27
Cap. 1 Dialogiche - Roma/Meruri Qualche mese prima del mio ultimo viaggio in Brasile (marzo 05) era successo un fatto singolare. Mi erano venuti a trovare in facoltà sei bororo accompagnati da una museologa brasiliana cui avevo dato alcuni consigli per la sua tesi di dottorato. L’incontro era stato quasi eccessivo per bellezza e scambi di doni: loro mi offrono una collana rituale che si chiama bokodori inogi: due grandi unghie di armadillo (tatu) unite al centro da resina nera, con un laccio di cotone rosso da mettere intorno al collo. Akaruio Bokodori è anche il nome di un eroe mitico di un clan dallo stesso nome, che si è potuto estendere a tutti i bororo. Un nome su cui ha fatto le celebri ricerche Lévi-Strauss sul crudo e il cotto, e che quegli stessi bororo offriranno dopo anche a lui. Ovviamente mi sembra eccessiva questa relazione, forse con un unico passaggio significativo che sottolinea una differenza forte non prevista dal grande etnologo: questi bororo, anziché tristi e in via di sparizione, stanno rappresentando la loro cultura secondo procedure innovative rispetto alla sua antropologia tradizionale non solo in quanto “antropologia strutturale”: cioè essi stessi costruiscono i loro oggetti per l’occasione, li collocano in una museo nella loro aldeia e poi – in quello stesso anno – li esportano al museo delle culture di Genova. È il tema dell’autorappresentazione che Lévi-Strauss non poteva certo assumere nelle sue ricerche strutturaliste e che ora sta sconvolgendo metodologie e linguaggi accademici. Devo dire che è anche il mio tema. Foto n. 1: Leonida, Kleber, Jerson nella mia Facoltà a Roma mi offrono il Bokodori

Dialogiche

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Missione Salesiana, Meruri, Mato Grosso, Brasil Bororo Massimo Canevacci

Citation preview

Cap. 1 Dialogiche

- Roma/Meruri Qualche mese prima del mio ultimo viaggio in Brasile (marzo 05) era successo un fatto

singolare. Mi erano venuti a trovare in facoltà sei bororo accompagnati da una museologa brasiliana cui avevo dato alcuni consigli per la sua tesi di dottorato. L’incontro era stato quasi eccessivo per bellezza e scambi di doni: loro mi offrono una collana rituale che si chiama bokodori inogi: due grandi unghie di armadillo (tatu) unite al centro da resina nera, con un laccio di cotone rosso da mettere intorno al collo. Akaruio Bokodori è anche il nome di un eroe mitico di un clan dallo stesso nome, che si è potuto estendere a tutti i bororo. Un nome su cui ha fatto le celebri ricerche Lévi-Strauss sul crudo e il cotto, e che quegli stessi bororo offriranno dopo anche a lui. Ovviamente mi sembra eccessiva questa relazione, forse con un unico passaggio significativo che sottolinea una differenza forte non prevista dal grande etnologo: questi bororo, anziché tristi e in via di sparizione, stanno rappresentando la loro cultura secondo procedure innovative rispetto alla sua antropologia tradizionale non solo in quanto “antropologia strutturale”: cioè essi stessi costruiscono i loro oggetti per l’occasione, li collocano in una museo nella loro aldeia e poi – in quello stesso anno – li esportano al museo delle culture di Genova. È il tema dell’autorappresentazione che Lévi-Strauss non poteva certo assumere nelle sue ricerche strutturaliste e che ora sta sconvolgendo metodologie e linguaggi accademici. Devo dire che è anche il mio tema.

Foto n. 1: Leonida, Kleber, Jerson nella mia Facoltà a Roma mi offrono il Bokodori

Infatti, cosa sorpendente per il sistema tassonomico delle collezioni museali a carattere etnografico, nel catalogo accanto al nome dell’oggetto rituale c’è anche quello della sua autrice. Leonida Akirikurireudo. E la stessa Leonida – che è appunto una donna – sta accanto a me. È un soggetto, che parla, produce, si interpreta non solo attraverso i propri rituali, ma anche con le proprie riflessioni. E i propri viaggi tra Parigi, Genova e Roma. Il sistema di classificazione dei nomi brasiliani mi ha sempre affascinato per la loro assoluta indifferenza rispetto alla filologia, specie classica. Anziché scandalizzarmi o farmi sottolineare l’assenza di storia e di vestigia, ho sempre sentito anche dentro questi nomi una salutare voglia di inizare da capo con forza e immaginazione. Per cui non mi sorprende nè tantomeno mi desta ironia, il trovarmi di fronte a una donna bororo che si chiama Leonida, uno dei re spartani più glorificati come sempio di virtù guerriere e democratiche, e – insieme - Akirikurireudo. Questo è il Brasile: la coesistenza sincretica di sistemi di classificazione nominale profondamente diversi: uno eurogreco e l’altro bororo. Avere più radici, più identità, più storie può essere complicato e anche doloroso. Ma è anche di una potenziale vitalità che sovverte ogni staticità nominalistica e purezza filologica.

E allora prendo enormemente sul serio l’invito che Akirikurireudo mi fa di venire a trovare lei e i suoi compagni nell’aldeia di Meruri. Nel Mato Grosso. Dopo alcuni anni di mie incertezze sul

Brasile, per cui avevo molto rallentato le mie visite e annullato ogni ricerca, questa volta sento che si è aperto un nuovo ciclo.

Sì, Leonida, certo che verrò.Acccanto a lei, ci sono altri due bororo – più giovani - che mi colpiscono per il modo

gentile e fermo con cui affermano la loro voglia di non demandare ad altri la narrazione della loro cultura. È qui che si ripresenta con delicatezza e forza il tema dell’auto-rappresentazione. Per me è il massimo che si possa chiedere ad un antropologo: affrontare il tema della svolta insieme ai soggetti che questa stessa svolta stanno compiendo da tempo. Si chiamano Kleber e Jerson. Anche Kleber mi ricorda qualcuno che ha a che fare con guerre e rivoluzioni.

- Leonida. Ora è proprio marzo e il mio aereo atterra all’aeroporto di Campo Grande, nel Mato Grosso

del Sud. Ad attendermi c’è Aivone, la museologa che avevo seguito nel dottorato che ora ha idee e finanziamenti per nuove prospettive museografiche, e una giovane studentessa borsista di paleoetnologia che si vuole aprire all’etnografia sul campo. Si chiama Viviane e mi sembra molto seria e alquanto subordinata alla mia amica che è forse la sua professoressa. Fuori un grande fuoristrada Land Rover. Dobbiamo fare circa 800 km e si parte subito. Dopo Rondonopolis – la città di Rondon, generale etnografo di madre bororo che iniziò l’esplorazione moderna del Mato Grosso - la strada diventa un percorso minato, strapieno di buche, spesso voragini pericolosissime, con decine e decine da camion che compiono zig zag per evitare i crateri. Questi camion insieme alle piogge (le celebri piogge di marzo) sono responsabili di questo disastro: un impercettibile buchino diventa una voragine dopo che ci passano sopra per ore e ore questi bestioni. È un continuo sfilare e sorpassare o evitare questi bestioni, che sono il sintomo più concreto di quanto sta sconvolgendo l’economia e non solo locale. Ero stato in Mato Grosso sei anni prima ed era uno stato tra i più poveri del Brasile, caratterizzato da una forte immigrazione contadina interna dal sud per tentare di far decollare l’agricoltura, e quindi quasi tutti di origine italiana (veneta) o tedesca (1) nota su LS). In questi pochi anni l’oro verde ha ricoperto un terreno fertilissimo e pianeggiante, un cerrado: la soia. Con la possibilità di fare persino 3 raccolti l’anno, il Mato Grosso è diventato capitale mondiale della soia, enormi edifici industriali costeggiano le strade, per la raccolta e una prima lavorazione del prodotto. Le multinazionali sono presenti insieme alla questione delle modificazioni genetiche. La soia straripa. Cerca di invadere anche le riserve indigene. Alcuni cacique xavante sembrano interessati a gestire questa invasione, forse una delle più pericolosa dopo quella dei fazendeiros tradizionali e dei garimpeiros. La soia è dappertutto. Le buche che diventano crateri dipendono dal raccolto (zafra) appena fatto e, non essendoci altro mezzo di trasporto (i treni sono assenti), tutto si sposta su gomma e questi Tir masticano km e buche. L’opera di riasfalto, che - timida - incontriamo su qualche tratto è assolutamente insufficiente per aggiustare le cose. Anzi. L’asfalto nuovo è velocemente estratto dalle pesanti gomme che circolano senza soste. Su questo tratto guido io senza alcuna esperienza di fuori strada. Ma Aivone si intimidisce col buio. Si arriva a Primavera: una città che ha qualche decennio, che avevo lasciata come una sorta di zona liminoide e che ora si presenta molto più grande e moderna. È nata in pochi anni una città. Anche questo è il Brasile e il nome di Primavera in qualche modo le si addice. La mattina dopo partiamo presto per la riserva bororo. Ma prima il padrone del motel mi regala il calendario: è scritto in italiano e portoghese perché anche lui è arrivato qui anni fa per fare il contadino e ora è un piccolo proprietario. Lungo la strada riconosciamo alcuni xavante che lavorano in città, altri forse sono bororo. Tra le due “nazioni indigene” vi è una secolare ostilità. Da tempo si aggiunge la questione della cachaça, che sta diventando sempre più uno dei problemi più drammatici accanto al recente uso di altre sostanze. Ma non solo per bororo o xavante…

Foto n. 2: la soia: l’oro verde

Foto n. 3: i silos della soia

Arriviamo a Meruri verso l’ora di pranzo. È un cerrado che espone alle spalle una bella montagna ricoperta di verde a forma conica. È lei Meruri da cui deriva il nome dell’aldeia. Ricordo il disegno di Colbacchini riprodotto da Lévi-Strauss e ora la situazione è diversa e si presenta così: in linea con il morro c’è un bellissimo albero ancora senza i suoi bei fiori rossi. Alla sue spalle un recinto che si stringe in un ponte stretto su un piccolo fosso. Un ponte forato, per impedire agli animali di attraversarlo, forse non solo agli animali. Dopo il ponte, infatti, c’è la missione dei salesiani, pulita ordinata, che mi appare subito segnata da una strana funzione ambigua. Al di là dell’albero l’erba si fa subito incolta e approssimativa, lo spazio si apre sul villaggio bororo che ha al centro una casa, è il baito, la casa degli uomini in mattoni e squadrata. Le altre malocas sono case tipo unifamiliari, sempre in mattoni.

Questa relazione spaziale tra le due aldeias, quella salesiana e quella bororo, mi dà una strana sensazione, come se non fosse chiaro chi stesse controllando chi. Chi è il controllore e chi il controllato.

Si decide di andare a trovare Leonida e con mia sorpresa si sale in macchina. La maloca non è distante e trovo strano prendere il mezzo per spostarci, non per un pregiudizio anti-tecnologico, tanto meno per le mie abitudini alle lunghe camminate, forse per un amore improvviso verso tempi lunghi e spazi lenti. Incrociamo Jerson che ci saluta con calore. Ha un bel sorriso, aperto e cordiale: è lui che ci dirige alla maloca che ora è una casa appunto di tipo unifamiliare. Entriamo dentro una stanza grande con la tv accesa e una bororo sdraiata sul pavimento a guardare la telenovela; una camera da letto con materassi per terra (non vedo amache, as redes); una piccola cucina e sul retro

la lavatrice. Tutte le altre persone stanno fuori, un cortile esteso tra altre case, le donne a preparare qualcosa in grandi pentoloni posti sul fuoco a legna e, seduta sul patio, c’è lei, Leonida. Timida e decisa, sta lavorando a degli ornamenti plumari e si alza subito per abbracciarmi contenta. Si sta preparando una grande festa per la notte, dice, indicando le donne che girano intorno ai pentoloni tirando fuori strane cose argentee. È la festa della nominação per tre bambini. E quello è un dolce, po de arroz.

Foto n. 4: la collina Meruri e sotto la missione salesiana

Saliamo tutti in macchina e torniamo alla missione. Lì ci vengono assegnate delle piccole stanza, pulite e con l’indispensabile. Ma io esco subito. Sono curioso. Seduta per terra, con le spalle appoggiate al muro, Leonida ha ripreso a lavorare in questo modo: pone su una bottiglia di plastica vuota l’ornamento che si fissa sulla superficie ricurva; dentro una busta ci sono piume di diversi colori e grandezze, a fianco una boccetta con la resina. Leonida sceglie con cura una piuma, ne misura le proporzioni rapidamente, poi con un bastoncino raccoglie la resina e la spande sulla base dell’ornamento fissata sulla bottiglia vuota che tiene in grembo, quindi vi adagia la piuma che si incolla subito. In poco tempo è pronto un bellissimo braccialetto dai colori sgargianti e dalle proporzioni perfette. Le chiedo il permesso di fotografarla.

Foto n. 5: Leonida nell’aldeia di Meruri mentre crea la sua arte plumaria

- Jerson.

Aivone e Viviane sono assenti, forse nelle loro stanze e così approfitto della venuta di Jerson per fare una passeggiata nel villaggio bororo a piedi. Siamo soli, cominciamo a parlare e la discussione cade sul pajé.

Jerson mi spiega: “In questa sua aldeia non c’è un pajé, dopo la morte dell’ultimo non sono riusciti a trovarne un altro. In questi casi, quando è necessario, viene da un’altra aldeia. Una volta ogni clan aveva il suo cacique – che è nominato come il vereador nelle città (sindaco) - e il suo pajé, che era l’autorità più prestigiosa. Lo shamano. È lui che si ascolta su ogni cosa, anche su tutto quello che riguarda la salute”. Alla mia domanda se lui volesse esserlo, mi risponde che il problema è diverso: “non si tratta di scegliere di fare il pajé: lui è chiamato. Comincia a manifestare particolari caratteristiche, la più importante delle quali è l’avere visioni che anticipano il futuro. Nessuno può decidere di essere pajé: si è chiamati dallo spirito, per cui anche se lo volessi, non potrei esserlo per mia volontà. Ora da noi manca e allora si chiama da un’altra aldeia”.

In questo modo egli acquisisce una enorme autorità, specie quando il futuro concorda con la pre-visione. Insomma, il pajé è sempre un medicine-man che cura i rapporti tra i vivi e i morti, per cui sta dentro una molteplicità di dimensioni che hanno tutte a che vedere con il sacro, piuttosto che con quella che noi chiamiamo religione come si vedrà successivamente. Egli è quindi anche custode di molte tradizioni, specie di canti rituali che per i Bororo in particolare sono fondamentali. Questo complesso rapporto che essi hanno tra la vita e la morte, che non si può tradurre nei concetti occidentali senza snaturarlo profondamente, definisce il loro conflitto con i salesiani: e cioè con un corpus dottrinario scritto, con i rituali prescritti, con ruoli sacerdotali ascritti, con luoghi inscritti per tutto questo.

Sono sempre stato dell’avviso che le città come le aldeias si conoscono meglio camminando. E così è anche questa volta. Quello che mi sembrava uno spazio scomposto, pieno di erbaccia cresciuta disordinata, scopro che è circondato da filo spinato. Domando il perché del recinto e la risposta mi sorprende. Premetto che tradizionalmente lo spiazzo che sta al centro del villaggio è sempre considerato sacro.

“La protezione, spiega Jerson, serve a far crescere bene l’erba (gramado) prima di tagliarla rasa: perché quello è il campo del fute-bol. A volte ci sono le partite di calcio con gli xavante che spesso finiscono in rissa, si strappano le magliette e lui una volta ne aveva tre”. Isolata dalle altre case e molto più grande vi è la casa degli uomini che sta vicino al campo di calcio. Purtroppo Jerson in quel momento non ha la chiave, per cui non possiamo entrare: “Una volta i missionari dicevano che la casa degli uomini era la casa del diavolo. Così l’hanno bruciata. Adesso non la pensano più così. Una volta ci si portavano anche donne indie” – “Prostitute?” – “Nao!!!”.

Passa un cane magrissimo: “Il cachorro è simbolo dei bororo. I nostri clan sono otto e la parentela è matrilocale. Si

difendono sempre i membri del proprio clan” – “Sempre sempre?”, domando. Jerson, che è anche professore, riflette seriamente e mi risponde in un modo che mi stimola una profonda considerazione sui processi di mutamento in corso: “No, a scuola devo essere giusto”.

Poi Jerson mi porta a visitare la sua casa come si fa con qualsiasi ospite. È in ordine e pulita, due stanze con un patio sul retro, provvista di ogni tecnologia. Quando andiamo sul retro, emerge la condizione più comunitaria che coinvolge donne e bambini. Su un grande calderone sta bollendo qualcosa, che viene girato con un mestolo, di lato c’è un pilao che è stato visibilmente usato da poco per una patina bianca che lo ricopre di fresco. Il pilao una specie di grande mortaio di legno dove viene pestato, come in questo caso, il riso per ridurlo in polvere, bollirlo, farlo raffreddare e così diventa un panino bianco tipo marmo. Un tavolo ne è pieno e i bambini cercano continuamente di prenderne uno per mangiarselo. Le donne sembrano sorvegliare questa po de arroz in modo molto tollerante. Il dolce deve servire per questa sera, quando ci sarà la grande festa della nominação che durerà tutta la notte.

Jerson, che ha sempre un dolce sorriso sulle labbra, me ne offre uno. Sono indeciso, ma so bene che lo devo prendere con piacere e anche mangiare. Speriamo bene. Il sapore è buono, un po’ stopposo, come mollica di pane dal sapore di riso. L’acqua la rifiuto, è sempre una precauzione bere

solo acqua purificata. Vedo tanti bambini, dolcissimi, sempre in prima fila a farsi fotografare, e molto belli. Dice: “Meno male che ora anche i bororo come molte altre popolazioni indigene sono in una fase di crescita demografica, dopo tanto tempo”. E mi domando ad alta voce (e ingenuamente) da quanto tempo ci sia stato questo decremento, pensando alla storia recente. Jerson mi guarda, con quel sorriso tra dolce e il sorpreso, e mi risponde:

“Ma il decremento c’è dal 1.500!”

- Kleber Nell’aldeia c’è un calmo fermento per il rituale che andrà avanti per tutta la notte. Nella

zona missionaria, incontro Kleber nella stanza che è il suo regno: quella audiovisuale. La sua passione è infatti il video, rappresentare i rituali bororo dal suo punto di vista. Ed non solo. Questo significa che il mutamento dello sguardo della ripresa – che ormai tutti sanno non essere oggettiva bensì sempre influenzata da chi dirige l’inquadratura, sceglie i piani sequenza e soprattutto monta le immagini – non è una questione tecnica. Su questo occhio tecnologico si concentra autonomia, critica e potere. Rimango impressionato dalla chiarezza in cui questi livelli si intrecciano in Kleber, che me li spiega con una calma determinazione.“Mi ha sempre appassionato filmare. Ma il problema non è solo questo. Il problema è che noi bororo dobbiamo appropriarci delle nostre storie. Non possono più essere solo antropologi e missionari a raccontarci. Le loro scritture non coincidono con le nostre visioni del mondo. Specie i salesiani, che pur ci aiutano su tante cose, ci costringono dentro le loro visioni che significano evangelizzazione. In questo modo non è tanto la penetrazione del cattolicesimo che ha un effetto devastante, quanto la costante distruzione delle nostre visioni, dei nostri riti, della nostra storia e della nostra cultura… e allora io ho iniziato a filmare perché in questo modo voglio mostrare l’importanza e l’autonomia della nostra cultura, senza che sia modificata da un intervento esterno. Noi abbiamo la nostra religione e i nostri rituali. Non possiamo assistere alla loro dissoluzione. E il mio strumento fondamentale è questa”.

Mi mostra la sua videocamera digitale come un’arma. Gli dico che per me ha ragione e che questo è un processo che ho visto emergere anche tra

gli Xavante, vicino al suo villaggio, a Sangradouro, specie in un giovane che si chiama Divino Tserewau. Kleber glissa su Divino, capisco subito che lo conosce e che non ama essere messo in relazione con uno xavante per i decennali conflitti con i bororo. E mi chiedo se proprio questa benedetta videocamera non potrebbe essere lo strumento finalmente trovato per andare oltre e trovare punti di convergenza. Visioni autonome in video. Mi posiziono su un piano di ascolto e non di indirizzare quello che è il mio punto di vista. Penso che dovrà emergere dalla nostra relazione dialogica una soluzione scelta da lui e non proposta da me. Altrimenti è come cambiare di segno a un medesimo modello di indottrinamento, magari “politicamente corretto” ma sostanzialmente poco diverso dai salesiani.“Filmando i nostri rituali, uso la videocamera come uno strumento di lotta politica. E sono io, cioè io come bororo, a dover esprimere quello che penso e vedo. Non loro”.

Foto n. 6: Kleber

Sorride, Kleber, mentre mi dice con tranquillità una verità così trasparente e relativa. Relativa cioè non a una supposta neutralità di chi filma, bensì relativa al linguaggio del video che esprime il punto di vista del soggetto che vive quella cultura. Questa impostazione non vive in quel circolo ermeneutico di Geertz (“interpretare interpretazioni”), forse avanzato all’epoca in quanto collocava nel soggetto che vive una determinata cultura la prima istanza interpretativa sulla semplice base dello svolgimento rituale; mentre la seconda apparterrebbe sempre all’antropologo. È una prospettiva troppo neutrale e che non risolve la questione determinante di un posizionamento non oggettivo da parte del ricercatore quando si debbano compiere scelte precise non eterodirette: qui c’è una precisa svolta anche metodologica basata sulla critica culturale e l’auto-rappresentazione: quindi, non solo sul riconoscere che il primo livello di ogni interpretazione si collochi nel soggetto portatore della sua cultura, quando poi si sa bene che è il secondo livello quello che conta: l’interpretazione dell’intepretazione antropologica. Qui Kleber (e Jerson e Leonida) mette in discussione questa neutra circolarità dell’interpretazione. È Kleber che vuole filmare perchè in questo modo è sulla sua soggettività bororo che si sposta il potere del linguaggio e della rappresentazione, mettendo in discussione chi interpreta chi in tutti i vari livelli. Insomma qui Kleber sta interpretando non solo se stesso (troppo ovvio e facile): quanto sta interpretando e criticando la penetrazione invasiva dei salesiani e anche di qualsiasi altro soggetto comunicazionale che cerchi spostare il potere della rappresentazione dal suo sguardo interno – suo o di ogni altro bororo – a quello esterno. Anche fosse di un antropologo progressista.

Insomma la tecnologia fa compiere un salto alle forme della narrazione, spostando il potere del linguaggio dalla scrittura – che è in sé determinata da una logica immanente del sapere occidentale – alla video-comunicazione. Le nuove tecnologie favoriscono i salti autonomi tra soggetti che sono stati sempre e solo narrati e interpretati attraverso il potere della scrittura, a soggetti che si narrano e si interpretano perché si filmano. “Ci” filmano …

Così mi racconta questa storia, mentre mi mostra alcune sequenze da lui filmate.- “Qui vi sono ormai due tipi di funerale: quello bororo e quello cattolico. Il nostro funerale è legato al rapporto con la morte e anche con il modo in cui “conviviamo” coi nostri morti. Coi nostri antenati. I salesiani non vogliano che noi facciamo il nostro funerale. Dicono che è pagano. E così ci impongono il loro che è cattolico. E allora è nata una specie di lotta sotterranea e complicata. Sai cosa è successo? Che mandavamo le bare alla chiesa, per fare appunto il loro funerale. Ma erano vuote! Il cadavere stava al fiume per essere lavato e poi impiumato secondo la nostra tradizione. Poi i salesiani se ne sono accorti e hanno imposto che le bare arrivassero aperte dentro la chiesa. In modo che fosse ben chiaro che il cadavere stesse là. Ma è giusto tutto questo?”- “Ma non potete decidere di fare il vostro funerale tradizionale” – domando.- “Sì, certo. Chi decide ora sono i parenti del morto. Io ho già deciso il mio funerale” - e mi sorride serio e ammiccante – “solo che ci possono essere molti motivi per decidere il funerale cattolico, anzi salesiano. Olha, Massimo,vedi, tutto questo si relaziona al pajé”

Nell’evocare il pajé il suo viso si illumina. Il pajé ha chiaramente la sua ammirazione e il suo posizionamento per così dire “politico”. La forza del pajé non sta tanto nel ristabilire la tradizione: bensì nel costruire autonomamente il futuro. Essere bororo significa avere un pajé. Di nuovo ritorna come diventare pajé o meglio come essere chiamati a diventare pajé. Come essere scelti da indizi complessi e significativi per tutti. Mi rendo conto che qui si apre un altro drammatico squarcio sull’essere bororo oggi. Il pajé, infatti, non è solo lo sciamano che accompagna con i rituali stabiliti dalla tradizione il morto, non è solo il prescelto che riesce ad andare oltre la condizione “materiale” per attraversare il regno “spirituale” dove vita e morte si intrecciano, mettendo a rischio la vita stessa di chi è stato prescelto per attraversare tutto questo e salvare sia la vita del singolo che la sopravvivenza dell’intero villaggio. Vi è un complicato rapporto che lega il pajé con i saperi delle malattie e di come curarle utilizzando le erbe, i cui poteri non hanno niente a che vedere con lo stereotipo dello “stregone” che compie rituali apotropaici per

scacciare il male con il male. Qui c’è la tradizione di un sapere medico e curativo che fa gola alle multinazionali farmaceutiche, che da tempo stanno intervenendo pesantemente in Brasile in quel campo che è la etno-botanica. Nulla di meno “esoterico” o “selvaggio” si possa immaginare. Questo è un sapere che è messo in discussione da una medicina come quella occidentale che ha enormi poteri e capacità ad intervenire su specifiche patologie, specie quelle che lo stesso bianco ha portato “spontaneamente” con sé: raffreddore, morbillo, vaiolo, cui i nativi non hanno anticorpi e per cui specie in passato sono morti a migliaia di migliaia e che hanno trovato impreparati i saperi degli sciamani. Insomma sono state queste nuove malattie “bianche” che hanno sconfitto il potere del pajé, molto più della forza delle armi o dell’evangelizzazione. Malattie nuove e incomprensibili dai saperi shamanici. Come se la natura si rivelasse improvvisamente troppo incontrollabile e che sconfiggeva ogni tentativo shamanico di curarla. Dall’invisible vaiolo nasce la sconfitta shamanica e la spiegazione di numerosi eccessi che si sono verificati per tentare disperatamente di ricollocare la natura al suo posto, come ad es. le stragi dei bisonti senza motivazione da parte degli indiani delle pianure. Ma non era la nautura a rivelarsi improvvisamente troppo forte per il potere shamanico: era la cultura, quella che non si poteva fronteggiare coi saperi della tradizione fito-terapeutica perché bianca… Da tutto questo nascono le difficoltà a trovare vocazioni. In quanto si “è chiamati” non solo per favorire le cosmogonie autonome con i relativi rituali, quanto anche per affrontare quello che è ineludibile per ogni essere vivente: la malattia e la morte. Ma se malattia e morte in gran parte derivano da un morbo invisibile e imbattibile portato da “loro”, la forza terapeutica shamaica vacilla. A nulla servono danze o piante contro il vaiolo.

Queste mutazioni culturali e bilogiche assumono un’importanza particolare per i Bororo, il cui funerale è uno dei più complessi e grandiosi siano mai inventati nelle diverse culture umane.“Io sono un testardo – continua Kleber - ho le mie idee, e qualcuno mi prende anche in giro per questo. Ma io voglio andare avanti su questa strada: filmare la nostra cultura, senza intromissione dei salesiani e di nessun altro. Sono un po’ isolato ma credo fermamente in queste mie scelte”.

Certo, carissimo Kleber, certo che fai bene e hai più che ragione, anche quando io purtroppo non starò qui a poter condividere queste scelte: “Sai che Kleber era il nome di un generale francese durante la rivoluzione?” – “No, non lo sapevo, ma mi fa piacere saperlo ora” – Già, mi pare proprio che Kleber sia il tuo nome adatto”. Kleber … Klebér …

- nominaçãoSi è fatta sera e insieme con Kleber vado di lato alla casa degli uomini dove si svolgerà il

rituale della nominação. Sono nati tre bambini di recente a Meruri e il rituale prevede una notte piena di canti, danze e felicità. Il pajé è arrivato da un altro villaggio perché, come detto, Meruri attualmente non ha un suo proprio sciamano. Kleber ha già la videocamera in azione e inquadra un bororo che cerca di mettersi l’ornamento plumario (uno dei tanti per cui sono famosi) in testa. Gli cade e ride divertito insieme agli altri. Mi ha sempre colpito questo misto di estrema serietà e una distaccata ironia nei rituali indigeni, anche tra i vicini Xavante per esempio, che non è facile da intendere subito. Quando finalmente lui ci riesce, prende una specie di flauto traverso (ika) e suona alcune note, poi si mette di fianco e fa alcun passi rapidi laterali, come danzati, verso una madre che ha il figlio in braccio. Lo prende con dolcezza e sorridendo lo solleva in alto, in un cielo dove stanno comparendo stelle boreali luminosissime. Poi comunica il nome, a lui e a tutti i presenti. È un momento di diffusa felicità. Si elevano grida e battiti di mano. “I bambini sono prima spalmati di resina in testa, su cui si mettono le piume simbolo del clan di appartenenza. Dietro invece solo piume di arara. Quando il padrinho lo solleva, il bambino è un arara”, mi dice Kleber mentre lui filma e io fotografo le sue inquadrature.

Foto n. 7: Kleber filma il rituale

Per tutte e tre le volte si svolge lo stesso rituale; ogni volta cambia padrino e il secondo dei quali è proprio Jerson. Improvvisamente sento che qualcosa si sta come allentando. Non accade nulla di particolare, eppure qualcosa di grave deve essere accaduto. L’atmosfera di gaiezza finisce. Tutto rallenta e poi si ferma apparentemente senza motivazione alcuna. La risposta alla mia domanda prima che sia pronunciata arriva seria e preoccupata. Direi quasi lenta. È morta una donna bororo nell’ospedale. Cirrosi epatica. Una giovane donna di circa 36 anni dal fegato intaccato dalla cachaça. E allora le persone si sono fermate. Mi spiegano che la situazione è grave, molto grave, perché la morte è arrivata mentre si svolgeva la festa per la vita, il rito della nominação.

n. 8: Gerson indossa il pariko come padrino al rituale della nominação

e mentre suona il flauto ika e solleva il bambino

Emerge un pesante quanto drammatico interrogativo: chi vince, la vita o la morte? La festa può continuare come previsto per tutta la notte, oppure si deve dare inizio al funerale? E se sì, a quale funerale? La decisisone è complessa e riguarda in primo luogo i familiari per il tipo di funerale e, fondamentalmente, il consiglio degli anziani per dare la precedenza alla vita o alla morte. Non ci rimane che aspettare. Ci sediamo con le spalle alla casa degli uomini, Kleber, Viviane e anche il sacerdote salesiano, Marcelo, un giovanissimo quanto ingenuo ragazzo appena arrivato dal seminario, che ha dovuto sostituire il più esperto missionario partito improvvisamente. Salta anche il gruppo elettrogeno che avrebbe dovuto accompagnare la festa. Tutto si fa di un buio e di un silenzio enormi. Si accendono ancora di più le stelle. Lo scenario è straordinario. La Croce del Sud, la luminosa costellazione che il Brasile ha collocato al centro della sua bandiera, il Cruzeiro do Sul. Le Tre Sorelle, tre stelle allineate obbliquamente sull’orizzonte basso.

Marcelo e Viviane cominciano a discutere pacatamente di teologia e di biografia. “Perché ti sei fatto prete?” – domanda Viviane.“Ho visto tanti casi di sfruttamento da quando ero bambino che mi hanno commosso. E quando sono diventato più grande è arrivata la chiamata. Non ho scelto, sono stato chiamato”.

Lei non è soddisfatta dalla risposta che sembra replicare quella shamaica per i Bororo e continua a fargli domande: “tutti noi abbiamo visto e conosciamo bene quanto sfruttamento, dolore e miseria c’è nel nostro Brasile, ma non per questo diventiamo preti o monache”. Questa obiezione e quella domanda continua a girare e Viviane rimane sempre insoddisfatta dalla risposta così liscia e per bene di Marcelo. Lei vuole andare in profondità, ma questa discesa le è impedita. Quello che emerge è che anche per Marcelo vale il principio dell’ “essere scelto”. O prescelto.

Il cielo stellato è sopra di noi, ma non c’è libertà dentro di noi, o forse non c’è più un “noi”: ci sono tanti “io” o tanti “ii”. Vi è una idea di libertà in senso religioso che continua ad essere intrusiva, evangelizzazione come portale di una libertà estranea al contesto e tale estraneità è rivendicata sulla base dell’universalismo che la presenza divina manifesta attraverso la missione dei salesiani. L’universale è più forte del particolare, come sempre. In questo senso, la stessa metafora kantiana del cielo stellato “sopra” immette una concezione della libertà “dentro” un soggetto che non è neutrale, bensì appunto universale. La poeticità tremante delle stelle è stata proiettata in una concezione implacabile come logica pietista che schiaccia ogni differenza, in quanto inutile, sporca, marginale o, al meglio, desiderosa “oggettivamente” di eliminarsi - purificarsi - entrando dentro lo spirito dell’universale. E lo spirito universale non può che essere uno. Uno. Marcello. È proprio e solo lui, il salesiano, che incarna la misione redentrice della verità evangelizzatrice. Marcelo è il vettore missionario dell’universale.

La discussione tra i due giovani, entrambi belli e tranquilli quanto appassionati dei rispettivi punti di vista, verte su altre cose, ma il senso è questo. Il diritto della chiesa a trasformare ogni differenza religiosa, rituale, comportamentale, amorosa, cosmologica dentro l’alveo della propria universalità. Una universalità propria.

Li ascolto in silenzio con lo sguardo alla ricerca di trame che legano disegni stellari secondo orditi di volta in volta diversi. Il gioco delle costellazioni. Comporre e scomporre le relazioni tra le varie stelle facendo emergere e scomparire in continuazione costellazioni. Forse le costellazioni mobili non orientano, forse disorientano. Forse staccare l’Oriente dall’orientamento è una operazione che sarebbe ora di fare. È tempo di muovere lo spazio stellare. È il decontrollo dello spazio che lo richiede. E il controllo dell’orientamento come produzione di dominio appartiene non solo all’attuale unica potenza militare sfacciatamente dominante, quanto anche all’asciuttezza spirituale. A Roma.

Arriva la scelta: ha vinto la morte.

Foto n. 9 : il dolce po de arroz

La festa è sospesa. I tanti panetti di po de arroz ritirati, così come le musiche prescelte, le danze possibili. La morte vince perché il funeral è più forte della nominação. Perché lo spirito della morta entrerebbe dentro la festa e la trasformerebbe in quello che non dovrebbe essere: un lutto. La morte sconvolge i rapporti interni alla vita e al suo senso profondo. Solo il funerale ha il potere di sospendere il conflitto continuo tra vita e morte, mettendo in scena una zona liminale che non è più quella definita (con un insospettato eurocentrismo) da Victor Turner, bensì – se vogliamo ancora usare i suoi termini bipolari da tempo obsoleti – totalmente liminoide. Ripenso sotto le costellazioni del cruzeiro do Sul al suo schema così banale (e dualista, banale perché dualista) da riflettere il perché sia stato ed ancora è così seguito: secondo lui, noi occidentali stiamo nell’era industriale e per questo abbiamo le individualità, il teatro ha consumato l’evoluzione dal rito, per cui i nostri limen non sono tali in senso stretto, bensì liminoidi, cioè “come se”, “affini a”, eppure del tutto diversi dalla tradizione. In quanto la vera zona liminale apparterrebbe solo alle popolazione pre-industriali, collettive e quindi senza soggettività (addio Kleber, Leonida, Jerson …), a ”etnie” tutte immerse nella pressante e omogenea pragmatica del rito che unisce ciò che normalmente è separato. Di conseguenza, i Bororo sono etnicizzati, anzi, ancora e sempre razzializzati; Marcelo e anche io (!) non abbiamo niente a che vedere con tutto questo, nessuno ci osserverebbe con i parametri dell’etnicità. “Noi” abbiamo compiuto il transito verso il liminoide, “loro” no, sono ancora e sempre dentro il liminale. Noi individuali, loro collettivi. Noi guardiamo il teatro, loro vivono il rituale. Noi spettatori, loro attori. Mi dispiace ma questo schema logico – basato proprio sull’uso linguistico di “from” … “to”, come dire una altra versione dell’evoluzionismo che muta sempre “dal rito … al teatro” - lo rifiuto totalmente e ciò che sta per accadere conferma in pieno l’urgenza pressante – politicamente ed etnograficamente non rinviabile – di mettere in discussione queste logiche dense di dominio dualista e universalista, razializzato e scientificizzato.

Ancora e sempre evoluzionista.Qui non è solo applicare la critica (perlatro giusta) di Rosaldo a Turner come uno dei suoi

maestri, secondo cui il rito non è in atto solo durante lo spazio-tempo in cui formalmente si mette in atto, bensì entra in scena prima, durante e dopo. Giusto. Il problema cui ci troviamo di fronte – drammaticamente, cioè come intreccio di ritualità e teatralità che il linguaggio non riesce a esprimere - è che i bororo vivono la contemporaneità esattamente come noi e, nello stesso tempo, secondo modalità culturali affini e diverse. Stanno dentro questa fase che possiamo definire post-industriale, per cui giocano al calcio, recitano drammi, mimano teatralmente il dominio coloniale, e ci stanno con le loro profonde differenze continuando a praticare rituali. Riti e teatri. Per questo il rito si spezza secondo le impostazioni “classiche” (razzializzate ed evoluzionizzate), il suo potere unificatore si scioglie secondo modalità che vanno affrontate di volta in volta.

Come sarà chiaro all’alba del giorno dopo.Ora arriva la notizia che la morte ha vinto, come ci si poteva ben aspettare. La festa per

questi tre bambini appena “nominati” è sospesa. Come se tutto questo fosse già chiaro, le persone si erano da tempo distaccate per andare nelle loro case. Lì rimaniamo noi quattro: un bororo che con intelligenza e diplomazia vuole mettere in discussione il potere degli altri, e in particolare dei

salesiani, oltre che di fazendeiros e politicanti (e di antropologi), nel rappresentare sia il passato che alita nei rituali, sia il presente che è inventato da loro come da qualsiasi altra popolazione con le proprie soggettività. Una giovane studentessa di archeologia ed etnologia di Campo Grande che mette in discussione con calma e fermezza i paradigmi della religione e delle discipline così come entrambe si sono “disciplinate” in ortodossia. Un altrettanto giovane salesiano che, preoccupato per quanto accadrà il giorno dopo, esprime con disarmente sincerità la sua angoscia: se al funerale di domani lui dovrà attaccare o meno l’idea blasfema di reincarnazione che (a suo avviso) è seguita ancora dai Bororo. Infine io, che esco dal mio silenzio ascoltativo per dire a Marcelo che sbaglia. Sbaglia profondamente quanto etnocentricamente. E pure linguisticamente.

Gli dico che lui non può applicare uno schema logico come quello della reincarnazione, che in Occidente ha tutta una serie di significati e di battaglie sul filo dell’eresia, ma che in questo caso è del tutto senza senso. I Bororo non praticano alcuna metempsicosi. Nel loro funerale quello che si ritualizza (e performa) è cosa ben diversa. Come è possibile che lui continui a vedere e a rinchiudere queste differenze culturali e cultuali dentro le gabbie di una “logica” esterna, altra, che utilizza ancora il concetto di “reincarnazione”? il funerale bororo ha un diverso sistema di logiche che lui dovrebbe studiare secondo il metodo dell’etnografia, anziché dominare con il potere dell’ortodossia.

Allora Marcelo, che mi appare sempre più preoccupato per tutti questi problemi che gli sono capitati addosso appena il suo superiore si è allontanato, mi domanda come fa a studiare antropologia e se gli posso spiegare il funerale bororo. Mi chiede anche se lo posso seguire nel dottorato. Gli rispondo in generale sul funerale e che lo seguirei con piacere, purchè affiancasse l’antropologia alla teologia e non la subordinasse. Lui sorride.

Vedo Kleber sempre più serio. Mi dice una cosa che mi emoziona molto e che Viviane mi ripeterà diverse volte. “Quando vai via, manteniamo un contatto. È importante per noi (e anche per me, penso io). In questa videocamera non c’è solo uno strumento che filma la mia cultura per ricordarla, come si fa a Rio o a São Paulo per le feste. Questa camera non è finalizzata al ricordo. A fissare un presente già passato. Questa camera è un mezzo, un linguaggio che io uso nella mia autonomia per produrre un presente che si muove, che non è fermo nel passato, che pure mi appassiona, che studio e voglio filmare per capire come sono le nostre tradizioni. Queste tradizioni non possono essere eliminate dalla religione cattolica. Filmo le tradizioni per modificare oggi – qui ed ora – i rapporti di potere politico e comunicazionale che vorrebbero farle sparire, con lo scopo di vivere la nostra storia e la nostra cultura con la nostra autonoma visione del mondo, con la mia individualità, dentro i processi di mutamento culturale, esaltando le nostre differenze, anche utilizzando questi strumenti vostri, che non sono neutrali, cioè che non hanno dentro solo la logica dell’Occidente, ma possono essere piegati ai nostri, ai miei interessi: dare visibilità alla mia cultura non in quanto museificata oppure omologata. Io, Kleber, sono la terza via. Anzi una via multipla”.

Questo dice Kleber. E Viviane ed io lo ascoltiamo guardandoci commossi da tanta chiarezza. Marcelo sorride perplesso ed enigmatico. Quando ci allontaniamo, Viviane mi fissa seria e mi ripete: “Non dimenticare quello che Kleber ha detto: lui ha bisogno di te”. In pochi giorni, quella che sembrava una studentessa subordinata alla sua professoressa, si è rivelata una persona autonoma e ricca di infinite potenzialità, schierata sulle posizioni dell’autonomia indigena.

- funerale bororoLa mattina si annuncia fosca. Marcelo è agitato, preso dagli scrupoli dell’ortodossia

evangelizzatrice, dalle esigenze di una ortopraxia di convivenza compromissoria, forse da qualche dubbio per un posizionamento rispettoso dell’autonomia indigena. Continuiamo a discutere mentre ci avviamo verso una delle più povere maloca, non tanto perché costruita coi materiali tradizionali (rami, foglie, fango) quanto perché in uno stato di quasi abbandono. La morta da tempo stava all’ospedale per la sua malattia, la malattia della cachaça, questo fuoco ardente che ti fa convivere

con la disperazione dell’abbandono, una cirrosi che le ha scomposto il fegato e portata – giovanissima – a morire così, nel giorno vitale della nominação.

Entro dentro da solo, evitando accuratamente di usare la mia camera. Al centro c’è la bara aperta, con lei “aggiustata” come se dormisse. Intorno scene di dolore contenute, specie per il rituale tradizionale bororo. Infatti, i familiari hanno deciso per il funerale cattolico. Fuori la maloca, bambini giocano rincorrendo piccoli cani e convivendo con il lutto.

Foto n. 10: la chiesa con il Cristo Bororo

Poco dopo, vado a visitare la chiesa salesiana, posta di lato alla missione, quello più vicino all’aldeia. Sullo sfondo vi è un grande dipinto che raffigura un Cristo nelle vesti bororo sollevato dal terreno, in elevazione spirituale su un ambiente ecologico simbolicamente definito come puro. Il grande diadema (pariko: penne e piume di arara dai forti colori blu, rosso e giallo oro, falco e pappagallo unite da resina) sulla testa sviluppa una raggiera verso l’alto, simmetrica a un’altra verso il basso di luce spirituale. Come dire: tra raggiera del pariko e raggi di luce vi è una affinità trascendente. Le braccia aperte in evocazione di una accoglienza per tutti, bracciali tradizionali (noe e-kera paru kajejwu); in primo piano, due giovani – un ragazzo e una ragazza – con il pappagallo (arara), mentre sullo sfondo di destra vola yoyoto, simbolo sia di uno spirito santo che muta localmente al posto della più euro-tradizionale colomba e sia del Mato Grosso; e a sinistra un Cristo in croce affiancato da una scritta bororo.

Poco dopo arriva un pick up con sopra la bara. Dentro poche persone che piangono in modo composto. La bara viene portata dentro e chiusa, cosa che mi si chiarirà dopo lasciandomi stupefatto, anche se già Kleber mi aveva anticipato tale possibilità. Marcelo entra vestito con dei paramenti bianchi che lo coprono sontuosamente dal collo ai piedi. Cosa che appare subito eccessiva, specie per un contesto così denso di calore e per le abitudini a non simbolizzare tutto con toni forti, come ad es. mi dicono facesse il salesiano ora assente. Poi inizia la sua omelia: parla con una grande enfasi retorica, allarga improvvisamente le braccia, dilata le pupille, agita la tonaca, si muove come fosse a teatro, la voce modulata come recitasse, con improvvisi crescendo e allentamenti sui bassi di una intimità irriducibile. Si crea un senso di disagio per questo eccesso di retorica quasi televisiva. Qualcuno esce.

Foto n. 11: una giovane aspetta l’arrivo della bara

Dunque, penso, questa la scelta finale di Marcelo: invece di compiere una chiarezza teologica contro una supposta reincarnazione, accentuare la teatralità del rito funebre. In realtà, mi sembra di assistere a un rituale-senza-rito, un qualcosa che si potrebbe chiamare – qui con un voluto doppio senso – una messa-in-scena.

Sommessamente come era iniziata, la messa finisce. Conoscendo le scene di dolore, con pianti, flagellazioni, urla, che riempiono a lungo il funerale bororo, rimango perplesso su quanto sta accadendo. La bara viene di nuovo collocata sul pick up e portata via. Sì, ma via dove? E molto probabile che sarà sepolta a un piccolo cimitero, ma in ogni caso, mi viene raccontato un particolare sconvolgente.

Dunque: la relazione tra bororo e salesiani è veramente molto molto complessa. Come se i due villaggi – l’aldeia e la missione – fossero uniti per un lato, per non poter fare a meno l’una dell’altra, mentre tutti gli altri lati cercassero una autonomia alla propria identità che cambia (bororo), e una identità definita nell’altrove (salesiani), cioè un filo che la lega la diocesi verticalmente a Roma. Insomma la tradizionale forma cosmica dell’aldeia è mutata da così (foto n. --) a così (disegno n. --). Il doppio vincolo che si stabilisce è: nessuno dei due può fare a meno dell’altro, i Bororo hanno bisogno dei salesiani per protezione da fazendeiros, politicanti, evangelici (che sono i peggiori in assoluto, definirli come nuove forme di dittature mistiche è poco); i salesiani hanno anche molti fondi, con cui arrivano tecnologie, si creano musei, si può avere un generatore di corrente (tv, video, pc). Nello stesso tempo, dentro questo corpo di aiuti, si innesta in modi inscindibili il processo di evangelizzazione, cioè di eliminazione più o meno graduale di ogni tratto culturale autonomo legato a riti, canti, cosmogonie, identità. Se non ci fossero i salesiani, i bororo diventerebbero preda facile dell’invasività bianca (soia, cachaça, integrazione come brancamento, cioè come assimilazionismo forzoso e/o indotto); in quanto ci sono i salesiani, i bororo disperdono giornalmente i tratti più significativi della loro cultura.

I Bororo rimangono “salvati” dalla penetrazione brasiliana e “perduti” dalla conversione salesiana.

Nel doppio vincolo etnico-religioso, i Bororo come muovono sbagliano. Per salvarsi dalla “materialità” dei fazendeiros, si alleano con la missione salesiana e così acquisiscono una “spiritualità” cattolica e perdono la loro visione del mondo. Per salvare la loro identità dai processi di globalizzazione, caratterizzano localmente questa identità come bororo-salesiana. Ma questa localizzazione è nello stesso tempo una universalizzazione anti-relativista (nel senso che non si riconosce il valore delle loro autonome tradizioni se non marginalizzate e folklorizzate).

La loro identità - difesa dalla soia – cade nella tonaca.Se i Bororo si alleano con i fazendeiros, perdono la loro autonomia politica; alleati dei

salesiani, perdono la loro autonomia religiosa. Politica e religione sono intrecciate in moduli immanenti. Per questo i Bororo, come muovono, perdono. Il doppio vincolo si stringe con la

razionalità professionale di una esecuzione. Fanon diceva che, “venendogli preclusa ogni altra soluzione, il gruppo sociale asservito razzialmente tenta di imitare l’oppressore e di vanificare quindi il fatto razziale” (1971:23). Se si sostituisce o, meglio, se si aggiunge il concetto di identità, soggetto, cultura a quello di razza, qualcosa di analogo sta accadendo tra i Bororo e in molte culture indigene. L’imitazione è una astuzia per contenere il dominio esterno, attraverso cui questo stesso dominio penetra con una distorta volontà della stessa vittima. De Certeau, in questo senso, è veramente un missionario che legittima - dietro una apparente uso astuto della contrattazione di senso - una sua maggiore e affilata penetrazione sussunta da una sconfitta, arresa, disperata volontà dell’asservito. Così il circolo ermeneutico di una sociologia sacerdotale chiude il suo compito fatale. Trasforma il dominio esplicito esterno in dominio implicito interno. Imitazione come internalizzazione. Come trasfigurazione della estrema sconfitta in astuzia convivente e connivente.

Gli sconfitti conviventi, i sociologi decertoiani conniventi col dominio.È tempo di spezzare i doppi vincoli come compito di una politica comunicazionale

dell’etnografia.Il colpo di scena.I salesiani da tempo richiedono che la bara sia aperta anche dentro la chiesa, in modo che sia

visibile che il cadavere sta lì. Infatti, a lungo è accaduta una cosa singolare: chi sceglieva il funerale cattolico, portava la bara dentro la chiesa. Ma la bara era vuota. Il cadavere stava nel fiume per essere lavato dalla carne e poi essere dipinto, impiumato e infine trasfigurato in antenato. In tal modo, l’astuzia bororo giocava, per così dire, sui due tavoli per non perderne nessuno. Insomma un Pascal sincretico a Meruri. Solo che, quando i salesiani si sono accorti del trucco, hanno imposto la visibilità del cadavere, come ha sempre insegnato l’affermazione pubblica del potere di chi comanda. La sia pur geniale mossa bororo risulta impotente rispetto alla astuzia ben più solida e secolarmente occhiuta (avveduta) dei salesiani, che su questo gioco non possono che stravincere alla lunga.

Ricordo quanto mi ha detto Kleber: “ io ho già deciso il mio funerale”.In questa scelta, vi è concentrato tutto un insieme – un grappolo – di scelte autonome

attraverso cui il soggetto bororo non può più rinviare il suo posizionamento, per quanto difficile, rischioso e isolato possa essere. Kleber dice che il funerale nella tradizione bororo non è solo “tradizionale”: esso è anche e direi soprattutto una sfida collocata sul presente che costruisce un futuro basato sull’autodeterminazione. La scelta non è restaurativa di una identità perduta, bensì è affermativa di una dissoluzione del doppio vincolo anzidetto che, certo, può essere pagato con l’isolamento di Kleber, considerando la situazione attuale nei rapporti di forza a tenaglia tra fazendeiros e salesiani, senza una minima presenza difensiva e affrancante dello Stato brasiliano nella persona di Lula e dei tanti ministri che lo assistono.

In questa prospettiva, diventa chiaro come la collocazione di Keber sia quella decisiva per il processo di auto-determinazione in quanto parte del più vasto movimento post-coloniale. Infatti, è singolare notare che il tema post-coloniale non venga trattato per le culture indigene, come se l’idea post-coloniale si possa applicare solo a persone che sono state colonizzate dentro uno Stato, mentre i nativi in qualche modo sono sempre stati “altri” per ogni forma di Stato, per cui lo status post-coloniale non viene normalmente dato loro. Ulteriore ironia della storia. La svolta decisiva – la differenza rispetto alle tecnologie analogiche – sta nella sua scelta che intreccia in un modo limpido e determinato la pratica dell’auto-rappresentazione attraverso le nuove tecnologie digitali, pratica che non è esterna, bensì immanente al suo posizionamento critico radicale.

Il video fissa le loro identità cultuali solo perché smuove le identità individuali. Filmare significa entrare in un presente che non cerca di scivolare nel potere restaurativo del passato, bensì di svincolarsi nella potenza di un futuro in movimento. Ovvero, come meglio scrivevano i poeti antropofagici paulistani: pressauro: un mix di presente-passato-futuro. Montaggio, cut-up, morphing tra diversi spazi-tempi.

Il campo potenziale che si sta aprendo nella ricera etnografica e nella sua trasposizione testuale scritta, visuale, sonica (ovvero iper-testuale nei sensi dialogici, polifonici, ibridi) per me è

chiarissimo: una tensione costante tra auto ed etero-rappresentazione. Che tra questi diversi livelli non vi sarà mai una sintesi ordinatrice o superatrice, bensì differenze, tensioni, anche conflitti e ancor più auspicati sincretismi tecno-culturali.

Foto n. 12: l’arrivo della bara con il pick-up. Il recinto separa il villaggio di Meruri dalla missione.

Foto n. 13: Marcelo, missionario salesiano con tutti i paramenti, aspetta fuori della missione

Foto n. 14: l’albero oltre il recinto. Sullo sfondo, le case bororo in mattoni e cemento. Al centro si vede il baito, la casa degli uomini

Foto n. 15 : le case bororo divise dalla missione Foto n.16 : l’interno di una casa

Foto n. 17 : la maloca della morta

Foto n.18 : la preparazione del po de arroz

Foto n.19 : una anziana donna prepara il dolce di riso

Foto n. 20: bambini in attesa del dolce