due dei principali protagonisti del dramma, Elsa e Nana Serragli, erano in libertà seppure raggiunte da un avviso di reato e potevano quindi in qualche maniera cercare di modificare gli eventi o di sviare gli inquirenti. Poiché, ad esempio, si sospettava che un movente dell’omicidio potesse essere stata la paura che le due donne avevano di Luciano Serragli nel caso avesse scoperto la relazione tra la figlia sedicenne e il cameriere Glauco Michelotti e poiché era stato scoperto che all’inizio di giugno, dopo la morte di Luciano Serragli quindi, la ragazza aveva dovuto di nuovo abortire, le donne inventarono un finto fidanzato, un certo Steve Emody che esisteva davvero. L’inganno fu scoperto, ma intanto anche Michelotti in cella credette di essere stato tradito e finalmente cominciò a fare le sue ammissioni, seppure solo relativamente all’occultamento del cadavere di Luciano Serragli e non anche per quanto riguardava l’omicidio. Di capitolo in capitolo Tecla Puccini arrivò a fornire agli inquirenti tutta la sua verità, una verità che il 18 dicembre di quell’anno portò in carcere anche Elsa e Nana Serragli con l’accusa di omicidio.

Alla fine gli inquirenti credettero di avere in questo modo ricostruito quanto accadde la notte tra il 18 e il 19 maggio dentro l’Archetto.

A uccidere Luciano Serragli furono Glauco Michelotti, Vincenzo Scarpellini, la moglie Elsa e la figlia Nana. Scarpellini fece la micidiale iniezione di «Myotenlis», o cloruro di succinilcolina, una sorta di curaro sintetico usato in anestesia che se iniettato in dosi massicce in vena determina in appena trenta secondi la paralisi completa dei muscoli respiratori fino a provocare la morte per asfissia. Glauco Michelotti partecipò all’omicidio per la relazione che aveva con Nana che di lui era incinta. Elsa aveva le stesse ragioni per temere l’ira del marito. Alessandro Corbara fu poi accusato di avere architettato l’occultamento del cadavere. Lui aveva interesse al silenzio eterno dell’oste dell’Archetto temendo che potesse rivelare qualcosa sull’attentato di Marina di Pisa. Anzi, Corbara — è sempre la verità della Tecla — si sarebbe incaricato di guidare Michelotti e Scarpellini con il loro macabro carico fino in cima al Castellare perché era l’unico del terzetto a conoscere l’esatta ubicazione della «Buca delle fate». In realtà Corbara mancò all’appuntamento con i due infermieri che erano in forte ritardo per via del «Boghero», l’ubriaco che aveva messo a rumore via La Nunziatina. Per questo motivo Michelotti e Scarpellini arrivarono da soli in cima al Castellare ma non riuscirono a trovare la «Buca delle fate». L’incontro poi con Talocchini, il cercatore di farfalle, li fece desistere dall’insistere nelle ricerche.

Va infine detto che fu ritrovata anche la bottiglietta di «Myotenlis» usata per la fatale iniezione. Era in un buco nel muro dell’Archetto, ma risultò che a mettercela, quando i due camerieri erano già in carcere, fu Elsa su istruzioni ricevute dal Michelotti tramite l’ormai onnipresente Tecla Puccini. La bottiglietta, con le impronte dello Scarpellini, doveva servire secondo Michelotti a dimostrare la sua estraneità al delitto.

Ora che tutto sembrava ricostruito, bisognava fare quadrare anche gli orari. Elsa e Nana avevano detto che Luciano Serragli, dopo essere stato svegliato dal rumore che faceva l’ubriaco per strada, se ne era andato che sarebbero state le 2 della notte. Se, però, Serragli era ancora vivo a quell’ora, come poteva essere già cadavere in cima al Castellare appena mezz’ora dopo, secondo la testimonianza del cercatore di farfalle?

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Quindi doveva essere stato ucciso prima, ma per essere stato ucciso dentro l’Archetto, come asseriva la verità di Tecla Puccini che a sua volta giurava di averla appresa direttamente da Elsa Serragli, doveva essere stato assassinato non dopo le 23, ora di chiusura del locale.

Ma a questo punto la ricostruzione del delitto andava a sbattere contro una testimonianza, quella di Romano Mugnaini, l’amico di famiglia che era rimasto a cena all’Archetto e che diceva di avere visto per l’ultima volta Luciano Serragli in strada, dopo avere chiuso il ristorante, mentre saliva in casa tenendo un braccio sulle spalle della figlia Nana. L’intoppo fu superato accusando Mugnaini di falsa testimonianza.

Fu così che anche Elsa e Nana il 6 maggio 1973 finirono sul banco degli imputati della Corte d’Assise di Pisa. Di persone coinvolte nell’omicidio ce ne erano a sufficienza: la moglie, la figlia, Scarpellini e Michelotti. Di moventi validi pochi. Perché Luciano Serragli era stato ucciso? Davvero perché sapeva troppe cose sull’attentato di Marina di Pisa? E perché allora ne era messo al corrente? E perché non venne ucciso prima?

Fu ucciso perché le sue minacce facevano davvero paura a Elsa e a Nana? E, allora, che c’entrava lo Scarpellini? Perché avrebbe dovuto macchiarsi di un omicidio che non lo riguardava?

Il processo finì il 13 luglio 1974. Alessandro Corbara fu assolto per insufficienza di prove dall’accusa di avere occultato il cadavere di Luciano Serragli, ma fu condannato a 9 anni e mezzo per l’attentato di Marina di Pisa; per quel tragico episodio l’anarchico Piero Michelozzi fu prosciolto in istruttoria; Glauco Michelotti fu condannato a 28 anni e 10 mesi di reclusione; 30 anni ebbe Vincenzo Scarpellini; Elsa fu condannata a 27 anni e 8 mesi, mentre la giovane Nana ebbe 14 anni.

Un anno e mezzo fu inflitto a Romano Mugnanini e 1 anno al finto fidanzato Steve Emody. Anche Tecla Puccini ricevette una condanna: avendo aiutato Nana Serragli ad abortire, fu condannata a 1 anno e 4 mesi di reclusione.

La storia riservò mesi dopo ancora una sorpresa che finora non è mai stata divulgata: un giorno i carabinieri sequestrarono una lettera che Nana aveva scritto dal carcere e che cominciava «Caro babbo». Certo non era indirizzata a Luciano Serragli. Era diretta a quel Fufi che al tempo in cui lei veniva al mondo Luciano Serragli sospettava di essere l’amante di Elsa.

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L’affare StortoniFirenze 20 maggio 1977

I carabinieri venuti dal freddo

Due giorni della storia di Firenze nella primavera del 1977 sembrano essere stati scritti da John Le Carré, il mitico scrittore di spy-stories a cominciare da «La spia che venne dal freddo». Peccato che di quel romanzo di spionaggio, resti per così dire un solo capitolo: manca l’inizio e manca la fine. Sono solo poche pagine, ma che contengono già tanti misteri, tanta suspence, da suggerire da sole che l’intera vicenda, rimasta dopo dodici anni avvolta nel buio più impenetrabile, deve essere stata davvero un intrigo internazionale, degno del miglior Le Carré.

L’inizio della storia, o meglio dell’unico capitolo che se ne conosce, è nello stile dello scrittore britannico, anche se l’ambientazione può apparire un po’ eccentrica rispetto ai luoghi ormai consacrati dalla letteratura e dal cinema per le avventure di spionaggio. Non Berlino, non Londra né New York né Rio de Janeiro e neanche Samarcanda, ma Casellina, tra Firenze e Scandicci.

L’atmosfera, però, può ricordare quella dell’inizio de «La spia che venne dal freddo»: anonimi palazzi dormitorio al limite della «terra di nessuno» che esiste tra città e campagna; fragore continuo di autostrada in mezzo a brandelli di campi pieni di insalata e pezzi di carrozzeria di automobili; strade disegnate con la fantasia che ha una squadra, delimitate da una parte da edifici con pretese di modernità e dall’altra da discariche a cielo aperto.

In una di quelle case, al pian terreno, abitava — e probabilmente abita ancora — Roberto Stortoni che nel 1977 aveva 30 anni. La strada si chiamava — e si chiama ancora — via Madonna di Pagano. Nella vecchia cascina Roberto, che faceva l’imbianchino, viveva con la mamma e un fratello. Una famiglia semplice, come tante, una vita scandita da piccole storie, come tante, ma con una lunga propaggine che andava a finire molto lontano da Casellina e che era la causa della melanconia in cui da qualche tempo sembrava caduto Roberto Stortoni.

Quella propaggine di vita piccolo-borghese è l’introduzione alla spy-story fiorentina. Essa cominciò nel 1972 quando Roberto si offrì con un amico una vacanza in Romania. Era quella una delle mete preferite di molti giovani in quegli anni: spese minime e la leggenda delle ragazze in trepidante attesa di novità dall’Occidente, soprattutto di calze di nylon.

E in una cittadina rumena, Sinaia, una sera in una balera Roberto incontrò Nicoletta. Fu l’amore a prima vista, con o senza calze di nylon.

La bionda Nicoletta portò il suo amore italiano in casa, lo presentò alla mamma, una donna ancora giovane che si era da poco risposata dopo avere divorziato dal primo marito. Nicoletta spiegò a Roberto che suo padre, Radu Nigulescu, viveva in un’altra città e che era una persona importante in Romania, uno scienziato o qualcosa del genere. Roberto, in Romania, non lo incontrò mai.

Finita la vacanza, l’imbianchino di Casellina non dimenticò la sua Nicoletta con la

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quale intrecciò una fitta corrispondenza fatta di frasi d’amore e di promesse per il futuro.I soldi che guadagnava li metteva da parte pensando al prossimo viaggio che avrebbe

fatto in Romania. E certamente Roberto pensava anche a questo quando con secchio e pennello entrò nella fabbrica di ottica di precisione «Galileo». Lui non lo sapeva ma quell’industria, dove andava a lavorare, era in rapporti di affari proprio con la Romania alla quale vendeva materiale definito di tipo «idraulico», ma che, secondo un’inchiesta aperta anni dopo dalla magistratura fiorentina, sarebbe invece consistito in sofisticate apparecchiature ottiche che potevano essere adattate anche a moderni armamenti.

Questa circostanza non è mai stata finora rivelata. Certo nessun nesso può essere stabilito tra il lavoro che Stortoni svolse all’interno della «Galileo» e quanto gli sarebbe di lì a poco accaduto. È comunque singolare che in quel periodo l’industria fiorentina avesse contatti di affari con il governo rumeno sui quali successivamente la magistratura credette di dovere indagare perché vi sarebbero state implicate anche frange dei servizi segreti e personaggi legati alla loggia massonica P2.

Roberto quelle cose certo non poteva saperle: lui pensava solo a quanto quel lavoro gli avrebbe reso per potere mettere da parte un po’ di soldi e tornare dalla sua Nicoletta.

Un giorno la ragazza gli scrisse annunciandogli l’imminente arrivo a Firenze di suo padre, lo scienziato Radu Nigulescu.

Gli stranieri sono tipi strani, figuriamoci poi uno scienziato che, si sa, deve sempre avere la testa fra le nuvole. Radu Nigulescu non faceva eccezione, anzi confermava in pieno la regola: taciturno, e non solo per via della lingua, dimostrava chiaramente che preferiva la solitudine. Aveva un hobby che, in una città piena di belle cose come Firenze poteva pienamente soddisfare, la fotografia. Solo che lui le foto preferiva farle di notte. Ogni sera se ne usciva dalla vecchia cascina di via Madonna di Pagano con la macchina fotografica a tracolla e se ne andava in giro da solo tornando molto tardi.

La visita durò poco, ma si ripeté qualche mese dopo.L’atteggiamento dello scienziato Radu Nigulescu non era cambiato, anzi.L’imbianchino tornò in Romania, l’amore con Nicoletta filava benissimo e un giorno

arrivò da Sinaia a Casellina una lettera con la notizia che la ragazza aspettava un bambino. Quando nacque lo chiamarono Luca. E qui incomincia il «giallo». Infatti l’amico di Stortoni che lo aveva accompagnato la prima volta in Romania, tornò anche da solo più volte nel paese di Ceausescu e non mancò di andare a fare visita a Nicoletta, anche per vedere il piccolo Luca e portare notizie a Roberto. «Ma — dice l’amico che preferirebbe mantenere l’anonimato — io in quella casa di bambini non ne ho mai visti. So invece che intorno al periodo in cui sarebbe nato Luca la madre della ragazza ebbe un figlio dal suo secondo marito.»

Chi era, dunque, il bel bambino la cui foto arrivata dalla Romania Roberto teneva sul tavolo accanto al letto e che ogni tanto mostrava agli amici?

Perché Nicoletta Nigulescu avrebbe detto una bugia del genere?Chi era effettivamente Nicoletta?Nell’estate 1975 ancora una volta Roberto decise di andare in Romania e chiese il

necessario visto. Per la prima volta le autorità rumene glielo negarono. Cominciò allora la melanconia dell’imbianchino fiorentino.

Passarono due anni tristi, senza che Roberto potesse vedere Luca e rivedere Nicoletta. Ora il lavoro era solo lavoro e non era più motivo di gioia perché non serviva più soprattutto a pagare i viaggi in Romania. Una vita monotona con i giorni che passavano

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tutti uguali, pennellata dopo pennellata.Fino alla sera del 20 maggio 1977, quando Roberto Stortoni entrò senza accorgersene

in un romanzo di Le Carré.L’avventura si annunciò alle 11 di quella sera, con una scampanellata al numero 34 di

via Madonna di Pagano.Erano i carabinieri. Sulla strada, con il motore e con i lampeggianti blu sul tetto accesi,

era la «gazzella». Un milite era rimasto al volante, gli altri due chiesero di potere parlare con Roberto Stortoni. Si sa, con tutto il rispetto per la «Benemerita» e pur con la coscienza tranquilla, chiunque si sente un po’ preoccupato a ricevere simili visite, soprattutto se avvengono a un’ora piuttosto insolita.

Roberto dovette farsi un rapidissimo esame di coscienza mentre superava i pochi metri dalla sua camera all’ingresso e, probabilmente, dovette concludere di non avere alcunché da rimproverarsi. A meno che — deve essersi detto — i carabinieri sono venuti per portarmi una brutta notizia: spetta spesso loro questo ingrato compito. Una brutta notizia che riguarda Nicoletta, o il piccolo Luca…

«È solo un accertamento, una formalità» cominciò con tono rassicurante uno dei due carabinieri. La richiesta, anzi l’ordine, che seguì confermò però le preoccupazioni di Roberto: «Devi venire con noi a Roma, subito. Dobbiamo andare all’ambasciata di Romania. Ma — ripeté il carabiniere — è solo per un semplice accertamento».

La mamma di Roberto sembrò piuttosto preoccupata e forse non credette al «semplice accertamento»; Roberto, sicuro che si trattasse di faccende che riguardassero Nicoletta e Luca, salì sulla «gazzella», che partì, ovviamente, sgommando. I parenti, gli amici, i curiosi che si erano avvicinati non appena i carabinieri erano arrivati, fecero in tempo a vedere una mano di Roberto che salutava dietro il vetro posteriore dell’auto blu.

L’Alfetta imboccò la vicina autostrada e si avviò a velocità sostenuta in direzione sud. Ma, fatti pochi chilometri uno dei carabinieri interruppe il silenzio con una domanda a Roberto: «Signor Stortoni, ha preso il passaporto con sé?».

Quella domanda dovette sembrare un po’ strana anche all’imbianchino di Casellina. Certo non pensava di dovere andare all’estero; ma, chissà, forse per entrare in un’ambasciata di un Paese dell’Est era necessario; e, infine, si sa, il passaporto è il «principe» dei documenti.

L’Alfetta dei carabinieri passò nell’altra corsia e invertì direzione. Si tornava a Firenze. Un quarto d’ora dopo Roberto con la sua «scorta» era di nuovo di fronte alla sua casa di via Madonna di Pagano: curiosità, pioggia di domande, esclamazioni di meraviglia. Lui tirò dritto, andò nella sua camera, prese il passaporto e si rinfilò di nuovo dentro la «gazzella».

Al secondo ingresso in autostrada Roberto non poté fare a meno di notare che i carabinieri si fermavano al casello, come automobilisti qualsiasi, per ritirare lo scontrino. Lui pensava che loro non ne avessero bisogno, che, se non bastasse già la presenza di un’auto con tanto di scritta «Carabinieri» sulla fiancata, le lucine blu sul tetto, l’antenna dell’autoradio e le divise, a farsi riconoscere, avessero una speciale tessera o qualcosa del genere. Si vede che si sbagliava, deve avere pensato Roberto.

Il viaggio, abbastanza veloce, passò tranquillamente tra una chiacchiera e l’altra. All’inizio, in verità,Stortoni aveva provato a chiedere se sapevano il motivo della sua trasferta a Roma, ma gli risposero che loro non facevano che eseguire ordini. Parlarono di

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calcio, di caccia, un po’ vagamente, di politica. Quei carabinieri parlavano davvero un buon italiano e Roberto non sapeva dire di quali regioni fossero originari. Non avevano, insomma, quegli accenti che fanno parte della macchietta tipica del carabiniere. L’unico che per tutto il viaggio non aprì bocca fu l’autista, che non sembrava neanche interessato a quanto veniva detto all’interno dell’auto.

Era piena notte quando arrivarono a Roma. Stortoni, prima di allora c’era stato solo un paio di volte e certo non poteva dire di conoscerla. Guardava fuori del finestrino: gli orribili palazzi della periferia cedettero piano piano il posto a edifici con maggiore dignità, le strade divennero più ordinate, qua e là un monumento. Certo — si disse Stortoni — le ambasciate stanno in centro.

In una strada deserta e alberata la «gazzella» si fermò davanti a un villino.«Ci siamo — disse un carabiniere — può scendere».Uno davanti e uno di dietro, i carabinieri «scortarono» Roberto su per qualche gradino,

lo fecero entrare in una sorta di ingresso che aveva un’aria ministeriale o, comunque, da ufficio. Poi aprirono una porta e lo introdussero in un saloncino certo non molto elegante. Stessa aria ministeriale, mobili di serie, nessuno spazio per il gusto della decorazione. Al centro era una scrivania in legno, in giro qualche poltrona, un divano, un brutto tappeto copriva il pavimento. Roberto si guardò in giro e su una parete riconobbe la foto ufficiale di Ceausescu, il presidente della Romania, la stessa foto che tante volte aveva visto negli uffici di frontiera quando andava a trovare a Sinaia la sua Nicoletta. Era naturale trovarne almeno una nell’ambasciata di Romania.

Senza bussare entrò un uomo vestito di grigio. Sulla mezza età, fortemente stempiato, un sorriso cortese sulla faccia grassoccia. Non si presentò, non lo salutò, ma gli domandò a bruciapelo: «Conosce Radu Nigulescu?».

Un attimo di stupore di Roberto, e poi un semplice: «Sì».«Bene — riprese l’uomo in grigio con tono di voce e maniere estremamente gentili —

lo sa che Nigulescu ha chiesto asilo politico ad Atene?».L’imbianchino cadde dalle nuvole. Di quelle faccende sapeva ben poco.Ora, perché mai uno scienziato — se davvero lo era — di un Paese dell’Est, che era

venuto in Italia comodamente a più riprese avrebbe dovuto chiedere asilo politico in un altro?

Perché farlo sapere al «fidanzato» della presunta figlia dell’esule, un imbianchino di Casellina? Forse solo perché, dopo, quando senz’altro avrebbe raccontato a qualcuno la storia di quella incredibile notte, riferisse la circostanza?

È da credere, allora, che essa fosse autentica?Questa è una storia vera di spionaggio, manca l’inizio, manca la fine: il puzzle è aperto

a qualsiasi soluzione e ogni tessera può avere diversi significati. Insomma, è un vero rompicapo.

L’uomo in grigio fece accomodare Stortoni su un divano. Gli fece ancora altre domande: sui suoi rapporti con Nicoletta, sui suoi viaggi in Romania, soprattutto sui due soggiorni fiorentini di Radu Nigulescu. Non sembravano domande molto particolari.

A un certo punto Stortoni ebbe anche la sensazione che quell’uomo gliele rivolgesse quasi per giustificare in qualche modo la sua strana trasferta da Casellina a Roma. Sarebbe stato incredibile che lo avessero portato nell’ambasciata di Romania solo per chiedergli se conosceva Radu Nigulescu, cosa che tutti sapevano, e per fargli sapere che lo scienziato aveva chiesto asilo politico in Grecia, fatto che Stortoni pensava dovesse

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piuttosto essere un segreto.Finito il colloquio, sempre più gentilmente l’uomo in grigio si scusò con Stortoni di

non potergli offrire un letto e lo invitò quindi a dormire sul divano.Roberto provò a dire che per quanto lo riguardava sarebbe tornato anche subito a casa,

ma tanto cortesemente quanto fermamente l’uomo in grigio gli disse che non era il caso.Stortoni ebbe una certa difficoltà ad addormentarsi. Cento pensieri gli giravano per la

testa. Perché si trovava nell’ambasciata di Romania? Che cosa mai era successo a Nicoletta e a Luca? Forse la fuga ad Atene di Radu Nigulescu metteva in pericolo la loro vita o la loro libertà? Aveva tante volte letto che nei Paesi oltrecortina certi governi o i loro servizi segreti usavano l’arma del ricatto per far tornare in patria chi aveva «scelto la libertà». Ma, anche se le cose stavano in quel modo, che cosa c’entrava lui? E, soprattutto: che cosa ci stavano a fare in un pasticcio del genere i carabinieri italiani?

Da quello che poteva capire, e gli sembrava davvero strano, la «Benemerita» collaborava con un paese comunista che stava dando la caccia a un suo scienziato passato all’Occidente. Roba da non capirci niente. Roberto si addormentò tardi, pensando alle ultime incredibili e inspiegabili ore vissute.

Non sapeva che le prossime lo sarebbero state ancora di più.

La mattina si annunciò bruscamente, con la luce elettrica del lampadario al centro della stanza che qualcuno aveva acceso. Roberto ebbe un momento di smarrimento: non ricordava esattamente dove era e, per quanto lo riguardava, poteva essere ancora notte fonda. Qualcuno spostò la pesante tenda che impediva alla luce del sole di passare attraverso i vetri della finestra.

Si tirò su a sedere e si prese la testa tra le mani cercando di riconnettere: i carabinieri in via Madonna di Pagano, il passaporto, il viaggio sull’autostrada, l’ambasciata di Romania, il ritratto di Ceausescu, il signore gentile in grigio.

Alzò gli occhi: sempre al suo posto, in bianco e nero, era rimasto Ceausescu. Qualcuno gli disse buongiorno.

Il signore in grigio. Roberto si girò dalla parte da cui veniva la voce e lo riconobbe. Sembrava meno gentile della sera avanti. Il sorriso era scomparso dal faccione roseo.

«Signor Stortoni — gli chiese bruscamente l’uomo in grigio — conosce quest’uomo?».

Con una rapida mossa del mento indicò un angolo della stanza dalla parte opposta, alle spalle di Roberto. L’imbianchino si girò lentamente e per un attimo credette di avere un’allucinazione.

Seduto su una poltrona, l’aria completamente stravolta, i segni di percosse sul viso, il vestito e la camicia rovinati, una sigaretta in mano era Radu Nigulescu, il padre di Nicoletta, suo «suocero», lo scienziato che aveva chiesto asilo politico ad Atene.

Nigulescu lo guardò appena, con un’aria quasi annoiata, come se avesse cose ben gravi per la testa. Aspirò una boccata di fumo e seguì le volute blu che salivano verso il soffitto.

Roberto non riuscì ad emettere il minimo suono: come faceva a essere nell’ambasciata di Romania se i greci gli avevano dato ospitalità politica? Perché in quelle condizioni?

«Lo riconosce?». La voce non più gentile dell’uomo in grigio lo fece sussultare leggermente.

«Certo». Mormorò Stortoni.

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«È Radu Nigulescu?».«Certo», ripeté Stortoni.La voce dell’uomo in grigio ridivenne gentile: «Grazie della sua collaborazione».Due tipi, che fino ad allora Roberto non aveva notato, o che erano appena entrati, si

misero a fianco di Nigulescu. Ciascuno lo prese per un braccio e con modi fermi ma cortesi l’aiutarono ad alzarsi. Lo portarono via. Nigulescu camminava in modo piuttosto incerto.

L’uomo in grigio si rivolse ancora a Roberto con la solita voce gentile: «Di tutta questa storia — gli disse guardandolo fisso negli occhi — è bene non parlarne in giro. Lei mi capisce?».

Stortoni fu fatto rinfrescare alla bene e meglio e quindi gli fu detto che era pronta la «gazzella» che lo avrebbe riportato a casa.

Fuori del villino, ad aspettarlo, c’erano i soliti tre carabinieri della sera prima. Prese posto sul sedile posteriore.

Tre ore dopo era a Casellina. Roberto non poté fare a meno di notare che uscendo dall’autostrada i carabinieri pagarono regolarmente il pedaggio. Il particolare ancora una volta lo sorprese. In effetti aveva ragione perché i carabinieri sono esenti dal pagamento. Anche il casellante, successivamente interrogato, disse di essere rimasto sbalordito dalla circostanza.

Pochi minuti ancora e Roberto era in via Madonna di Pagano davanti alla sua casa. I carabinieri lo salutarono portando la mano alla visiera e ripartirono subito.

Passarono i giorni e Roberto, seguendo il consiglio dell’uomo in grigio, non aveva parlato in giro della sua strana avventura. Ai familiari si era limitato a raccontare una versione molto «censurata» di quanto gli era accaduto, eliminando dal racconto l’ambasciata di Romania, Ceausescu, il «suocero» in carne ed ossa. Ma ogni giorno l’imbianchino comprava il giornale e lo sfogliava dalla prima all’ultima pagina alla ricerca di una notizia, magari piccola, che potesse spiegargli che cosa gli era accaduto. Cercava anche notizie su Radu Nigulescu.

Ma dopo alcune settimane Roberto cominciò seriamente a preoccuparsi e a pensare di essere rimasto coinvolto in una storia illegale. Passarono ancora alcuni giorni e poi Roberto decise di salire le scale della procura e di andare a raccontare tutto a un magistrato.

Della vicenda si occupò l’allora sostituto procuratore della Repubblica Piero Luigi Vigna che per prima cosa, naturalmente, fece controllare se mai carabinieri appartenenti a qualsiasi gruppo o città avessero svolto un servizio come quello descritto da Roberto Stortoni. La risposta, come era prevedibile, fu negativa.

Quindi quei signori in divisa nera e banda rossa, a dispetto dell’Alfetta completa di tutti gli accessori dell’Arma, non erano carabinieri. Fu subito avvertito il SID, il nostro servizio di controspionaggio.

A Palazzo Chigi si tenne una riunione ristretta presieduta dall’allora capo del governo Andreotti alla quale presero parte Cossiga, allora ministro degli Interni e il generale dell’Arma dei Carabinieri Mino. Il secondo atto dell’inchiesta fu portare Stortoni di nuovo a Roma di fronte all’ambasciata di Romania. «No — disse sicuro l’imbianchino — non è questo il villino dove fui portato».

Nel tentativo di arrivare a identificare la costruzione dove Stortoni fu tenuto per una

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notte il magistrato Vigna arrivò a fare affittare il dirigibile pubblicitario della «Good Year» e portarci l’imbianchino per sorvolare Roma. La ricerca fu vana. Niente carabinieri, niente ambasciata di Romania, della storia restava solo Radu Nigulescu. Nelle mani di chi era? E perché i finti carabinieri avevano chiesto che Stortoni si portasse con sé il passaporto? Era stato anche previsto un viaggio all’estero? Ad Atene? A prima vista si poteva ipotizzare che i finti carabinieri fossero spie romene che avessero scelto quella divisa per muoversi liberamente per il territorio italiano, anche se, bisogna ammettere, la scelta è molto più rischiosa di quanto appaia: che cosa sarebbe accaduto se, per un caso fortuito, i finti si fossero trovati a contatto con veri carabinieri? E poi che bisogno avrebbero avuto i romeni di uno Stortoni per riconoscere un loro connazionale? Infatti, è evidente che scopo di tutta la romanzesca nottata dell’imbianchino di Casellina fu quello di dare a qualcuno la certezza di avere in mano Radu Nigulescu. Il quale — è bene ricordare — durante i suoi soggiorni fiorentini si comportava in modo da fare almeno sospettare una sua qualche attività antitaliana. È lecito chiedersi a questo punto se quei tre finti carabinieri non fossero uomini del SID: insomma sarebbero stati veri carabinieri che per svolgere l’operazione si sarebbero trasformati in finti carabinieri da sembrare veri.

Della vicenda non si è mai più saputo niente: l’intrigo internazionale di Casellina è rimasto un mistero.

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Il maniaco delle coppieFirenze 8 settembre 1985

Il silenzio del mostro

Il mostro è morto. Quel detective che è l’inconscio collettivo è arrivato a questa conclusione un po’ per allontanare definitivamente lo spettro che per lunghi anni ha popolato gli incubi notturni dei fiorentini e le loro belle colline, e un po’ con la delusione che un’ipotesi del genere non consentirebbe più di risolvere il più sensazionale caso di cronaca nera del dopoguerra, tanto che esso finirebbe archiviato come «il mistero di Firenze».

Il mostro, il maniaco assassino che con una indecifrabile progressione ha assassinato sedici giovani seguendo macabri rituali tra l’agosto 1968 e il settembre 1985, in effetti, non ha più ucciso da quattro anni, da quella notte di sabato 7 settembre 1985 in cui nel bosco degli Scopeti, pochi chilometri da San Casciano Val di Pesa, massacrò i due turisti francesi Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili. Un delitto, se attentamente analizzato, molto diverso dai precedenti, quasi volesse annunciare un radicale cambiamento e culminato, in realtà, con l’unico messaggio certamente autentico che il misterioso assassino ha inviato, un messaggio, per così dire, in codice che tenteremo qui di decifrare, ma che certamente non significa che il mostro è morto. L’alfabeto che usa il mostro è il più macabro che si possa concepire, fatto di sangue, di mutilazioni, di lame taglienti come rasoi, di pallottole, di notti di novilunio. Per poterlo interpretare è necessario ripercorrere fin dall’inizio la sua orrenda saga. Che cominciò la notte del 21 agosto 1968 in un campo di canne accanto al cimitero di Castelletti a Signa, una ventina di chilometri a occidente di Firenze. Quella notte furono uccisi dentro la «Giulietta» in cui stavano facendo l’amore Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, mentre sul sedile posteriore, sotto una coperta, dormiva il figlio della donna, Natalino Mele che aveva allora sette anni. Una Beretta calibro 22 scaricò l’intero caricatore sui due amanti e risparmiò il bambino. Nessuna successiva violenza, come invece sarebbe poi avvenuto negli altri delitti, fu fatta sul corpo delle vittime, della donna in particolare.

Resta, tanti anni dopo, il mistero di come il piccolo Natalino fu portato in salvo: uscì da solo dalla macchina e a piedi raggiunse una casa di contadini ai quali chiese aiuto? Fu portato in spalla da qualcuno fin lì e poi abbandonato? Che senso dare ad alcune frasi che Natalino avrebbe detto pochi giorni dopo il delitto del tipo «Vidi lo zio tra le canne»? Erano sincere, oppure il bambino subì in qualche maniera le pressioni del clan familiare del padre Stefano Mele, un sardo immigrato in Toscana una decina di anni prima? Intervistato da chi scrive nel 1984, ormai ragazzo, Natalino asserì di ricordare di quella orrenda notte «solo il lampo degli spari».

Una prima considerazione, a nostro avviso, andrebbe fatta nel rivedere il delitto del ’68: se l’assassino, che certo non può essere sospettato di mancanza di crudeltà, risparmiò il bambino forse lo ha fatto perché era sicuro di non potere essere da lui riconosciuto e denunciato. Altrimenti lo avrebbe soppresso. Quindi era una persona a lui completamente sconosciuta. Gli inquirenti, che nel 1968 certo non potevano ipotizzare l’esistenza di un

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maniaco assassino, e credevano che i due amanti fossero stati uccisi dal marito geloso della donna, credettero piuttosto che Natalino fosse stato salvato perché un padre mai avrebbe ucciso il proprio figlio.

Come si sa in carcere finì, in effetti, Stefano Mele, il marito di Barbara Locci, condannato a soli 14 anni di reclusione perché gli fu riconosciuto un vizio parziale di mente.

Il delitto fu classificato come d’onore e attribuito al marito tradito. Alcuni tra gli stessi investigatori che avevano condotto le indagini rimasero stupiti: bastava vedere Stefano Mele per dubitare fortemente che quell’ometto, malfermo sulle gambe, dai gesti impacciati per il suo andicap mentale, mai geloso della moglie tanto che era arrivato a servire a letto a lei e ai suoi amanti il caffè nella sua stessa casa, fosse andato fino al cimitero di Castelletti e avesse scaricato dieci pallottole sulla coppia senza sbagliare un colpo.

Alcuni, quindi, dovettero ipotizzare che Stefano Mele avesse avuto un complice e l’uomo, umiliato da anni di tradimenti della moglie, colse l’occasione per vendicarsi e tirò in ballo, in successive e contrastanti versioni i due fratelli Salvatore e Francesco Vinci che in tempi diversi erano stati entrambi amanti di Barbara Locci. Le accuse di Stefano Mele, seguite sempre da ritrattazioni, non convinsero i magistrati tanto che il sardo fu considerato l’unico responsabile del duplice omicidio. L’arma usata per il delitto, la Beretta calibro 22, non fu trovata e Mele, nonostante alla fine avesse confessato, non fu in grado di indicare dove l’avesse nascosta. Così come, nel corso di una ricostruzione dell’omicidio al cimitero di Castelletti non fu capace di indicare come avesse ucciso la moglie e Antonio Lo Bianco. Fatti che, se attentamente valutati e se messi in rapporto con le condizioni mentali dell’imputato, avrebbe dovuto fornire ampia materia di riflessione agli inquirenti fino a farli fortemente dubitare della sincerità della sua confessione. Eppure, nei rapporti di polizia stesi all’epoca, si leggono particolari che Mele avrebbe fornito tali da non fare dubitare della sua presenza sul luogo del delitto. Fu scritto, per esempio, che l’uomo seppe dire che la freccia destra della «Giulietta» di Lo Bianco era rimasta accesa; che l’uomo ucciso aveva perso la scarpa sinistra; fu scritto che Mele seppe dire quanti colpi aveva sparato contro ciascuna delle due vittime. Particolari troppo precisi per rimanere impressi nella mente di un assassino per gelosia, soprattutto in quella di un tipo come Stefano Mele, tanto da indurre il sospetto che essi furono in qualche maniera «suggeriti» da chi lo interrogava quasi a compenso delle inspiegabili lacune mostrate dall’imputato al momento della ricostruzione dell’omicidio.

Questi fatti peseranno moltissimo nelle successive indagini sul mostro, portandole verso una direzione sbagliata per anni e facendo perdere molto tempo prezioso. Certo era difficile pensarlo nell’agosto del ’68. Una coppia clandestina assassinata in un bosco: quale altro responsabile se non un uomo geloso o, comunque, offeso nell’onore? Chi poteva pensare a un maniaco che andava in giro nelle campagne alla ricerca di una coppia, di una coppia qualsiasi da sacrificare al mostro che cresceva dentro di lui?

Ora, se un assassino del genere cerca quel tipo di vittime chi gli può capitare di trovare? Più facilmente giovani, anzi, giovanissimi fidanzati oppure una coppia di poveri amanti. Se al primo delitto, nel 1968, il mostro fosse capitato su due giovani, l’indagine avrebbe preso un’altra piega, perché allora difficilmente ci sarebbe stato un sospetto pronto come un marito tradito. Il caso volle che capitasse su un uomo e una donna sposata, il cui marito per di più aveva una contorta mentalità. Sorse, allora all’insaputa di

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tutti, un fitto bosco di equivoci dentro il quale poi sarebbe stato difficile riconoscere una via d’uscita.

Mentre Stefano Mele se ne stava chiuso in una cella la Beretta calibro 22 che lui avrebbe usato per uccidere Antonio Lo Bianco e Barbara Locci tornò a sparare. La notte del 14 settembre 1974 in un campo di Sagginale, due o tre chilometri fuori Borgo San Lorenzo, nel Mugello, una trentina di chilometri a nord di Firenze, furono assassinati Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore. Un delitto atroce che fece subito pensare a un maniaco ma che nessuno mise in relazione con il duplice omicidio avvenuto sei anni prima a Signa.

Mancava, allora, una banca dati capace di segnalare che la pistola usata per i due delitti era la stessa, come uguali erano le pallottole Winchester serie H, uscite per di più da una stessa scatola. Sarebbe stato chiaro che anche l’assassino era lo stesso, perché arma e munizioni erano state impiegate per commettere un identico crimine: l’uccisione di una coppia che si amava dentro una macchina appartata in campagna.

Il delitto di Borgo San Lorenzo, inoltre, presentava aspetti raccapriccianti, come se l’assassino seguisse un percorso di perversione che di gradino in gradino l’avrebbe portato verso l’abisso dell’orrore.

Sul corpo della povera Stefania Pettini, ormai senza vita, il mostro introdusse per novanta volte una lunga, tagliente, sottile lama. Ferite inferte con calma, scegliendo il punto di entrata, piccoli fori disposti sul corpo quasi a disegnare macabri arabeschi: attorno ai seni, attorno all’arco superiore del pube. Anni dopo, quando la crudeltà del mostro era completamente esplosa, quelle ferite furono interpretate dagli esperti come una sorta di prova generale degli orrori che avrebbe poi portato a termine.

Dopo qualche settimana il delitto di Borgo San Lorenzo finì archiviato come insoluto.Passarono sette anni — un altro lunghissimo, inspiegabile silenzio del mostro — e la

Beretta calibro 22 tornò a mietere le sue vittime.

La notte del 6 giugno 1981, tra gli ulivi che circondano via dell’Arrigo poco fuori Scandicci, sulla collina che porta alle sorgenti di Roveta, il mostro «perfezionò» il suo delitto.

È quella una zona frequentata da molte coppiette, specie il sabato sera, anche perché lì vicino è una discoteca, e di conseguenza da molti guardoni. Giovanni Foggi, di Pontassieve, e Carmela Di Nuccio, di Scandicci, due giovani vicini al matrimonio, ci andavano spesso; la loro auto, una 127 color rame, era conosciuta da molti guardoni. La notte di sabato 6 giugno un uomo, nero e silenzioso come un’ombra riuscì ad arrivare fino allo sportello sinistro della vettura, probabilmente strisciando sul terreno. Poi, d’improvviso, si alzò, una pistola in mano, una Beretta calibro 22; da pochi centimetri sparò; il vetro del finestrino si sgretolò; altri colpi, nella testa di Giovanni Foggi, contro Carmela Di Nuccio. La ragazza riuscì ad aprire lo sportello di destra e a uscire dall’auto; tentò una disperata quanto inutile fuga nei campi. Fu presto raggiunta e uccisa. L’assassino la sollevò e l’adagiò sull’erba, al riparo di un piccolo costone. Estrasse la stessa lama con la quale aveva sadicamente infierito sette anni prima sul cadavere di Stefania Pettini, e compì per la prima volta il suo orrendo rituale: con tre colpi ampi ma netti asportò il pube della ragazza. E svanì nel buio della notte senza luna.

Questa volta le analogie con il delitto di Borgo San Lorenzo erano tante e così evidenti

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che l’ipotesi di un collegamento tra i due omicidi si affacciò immediatamente. Le perizie balistiche e quelle medico-legali stabilirono poi che effettivamente l’assassino era lo stesso. Nessuno ancora mise questi due fatti in rapporto con il duplice delitto del ’68 a Signa.

Pochi giorni dopo l’omicidio di Scandicci un uomo fu arrestato: si chiamava Enzio Spalletti, autista della Misericordia di Montelupo, uno dei guardoni che era solito frequentare i boschi della collina di Roveta. Sulla base di indicazioni raccolte da altri guardoni che avevano visto la Ford rossa di Spalletti ferma in via dell’Arrigo la notte di sabato 6 giugno non lontano dal luogo del delitto e circa alla stessa ora, la polizia arrivò alla convinzione che se l’autista di Montelupo non era responsabile dell’omicidio, certamente doveva avere visto qualcosa.

Spalletti negò anche la sua presenza sul luogo e cadde in gravi contraddizioni, la più importante delle quali fu quella di raccontare di avere saputo di quanto era accaduto in via dell’Arrigo la mattina della domenica verso le 9,30 al suo bar di Montelupo. Invece, a quell’ora, i cadaveri di Carmela e Giovanni non erano stati ancora scoperti. Spalletti fu arrestato, ma solo con l’accusa di reticenza.

Restò in carcere per tutta l’estate e all’inizio dell’ottobre si vide accusato addirittura del duplice omicidio. Forse gli inquirenti credevano di spingerlo a parlare, a raccontare le cose che avrebbe visto, spinto dalla paura di comparire davanti a una corte d’assise con quella tremenda accusa.

Fu il mostro a scagionare Spalletti anche se certamente, nessuno può dire se lo fece apposta. La sera del 23 ottobre 1981, in un campo vicino a Calenzano, assassinò, con lo stesso identico macabro rituale, Susanna Cambi e Stefano Baldi. Spalletti dovette essere rilasciato.

Ormai, nell’opinione pubblica, sui mass media era nato il mostro.Pochi elementi erano stati raccolti su di lui, il resto era lasciato all’immaginazione

della gente. Si era notato che i suoi delitti erano programmati e che, quindi non agiva spinto da un improvviso, irresistibile raptus. Lo provava il fatto che egli sceglieva, probabilmente con congruo anticipo, le date per entrare in azione preferendo le notti di sabati senza luna. In realtà l’ultimo delitto era stato commesso un giovedì, ma il giorno seguente era equivalente a un festivo perché era stato proclamato uno sciopero generale. Era stato, poi, notato che l’assassino preferiva colpire nell’arco dell’estate o, al massimo, all’inizio dell’autunno, mentre l’inverno se ne stava in letargo. Fu stabilito che le pallottole Winchester provenivano tutte da un’unica partita e probabilmente da una stessa scatola. Fu anche tracciato, dopo l’ultimo delitto, un identikit; grazie alle testimonianze di due coppie di giovani che avevano visto lo stesso individuo sospetto aggirarsi nella zona dove Susanna Cambi e Stefano Baldi erano stati assassinati poco prima e poco dopo l’ora del delitto. Ne uscì fuori il volto di un uomo fortemente stempiato, grandi occhi sbarrati, naso aquilino, bocca tagliente.

La fantasia popolare si scatenò, ne fecero le spese diverse persone, soprattutto alcuni ginecologi, perché era nella loro categoria che la gente credeva che si nascondesse il mostro. Un uomo, Giuseppe Filippi, proprietario della Trattoria “Il Cavallino rosso” di Valenzatico, vicino a Pistoia, ingiustamente indicato come somigliante all’identikit dell’assassino, si suicidò tagliandosi la gola.

Ma in mano agli investigatori non era un solo elemento che permettesse loro di condurre verso una direzione precisa l’indagine.

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Anche dopo il delitto di Calenzano nessuno stabilì un nesso tra i delitti del mostro e l’omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco commesso nel ’68.

L’estate del 1982 si avvicinò a Firenze con il terrore del mostro. E la sera del 19 giugno, ancora un sabato senza luna, vicino a Montespertoli, una trentina di chilometri a sud di Firenze, lui tornò. Assassinò Paolo Mainardi e Antonella Migliorini dimostrando una capacità di autocontrollo eccezionale.

Paolo Mainardi era seduto al posto di guida; dietro era Antonella Migliorini che si stava ricomponendo. Il ragazzo ebbe il tempo di vedere un’ombra che si avvicinava alla macchina, intuì il pericolo, accese il motore, innestò la marcia indietro. Purtroppo, nella concitazione del momento dimenticò di disinnestare il freno a mano, ebbe una certa difficoltà a partire. Il mostro esplose attraverso il finestrino un primo colpo che ferì Paolo di striscio alla spalla sinistra. Terrorizzata, Antonella dovette gridare e con tutte le sue forze si aggrappò da dietro, al collo del suo ragazzo, tanto che la chiusura del suo orologio si sganciò e fu ritrovata tra i capelli di Paolo ormai disteso sul tavolo di marmo dell’obitorio.

L’assassino si aggrappò alla maniglia della portiera di sinistra cercando ancora di colpire i due ragazzi; la macchina uscì dalla boscaglia e entrò in retromarcia sulla strada. Ferito, spaventato, Paolo non seppe controllarla: la vettura attraversò trasversalmente la strada e finì con le ruote posteriori nel fosso dalla parte opposta. Inutili furono i tentativi del ragazzo di riportarla sulla strada.

Fu allora che l’assassino dimostrò la sua freddezza e la sua ferocia: fermo sull’orlo della strada, dalla parte opposta al punto dove era l’auto dei ragazzi, sparò due colpi contro i fari accesi per spengerli. Con un terzo colpo centrò in fronte Paolo attraverso il parabrezza. Quindi entrò nell’auto, uccise Antonella, sparò un colpo dietro l’orecchio destro di Paolo, tentò anch’egli di riportare la macchina sulla strada per tornare nel bosco dove celebrare ancora il suo orrendo rituale. Non ci riuscì. Se ne andò gettando via le chiavi in un campo.

Del caso ritornò a occuparsi, tra gli altri, anche il sostituto procuratore della Repubblica Silvia Della Monica che già aveva lavorato sul delitto di Scandicci. La circostanza va tenuta a mente per cercare di decifrare, come avevamo detto all’inizio, il significato del silenzio del mostro: è infatti a Silvia Della Monica che nel settembre 1985 il maniaco inviò il suo macabro messaggio.

È inutile in questa sede occuparsi di tutto quello che accadde in quei tempi attorno al caso del mostro; inutile ripercorrere i tanti sentieri che le indagini affrontarono. In questo racconto è importante ricordare che fu proprio nei giorni immediatamente successivi all’omicidio di Montespertoli che finalmente i delitti del mostro furono collegati con il duplice omicidio di Signa.

Come questo accadde è, comunque, piuttosto misterioso e per molti aspetti inquietante. Per molto tempo, e ancora oggi, è stata accreditata la tesi che un maresciallo dei carabinieri, il maresciallo Francesco Fiore, che era di stanza a Signa nel ’68, si sarebbe ricordato del vecchio delitto e che anche allora l’assassino aveva usato una pistola Beretta calibro 22 mai ritrovata. Sarebbe stato utile fare un confronto tra i bossoli raccolti sui luoghi dei delitti del mostro e quelli trovati accanto alla «Giulietta» di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci. L’idea era giusta, ma dove trovare i vecchi bossoli? La legge prescrive, infatti, che i corpi di reato — e tali erano i bossoli del ’68 — dopo un certo periodo di tempo vengano distrutti. Ora, secondo una voce che non ha mai trovato

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conferma ufficiale e che fu per la prima volta riportata da chi scrive queste pagine, arrivò nel giugno 1982 un biglietto anonimo alla caserma dei carabinieri di Borgo Ognissanti a Firenze. L’autore del messaggio invitava gli inquirenti ad andare a rivedere le carte del vecchio processo d’appello per i fatti del ’68, celebrato, per complesse ragioni procedurali, a Perugia anziché a Firenze.

L’episodio, se vero, sarebbe della massima importanza ed estremamente inquietante. Chi, infatti, poteva sapere che i documenti relativi al processo che condannò definitivamente Stefano Mele erano in una cancelleria di Perugia? Chi, inoltre, poteva sapere che in quei fascicoli, per una dimenticanza del cancelliere umbro, era rimasto un sacchetto contenente i bossoli delle pallottole esplose al cimitero di Castelletti così che il confronto con quelli del mostro era possibile?

Evidentemente solo qualcuno che, per un motivo o per un altro, era in grado di seguire abbastanza da vicino le vicende processuali del caso.

La storia del biglietto anonimo, come si è detto, non è stata mai confermata ufficialmente. E tuttavia, per la prima volta, chi scrive può dire quale fonte gliela rivelò: il giudice istruttore Vincenzo Tricomi, il magistrato che all’epoca si occupava dell’indagine sul mostro. Il giudice Tricomi mi aggiunse un particolare grave: quando chiese di vedere il biglietto, gli fu risposto che era irreperibile. Quel biglietto, insomma, non esiste più. Imperdonabile distrazione di un carabiniere o ipotesi molto più preoccupante?

Comunque andò, fu il ritrovamento dei bossoli del ’68 ad aprire la cosiddetta pista sarda, il troncone d’indagine che portò in carcere in tempi diversi quattro persone che poi dovettero essere rilasciate. All’inizio della «pista sarda» è anche una valutazione che allora fecero gli inquirenti e che non può non suscitare alcune perplessità. Quando si scoprì che la stessa pistola e le stesse pallottole erano servite per uccidere Antonio Lo Bianco, Barbara Locci e le vittime del mostro, ovviamente si dovette tornare a riesaminare la posizione di Stefano Mele, che sicuramente non poteva essere responsabile dei delitti successi dopo il ’68 perché, come si ricorda, si trovava in carcere. Orbene, agli inquirenti si presentavano tre soluzioni.

La prima: dopo avere ucciso la moglie Barbara e l’amante, Stefano Mele diede a qualcun altro la pistola e le scatole con le pallottole. Lo sconosciuto avrebbe continuato a uccidere. Un’ipotesi quanto mai ardua da accettare, perché è estremamente difficile credere all’eventualità di un’arma che passa di mano per poi compiere lo stesso delitto, l’uccisione di una coppia appartata in macchina in campagna. Perché è arduo ritenere che un uomo vada in giro a seminare terrore e morte sapendo che Stefano Mele può in qualsiasi momento denunciarlo.

Seconda soluzione: Stefano Mele aveva nel ’68 un complice, l’uomo che probabilmente sparò e che possedeva l’arma. Finito in carcere Mele, lo sconosciuto avrebbe continuato a uccidere. Questa ipotesi, come la prima, si scontra con la considerazione che l’assassino sarebbe in balìa di Stefano Mele il quale non avrebbe alcun interesse a proteggerlo.

Terza soluzione: Stefano Mele, nonostante le sue, peraltro contraddittorie, confessioni, non ha mai saputo niente dell’uccisione della moglie e del suo amante, non era al cimitero di Castelletti la sera del 21 agosto 1968. Una soluzione che comporta due importanti corollari, entrambi amarissimi per gli inquirenti: dovere riconoscere che

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condannando Stefano Mele fu commesso un errore giudiziario; ammettere che l’indagine sui delitti del mostro nel 1982, dopo dieci vittime, non aveva neanche un punto di partenza.

Ebbene, noi riteniamo, sulla base di elementi raccolti durante una nostra indagine, che sia vera proprio la terza ipotesi, quella per cui Stefano Mele è completamente estraneo all’uccisione della moglie Barbara e di Antonio Lo Bianco. Nel febbraio del 1982, con una troupe televisiva di Raidue che doveva fare un servizio speciale per la trasmissione «Mixer», chi scrive andò a Ronco all’Adige e passò una giornata intera con Stefano Mele. Superate le prime diffidenze, l’uomo cominciò a parlare dentro i microfoni e sotto le telecamere; di più, parlò tantissimo, per circa otto ore senza che però dai suoi discorsi uscisse fuori qualcosa di coerente, di logico. Mele poteva affermare una cosa e poco dopo il suo contrario senza apparentemente vedervi alcuna contraddizione.

Alla fine tentai un bluff per vedere come avesse reagito: «Stefano — gli dissi con sicurezza — forse non te l’hanno mai detto, ma ormai i carabinieri hanno scoperto che tu non sai niente dell’uccisione di tua moglie e di Lo Bianco. Ormai si sa che tu sei innocente.»

La reazione fu sorprendente. Per un attimo sembrò smarrito, poi disse: «Per tanti anni mi hanno fatto dire che c’entravo. Mi hanno fatto una faccia così per farmelo dire. E io continuo a dirlo».

La frase di Stefano Mele fu registrata, ma la trasmissione di «Mixer» non andò mai in onda. La Rai ebbe lo scrupolo di farla visionare prima alla magistratura fiorentina che decise di allegare tutto il materiale agli atti dell’istruttoria sul mostro, in pratica sequestrandolo.

Nel 1982 gli inquirenti scelsero la seconda soluzione, quella di un complice di Stefano Mele nel delitto del ’68, ovvero la «pista sarda».

Chi poteva essere quel complice? Si andarono a rivedere gli interrogatori di Stefano Mele e riemersero i nomi di Francesco Vinci e del fratello Salvatore. Francesco era l’amante più geloso di Barbara Locci. Finì in carcere nell’agosto 1982.

La «pista sarda» fu smentita dallo stesso mostro poco più di un anno dopo, la notte di sabato 9 settembre 1983: sopra al Galluzzo uccise, scambiandone uno per una donna, due ragazzi tedeschi che dormivano in un camper, Horst Friederich Meyer e Uwe Ruesch Sens.

Francesco Vinci non poteva essere il colpevole, ma non fu scarcerato. Gli inquirenti si spaccarono: da una parte chi credeva che fosse inutile seguire le indicazioni che il folle Stefano Mele continuava a dare a richiesta accusando ora l’uno ora l’altro; e chi, invece, era convinto che il piccolo sardo nascondeva la verità. Tra questi non mancava chi pensava che il nuovo delitto del mostro potesse essere stato commesso da un complice di Francesco Vinci per poterlo scagionare.

Il colpo di scena avvenne nel gennio 1984: il giudice istruttore Mario Rotella decise la scarcerazione di Francesco Vinci, ma contemporaneamente fece entrare in prigione i cognati Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini.

Passarono sei mesi e ancora una volta il mostro si incaricò, con un nuovo delitto, di dimostrare l’infondatezza della «pista sarda»: a Vicchio del Mugello, ad appena tre, quattro chilometri di distanza dal campo di Sagginale dove nel 1974 aveva assassinato Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore, la sera del 29 luglio 1984, uccise Pia Rontini e Claudio Stefanacci.

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Il macabro rituale si «arricchì» ulteriormente, perché l’assassino quella volta asportò anche un seno della ragazza.

Dopo sei delitti — quanti erano nel luglio 1984 — una valutazione ci sembra che possa essere fatta per quanto riguarda la scelta dei luoghi degli omicidi, visto che sicuramente non esiste alcun collegamento tra l’assassino e le sue vittime.

Ebbene, ci sembra abbastanza evidente che per colpire a Signa, a Scandicci, a Calenzano, a Montespertoli e a Giogoli sopra al Galluzzo non si debba avere un’ottima conoscenza della zona. Quei luoghi, tutti frequentati da coppiette, sono tutti molto vicini a strade di grande comunicazione o, comunque, abbastanza intensamente trafficate. Non così per quanto riguarda il campo di Sagginale e, soprattutto, il campo della Boschetta vicino a Vicchio, teatro dell’ultimo duplice omicidio.

Si può quindi avanzare l’ipotesi che l’assassino conosca molto meglio la zona del Mugello. O vi abita, o vi ha abitato a lungo in tempi passati.

Intanto però, nell’estate del 1984, ancora una volta non bastò un nuovo delitto per scagionare i «mostri» di turno in carcere, Piero Mucciarini e Giovanni Mele. I due furono rilasciati, tra l’altro solo grazie a una decisione del tribunale della libertà, solo molto tempo dopo.

Da alcuni mesi, però, un altro individuo, a sua insaputa era entrato nella «pista sarda», Salvatore Vinci, il fratello di Francesco. Dal giugno 1985 egli fu posto dai carabinieri sotto stretta, quanto discreta sorveglianza. Una sorveglianza che fu inspiegabilmente sospesa alla vigilia dell’ultimo sabato senza luna dell’estate 1985, il 7 settembre.

Si arriva così all’ultimo delitto del mostro, il delitto diverso, il più complesso, quello da decifrare, come da decifrare è il messaggio che subito dopo egli inviò al sostituto procuratore Silvia Della Monica, per capire perché da allora non ha più colpito.

Gli elementi che alla vigilia di questo omicidio possiamo dire di avere raccolto su di lui sono effettivamente pochi, e in alcuni casi anche incerti. Tuttavia vale la pena di elencarli. Considerando, sulla base di statistiche, che egli deve avere commesso il primo crimine, quello del ’68, in un’età più vicina ai 30 che ai 20 anni, si può dedurne che nel 1985 avesse quasi 50 anni, probabilmente qualcuno in meno.

Esaminando il suo comportamento nei vari delitti — sollevamento di cadaveri, prontezza di riflessi, capacità di spostarsi di notte in campagna con facilità — possiamo dedurne che si tratta di un individuo robusto e in buona salute. Il delitto di Giogoli, quello in cui furono assassinati i due ragazzi tedeschi, dimostra inoltre che deve essere un uomo abbastanza alto, visto che per sparare i primi colpi aveva dovuto farlo attraverso la parte più alta dei finestrini del camper, l’unica trasparente.

Anche quella dell’altezza del mostro è comunque solo una supposizione, perché nessun altro elemento è mai venuto, contrariamente a quanto per lungo tempo si è creduto, a sorreggerla. Ed è questo un altro elemento che per la prima volta possiamo rivelare: alcuni ricorderanno che, durante il sopralluogo nella radura di Scopeti dove erano stati assassinati i due turisti francesi Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili, gli investigatori notarono l’impronta di uno scarpone che fu attribuita all’assassino. Dell’orma fu fatto un calco in gesso e sulla base delle sue dimensioni fu ricostruita l’ipotetica altezza del mostro. Poiché quello scarpone era della misura 44, fu facile dedurre che chi lo calzava dovesse essere un individuo superiore al metro e ottanta, forse vicino al metro e novanta.

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La notizia fu ripresa e divulgata da tutti i giornali, tanto che l’immagine del mostro gigantesco o quasi entrò presto a fare parte dell’immaginario collettivo.

Dopo poche settimane, però, una forte delusione colpì gli investigatori dentro il laboratorio di polizia scientifica di Firenze: risultò in modo inequivocabile che l’impronta di quello scarpone non era quella dell’assassino, bensì dell’«anfibio» di uno dei tanti carabinieri che nelle ore immediatamente successive alla scoperta del delitto si erano aggirati nella zona.

E, tuttavia, gli altri elementi di cui abbiamo parlato fanno supporre che il mostro debba essere un uomo robusto e, probabilmente, anche abbastanza alto.

Ancora più difficile, poi, è stato tentare di tracciare un identikit psicologico dell’assassino, sulla base dell’enorme letteratura scientifica che esiste. L’incarico fu affidato al professor Francesco De Fazio, titolare della cattedra di Criminologia dell’Università di Modena. La grande difficoltà deriva dal fatto che, a quanto pare e nonostante ricerche effettuate presso le polizie di varie parti del mondo, compresa l’americana FBI, non esistono casi criminali che abbiano caratteristiche tali da fare rientrare quello del mostro di Firenze in una categoria nota.

Sulla base delle conoscenze dei casi di psicopatologie criminali si può arguire che il mostro appartiene a una fascia sociale medio-alta, perché più facilmente in quella zona si riscontrano certi comportamenti. Nonostante l’affermazione possa sorprendere molti, egli inoltre non può essere incasellato nella categoria dei sadici, e le sue deviazioni hanno piuttosto a che fare con il voyeurismo e forse con deliranti aspirazioni moralistiche e religiose.

È bene comunque subito aggiungere che se indubbiamente queste ricerche di tipo scientifico possono aiutare nella comprensione del caso, molto meno utili, perlomeno nell’immediato, possono dimostrarsi ai fini di un’indagine di polizia.

Più interessante può essere un esame del suo comportamento sulla base di quello che mentre agiva ha lasciato: il minimo indispensabile, dimostrando in tal modo ancora una volta di essere una persona estremamente accorta, presente a se stessa in qualsiasi momento e per niente desiderosa, neanche inconsciamente, di essere scoperta.

Esaminando il suo comportamento possiamo aggiungere che egli conosce sì le campagne attorno a Firenze, ma in modo particolare il Mugello come se ci avesse vissuto a lungo, magari da ragazzo quando facilmente certi giochi si fanno in campagna.

Probabilmente non è un ottimo tiratore, anche se, avendo saputo mantenere efficiente una pistola e le pallottole per tanti anni, non deve essere digiuno di armi. Forse si è esercitato negli ultimi anni al tiro, visto che ha migliorato la mira: se nei primi delitti sparava al bersaglio grosso, al corpo cioè, poi centra la testa. Sa anche usare un coltello, come potrebbe fare un esperto cacciatore.

Non è molto, certo, tanto che nella lista di sospetti sui quali indaga la procura — in tutto una ventina di nomi — più di uno ha quelle caratteristiche.

Ora, sarebbe interessante sapere se nell’estate 1985, nei mesi precedenti il delitto, anche il sostituto procuratore Silvia Della Monica stesse indagando su individui del genere. Questo per spiegare perché, di lì a poco, il mostro avrebbe deciso di inviare proprio a lei un orrendo quanto minaccioso messaggio.

Perché il plico da inviare alla donna magistrato rientrava sicuramente nei piani del mostro per quello che probabilmente egli stesso aveva deciso che sarebbe stato il suo ultimo delitto.

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I cadaveri di Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili furono ritrovati nel primo pomeriggio di lunedì 9 settembre in una radura di Scopeti, proprio accanto alla strada che dai Falciani porta a San Casciano. Lì i due turisti, parcheggiata la loro Golf bianca, avevano alzato la piccola tenda a «igloo». I periti indicarono, come data della morte, in un primo momento quella della sera precedente, domenica 8. Un giorno anomalo per il mostro che, come abbiamo visto, ha sempre scelto un sabato o comunque la vigilia di un giorno non lavorativo. Come vedremo, in effetti, i periti dovettero riconoscere di essersi sbagliati e anticipare la data dell’omicidio al sabato 7. Ma procediamo con ordine.

La mattina di martedì 10 negli uffici della procura di piazza San Firenze arriva una busta bianca. L’indirizzo e il nome del destinatario sono scritti con lettere ritagliate da un giornale: «Silvia Della Monica, Procura della Republica» (sic.). Il cancelliere che la riceve avverte al tatto che nella busta sospetta non è solo un foglio di carta, ma anche un piccolo oggetto. Il plico viene aperto con cautela, anche per non fare sparire eventuali impronte. Avvolto in un foglietto è un pezzo d’orrore, un brandello di pelle del seno che l’assassino ha strappato a Nadine Mauriot.

Il timbro sulla busta indica che essa è stata spedita il lunedì 9 da San Piero a Sieve, un paese del Mugello non lontano da Borgo San Lorenzo e da Vicchio.

Prima considerazione: il macabro messaggio è stato, quindi, spedito prima che il delitto venisse scoperto: i corpi furono rinvenuti nel pomeriggio di quel lunedì. È quindi evidente che intenzione del mostro era quella di essere lui stesso a segnalare, nel più clamoroso dei modi, che aveva commesso un altro omicidio. Solo il caso volle che questo piano saltasse perché un cercatore di funghi andò nella radura di Scopeti proprio mentre il plico era in viaggio tra il Mugello e la procura della Repubblica. Ma è facile immaginare quali sensazioni avrebbe procurato quel plico se fosse arrivato prima della scoperta del delitto: è facile immaginare con quale angoscia e senso di rabbiosa frustrazione la polizia avrebbe dovuto cercare in tutte le campagne attorno a Firenze le ultime vittime del mostro sotto gli occhi di un’opinione pubblica irata e spaventata.

Che quello fosse il piano dell’assassino lo dimostra anche la «rilettura» dell’omicidio commesso con modalità molto diverse dai precedenti proprio per raggiungere lo scopo prefissato. È da notare che per questi tipi di criminali, che gli americani chiamano serial killer, ogni piccola variazione nelle modalità di uccidere comporta uno sforzo enorme.

Allora, esaminiamo il delitto di Scopeti. Per la prima volta il mostro non colpisce una coppia chiusa in una macchina, una circostanza che lui deve avere sempre dovuto considerare come molto utile alla propria sicurezza, perché pone in stato di evidente inferiorità le vittime rendendo difficile ogni possibile reazione. L’assassino evita una coppia in macchina perché ha bisogno di nascondere, per la prima volta, i cadaveri delle sue vittime. Una tenda da campeggio andrà benissimo.

Il mostro sceglie due stranieri. Era fondamentale per il suo piano, perché se avesse colpito una coppia di Firenze sicuramente attorno alla mezzanotte ci sarebbe stata una denuncia di scomparsa e l’apparato poliziesco antimostro e comunque le ricerche dei ragazzi sarebbero subito scattate. Nessuno invece avrebbe segnalato la scomparsa di due stranieri.

Il mostro colpisce e, come si è detto, per la prima volta, si preoccupa di occultare i cadaveri: la ragazza dentro la tenda richiusa con la lampo; il ragazzo, che aveva tentato una disperata fuga e che era stato finito a una decina di metri dalla tenda, sotto una fitta macchia di cespugli e alcuni bidoni vuoti di vernice trovati sul posto.

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E il suo piano funziona, almeno fino alle 15 di lunedì 9. Ancora qualche ora e sarebbe stato perfetto.

Che senso aveva questo progetto? Certo non solo quello di essere un macabro divertimento. È certo che il mostro non ama prendere rischi inutili e preferisce di non fare mai un gesto di troppo gratuitamente. Quel piano doveva servire a qualcosa.

Raccogliendo tutti gli elementi che abbiamo cercato di esaminare è possibile tentare a questo punto, certo con tutte le incertezze del caso, di decifrare il messaggio del mostro e quindi di rispondere all’interrogativo posto all’inizio: non colpisce più perché è morto?

Tutto il piano relativo all’ultimo delitto e che abbiamo analizzato era destinato a un interlocutore preciso, lo stesso al quale fu inviato il messaggio con il lembo di pelle di Nadine Mauriot: il sostituto procuratore Silvia Della Monica.

La sua scelta fu subito spiegata, e ancora oggi questa è la versione che trova maggiore credito, con il fatto che il magistrato era l’unico inquirente donna e, data la crudeltà che l’assassino mostrava verso le sue vittime femminili, come un gesto di oltraggiosa sfida.

Riviste tutte le modalità del delitto del 1985, noi crediamo che questa interpretazione debba essere cambiata: Silvia Della Monica potrebbe essere stata scelta come interlocutore dal mostro solo perché magistrato, non perché donna. Solo perché, cioè, avrebbe condotto un certo tipo di indagine su una certa persona. Noi non vogliamo dire che Silvia Della Monica avesse individuato il mostro, ma che forse, indagando su diversi sospetti, sia capitata anche sull’assassino senza accorgersene. Lui invece, in qualche maniera se ne accorse. Non dimentichiamo che, se la vicenda del misterioso biglietto anonimo che indicava il tribunale di Perugia come il luogo dove potevano essere trovati i bossoli del delitto del ’68 fosse vera, il mostro avrebbe dimostrato di avere una certa dimestichezza con gli ambienti giudiziari.

Con il suo messaggio, in altre parole, l’assassino avrebbe voluto dire al magistrato: attenta, io so che tu sai, ma, vedi, il più forte sono io.

Ora, accadde dopo l’arrivo del messaggio una cosa singolare e di difficile spiegazione. Per anni gli inquirenti avevano sperato — quasi pregato — che il mostro si scegliesse un interlocutore qualsiasi, un giornalista, un poliziotto, un magistrato, per potere stabilire con lui una sorta di dialogo. Ebbene, finalmente il 10 settembre 1985 il mostro stabilisce un contatto e indica chiaramente un interlocutore: Silvia Della Monica. Ma, inspiegabilmente, il magistrato non risponde, non cerca di prolungare il contatto. Al contrario, evita di parlare, rifugge dalle interviste e vive nel suo ufficio al secondo piano della procura circondata da poliziotti armati, quasi temesse pericoli fin dentro il tribunale.

Certo non può essere criticato un atteggiamento del genere: è naturale che una donna che abbia ricevuto un messaggio tanto orribile abbia voglia solo di allontanarsi da quella storia, tanto più che essa, ormai da tempo, era nelle mani di altri suoi colleghi.

Se questa interpretazione corrispondesse alla verità si arriverebbe allora a spiegare perché il mostro, da quel sabato 7 settembre 1985, non ha più colpito.

Lui sa, o crede di sapere (il che, dal punto di vista delle sue reazioni, è la stessa cosa) di essere il primo dei sospettati e pensa, quindi, che se dovesse uccidere di nuovo gli investigatori, pochi minuti dopo la scoperta del nuovo delitto, sarebbero subito da lui, mentre egli, come ha sempre dimostrato, ha bisogno di almeno ventiquattro ore per sbarazzarsi degli elementi che potrebbero accusarlo. Quindi ora il mostro colpirebbe ancora solo se fosse sicuro di potere ritardare di almeno ventiquattro ore la scoperta dei cadaveri, così come ha fatto l’ultima volta. Un piano però che comporta notevoli rischi.

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Per concludere, sappiamo chi era, almeno per una parte degli inquirenti (tra i quali non era Silvia Della Monica) il primo dei sospettati alla data del 7 settembre 1985: Salvatore Vinci, il fratello di Francesco. Ma lo sapeva anche lui di essere strettamente controllato ed è quindi difficile pensare che chi sa di essere sorvegliato possa compiere un duplice omicidio come quello degli Scopeti e attuare il complesso piano per spedire dal Mugello il plico per Silvia Della Monica.

Come ricorderà chi ha seguito le cronache del mostro, Salvatore Vinci fu arrestato, anche se «solo» con l’accusa di avere ucciso, nel 1961, la prima moglie Barbarina Steri simulando un suicidio con il gas. Ma Salvatore fu assolto con formula piena da quell’accusa dalla corte di assise di Cagliari, competente per territorio, e rimesso in libertà. Poco dopo, sparì.

È vera l’interpretazione che abbiamo dato del silenzio del mostro?Nessuno può dirlo, come quasi nessuna cosa può essere affermata con certezza in

questa lugubre storia nata e sviluppatasi in mezzo agli equivoci e in cui ogni elemento porta il marchio dell’ambiguità.

Possiamo ragionevolmente solo dire che essa è plausibile. Il mostro potrebbe spezzare il suo silenzio.

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La marchesa AmaliaFirenze 22 aprile 1986

Un giallo molto blu

È un giallo dai suggestivi riflessi blu, ovvero molto aristocratici, quello che cominciò una sera di aprile 1986 con una strana telefonata arrivata in casa di Giorgio Puddu, un trasportatore di 40 anni che con il suo furgone lavorava soprattutto per gli antiquari di via Maggio, dei quali, ovviamente, godeva piena fiducia.

Puddu, folta zazzera fin sul collo, grossi baffoni alla Guareschi, a dispetto del nome tipicamente sardo era un vero «sanfredianino». Vocione e accento «diladdarno», era uno dei personaggi più vivaci del colorito mondo che vive attorno a piazza Santo Spirito.

«Vogliono te», gli disse la moglie che aveva alzato la cornetta. All’altro capo del filo era una donna, dalla voce profonda, quasi virile, e molto bene educata. Una signora, insomma.

«Signor Puddu, mi scusi se ora non posso dirle il mio nome. Io so di che lavori lei si occupa e ne vorrei uno un po’ particolare».

Puddu, che a forza di frequentare antiquari aveva conosciuto anche un sacco di gente «su», non si stupì molto della telefonata. Solo, trovava un po’ strano fissare un lavoro «particolare» con una signora della quale ignorava anche il nome.

«La richiamerò», disse la donna e riattaccò la cornetta.Il giorno dopo il telefono di Puddu squillò di nuovo. Era ancora lei. Questa volta disse

di chiamarsi «Giovanna», ma nonostante le insistenze del trasportatore non volle dire che tipo di lavoro aveva da proporre. Fissò appuntamento alle 6 di sera in un caffè vicino a ponte Santa Trinita, proprio all’angolo tra via Maggio e via Santo Spirito.

«Già — fece Puddu — e io come la riconosco?».La misteriosa signora disse che l’avrebbe facilmente riconosciuta dai capelli neri, un

cappotto beige e una sciarpa gialla.La faccenda diventava decisamente strana, ma Puddu decise di andarci ugualmente. O,

forse, fu la curiosità un motivo in più a spingerlo all’appuntamento con «Giovanna».«Mah — pensò il trasportatore — mi sa che vuole un trasporto senza bolletta e fa tante

storie».«Giovanna» era puntuale: capelli neri, cappotto di cammello e una grande sciarpa

gialla. Una donna alta, sottile, tra i 50 e i 60 anni, sicuramente un’aristocratica, pensò Puddu appena la vide. Ma decisamente nervosa, con quelle lunghe mani che si tormentavano tra loro, quell’impossibilità di restare ferma per più di quindici secondi, lo sguardo che si muoveva in continuazione su ogni angolo del locale e che sembrava avere timore a fermarsi su Puddu.

L’uomo cercò di arrivare, infine, a sapere che «lavoretto» doveva fare. Lei ordinò un bicchiere di vino bianco e parlando con imbarazzo insistette nel dire che si trattava decisamente di qualcosa di «particolare».

«Sentiamo — propose Puddu — poi si vedrà se si può fare, ma se non me ne parla…».«Qui non è possibile — rispose Giovanna — c’è troppa gente. Usciamo».

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Un po’ spazientito, ma comunque incuriosito, Puddu la seguì. Lei girò in via Santo Spirito e poi entrò in un vicolo deserto. Si guardò in giro per accertarsi che non ci fosse nessuno; guardò persino in alto per vedere se non ci fosse qualcuno dietro a una finestra. Poi tutto d’un fiato: «Ci sarebbe da ammazzare una persona».

«Ohè, è matta? Guardi che ha sbagliato indirizzo!».Il Puddu dalla battuta lesta, in quel momento, comunque, quasi balbettava. Per un

attimo non era stato convinto di avere sentito bene. Ma «Giovanna» non si lasciò scoraggiare dalla reazione del trasportatore.

«Ma no, non c’è da preoccuparsi. È una cosa facile facile, una sciocchezza per lei. Si tratta di ammazzare una donna che per di più vive in campagna. Di notte chi vuole che la veda? Basta un colpo in testa e via!»

Puddu per un attimo pensò di essere finito dentro un film dalla sceneggiatura sgangherata, ma gli ci volle poco per capire che «Giovanna» faceva sul serio. Magari era una pazza, ma quella voleva davvero uccidere qualcuno. Ragionò velocemente: «Qui c’è un povero cristo che rischia la pelle. Meglio far finta di stare al gioco e scoprire tutto».

E il «sanfredianino» cominciò a recitare la parte del killer, anche se un po’ malvolentieri. D’altra parte non è vero che i «contratti» — quei «contratti» — vanno accettati con riluttanza per fare salire il prezzo? Giorgio Puddu cominciò a fare finta di essere comunque interessato alla proposta, visto che l’esecuzione del delitto non avrebbe presentato eccessive difficoltà. Disse però che quel tipo di «lavoretti» non erano la sua specialità.

«Ma — aggiunse — posso trovarle la persona giusta. Mi richiami la settimana prossima».

Puddu aveva guadagnato tempo, ora poteva andare diritto dai carabinieri a raccontare tutto. Al prossimo appuntamento «Giovanna» sarebbe caduta nella trappola. L’uomo guardò la donna che si allontanava con andatura elegante verso via Maggio. Fu solo allora che si accorse che i capelli neri di «Giovanna» erano una parrucca. Sotto spuntavano capelli castani.

Quando «Giovanna» telefonò di nuovo, Puddu le fissò appuntamento in piazza di Porta Romana vicino al giornalaio, ancora alle 6 di sera. Avrebbe portato l’uomo che faceva per lei.

Quando la misteriosa signora arrivò, loro erano già lì ad aspettarla, Giorgio e un tipaccio con i capelli rossi tutti ricci e tanto di orecchino. Le presentazioni furono rapide:

«È lui quello che può fare il lavoro. Adesso io vi lascio, di questa storia ho saputo fin troppo».

Puddu lasciò «Giovanna» con il suo killer perché mettessero a punto i particolari del «contratto». Ovviamente il killer era un carabiniere.

Puddu sapeva che il giorno dopo sul giornale avrebbe letto tutta la storia dell’arresto e del tentato delitto che lui aveva scongiurato e avrebbe finalmente saputo chi era la misteriosa «Giovanna».

Ma il giorno dopo sul giornale non c’era scritto niente di quella storia, e il giorno dopo ancora niente e ancora niente nei giorni che seguirono.

Una di quelle mattine — quella del 23 aprile — un altro personaggio si alzò presto e con una certa ansia per potere andare per prima cosa a comprare il giornale sul quale

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contava di trovare una notizia che gli interessava in modo molto particolare. La marchesa Amalia Venturi Ginori Lisci, moglie separata del marchese Paolo — uno dei più bei nomi di Firenze, ramo collaterale della nobile famiglia delle porcellane di Doccia, imparentato con il re Juan Carlos di Spagna avendo sposato in prime nozze Donna Letizia di Borbone — si alzò a un’ora piuttosto insolita per lei e particolarmente quel giorno, avendo fatto tardi la sera prima a un ricevimento in un nobile palazzo dove abitualmente era ospitata la Regina madre d’Inghilterra.

Al ricevimento era presente anche suo marito accompagnato dalla bella signora sudafricana — bianca — Dawn Adele Loerincz. Come si usa tra gente di mondo i tre avevano conversato insieme, anche se non a lungo, indipendentemente dal fatto che l’elegante boera avrebbe forse preso tra poco anche in maniera ufficiale il posto di Amalia e l’avrebbe quindi privata del titolo di marchesa.

Amalia era nata borghese — si chiamava Borgnino — anche se certo di quella borghesia che viene sempre preceduta dall’aggettivo «alta». Se la relazione del marchese Paolo con la signora Dawn era tollerata da tempo (d’altra parte in spirito di reciprocità), la faccenda negli ultimi tempi si era fatta più pericolosa per Amalia. La sudafricana aveva infatti preso residenza proprio alle Croci di Calenzano, nella splendida villa dei Venturi Ginori Lisci.

Vero è che il marchese Paolo aveva preferito trasferirsi in città, proprio in via Tornabuoni, all’ultimo piano del palazzo che ospita l’esclusivo circolo dell’Unione che lui, grande giocatore di bridge, frequentava assiduamente, ma la circostanza non toglieva niente al fatto che Dawn Adele Loerincz, affettuosamente chiamata Lory, si stesse pericolosamente avvicinando al titolo di marchesa.

Da parte sua Amalia si era trasferita in via Maggio, in un appartamento di Palazzo Ridolfi.

La sera del ricevimento, nel vederli di nuovo insieme, molti loro amici probabilmente pensarono che sembravano fatti veramente uno per l’altra: entrambi molto alti, magri, quasi sottili, dotati di una naturale, flessuosa eleganza nell’incedere. Infatti li avevano soprannominati «canne al vento».

Amalia si vestì rapidamente, senza l’abituale ricercatezza e uscì in via Maggio. Fuori del portone girò a sinistra per arrivare fino al giornalaio, una cinquantina di metri più avanti. Diede un’occhiata alla locandina: la notizia che si aspettava avrebbe meritato l’onore della «civetta», ma stranamente non c’era niente della faccenda che l’interessava. Sfogliò avidamente il giornale prima ancora di tornare a casa: niente.

Forse — pensò — tutto è successo troppo tardi perché i giornali abbiano fatto in tempo a stampare la notizia. Avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo, oppure… certo, la radio.

Corse a casa e si mise in attesa del primo giornale-radio: niente.Fu allora che il telefono squillò di nuovo in casa di Giorgio Puddu. Era «Giovanna»:«Guardi — gli disse piuttosto arrabbiata — che quel suo amico si è preso i soldi e non

solo non ha fatto niente, ma è scomparso».A Puddu sembrò che le sue pur robuste braccia crollassero a terra. Nonostante avesse

avvertito i carabinieri, nonostante, anzi, ne avesse portato uno lui stesso all’appuntamento con «Giovanna», la donna continuava a essere libera e a tramare per commettere il suo delitto. Non solo, ma — a quanto pareva — aveva pagato al carabiniere finto killer un anticipo sul «contratto» e quello era sparito. Puddu decise di andare da un avvocato.

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L’unico a sapere come stavano le cose era il flemmatico marchese Paolo Venturi Ginori Lisci e, forse, anche la signora Dawn Adele Loerincz che proprio quel giorno aveva preferito prendere un aereo per Londra e lasciare Firenze.

Il marchese Paolo sapeva che quando la sera prima aveva conversato con Amalia, questa aveva guardato lui e Dawn come si guardano due persone che non si vedranno più. Sapeva che lei aveva progettato di farli assassinare quella notte del 22 aprile quando avrebbero fatto ritorno alla villa delle Croci di Calenzano.

Il marchese era stato informato dai carabinieri che, dopo l’appuntamento in piazza di Porta Romana del finto killer con «Giovanna» — che ovviamente era Amalia — lo avevano invitato in caserma per importanti comunicazioni. E gli avevano raccontato la storia del «delitto in blu».

Quando Puddu aveva lasciato «Giovanna» e il finto killer accanto al giornalaio di Porta Romana, i due avevano cominciato la contrattazione. Amalia, sempre con parrucca nera, disse che voleva fare uccidere una donna, Dawn Adele Loerincz, e che voleva dare all’uomo che l’accompagnava solo una lezione.

«Dovrebbe darle — spiegò al ‘killer’ — un colpo di martello in fronte». Per essere più chiara, ma anche perché il sicario non si sbagliasse sulle vittime, estrasse dalla borsetta le foto del marchese Paolo e della sudafricana, una bella donna che dimostrava senz’altro meno dei 54 anni dichiarati. Sulla fronte del marito aveva disegnato una crocetta per indicare il punto esatto dove le sarebbe piaciuto che venisse colpito.

Il «killer», che ovviamente non aveva niente da perdere, disse che la faccenda gli sembrava troppo complicata.

«Signora — precisò con voce truce — io sono un assassino serio: o uccido o niente».Forse a malincuore, Amalia sospirò: «E va bene. Uccida tutti e due».Si passò a discutere del compenso e abbastanza brevemente l’accordo fu trovato su

100 milioni, dei quali 44 sarebbero stati versati come anticipo e il resto quando la marchesa avrebbe letto sul giornale la notizia del duplice omicidio.

Amalia diede anche indicazioni di tipo «logistico» sulla maniera migliore di perpetrare il delitto, una piantina sommaria del giardino della villa, il percorso che la coppia avrebbe fatto, i punti migliori dove l’assassino avrebbe potuto nascondersi per tendere l’agguato.

Alla fine — ma questo non si sa se fu un’idea di Amalia o del carabiniere in vena di strafare — fu anche deciso che il delitto avrebbe dovuto essere camuffato come un omicidio del «mostro di Firenze», con tutti i particolari orribili che sarebbe stato necessario aggiungere per rendere credibile la messinscena.

Ovviamente il marchese Paolo e la signora Dawn poterono tornare quella notte indisturbati nella villa di Calenzano. La sudafricana, come si è detto, fu consigliata comunque di lasciare Firenze. Naturalmente i 44 milioni del «contratto» non erano stati intascati dal carabiniere con l’orecchino, come per un certo momento, per quanto stupefatto, Giorgio Puddu aveva sospettato, ma erano stati messi sotto sequestro. La procura della Repubblica era stata informata.

Unica cosa strana, nessuno disturbò la marchesa Amalia per dirle che il suo folle piano era stato scoperto, tanto che lei continuava a darsi da fare come «Giovanna».

Il caso sarebbe rimasto forse a quel punto incerto, se, inopinatamente per i protagonisti, tutta la storia non fosse un bel giorno di giugno uscita in prima pagina della «Nazione», scritta da chi ora ve la racconta e al quale era stata narrata, con aggiunte di

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particolari piccanti, ovviamente in un elegante salotto fiorentino. Non sarebbe bastata una «fonte» del genere a giustificarne la pubblicazione: le ricerche nei vari uffici giudiziari per trovare una traccia che servisse da incontrovertibile riscontro furono tra le più faticose. Sembrava che nessuno avesse mai sentito parlare della vicenda che, pure, era tra le più «appetitose» di quell’anno. Poi, la solita «gola profonda»…

Con la pubblicazione del «delitto in blu», comunque, non poteva dirsi conclusa la storia. Mancavano due elementi che servivano a chiarirla: il movente; e — soprattutto — chi, seppur sbagliandosi, aveva indirizzato Amalia da Puddu credendo di indicarle un killer? E a quale scopo?

Per quanto riguarda il movente lo abbiamo già accennato: probabilmente la paura di Amalia di perdere il titolo di marchesa. Tra lei e il marchese Paolo era già stata dichiarata la separazione legale, ma fino a quel momento «con addebito — aveva sentenziato il giudice — di responsabilità a entrambi».

Amalia, presentando anche una lettera al magistrato, era riuscita a dimostrare la relazione del marito con la signora sudafricana, lettera che — fu scritto nel processo — provava l’esistenza di una relazione amorosa tra il marchese e la signora ad abundantiam.

Senonché il marchese Paolo era a sua volta entrato in possesso di una corrispondenza tra la moglie e il conte P.M. che, altrettanto inequivocabilmente, attestava una relazione intima tra i due. Senza contare i soggiorni londinesi del marchese con la signora Dawn o quelli a Capri di Amalia con il conte.

Pur separata, però, Amalia restava marchesa. Fino a quell’inizio del 1986 quando le cose per lei cominciarono a precipitare a tutto favore della rivale.

Dawn si era installata nella villa di Calenzano, fissandovi domicilio legale. Avrebbe presto preso anche il ruolo di sposa con annessa coroncina di marchesa sul biglietto da visita?

Perché ciò accadesse era necessario il divorzio, che, naturalmente, Amalia non avrebbe concesso e che il marchese Paolo, dati i reciproci torti, non poteva raggiungere troppo rapidamente. Sembra, ora, che Dawn, la quale avrebbe ardentemente aspirato al titolo, avesse sapientemente ordito la trama di un intrigo degno di una corte rinascimentale — se ai tempi del Magnifico fossero esistite le Polaroid — a quanto pare con il concreto aiuto dello stesso marchese.

Amalia, che della fatale sudafricana era stata una delle migliori amiche, sarebbe caduta nella trappola, il cui funzionamento eleganza e codice vogliono che non sia descritto pubblicamente, ma che sarebbe consistito in una serie di istantanee utili per accelerare la causa del divorzio a tutto vantaggio del marchese. Le panoramiche prese con la Polaroid finirono infatti nel fascicolo presentato al giudice che si occupava della causa di separazione.

Amalia, che pure avrebbe perdonato il gravissimo tradimento del sentimento dell’amicizia e anche di quello coniugale, non avrebbe mai potuto lasciare senza adeguata risposta quell’autentico attentato al suo titolo di marchesa. Per questo l’odio della marchesa era concentrato su Dawn e non sul marito al quale, come si ricorda, le sarebbe bastato che il killer impartisse una lezione. Di gelosia come movente, neanche a parlarne.

Se il movente del «delitto in blu» sembra essere stato chiarito, resta l’altro

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interrogativo: chi consigliò Amalia di rivolgersi a Giorgio Puddu indicandolo come un killer? E per quale motivo? In altre parole, Amalia ebbe un complice, un personaggio che restò dietro le quinte e che aveva calcolato di trarre benefici da quell’omicidio se fosse stato davvero commesso? E quali benefici?

L’esistenza di questo «Rasputin da salotto fiorentino» non può essere messa in dubbio: la marchesa Amalia non conosceva Giorgio Puddu ed è impensabile che una sera abbia preso il telefono e lo abbia chiamato convinta di mettersi in contatto con un killer professionista se qualcuno non le avesse dato l’indicazione. Certo l’indicazione era sbagliata, ma per qualche ragione ignota — probabilmente un errore di persona dettato da una somma fortuita di circostanze — il «Rasputin» credette di dare ad Amalia l’indirizzo giusto.

C’era quindi un’altra persona che sapeva che il marchese Paolo Venturi Ginori Lisci e Dawn Adele Loerincz dovevano essere assassinati mentre rientravano nella villa di Calenzano. Il nome di questa persona non è mai stato rivelato.

Si può anche facilmente intuire quale interesse avesse coltivato il «Rasputin». Spingendo Amalia nel terreno del delitto e non compiendo lui alcun atto che potesse in qualsiasi maniera coinvolgerlo nell’omicidio, egli, ad assassinio avvenuto, avrebbe avuto la marchesa in suo totale dominio. Lui solo avrebbe saputo che Amalia era la mandante del duplice omicidio e avrebbe potuto ricattarla per il resto dei suoi giorni.

Fu mai identificato il «Rasputin»?Probabilmente sì.«Lei mi costringe a nascondermi dietro il segreto istruttorio» mi rispose il procuratore

della Repubblica Raffaello Cantagalli quando glielo chiesi. E, come si è visto, in questa storia piena di personaggi eccellenti, la magistratura non si è mai dimostrata particolarmente desiderosa di parlare.

Amalia non subì alcun processo. Il suo comportamento non fu giudicato tale da costituire il reato di tentato omicidio, ma fu considerato il «classico caso di reato impossibile» contemplato dall’articolo 115 del codice penale. La norma dice che «qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo reato non sia poi commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo».

«La marchesa Amalia — spiegò lo stesso procuratore Cantagalli — ha pensato di istigare qualcuno a commettere un delitto, ma niente fu messo in atto perché una persona venisse ammazzata».

E i 44 milioni versati a un killer, certo finto, ma che lei credeva che fosse autentico?«Il versamento dei milioni rientra in uno di quei preparativi che non costituiscono

ancora il tentativo di delitto».Amalia fu sottoposta a misura di sicurezza, come persona socialmente pericolosa: ogni

sera doveva presentarsi ai carabinieri e mettere la sua lunga firma sull’apposito registro. Al termine dell’istruttoria fu diffidata dal risiedere a Firenze e dal farvi ritorno per la durata di due anni.

Più grave, per l’ambiente che Amalia amava frequentare e che pur di non lasciare l’aveva spinta al delitto, fu la sentenza senza appello che in quei giorni pronunciò una nobildonna, proprietaria di uno dei più bei palazzi di Firenze nei cui saloni spesso avevano ondeggiato le due «canne al vento».

«Nelle nostre famiglie — sentenziò — non sono mai mancati fior di cretini e fior di

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assassini. Però uccidevano davvero. Che cosa vuole? Amalia nasce borghese».

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Indice

Da codice a codic e , di Piero Luigi Vigna Il caso Piram-BelliDon CaloniIl delitto MelacarneSuor DomitillaIl caso LavoriniL’omicidio dell’ArchettoL’affare StortoniIl maniaco delle coppieLa marchesa Amalia

Finito di stamparenel mese di ottobre 1989

da “La Nova Zincografica Fiorentina”con i caratteri della Fotocomposizione Ciesse

Firenze