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14 Nell’orrore quotidiano del lager di Flossenbürg di Ferruccio Belli Il prossimo 24 novembre ricorrerà il primo anni- versario della scomparsa di Ferruccio Belli, che è stato Presidente della sezione pavese dell’Aned fin dalla sua istituzione. “Triangolo Rosso” ha già ricordato la sua figura nel n.1 del gennaio 2002. Ora desideriamo rinnovare il suo ricordo, pub- blicando un suo scritto, finora inedito, sul campo di Flossenbürg. A Flossenbürg Belli arrivò la mat- tina del 7 settembre ‘44, con il convoglio di circa 500 deportati italiani, partito due giorni prima dal campo di Bolzano. Era stato arrestato dalla G.N.R. l’8 gennaio ‘44, con altri quattro componenti del primo C.L.N. della città di Pavia, nel quale egli rappresentava il P.C.I. Denunciato al “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, era stato trasferito dalle Carceri di Pavia a quelle di “San Vittore” a Milano nel lu- glio del ‘44 e di lì il 17 agosto condotto a Bolzano e quindi a Flossenbürg. Da Flossenbürg dopo il periodo di quarantena, fu destinato in ottobre al campo di Dachau e asse- gnato ai lavori forzati nel “kommando” di Kottern (Kempton), dove riuscì a resistere fino alla fine della guerra. Testimonianza di Ferruccio Belli, matricola 21648 Le storie della deportazione All’ingresso del campo una stele ricorda l’impres- sionante “grafico” dei deportati e della loro nazionalità d’origine, dal 1936 al 1945. Sulla stele è scritto che gli italiani furono 3413: in realtà per gli accertamenti successivi essi risultarono tragicamente di più. Nella foto della pagina accanto una veduta del campo alla Liberazione.

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Nell’orrore quotidiano del lager di Flossenbürg

di Ferruccio Belli

Il prossimo 24 novembre ricorrerà il primo anni-versario della scomparsa di Ferruccio Belli, che èstato Presidente della sezione pavese dell’Anedfin dalla sua istituzione.“Triangolo Rosso” ha già ricordato la sua figuranel n.1 del gennaio 2002.

Ora desideriamo rinnovare il suo ricordo, pub-blicando un suo scritto, finora inedito, sul campodi Flossenbürg. A Flossenbürg Belli arrivò la mat-tina del 7 settembre ‘44, con il convoglio di circa500 deportati italiani, partito due giorni primadal campo di Bolzano.

Era stato arrestato dalla G.N.R. l’8 gennaio ‘44,con altri quattro componenti del primo C.L.N.della città di Pavia, nel quale egli rappresentavail P.C.I.

Denunciato al “Tribunale speciale per la difesadello Stato”, era stato trasferito dalle Carceri diPavia a quelle di “San Vittore” a Milano nel lu-glio del ‘44 e di lì il 17 agosto condotto a Bolzanoe quindi a Flossenbürg.

Da Flossenbürg dopo il periodo di quarantena, fudestinato in ottobre al campo di Dachau e asse-gnato ai lavori forzati nel “kommando” di Kottern(Kempton), dove riuscì a resistere fino alla finedella guerra.

Testimonianza di Ferruccio Belli, matricola 21648

Le storiedella

deportazione

All’ingressodel campouna stelericordal’impres-sionante“grafico”dei deportatie della loronazionalitàd’origine,dal 1936 al 1945. Sulla stele è scritto che gliitalianifurono 3413:in realtà per gliaccertamentisuccessiviessirisultaronotragicamentedi più. Nella fotodella paginaaccanto una vedutadel campoallaLiberazione.

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L’impatto con il lager.La depilazione e la disinfestazione.La doccia e la vestizioneArrivati che fummo al cam-po venimmo disposti in fi-la per dieci in un grandepiazzale.Lì ci venne ordinato di de-nudarci completamente to-gliendoci di dosso tutti glioggetti personali, orologi,fedi, catenine, soldi, porta-monete, stilografiche ecc.;mentre a ognuno di noi ven-ne distribuito un sacco permetterci dentro soltanto ivestiti e le scarpe.Ricordo, vicino a me, PadreGian Antonio Agosti, un fra-te cappuccino con una granlunga barba bianca, esitavaa togliersi le lunghe mu-tande che portava sotto ilsaio: intervenne allora l’uf-ficiale delle SS (quello stes-so che ci aveva accolto a pe-date all’arrivo) che, urlan-do a squarciagola “cap-puc-ci-no”, “cap-puc-ci-no”, glistrappò di dosso le mutan-de e lo buttò a terra a calcinel sedere.Faceva parecchio freddo.Eravamo già nel mese di set-

tembre e Flossenbürg si tro-va a nord di Norimberga sudi una collina. Fummo fat-ti sfilare nudi davanti a un ta-volo e qui le SS ritiraronoin alcuni contenitori tuttoquello che possedevamo.Poi tra urla e imprecazionidelle SS e dei “Kapo” civenne dato l’ordine, benin-teso in lingua tedesca, quin-di a noi incomprensibile, dirimetterci in fila per dieci ,in posizione di attenti. Fuallora che alcuni “Kapo”muniti di macchinette, chedi solito servono per tosa-re i cavalli, diedero inizioalla nostra depilazione, dal-la testa ai piedi. Questa ope-razione veniva effettuata –tra le risa isteriche delle SSche assistevano alla scena– così maldestramente chele parti più delicate del cor-po subivano dolorose lace-razioni con fuoriuscita disangue. Subito dopo la de-pilazione altri “Kapo” mu-niti di bastoni avvolti nelcotone, a mo’ di pennelli, e

con secchi contenenti li-quidi biancastri iniziaronola disinfezione del nostrocorpo.All’ordine, impartitoci, dialzare le braccia essi entra-rono in azione e inzuppan-do di disinfettante il coto-ne ci pennellarono da sottole ascelle ai piedi passandoripetutamente sugli organigenitali. Il bruciore prodottonelle parti poco prima sot-toposte alla depilazione eratale che in alcuni punti piùdelicati la pelle si staccavadal corpo.Successivamente venimmo“visitati” da alcuni addettial campo che indossavanocamici bianchi. Essi, dopoaver annotato cognome, no-me e nazionalità di ciascu-no di noi, diedero inizio adun’ispezione minuziosa ditutte le parti del nostro cor-po, non trascurando la boc-ca onde individuare ed in-ventariare protesi e coroned’oro ai denti.Un “Kapo”, al seguito diquesti presunti medici, a unloro segnale ci dipinse sul-la fronte uno dei numeri dauno a tre. Evidentemente sitrattava di una prima sceltaper l’invio ai campi di la-voro forzato.Dopo averci fatto percorre-

re nel campo un tratto di cir-ca 500 metri a passo di cor-sa, sempre completamentenudi, ci fecero infilare unsottopassaggio, ove, in unvasto locale, depositammoil sacco con i vestiti e lescarpe.Venimmo poi introdotti nellocale delle docce. Eravamoin 500, circa, pigiati gli unicontro gli altri in uno spazionon sufficiente a contener-ci. Aperte che furono le doc-ce, data la calca sotto i get-ti, feci appena in tempo asentire, ma solo con la te-sta e le spalle, che l’acquaera abbastanza calda.Dopo una decina di minutile docce vennero chiuse edalla porta di accesso si fe-ce avanti un criminale na-zista che impugnava unalunga lancia da pompiere.Alla sua comparsa i “Kapo”spalancarono tutte le fine-stre: allora egli si mise ascaricare su di noi dei po-tenti getti di acqua gelida,come se per lui si trattassedi spegnere un grosso in-cendio. La scena che ne se-guì fu terrificante. I piùesposti al getto d’acqua cer-cavano riparo in fondo allocale a forza di spintoni.Senonché la resistenza op-posta da quelli che si tro-

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vavano in una posizione migliore, sia per il pa-vimento reso scivoloso, sia per la vigorosaspinta inferta dal getto d’acqua, faceva sì chei più deboli, i vecchi e i ragazzi, finissero aterra malamente calpestati. In noi era ormaisubentrato il terrore; impossibile mantenerela calma in quell’infernale baraonda; chischiacciato contro il muro, chi a terra dolo-rante, tra imprecazioni ed urla, tutti in predaa uno sgomento indescrivibile ci si doman-dava quando sarebbe finito quel tormento.Finalmente il getto d’acqua gelida venne acessare e coloro che come me erano uscitiquasi indenni dall’infame bravata si prodi-garono a soccorrere quelli conciati malamente.Da più di un’ora nudi, bagnati e intirizziti, fi-nalmente apprendemmo che in un locale at-tiguo avremmo trovato di che vestirci, con ifamosi vestiti a strisce.Uno alla volta, di corsa, avremmo dovutouscire da una porta laterale e in tutta frettasceglierci un copricapo, una camicia, unpaio di mutande e un paio di pantaloni e unagiacca. La vestizione si svolse invece intutt’altra maniera: entrò infatti in scena unlosco figuro, armato di un lungo tubo digomma; lo soprannominammo “el matador”.(Venimmo poi a sapere che si trattava di uncriminale tedesco condannato per un gravedelitto.) Questi si era appostato vicino alla porta e conil tubo di gomma assestava poderosi colpisulle nostre teste pelate e sulle nostre spallementre noi raccoglievamo quello che riusci-vamo a raccogliere da un mucchio di stracciaccatastati in mezzo al locale. Sempre cor-rendo, stringendoci sottobraccio quelle par-venze di vestiario, venimmo portati in un’al-tra baracca ove ci furono distribuiti gli zoc-coli. Se la nostra situazione non fosse stata co-sì tragica la vestizione di cui siamo stati at-tori e spettatori avrebbe destato un’inarre-stabile ilarità, tanto ridicoli apparivamo; ipiccoli di statura infagottati in giacche lun-ghe e larghe; quelli di costituzione più ro-busta con stracci che li facevano sembraredegli spaventapasseri, tanto erano strimin-ziti e insufficienti.Da quel momento in poi nessuno era più Tizioo Caio, era solo un numero, che ci venne as-segnato nei giorni successivi. Così ebbe ini-zio il nostro periodo di “quarantena” nel BlockN. 22 del campo di sterminio di Flossenbürg.

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La pianta del campo e - sotto - la impressionante veduta della lunga fila di baracche dominata dalla torre di guardia ricavata dal castello.

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Fummo sistemati in un ri-stretto settore del campo re-cintato da una doppia cin-tura di filo spinato – inter-namente percorso dalla cor-rente elettrica – in cui era-no dislocate tre baracche,due contigue, la N. 22 e laN. 23, e un’altra più decen-trata, situata quasi ai piedidella torretta di osserva-zione, dalla quale giorno enotte gli sgherri delle SScon riflettori e mitragliatri-ci spianate sorvegliavanodall’alto ogni nostra mos-sa. Il “Block”, cioè la ba-racca a noi riservata era la“N. 22”, in parte già occu-pata da deportati di variealtre nazionalità. Inter-namente alla baracca eranostipati i “castelli” di legno atre piani, corredati da sacchidi fibra vegetale, imbottiti distrisce di carta, a mo’di ma-terassi.Un “posto letto” di questicastelli, così come costrui-to, non superava le dimen-sioni di 180 x 70 centimetri;per cui tutti i castelli dellabaracca avrebbero potutoaccogliere, complessiva-mente, non più di 200/250deportati; in essi, invece,doveva essere “alloggiato”anche il nostro contingenteforte di quasi 500 unità.Dopo alcune esperienze ne-gative per accaparrarci un“posto letto” – erano dei ve-ri assalti ai “castelli” – e peressere costretti a dividere ilprezioso posto con depor-tati di altre nazionalità, ciorganizzammo in gruppi di3-4 di noi: alla sera, appena

veniva dato l’ordine di en-trare nella baracca, il grup-po di cui io facevo parte conMagenes, Fontanella e Goisi precipitava alla conqui-sta dei posti prescelti conrapida manovra.Non sempre la nostra ope-razione andava a buon fine:a volte succedeva che qual-cuno del gruppo rimanevasenza sistemazione per lanotte, per cui si rendeva ne-cessario stabilire dei turnidi riposo entro il gruppo.Alla notte si dormiva –quando si dormiva – in 3-4di noi su ogni posto letto; otutti stipati sul fianco de-stro o tutti stipati sul fiancosinistro. Se qualcuno di noiper l’inevitabile indolenzi-mento di uno o dell’altrofianco doveva cambiare po-sizione altrettanto erano co-stretti a fare anche gli altri.E dire che supini o bocconineanche due sole personeavrebbero potuto trovareposto nei 70 centimetri dilarghezza del castello.Molti deportati, in partico-lare i più malandati e i piùvecchi, non riuscivano qua-si mai a conquistarsi il “po-sto letto”, per cui finivanoper stare tutta la notte sdraia-ti sul freddo e nudo pavi-mento della baracca.Ancora storditi dal violen-to impatto con il “Lager”,come verosimilmente era-vamo, ogni mattina all’al-ba al fischio del capobloc-co e al suo imperioso gridodi “heraus… heraus” veni-vamo letteralmente caccia-ti fuori dalla baracca.

L’uscita, ovvero il precipi-tarsi contemporaneo di cen-tinaia di persone terroriz-zate verso l’aperto – mentreil “matador” con il tubo digomma e i “Kapo” con glizoccoli tempestavano di col-pi le nostre teste pelate –preludeva ad altre inimma-ginabili pene nella giorna-ta.Non appena si usciva dallabaracca veniva impartitol’ordine di disporsi celer-mente in fila per dieci e benallineati. Intanto i “Kapo”ci ronzavano intorno pron-ti a colpire chi non rima-neva completamente im-mobile sull’attenti.Dopo di che alla presenzadelle SS aveva iniziol’”Appell” giornaliero e la“conta”, conditi dall’istru-zione al saluto: “Mützen ab”e “Mützen auf”, sino allanausea.La quale istruzione consi-steva nel toglierci il berret-to al comando “Mützen ab”(giù il berretto) stando co-stantemente e rigidamentenella posizione di attentiche si doveva mantenere tal-volta anche per ore, con ilcapo pelato sotto la pioggiao la neve, sino a quando la“conta” era finita; allor-quando venivamo gratifi-cati del successivo coman-do: “Mützen auf” (su il ber-retto).In quelle circostanze non sidoveva assolutamente guar-dare le SS negli occhi per-ché guardare negli occhi diun “superuomo”, quali ap-punto si consideravano le

SS era ritenuto delitto di“lesa maestà”. Né si dove-vano guardare in faccia i“Kapo” in quanto ciò eraconsiderato un atto di ri-bellione. Il deportato dove-va sempre guardare a terra!All’aperto, nel recinto a noiriservato, si doveva rima-nere in piedi: era assoluta-mente proibito sedersi ancheper terra.Allo scopo di combattere ilfreddo che con l’avanzaredella stagione si faceva pun-gente allestivamo le “stufeumane”. Tali “stufe” eranocomposte da cerchi con-centrici formati da depor-tati, 50 o più, addossati stret-tamente gli uni agli altri inmodo che coloro che rima-nevano all’interno, protetticom’erano dall’aria fredda,riuscivano a scaldarsi reci-procamente. Appena com-posta la “stufa” i deportatidel cerchio esterno davanoinizio ad un conteggio chedi solito arrivava sino a mil-le; si scambiavano le posi-zioni: quelli che stavano al-l’interno passavano all’e-sterno e viceversa. I più pic-coli, favoriti dalla loro bas-sa statura, erano sempre ipiù protetti e invidiati.Le “stufe umane” restava-no in efficienza sino a quan-do i “Kapo”, aizzati dal ca-poblocco, un criminale te-desco (triangolo verde), traurla e imprecazioni, segui-te dal solito pestaggio, ese-guivano un’ennesima “con-ta”.Gli stretti contatti che sicreavano e sviluppavano tra

La quarantena, il preludio di un’infinità di sevizie

GLI ORRORI DI FLOSSENBÜRG

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noi deportati consentivano nuove interessan-ti conoscenze con coloro che provenivano daaltre città, da altre carceri, dal famigeratocampo di Fossoli e da altre nazioni.Personalmente ricordo il piccolo Orru, diorigine sarda, del Partito d’Azione, che svol-geva la propria attività di giudice a Monza;ricordo Eugenio Esposito, comunista diMilano, il cui padre era stato fucilato con i“Quindici” di Piazzale Loreto; ricordo l’ing.Miorin di Fino Mornasco, l’architettoArchinti di Lodi, Filippo Goi della provin-cia di Pavia e moltissimi altri ancora i cui no-mi a tanti anni di distanza ora mi sfuggonoe che purtroppo non hanno avuto come mela fortuna di uscire vivi dai lager. Il “menù”giornaliero predisposto dal comando gene-rale nazista consisteva in una tazza di sur-rogato di “tè” , una tazza di “zuppa” com-posta prevalentemente da rape, cavoli e qual-che pezzo di patata, oltre a una fetta di pa-ne di segale con non più di 5/6 grammi dimargarina per persona.Questo, beninteso, era quanto avrebbero do-vuto somministrarci in base alla dieta stabi-lita dal kommando tedesco; ma su questi ci-bi, già in se stessi insufficienti, operavanoenormi tagli i tedeschi che lavoravano in cu-cina e i “Kapo” che ricevevano e distribuiva-no le razioni. Ed ecco come avveniva la distribuzione: infondo al recinto a noi riservato erano dispo-ste le marmitte e i “Kapo” – fatti allineare infila indiana i deportati – muniti di mestoli da-vano inizio alla “operazione rancio”. Senonchéle “gamelle” per ricevere la razione di zuppaerano solo trecento: una ogni tre di noi, cir-ca. Non si disponeva di cucchiai; questi – an-zi – erano severamente proibiti. Chi, in pos-sesso di gamella, aveva preso la sua razioneveniva subito attorniato da tre o quattro altrideportati in attesa che quello finisse di in-goiare la zuppa. Allora aveva inizio il breveturno dell’altro che sempre aiutandosi con lemani, la bocca e la lingua cercava di ingoia-re la maggior quantità di zuppa nel minortempo possibile, perché un altro, in attesa,potesse impossessarsi a sua volta della preziosagamella. In tali condizioni ad ogni pasto sirendeva necessario ingaggiare una vera lotta,a volte brutale, per riuscire ad accaparrarsi lasospirata gamella.

FERRUCCIO BELLI MATRICOLA 21648

In un angolo del campo il forno crematorio guardato a vista da una delletorri di guardia. Nella foto sotto i cantieri e le officine contigui al campo.

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Il “Block” prospiciente alnostro, il N. 23, era consi-derato il “blocco di riposo”,ma in realtà era la vera an-ticamera del forno crema-torio.Ammucchiati sino all’in-verosimile in quella enor-me baracca venivano se-gregati i deportati già lo-gorati al massimo dalle fa-tiche dei lavori forzati, da-gli inumani maltrattamen-ti fisici e morali, dalle ma-lattie contratte in seguito alloro stato di debolezza, dal-l’inedia. Erano questi gli irrecupe-rabili, coloro cioè non piùin condizioni di essere ul-teriormente sfruttati comeforza-lavoro: larve umane,dagli occhi vitrei, sbarratiin modo terrificante in pre-da alla rassegnazione, al-l’apatia, al fatalismo: sedutio sdraiati a terra essi atten-devano immobili che avve-nisse l’ineluttabile: il loroturno di “passare per il ca-mino” del forno cremato-rio.

Scoprimmo ben presto, pernostre necessità fisiologi-che, a quali svariate fun-zioni fosse adibita la terzabaracca del nostro settore, lapiù piccola delle tre esi-stenti, situata ai margini delrecinto del lager: vi eranolà allestiti i “servizi igieni-ci”; almeno questa presun-tuosa denominazione affi-biatagli dai nazisti preten-deva dovessero essere tali.All’interno della baracca

che moribondi, completa-mente nudi con contrasse-gnati sul petto, in vernicerossa, il numero di matri-cola e la nazionalità, veni-vano trascinati per le gam-be sino alla baracca dei “ser-vizi igienici” e là, in un an-golo, accatastati testa-piedicome fossero sardine.

Ho già detto che per i no-stri bisogni corporali, digiorno e di notte, eravamocostretti ad entrare nella ba-racca dei “servizi igienici”e sederci sulle due travimentre davanti a noi stava-no distesi, con gli occhisbarrati – nei quali ancora sipoteva vedere dipinto il ter-rore – i corpi irrigiditi deinostri amici e compagni.Ricordo la triste fine di undeportato russo che facevaritorno dall’estenuante la-voro in miniera. Era ridot-to ad uno scheletro e a ma-lapena riusciva a tenersi inpiedi. Dopo qualche gior-no lo vidi disteso, nudo algabinetto: lo notai per il co-lore rossiccio dei suoi ca-pelli. Mentre stavo sedutosulle travi continuavo a fis-sarlo sin che non mi accor-si che si muoveva e chequindi non era ancora mor-to. Mi precipitai ad avvisa-re un suo compagno che, as-sieme ad altri compatriotidurante la notte, gli forni-rono alcuni miseri straccida mettersi indosso e lo ri-portarono nella baracca.Il giorno dopo, mentre noidella “quarantena” stavamofacendo la “stufa umana”,rividi il russo seduto sul gra-

La stessa baracca dei “ser-vizi igienici” era anche adi-bita a “luogo di tortura”. Inun angolo, interrato, spor-geva – infatti – un palo mu-nito di un grosso anello me-tallico. Venivano qui legatiper punizione i deportati del“Block di quarantena” cheper pur lievi mancanze fre-quentemente incontravanole ire dei “Kapo”. A secon-da delle sadiche e del tuttoarbitrarie decisioni di que-st’ultimi il deportato potevarimanere legato al palo, sen-za alcun cibo, anche per piùgiorni. E per rendere anco-ra più crudele il supplizio leSS costringevano noi, a suondi bastonate, a turno, a ver-sare sui malcapitati secchid’acqua gelida che i dueguardiani predisponevanocon rara solerzia.

In particolari funzioni chel’organizzazione nazista delcampo assegnava alla ba-racca dei servizi igienicinon si esaurivano con quel-le già accennate, ma eranoancora estese, sfruttate almassimo: essa era utilizza-ta anche come “camera mor-tuaria”.I decessi, specie quelli perdissenteria, dei deportati del“Block” N. 23, erano in cre-scendo continuo. Il trasportodei cadaveri, affidato al“Sonderkommando” (squa-dra speciale) ed espletatoda altri deportati, avvenivaa mezzo di carretto a mano,ma solo ogni 24 o 48 ore;per cui i morti, talvolta an-

faceva brutta mostra di séuna grande fossa longitu-dinale dalle pareti di ce-mento, attraversata sul da-vanti da due grosse travi pa-rallele: ciò costituiva “le la-trine”. A destra dell’entrata vi era-no installati due rubinettiche sgocciolavano acqua incontinuazione: questi vole-vano essere i “Servizi perl’igiene personale”!L’accesso ai “servizi igie-nici” era rigidamente sor-vegliato da due feroci e ro-busti guardiani, criminali diprofessione (contrassegnatidal triangolo verde): inquelle loro specifiche fun-zioni essi ricoprivano cer-tamente il gradino più bas-so dell’organizzazione dellager. Muniti di nodosi bastoniregolavano in modo bruta-le l’afflusso della lunga co-da di deportati che in per-manenza si ricomponevadavanti alla baracca.Ricordare e raccontare qua-le è stato lo “choc” e poil’avvilimento che ci ha per-vaso quando ci siamo tro-vati insieme a deportati del“Block” N. 23 può sem-brare oggi il parto di unavisione fantastica o l’in-cubo di un sogno apoca-littico. I deportati del “Block” N.23, per la maggior partescheletriti, barcollanti, af-fetti da dissenteria, non piùin grado di trattenere le fe-ci, si urtavano e si lorda-vano a vicenda con i loroescrementi, urlando, im-precando e litigando incontinuazione in tutte lelingue.

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GLI ORRORI DI FLOSSENBÜRG

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dino davanti all’entrata delnostro “Block”. In quellostesso momento comparvela bieca figura del nostrocapoblocco che urlando eimprecando come un os-sesso inveì con parolacce,in tedesco, all’indirizzo diquel pover’uomo. Entrò acatapulta nella baracca eduscì armato di un grosso ba-stone proprio mentre il rus-so, molto lentamente, datele sue cadaveriche condi-zioni era curvato in avantinel tentativo di alzarsi inpiedi. L’energumeno alzò il ba-stone e con inaudita vio-lenza lo abbatté sulla schie-na di quel povero infelice. Siudì distintamente un rumo-re uguale a quello di un ra-mo spezzato e il russo cad-de stecchito con la spinadorsale fracassata.

Un pomeriggio passandodavanti al “blocco di riposo”assistetti a un’incredibilescena di abbrutimento uma-no.Un deportato polacco sta-va seduto a terra, la schienaappoggiata alla baracca. Ilsuo corpo ormai consuma-to dagli stenti, dal lavoro,dalle sevizie e dalla fameera ridotto a un fantasma.In cerchio gli stavano se-duti davanti altri quattro ocinque deportati. Mi fermaiad osservarli. Nessuno parlava: si senti-va distintamente soltantoil respiro affannoso cheusciva dai loro petti sche-letrici. Osservando bene lascena mi accorsi che il po-

lacco appoggiato alla ba-racca teneva nella mano de-stra, raggomitolata all’al-tezza dello stomaco, unpezzo di pane.Evidentemente il polacco aun certo punto si rese con-to che l’obiettivo di coloroche lo circondavano eraquello di impadronirsi delpane e la scelta che ne se-guì fu fulminea. In un attimo di lucidità econ enorme sforzo il po-lacco aprì la bocca e cercòdi introdurvi tutto il pezzodi pane che teneva in ma-no, ma quasi nello stessoistante egli crollò disteso aterra, morto.

Un giorno alla distribuzio-ne della “zuppa”, mentre mistavo organizzando per en-trare rapidamente in pos-sesso della famigerata “ga-mella”, vidi mettersi in filaal mio fianco un deportatocecoslovacco che procede-va trascinandosi faticosa-mente sottobraccio un pro-prio compagno. Arrivato che fu davanti al“Kapo” che distribuiva lazuppa gli fece versare nel-la “gamella” la propria ra-zione e anche quella delcompagno. Compiuti appena pochi pas-si allentò la presa di que-st’ultimo che rotolò pesan-temente a terra, ove rimaseimmobile, probabilmentemorto. Il cecoslovacco si allontanò,incurante, di qualche metroe con la massima indiffe-renza si mise a divorare ledue razioni di zuppa.

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FERRUCCIO BELLI MATRICOLA 21648

In baracche fatiscenti, oscure e umide i detenuti erano facilepreda di malattie e morte. Ammassati nella promiscuità piùterribile, senza cibo sufficiente e con scarse o inesistenti cure:lo sguardo stupito a guardare nell’obiettivo di un fotografoche chissà cosa voleva documentare.

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Con il trascorrere del tem-po, durante la debilitantepermanenza nei lager mi re-si conto come fosse diffici-le reagire dignitosamenteper evitare che l’egoismo,l’istinto della conservazio-ne e la conseguente lotta perla sopravvivenza, non aves-sero il sopravvento, sino astravolgere completamen-te i valori dello spirito.Ho già ricordato in un’altraparte di queste mie disor-dinate memorie che i mor-ti venivano spogliati primadi essere accatastati nellabaracca dei “servizi igieni-ci” e di finire al crematorio.Per un certo periodo di tem-po questo macabro incari-co fu assolto da un ragazzi-no polacco che non avràavuto più di 11 o 12 anni. La spogliazione dei mortiavveniva sempre e con qual-siasi tempo all’esterno del-la baracca e il ragazzino viprocedeva con un certo me-todo. Egli sistemava in unapposito sacco di carta gliindumenti ricuperati, dareimpiegarsi per la vesti-zione di altri nuovi depor-tati, staccava il triangolo eil numero di matricola chedistinguevano e classifica-vano il deportato, procede-va ad avvisare il capobloc-co di aver ultimato l’”ope-razione” e poi ritornava e sisedeva accanto al cadaverein attesa delle successiveincombenze.Il capoblocco, che aveva ilcompito di segnalare alleSS il decesso ai soli fini am-ministrativi e anche quellodi tracciare – con la verni-ce – sul petto del morto la

nazionalità ed il numero dimatricola, si faceva sempremolto attendere. Quando fi-nalmente aveva eseguitoquesto compito toccava alragazzino prendere il cada-vere per i piedi e trascinar-lo all’interno della barac-ca, nell’angolo adibito a “ca-mera mortuaria”.Seguivo tutte queste mesteoperazioni con inimmagi-nabile raccapriccio ma an-che con tanta rabbia mal re-pressa in corpo! Quel ra-gazzino – immobile vicinoal cadavere – di tanto in tan-to alzava la testa e mi fis-sava intensamente tenendosbarrati i suoi grandi occhiscuri mentre le sue labbrarimanevano ermeticamen-te chiuse. La sua faccia smunta, esan-gue, sembrava impassibilenonostante la macabra in-combenza. Quel povero pic-colo corpo così presto im-merso nelle nefandezze dellager, già segnato daglistenti e dalle sofferenze fi-siche e morali, mi mettevaa disagio conturbandomiprofondamente.Mi saliva un nodo alla gola,impedendomi persino di de-glutire la saliva, assistendoa quelle efferatezze a cuiera costretto quel povero ra-gazzo indifeso, anche per-ché la mia posizione di spet-tatore forzatamente inertenon poteva certo recargliconforto. Tuttavia attraver-so quel “dialogo” scambia-to con sguardi a distanzami sembrava di avvertireche quel poverino volessetrasmettermi un “messag-gio”; volesse forse ringra-ziarmi in qualche modo per

GLI ORRORI DI FLOSSENBÜRG

Il lavoro alla cava. Turni massacranti, racconta FerruccioBelli, il lavoro si protraeva per ben 12 ore con una sospensionedi mezz’ora per la distribuzione della zuppa. Spalare il terriccio di scavo fuori dal bordo della trincearichiedeva uno sforzo estremamente faticoso. Quelli che non reggevano la fatica venivano colpitisistematicamente con tubi di gomma.

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il conforto che gli recava lapresenza a distanza. E cosìavvenne……Un pomeriggio mentrestavo appoggiato alla retemetallica che isolava il no-stro settore fissavo con in-sistenza il ragazzino inten-to ad eseguire il suo mestolavoro da mini-necroforo.Ad un tratto con mossa ful-minea egli mi gettò oltre larete divisoria una camiciache aveva appena sfilata dalmorto. Restai per un attimocome sbigottito, incredulo,quasi atterrito per quelloche gli poteva succedere sefosse stato scoperto; ma benpresto mi ripresi, tolsi ve-locemente la giacca e tre-mante per l’emozione m’in-filai la camicia.Quando alzai gli occhi peraccennare a un ringrazia-mento il ragazzino era giàscomparso e io non lo rivi-di mai più.A parte la riconoscenza ser-batagli per il prezioso in-dumento procuratomi ho ap-prezzato soprattutto il ge-sto di coraggio e di solida-rietà umana di quel caro ra-gazzino polacco che, se fos-se stato scoperto, avrebbecertamente subito gravissi-me punizioni. Il gesto lo interpretai an-che come un incitamento anon smettere mai di lotta-re, di non darsi mai per vin-ti, a non dimenticare cheogni individuo che uscissevivo da quell’inferno na-zista aveva il dovere di tra-mandare in ogni tempo ilricordo e la testimonianzadelle sofferenze di tutti co-loro che non avrebbero piùfatto ritorno.

A Flossenbürg – come delresto in tutti gli altri lager– il capocampo e i capi-blocco avevano liceità di vi-ta e di morte su tutti i de-portati. I capiblocco eranoresponsabili presso le SSdell’esatta rispondenza del-le presenze al campo dei de-portati, sia che fossero vivisia che fossero morti, in-differentemente: quello cheinteressava e contava sol-tanto era il totale! Tanti era-no i vivi che mancavano al-l’appello tanti erano i mor-ti che si dovevano trovaregiacenti nella baracca dei“servizi igienici”, ove le SSsi recavano per il rigorosocontrollo.Capiblocco e “Kapo”, tuttiex delinquenti comuni, nonerano certo più benevoli ver-so di noi delle stesse SS.Sempre con il famigeratotubo di gomma in mano es-si costituivano per noi il con-tinuo incubo.Al mattino presto il risve-glio nella baracca era bru-sco, a suon di urli del ca-poblocco che ci riempiva leorecchie con i suoi “auf-stehen” a ripetizione (al-zarsi, alzarsi!).Fuori faceva un freddo boiamentre era ancora notte fon-da. I miseri stracci che ave-vamo indosso non potevanocerto fornirci il minimoconforto. Dopo una tazza disurrogato di “tè”, amaro,fatto con strane foglie es-siccate – che aveva il solomerito di essere talvolta cal-do – cominciava la “conta”,di cui ho già detto.Ho ancora vivo il ricordo di

FERRUCCIO BELLI MATRICOLA 21648

Un gesto di solidarietà, che non evita la fine nel fornocrematorio.

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una tragica “conta”: quelladel giorno in cui mancò ilprimo italiano del nostroscaglione. Se non erro eranativo di Novara e si chia-mava Suardi.Egli non era riuscito a su-perare il ribrezzo, la pena ela ripugnanza insieme chegli suscitavano i cadaveriaccatastati nel “gabinetto”e dopo pochi giorni di im-patto con il lager venne col-to da atroci dolori viscera-li. Una sera che i dolori glisi fecero lancinanti, mal-grado i nostri interventipresso il capoblocco – tra-mite il compagno Olivelliche fungeva da interprete esi era assunto il compito didifenderci presso le SS e i“Kapo” – fu tenuto steso perterra durante l’appello peroltre due ore, senza che sipotesse prestargli alcun soc-corso, severamente proibi-toci. Tutta notte continuò alamentarsi e poi entrò inagonia: morì all’alba.Con Olivelli tentammo unulteriore intervento pressoil capoblocco nell’intentodi evitare che il poverocompagno finisse accata-stato nudo nel “depositomortuario”. La risposta ot-tenuta fu: “Scheisse”, chein tedesco significa “mer-da”.

Venimmo a sapere da “ra-dio-lager” che al “buro”erano pervenute alcune ri-chieste per il trasferimen-to di deportati in diversicampi di lavoro. Al primo“Kommando” costituitodalle SS vennero assegna-

ti, con sadico intento, i de-portati più anziani del no-stro gruppo, gli intellet-tuali, i professionisti, i com-mercianti e tutti coloro chenon erano in possesso diuna specifica qualifica dilavoro manuale, in quantoquesto “Kommando” do-veva scavare a trincea unlungo tratto di terreno perla posa di tubi per un ac-quedotto, ai margini dellaforesta che si stendeva anord del lager.In questo “gruppo di lavo-ro” venne inserito anche ilcompagno Luigi Brusaioli(il rappresentante del PartitoRepubblicano nel primoComitato di LiberazioneNazionale di Pavia).Tra que-sti deportati certamente, pri-ma di allora, nessuno ave-va mai adoperato la pala e ilpiccone. Vestiti com’eranodi soli stracci, con ai piedigli zoccoli, senza calze, l’u-midità, il fango e la piog-gia rendevano loro estre-mamente difficoltoso nonsolo camminare bensì an-che reggersi in piedi.

Il lavoro si protraeva perben dodici ore con una so-la sospensione di mezz’o-ra per la distribuzione del-la “zuppa”. Spalare il ter-riccio di scavo fuori dal bor-do della trincea richiedevauno sforzo estremamentefaticoso tanto che coloroche, dopo qualche temponon erano più assolutamentein condizioni di mantenereil ritmo di lavoro impostodalle SS, venivano colpitisistematicamente dai tubidi gomma dei “Kapo”.Dopo pochi giorni di que-sto inumano lavoro i de-portati del “Kommando” inparola non erano più in gra-do di sostenere ulterior-mente l’immane fatica. Essi,e così anche Brusaioli cheogni sera ci raccontava ilsuo “calvario”, rientravanonella baracca bagnati fra-dici con le mani e i piedi ri-coperti di vesciche sangui-nanti, in uno stato di pro-strazione completa.Ogni nostro intervento inloro favore, sempre tramitel’Olivelli, rimaneva senza

alcun risultato. Dalle giac-che di alcuni compagnistracciammo dei pezzi difodera, stranamente rima-sti ancora attaccati alle ma-niche, per farne delle bendedi ripiego, mentre con lascusa delle medicazioni delmio piede riuscii a procu-rarmi dal “Revier” altre ben-de, naturalmente di carta;potemmo così, se non me-dicare, almeno fasciare leferite delle mani e dei pie-di di quei poveri disgrazia-ti. Ma quel massacrante la-voro doveva completarsi alpiù presto e le SS, semprepiù inviperite per il calo delritmo ch’esso giornalmen-te registrava, incitavano i“Kapo” a colpire selvag-giamente le schiene di queimalcapitati forzati.Che diamine! Erano o nonerano prigionieri e per giun-ta anche politici! Dovevanodunque lavorare e morireper il grande Reich.Lavorare, come del restostava scritto all’entrata dellager, perché il lavoro ren-de liberi (Arbeit machtfrei!); liberi, sì, ma solo pas-sando per il camino del for-no crematorio! Un mattinodurante la solita “conta” ef-fettuata dal capoblocco, pre-senti le SS, la maggior par-te del “Kommando scavi-acquedotto”, compreso pur-troppo anche l’amico e com-pagno Brusaioli, fu sele-zionata e destinata al fami-gerato “Blocco di riposo”che altro non era, come giàricordato, se non l’antica-mera del forno crematorio.E lì Brusaioli morì il 29 ot-tobre 1944

Ferruccio Belli

GLI ORRORI DI FLOSSENBÜRG

Himmler in visita al campo con alti gerarchi del Reich si reca a sorvegliare l’efficienza del “cantiere” Flossenbürg.

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“Caro Carlo, spero avrai ri-cevuto la precedente lette-ra di Ugo,con la quale tichiedevamo d’inviarci colmezzo più rapido possibile li-re 1.500. per noi tutti. Noistiamo bene:passiamo mol-to tempo all’aria aperta;Ugo spesso lavora,così sidistrae e s’irrobustisce. Nonsappiamo fino a quando re-steremo qui:per questo ti ab-biamo chiesto i denari contanta urgenza. (………….)”.

Queste parole sono parte diuna lettera datata 28 aprile1944. Si potrebbe pensareche chi scrive si trovi in unapiacevole località di villeg-giatura, a godersi il sole el’aria buona con i propri fa-miliari. La lettera, invece, è scrittasu di un foglio che reca que-sta intestazione: Campo diconcentramento – Fossoli.E chi la scrive è un ebreo ro-mano. Il suo nome GiacomoDi Veroli e con lui si trova-no la moglie Rosa Erminia

Manasse ed il figlio Ugo.La mattina del 27 marzo SSe fascisti avevano fatto ir-ruzione nel loro apparta-mento di Via Candia 137 , aRoma, li avevano arrestati erinchiusi nel carcere diRegina Coeli. Da Fossoli partirono il 16maggio per ignota destina-zione e per un viaggio sen-za ritorno.Ad AuschwitzGiacomo e Rosa Erminiavennero subito avviati allecamere a gas. Di Ugo non siebbe più alcuna notizia.

di Aldo Pavia

“Ritorneremo”,scrivono le carognefasciste. Ma i Di Veroli non sono mai tornati

Le storiedella

deportazione

Sistemando l’archivio dell’Aned di Roma viene alla luce il comportamento agghi

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Ho ritrovato questa storia chesi potrebbe definire di “or-dinaria deportazione” siste-mando l’archivio dellaSezione Aned di Roma.Tuttavia quando mi sono tro-vato tra le mani le fotografiedi questa tre vittime, quan-do ho letto la copia della let-tera scritta da Fossoli ho sen-tito come un brivido gelarmi.Tre visi tranquilli mi guar-davano da fotografie certa-mente scattate quando nem-meno lontanamente i Di

Veroli potevano pensare, nondico ad Auschwitz ma nem-meno a Fossoli. Per poi , trastupore e rabbia, trovare lecopie di due foglietti, di duescritte. Sicuramente le SS ei fascisti sapevano esserci inVia Candia altri componen-ti la famiglia. Da perfettoburocrate il tenente Müllerlasciò un messaggio: “pre-sentarsi Via Porta Pincianaalbergo Eliseo Ten.Müllerore 9 domani mattina”.

Molto meno cortesi, certa-mente più determinati ad ar-restare gli ebrei, i fascisti,fedeli servitori e appassio-nati collaboratori dello ster-mino. Il loro messaggio erainequivocabile, scritto su diun foglietto da bloc – notesa quadretti: “RITORNE-REMO!”. E come firma agghiaccian-te la M mussoliniana. Oggi

ci viene detto che bisognariconciliarsi e che, dopo tut-to i repubblichini hanno fat-to quel che hanno fatto per-ché credevano in profondiideali. Di questi valori della RSI,questo è uno. Fu un fogliet-to profetico. I fascisti, ma-gari in doppio petto sono tor-nati. La famiglia Di Verolipurtroppo no.

Il tranello per altre famiglie di ebrei

L’ultimosaluto del deportato

Il “messaggio”infido del boiatedesco

Lo spavaldo bigliettocon l’agghiacciante “M”

presi dalle SS e dai fascisti la mattinadel 27 Marzo 1944 a via Candia n. 137 e portati al carcere di ReginaCoeli e dopo alcuni giorni trasferiti al campo di concentramento di Fossoli

(Modena). Da qui partì una lettera di Giacomo di Veroli, indirizzata ad un comune amico con la data28/4/1944, pervenuta ai familiari dopocirca un anno.

Si allegavano due comunicazionilasciate dai fascisti e dalle SSnell'appartamento evidentemente per arrestare gli altri componenti della famiglia.

Giacomo Di Veroli fu A. Rosa Erminia Manasse fu J. Di Veroli Ugo di G.

acciante dei militi della Rsi

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La straziante vicenda di due donne ebree, Elvira e Amalia Piccoli catturate a

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“Mamma, fatti coraggio”Ed entrò con lei nella camera a gasdel lager di Birkenau

Elvira e Amalia Piccoli,madre e figlia, furono as-sassinate dai nazisti nellecamere a gas di Birkenau(Auschwitz), dove eranostate deportate dopo la cat-tura a Cividale del Friuli.Erano i primi giorni delmaggio 1944. Per ricordarle il presiden-te dell’Aned di Udine,Paolo Spezzotti, ha chiestoall’autore di un’accurataricerca storiagrafica, ilprof. Giuseppe Jacolutti eai famigliari delle vittime,testimonianze e notizie. Un invito prontamente rac-colto. Oltre alle foto e adalcuni documenti, pubbli-chiamo ampi stralci dellaricostruzione scritta e pub-blicata dal prof. Jacoluttidi Cividiale del Friuli.

L’episodio del loro sacri-ficio – scrive il professorGiuseppe Jacolutti –, vit-time della legge razziale,“è stato da me ricostrui-to con le varie testimo-nianze ed è suggellato dalracconto di Sandro Krao,loro compagno di depor-tazione, sopravvissuto ai“lager” nazisti”.

Schonfeld Elvira, di raz-za ebrea, nacque a Udineil 3 febbraio 1876 daDavide ed Estella Iacchia,sposò Nicolò Piccoli e, sulfinire della primavera del‘900, si stabilì a Cividaledel Friuli dove il 30 giu-gno 1920 nacque la ter-zogenita Amalia.

A Cividale la presenza diuna comunità ebraica risaleal 1239 e vi è segnalata ad-dirittura l’attività di un tri-bunale rabbinico. Ebrei pro-venienti dalla Germania, dal-le terre del Reno e del Meno,trasferitisi da Trieste a Udine,si stabilirono anche aCividale ed abbero un ruoloimportante nella vita eco-nomica della città.

Sul finire dell’anno 1938,l’Amministrazione civica,in applicazione alla leggedello Stato fascista, procedeal censimento di questi cit-tadini residenti nel Comune,in seguito al quale sulla loroscheda anagrafica individualeviene posta la dicitura: “ap-partenente alla razza ebraica;art. 8 comma a - R.D.L. 17-11-1938, n. 1728”. Da quel-la data la grigia nube dellatragedia ebraica investel’Italia e ha inizio anche pergli ebrei italiani il viaggionel terrore del nazismo: di-scriminazione, persecuzio-ni, deportazioni, morte.

Sabato 3 settembre 1938 an-che a Cividale appare il “ma-nifesto della razza “sull’an-tisemitismo, con un richiamoa quella parte del decreto-

legge che esclude tutti gliebrei dagli istituti governa-tivi e che proibisce l’iscri-zione dei fanciulli ebrei nel-le scuole governative delRegno. Il 18 settembre del‘38 il Duce, parlando aTrieste alla vigilia della suavisita a Cividale, pone in pri-mo ordine la questione raz-ziale come necessità di man-tenere la superiorità di raz-za.

L’Europa senza ebrei, sognodi sempre del nazismo, alcui fianco si schiera il fa-scismo italiano, si avvia algenocidio in massa degliebrei con i campi di con-centramento eretti a mac-chine scientifiche per darela morte. Anche la città diCividale ha le sue vittime.Dopo il crollo del fascismo,la disfatta dell’Esercito ita-liano e l’occupazione tede-sca, il nuovo governo fasci-sta approva a Verona il ma-nifesto della RepubblicaSociale Italiana. La “risolu-zione” del problema razzia-le si ritrova al punto 7 dellostesso manifesto: gli ap-partenenti alla razza ebrai-ca sono stranieri. Durantequesta guerra appartengo-no a nazionalità nemica.

Amalia aveva poco più di vent’anni e poteva salvarsi con il lavoro coatto,ma non volle lasciare sola la madrenell'ultima prova – L’aveva sorretta e aiutata amorevolmente fin dall’arresto e durante l’infernale trasferimento versola fine – I ricordi e le testimonianze.

Le storiedella

deportazione

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Cividale del Friuli e assassinate a Birkenau.

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L’arresto di Elvia Schonfeld– prosegue la ricostruzionecurata dal prof. Jacolutti – èpreceduto, in date diverse, daperquisizioni alla sua abita-zione. Famiglie benestanti,di imprenditori e commer-cianti, quelle degli Schonfeld-Piccoli e la signora Elviradonna d’alte virtù morali, ri-servata ed estranea ad ogniattivismo politico, dedita so-lo alla famiglia. Il 22 aprile 1944 un auto-an-fibio dell’esercito d’occupa-zione tedesco si ferma sullavia Mazzini, di fronte all’in-gresso principale della casaPiccoli e da esso scendonoun sottufficiale e due soldatidella SD (Sichereits Dienst –servizio di sicurezza del cor-po delle SS. L’operazione sisvolge con la massima rapi-dità: l’anziana signora vieneprelevata, invitata a salire sul-l’auto in attesa e trasportata aUdine con la promessa di re-stituirla alla famiglia dopo uninterrogatorio da parte del co-mandante territoriale dellaSD. La ventitreenne figliaAmalia, giovane riservataquanto la madre, appassio-

nata di pittura, spinta da gran-de amore verso la genitrice,non vuole abbandonarla e,pur non richiesta, intrapren-de con lei il tragico viaggioche non avrà ritorno. Durante il trasferimento del-le due donne dalle carceri diUdine alla risiera di S. Sabbaa Trieste, nel triste edificiotrasformato dai nazisti in cam-po di smistamento per le de-portazioni in Germania ed inforno crematorio per gli uc-cisi,Amalia lascia cadere dalvagone ferroviario un bigliettoall’indirizzo di Teresa ZulianiDorigo, nota pittrice friula-na. Il foglio contenente il bre-ve messaggio viene fortuno-samente raccolto da qualcu-no e recapitato,probabilmenteda un ferroviere; tant’è chein data 27 aprile la signoraDorigo, dopo le opportune ri-cerche, riesce ad informare ilsignor Alfredo Piccoli, fra-tello di Amalia, dell’avvenu-ta deportazione in Germaniadelle due sventurate. A guer-ra finita ogni ricerca sembrainutile poiché la fine dellePiccoli fu immediata. Non è possibile non ferma-

Elvira Schonfeld Piccoli era nata a Udine il 3 febbraio1876. Al momento dell'arrestoaveva 68 anni. Amalia Piccoli, era nata a Udine Cividale del Friuli il 30 giugno 1920. Alla data dell'arresto della madre, che volle seguirefino all'ultimo, aveva 23 anni.Era maestra elementare e appassionata pittrice.

Teresa Dorigo annuncia adAlfredo Piccoli la partenzaper la Germania della sorellae della madre. “Non ti vorreidire ma devo” scrive, “sono

partite per la Germaniaquesta mattina. Il tuo dolore è anche mio egrandissimo, ma ho fiducia. Teresa, 27 aprile.”

L’arresto della madreLa figlia la segue subito

Madre, 68 annifiglia, 23 anni

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no inviate al sobborgo diBirkenau. Dalla partenza diTrieste i deportati giunseroin 142. Incolonnate verso ilsinistro edificio del campodi concentramento, chiusealle spalle le porte di ferro,furono avviate subito alle“camere” ed eliminate, inmeno di 15 minuti, dai gas. I corpi buttati nei forni cre-matori. Questi fatti mostruosi, viva

testimonianza del sacrificioe del lutto di un popolo, nonsi devono dimenticare. Il sacrificio della giovaneAmalia Piccoli resta, nel ri-cordo, un esemplare atto d’a-more e di eroismo consu-mato con stoicismo a sfida dichi follemente ha voluto l’or-renda fine della sua mammaElvira, condannata a mortesolo perché appartenente al-la razza ebraica.

re il pensiero sul luminosocomportamento di AmaliaPiccoli, la quale, con attod’amore e di coraggio, ri-fiutando il lavoro coatto spet-tante per la sua giovane età,accetta consapevolmente divarcare con la madre la so-glia della camera a gas, of-frendo la sua giovane esi-stenza all’olocausto di seimilioni di ebrei cancellati,per odio di razza, dalla fac-cia della terra.I familiari, non rassegnati,ricorsero per avere notizieall’Associazione Schedariomondiale dei dispersi (Ro-ma), al Comitato internazio-nale della Croce Rossa diGinevra, al Comitato ricerchedeportati ebrei - Unione del-le Comunità IsraeliticheItaliane; alla Pontificia com-missione di assistenza,all’Ufficio centrale delle ri-cerche dell’Unrra (ammini-strazione delle Nazioni Uniteper il soccorso e la ricostru-zione), alla delegazione as-sistenziale emigrati e profu-ghi ebrei con sede a Firenze,senza esito alcuno.Le inserzioni sui giornali,fatte in date diverse, gli an-nunci esposti in apposite ba-cheche nelle stazioni ferro-viarie di confine, danno lamisura di quanto capillaresia stata la ricerca.Sugli annunci appaiono legeneralità, la descrizione fi-sica delle due donne, gli in-dirizzi a cui rivolgersi percomunicare: quello diAlfredo Piccoli a Cividale equello di Alfredo Schonfelda Trieste, figlio e fratello del-la signora Evira. Ed è a que-sti che il sopravvissuto San-dro Krao di Fiume, in un in-

contro a Trieste, rende te-stimonianza del viaggio fat-to assieme alle due donne;ne descrive l’orrenda fine ene riconosce, dalle fotogra-fie, i volti e alcuni particolaridegli abiti. Inattesa ed ag-ghiacciante la notizia, portatada un sopravvissuto alla de-portazione, salvatosi soloperché il destino ha volutofosse nel numero dei 12 uo-mini scelti a Birkenau dagliaguzzini nazisti e comanda-ti al lavoro in prossimità diun nodo ferroviario.

Incontrai la signora Piccolie sua figlia Amalia alle car-ceri di Udine. Il 23 aprile1944 vennero trasferite daUdine a Trieste e qui rin-chiuse in uno stanzone del-la risiera di S. Sabba, di se-guito alle carceri delCoroneo. Alle ore 2 del 27aprile 1944, furono condot-te con un camion militarealla stazione ferroviaria diTrieste e fatte salire su uncarro-bestiame assieme adaltri 152 deportati. Dopo la piombatura dei car-ri ferroviari, il convogliopartì per la Germania, viaBrennero. Il viaggio durò cinque gior-ni durante i quali non vennesomministrato alcun cibo,né alcuna bevanda. Il 2 mag-gio il convoglio giunse adAuschwitz dopo aver attra-versato l’Austria e laCecoslovacchia. La signora Elvira quasi set-tantenne, ammalata, si reg-geva a stento; la figliaAmalia di 23 anni, eroinaincomparabile d’amore perla mamma, infondeva co-raggio. Da Auschwitz furo-

Su “Libertà”, quotidianodel C.L.N. della provincia diUdine, nel testo della notiziapubblicata il 14-10-1945 incronaca di Cividale, fral'altro, si legge: “Solo ora,attraverso la testimonianzadi una persona che fucompagno di sventura delledue, si è appresa la finetragica della signora ElviraSchonfeld e Amalia Piccolinostre concittadine. Lamadre appartenente alla

razza ebraica fu arrestatadalla Gestapo. Essendo essasettantenne e sofferente, lafiglia non volleabbandonarla e conesemplare ed eroico amorefiliale la seguìvolontariamente fino allamorte, soffrendo in comunequanto di crudele,il nazismo ha saputoescogitare per le personepredestinate ad essere suevittime”.

Con questo titolo la “Voce del Natisone” nellacronaca di Cividale,

dava notizia della tragicavicenda, nell'immediatodopoguerra.

Un titolo di cronaca del“Gazzettino” del 19 ottobre1945. Secondo letestimonianze raccolte

Elvira e la figlia Amalia –scriveva il giornale – eranoscomparse ad Auschwitz,“fornace della morte”.

Le storiedella

deportazione

“Mamma, fatti coraggio” Ed entrò con lei nella camera a gas del lager di Birkenau

I giornali della regione raccontarono la loro tragedia

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Fu Natascia a dirmi di affacciarmi alla finestra,rossa come una bandiera rossa per l'emozione:“Voina kaput. Poniemaisc? Voina kaput”. Davanel cortile del piccolo ospedale la finestra e lì

lo scenario era di straordinaria eccitazione. Uomini e don-ne che si rincorrevano, che si abbracciavano, che lan-ciavano in aria le bustine militari, che gridavano paro-le per me incomprensibili, che urlavano la loro gioia, chepassavano dal riso alle lacrime e viceversa. Il giorno del-la pace: quel “Voina kaput” era questo che significava.Voina, che, in russo, vuol dire guerra e kaput, in tede-sco, che tutti sanno cosa vuol dire. La notizia, natural-mente, non giunse inaspettata. Con l'Armata rossa aBerlino, i giorni del Terzo Reich erano contati. Chiusonel suo bunker, ormai consapevole della disfatta, Hitlersi era suicidato con Eva Braun e il suo cane e la notiziaera stata diramata dalla radio, accompagnata dalle do-lenti note dell'adagio della settima sinfonia di Bruckner.Di fatto la vittoria era già stata celebrata il primo mag-gio, nell'ospedaletto, con una grossa festa, con un lau-to pranzo per i tempi e con uno spettacolo che a me eraparso addirittura super.

Ogni membro del personale sanitario si era pro-digato nello spettacolo: chi come ballerino,chi come pianista, chi come cantante, chi co-me attore. Natascia, per esempio, assieme ad

un'altra infermiera, si era prodotta in uno sfrenato bal-letto, con costumi popolari, dio sa dove se li era procu-rati. Persino il direttore dell'ospedale, il maggiore me-dico di cui ricordo solo il nome e il patronimico, AntonPavlovic, perché è eguale a quello di Cecov, partecipòrecitando una poesia di Lermontov. Anton Pavlovic ave-va allora una quarantina di anni, parlava il francese e miaveva preso a benvolere, probabilmente per la mia gio-vanissima età e perché anch'io me la cavavo con il fran-cese. Libero dagli impegni veniva spesso a chiacchierarecon me, entusiasmandosi oltre misura nell'apprendere cheavevo letto alcuni romanzi di autori russi, Tolstoi eDostoievski, Turgheniev e Cecov.Mi trovavo bene inquel piccolo ospedale situato in aperta campagna, a po-chi chilometri da Varsavia. Lì c'ero capitato dopo unavisita medica collettiva nel casermone di Rembertov,che all'epoca ospitava centinaia di stranieri, reduci dal-la prigionia dei campi di concentramento. Fra gli ita-liani, moltissimi gli IMI (internati militari italiani), fracui anche un famoso terzino del Bologna “che tremare

il mondo fa”, di cui, però, non rammento il nome. Ladottoressa che mi aveva visitato aveva scoperto unaghiandola nel collo, che poi si rivelerà come una ade-nopatia latero cervicale destra di tipo specifico, consi-gliando il ricovero.

Ame la novità non era piaciuta né dispiaciuta.Peraltro, come mi era stato precisato, si trat-tava di una breve parentesi, necessaria per al-cuni accertamenti. “Sarà il sole d'Italia a gua-

rirla - mi aveva detto la dottoressa - ma intanto un po'di cura ospedaliera le farà bene”. Bene, soprattutto, mi fece l'accoglienza. Proprio Natascia,con modi simpaticamente rudi, mi fece spogliare e, nu-

Così in ospedale coi russiquel giorno di 58 anni fa

Il primo giorno di pace nei pressi di Varsavia

di Ibio Paolucci

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Una straordinaria festa del primo maggio

do come mamma mi aveva fatto, mi fece entrare in unagrossa tinozza e cominciò ad insaponarmi, ridendo peril mio imbarazzo. Ma era piacevole in fin dei conti, vi-sto, oltre tutto, che era da un bel po' che non mi facevoil bagno. Ripulito per bene, Natascia mi consegnò un pigiamapiù o meno della mia taglia, pulitissimo, stiratissimo,persino discretamente elegante. “Karasciò?” mi chie-se Natascia, che era una ragazzona belloccia, pochi an-ni più di me, che ne avevo diciotto, cittadina diLeningrado, a quanto seppi in seguito, soldatessa daqualche anno. Conobbi anche il suo patronimico,Ivanovna, di cui peraltro non feci mai uso. Per loro,però, del patronimico non se ne poteva proprio fare a me-no. “Se non lo si conoscesse, come si farebbe a parla-re?”, ridacchiò il direttore.

Grandi chiacchierate col maggiore: tante do-mande sull'Italia, sulla mia città, che era alloraGenova, su come si viveva sotto il fascismo,su come ero capitato da quelle parti. Tante

chiacchiere, mentre le cure consistevano, sostanzial-mente, in un mezzo bicchiere al giorno di olio di fega-to di merluzzo. Che io, fra l'altro, cedevo quasi intera-mente al mio vicino di letto, un ex capo stazione di unacittadina cecoslovacca, che pesava oltre un quintalequando i tedeschi lo presero, mentre si era ridotto a me-no della metà al momento della liberazione. Così, perrifarsi, da me e da altri prelevava quell'olio disgustoso,lo versava in un tegamino mischiandolo con un pò di bur-ro e dopo averlo scaldato lo ingurgitava come fosse ro-solio.Altro personaggio di quell'ospedaletto, che ricordo construggente nostalgia, era uno spilungone magrissimo,reduce da Auschwitz, ebreo, ex docente dell'universitàdi Riga. Ricoverato anche lui, prestava la sua opera co-me coordinatore della cucina ma soprattutto come in-terprete, visto che praticamente conosceva tutte le prin-cipali lingue europee, oltre la propria.

Di italiano masticava poco, ma se la cavavaaiutandosi con il francese e lo spagnolo. Aveval'età di mio padre, classe 1901, e anche luimi si era affezionato e mi mostrava concre-

tamente il suo quotidiano affetto permettendomi di ra-schiare le pentole, nel cui fondo restava sempre attac-cato qualcosa da mangiare. Era un tipo mitissimo, che, però, quando gli capitava diparlare o di sentir parlare dei tedeschi si trasformavatanto era l'odio che gli sprizzava da ogni parte del cor-po. Gli occhi, poi, parevano due lanciafiamme, che, so-no certo, qualora gli si fossero parati davanti dei tede-schi, li avrebbe inceneriti. Un odio inestinguibile: i ge-nitori, la moglie e una figlia di dodici anni erano tuttifiniti nelle camere a gas.

Si era salvato, nemmeno lui sapeva perché e non certoper la perfetta conoscenza della lingua dei suoi carne-fici, che, nel campo di sterminio, si era imposto di nonparlare in nessun caso, sperando che questo suo atteg-giamento di protesta non venisse meno. Non aveva ce-duto il nostro professore ebreo, fiero di avere resistito,di avere mantenuto integro questo suo piccolo patri-monio di dignità. Di ebrei nel nostro campo, che era un lager di lavora-tori coatti prevalentemente polacchi, ma anche congruppi di jugoslavi e di italiani, adibiti a scavare “pan-zergraben”, che avrebbero dovuto bloccare l'avanzatadei carri armati sovietici, non ce n'era. Con qualcheebreo tuttavia mi era capitato d'imbattermi. Un giornodi primo autunno, io e una decina di altri compagni disventura, venimmo spediti in un altro campo per scaricaresacchi di cemento, non so per quale uso. A un certopunto, al di là di un reticolato, vedemmo un gruppettodi donne con vestiti azzurri a strisce verticali blu. Eranochine su un qualcosa che non distinguevamo e ci par-ve che parlottassero fra di loro. Una di esse si staccò un po' dalle altre e vidi distinta-mente che stava orinando rimanendo in piedi. La cosami colpì enormemente, non mi era mai capitato di ve-dere una scena del genere. Di colpo arrivò un donnonevestito allo stesso modo ma con stivali e un bastone colquale, urlando, cominciò a colpire a caso quelle donne,che fuggirono scomparendo dietro una baracca. “Sonoebree”, disse un polacco che faceva parte della nostrasquadra.

Un altro incontro, se così può definirsi, ci capitòdopo la liberazione. Guidati da due soldatirussi, che dovevano accompagnarci alla primastazione ferroviaria funzionante, da dove il

treno ci avrebbe portato a Varsavia, percorrevamo inpieno inverno, una ventina di gradi sotto zero, una stra-da di campagna, quando sul nostro percorso notammoa poca distanza l'uno dall'altro, quelli che, a tutta pri-ma, ci parvero dei fagotti di stracci. Erano invece cadaveritutti rattrappiti dal gelo. “Ebrei”, disse uno dei due mi-litari, mostrandoci col dito, su uno di essi, la stella diDavid. I morti, certamente, facevano parte di uno di quei cor-tei della morte, di cui seppi in seguito, lungo la cui rot-ta erano più quelli che cadevano stremati dal freddo edalla fame e che venivano regolarmente uccisi dai te-deschi, che quelli che riuscivano a sopravvivere.

Mi trovavo bene in quell'ospedaletto. Fra que-sti russi e quelli del casermone di Rembertovla differenza era abissale. Qui era la genterussa nella sua autenticità che mi conqui-

stò sin dal primo momento. Là era l'ingessata, buro-cratica ufficialità che rendeva scostante ogni approc-

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Fuochi artificiali e personaggi che ricordo con struggente nostalgia

cio. Per di più, a peg-giorare le cose, arrivòPaolo Robotti, co-gnato (ma alloral'ignoravo) diPalmiroTogliatti, in unafiammanteuniforme rus-sa. Nel grossocapannoneche serviva damensa fummotutti invitati etutti andammocomprensibil-mente curiosidi ascoltare lavoce di un ita-liano fuggitodall'Italia per viadel fascismo e datanti anni residentenell'Unione Sovietica.Robotti (ma anche que-sto allora non lo sapevo) ave-va anche conosciuto le galeredi Stalin ed era anche stato dura-mente torturato, ma questo non lo ave-va piegato né aveva minimamente scosso lasua fiducia nell'Urss, né tanto meno nel Partito comu-nista.

Quelli erano i tempi e quelli erano gli uomini,come recitava il titolo di un romanzo diOstrovski, temprati nell'acciaio e, come l'ac-ciaio, per nulla flessibili, nonostante si defi-

nissero seguaci della dialettica. Il catechismo della“Storia del Pc(b)”, d'impronta rigorosamente stalinia-na, era il loro vangelo. Il discorso che fece non si discostava da quella linea eproprio per questo era il meno indicato per quell'uditorio,poco propenso ad accettare che tutto fosse nero in Italiae negli altri paesi capitalistici, Stati Uniti compresi, etutto radioso nell'Unione Sovietica. Avesse detto la verità: la verità dei sacrifici immani,dei milioni di morti, delle città e dei villaggi distrutti dainazisti, della resistenza eroica, della fame e del freddo,dei torturati e degli impiccati e della terribile miseria pro-dotti dalla guerra, non so se ci avrebbe conquistati, macerto sarebbe risultato più convincente. Mi trovavo bene in quell'ospedaletto dove mi colse lafine della guerra. Grande festa nel quartiere di Praga, il solo rimasto in pie-di a Varsavia. Strepitosi fuochi di artificio la sera che noi

vedemmo dalla finestra.“Ora tornerai presto al

tuo paese, nella tuabellissima Italia” midisse il maggioreAnton Pavlovic,che, poco prima,era entrato nellanostra cameracon due botti-glie di spuman-te georgiano, lochampagne so-vietico. “Le hotenute per que-sta occasione -disse - per fareassieme, diciamo

così, uno storicobrindisi alla pace.

E oggi è proprio sto-rico il nostro brindi-

si, non è per niente esa-gerato l'aggettivo, sono

quattro anni che aspettia-mo questo giorno, noi vivi”.

C’eravamo tutti in quel-la stanza, malati epersonale sanitario etutti alzammo i bic-

chieri felici. Non tutti. Mancava l'interprete, inutil-mente cercato in tutte le stanze dell'ospedaletto.Ricomparve molto più tardi e quando gli chiesi comemai si fosse assentato: “In quei momenti - mi disse -mi sono visto davanti agli occhi i miei morti e in te-sta a tutti mia figlia, quella povera bambina che misorrideva venendomi incontro. Come potevo restare convoi, guastare la vostra allegria? Dovevo andare in unposto dove non c'era nessuno per potermi sfogare nelpianto. Ma ora eccomi qui perché nonostante tutto lavita continua. Però non tornerò a Riga. Non potrei sopportarlo. Chiederòdi poter insegnare in un'altra qualsiasi città, comunquefuori dalla Lettonia, sai perchè? Sono stati fascisti let-toni, inquadrati nelle SS tedesche, ad arrestare la miafamiglia”.Così, per me, terminò quella giornata indimenticabiledel maggio di 58 anni fa. L'Italia era ancora lontana. Soltanto ai primi di set-tembre iniziò il viaggio di ritorno, che durò un intero me-se, attraverso l'Ucraina, l'Ungheria, l'Austria. Prima,da Varsavia, ci avevano trasferito a Sluzk, nellaBielorussia. Ma questa è un'altra storia, peraltro rac-contata magnificamente, nella “Tregua”, da Primo Levi.