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storia & ricerca 4 sabato, 5 luglio 2014 l a V oce del popolo CONTRIBUTI di Daria Deghenghi BEN 60MILA PERSONE PROVENIENTI DALLA NOSTRA REGIONE FURONO INTERNATE NEL 1914-1918 AL CONFINE TRA AUSTRIA E BOEMIA D urante l’estate 1914, l’Austria- Ungheria rischiava il collasso sul fronte galiziano, motivo per cui in agosto e in settembre di quell’anno, 400.000 civili della regione vennero internati nelle aree interne della monarchia. Verso la fine dell’anno, a un chilometro e mezzo dalla città di Gmünd sul confine con la Boemia, inizia la costruzione di un lager per gli sfollati di guerra. Perché Gmünd? Povera di infrastrutture, la località era semplicemente insignificante in termini culturali, abbastanza lontana da Vienna e sufficientemente vicina alla ferrovia, ideale per sistemarci un pur sempre squallido complesso di baracche con minimo investimento di uomini e mezzi. Le baracche erano di legno, lunghe 40 metri e larghe dai 10 ai 12 metri, al loro interno c’era posto per 250 internati che disponevano ciascuno di una branda in legno per il riposo. Dal febbraio 2015 in avanti venne edificata un’”unità di sistemazione” per settimana, e per “unità” s’intende 8 baracche “abitative” della superficie di 440 mq ed una da 550 mq adibita a cucina, sufficienti per dare un tetto e sfamare 2.000 sfollati, benché, chiaramente senza agi di sorta. Fino alla dichiarazione di guerra da parte italiana, nel lager di Gmünd finirono 28.700 sfollati, tra cui 6.000 croati e sloveni istriani, goriziani e dalmati. Entro la primavera vi vennero internati 26.000 ucraini e 10.000 croati e sloveni, senza contare i croati che vennero evacuati tre mesi doppio dall’Ungheria. La vicenda narrata in un interessante opuscolo Come s’inserisce in questo ampio quadro storico l’Istria e la sua popolazione? A spiegarlo è Andrej Bader in un interessante opuscolo dal titolo “Barackenlager Gmünd”, edito dal Comune di Medolino con il supporto della Regione e dei comuni della Bassa Istria che quest’anno ricordano il centenario delle deportazioni nell’Austria settentrionale, Boemia e Ungheria del 1915-18. La pubblicazione s’inserisce nel quadro più ampio delle celebrazioni in ricordo della Prima guerra mondiale che la Regione Istria continuerà a ricordare fino al 2018, celebrazioni inaugurate con la commemorazione e lo scoprimento della lapide alla memoria degli internati di Gmünd il 18 maggio scorso. L ’iniziativa è di fondamentale importanza perché chiarisce un evento poco noto e per niente considerato della storia istriana. Nel suo elegante volumetto (il progetto grafico è di Mario Rosanda), diffuso in 700 copie, Bader ribadisce che furono ben 60.000 gli istriani che nella guerra del 1914-1918 subirono un internamento coatto nell’Austria settentrionale, Boemia ed Ungheria. La gran parte era residente della Bassa Istria: 27.000 solo i polesi, seguiti da rovignesi e poi nuovamente da popolazione in prevalenza rurale dell’agro polese. Di quei sessantamila, 15.000 partirono per Gmünd e un terzo non fece mai ritorno al luogo d’origine. Bader chiarisce subito che lo sfollamento del 1915 non venne ordinato solo per ovvie ragioni di sicurezza, quanto piuttosto per “isolare civili di nazionalità italiana ritenuti elementi non fedeli all’Impero” e per la poco nobile esigenza di possesso delle abitazioni e del bestiame da parte dell’esercito imperiale. Del resto, se così non fosse stato, agli internati sarebbero stato permesso il rientro una volta sventato il pericolo bellico, cosa che invece non avvenne. Evacuazione di Pola e della Bassa Istria Nella notte a cavallo tra il 17 e il 18 maggio 1915 venne emanato il bando di evacuazione per Pola e l’anello polese. Una delegazione imperiale fu inviata in città per illustrare le condizioni dei trasferimenti. Il provvedimento riguardava in primo luogo tutti i funzionari e i dipendenti pubblici, gli operai dell’arsenale, le maestranze dell’acquedotto e del resto dei servizi distrettuali con famiglie al seguito. Potevano invece restarsene a casa loro “le famiglie con figli in età superiore ai sette anni e con “rifornimenti di cibo e di averi sufficienti al mantenimento della famiglia per almeno un anno”. Che la sicurezza non fosse l’unica ispirazione di quell’esodo, ma ci furono anche attente valutazioni di ordine demografico e politico, lo prova inequivocabilmente il caso di Peroi, località che all’epoca contava appena 305 abitanti. Ebbene dopo l’evacuazione ne rimasero soltanto cinque, perché evidentemente la piccola comunità montenegrina del Polese venne cacciata di casa perché il Paese d’origine era in guerra con l’Impero. Ad ogni modo, al Polese seguirono le deportazioni da Rovigno, Canfanaro, Barbana, Valle, Carnizza e località limitrofe. Il numero degli sfollati istriani raggiunse quota 60.000. In ottomila al giorno partivano dalla stazione dei treni di Pola. Composizioni di treni merce da 35 vagoni per il trasporto di bestiame, recanti l’insegna “per 6 cavalli o 40 uomini”, partivano da Pola 8 volte in 24 ore, diretti al campo di internamento di Wagna, dove gli sfollati, all’arrivo, erano immediatamente suddivisi per nazionalità: a destra le baracche per soli italiani e “cittadini sospetti”, a sinistra quelle per soli slavi. Da lì il percorso prendeva due diramazioni, Boemia e Ungheria. La dura vita nelle baracche E va detto che il procedimento di evacuazione e internamento fu sconsiderato, impreparato quando non disumano: intere famiglie ne uscirono divise, molte non si ricomposero che dopo diversi mesi, altre mai. I campi di internamento austriaci per gli istriani erano cinque: Wagna (Leibnitz), Gmünd, Steinklamm presso Rabenstein, Pottendorf- Landegg e Brunhoff. Ce n’erano altri, ben inteso, in tutto l’Impero: Katzenau (Linz) per prigionieri di guerra e civili italiani, Wolfsberg per soli civili italiani, uno ancora a Bruck na LITAVI? venne inizialmente edificato per l’internamento degli ebrei ma finirono dentro “slavi più benestanti”. A Mitterdorf vennero sistemati 10.000 italiani, mentre a Mistelbach trovarono accoglienza italiani ricchi. Inutile dire che anche i campi di internamento hanno i loro ceti sociali: c’era la baracca per i ricchi come c’era quella per i disgraziati. Solo la morte, se non la guerra, poteva cancellare il segno distintivo impresso dal censo. Tornando a Gmünd, il Barackenlager (che già nell’agosto del 1915 contava 53.000 sfollati) venne dotato di un’ampia chiesa ortodossa, capace a ricevere 3.000 fedeli. Vicino alla chiesa c’era una scuola, frequentata da 1.600 bambini e 917 adulti analfabeti. Fatto curioso, nel lager nacque immediatamente anche un teatro, alcune baracche “di lusso” per sfollati benestanti e un ospedale con stanze per degenti, ambulatori, sale per la disinfezione, una sala infermiere, spazi per non vedenti, un orfanotrofio, l’infermeria, la farmacia e l’obitorio. Il lager era stato allacciato all’acquedotto comunale di Gmünd ed era stato dotato di corrente elettrica, nelle baracche c’erano stufe a legna per il riscaldamento, paglia e carta per l’isolamento termico ridotto all’osso. Nessun eccesso o agi di sorta, e tuttavia il lager era una “città in miniatura”, per quanto il paragone possa sembrare azzardato. Per ogni 8 baracche o 2.000 sfollati, vi era una cucina per la distribuzione dei pasti, tre al giorno. Dovevano essere questi: caffè con zucchero a colazione, a pranzo brodo di verdura, a cena brodo con gnocchi di carne. Questo, almeno, voleva il “menu” ufficiale del campo. In realtà nessuno degli internati ha mai visto un pezzettino di carne nel piatto benché il lager fosse dotato di impianti di macellazione, stagionatura delle carni e di produzione di insaccati! Lo sciacallaggio era all’ordine del giorno a Gmünd come ovunque ci siano un eccesso di autorità e una carenza di libertà ed uguaglianza: la carne usciva dal lager a bordo delle carrozze del medico-dirigente e prendeva la via del commercio in nero. Agli internati venivano servite solo zuppe di cavoli e patate. E sapevano di sapone! “Era acqua al sapore del sapone”... La malattia e la morte incalzanti non furono che la conseguenza delle condizioni di vita nel campo: freddo, malnutrizione, carenze igieniche (mancanza di acqua e assenza di fognatura) nonché impossibilità per un ospedale di campo di curare quella quantità di gente in costante aumento. Alto tasso di mortalità Dall’ottobre 1915 morivano tra le 30 e le 60 persone al giorno, in novembre la media salì di colpo a 90 per l’epidemia di tifo. In una notte, il picco: 135 deceduti. Le cause: tifo, scorbuto, vaiolo, rubeola, difterite, tubercolosi, bronchite, scarlattina, setticemia, colera, meningite e più spesso ancora la “pneumonia”, conclusione che in realtà riguardava tutti i casi senza una vera diagnosi. Ed erano tantissimi. Anche quando non c’era la morte a recare sollievo, ci si ammalava e si rimaneva invalidi per sempre. Un’epidemia di tracoma (malattia infettiva dell’occhio) provocò la cecità di decine di internati. Soltanto nell’ultimo trimestre del 1915 nel lager lasciarono la pelle 2.221 istriani croati. Si calcola che non ce la fecero in 5.000. E non c’era rivolta che potesse frenare la moria, benché il 1º gennaio 1916 le autorità destituirono il responsabile del lager, il barone Augustin Czapka. Vero è che non mancarono esempi di grande umanitarismo e impeccabile condotta morale tra il personale medico e infermieristico del lager, ma resta inoppugnabile che Gmünd è stata la più grande fossa comune di civili nella Prima guerra mondiale. La storiografia austriaca è ancora lì a dibattere sul numero dei morti. Generalmente si parla di 30.000, o anche 40.000 deceduti, di cui probabilmente 5.000 gli istriani. Per il rientro degli internati “di città” era stato stabilito il termine di settembre del 1918 e ciò nonostante ad agosto non erano ancora state autorizzate 15.000 partenze per “ragioni militari”. Probabilmente si trattò di “popolazione italiana ed elementi ostili”. La dichiarazione di pace tra il Regno d’Italia e la Monarchia austro-ungarica segna il rientro definitivo degli evacuati. La stampa italiana riportò che il 22 e il 23 novembre 1918 raggiunsero Pola due treni con a bordo sfollati da Wagna e da Graz. Altri erano in arrivo nei giorni a seguire. ISTRIANI NEL LAGER DI GMÜND

Deportazione istriani lager gmund

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storia&ricerca4 sabato, 5 luglio 2014 la Vocedel popolo

CONTRIBUTI di Daria Deghenghi

BEN 60MILA PERSONE PROVENIENTI DALLA NOSTRA REGIONE FURONO INTERNATE NEL 1914-1918 AL CONFINE TRA AUSTRIA E BOEMIA

Durante l’estate 1914, l’Austria-Ungheria rischiava il collasso sul fronte galiziano, motivo per cui

in agosto e in settembre di quell’anno, 400.000 civili della regione vennero internati nelle aree interne della monarchia. Verso la fine dell’anno, a un chilometro e mezzo dalla città di Gmünd sul confine con la Boemia, inizia la costruzione di un lager per gli sfollati di guerra. Perché Gmünd? Povera di infrastrutture, la località era semplicemente insignificante in termini culturali, abbastanza lontana da Vienna e sufficientemente vicina alla ferrovia, ideale per sistemarci un pur sempre squallido complesso di baracche con minimo investimento di uomini e mezzi. Le baracche erano di legno, lunghe 40 metri e larghe dai 10 ai 12 metri, al loro interno c’era posto per 250 internati che disponevano ciascuno di una branda in legno per il riposo. Dal febbraio 2015 in avanti venne edificata un’”unità di sistemazione” per settimana, e per “unità” s’intende 8 baracche “abitative” della superficie di 440 mq ed una da 550 mq adibita a cucina, sufficienti per dare un tetto e sfamare 2.000 sfollati, benché, chiaramente senza agi di sorta. Fino alla dichiarazione di guerra da parte italiana, nel lager di Gmünd finirono 28.700 sfollati, tra cui 6.000 croati e sloveni istriani, goriziani e dalmati. Entro la primavera vi vennero internati 26.000 ucraini e 10.000 croati e sloveni, senza contare i croati che vennero evacuati tre mesi doppio dall’Ungheria.

La vicenda narrata in un interessante opuscoloCome s’inserisce in questo ampio quadro storico l’Istria e la sua popolazione? A spiegarlo è Andrej Bader in un interessante opuscolo dal titolo “Barackenlager Gmünd”, edito dal Comune di Medolino con il supporto della Regione e dei comuni della Bassa Istria che quest’anno ricordano il centenario delle deportazioni nell’Austria settentrionale, Boemia e Ungheria del 1915-18. La pubblicazione s’inserisce nel quadro più ampio delle celebrazioni in ricordo della Prima guerra mondiale che la Regione Istria continuerà a ricordare fino al 2018, celebrazioni inaugurate con la commemorazione e lo scoprimento della lapide alla memoria degli internati di Gmünd il 18 maggio scorso.L’iniziativa è di fondamentale importanza perché chiarisce un evento poco noto e per niente considerato della storia istriana. Nel suo elegante volumetto (il progetto grafico è di Mario Rosanda), diffuso in 700 copie, Bader ribadisce che furono

ben 60.000 gli istriani che nella guerra del 1914-1918 subirono un internamento coatto nell’Austria settentrionale, Boemia ed Ungheria. La gran parte era residente della Bassa Istria: 27.000 solo i polesi, seguiti da rovignesi e poi nuovamente da popolazione in prevalenza rurale dell’agro polese. Di quei sessantamila, 15.000 partirono per Gmünd e un terzo non fece mai ritorno al luogo d’origine. Bader chiarisce subito che lo sfollamento del 1915 non venne ordinato solo per ovvie ragioni di sicurezza, quanto piuttosto per “isolare civili di nazionalità italiana ritenuti elementi non fedeli all’Impero” e per la poco nobile esigenza di possesso delle abitazioni e del bestiame da parte dell’esercito imperiale. Del resto, se così non fosse stato, agli internati sarebbero stato permesso il rientro una volta sventato il pericolo bellico, cosa che invece non avvenne.

Evacuazione di Pola e della Bassa IstriaNella notte a cavallo tra il 17 e il 18 maggio 1915 venne emanato il bando di evacuazione per Pola e l’anello polese. Una delegazione imperiale fu inviata in città per illustrare le condizioni dei trasferimenti. Il provvedimento riguardava in primo luogo tutti i funzionari e i dipendenti pubblici, gli operai dell’arsenale, le maestranze dell’acquedotto e del resto dei servizi distrettuali con famiglie al seguito. Potevano invece restarsene a casa loro “le famiglie con figli in età superiore ai sette anni e con “rifornimenti di cibo e di averi sufficienti al mantenimento della famiglia per almeno un anno”. Che la sicurezza non fosse l’unica ispirazione di quell’esodo, ma ci furono anche attente valutazioni di ordine demografico e politico, lo prova inequivocabilmente il caso di Peroi, località che all’epoca contava appena 305 abitanti. Ebbene dopo l’evacuazione ne rimasero soltanto cinque, perché evidentemente la piccola comunità montenegrina del Polese venne cacciata di casa perché il Paese d’origine era in guerra con l’Impero. Ad ogni modo, al Polese seguirono le deportazioni da Rovigno, Canfanaro, Barbana, Valle, Carnizza e località limitrofe. Il numero degli sfollati istriani raggiunse quota 60.000. In ottomila al giorno partivano dalla stazione dei treni di Pola. Composizioni di treni merce da 35 vagoni per il trasporto di bestiame, recanti l’insegna “per 6 cavalli o 40 uomini”, partivano da Pola 8 volte in 24 ore, diretti al campo di internamento di Wagna, dove gli sfollati, all’arrivo, erano immediatamente suddivisi per nazionalità: a destra le baracche per soli italiani e “cittadini sospetti”, a sinistra quelle

per soli slavi. Da lì il percorso prendeva due diramazioni, Boemia e Ungheria.

La dura vita nelle baraccheE va detto che il procedimento di evacuazione e internamento fu sconsiderato, impreparato quando non disumano: intere famiglie ne uscirono divise, molte non si ricomposero che dopo diversi mesi, altre mai. I campi di internamento austriaci per gli istriani erano cinque: Wagna (Leibnitz), Gmünd, Steinklamm presso Rabenstein, Pottendorf-Landegg e Brunhoff. Ce n’erano altri, ben inteso, in tutto l’Impero: Katzenau (Linz) per prigionieri di guerra e civili italiani, Wolfsberg per soli civili italiani, uno ancora a Bruck na LITAVI? venne inizialmente edificato per l’internamento degli ebrei ma finirono dentro “slavi più benestanti”. A Mitterdorf vennero sistemati 10.000 italiani, mentre a Mistelbach trovarono accoglienza italiani ricchi. Inutile dire che anche i campi di internamento hanno i loro ceti sociali: c’era la baracca per i ricchi come c’era quella per i disgraziati. Solo la morte, se non la guerra, poteva cancellare il segno distintivo impresso dal censo.Tornando a Gmünd, il Barackenlager (che già nell’agosto del 1915 contava 53.000 sfollati) venne dotato di un’ampia chiesa ortodossa, capace a ricevere 3.000 fedeli. Vicino alla chiesa c’era una scuola, frequentata da 1.600 bambini e 917 adulti analfabeti. Fatto curioso, nel lager nacque immediatamente anche un teatro, alcune baracche “di lusso” per sfollati benestanti e un ospedale con stanze per degenti, ambulatori, sale per la disinfezione, una sala infermiere, spazi per non vedenti, un orfanotrofio, l’infermeria, la farmacia e l’obitorio. Il lager era stato allacciato all’acquedotto comunale di Gmünd ed era stato dotato di corrente elettrica, nelle baracche c’erano stufe a legna per il riscaldamento, paglia e carta per l’isolamento termico ridotto all’osso. Nessun eccesso o agi di sorta, e tuttavia il lager era una “città in miniatura”, per quanto il paragone possa sembrare azzardato. Per ogni 8 baracche o 2.000 sfollati, vi era una cucina per la distribuzione dei pasti, tre al giorno. Dovevano essere questi: caffè con zucchero a colazione, a pranzo brodo di verdura, a cena brodo con gnocchi di carne. Questo, almeno, voleva il “menu” ufficiale del campo. In realtà nessuno degli internati ha mai visto un pezzettino di carne nel piatto benché il lager fosse dotato di impianti di macellazione, stagionatura delle carni e di produzione di insaccati!Lo sciacallaggio era all’ordine del giorno a

Gmünd come ovunque ci siano un eccesso di autorità e una carenza di libertà ed uguaglianza: la carne usciva dal lager a bordo delle carrozze del medico-dirigente e prendeva la via del commercio in nero. Agli internati venivano servite solo zuppe di cavoli e patate. E sapevano di sapone! “Era acqua al sapore del sapone”... La malattia e la morte incalzanti non furono che la conseguenza delle condizioni di vita nel campo: freddo, malnutrizione, carenze igieniche (mancanza di acqua e assenza di fognatura) nonché impossibilità per un ospedale di campo di curare quella quantità di gente in costante aumento.

Alto tasso di mortalitàDall’ottobre 1915 morivano tra le 30 e le 60 persone al giorno, in novembre la media salì di colpo a 90 per l’epidemia di tifo. In una notte, il picco: 135 deceduti. Le cause: tifo, scorbuto, vaiolo, rubeola, difterite, tubercolosi, bronchite, scarlattina, setticemia, colera, meningite e più spesso ancora la “pneumonia”, conclusione che in realtà riguardava tutti i casi senza una vera diagnosi. Ed erano tantissimi. Anche quando non c’era la morte a recare sollievo, ci si ammalava e si rimaneva invalidi per sempre. Un’epidemia di tracoma (malattia infettiva dell’occhio) provocò la cecità di decine di internati. Soltanto nell’ultimo trimestre del 1915 nel lager lasciarono la pelle 2.221 istriani croati. Si calcola che non ce la fecero in 5.000. E non c’era rivolta che potesse frenare la moria, benché il 1º gennaio 1916 le autorità destituirono il responsabile del lager, il barone Augustin Czapka.Vero è che non mancarono esempi di grande umanitarismo e impeccabile condotta morale tra il personale medico e infermieristico del lager, ma resta inoppugnabile che Gmünd è stata la più grande fossa comune di civili nella Prima guerra mondiale. La storiografia austriaca è ancora lì a dibattere sul numero dei morti. Generalmente si parla di 30.000, o anche 40.000 deceduti, di cui probabilmente 5.000 gli istriani. Per il rientro degli internati “di città” era stato stabilito il termine di settembre del 1918 e ciò nonostante ad agosto non erano ancora state autorizzate 15.000 partenze per “ragioni militari”. Probabilmente si trattò di “popolazione italiana ed elementi ostili”. La dichiarazione di pace tra il Regno d’Italia e la Monarchia austro-ungarica segna il rientro definitivo degli evacuati. La stampa italiana riportò che il 22 e il 23 novembre 1918 raggiunsero Pola due treni con a bordo sfollati da Wagna e da Graz. Altri erano in arrivo nei giorni a seguire.

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