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questoèilsuoprimoromanzo 1

Diario dalla stanza bianca e vuota

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romanzo

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diario dalla stanza bianca e vuota

marco busetta

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© 2006 END Edizioni Non DeperibiliFirenze - via delle Ruote 38/rGignod (Ao) - fraz. Tercinod 2

tel. 347 7722541 - 347 [email protected]

isbn

Finito di stampare nel mese di novembre 2006presso Global Print, Gorgonzola (Mi)

Indice

Introduzione p. 7di Simone Buttazzi e Gianfranco Franchi

Diario dalla stanza bianca e vuota p. 9

Postfazione p. 105di Angela Migliore

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Introduzione

Questo diario, che non è un diario, mente come tutti i libri. Siamo stati ingenui, nel giugno del 2005, quando ab-biamo indetto il concorso Il nostro bisogno di consolazio-ne. Cercavamo testi in prima persona, necessari e dolenti. Spiriti riottosi e pesti che pulsassero come ferite aperte. E niente, ad arginare la sofferenza, se non denti stretti fino a scricchiolare. La giuria del concorso ha riunito due realtà editoriali e virtuali: da un lato lankelot.com (ora lankelot.eu) e le Edizioni Del Catalogo (che non sono più), dall’altro corpo12.it e le Edizioni Non Deperibili, per i tipi delle quali il Diario vede la luce e si stropiccia gli occhi. La risposta al bando è stata immediata e prodiga. Nei sei mesi che ne hanno separato la diffusione dalla scadenza abbiamo rice-vuto qualcosa come duecentoquaranta testi, tra romanzi, racconti e raccolte di poesie. Pochi, a dir la verità, si sono dimostrati in sintonia con la citazione di Stig Dagerman, unico innesco di questo processo. Per quanto la consola-zione sia un nostro bisogno con la bi maiuscola, ci dice Stig, è destinata a rimanere a bocca asciutta. Anche per la più castigata delle seti. Le sue parole descrivono una lotta impari ingaggiata con il Mondo - così vicina a quella di Kafka - che si permea, passo passo, di un dolore incapace di dissiparsi, attutito solo dalla gioia della scrittura. Osses-sione e sollievo, la scrittura, ma anche maledizione quando ha a che fare con le logiche mercantili, spietate, talvolta fur-bastre, che la rendono pubblica. Oggi la scrittura ha un’al-ternativa che s’interpone tra il diario chiuso col lucchetto e la pubblicazione cartacea: il web. In tutte le sue forme. Questo concorso è nato da persone che si sono conosciute sul web; tramite il web ha irradiato le sue spore e ha inter-

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cettato azioni e reazioni. Il Diario ci è arrivato in digitale: un file. Ora è un libro di carta e getti d’inchiostro, risultato di una scrematura difficile. È giusto, in questa sede, segna-lare i quattro testi classificati (dal secondo al quinto posto), sebbene il concetto di podio abbia ben poco a che spartire con le lettere. Cozza. Questi romanzi sono Michelle K di Enrica Ciabatti, È bora di Chiara Sambo, La banca dei rein-carnati di Davide Riccio e Le due statue di Marco Amerighi. Il Diario si è imposto, tuttavia, come una scelta necessaria. Quello che abbiamo trovato non è un Bambino bruciato, così come il suo autore non è uno Stig mediterraneo. È la stata la sua scrittura a sceglierci, insinuandosi tra le parole del bando con l’agilità un po’ mesta di chi non ha paura di immolarsi sulla tastiera e di consegnare parole taglienti e flessuose come fili d’erba. Ci ha fatto male. Eccolo qua.

Simone Buttazzi, Gianfranco Franchi(e Antonio Benforte, Patrick Karlsen, Luca Martello, Paolo Mascheri, Angela Migliore, Marina Monego, Viviana Rosi)

NotaLe opere di Stig Dagerman sono state pubblicate in Italia a par-

tire dal 1962. In tempi recenti, dopo fugaci apparizioni nell’Ar-chivio del romanzo delle Edizioni Guida, è stata la casa editrice Iperborea a farlo conoscere al pubblico italiano.

neppure una consolazione,quando rimane il niente

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prologo

Nient’altro che l’abitudine a scrivere. Pur essendo inca-pace di raccontare una cosa qualunque. E piove, sulla lunga strada bianca innanzi a me, sopra di me. I palazzi, ombre sui muri, o piuttosto in fondo ai miei occhi, fanno da filari, ai bordi del viale. Ma sono privi di quella naturale magia che grava sugli alberi veri. Sono come binari: si defilano all’oriz-zonte, mi ingannano fingendo di riconciliarsi, sono ostili in-vece. Tutto è estremamente chiaro, illuminato da una luce non compresa, che pare venire dalla mente stessa; (non ho il coraggio di voltarmi, ma intuisco un freddissimo neon, die-tro la mia testa, in alto). È un susseguirsi di scene belle, mai repentine nei loro mutamenti. Sono nebbie discorsive, e io non richiedo alla mia immaginazione, d’altronde, né premu-ra né concretezza. Scorrono cosí dolcemente, sovrapponen-dosi piano una all’altra, senza che io me ne possa avvedere, fotogrammi piú o meno comprensibili. L’acqua ha smesso ormai di cadere sull’asfalto; e anch’io adesso mi sto asciu-gando. La larghezza enorme del viale mi vorrebbe disperde-re, ma sento che nonostante la piccolezza in cui sono stato risucchiato, la mia volontà eroica si afferma principio unico e forte in questo mare di colori vaghi. Vorrei andare avanti, ma per davvero. Piú i miei passi si aggiungono infatti a quelli precedenti, piú mi accorgo che il paesaggio mai mi potrà soddisfare. I piccoli cambiamenti riguardano particolari insi-gnificanti, mentre questo cielo chiaro, e la strada soprattutto sono sempre gli stessi. La strada percorsa di recente... razzo-lo nella mia stessa polvere, perché polvere siamo:

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primo

Venivo da una settimana agghiacciante, nel corso della quale avevo avuto modo di verificare la perfetta inconsisten-za di chi mi stava intorno. E dal momento che avevo sempre fermamente creduto nella tendenza umana, troppo umana, di circondarsi di simili, non mi rimanevano conclusioni troppo confortanti. Scesi le scale che m’avrebbero portato al livello del marciapiede con una specie d’indecisione, chie-dendomi ad ogni gradino cosa stessi esattamente facendo: piú ripensamenti che idee vere e proprie. Assaggiai con le dita la barba rasata da poco: troppe punte sul mento e una fastidiosa irritazione sul collo declamarono la mia incapaci-tà di barbiere: mi dissi che eppure sarei stato capace della migliore delle rasature, bastava solo che m’impegnassi un poco: ma nessuna volontà in tutte le cose. Marcello mi ave-va ossessionato tutta la mattina con le sue banalissime idee sul genuino valore dell’arte. L’avevo ascoltato pochissimo, ma una cosa l’avevo capita: su questa terra non ero l’unico a porsi dei problemi; e come tutti gli altri non ero assoluta-mente in grado di risolverli. I tentativi che facevo ogni tanto, impugnando una penna sopra la faccia bianca di vecchie fotocopie di fisica-uno, servivano solo a riavvicinarmi a quell’equilibrio che, tanto precario quanto in fondo familia-re, aveva caratterizzato i miei ultimi anni d’esistenza e dal quale curiosi episodi - frangenti, di tanto in tanto cercavano di distrarmi. Lo capisci?, mi diceva Marcello, per quanto io possa spendere anni e anni della mia vita a studiare, non riu-scirò mai ad essere nient’altro che un serio professionista... mi manca il genio! E allora, che studio a fare? Che campo a fare?

Sapevo benissimo che in cuor suo Marcello era perfetta-

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mente convinto di avercelo almeno un poco di quel genio che aveva preso l’abitudine d’invocare. Aspettava per gior-ni che io gli dicessi: guarda, secondo me, tu hai qualcosa: il quid. E dovresti metterlo a frutto... ma chissà perché, in quel periodo avevo deciso di essere un poco piú onesto del solito. E io sapevo che Marcello quel genio non lo vedeva neanche col binocolo, forse persino incapace di riconoscer-lo in qualcuno che lo possedesse davvero. Io che qualcosa di pianoforte ne capivo - avevo preso da piccolo qualche lezione e comunque ascoltavo tantissima musica classica - a vederlo suonare mi annoiavo prestissimo, impalato com’era spesso su una panchetta che avrebbe cigolato volentieri a un suo minimo ondeggiare. In quanto al suono che riusci-va a trarre dalle strumento, lo trovavo piuttosto sgradevole nel forte, e ridicolo, senza voce, nel piano: incapace d’una mezza tinta qualsiasi. Lo vedevo con la faccia tutta gonfia e arrossata, le vene del collo e della fronte ridicolmente in-grossate, abbattersi su tasti bianchi e neri con tutta la sua forza. E un poco tremavo per quei pezzi di legno che pure, perduta ogni anima possibile, non avevano quindi modo di soffrire: beati loro. Mentre io, per amicizia, o qualcosa di si-mile, ero costretto a sorbirmi, almeno una volta a settimana, le capitali esecuzioni di autori diversi. Un paio di volte ave-vo provato a dargli dei consigli, magari seguendo l’esempio di certe incisioni famose: il risultato era stato solo un suo infastidimento fortissimo e un arroccarsi ancor di piú nelle sue ragioni, come a dirmi che io dovevo ascoltare e basta. Tornato a casa rintronato scrivevo un poco. Nel senso che accostavo parole piú o meno con la cura d’una vecchia zi-tella che metta assieme un bouquet. Fiori: per chi?

Ero in strada. A guardare il cielo si sarebbe detto che tutto andava per il meglio, e fondamentalmente perché il cielo

è perfettamente stupido, fatto com’è di scarse molecole il cui unico pensiero è vibrare tutto il giorno. O qualcosa del genere. Certo, se magari avessi avuto la certezza di avere sopra la testa, anziché quei quattro atomi, qualcosa di ben piú consistente, o addirittura Qualcuno a osservarmi con sorriso benevolo e lunga barba bianca, pronto a interveni-re e soccorrermi be’, molte cose sarebbero state diverse. E invece mi ritrovavo senza amore e senza dio. E per di piú con un amico rompipalle che si credeva il nuovo Horowitz, e che da me non voleva altro che gli ricordassi di continuo la sua natura superiore. Per lui la vita era come una trama da costruire, in cui anche la piú banale delle fortuità fini-va coll’assumere un’importanza determinante e anche una sola parola, magari detta per sbaglio, rischiava di diventare importantissima, il nodo essenziale della discussione d’una intera serata.

La donna, tale Veronica, che un anno prima aveva avu-to la disgrazia di innamorarsi di lui, mistero questo ch’ero certo che mai avrei saputo svelare, l’aveva abbandonato da poco; irrimediabilmente stanca. Le era bastata una minima pausa di riflessione per incontrare una persona normale ca-rina. Mia minima riflessione: quello che cercano in genere le donne è una persona normale carina. Ma soprattutto nor-male. Marcello, è meglio che sia andata cosí. Non ti meri-tava. (ridicolo). Solo che poi Marcello le vere spiegazioni le chiedeva a me. Cosí passeggiavo, non rimanendomi altro. La felicità a distanza di sicurezza; e le persone estranee pas-seggianti anche loro per direzioni diverse; la mia tendenza a considerare il mondo un teatro di metafore; la popolazione a me intorno un’accozzaglia variopinta di attori scadenti: io sapevo che recitavano. Impossibile che non sentissero quel ghiaccio, quel nero immenso che circonda la terra, la nostra

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galassia. A chiudere gli occhi, è facile sentire tutto quel buio: in qualunque direzione il vostro pensiero cerchi di fuggire non troverà che il freddissimo niente. Nessun bisogno d’in-ventarsi un Inferno...

In quella serie di passi in fila disordinata, avrei potu-to incontrare chiunque: Marcello stesso, ad esempio, che avrebbe colto l’occasione per rompermi ancora i coglioni: gli avrei potuto allora dare fuoco, e passare una buona mez-zora a rimirarlo rosolar ben bene, magari a strazio ulteriore un enorme spiedo, qualche seme di finocchio a prolungarne la sofferenza... perché no? Ero incredibilmente frustrato; e attraverso l’elaborazione di innumerevoli fantasie pseudoe-rotiche, la mia mente non faceva altro che tentare di depu-rarsi un poco, o persino liberarsi. Magari non era Marcello ad avere colpa di tutto; c’era anche dell’altro. Per esempio il fatto che da giorni cercavo di scrivere qualcosa di decente, ma non mi riusciva assolutamente di metter su una trama che non sapesse di qualche film americano visto da poco, o peggio d’un teleromanzo da primo pomeriggio. Bellissimo.

Arrivato all’angolo tra viale della Libertà e via Mariano Stabile ebbi una specie di illuminazione: io non scrivevo libri per bambini né copioni per la televisione, quindi non avevo alcun bisogno di una trama. La vita delle persone co-muni non segue alcun percorso; si limita a ricoprirsi di giorni e di rughe. Perché io allora avrei dovuto arrovellarmi il ce-rebro per parlare di qualcosa che non sarebbe mai accaduto davvero. Certuni sono davvero perversi: scrivono col senno di poi. Mi spiego: vi presentano gli eventi come perfettamen-te incastonati in una trama che già conoscono nei minimi risvolti, che sanno esattamente dove condurrà: non ha alcun senso. La vita, noi non abbiamo la minima idea di dove con-duca, neppure se siamo ottusi come Marcello e crediamo

di credere in certi fati predeterminati! Altra considerazione che non ho voglia di sviluppare: se il destino esistesse non ci sarebbe alcun motivo per vivere la vita...

Non mi rimaneva che scrivere di niente. O raccontare cose già accadute. Oppure non scrivere affatto. Avrei potuto disegnare sul foglio parole che dicessero di loro stesse, sen-za volere insegnare alcuna cosa, né tantomeno raccontare. Del resto era lo stesso affanno che soffocava i miei giorni a impedirmi di poter vivere anche solo un’ora di quella mia esistenza. Non riuscivo a trovare la forza di raccogliere me stesso, indaffarato in attività della cui perfetta inutilità ero pronto a giurare. Ma di sfuggita mi dicevo di non aver tem-po, anche soltanto per perdere cinque minuti. La vita diven-ta cosí, apparentemente senza motivo, essa stessa chimera. Non la felicità addirittura, ma la vita stessa, ovvero ciò che piú banalmente diamo per scontato di avere. La sensazione era quella d’una certa necessità di fermarsi per cominciare finalmente a vivere, ma in realtà la stessa esistenza, in gran parte subita, impediva che questo momento davvero arrivas-se. Solo un poco di ristoro l’avevo quando decidevo di non uscire e passare una serata davanti al televisore, ad assor-bire quello che scriventi piú esperti di me avevano ritenuto opportuno, redditizio, propinarmi. Ma in tutto questo c’era un vantaggio. Ero un uomo perfettamente nudo, che aveva appreso nel corso degli anni un certo gusto nel vestire. E sapevo a quale guardaroba avrei attinto.

Due giorni prima m’aveva chiamato Valeria, per farmi gli auguri per l’onomastico, che lei ci teneva. C’eravamo lascia-ti con la promessa di vederci al piú presto. Valeria era una giovane donna poco piú grande di me, capelli chiari appena ondulati. Per mia sfortuna non eravamo mai andati piú in là d’un’amicizia. Per mia fortuna, anzi, ché cosí non avevo

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mai corso il rischio di perderla. Potevo parlarle di ogni cosa. Lei in genere capiva, e se non capiva me lo diceva. Il suo modo di ragionare era robustamente femminile. Per esempio credeva fermamente che il maschio è stronzo per costituzione. Tu - mi diceva mentre io, cercando di non farmi sorprendere sul fatto, le guardavo le gambe semplicemente stupende - hai avuto modo di essere un po’ meno stronzo solo perché c’ero io a tenerti a bada. In effetti me la portavo appresso da quasi dodici anni, e cioè dal mio primo liceo. Lei era all’ultimo anno, coetanea e amica di mia sorella. Natural-mente me n’ero subito innamorato. E m’ero sentito malissimo per giorni quand’ero venuto a sapere che il mio caro amico Marcello, pianista di quasi gradevoli speranze, che proprio io le avevo fatto conoscere, le aveva conquistato il cuore. In verità non piú di un atrio e un ventricolo e pure per poco, visto che parlando ogni volta di quella tuttosommato breve esperienza, lei un poco si intristiva e diceva: capita.

Altri amori non ne aveva avuti, ed era fondamentalmente questo che la rendeva speciale ai miei occhi. Cioè Valeria poteva avere chi voleva... il vero problema era che forse lei non voleva, non desiderava nessuno. Le sue tristi poesie in rima baciata in cui mi recitava d’un principe blu mentre io le mettevo da sottofondo il secondo tempo del concerto di Ravel, raccontavano di un dio piú che di un essere umano. Una persona chiara e forte e dolce, presente e discreta, ro-mantica e pragmatica, e via sognando. Certo, lei aveva mol-to da offrire, ed era quindi legittimo che chiedesse tanto. So-lito discorso maschilista: era molto bella e quasi in carriera, quindi non c’era altro da chiedere. Che mi venisse in mente, non restava altro da chiedere a una donna. Comunque non le si avvicinava praticamente nessuno. I trentenni molto belli erano tipicamente ancora troppo stupidi abbronzati e pieni

di sé per comprendere o anche solo volere scoprire cosa ci fosse ancora; e quindi venivano respinti immediatamente. Quelli bruttini con gli occhiali il pizzetto e la pancia non osavano neppure accostarsi perché era come se un piccione dotato di senso estetico decidesse di cagare sopra il David di Michelangelo. Rimanevano quelli ricchi, belli o brutti che fossero, e quelli medio-carini dotati di una certa intelligenza e sensibilità; individui da cui io cercavo di tenerla lontana il piú possibile, almeno per quanto mi fosse dato. Anche perché sapevo quanto Valeria, nonostante tutte le sue bra-ve poesie, fosse in fondo sensibile al fascino dell’SLK grigio metallizzato.

Inoltre m’incazzavo del fatto che io, pur avendo più volte conseguito il certificato sul campo di gradevole atque sen-sibile, non potessi ambire alla conquista, causa età notevol-mente inferiore e forse, diciamola tutta, preso atto del mio ridicolo conto in banca. Non che lei sembrasse porsi gravi problemi in proposito, dal momento che usciva tranquilla-mente con un venticinquenne rampante e squattrinato come me, ma era chiaro che per certe cose... l’errore in cui era caduta con Marcello non si sarebbe mai piú ripetuto. Cosí io e lei aspettavamo, con stati d’animo ben differenti, che arrivasse questo stronzo di principe multicolore ben mes-so sotto ogni punto di vista, degno di quella fortuna. Forse avrei dovuto scrivere libri per bambini. Forse tornare a cin-que anni d’età per essere almeno una volta nella mia vita bambino. Non ricordavo d’aver passato una vera e propria infanzia. E adesso che Marcello era di nuovo libero, avevo un po’ paura, a sei anni di distanza, che potessero tornare a far coppia.

«Non fare il bambino... Guarda che io sono stata la prima a saperlo...» Garanzie di nessun pericolo. La invitai a uscire,

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prendere un gelato una birra. «Le solite cose?»«Le solite cose. E in piú Marcello, che tende a mantecarmi

gli zebedei. Dice che c’entra la madre, che lei non avrebbe mai voluto lasciarlo. La madre. L’occhio della madre...»

«Ci fermiamo qui?» Locale mezzo deserto, nessun proble-ma per sedersi.

«Valeria, due cose mi mancano: l’amore. E Dio. In com-penso ho la tua amicizia, e la compagnia di due tre persone, cui sono legato da un buon numero di interessi».

«E comunque hai la speranza di trovare, presto o tardi, la donna della tua vita: nel frattempo continua a guardarmi le gambe; in quanto a Dio... potresti sempre avere un’illumina-zione quando meno te l’aspetti. Vedrai...»

«No, nessuna speranza».«Dovresti sforzarti. La speranza è essenziale per condurre

una vita interessante. Non speri niente davvero?»«Vediamo... no. Non mi risulta». Ero tentatissimo: Valeria

io ti ho sempre amato, fammi felice, ti prego. In fondo, visto che le nostre menti erano già tanto vicine, si trattava di col-mare occasionalmente la nostra lacuna. Dovette scapparmi qualcosa, non so bene quali parole.

«Smettila, sarebbe tristissimo!»Feci la faccia sorpresa per circa tre secondi, quindi cam-

biai discorso: devo iscrivermi in piscina. Da un po’ di tempo, effettivamente, avevo notato dei comportamenti strani da parte mia. Ad esempio, come appena successo, dicevo cose senza averne coscienza; un paio di volte almeno, poi, m’era successa una cosa curiosissima. Nello stringere la mano ad una persona che pure conoscevo benissimo, m’ero lasciato scappare un ‘piacere’, come mi stessi presentando per la pri-ma volta. Cosa che aveva spiazzato puntualmente entrambi.

L’unica spiegazione ch’ero riuscito a darmi: sovrappensiero, il cervello aveva inserito il pilota automatico. Ma a pensarci bene m’ero trovato sí sovrappensiero, senza poter dire però cosa m’avesse effettivamente trasceso. Sarà pur legittimo avere la testa fra le nuvole, ma che almeno le nuvole ci sia-no davvero. Io no, vagolavo, galleggiando sopra il pensabile. E questo mi capitava talmente spesso che m’ero cominciato a preoccupare.

Lo feci presente persino a Valeria, ma tutto quello che seppe dirmi fu che mi dovevo prendere una bella pausa: sei soltanto un po’ stressato... certo! Stressato di far niente, di non essere a conti fatti nulla d’interessante; stanco senza che tutto il faticare d’una vita avesse prodotto neppure una me-lanzana. Bello per esempio fare l’agricoltore, il restauratore, il meccanico, il chirurgo... un po’ meno bello fare il tranvie-re, l’impiegato in un negozio di scarpe. Mi sarebbe piaciu-to fare il modello. Avrei smesso di frequentare l’università, avrei girato il mondo... l’ultimo esame era stato Storia della Letteratura Greca. Il quarto da quando avevo abbandonato la facoltà di Fisica, peraltro non molto piú redditizia. Eppu-re studiare m’era sempre piaciuto. Non che fossi mai stato un secchione, ma stare sui libri, magari addormentarmici sopra sfinito da una nottata di duro lavoro... be’, questa era una delle cose per me piú romantiche in assoluto. Che si trattasse del moto dei fluidi o di un canto dell’Eneide l’effet-to era comunque lo stesso. E addirittura, perché tutto fosse ancora piú emozionante, m’ero preso la polverosa abitudine di studiare su libri vecchi, vecchissimi. Una delle cose di cui andavo piú fiero era una copia dell’Odissea con testo inglese a fronte, stampata a fine Ottocento: bella, giallastra, e vagamente odorosa di muffa, almeno credo.

Sotto questo aspetto Valeria m’era sempre stata molto vi-

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cina. Lo studio, per lunghi tratti della sua esistenza, era stato esso stesso motivo di vita. La vedevo stringersi i libri al petto, già all’uscita del liceo, e un poco m’ero sorpreso ad invi-diarla. Quasi un rapporto fisico, a raccontarne la completa devozione. Ma a guardarmi un poco intorno sarebbe stato facile notare lo stesso atteggiamento in un buon cinquanta per cento degli studiosi di sesso femminile. Per me era quasi lo stesso: unica differenza il fatto che questo piacere non riuscisse a manifestarsi per piú di tre o quattro giorni di se-guito. Non avevo alcun diritto di meravigliarmi: niente che mi riguardasse poteva durare di piú... e l’unico miracolo che m’era finora accaduto era proprio lei, la mia Valeria, della quale finora, tranne brevissime pause, non avevo mai saputo fare a meno. Per quanto riguardava tutto il resto, invece, la legge era la solita e inesorabile. Marcello, Roberto, Luciano: nomi diversi per una stessa figura che nessun trascorrere del tempo aveva saputo alterare. Uomini di una perfetta inu-tilità, di qualche vocazione ma ottusa, e di un’incredibile mancanza di senso esistenziale. Quello che io chiamo senso esistenziale, e con nessuna pretesa di far filosofia, lo potrei spiegare come un’assieme di sensazioni, di percezioni. È per esempio l’aver coscienza di sé, di quello che si sta facen-do, nel breve o lungo periodo, di dove si sta andando. Per quanto sofisticato possa essere il modello, ogni previsione finirà col rivelarsi inadeguata, o quanto meno inesatta. Ma questo non toglierà alcuna dignità al senso esistenziale che ne scaturisce. Nel momento in cui si era formulata la previ-sione, questa era comunque chiarissima, si percepiva con la solidità d’un fatto reale, e neanche la stessa realtà potrebbe incrinarla un poco.

Nel verboso libro in cui si trovano trascritte in ordine de-crescente di importanza le mie conquiste di pensiero la voce

“senso esistenziale” viene descritta come “... quella capaci-tà o attitudine che permette di rivelare la precarietà morale di ogni rapporto umano, sulla base di prese di coscienza progressive che indaghino nella direzione di disvelamenti di false professioni di amistà.” Insomma si tratta di quella buona dose di cinismo che ti rende bene chiari in testa i rap-porti umani, con tutto il loro sterminato corredo di facezie. Va da sé che il senso esistenziale è il necessario frutto d’una intelligenza diversa, superiore. E io, in tutta la mia splendida modestia, me ne riconoscevo una straordinaria espressione. Salvo poi assistere giornalmente a suoi disastrosi fallimenti, che come ho già detto però non erano teoricamente roba cosí grave. Teoricamente. La mia intelligenza relazionale era anche lei tutta ossidata e piena di buchi. Piaghe i cui nomi erano ingenuità, fiducia sconsiderata e concessa con ingiustificabile fretta. Ogni volta deluso mi curvavo su un foglio biancastro, e scrivevo qualcosa che poi puntualmente disprezzavo, appallottolavo e davo in pasto al mio amato cestino. Possibile che di cento giorni vissuti, quanto meno trascorsi, se ne potessero prendere sí e no un paio? Se davo un’occhiata al mio passato, sinceramente guardando, non era difficile accorgermi che i momenti migliori erano tra-scorsi quasi tutti di notte, sotto le lenzuola, la testa fra i cu-scini: sognati. Sul senso esistenziale avevo però imparato una cosa fondamentale: tutto dipendeva da quale lato osser-vassi le cose.

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secondo

Intorno a me c’era una bellissima ragazza intelligente af-fascinante con cui avevo miliardi di cose in comune che però da quel punto di vista, quello fondamentale, non mi cagava minimamente. Sapevo benissimo che nonostante tutte le stronzate tardo romantiche che mi voleva propinare quotidianamente, l’uomo della sua vita era un primario car-diochirurgo; ovvero un noto avvocato civilista; o tuttalpiú un ingegnere dallo studio ben avviato. Il tutto sulla quaran-tina circa, spalle larghe e rughetta affascinante sulla fronte; to’, facciamo un paio di rughe. Come amante un surfista californiano di passaggio per la Merit Cup: nessuna traccia e tanto piacere. E se li meritava, cazzo! Io che ero? Uno simpatico medio carino trascuratissimo che alla veneranda età di venticinque anni si ritrovava ancora iscritto al terzo anno di lettere classiche, che aveva qualche lira da parte ma che tendeva a risparmiarsela avidamente in vista di un incertissimo futuro, che si faceva la barba ogni tre giorni, e che aveva la confortante tendenza a cadere in paranoia un giorno sí e l’altro pure.

Valeria io ti amo, capisci? Ma se non era neppure comple-tamente vero, come potevo pretendere di convincere addi-rittura lei? Io, in fin dei conti, non l’amavo... m’ero abituato a lei, ecco. E mi piaceva da matti, dopo piú di un decennio mi faceva ancora un sangue semplicemente irresistibile. Era troppo bella... me la sarei fondamentalmente fatta, ecco. Me la sarei fatta per un paio d’anni di seguito. Ma non l’ama-vo, questo no. L’amore è un’altra cosa, l’amore. L’amore è quando vedi una persona e senti che è lei quella cosa che ti serve per sentirti completamente uomo, è quella cosa che ti fa trasalire, i brividi, le palpitazioni... da circa dieci gior-

ni m’era arrivata un’e-mail, piuttosto stringata, con la quale una mia ex qualcosa mi comunicava che i rapporti tra noi si erano incrinati a tal punto che si era vista costretta a tronca-re ogni tipo di relazione, persino amicale. Il nocciolo della questione era che io pensavo semplicemente a introdurre nel suo corpo il mio organo genitale nella varie combina-zioni possibili, mentre lei, la gran signora, era alla ricerca di qualcosa di ben piú profondo e duraturo; cosa che io, natu-ralmente, non ero in grado di darle. In pratica s’era trovato un altro. Presumo migliore di me. Altrimenti sei stupida.

Quindi potevo sentirmi formalmente libero. Marcello era libero. Valeria era libera. Io ero solo. Cioè: anche Marcello era solo, ma siccome di lui non me ne fregava un cazzo, diciamo che era libero, quindi pericoloso. E d’altronde è normale che col passare del tempo si sia portati a conside-rare gli altri esclusivamente in funzione di se stessi, cioè del ruolo che possono giocare nella nostra vita: il discorso del teatro e degli attori. Se un essere umano influenza la mia esistenza io me ne posso curare, almeno nella misura in cui questi può appunto incidere sul mio destino. Se Qui Quo e Qua si strafogano la torta di Nonna Papera, e io non leggo da anni Topolino, che cazzo mi frega? Il mondo che sta fuori di me, ammesso che esista per davvero, è talmente smisura-to che questo egocentrismo mi sembra inevitabile, se si desi-dera sopravvivere. Quindi solo io esisto davvero. Degli altri posso solo dire rispetto a me, e nel limite del tempo che con me interagiscono. Ora, tutto questo è abbastanza logico, e in qualche misura, normale, cioè evidente e necessario. Ma quando ne feci parola a Valeria, mi linciò quasi.

«E come speri di trovare qualcuno, se sinceramente non fai altro che pensare che gli altri siano tuoi personaggi? Che gli altri siano attori per te? Che persino la donna che ami sia

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una specie di simulacro?» Certe volte adoravo il suo modo di parlare - oserei dire un tabernacolo... «Muori! sei un por-co maschilista infelice misantropo».

«Be’, anch’io ti amo...»«Cavolo, la vuoi smettere! Non mi piace proprio».«Dài... scherzavo. Ci siamo fatte suscettibili...»«Non sopporto sentirti dire ogni cinque minuti che mi ami».«Magari è vero... che ne sai?»«Smettila. Tu non sei capace di amare.» Qualcosa mi sfug-

giva, qualcosa di molto importante: Valeria, recitando la sua battuta, non aveva avuto il coraggio di guardarmi in faccia. Eravamo seduti, separati da un tavolino bianco di plastica e ferro all’esterno di un bar.

«Vale» - molto tempo che non la chiamavo cosí. Come sono fredde tu tremi: la scena era piú o meno di questo genere.

Ma Dio, che esiste e ha un profondo senso dei tempi tea-trali, fece intervenire il cameriere. Desiderate qualcos’altro? No, porti il conto. Paga e andiamo. Odiai il cameriere, ma senza veemenza. Il mondo non avrebbe mai permesso che io fossi finito con Valeria; e a questo destino che già co-noscevo non potevo assolutamente oppormi. La riaccompa-gnai a casa con molta naturalezza e durante il tragitto disse pochissime parole. Ancora piú naturalmente il giorno dopo, con un certo mio sconcerto che mi affrettai a camuffare, fece finta di nulla. Non era accaduto nulla.

Ma la cosa piú fastidiosa è che, come sapevo che sarebbe successo, smisi di essere attratto da Valeria. Il fascino è assai poco oggettivo; nel mio caso - empiricamente provato - l’at-trazione non può essere biunivoca. A parte un caso o due, su cui sto ancora indagando. Sabato notte avevo portato Valeria Marcello e una sua amica in un locale carino, mezzo libre-ria, mezzo taverna chic. [No Marcello: tu non sei un musici-

sta vero, dovresti darti alla prostituzione. Valeria, dimmi: ma tu mi ami? Perché io ti ho amata, davvero, alla follia, ma ora, ora ti vedo piú come un’amica... cazzo quanto sei bella... mi spieghi perché devo per forza suonare il pianoforte coi polpastrelli e non posso invece usare le unghie o la lingua o il mio pisello? Eh?] Avevo preso l’abitudine di ubriacarmi, anche perché mi faceva sentire vicino a certa parte di let-teratura irlandese a me piuttosto cara. Gradita. E mi faceva pensare meno, come piú leggermente. Cioè: non proprio ubriaco, ma allegrotto sì, quasi tutte le sere. Sereno. Potevo dire quello che pensavo, in quattro o cinque in macchina si parlava di figa e letteratura e musica, ma soprattutto di figa. Piú raramente di esperienze pornografiche e di usi impropri di appendici corporali. Era come se tutto quello che sporges-se potesse adattarsi a tutto quello che rientrasse. Si parlava soprattutto di questo. E anche dell’inutilità della vita: a tratti Marcello tendeva ad essermi un poco piú simpatico. Faceva discorsi intelligenti sempre, e ora meno patetici.

Una sera eravamo in macchina i soliti quattro: io, il gran-de pianista, Vale amore mio e Francesca. In linea teorica le coppie sarebbero dovute essere per come eravamo sedu-ti (davanti c’era Valeria). Ma Marcello, ch’era dietro di lei, parlando aveva cominciato a sporgersi e con le lunghe dita aveva sconfinato. Guidando non avevo potuto vedere bene, ma a un certo punto Francesca aveva smesso di parlare, e anche Valeria; Marcello era zitto pure lui: m’ero ritrovato a fare uno stupido monologo. Francesca non riuscivo piú a inquadrarla nello specchietto, quindi doveva avere la testa appoggiata al finestrino, evidente dimostrazione di malu-more. Marcello invece era improvvisamente tornato al suo posto, ad appoggiare le spalle sul sedile posteriore. Vale mi sembrava imbarazzata, fece un colpo di tosse, finto, e iniziò

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un discorso perfettamente inutile su quello che aveva fatto di mattina. Poi disse una cosa, che molti giorni dopo avrei valutato come una sorta di favore che mi faceva per farsi perdonare un peccato che comunque mi sarebbe dovuto ri-manere ignoto.

«Oggi è venuto un cliente in studio, un editore. Parlando è uscito fuori che cerca scrittori giovani. Gli ho fatto il tuo nome, gli ho dato il tuo numero. Non si sa mai. Potresti fargli leggere le ultime cose. Magari i racconti».

«Perché no». Ero piuttosto distratto, e mi scordai di dimo-strare gratitudine o almeno entusiasmo.

«Ho sbagliato?»«Non lo so» - ma mi stavo riferendo a ben altro. «No, non

credo, non è importante».«Come non è importante...»«Mi sono espresso male. Intendevo quello che ho scritto

finora: non è assolutamente degno d’esser letto da anima viva, né moribonda. Neppure. Comunque grazie».

Ero tremendamente geloso, ed avevo appena avuto un at-tacco poco controllabile. Una quantità di birra che bastasse a stordirmi e distrarmi: questa l’unica soluzione. C’eravamo seduti, e dopo un poco il mio boccale freddo chiedeva solo di esser bevuto tutto d’un sorso. Vediamo? Era Marcello che voleva assaporare quel nettare, violarlo prima che io potessi baciarne la schiuma ancora vergine. Sapevo che fargli assag-giare la mia birra avrebbe significato rovinare l’intera bevuta (una forma mai del tutto debellata di nevrosi igienista mi aveva negli anni convinto che l’usurpatore lasciasse residui della propria saliva nel mio bicchiere e che questo vizias-se irrimediabilmente anche il piú solido degli equilibri), ma d’altro canto, negargli quella gentilezza avrebbe significato esporre lati del mio carattere che universalmente non mi ve-

nivano riconosciuti. L’espediente consistette nel far finta di non aver capito e nell’aver trangugiato nel frattempo una buona porzione di liquido scuro amarognolo. Dicevi?

«Fammi assaggiare...»«Tieni».Marcello aspettava un cartoccio con salsa rosa. Francesca

sorseggiava il suo Bellini. Valeria contemplava in silenzio il suo analcolico alla frutta.

«Che c’è Vale... Mi sembri siddiàta...»«Sono stanca».Ordinai un’altra birra, identica alla precedente. L’alcool

cominciava a impregnare a sufficienza le meningi. Mi avvi-cinai a Valeria - hai un buon odore...

«Be’, mi lavo»«No, non è di bagnoschiuma... è piú una cosa di pelle...»Il vero problema era che Valeria aveva davanti un bicchie-

re pieno di frutta spremuta e frullata. Niente cioè che potesse scioglierla anche un pochino. Vuoi un sorso? Proposi.

«No, non mi va».«Che palle! Ma che hai?»«T’ho detto niente: sono solo stanca».Non mi convinceva. A questo punto magari, da bravo mi-

gliore amico, avrei dovuto chiederle che cos’è che non an-dava, starle vicino, ascoltarla dire stronzate... pur vero che Valeria era sempre Valeria, ma diomio! ogni limite c’ha la sua brava pazienza... [affermazione che sottolinea il rappor-to di biunivocità tra gli elementi pazienza e limite]. Cosí la serata trascorse inutilmente ad elevare il tasso alcoolico nel sangue, finché lei disse ch’era tardi, che l’indomani doveva alzarsi presto, lavorare questo quello: andiamo. Accompa-gnai per ultimo Marcello. A quell’ora il cervello era abba-stanza lucido per intrattenere una conversazione, ma brillo

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comunque al punto da avere pochi freni inibitori. Volevo indagare.

«Ma con Francesca? L’ho vista strana».«Francesca... Francesca è quella che è. Se ho la possibilità

me la faccio, ma insomma... non è che sia tutto ‘sto granché...»«Come? È cosí carina, simpatica...»«Sí ma... tirando le somme... guarda, non regge il confron-

to». Confronto sta per rapportare a qualcun altro.«Effettivamente c’è di meglio sul mercato...»«Non c’è il minimo dubbio». Conferma del fatto che il

mio attacco di gelosia era piú che giustificato, cioè motivato, sebbene non giustificato. «Una ragazza deve essere fonda-mentalmente intelligente. Io credo che l’intelligenza sia la cosa piú erotica in assoluto, persino piú bella d’un paio di tette che stanno dritte da sole». Non potei far altro che far oscillare leggermente la testa in segno di netta e soddisfatta approvazione.

«E se poi è anche bella...» provai ad aggiungere. «Certo! Se poi è anche bella, è addirittura un miracolo...»Era come se all’improvviso il cervello di Marcello mi si

fosse squartato di fronte, felice di mostrarmi meandri fino ad ora insospettabili, e di una confortante familiarità. Ma cosa che in assoluto mi sconcertava di piú era il fatto che sapevo benissimo di chi stessimo impersonalmente parlando; e che per quella stessa persona, avevo da sempre provato le me-desime cose.

«Benvenuto nel club!» - mi scappò da dire.«Quale club?»«S.I.V. club: Club degli Spasimanti Insoddisfatti di Valeria».«Ma che cazzo dici?» Ma non poté fare a meno di sorridere. Mi misi a cantare, piuttosto stonato: «...I-o che non vi-vo

piú di un’ora-a senza teee, come-e posso staare una vita-a

senza te...» Orribile. «Ti manca, eh? Già ti manca...» Mar-cello era completamente spiazzato, credo essenzialmente per due motivi: il primo è che era tornato inaspettatamente a una vicenda cardiaca che riteneva superata e abbondan-temente archiviata da tempo. L’altro motivo consisteva nel dover prendere atto che con quello che in fondo era il pro-prio amico migliore si trovava adesso a condividere anche l’interesse supremo, qualcosa che addirittura si sarebbe po-tuto definire amore.

«Guarda che ti capisco», continuai. «Valeria ha tutto: è bella intelligente sexy spiritosa colta raffinata elegante diver-tente ironica affettuosa e ha pure un certo talento nel canta-re. Ma non te l’ha data allora e non te la darà mai».

Marcello si girò a guardarmi con una specie di mezzo sor-riso che lasciava scoperti solo i denti di sotto: respirò.

«E tu che ne sai».«Conosco Valeria meglio di chiunque altro. So che non

tornerà mai con te. E poi, francamente, non la meriti...»«E qui ti sbagli: se l’ha fatto una volta, può farlo ancora. E

poi io ho tante cose da offrirle, lo sai bene. E so di piacerle ancora, sento l’attrazione: c’è poco da fare... si sente, si sen-te: è un fatto di pelle, di odori...»

«Tu non hai capito mai un cazzo di Valeria... dimmi una cosa: che avete fatto stasera? Vi siete baciati?»

«Sí... cioè lei, le ho messo le mani sul collo, le ho sfiorato le guance... lei ha baciato le mani».

«Ha leccato le tue mani?»«Tipo... no, non le ha leccate, la lingua non l’ha tirata fuo-

ri... le labbra, le labbra soltanto...»«Ti ha semplicemente baciato a fior di labbra le mani».«Sí però...»«Ma dài... ti rendi conto che sei un pirla? Che non capisci

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piú nulla? Spiegato il comportamento di stasera: è sempli-cemente pentita e mortificata di quello che ha fatto. Non ti vuole illudere, ecco qua. E quindi ha avuto questa reazione: si sente in colpa... figurati se in questo momento pensa a te!»

«Le piace qualcuno?»«Tipo».«Chi è, lo conosco?»«Può darsi, sí, lo conosci...»«Non dirmi che è Luca, quel coglione nano!»«No, non è Luca. Ti pare che Luca può essere il tipo che

piace a Valeria? Prova a ragionare...»«Quel gran frocio di Matteo?»«Ti mancano Marco e Giovanni e abbiamo il set degli

evangelisti al completo! Matteo... Può essere mai?»«È un cliente dello studio dove lavora?»«Non lo so... - stavo cominciando a divertirmi».«Dài, smettila! Chi cazzo è?»A quel punto decisi di fare la faccia ironico-intelligente

che avrebbe dovuto svelare il mistero. Secondo te? Le mie sopracciglia erano opportunamente tese a formare un bel-l’arco acuto. Ma evidentemente la poca luce, oppure la mia totale incapacità di attore, annullarono ogni buon proposito, e Marcello non ne capí nulla. E quel frangente inatteso mi fece cambiare all’improvviso idea.

«Non ne so nulla. Ti ho solo preso un po’ in giro». D’al-tronde, a esser sinceri, la mia era stata solo un’intuizione, e finché Valeria non m’avesse confessato a chiare parole quello che provava nei miei confronti, ogni cosa sarebbe stata una semplice - gradevole - supposizione. Comunque Marcello accolse con sollievo la rivelazione, e mi benedisse, prima di lasciare la macchina, con un sospiro e un vaffan-culo straordinariamente liberatori: aveva ancora concrete

speranze. S’erano fatte le tre e mezza, un orario in cui Pa-lermo sembrava diventare ogni volta una città un poco piú intima. Era questo uno dei pochi momenti della giornata in cui sentivo la vita ritornarmi vicina. E cosí mi godevo sem-pre estremamente il rientro a casa, per esempio scegliendo il percorso piú lungo, e mantenendo un’andatura lentappa-gante; spegnevo la radio e abbassavo tutto il finestrino, per-ché l’aria entrasse, fresca, senza troppi pudori.

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terzo

Passarono circa due settimane perché le parole di Valeria assumessero una valenza reale. Un giovedí sera, intorno alle ventitré, fui informato a mezzo di una telefonata dai toni abbastanza formali che avrei dovuto recarmi presso l’edi-tore Tizio, in mano i miei manoscritti migliori. Venerdí alle tredici in punto, al numero otto di via Fibonacci. Chieda al portiere. I toni m’erano sembrati piú quelli di un capo dei servizi segreti che di un segretario qualunque che si per-metteva di chiamarmi in orari non da ufficio; comunque abbozzai un sorriso e ringraziai. Occhiata al pendolo della cucina: mi rimaneva piú di un’ora da passare ancora sveglio: la televisione era mezzo guasta, nessuna voglia di leggere... non mi restava che accendere lo stereo: Shostakovich, se-condo tempo del secondo concerto per pianoforte e orche-stra. Me l’aveva regalato Marcello il Natale passato. Basta-vano poche note degli archi e già il tempo cambiava ogni volta; che fuori piovesse tuonasse o risplendesse una stella gigante, un’aria splendida s’impadroniva di tutto me stesso. Avrei dovuto scegliere le cose migliori, meno peggiori, cioè. Alzai un poco il volume, alla quinta tacca, quel tanto che il vicinato poteva permettermi, per riempire la casa di note meravigliose, e lasciando un orecchio sul divano del salotto mi avvicinai alla scrivania zeppa di carte, nello studiolo.

C’era una miriade di frasi, anche incomplete, che avevano l’abitudine di sorprendermi, a volte - odiosamente - persino in quel sublime momento che è il dormiveglia. Dico odio-samente perché la mia piú forte necessità è segnarle, prima che inesorabilmente sfumino via per sempre. E quindi sono costretto a svegliarmi completamente per poterle annotare. Una quantità incredibile di mezze descrizioni di personaggi,

fatti impossibili e disegni. Tantissimi disegni: fiori automobili criceti Minnie & Topolino profili di donne bellissime. Tene-vo tutti quei fogli a portata di mano, pronti ad essere riciclati non appena ce ne fosse stato bisogno. E probabilmente li avrei utilizzati anche stavolta. Ma come far leggere a qual-cuno qualcosa di incompleto, un editore poi, che appartiene alla peggiore razza di miopi... fosse stata una persona intel-ligente avrebbe intuito, capito cosa si celasse davvero dietro quei mille capoversi... promesse di un nuovo grande roman-zo, qualcosa di estremamente brillante, poco commerciale... Love Story: il tipo di romanzo grande quanto un racconto che non volevo (sapevo) scrivere. Ma ne tenevo sempre una copia sul tavolo, un regalo prezioso. E Ammonitore.

In genere un romanzo è caratterizzato da un ristretto nu-mero di personaggi, tra i quali è bene che s’intreccino storie di amore gelosia e vendetta, e tutta una serie di comparse pronte a riempire vuoti e a dire frasi interessanti. Ci deve essere una donna intelligente affinché gli uomini sognino e le donne leggano con piacere, e questa donna deve ave-re delle passioni smisurate. Porca miseria, dimenticavo le storie d’amore! Incredibile, ma benché avessi fino a quel punto macchiato parecchie centinaia di pagine incolpevoli, non avevo mai indugiato su una autentica storia d’amore... buona soluzione per un personaggio: il cattivo intelligente e colto. Il cattivo ignorante e stupido non piace a nessuno, fa solo pena o schifo. Ma ce ne deve essere uno soltanto, altrimenti il lettore si perde e non capisce piú nulla. E poi sono importanti i nomi. Ci vogliono bei nomi che riman-gano impressi. Cercavo dei nomi. Armando magari poteva andar bene. Manuela Armando. Un nome ambiguo: Simone. Che in italiano è maschile, ma se lo leggi in francese...

Un nuovo romanzo. Perché no? Avrei portato quei cento

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cocci, tanto per mostrargli cos’ero capace di fare, far vedere la mia tecnica nuda e cruda. Mi decisi ad estrarre il primo cassetto di sinistra. Nel primo cassetto di sinistra tengo la calcolatrice una squadretta e gli appunti un poco piú sensati, del materiale che aveva di per sé un certo interesse, che era stato anche corretto e che aveva appunto la caratteristica squisita di non appartenere a nulla; anche se a dire il vero una parte di quei fogli erano capitoli tagliati da lavori prece-denti. Ci trovavo descrizioni di donne fatali di nasi maschili di strane abitudini che un tempo mi erano appartenute, di giochi che i bambini facevano nel parco: tutte cose che non potevano reggere nulla, ma che quasi sempre funzionavano da straordinario condimento e punto di partenza per chissà quali mondi. Scrivere è solo questione d’abitudine: l’estro creativo è qualcosa che ci accompagna sempre; basta un nonnulla perché la gatta in calore che è dentro di noi rico-minci a miagolare rumorosamente [pessima metafora, gio-cata sul doppio significato della parola ‘estro’]. E questa è la mia tattica appunto. Non ho quasi mai idee degne d’un romanzo, intendo qualcosa che possa essere portato avanti per piú di dieci quindici pagine... niente idee politiche nuo-ve o esistenziali degne d’esser protagoniste.

Mi sedetti quando già suonavano le ultime note dell’an-dante. Attaccava il terzo tempo: fortunatamente non era su-bito fortissimo e potei rinviare di poco la corsa alla manopo-la dell’amplificatore. Tornai a sedermi, mentre il pianoforte si valangava godurioso di scale e io, brevemente, rimpian-gevo di non aver mai studiato musica seriamente... altro che Marcello a quest’ora! Vediamo un po’. Questo non significa niente, questo è nulla... vediamo... Dovevo selezionare due o tre capoversi interessanti. Ecco qua: descrivevo accurata-mente la scollatura d’una mia conoscente, fantasticando so-

pra universi di pizzo e labbra ciuccianti; avevo naturalmen-te sostituito il nome. Sennonché, dopo una mezza pagina cosí strascicata, mi riducevo a parlare di politica spiccia, del vecchio partito comunista e del rimpianto Togliatti. Taglia-re: niente politica. Soprattutto: niente vecchio comunismo. Non sapevo chi mi sarei trovato davanti, magari qualcuno che vuole emergere, che c’ha la mentalità aziendale.

Ci fosse stata una donna nel libro, comunque le avrei messo due tette cosí e avrei riempito quasi una facciata a parlare delle sue multiformi scollature (espediente di diversi vestiti: camicetta mezzo aperta, abito da sera con paillettes, costume due pezzi in spiaggia, eccetera). Inoltre, per render-la piú interessante, l’avrei fatta compagna d’un dirigente di partito, e lei stessa politicamente impegnata. No, niente po-litica. E una donna c’è sempre in un libro. Se immagino un libro di soli uomini mi assale una tale tristezza! Altro foglio interessante: dialogo tra una donna sulla sedie a rotelle, che rinfaccia al suo amante di averla tradita di nuovo. Proteste vigorose. Avrei potuto prendere la splendida donna di prima, farle avere un incidente, ed ecco i risultati. Storia tragica, non si sa se riuscirà mai a riprendersi da questo stato... lui cerca di difendersi, ma è un povero disgraziato che non se la sente piú di fare l’amore con la donna che ama, o che ha amato (questo non si capisce bene). Sono fermi all’ingresso, lui ha appena chiuso la porta. Ha un carattere debole, tradi-sce per debolezza. Riciclabile. Era finito il concerto. Trovai anche due pagine abbastanza interessanti, spillate insieme. Una macchinosa digressione sui tipi umani, su certi concetti di bellezza da tirar fuori come le migliori giustificazioni per le occasioni piú tristi. Valeria mi ripeteva che avrei dovuto cambiare non solo il mio modo di scrivere, buono ma co-munque ancora da appianare, ma anzitutto il pubblico cui

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indirizzare la mia produzione. Che a suo parere mi ostinavo ancora a far coincidere grottescamente con me stesso, esse-re umano dai gusti curiosi e dalla pazienza letteraria infinita. Giro di parole per dirmi che scrivevo cose noiose a dal nes-sun futuro editoriale.

Valeria era l’unica persona che aveva avuto modo di sag-giare le mie qualità di scribacchino. Di lei mi fidavo, forse per ragioni di cuore; e continuavo a fidarmi nonostante ri-petesse da sempre la stessa litania: vuoi vendere? Cambia! E questa volta avevo deciso di raccogliere la sfida: sarebbe stata la giusta occasione. Ci avrei infilato una storia di ses-so, con un discreto numero di particolari piccanti, un paio di colpi di scena, il tutto sorretto da una struttura piuttosto equivoca - instabile - tipo Sliding doors. Perché al pubblico questo piace, in quanto costituito principalmente da esseri umani con le solite banali esigenze: impulsi, desideri, bi-sogni, frustrazioni. Avrei confezionato un prodotto perfetto, fatto su misura per l’essere umano, che ne risvegliasse ogni sua singola particella, che smuovesse i suoi umori. La rego-la bizantina: sesso politica sangue: andrà a ruba. L’uomo è sempre lo stesso da sempre, non gli importa altro...

Venivo da una settimana agghiacciante, nel corso della quale avevo avuto modo di verificare la perfetta inconsi-stenza di chi mi stava intorno. Anzi, in gran parte dei casi, m’ero sorpreso insofferente nei confronti degli individui che mi circondavano. E trovai quindi fin troppo evidente che in quel romanzo ci avrei dovuto mettere almeno un paio di soggetti completamente imbecilli, da arrostire come si deve (avrei usato la mia lunga penna come spiedo). Stavo pas-seggiando lungo il corridoio, e tenevo ancora quelle due paginette spillate in mano. Bla, bla, bla... ecco: giacché ogni essere umano si rifà ad un modello, psicologicamente e fisi-

camente. Questi modelli rappresentano quindi i vari carat-teri e i vari tipi (per un approfondimento sui tipi psicologici cfr. Jung, 1921). Inoltre proprio qui si inserisce il concetto di bello. È bella infatti quella persona che risponde ai cano-ni del tipo cui appartiene; e quanto piú si avvicina al ‘tipo’ perfetto tanto piú essa è considerata bella. Concordo. Piú o meno. In effetti si trattava di cose piuttosto banali, esposte per di piú con un linguaggio da pseudotrattatello pseudo-scientifico. Se avessi voluto davvero riciclarle, le avrei do-vute imbellettare, trasformare, poetizzare. O romanzare. Per esempio avrei potuto parlare di due amiche, tutt’e due di simile carnagione e simili tratti somatici, colore dei capelli, altezza. Ma una di esse considerata bella, l’altra no. A que-sto punto avrei potuto inserire il dramma esistenziale della bruttarella, i suoi vari complessi, l’adorazione per l’amica perfetta, eccetera. Perché quando si vogliono esprimere del-le idee, e si ha intenzione di farlo senza rischiare d’essere tacciati di supponenza, è necessario farlo in maniera poco esplicita. [Ho appena fatto quello che ho detto di non fare]. Il lavoro del grande romanziere è quello di utilizzare delle storie lunghissime farcite di dialoghi improbabili tra esseri umani normali per esprimere un concetto semplice e gene-ralmente tragico - tipicamente russeggiante - che un filosofo o uno studente di filosofia, saprebbe riassumere in una mez-za pagina di quadernone a quadretti. Vuoi dire che l’amici-zia è un valore importante e che, se sei veramente figo, alla fine il tuo tormento ti farà fare una pessima fine? Scrivi Tre di tre, o Quattro di quattro, ma meglio non superare la cifra di cinque, che potrebbe destare sospetti.

Basta: il mio nuovo primo vero romanzo non sarebbe sta-to banale, non sarebbe stato soprattutto un ammasso di in-consistenze romanzate: un romanzo non romanzato quindi.

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Come ce ne sono stati tanti. E c’avrei messo un personag-gio in particolare a me piú caro, il solito alter ego. Ma non principe idiota, e neppure Raskolnikov: qualcosa di medio, di normale, uno che non ha mai pensato di ammazzare nes-suno, e che pure si fa rispettare dai propri simili, uno che vive la vita, che ha i suoi problemi, che spera di risolverli. Sarebbe stato un romanzo normale, come la vita. Non pagi-ne di cronache che piacciono perché romanzabili e puntual-mente romanzate, ma la vita interiore; che ad esser sincero a volte mi pare persino un poco noiosa: l’animo in fondo è imperturbabile. Se interrompo un momento ogni mio lega-me col mondo e smetto di far finta di sorprendermi di quello che attorno intanto mi accade, è facile rendermi conto che nulla cambia mai per davvero. Almeno per me.

Mi ripeto: negli ultimi giorni avevo avuto modo di com-prendere come ai tizi che frequentavo non importasse pra-ticamente nulla di me, di quale effettivamente sarebbe stato il mio destino. Ma a ciascuno di loro, presi a parte, non interessava neppure la sorte di tutti gli altri. E per me va-leva ancora lo stesso. A nessuno frega sinceramente nien-te di nessuno. A tratti non frega neanche di se stessi! [Una delle ultime poesie che avevo studiato al liceo era stata La ginestra. Il gobbetto di Recanati mi aveva sorpreso, con quel suo slancio finale. Adesso non sapevo esattamente se la mia condizione si trovasse tragicamente oltre la sua - l’ultimo stadio di un pensiero miracoloso - o ancora piú tragicamen-te, ma forse un filo di speranza, anni luce ancora distante. Io non so esattamente se vendano di piú i romanzi tristi, intrisi di pessimismo esistenziale, o quelli a lieto fine. Sapevo sol-tanto che quanta piú pornografia fossi riuscito a riversare in maniera non troppo volgare su quelle pagine, tante piú sarebbero state le probabilità di non pendere dall’albero

della Sfortuna (op. cit.). Certo, se avessi deciso di infilarmi di soppiatto in quel libro come personaggio, travestito dal-l’uomo scaltro che ha capito ogni cosa... se avessi tentato di rifilarmi come donna avvenente bionda... ma s’interruppe presto quel sognare diverso. Ero abbastanza curioso. Volevo vedere come sarebbe andata a finire]. L’amicizia: come fai a scrivere di un’amicizia vera quando intorno vedi merda antropomorfa che si sbraccia e dimena unicamente per il Proprio tornaconto... mie pessime esperienze, d’accordo. Ma possibile davvero che delle centinaia di tipi che mi fosse stata data l’opportunità di conoscere, nessuno - non uno - lo si potesse prendere, senza che questo valesse per induzione per l’intero pianeta umano?

Aprii altri cassetti ammonticchiando cose piú o meno inu-tili, tendenzialmente tutte uguali. Mi venne in mente un di-scorso che mi aveva fatto una volta Marcello: Hai presente l’Inno alla Gioia di Beethoven? Be’, se ascolti la parte finale della Fantasia per pianoforte e orchestra senti piú o meno la stessa cosa, solo che fa un po’ schifo. È come se fosse una prova, un tentativo mal riuscito. Stessa cosa per me, solo che non mi chiamo Ludwig. Un continuo tentare, senza mai arri-vare all’opera centoventicinque - cosí la chiamava Marcello con fare tronfio leggermente. È pur vero che il tipo c’è arriva-to dopo centoventiquattro altre opere, ma ha fatto altre cose, in gran parte fondamentali... Rassettai i fogli inquadrando-li bene, sbatticchiandone due dei lati sul tavolo. Pensai a come descrivere quel gesto sarebbe stato difficile. Usare il tavolo per allineare i fogli, perimetrarli tramite il piano di legno, formare la piccola risma e ricondurla alla silhouette archetipica, appaiarla raddrizzarla. Tanto imbarazzo per un gesto cosí semplice, immaginarsi parlare della vita.

La tecnica di chi scrive. Innanzitutto adatta a descrivere,

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in grado di ripetere accuratamente e univocamente qualun-que gesto azione stato reale o immaginato. L’onnipotenza del linguaggio tante volte negato. Non è vero! Si tratta solo di personale impotenza. Pensai alla differenza tra una lin-gua evolutissima come la mia e la musica. Lingua universale un caterpillar! La musica non è un linguaggio, ecco perché sembra universale. La prerogativa di un linguaggio è comu-nicare qualcosa di ben definito, per poter essere ripetuta e trascritta, non solo una maniera di esprimersi vaga. La forma come valore portante e non struttura accessoria. Per questo è necessario avere un soggetto un verbo e a volte un com-plemento oggetto per un’idea completa complessa - non ele-mentare [ma forse è proprio questo uno dei limiti fondamen-tali di qualunque linguaggio cellulare]. La frase si muove attraverso soggetti costituenti, la musica può farne in genere a meno, a parte forzature evidenti, e piú tipicamente si muo-ve attraverso livelli costituenti: tonica sottodominante sensi-bile e non c’è neppure questa necessità, scoperta recente e vecchissima, prima che le gerarchie trionfassero... per avere senso una frase di parole deve disporsi secondo una struttura ordinata ben precisa (poche varianti); le note hanno comun-que senso (varianti della permutazione e simili).

Idea: mi sarebbe potuta servire una vecchia cosa che ricor-davo di aver scritto, un paio di pagine spiritualizzanti attor-no alla differenza tra Vita e Corpo, dialoghi pseudobuddhi-sti, in cui l’ignoranza personale era mascherata da ingenuità. In effetti troppo privo di conoscenze, specifiche e sulla vita stessa, per poter parlare davvero di qualcosa. Improvvisare su Trasmigrazione e Co. L’anima individuale et cetera ma con fare da casalinga... In quel periodo avrei voluto fare tut-t’altro. Altro che scrivere! Trovarmi una donna, scacciare il ricordo di quella che avevo piantato per non ricordo bene

quale strano motivo. Ma non Valeria, che forse mi voleva forse no, fatto sta che non l’avrei mai avuta, per ragioni cu-riose. Quell’altra, invece! Frase utilizzata per piantarla: Cara, come sarebbe romantico se passeggiassimo sul lungomare, tenendoci per mano, e io ti sussurrassi: mio tesoro, non ti amo affatto; e tu: sta’ tranquillo, neppure io. Ecco, questo è quello che si può benissimo chiamare una specie di motivo [linguaggio parlato volgare].

Non mi sentivo affatto solo [momento ricorrente nella let-teratura sviluppata in prima persona: si parte sempre da una figura maschile abbandonata o che ha abbandonato senza sapere perché - vittima dunque in ogni caso]. Né provavo al-cuno slancio verso l’umanità parimenti sola, tante solitudini allora messe assieme a farsi compagnia. Avrei illustrato al-l’editore la mia idea di romanzo, una specie di trama, come avrei condotto la cosa; gli avrei fatto leggere i soliti undici racconti che non raccontano nulla - roba che continuavo a correggere da anni; e gli avrei mostrato anche un po’ di quei capoversi, le cose migliori, giusto per dimostrargli che avrei potuto scrivere davvero... casomai l’avrei facilmente adatta-to. L’arte del riciclare ogni cosa. Questo è mestiere. Se però avessi dovuto scrivere veramente qualcosa di commerciale, termine terrificante che sta ad indicare della roba facilmente consumabile, appetibile per chi possiede un orribile gusto e solo quello, avrei dovuto fabbricare almeno una storia.

Bisogna partire per forza da una storia. Prova per il matti-no seguente: fabbrichiamola, ad alta voce: c’è un lui, Fran-cesco, nome buono, aperto, che evoca sincerità; c’è una lei, Tiziana, carattere difficile, sicuramente affascinante, capelli scuri naturalmente con qualche riflesso, consapevole di pia-cere, tendente a edificare palchi. Lui viene a sapere da Chia-ra, un’amica segretamente innamorata (di Francesco) che

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Tiziana ha fatto le porcherie con Luca, personaggio simpa-tico-stronzo (dipende da che lato lo guardi). Francesco che è follemente innamorato della sua Titti non riesce a credere alle parole di Chiara, anzi, visto che sa dei trascorsi tra lei e Luca pensa ad una messinscena che serva a screditare il povero amico innocente e contemporaneamente a distrug-gere una storia felice (quella tra Francesco e Tiziana). Cosí una sera, si ritrovano tutti e quattro da soli allo stesso tavolo di un pub. Luca, per non fare capire niente a Francesco, fa il filo a Chiara. Lei un poco è confusa, e un poco ci cade. La cosa continua. Frase di Francesco a Tiziana: vuoi vedere che quei due tornano assieme. Risposta di Tiziana che nel frattempo si sta innamorando di Luca e continua ad andarci a letto: sarei troppo felice. Troppo. Si dissipano gli ultimi dubbi di Francesco. Luca nel frattempo avvicina davvero Chiara che è sempre piú spiazzata e si accorge di provare ancora qualcosa per lui. Luca ti devo parlare. Parlano. Frase di Luca: ti assicuro che tra me e Tiziana non c’è piú nulla. È vero c’è stato un momento, ma era solo sesso [perché, c’è dell’altro?] eppure un decimo di quello che provo per te. Sei tu la ragazza che io voglio accanto. Per tutta la vita. Luca ti amo. Tiziana comincia a sentirsi in pericolo. Luca ti devo parlare. Parlano. Frase di Luca: tra me e Chiara è finito tutto da un sacco di tempo. Sai bene che sei tu quella che vo-glio. Luca voglio lasciare Francesco. Lascia stare decisioni avventate: per ora è meglio che continui a stare con lui. Non vorrai fargli del male, io non potrei vederlo soffrire. Pensiero di Tiziana: Luca è un vero amico, è proprio un tesoro, come sono fortunata ad avere trovato un ragazzo cosí, deve essere soltanto mio. Francesco parla con Luca: vorrei che tu ricon-siderassi Chiara: è veramente carina e ti adora, non ti ha mai dimenticato. Pensiero di Francesco: però effettivamente

non è niente male Chiara, forse sto sbagliando a riavvicinar-li. Ma in questo modo almeno sono sicuro del fatto che ‘sto stronzo non si avvicina troppo a Tiziana. Pensiero di Luca: comunque una meglio dell’altra, due tipe diverse, molto carine; quasi quasi me le faccio tutt’e due che è la cosa migliore. Prima conclusione: Luca diventa buono e dice a Tiziana che è giusto che lei torni dal suo Francesco. Luca si mette con Chiara che recupera il vecchio sconfinato sen-timento. Mia personale reazione: un poco deluso. Seconda conclusione, variante della prima: bisogna aggiungere che dopo pochissimo tempo Francesco viene a sapere la verità, s’incazza come una jena, pianta tutti in un mare di lacri-me femminili, viene visto come il cattivo e si trova un’altra donna, pur continuando ad essere innamorato di Tiziana. Commento: cose che generalmente capitano; è cominciato il periodo di vagabondaggio per Francesco che comunque si è dimostrato una persona migliore di quanto pensassi. Terza conclusione: Luca si fa effettivamente tutt’e due, poi si stan-ca, pianta Chiara e Tiziana che piuttosto annoiata si va a fare ancora un paio di anni di relazione con Francesco per poi lasciarlo. Chiara piange. No comment. Quarta conclusione, un poco ad effetto: Tiziana, Chiara e Luca si ritrovano nello stesso letto, magno cum gaudio. Alla faccia di Francesco che non saprà mai nulla. Forse Luca è diventato il mio eroe.Non vorrei mai trovarmi nei panni di Francesco. Da notare che questa scena potrebbe causare nel lettore un moto di sdegno apparente; tranne il caso in cui il lettore stesso non faccia Luca di nome, o sia una sorta di Luca addirittura [ma non è neppure detto: possibile giustificarsi: la mia era una situazione particolare eccetera].

Mi parve perfetta: l’indomani l’avrei messa su carta, forse. Ma naturalmente, se si vuole creare una creatura piú com-

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plessa, non bisogna mai dimenticare di infilarci il denaro. Sesso e denaro. Sesso e denaro. Sesso e denaro. Altro che buddhismo! Un fertile terreno è rappresentato da un nucleo familiare. Meglio se ampliato. In seno ad esso [sesso] si po-tranno facilmente costruire lotte intestine basate sull’acca-parramento di ingenti quantità di patrimonio. Le rivalità tra fratelli per una stessa donna o per lo stesso malloppo sono un classico irrinunciabile. Ma io ambivo a costruire qualco-sa di pseudointellettuale, fatto però talmente bene da poter interessare anche i caproni, qualcosa che si potesse leggere a diversi livelli. Be’, allora non mi restava che introdurre ci-tazioni. In genere quelle che funzionano meglio sono poesie belle e conosciute, che abbiamo studiato tutti a scuola; e arte suprema sarebbe darne una lettura nuova, che sorpren-da i piú smaliziati [tutti contenti].

Un’altra possibilità è quella di parlare di un’opera d’arte, far passare la storia da un museo o da una sala da concerto. La musica soprattutto fa molto cool: la musica classica fa intellettuale per pochi, il rock anni Settanta fa invece molto aperto e classico in altro modo, intelligente e di tendenza. Il jazz poi è l’ideale: figo e colto nello stesso tempo, e al riparo da ogni sospetto di razzismo. Io adoro la musica nera [negra]! La mia anima anche lei c’ha un po’ di blues ecce-tera. La cosa divertente è che la gran parte di chi cita mu-sica mentre scrive non è minimamente in grado di eseguire decentemente una fuga a tre voci del buon geipuntoesse-puntobac. Quindi che cazzo fa il figo a parlare di questo e quell’altro? Come se io scrivessi un trattato sull’ammissione lamellare [punto].

Lo stereo. C’era ancora il concerto di Shosta nel casset-tino del lettore. Play: un piccolo miracolo. Ogni volta che mi capita di ascoltare leggere vedere assaporare un qualche

capolavoro, non posso fare a meno di interrogarmi sulla sua circostanzialità. Mi spiego meglio: naturalmente mi pongo la questione se quel capolavoro avrebbe potuto essere lo stesso altrimenti, cresciuto in un’altra culla, addirittura sotto mani diverse. Risposta inevitabile: se si tratta di arte evidentemen-te no. [Inevitabile digressione]. Delle quattro cose - e quattro è ben meno di venticinque, aldilà di come questi numeri vengono usati - delle quattro cose che ho scritto, io vado estremamente fiero. Perché sono esattamente rispondenti al mio gusto: le cose - come dovrebbero essere. Ecco quindi subito un elemento di contestazione. Da un lato dico che l’arte si va creando assecondando i momenti, nutrendosene, costruendosi di casualità (un’idea che altrimenti si sarebbe disfatta, o persino un mezzo errore che diventa ispirazione autentica o gioco arguto di parole); dall’altro riconosco al prodotto finito una certa necessità. Risoluzione e fine della digressione che sinceramente mi sarei aspettato piú ampia: l’arte può nascere in mezzo alla casualità, anzi sinceramen-te ritengo che il vero artista fruttifichi le larve delle sue crea-ture in pieno stato di incoscienza o addirittura in una sorta di condizione estatica che è possibile indurre ma assai poco pilotare; e d’altro canto la vera opera d’arte si raggiunge solo dopo un attento faticoso labor limae (compito dell’artigiano dall’ottimo gusto coinquilino dello stregone caduto in tran-ce poco fa) che conduca alle necessarie fattezze. E natural-mente i due stati non sono sempre perfettamente distingui-bili. Ma distinguere una vera opera d’arte dal buon lavoro di un artigiano e basta è difficile quasi quanto capire quale sia il vero amore. [Chi ha parlato di amore? A questo punto certamente potrei aprire un’ulteriore digressione su questo interessantissimo tema, ma a dire il vero mi secca piuttosto e seccherebbe enormemente chi legge].

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Comunque, tra una chiacchiera e l’altra (nonostante la perfetta solitudine), era cominciato il secondo tempo del primo concerto di Shostakovich. Nello stesso cd ci stavano entrambi i lavori: concerto numero uno e concerto numero due. E tra una nota e l’altra mi era capitato di pensare che troppe volte chi scrive si scorda di chi legge. Cioè: non aiuta per esempio il povero lettore a capire le sue reali considera-zioni, non gli porge le storie, non fa i dovuti richiami a cose avvenute sessanta pagine prima e che quindi molto proba-bilmente si saranno già perdute nel passaggio dalla memoria a breve termine a quella di maggior durata. Un libro dovreb-be essere comodo da leggere, non deve essere noioso, certo, almeno; ma non basta. [Io credo cosa fondamentale il fatto che il romanzo debba anzitutto piacere a chi lo scrive: io non posso portare avanti un’idea infelice, qualcosa che non mi aggradi neppure: il primo lettore è colui che scrive. Bella sentenza. E allora?] Cominciavo ad innervosirmi, ma senza alcuna autentica carica nervosa. Forse innervosirmi non è la parola giusta: stavo cominciando ad annoiarmi. Non sapevo che cacchio gli avrei fatto leggere a quel fottutissimo edi-tore sabato mattina [uso retorico di un’espressione volgare mutuato da certa buona letteratura statunitense]. Vabbe’ i racconti, ma a parte quelli?

Avevo già provato a scrivere sottospecie di romanzi. I pri-mi due un disastro: noiosi già per me, immaginarsi chiunque altro. Uno è stato il mio miserrimo tentativo di emulare Il signore degli anelli. Che adesso va tanto di moda, ma fino a un po’ di tempo fa era conosciuto solo da chi aveva studiato bene l’inglese, da quattro intellettuali e da un esercito di li-ceali affetti da acne che non l’hanno mai letto neppure tutto. Tentativo pessimo, dicevo: pochi personaggi sconclusionati che arrivati a un certo punto della storia prevedevo si sareb-

bero incontrati, ma che invece non riuscivo assolutamente a mettere assieme. Errore fondamentale dal quale avrei dovu-to imparare per i miei prossimi lavori: dài prima una struttu-ra, un’idea, una storia appunto che sia già compiuta. Il mio tipico modo di procedere è invece quello di concepire un pantano, una palude emotiva o eventizia dalla quale spicca-re il volo, partire. Forse in me regna la sublime capacità di scrivere per ore di nulla, di avvinghiare il lettore fesso, che ha pagato quindi vuole dare un senso ai soldi spesi. Questo lo so fare. Parole & Co. Storie un ca***.

Ma effettivamente se avessi deciso di scrivere una storia avrei finito con inventarne una piuttosto deludente già senti-ta, comunque meno coinvolgente di una puntata di Melrose Place Ma se qualcuno ti ordina di scrivere un libro che pos-sa avere qualche speranza di vendere la cosa piú naturale da fare è: prendi due coppie, le fai innamorare in croce, ci metti magari un finocchio o una lei ambigua. Metti un caz-zo e vaffanculo ogni tre quattro pagine, parli di cose losche che sanno tutti (lei si toccava la sera, quando non riusciva a prendere sonno) ma che ancora sortiscono un certo effetto. Lui penetrò il corpo caldo di lei dopo averla stretta con forza tra le braccia possenti, e lei gemette sotto i colpi poderosi e profondi. Però non ti dovresti dimenticare dell’amore. O di realtà forti tipo la droga, l’immigrazione, un figlio adottato che cerca un posto al sole. [Benny c’entra qualcosa? Perché scomodarlo, lui che davvero pende calvo e a testa in giù dal-l’albero dalla sfortuna]. Ci puoi mettere una donna malata, che non può avere figli, due fratelli che lottano per l’eredi-tà: e che stai combinando? Cosí non sarai mai uno scrittore. Il vero scrittore non si dilunga mai in storie complesse, da mezzo secolo almeno. Lasciale al cinema certe cose, e ai polpettoni post prandiali. No, tu devi scrivere un libro di

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cinquecento pagine anche se non hai una cazzo di storia da raccontare, vaffanculo! Altrimenti per guadagnarti da vive-re puoi sempre contattare Retequattro! Le belle storie sono semplici, elementari, banali: L’alchimista è un capolavoro perfettamente inutile, ma pur sempre un capolavoro. [Ma io veramente non voglio scrivere storie, non le so scrivere: la volpe e l’uva].

L’editore mi avrebbe cacciato, scacciato. Ma prima di an-darmene gli avrei con fierezza a voce alta, esposte le mie chiare belle ragioni. Punto primo: in cinquecento grammi di letteratura io non voglio trovare la bella storia. Se c’è magari è meglio, certamente. Ma non è quello che mi interessa so-prattutto. Io voglio trovare me stesso, delle risposte a delle domande. Voglio soprattutto divertirmi. Voglio capire cose che fino ad allora non avevo capito. Voglio che mi siano raccontati i colori d’un quadro colossale posto in una parete di una stanza perfettamente buia [metafora complessa che rischia di significare assai poco]. Certo ci sono anche i libri leggeri. Sto leggendo Le affinità elettive. Uno splendido libro leggero, un affresco ineguagliabile con qualche dose di spe-rimentazione e la voglia di chi l’ha scritto di fare vedere ogni tanto quanta cultura è riuscito ad accumulare: conoscenze mineralogiche, antropologiche, architettoniche: un uomo completo, un suo raffinato testamento. E piacevole, coinvol-gente. Arrivati a pagina novanta chiunque vorrebbe essere Éduard. Ma io non scrivo storie. E adesso che ho l’urgenza di almeno proporre una storia non so davvero che pesci imitare. [Il passaggio dall’imperfetto all’indicativo presente avvicina il lettore; un problema è riuscire a risolvere la modulazio-ne inversa senza fastidiosi scalini]. Punto secondo: niente, come non detto. Fine della mia arringa. Me ne sarei andato sbattendo la porta sullo sfumare del punto primo. Quindi

unica soluzione vagabondare un poco sabato mattina per la città, nei pressi di via Fibonacci numero otto, aspettando l’ora convenuta. Non potevo improvvisarmi qualcosa che non sono mai stato. Padroneggio le parole, non le storie.

Di fondamentale importanza essere maestri dello scrivere. Un concetto vicino a quello della composizione musicale: si possono mettere assieme cose gradevolissime all’orecchio, senza aver detto nulla di particolare. Da cui: la banalità fa piacere? Dal momento che s’adatta perfettamente a una di-sposizione già stabilita (disposizione nelle orecchie, nel cuo-re) non costringe il fruitore ad alcuno sforzo, quindi è buona. Quindi va bene. Comunque tra un pensiero fondamentale e uno straordinariamente idiota, nella perfetta incapacità di discernere uno dall’altro (perfezione identica a quella del buio della stanza del quadro), s’era fatta mezzanotte meno dieci. Cominciavo ad avere sonno. Non sapevo cosa fare. In realtà non avevo molto da fare, niente di preciso inten-do. Avete mai pensato a quanto sia perfettamente stupido dormire. Meglio: quanto sia perfettamente stupido vivere in genere. Non ti porta da nessuna parte. Sembra che l’unico fine sia arrivare a morire in maniera decente: si vive la vita in funzione della sua stessa fine! Ecco, tutto questo mi sembra estremamente stupido. E dal momento che mi sono piutto-sto rassegnato alla perfetta latitanza (ammessa la sua esisten-za - cosa già questa ardua piuttosto da ammettere) dell’oste senza nome di questa cacchio di locanda grossa, ecco, dal momento che non si fa vivo nessuno, be’: per quanto mi ri-guarda io potrei essere già morto da un pezzo; giuro che non mi cambierebbe un granché. Né sono perfettamente sicuro d’essere vivo. Non ho nessuna irrefutabile prova di questo.

Ma adesso avevo altri pensieri: convincere qualcuno che fa di lavoro forse l’editore ma che in realtà probabilmente

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gestisce un bordello nel centro, meglio al piano di sopra del-l’ufficio, ad assegnarmi un compito, un lavoro stipendiato. Solo un contratto con un editore privo di buon gusto. Magari un contratto, ma quale contratto... non avevo la minima pos-sibilità di convincere qualcuno a darmi un lavoro, pagarmi per fare una cosa che effettivamente non potevo dimostrare di saper fare. Fiducia, Speranza e Carità. Prima o poi sentivo che sarei diventato cristiano.

quarto

«Che cazzo dici?» Non potevo crederci: Marcello mi stava davanti con la faccia tutta contenta di un idiota. Aveva ap-pena finito di dirmi della strepitosa scopata che s’erano fatti lui e Valeria la sera prima.

«Ti giuro, una roba paurosa. Altro che un altro... Ama me, Me! Valeria mi ama!»

A quel punto la tipica situazione di trovarmi ospite sul pianeta Terra, scaraventato non si sa da chi non si sa perché dal piú remoto degli angoli dell’universo, sensazione questa che mi ha storicamente avvinghiato ogni volta nei momen-ti di piú smarrente depressione, questo CONVINCIMENTO assurdo mi prese dolorosamente e come mai prima d’allora. Prima esclamazione intima: puttana. Seconda esclamazione intima: bastardo. Terza ed ultima: sono un coglione. Non in-tima e comunque ripetuta piú volte allo specchio: coglione perfetto da ogni angolazione possibile.

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quinto

Il tipo che mi trovai davanti sabato mattina non era asso-lutamente l’ignorante che mi aspettavo. Persona alla mano invece, e alquanto giovane; benché già calvo. Naturalmente non gli feci il minimo cenno di Tiziana Luca Francesca e altri simili figuri, limitandomi a dirgli che avevo intenzione di scrivere qualcosa di piú lungo. Lesse rapidamente qualco-sa, e fece un paio di commenti non-stupidi sul mio modo di costruire la frase, che tuttavia trovò un po’ troppo abusato; e infilò in un cassetto i fogli che gli avevo portato: tredici rac-conti selezionati dai ventuno che avevo scritto e trentaquat-tro capoversi incompleti.

«Mi accennava ad un romanzo...»«Sí, una specie. Avrà capito che odio Romanzare». Sorriso

bonario. Il suo, e il mio a seguire. Mi sentivo stupido. «I suoi progetti di un libro... comunque vedremo, anche

queste cose che mi ha già dato. Valeria mi ha detto che sono molto buoni, e lei in genere indovina sempre. Da quando c’è lei a darmi una mano, non ho praticamente piú preso canto-nate». Sorrideva.

«Non sapevo che Valeria collaborasse con la sua casa editrice».

«Non è una consulente stipendiata, ma visto il rapporto che ci unisce... è cosí curiosa... Adora spulciare tra le mie carte. Pensi che all’inizio credevo si trattasse di gelosia, c’ho messo un po’ a capire che invece è il suo carattere...»

Un momento: gelosia? Mi sfuggiva ancora una volta qualcosa. «Avete una relazione?» Sbottai. Poi mi corressi: «Da... da

molto tempo?”«A giugno facciamo un anno». Continuava a sorridere.Io realizzai di non essere in assoluto il piú coglione sulla

piazza. Secondo classificato, con gli altri due primi a pari merito; cosa da cui deriva la necessità di dotare la medaglia di ben due facce. Rimasi secondi piuttosto lunghi in perfet-to silenzio, quindi tirai i muscoli di guance e labbra fino a disporli in una smorfia socialmente gradevole e decidendo che della cosa al momento non mi sarei curato, dissi: È una donna meravigliosa, lei è davvero fortunato. Il tipo di frase che dolorosamente è quasi sempre falsa e di circostanza, ma che comunque viene sempre ben gradita. Hai capito Valeria... basta: dovevo pensare a far soldi con le mie parole, quindi mi sarei messo a scrivere questo maledetto romanzo non roman-zato. Cioè: se avessi veramente voluto far soldi sarei dovuto scendere a patti, con me stesso... ci lasciammo col proposito di sentirci non appena avesse finito di leggere le mie cose e se ne fosse fatto un’idea.

«Arrivederci»«A presto».Ma per quanto lí per lí avessi retto, finto di reggere, alla

notizia terribile, appena arrivato a casa scoppiai a piangere. Ero a metà tra l’incredulo e il crocefisso. Era impossibile che Valeria, la mia Valeria, non era mai stata mia! O almeno non lo era adesso: un po’ di Marcello, un po’ di quell’altro. Non potevo crederci. A questo punto nei migliori romanzi sarebbe successo che io magari scendevo per strada e la in-contravo e le chiedevo spiegazioni e ci finivo a letto anch’io, oppure incontravo Marcello e lei abbracciati. La voglia di sputtanarla, di farle del male. Ma dal momento che la vita non ha quasi mai a che vedere coi romanzi, seguí una setti-mana di agghiacciante normalità.

Marcello si fece sentire a telefono un paio di volte per ri-petermi che era lei la donna della sua vita e che non capiva perché gli avevo fatto quello scherzo assurdo di dirgli che lei

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aveva già uno in testa ma che comunque adesso se ne fotte-va perché era tutto meraviglioso. Vaffanculo Marcello: fottiti con le tue stesse mani. Di Valeria invece nessuna traccia. Sa-pevo solo che era come sempre molto occupata... e grazie: a fare pompini all’editore calvo e ora pure a Marcello, certo che era occupata! Il quale editore però rispettò le promesse fatte, e mi richiamò anche abbastanza presto: la telefonata fu abbastanza zuccherosa, e mentre ne sentivo la voce vaga-mente ansimante realizzavo perfettamente che il suo unico pensiero era il sesso sudato di Valeria che lei gli avrebbe fat-to leccare a lungo non appena le avesse fatto questo favore. Io faccio pubblicare quelle stronzate al tuo amico a cui tieni tanto e tu ti fai scopare finché mi rimane duro.

Certo che reggere a quel tipo e a Marcello pure, che da quel po’ che sapevo era una specie di satiro insaziabile, do-veva essere abbastanza stressante... donna dalle mille risorse! Lode a te, mia Valeria! Vicina e irraggiungibile, inafferrabile in-distruttibile ma soprattutto bagascia. Nel mio cervello stavano cominciando a istaurarsi i ben noti meccanismi da maschio so-cialmente maturo (cioè in affitto da qualche parte) che lasciato appena un cordone è già in cerca di un altro: dicevo che era puttana, a ragion veduta e riveduta, perché scopava con vari ed eventuali. Ma poi che c’entravano l’uno con l’altro? Esem-plari radicalmente diversi: non c’era alcuna logica.

Comunque, ritornando al tipo senza capelli, mi disse che era Veramente Entusiasta, che si trattava di opere brevi ma Fondamentali, perfetto equilibrio tra Forma e Contenuti. Si vede che io non ci capivo niente di quello che avevo scritto; o che addirittura non sapevo scrivere, dal momento che il mio intento era stato quello di scrivere cose assolutamente squilibrate; cose che rileggendo tendevo fra l’altro a trovare perfettamente prive di Contenuto. Sarà... mi disse che c’erano

una decina di correzioni che avrebbe voluto suggerirmi, ma con calma, quando ci saremmo rivisti. Fissò l’appuntamento per mercoledí tredici alle sedici e trenta. Al solito ufficio.

Come è chiaramente comprensibile, a me non rimase al-tro che dedicarmi anima e corpo all’alcool amaro. E tra un sorso e l’altro ringraziavo dio di non avermi straziato con previsioni di un’esistenza piú lunga del dovuto. Entro qual-che decennio me ne sarei andato, e avrei concluso quella pratica imbarazzante che in genere viene definita come esi-stenza. Seduti a un tavolo mi capitò di dire quello che sape-vo a Marcello. Il quale, da quel che ricordo, prese la cosa non benissimo, afferrandomi per il colletto della camicia e strattonandomi con una certa irruenza.

«Dài, smettila. Non ci puoi fare niente».Ne seguirono un discreto numero di casini, dal momento

che comunque Marcello chiese spiegazioni a Valeria, e lei, a quanto ne so, gli disse la verità, ovvero quella parte che ritenne opportuno e/o inevitabile rivelare. Il risultato di tre settimane piuttosto sfigate può essere cosí sintetizzato: io avevo sprecato l’unica fortunosa possibilità di vedere stam-pate le mie robacce e in piú mi ritrovavo con la testa net-tamente confusa e impregnata di alcool, cosa che se da un lato mi impediva di prendere decisioni sensate dall’altro ne faceva scomparire completamente la necessità: quindi tutto-sommato bene; Marcello aveva cominciato ad essere il mio compagno di fogna: due bei topi pasciuti [nella mia curiosa lucidità comunque riuscivo a rendermi conto che lui doveva stare molto peggio di me, o per lo meno ne aveva un diritto maggiore]; Valeria dopo un breve fortunale aveva rimesso le cose apposto col bell’uomo, e aveva ripreso a strombazzar-selo allegramente; in quanto al tipo non me n’è mai fregato un cazzo, ma certo aveva di che essere contento. E a dire

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il vero fece una cosa che non mi spettavo minimamente: mi chiamò per parlare delle mie cagate, facendomi capire che sarebbe passato sopra le vicende personali pur di pub-blicare quelle schifezze; ma a me venne da vomitare e lo mandai a quel paese senza troppe giustificazioni. Di me non m’importava piú niente, ma cazzo, vedere Marcello ridotto in quello stato era veramente terribile. Lui che già bello non era, adesso aveva assunto un aspetto veramente pietoso: due occhiaie da ultrapippaiolo praticante convinto, i capelli che cominciavano a farsi radi, lunghi e riportati di qua e di là. Mi faceva pena.

Il venerdí e il sabato ci vedevamo di pomeriggio. Passa-va da me verso le cinque cinque e mezza, infagottato nel suo giubbotto quattro-stagioni; almeno nel senso che lui lo considerava tale, ma sulla cui efficienza da novembre in poi io nutrivo seri dubbi. Il saluto consisteva in una serie ben precisa di imprecazioni del tipo che cazzo di tempo / tempo di merda oppure piú personali come oggi non ho fatto un emerito cazzo giornata inutile. Quindi si cominciava la mar-cia a passo prestabilito nell’utero cittadino verso viale della Libertà, che da casa mia distava circa due chilometri. Le luci gialle dei lampioni simulavano un’atmosfera da città fredda, nordica, buona per il prossimo romanzo, e questa cosa pia-ceva a entrambi. Era uno stare sospesi in quell’aria ambrata, fregandosene di qualunque accidente. A quell’ora io ero an-cora sobrio, ma Marcello, che aveva già cominciato il rito verso ora di pranzo, poteva permettersi un’allegrezza spen-sierata e contagiosa, cosa che tutto sommato mi dava un minimo di conforto. Anzi, a tratti mi divertiva proprio. Delle occhiaie e dei capelli castani tendenti al biondo di Marcello ho già parlato. Il resto suscitava pochissimo interesse, a par-te forse i denti, disposti con una certa fantasia geometrica e

gli occhialini, piuttosto belli, da intellettuale fine ottocento. «Kroma kài symmetria».«Eh?»«Colore e simmetria: la miglior sintesi della bellezza... che

te ne pare? Non l’ho mica inventato io, che cazzo!»«Mi pare giusto. Ma a proposito di che?»«Cosí, tanto per... leggo parecchio per ora»«Che leggi in particolare?»«Tutto quello che mi capita a tiro».«E il piano?»«Chi cazzo se ne frega di quell’ingrato pezzo di plastica e

legno... non mi servirà mai».«Perché dici questo? Potresti sempre finire nelle balere, o

in qualche albergo di lusso ad allietare clienti americani col cognome italianeggiante in -uozzo, stronzi viziati volgari... potrebbe tornarti utile... non studi?»

«Non mi serve studiare. Forse m’iscrivo all’università, o mi faccio il corso per la patente europea di operatore informatico».

«Certo: perché non ti iscrivi a Ingegneria elettronica? Mi pare estremamente sensato».

«Pensa per te. Hai piú scritto? La cosa che mi hai fatto leggere, il Signore delle lettere, non l’ho trovata affatto male. Magari è un po’ pallosa, però ‘sto tipo, Sir Mo - perché non lo chiamavi direttamente SerMona! - be’, mi pare interessante. Solo che a dire il vero credo di non aver capito proprio tutto, magari vuoi dire molte cose, ma ti esprimi male, hai una for-ma piuttosto stretta». Prima o poi avrei dovuto dirgli che Sir Mo era lui.

«Lavoro per sovrapposizione, te l’ho detto come funziona: in una stessa frase si possono sovrapporre ben piú di due sensi, e i sensi si accavallano tra una frase e l’altra. È un gio-co ad incastri che il lettore deve dipanare col tempo».

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«Certo che sei un gran coglione... no, vabbe’, ti capisco, fa molto fiammingo! Ma guarda che alla fine è un bordel-lo. Secondo me ti senti una specie di Dante fallito. Dovre-sti scrivere dei libri che spiegano quello che hai già scritto. Certo che ti tira su, però! Perché non scrivi qualcosa di piú allegro?»

Gli feci vedere la mia faccia, a perfetta risposta.«Ti sembra che potrei scrivere cose piú allegre? E comun-

que sto lavorando su un certo romanzo. Mi do da fare Io! Ci sono quattro personaggi che s’innamorano in croce».

«Passiamo un attimo dalla tavernetta, va’! Cosí mi spieghi meglio». La discussione che ne seguí fu abbastanza sorpren-dente, dal momento che Marcello mi spiegò, (come risposta alla confusa esposizione delle mie tesi), con molta calma e lucidità perfetta, che le mie idee sul romanzo non romanza-to non potevano stare in piedi, visto che anzitutto il roman-zo è per definizione un bene di consumo e che deve offrire determinate caratteristiche stabilite dal mercato. Altrimen-ti non vende. Le mie teorie potevano magari anche andar bene, ma per cosí dire, prese a parte.

«Hai sbagliato il soggetto. Non puoi scrivere un racconto non raccontato! Abbi almeno l’onestà di chiamarlo in un altro modo».

«Tipo?»«Pezzo, brano. Momento».«Momento mi piace: sa di breve e incompiuto; ma per una

cosa piú lunga che compiuta dovrebbe esserlo...»«Vedi un po’... puoi usare le forme musicali. Hai mai ascol-

tato gli Etudes-Tableaux? Rachmaninov, una cosa splendida! Te li presto, e poi come pretendi di non portare avanti nessu-na storia... a me sembra solo che tu non ne sia capace, che non te la senta».

«Te l’ho già spiegato: la vita non ha mai storie compiute. Una cosa che racconta storie false è falsa.»

«Ma può divertire, e in genere intrattenere, commuovere... Se non vuoi essere neppure un cantastorie...»

Rimasi un poco in silenzio: stavo perdendo anche l’ultimo grammo di entusiasmo. In piú ripensai a Love Story, succes-so commerciale indiscutibile: io stesso, che faccio lo snob, mi ero commosso alle ultime pagine, in specie proprio l’ul-tima.

«La vuoi la verità? Non c’entro niente coi romanzi, non ne so fare! Dovrei scrivere saggi sull’uomo io, dovrei fare que-sto: il libero pensatore. Magari il filosofo. Ma so quattro cose di fisica e quattro di letteratura latina, tutto qui. Guarda che c’ho fatto caso, io. Se prendi un personaggio qualsiasi, uno di quelli famosi, se lo guardi bene... be’, è matto. Sono tanti matti, tipi che agiscono stupidamente, senza un minimo di buon senso, e per di piú vestiti in maniera curiosa, caratte-rizzati in maniera assurda. Questi tipi affollano i romanzi scadenti. Ma ce ne sono anche nelle cose migliori. Shake-speare: sono tutti matti, oddio ce ne fosse uno normale. Se ne incontri uno cosí per strada pensi che c’ha le sue brave rotelle fuori posto: è inevitabile. L’anno scorso, la mattina, quando andavo all’università, incontravo spesso una tipa grassa vestita sempre con un tailleur blu e una camicia bian-ca o rosa, la faccia impiastricciata di trucco, e sudata: aspet-tava lo stesso autobus tutte le mattine o quasi. Ecco, una cosí è solo matta; ma se la prendi e la infili in un racconto o in un romanzo o una tragedia diventa un personaggio».

«Ma è per forza di cose... uno che scrive e non è il dio del-le parole mica può descrivere una persona vera. Ci vorrebbe molto piú del tempo necessario per immaginarla tutta, cosa che è già impossibile di per sé... e allora crea dei personaggi.

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Si chiama letteratura, è arte spicciola, da sorbire in quattro e quattr’otto! E l’arte è esaltazione del reale. Esaltazione, non copia fedele, capisci? Mica ci puoi mettere solo personaggi normali noiosi... e poi, se guardi bene, la gente è matta davve-ro! È cosí difficile trovare un tipo che puoi giudicare normale, e comunque sarebbe molto noioso. Somma questo al fatto che scrivere è come dipingere; nessuna donna c’ha il collo come lo disegnava Modigliani!»

«E allora che fai? Parli delle cose piú strane di un tipo solo perché ti serve solo quello o distorci addirittura di proposito?»

«Piú o meno. Pensa di essere uno scrittore normale, di imitare gli scrittori normali. Di guardare la gente che ti sta in giro: è tutta piú o meno matta, non-normale. C’ha le sue manie, i suoi tic strani, i suoi tratti di ridicolo. Ce li ha per davvero! O si muove in una maniera tutta sua. C’era il mio insegnante di pianoforte... bello, pulito, alto, i capelli a po-sto, l’aria da intellettuale... aveva una voce assurda, sem-brava quella di Lino Banfi: Madonna Benedetta! Secondo me non hai capito cosa devi scrivere, magari al momento ti manca l’inspiréscion e allora ti rifugi in queste stronzate giustificanti. Le persone sono personaggi davvero, anche tu, sai?»

«Dici? È che non sopporto quei romanzieri a modo che ti descrivono accuratamente la giacca lisa dai gomiti per illu-strarti la condizione psichica di Tizio. Non ha senso: cono-sco persone sfigate e sceme col Fay, e gente altrettanto inuti-le con interessantissime pelurie sul viso e giacche di velluto marrone lise e sporche che vanno in giro con la bicicletta perché fa molto di sinistra. Ma quando ci parli, diomio: sem-bra di specchiarsi nell’acqua appena tirata di un cesso! E non sopporto di leggere quei dialoghi perfetti alla Tolstoj che non senti mai da nessuna parte, che non esistono! Mon

cher, ma maman, Kabajlanskavajavaskova et similia. «Perché non ti dai una bella aggiornata sull’argomento?

Leggi roba nuova, italiana, o almeno di questo secolo! Ma-gari eviteresti di sparare stronzate! Leggiti Hemingway».

«Mi prendi in giro? L’unica cosa decente di Hemingway effettivamente sono i dialoghi, e neanche tutti. Il resto è merdume: scritto malissimo. Vedi, quello non è mica uno scrittore: è solo un buon giornalista che ha deciso di scrivere articoli molto lunghi. Borges: quello sí che è un Dio delle parole».

«Concordo pienamente: una delle maggiori divinità mai esistite. Piú o meno come Zimermann è un dio del pianofor-te... ti devo prestare le ballate fatte da Zimermann... E allora leggi Borges: impareresti moltissimo».

«Non mi va di leggere roba di altri per ora. Non mi va neanche di scrivere. I libri mi fanno schifo».

«A me non va piú di campare... pensa! L’altra sera ho avuto un’illuminazione: stavo guardando, cioè vedendo il telegiornale; a un certo punto: tac! Mi è sembrato tutto estremamente chiaro, nessuna altra possibile soluzione: do-vevo morire. Voglio dire: la morte è l’unico modo per risol-vere sensatamente la vita, e quanto prima arriva tanto piú brillantemente ottieni il risultato... non c’è altro da cercare, capisci?» Abbassò gli occhi lentamente fino al pavimento. «Peccato sia durato poco...»

«Ma che cazzo dici?» [tipica scena finta da romanzo di fine secolo, secolo qualunque].

«Che cazzo dico... mon cher, non riesco a trovare un solo motivo di merda per continuare a campare. Si tratta solo di un fastidio, perpetrato giorno dopo giorno»

«Ma smettila! Suoni il piano da dio, potessi io suonare a quel modo... ti sei comunque scopato un paio di volte Va-

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leria, che è praticamente il Sacro Graal delle fighe e c’hai la tipa, com’è che si chiama... Francesca. C’hai Francesca che ti sbava dietro ancora nonostante tutto da fare schifo... che cazzo vuoi di piú!» Benché recitassi vistosamente ero comunque riuscito a tirarlo un po’ su, o quantomeno a di-strarlo da neri propositi. Lo vedevo adesso un po’ titubante, non completamente convinto di galleggiare in un canale di scolo. E me ne sentii fiero. Ma subito dopo ricadde.

«In effetti suono discretamente ma sono vecchio per qua-lunque impresario, c’ho già provato: dicono che mi manca la presenza scenica... non interesso. Sono vicino ai trent’an-ni e non ho mai vinto neppure un concorso internazionale di quelli importanti. In quanto a Valeria, averci fatto l’amore una volta, una, non fa altro che farmi sentire peggio, dal mo-mento che adesso se la sta sbattendo ripetutamente un altro. Per giunta orribile. Se poi vuoi parlare di Francesca, ti basti sapere che è perfettamente stupida: una capra coi capelli e le tette umane. Ho sempre sognato di essere un altro, magari un po’ tonto. Uno di quelli che tu e io di solito giudichiamo stupidi, che ne so, un fighetto belloccio, istruttore di surf che non si pone troppi problemi perché materialmente non c’arriva! Almeno campa tranquillo e si sente un dio se si scopa una caruccia. Cioè ragazzi, capito? Mi sono fatto una scopata...! Ed è felice: è arrivato! Non gliene frega niente della palla di merda solidificata azzurrina che galleggia in un emerito cazzo di niente e gira su se stessa senza motivo. Non ci pensa neanche! Ecco, io vorrei essere nato cosí, ma-gari un po’ piú stupido.»

«E soprattutto belloccio!» Cattiveria che avrei potuto ri-sparmiarmi, visto soprattutto il per me inspiegabile notevole narcisismo - dalle manifestazioni oscure e complesse - di Marcello. Ogni volta che dicevo qualcosa da cui potesse tra-

sparire l’idea che comunque un adone non fosse, mi guar-dava malissimo, con faccia amareggiata. ma senza replicare. Una volta mi aveva mostrato tutto contento un contorno oc-chi biancastro, dovuto semplicemente a una seduta prolun-gata in spiaggia tenuti addosso gli occhiali, dicendomi che gli piaceva tantissimo perché gli faceva risaltare gli zigomi. Mistero della fede: a me sembrava malato di qualcosa di gra-ve. Glielo dissi ridendo: fece l’offeso per circa due giorni.

«Dài, scherzavo... lo sai che non sei male... è che que-st’aria da figo spensierato... insomma bisogna essere stupidi e spensierati davvero per avercela... e vuoi sapere un’altra cosa? Piú figo e spensierato sei nella vita, piú successo hai. Ci sono certi miei colleghi inutili di fisica che si sono laureati in quattro anni e fanno gli assistenti o lavorano presso non so bene cosa».

«Tipico. Abbiamo sbagliato tutto». Pensa per te. Ma non glielo dissi, almeno questo.

[Devo essere sincero: nonostante non avessi in mano con-cretamente un bel niente, non mi riusciva in alcun modo di sentirmi autenticamente un fallito. Cioè: a volte, tra i miei pensieri, mi capitava di indugiare su definizioni abbastanza simili; ma la natura mi ha dotato di un orgoglio singolare, la cui essenza capricciosa, mentre generalmente langue, fi-nisce sempre col venir fuori puntualmente nel momento in cui la faccenda diviene pubblica: non ammetterò mai una cosa del genere di fronte a nessuno. Io non ho fallito un bel niente; e tantomeno sono un fallito io stesso. Invece Marcel-lo non faceva altro che parlarmi di quelli migliori di lui, piú giovani e già avanti nella carriera. Gianluca, per esempio. Superficialmente lo odiava, ma sotto sotto ne era profon-damente innamorato: Gianluca riuniva tutte le qualità che possono essere attribuite dalla natura e dall’esistenza ad

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un essere umano. L’unico argomento con cui io cercavo di oppormi all’apparente idillio, animato anche da personale invidia, era quello che in fin dei conti neanche lui poteva essere felice; e quindi mi consolavo perfettamente. Ma solo io. Il balsamo non funzionava invece con Marcello, che sot-to questo aspetto è molto piú materiale di me, nel senso che tende a misurare la felicità di un uomo col numero e qualità dei titoli conseguiti e nel numero di donne e loro qualità, e ancora nell’introito annuo e nelle auto possedu-te, secondo coefficienti diversi che ignoro. Anche se questo naturalmente non significa assolutamente che in presenza di tali realizzazioni sarebbe felice. I suoi bilanci sono molto precisi: attivo e passivo. Stato patrimoniale e conto econo-mico, riclassificati con cura.

Gianluca era molto bello, alto, ricco di suo, talentuoso, animato da un’invincibile forza di volontà e un’assoluta-mente invidiabile determinazione. Il tutto accompagnato da un’incredibile senso degli obiettivi, realistici ma ambiziosi sempre, sin da piccolissimo. A quindici anni Gianluca s’era diplomato col massimo dei voti la lode e menzione speciale in pianoforte. A diciassette incideva per la Decca. A diciotto stava con una delle piú belle e dotate violiniste al mondo, due anni piú grande di lui. E naturalmente non faceva che girare il mondo. Ma, quel che è peggio, Gianluca era il par-golo di una famiglia molto amica di quella di Marcello, che gli era quasi coetaneo. A quindici anni Marcello vinceva il Concorso Città di Caccamo, a sedici superava brillantemen-te l’esame di compimento inferiore di pianoforte. A ventuno anni si diplomava piuttosto bene. Il tutto mentre i propri ge-nitori continuavano ad aggiornarlo sui continui successi del tipo. Sai ieri ha suonato alla Cappella Paolina del Quirinale: un successone! Il problema vero di Marcello non era quello

di essere a conoscenza del fatto che esisteva al mondo qual-cuno migliore di lui. Il dramma consisteva nel conoscerlo personalmente. Da quanto ho potuto capire di Marcello, lui odia le competizioni. Non si galvanizza al pensiero di potere sfidare qualcuno, non tira fuori il massimo per contrapporlo al valore altrui; al contrario si deprime, e se ne esce con certi discorsi filosofeggianti sul valore della vita eccetera. Solo che poi quel rimasuglio, una specie di appendice inutile, di chiamiamolo orgoglio di scarto, gli fa odiare la propria con-dizione di perdente. La reazione che ne consegue è piutto-sto ridicola e infantile: si barrica in un malumore fastidioso per parecchi giorni e ti risponde con un sí o un no. Questo modo di fare non ha mai portato a niente.

Credo che dall’età di ventuno anni Marcello abbia smes-so completamente di migliorarsi, e anche di lavorare su se stesso. È sempre la stessa persona solo un poco piú vecchia e depressa. E ritengo che provi un forte senso di fastidio nei suoi stessi confronti. Ecco, se dovessi descrivere lo stato psi-cologico di Marcello in via piuttosto generale userei questa parola: fastidio. Per se stesso e per coloro che appartengono al suo mondo e sono migliori di lui. Questo è forse il motivo principale per cui Marcello accetta la mia presenza: il mio talento non è tale da poterlo minacciare. In particolar modo la mia abilità nel suonare - da pessimo dilettante, ignoran-te persino i rudimenti del solfeggio - è considerevolmente minore della sua. Inoltre possiedo una certa abilità nello scrivere, cosa che lo porta a ritenermi degno della sua ami-cizia, elevandomi almeno di un poco dalla massa cafona. Laddove per massa cafona Marcello senza appello intende l’insieme di tutti coloro che non siano in grado di dedicarsi ad una qualche attività creativa, espressione di una minima quantità di autentico talento. Il migliore degli ingegneri elet-

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tronici che non si sia mai però reso protagonista di un qual-che slancio creativo è null’altro che un cafone. Andrebbe meglio se almeno disegnasse o apprezzasse sinceramente l’arte. Se non si annoiasse ascoltando Beethoven. Ma se è solo questo: un ingegnere elettronico, magari il migliore del mondo... be’: allora è veramente nient’altro che un cafone; un realizzatissimo cafone. Concetti che in parte mi sento di condividere.

In realtà ultimamente sto cominciando a considerare piú importante la solidità di una persona. Tutto sommato preferi-sco una persona solida normale senza nessun estro creativo che uno psicopatico dotato di un certo talento. Con Mar-cello possiamo comunque parlare fruttuosamente di molti argomenti, dialogando autenticamente e apportando cia-scuno contributi attivi alla discussione. Dulcis in fundo: la mia carriera universitaria è disastrosa e tormentata, cosa che sento rendermi simpatico ai suoi occhi: un piccolo perdente anch’io, insomma; uno da cui non si può temere che un giorno se ne spunti con un successo clamoroso e invidiabile e opprimente. Ma nonostante tutto, appunto, non mi è mai riuscito di sentirmi veramente un fallito. E mai soprattutto l’ho detto in sua presenza. Del mio per lui ben chiaro in-successo ho infatti sempre evitato accuratamente di parlare, preferendo caso mai discutere, e con intenzioni quasi sem-pre positive, dei miei travagli letterari, l’unica cosa su cui io possa accettare critiche e rimproveri. Non so bene motivare questa scelta, ma probabilmente deve trattarsi del fatto che tutto sommato mi ritengo ancora uno che scrive per pas-sione, lontano dall’essere un professionista della parola. La facoltà in cui sono iscritto dovrebbe decidere il mio effettivo futuro lavorativo... ma sinceramente ho sempre sperato di diventare uno scrittore professionista e meno che mai un

insegnante di lettere alla scuola media. Chi lo sa, forse en-trambe le cose, o nessuna delle due. Ecco in sintesi perché ‘pensa per te’. E feci bene davvero a non dirglielo.

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sesto

I libri sono delle strane creature. Man mano che li scrivi ti rendi conto delle loro stesse esigenze, perché è come se fossero vivi. A questo punto, per esempio, è chiaro che la storia è finita in una zona morta; anzi c’è proprio dentro fino alla cintola: una vera palude. Certo: è pur vero che mi man-ca la sana volontà di ripulirla dal fango e condurla a forza per sentieri virtuosi, che non hanno alcuna intenzione di biforcarsi, e che uno scrittore senza volontà non può essere un buono scrittore.

È che io preferisco in genere lasciare che la storia vada da sé. Sono fermamente convinto che ogni frase, forse ogni parola persino, contenga in sé il germe della propria prole: un fatto genetico insomma. In parte è il buon gusto, ma direi soprattutto l’istinto a spiegarmi cosa deve seguire. È curioso, ma la presenza e l’ordine di ciò che scrivo non è gestito dal senso ma direi piuttosto dal suono che le parole possiedono. Il significato è una conseguenza, naturalmente corretta, di questo criterio costruttivo. L’istinto segue il bello. E il bello ha sempre senso. Anzi direi che ciò che è supremamente bello ha decisamente piú senso di qualunque altra cosa. Se penso a quanto è bella la Nona mi viene da tremare. E il significato di tanta bellezza è veramente infinito. Comun-que, se proprio volessi aiutare il naturale corso potrei a que-sto punto: a) far intervenire un nuovo personaggio, che la maggior parte degli autori a questo punto consiglia di sesso femminile; oppure b) far ritornare un personaggio vecchio (Valeria, naturalmente); ancora c) far morire qualcuno. E dal momento che chi scrive può morire solo all’ultima riga del-l’ultima pagina, non mi rimane che far morire Marcello.

Scarto a priori la prima possibilità perché con troppi per-

sonaggi io tendo a confondermi, e pure chi legge, secondo me. Quindi devo far morire Marcello e far ritornare Vale-ria sulla scena. Non crediate sia una cosa facile. Benché da tempo, e in modo particolare negli ultimi giorni, Marcello aveva preso a parlare con una certa insistenza di suicidio. Dipartita Liberamente Decisa, DLD: cosí l’aveva presa a chiamare, scherzandoci un po’ su. Ma io sapevo che scher-zava per finta. Lo sapevo bene in fondo all’anima, ma sono sempre stato un codardo. Mi dicevo che non poteva essere. E solo perché avevo paura, perché non avevo la minima idea di come l’avrei potuto salvare, o anche solo distrarre. Sono un’autentica merda.

Un mercoledí pomeriggio mi diedi una bella smossa e feci l’unica cosa che potevo fare: chiamare Valeria. L’imba-razzo durò circa venti secondi; poi lei capí che la cosa era importante, che io avevo davvero bisogno del suo aiuto. Ci incontrammo. Rivedere i suoi lineamenti mi stupí un poco. Nel mio cervello s’erano nel frattempo evoluti, assumendo fattezze che adesso potevo riconoscere estranee. Non credo fosse particolarmente ingrassata o dimagrita in quei quattro mesi: semplicemente dentro la mia testa era cambiata.

«Valeria...»«Ciao. Come stai?»«Insomma. Piú che altro Marcello, dovresti vederlo, una

larva...»«Non mangia?» Era preoccupata davvero, piú o meno

come una mamma, come una donna che ha amato. «Poco, e piú che altro beve».«Ha ripreso».«Già, piú di prima».«Non studia? Non lavora?»«Praticamente beve e dorme tutto il giorno. Non fa altro».

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«E come fa per mantenersi...?»Mi dispiacque sinceramente dirlo, ma le feci presente che

campicchiava grazie ai miei scarsi contributi. «Hai lasciato l’università?» «Lasciato è una parola grossa. I turni del call center ti

svuotano il cervello... sai com’è. E poi sto cercando un lavo-ro migliore, so fare tante cose io...»

Non pareva convinta. La bella faccia di Valeria era tira-ta in una smorfia che non le avevo mai visto prima, una disposizione che portava le sopracciglia vicine e le faceva ingrugnire il naso, come stesse provando un piccolo dolore. Soffriva per Marcello: l’aveva amato. E fui terribilmente ge-loso, per due o tre secondi. Poi vennero le sue parole, molto dolci, direi balsamiche.

«Cosí lavori per dargli una mano... sei un grande... un vero amico».

Si avvicinò per abbracciarmi, per stringermi con affetto. Ma io miseramente mi eccitai, fino a sentirmi i corpi caver-nosi sufficientemente duri. E mi feci molto schifo: proprio un grande, davvero! Valeria ti propongo un gioco. Mannò, stai zitto! Il mio monopensiero era che avrebbe potuto darla an-che a me, perdio! Uno piú uno meno che differenza avrebbe fatto. Ma cosí non era stato e pertanto non potevo neanche vantarmi del ricordo. Dovevo provarci, cavolo! Non era pos-sibile che non la attraessi neppure minimamente... Valeria... Continuai l’abbraccio, e anzi la strinsi ancora di piú fino a farle sentire sul ventre il mio sventrapapere ormai granitico. All’inizio non dovette accorgersene o comunque fece finta di niente. Ma poi s’allontanò dalla mia morsa, divincolan-dosi un poco a fatica: un’altra pessima figura. Ma non me ne fregava niente.

«Pensiamo a Marcello, adesso» - dissi io, con un’espres-

sione particolarmente stupida che sarebbe stata perfetta solo se avessimo appena finito di fare l’amore.

«Già» - stessa inspiegabile espressione. Mentre facevamo la strada assieme verso casa del tipo,

non dicemmo una sola parola. Lei forse pensava a Marcel-lo. Io mi ripetevo che in questi momenti avrei decisamente preferito tornare sulla Critica della ragion pura o su un bel problema di termodinamica, di quelli che non te ne frega niente di niente: c’hai le tue brave formulette da applicare che approssimano in maniera vergognosa la realtà, e l’eser-cizio ti viene; e sei veramente contento nel tuo mondo fatto di urti perfettamente elastici e diavoletti di Maxwell che fan-no cose assurde. Pensai curiosamente anche al mio profes-sore di fisica-uno, che come introduzione alle sue preziose lezioni ci aveva esposto un’ancor piú preziosa disamina sul ruolo della fisica, oggi. Digressione colta e ben fatta, estre-mamente lontana dal tono approssimativo di tutto quanto sarebbe seguito in aula. Digressione che avrei ritrovato per caso, molti mesi dopo, scritta pari pari in un vecchio libro americano di meccanica, tradotto. Testo che quello s’era placidamente scordato di menzionare.

Adesso che avrei invece dovuto fare qualcosa di serio, salvare un amico, senza che ci fossero formule da nessuna parte, testi consigliati, Autori Vari, eccetera mi sentivo terri-bilmente perso. Cazzo cazzo cazzo: non ne avevo nessuna voglia. Non che non provassi nulla per Marcello, non che sinceramente, in qualche modo, non lo stimassi; non che non avvertissi il Dovere di porgergli soccorso. È che mi scoc-ciava terribilmente, e inoltre mi sentivo nient’affatto in grado di poter aiutare qualcuno, perso com’ero io stesso in non meglio precisati vortici oscuri. Valeria, ti prego, facciamolo qui, dài ti spoglio io. Ma forse neppure questo avrei sapu-

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to fare... d’un’impotenza straziante. Eppure le sue mutan-de di pizzo nero, gliele avevo intraviste una volta, sotto un pantalone di lino chiaro. Un’ossessione per parecchi giorni. Pensai alla sua pancia, bella, levigata, morbida, magra ma non muscolosa, proprio come piace a me... andare al mare con lei era stata per Anni un’autentica Tortura. Cazzo, ci mancava solo Marcello, rompicoglioni di merda fallito! Ma perché non m’ero stato zitto, non l’avevo mandato a fanculo quest’alcolista di merda! Stavo impazzendo.

Le cose le ricordo piú o meno in quest’ordine: Valeria chiese notizie di Marcello al portiere, che riferí di non averlo visto scendere ancora, fatto effettivamente piuttosto insolito visto che erano già le dodici e un quarto; salimmo allora fino al piano per suonare il campanello per circa cinque mi-nuti; io composi il numero di Marcello con il mio cellulare: sentivamo squillare il telefono da fuori ma non rispondeva nessuno. Valeria cominciò allora a bussare coi pugni, e io ci misi poco per imitarla; non avendo nessuna risposta Valeria cominciò a preoccuparsi sul serio; io non capivo un granché della cosa. Passò circa un’ora prima che ci decidessimo a chiamare i Vigili del Fuoco, cosa che mi portò a riflettere sul nome che si erano dati o che l’uso aveva loro attribuito: Vi-gili del Fuoco, pensando che forse sarebbe stato piú corretto chiamarli Vigili sul Fuoco, Vigili riguardo il Fuoco, Attenti al Fuoco, Protettori dal Fuoco e roba simile. Tutto questo men-tre Vigili Del Fuoco vestiti con un’uniforme assolutamente inutile in quel frangente sfondavano la porta dell’apparta-mento di Marcello (l’unica cosa insieme agli oggetti che vi erano contenuti che credo si potesse definire di sua autenti-ca proprietà) e lo trovavano riverso sul pavimento della cuci-na. Il giorno dopo un medico mi avrebbe riferito senza trop-po dolore apparente, ma comunque con collaudata dignità,

che si era suicidato con i piú classici dei barbiturici, roba che credevo fosse ormai del tutto fuori commercio.

Mentre Valeria ebbe modo di esibirsi in lacrimazioni co-piose e diverse, io rimasi sinceramente deluso per piú giorni. Suppongo perché da Marcello mi sarei aspettato una Dipar-tita Trionfale. Eclatante. Geniale. Che ne so? Anche un volo dal sesto piano avrebbe fatto piú rumore, lo si sarebbe po-tuto perlomeno cogliere come un gesto estremo e liberato-rio, poeticizzabile almeno. Ecco, sí; ci avrei potuto scrivere sopra qualcosa; gliene sarei stato almeno grato; forse sarei potuto diventare famoso. E invece aveva deciso di andar-sene nella maniera piú ovvia del mondo: addormentandosi definitivamente. E forse ero io che non volevo coglierci alcu-na poesia... pensai tuttavia in maniera per la verità piuttosto disarticolata, che avrei potuto comunque sostituire la mo-dalità effettiva con quella che avessi ritenuto piú adeguata, nella mia testa e nelle mie carte. Avrei costruito un ricordo appropriato, con tanto di bigliettino ed estremo messaggio. A questo punto mi sarei ricavato un ruolo fondamentale, e avrei ricordato a tutti la mia leale amicizia, vitale nei mo-menti di piú grande sconforto. Grazie a me, Marcello aveva scorto la luce, eccetera eccetera... ma mio caro amico, non son degno di te...

Fortunatamente la mia faccia da essere umano sotto choc per i motivi che ho detto e per altri cui forse presto farò cen-no andò bene per il pubblico, che fraintese l’espressione e mi lodò parecchie volte per il mio sincero dolore fraterno. Mentre nel mio intimo appunto la cosa che mi indisponeva di piú era il fatto che nella cruda realtà preromanzata non m’avesse ricordato in nessun genere di estremo messaggio, testamento d’anima o che so io; e nemmeno m’avesse do-nato in eredità il suo vecchio pianoforte scordato o i suoi

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quattro libri. Niente di niente. Non s’era neppure ricordato di me! Cazzo, un po’ di riconoscenza, brutto bastardo. Al-meno questo me lo sarei meritato.

settimo

Ciò che io penso davvero di me stesso. Ciò che Marcello avrebbe voluto insegnarmi in quelle serate etiliche e che io invece rifiutavo sordastro. Ora che non c’era mi sentivo profondamente una merda, non c’è che dire. Ripresi lenta-mente a leggere, parecchia roba celebre che avrei dovuto già vantare nella mia biblioteca; e ancora piú piano rico-minciai a scrivere. Per lunghe sere accendevo una candela e dell’incenso sul tavolo, carta e penna, respiravo quell’aria che mi sarebbe dovuta sembrare buona ma che sotto sotto mi faceva schifo e buttavo giú frasi, dal fascino puramen-te musicale, dallo scarsissimo senso. Smisi presto, stanco di qualunque cosa, stanco della vita stessa, che ora manifesta-va pienamente la sua perfetta inutilità.

Finché hai accanto qualcuno che sta palesemente peggio di te, d’accordo: campare è piuttosto facile. Ma quando il tuo universo si limita alla tua stessa persona non è che ne cogli il fatto positivo - ovvero che tu stesso sei il migliore in assoluto; no: ti senti l’unica autentica merda in circolazione. Uno dei discorsi migliori che mi era stato dato di ascolta-re da Marcello era quello passato alla storia nei miei diari come la parabola del ∆E: nati, venuti al mondo con un certo livello di energia, il nostro obiettivo fondamentale - l’unico, a pensarci un poco - era quello di innalzare questo livello di energia, lavorare sul ∆E appunto (la impostazione scientifiz-zante è mia, ma serve solo per esprimere meglio), e dunque migliorarsi.

Ma né io né lui avevamo saputo fornire un esempio de-cente di come mettere in pratica questa dottrina. Entrambi anzi chiarissimi esempi di un’autentica decadenza. Ottimi preludi per deludentissime fughe. Quindi neppure il limitato

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mosaico nella memoria di un tuttosommato buon rappor-to - di cui ho detto pure uno dei migliori tasselli - sapeva rendere degna d’esser vissuta questa sequela di giorni. Aver perso quell’amicizia, pure fastidiosa, non lo dimentico mai, mi condannava inesorabilmente. Certa boccata d’aria, presa non ricordo esattamente quando: un libro d’arte intorno a Paul Klee, uomo che mi accorsi di adorare autenticamente. Di avere sempre adorato senza saperlo. Linee tese incise di litografie, braccia mani come segmenti, colori fortissimi sfumati, o densi. Avevo trovato la rappresentazione dei miei sogni. Qualcuno che li avesse saputi rendere visibili. Que-st’uomo - io - ha braccia gambe cuore e mani. Il mio piccolo cuore rosso vivo. E ora non mi restava che usare le mie pa-role come lui i suoi colori magnifici.

Cercai allora le parole dietro le sedie tra la polvere, tra la carta igienica usata che si andava bagnando e presto moriva. Sopra le foglie delle due uniche piante che m’era rimasta la forza di curare, di cui però ignoro i nomi. Specie di felci, credo. Cercai di accarezzare i gatti per strada, seguirli nei loro percorsi che portano in nessun luogo, e che hanno solo un senso gattesco. Ma se noi umani ci sforzassimo... io mi sforzai ben molto, e trovai parole preziose. Miauuu, miuuu, moauuu... due gatti e il loro tempo degli amori. Per me nes-sun tempo invece; già. Valeria era molto bella, m’ispirava parecchie parole. Ma sotto forma di odore sbiadito, nebbio-lina di percezioni, meglio: da percepire. Sapevo che non si vale [Vale] nulla finché qualcuno non grida al mondo il tuo valore. La propria gloria è negli altri, nell’essere umano diverso da te stesso (che sei invece il piú competente), devi trovare conforto. Ma è una regola vana, per uomini deboli, [anche se Cristo persino ha avuto bisogno BISOGNO di do-dici almeno... cosa sarebbe stato infatti da solo?] che puzza

un poco di democrazia. Poco. Certo la democrazia è ben altra cosa, e assai piú sudicia, anzi oserei dire che la de-mocrazia è una cosa schifosa. Secondo la Democrazia io e un gatto psicotico valiamo uguali. Simpatici i gatti, con quell’aria sorniona e diffidente, di indipendenza incrollabi-le finché stanno bene e sazi. Se noi tutti avessimo la forza di essere come i gatti saremmo indubbiamente felici, non ci piangeremmo addosso per amori traditi, mai raggiunti e amicizie fallimentari, roba da cani.

Non mi mancava niente, a pensarci bene. Uno che sa scri-vere può tutto, non c’è che dire. E io, signori miei, sapevo scrivere alla perfezione. Meglio che fare il compositore. Di carta sono i miei castelli e una spada lucente è la mia penna. Vi giuro: quando uno sa scrivere non ci mette niente a co-struirsi il suo bravo mondo ideale, paradosso: a volte persino non c’è bisogno di scriverlo. Già, perché scriverlo potrebbe spesso voler dire raccontarlo. Uno che è scrittore di suo non ha bisogno neppure di scrivere, forse tranne il caso in cui si voglia ricordare il proprio mondo in certi momenti di oblio... allora sí. L’ideale, a dire il vero, sarebbe quello di essere sempre uno scrittore, e non dimenticarsi mai il proprio mon-do, che anzi cresce ad ogni risveglio ed è terra privilegiata di sogni [la vita è un sogno, eccetera], per questo ho detto l’abitudine a scrivere e basta.

Non c’è bisogno di nessuna storia da raccontare. Le pa-role come le note, belle da sentire, in strutture meravigliose di architetti supremi, e combinatorie disposizioni, senza per questo avere una storia da raccontare... ci sarebbe solo una cosa che vi vorrei raccontare: dei capelli di Valeria. Biondi, sottili e liscissimi a volte amavo farmeli scivolare tra le dita come sabbia chiara, fingendo propositi amicali. Avrei potu-to giocare per anni coi suoi capelli appena lavati. Ma sono

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consapevole dell’impossibilità della cosa, dal momento che l’atto stesso di toccarli li avrebbe insudiciati [e molte meta-fore a seguire].

Rammento una sera splendida [ecco venir su un piccolo castello proprio davanti i nostri occhi], bella al punto che non sarei stato capace di apprezzarla se non nel ricordo, e molte sere piú tardi. Eravamo a Mondello, in estate, verso le ventitré, col salmastro che si appiccicava sulla faccia, a impedirci una respirazione serena. Sudaticci, le sue ascelle chiazzate, la mia pancia fastidiosa anche lei umida avida del gelato che tenevo in mano. Su una panchina verde di ferro smaltato. E poca gente intorno. Non mi viene una sola parola di quello che ci dicemmo, ritengo le solite banalità, ma an-che altrimenti io non le avrei trattenute, fragile com’è la mia memoria per le cose che accadono realmente. Allora, frasi del tipo: Buono, molto molto buono... ma guarda che pancia! - Sí, dovrei andare a correre - Andiamo insieme? - Non ora però, fa troppo caldo, appena comincia il fresco eccetera.

Queste frasi magari le ho inventate ora, ma ricordo in maniera perfetta di essermi fatto scivolare tra le dita i suoi capelli, questo sí. Oh sí se me lo ricordo. Capelli di ottima fattura, seta avrei detto, nonostante la salsedine il caldo e tutto il resto. Le mie mani presto però si sarebbero sporcate di gelato (avete presente come diventano appiccicose e c’è bisogno per forza dell’acqua?) quindi smisi di accarezzarli mentre finivo di mangiare il gelato. Ma non smisi di guar-darli quegli splendidi capelli colore della sabbia chiara... magari esagero... però sono belli davvero: dovreste vederli. Volete la verità? Uno che non sa vivere normalmente non si può pretendere che scriva cose che sanno talmente di vita normale: è logico. O forse no. Magari sono scrittori quel-li che non sanno vivere e riproducono la vita, intrecciata,

complessa, insomma: vissuta, la riproducono su carta. Forse questi sono scrittori.

A parte tutto dovevo farmi una doccia: girai per casa nudo per un po’ mangiando a cucchiaini uno yogurt alla banana, estremamente cremoso (ne posso a comando rievocare la sensazione: ottima); mi sedetti nudo di fronte al notebook radioattivo (per quanto è vecchio), indossai i tappi di cera e presi a correggere qualcosa. Mi annoiai. La doccia... ero tutto sudato, una doccia mi ci voleva proprio. Spensi il no-tebook col sano proposito di riaccenderlo piú tardi, magari indossata una ancor piú sana tuta protettiva.

L’acqua tiepida, amorevole, mi colava attraverso i capelli crespi, bagnandoli senza fretta. Ricordo con una certa net-tezza che provai piacere, una sorta di schiuma chiara che mi allagò piano e inesorabile. Spensi le luci e schermai la piccola finestra del bagno con un accappatoio, perché tut-to fosse ancora più dolce: mi ritrovai immerso in un’ombra bagnata.

L’acqua la sentivo cadere, in un ritmo giusto e appagante, buono perché ogni cosa riprendesse il proprio significato. Il buio si schiariva mano a mano che gli occhi vi si abituavano e lo spazio piccolo del bagno sembrava adesso sufficiente per viverci, meglio: per esisterci, almeno un poco. Eravamo io, il mio corpo che pian piano si porgeva a me, la semio-scurità e il proferire dell’acqua, ragioni buone e condivise da tutti lì dentro passavano di bocca in bocca, si dicevano sommessamente.

Durò un buon quarto d’ora, almeno credo: il tempo suf-ficiente per accedere a uno stato piacevole e duraturo per il resto della serata. Che trascorsi a letto, il solo accappatoio aperto indosso, inebriato d’un buon odore di bagnoschiu-ma. Pensai a diverse cose quella sera, e in una successione

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che ricordava il gioco che m’ero inventato da piccolo per non annoiarmi troppo una volta finiti i compiti. Vi faccio un esempio, cosí capite subito: vita-vite-bullone-bulli-pupe-pupi-guerra-spada-pesce-lesso-carne-mucca-pezze-stracci, e cosí all’infinito. Passare da vita a stracci; la seconda parte del gioco consiste nel ricordarsi i vari passaggi e i collega-menti logici relativi. Pensai come tipicamente si pensa, che è una maniera assai diversa da quella facilmente sostenibile che invece incontriamo inspiegabilmente in gran parte dei libri raccontati. Flusso di qualcosa. Giusto.

Pensai a un individuo completamente dilaniato dalle fiamme, rimanenze di un essere umano, che frequentava la vecchia palestra in cui ero andato per qualche tempo. Imma-ginate un corpo maschile cui manca il naso, una mano, le orecchie, parte della bocca, due dita della mano superstite e che presenta tutta la pelle piú o meno rovinata. Devo essere sincero: a guardarlo mi sentivo male. E mi basta ancor’oggi ricordarne le sembianze per vedermi costretto a fermarmi un attimo, girare la testa reggendola con una mano, e aspettare che la nausea mi passi. Le considerazioni cui mi spinge ogni volta questo pensiero - è, infatti, piuttosto ricorrente - sono di due ordini estremamente differenti, ma ben legate fra loro.

La prima osservazione riguarda l’individuo stesso: cosí, quasi senza lineamenti, con le orecchie di silicone appicci-cate su quella carne d’un colore osceno, mi pare che quello non possa quasi essere un individuo. Non possa cioè avere un carattere suo proprio, bisogni, e tutta quella roba che viene assegnata d’ufficio a qualunque essere vivente, bello o brutto che sia. Quasi si fosse bruciata con tutta quella pelle e carne anche la sua dignità fondamentale. Non riesco a vederlo come un uomo, e mi rattristo di questo, ma lo vedo piuttosto come un giocattolo. Mi correggo: non so se si tratta

di una tendenza comune ad altri esseri umani, ma se io vedo qualcuno troppo bello o troppo brutto sono portato a pensa-re che non ci sia nessun carattere vero, dietro. So bene che si tratta di una cosa stupidissima, ma è una sensazione; e non voglio neppure perdere tempo a giustificarla.

L’altra considerazione è di carattere piú generale e riguar-da la compassione e il senso di ribrezzo. Benché la prima non sia effettivamente del tutto usuraja nasce chiaramente da un senso di difesa. È fin troppo evidente che si tratta di momentanea immedesimazione. Fine delle considerazio-ni, piú per mio personale momentaneo esaurimento che per effettivo completamento dell’esposizione. Ma va bene cosí, l’importante è capirci. E poi sono convinto che la cosa fondamentale sia non annoiare. Certo che per uno come me, che non sa scrivere storie, pretendere di non annoiare è veramente un assurdo. Le storie sono il primo divertimento, sin da bambini. La favola è il riassunto perfetto delle attese infantili - sempre presenti a qualunque età. La bella storia discretamente intricata, ma dall’andamento generale di tipo parabolico. Il lieto fine. Non ne so scrivere: è la verità. Potrei mettermi a tavolino a congegnare storie su strutture e grafici preconfezionati, in modo che creino delle attese per poi non deluderle. Ma chissenefrega! D’altronde, quando lo fanno certi miei colleghi scadenti, il risultato è talmente chiaro e scontato e trasparente e brutto! Sí: brutto.

C’è un libro che mi ha dato fastidio ultimamente: Il maestro e Margherita: non lo capisco. La prima parte è straordinaria. Non ci sarebbe stato alcun motivo di introdurre Margherita. Personaggio brutto e inutile. Il Maestro è in sovrappiú. Si sa-rebbe potuto semplicemente intitolare Una bella sera. Tutte quelle scenette, alla fine, portano a noia. Forse non l‘ho letto bene, o forse sono troppo prevenuto con chi gli altri dicono

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possieda l’arte dello scrivere. E anche la storia di Cristo. Ho avuto come l’impressione che ci fossero molti fili, ma in-trecciati male, di colori diversi, senza formare però nessun disegno. E non che si tratti di astrattismo! Ma io parlo con un linguaggio da ignorante di cose piú grandi di me. Grandi, come un arazzo splendido che ricordo d’aver visto da pic-colo. Uno scorcio quattrocentesco: in fondo delle mura for-tificate, in primo piano un cavaliere grandioso... e bei colori dal beige al porpora. Fili intrecciati superbamente... ma non ricordo dove l’ho visto. Forse un palazzo vecchio adattato per ricevimenti e feste. Sono sinceramente stanco. E ho una specie di sonno continuo, che non mi lascia mai, neppure appena sveglio...

Ora vi spiego il mio modo di lavorare, di piú: il mio modo stesso di campare: per stratificazioni successive. Quando rileggo per caso uno dei quattro o cinque minuetti verbali che ho scritto non posso proprio fare a meno di associare la lettura alla vista d’una parete di roccia dall’enorme interesse geologico. Tanti colori e qualche fossile ogni tanto [i ricordi] quasi essi stessi impalcatura fragilissima a tenere in piedi il tutto. Se prendete un metro quadro qualsiasi [un periodo una pagina un capitolo] e scavate scavate troverete mille cose diverse, di tempi diversi. Ecco: io campo allo stesso modo. Per me la vita non è una linea continua, anzi no, vi dico come mi immagino che dovrebbe essere: una superfi-cie piana, abbastanza larga chiara e molto molto lunga. Non è affatto cosí. Per me la vita è un percorso nel bosco e giro e torno indietro e odoro piú volte [mi pare di odorare] profumi già conosciuti per strada. E potrei scambiare il mio nome con un altro qualsiasi senza quasi trarne sconforto.

Ricordo una passeggiata splendida (magari in sé non era un granché ma ci ha pensato la memoria a fare gran par-

te del lavoro): per un bosco vero, in alta montagna, con le serpi e si diceva un cinghiale nei paraggi. L’idea di sape-re che probabilmente c’era un grosso animale furioso lí nei dintorni pronto a farci a brandelli [brani] naturalmente mi eccitava. Ma ero l’unico dell’intera compagnia a pensarla cosí. Gli altri o avevano paura oppure ostentavano un senso di assoluta indifferenza alla cosa. Io no: io ero estremamente fremente. Con mia somma non-delusione il bestione non si fece neppure sentire. Quando rientrammo in albergo (si trattava di una gita organizzata da un’associazione cattoli-ca) il mio compagno di camera, un tipo per carità piuttosto interessante, non fece alcun cenno al cinghiale, e questo mi deluse moltissimo. Credevo di poter condividere con lui quell’emozione; gliene feci allora cenno io, ma niente: fece cadere immediatamente il discorso, passando non capisco proprio come dal cinghiale al pranzo che ci avrebbe atteso di lí a poco.

«Dài preparati che tra poco si va a tavola». Effettivamente era un gran mangione, si vedeva dalla pancia che già porta-va in giro ad appena sedici anni. Non mi sarei dovuto aspet-tare troppo da uno come lui.

Uno dei preti che dirigeva la situazione era fissatissimo con la Sinfonia dal Nuovo Mondo: ce ne faceva ascoltare un pezzo dopo cena tutte le sere. Diceva che simboleggiava la rinascita e la forza che la genera e che ne è generata. Che la forza sia con te. Io che proprio in quel periodo avevo co-minciato a interessarmi di musica mi ritrovai costretto a far la parte di quello sensibile alla cosa e siccome i miei com-pagni di viaggio sapevano che suonavo, con loro dovevo fingere di essere estremamente appassionato e tipo lusingato per l’iniziativa. Ma sapete che vi dico? A me quella sinfonia non piace proprio. Non m’è mai piaciuta. È sinceramente

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volgare, e specialmente nell’ultimo tempo la trovo ridon-dante e noiosa. Meno male per quell’ultimo mezzoforte che salva un po’ la composizione. E invece dovevo far finta che mi piacesse. Solo quando vidi che gli altri si dimostravano annoiati a sufficienza ebbi il coraggio di dichiarare il mio dissenso, piú al fatto di farci sentire sempre la stessa solfa anziché lasciarci uscire che al brano scelto in se stesso, na-turalmente. Cosa che mi permetteva di rinnegare il ruolo di secchione del tipo amante della musica classica con gli occhiali e i capelli pettinati con la riga di lato e quell’aria sempre seria antipaticissima. Aspetto che odiavo nel prossi-mo e di tanto in tanto nel mio stesso specchio di merda, in particolar modo quando uscivo da quello stronzo di barbie-re che aveva l’odiosa abitudine di pettinarmi appunto con la riga di lato. Benché ogni tanto protestassi timidamente.

Una volta gli avevo detto che volevo essere pettinato col gel; ma con questo intendevo evidentemente che prima mi tagliassi i capelli in maniera adeguata, un po’ piú moderna. Invece no. Lui sorrise come ad aver capito tutto di me e del mondo e delle donne eccetera e mi tagliò i capelli esatta-mente come sempre. Solo si limitò ad aggiungere un po’ di gel alla fine. Ecco fatto! Era stronzo e pieno di soddisfazione. Dovetti correre a rifarmi lo shampoo perché cosí sembravo davvero uscito dalla crisi del ventinove... certo con un bel vestito gessato... quindi uno dei primi gesti che segnarono la mia crescita fu quello di cambiare barbiere. Addirittura ne girai un paio prima di trovarne uno che potessi ritenere degno. E che oltretutto era simpatico. Certo magari un po’ volgare. Uno che mi raccontava barzellette che finivano con fica e pompino, ma insomma: siamo uomini! Ed è assoluta-mente normale che in un negozio di barbiere ci sia un po’ di quella sana volgarità che ci fa sentire tanto maschi... e

poi, a dirla tutta, mi faceva ridere davvero. Cosí ero tutto soddisfatto: avevo finalmente i miei capelli nerissimi dritti in testa pietrificati dal gel e stava cominciando a maturare sul mio viso quell’espressione un po’ da bulletto che sembra voler dire ad ogni istante: ehi, pupa. Certo ci sarebbero vo-luti molti mesi perché quell’espressione imparassi a gestirla, evitando di metterla in atto con persone tipo mia madre o mio padre, o altra gente serissima che mi avrebbe conside-rato uno stupido e basta; ma vi garantisco che i frutti (biondi bruni e castani) non tardarono ad arrivare.

Devo essere sincero: all’inizio pensai che anche Valeria sarebbe caduta vittima del mio indiscutibile charme. Ma con lei ogni cosa è diversa. Non la puoi abbordare come fai come una ragazza qualsiasi. Valeria odia i ragazzi belli perché dice che sono inaffidabili e hanno un ego talmente smisurato che sono incapaci di amare altri fuorché se stessi. E lei non vuole essere il trofeo di nessuna bellezza, quindi evita i ragazzi belli. Evidentemente deve preferire gli editori calvi, ma questa è una scoperta troppo recente. All’inizio credevo fosse attratta da tipi intellettuali; per questo quan-do fui costretto a presentargli Marcello, capii da subito che quella sarebbe stata la mia fine. Perché, diciamo la verità, Marcello appena lo vedi ti dà subito l’idea del ragazzo intel-ligente, tutto sommato non brutto, tormentato e via discor-rendo; di quelli insomma che piacciono alle ragazze con un certo senso estetico e che vogliono essere la parte bella della coppia. E che vogliono sentirsi intelligenti guardando il pro-prio partner. Io ci misi molto tempo prima di intuire queste qualità di Valeria; molto piú di quello che bastò a Marcello per conquistarla e farsi da lei abbandonare. Sapete già che la cosa - l’abbandono naturalmente, mi procurò un certo piacere, ma inferiore in valore assoluto alla tragedia causata

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dall’amplesso precedente. Non ho alcun pudore a dirlo: da allora il mio risentimento nei confronti di Marcello non si è mai piú ridimensionato, e nella mia sincera solitudine il suo stesso nome mi dà persino fastidio. Evito di pensarlo, anche adesso che non è piú.

ottavo

Ora che ho ripreso a *** (non so davvero come esprimer-mi meglio: forse andrebbero bene termini come scrivere o sognare, non so), a distanza di quattro anni, tutto mi sembra estremamente piú chiaro, direi quasi elementare. La stessa morte di Marcello m’appare come un evento necessario, e tutto sommato gradito.

Al di là di lacrime posticce, la realtà è infatti che grazie a questo evento momentaneamente spiacevole sono potuti accadere due altri eventi che almeno per qualche ora ho ritenuto fondamentali per la mia esistenza e che vorrei de-finire addirittura belli: Valeria porta in grembo una creatura che non posso fare a meno di immaginare assolutamente meravigliosa, e ho conosciuto il maestro di pianoforte di Marcello, persona rivelatasi importantissima per la mia evo-luzione personale.

Conobbi il maestro un mese dopo la morte di Marcello in una chiesetta di cemento, dove per volontà dei genitori si stava curiosamente - senza Dio io, senza Dio era infatti anche lui - tenendo una messa in suo ricordo. Alto, distinto, estremamente elegante nel portamento, poco meno nell’ab-bigliamento. Era stato avvisato da un vecchio compagno di classe di Marcello. Si era seduto nelle prime file di banchi, e aveva cominciato con molta discrezione a cercare facce che gli potessero risultare familiari. Ma a parte i parenti piú stretti chiaramente non riconobbe nessuno. Io e Valeria, seduti ac-canto distratti, l’avevamo presto notato e classificato. Lo fer-mammo all’uscita chiarissima di un sole tardo-primaverile.

«Il maestro di Marcello, vero?»«Voi siete...»«Due cari amici». Benché fossi estremamente curioso di

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conoscere finalmente quell’individuo di cui tanto m’era sta-to detto, non sapevo assolutamente come impostare la di-scussione. Per fortuna ci pensò Valeria.

«È stato estremamente doloroso. E inspiegabile».Non era assolutamente inspiegabile, anzi: già allora, ben-

ché ne ignorassi gli sviluppi, mi era sembrato un gesto piut-tosto necessario e, a conti fatti, buono. E certamente non cosí estremamente doloroso. Comunque assunsi una sana espressione di approvazione.

«Già. Doloroso e estremo. Ma mi sarei atteso un gesto del genere da Marcello: la sua natura».

Già questo mi piaceva. Continuò Valeria: «Noi che gli eravamo accanto ci sentiamo irrimediabilmente in colpa, non abbiamo saputo aiutarlo...»

«Marcello non lo avrebbe permesso. Sono convinto del fatto che non abbia chiesto mai aiuto, che mai abbia fatto capire, nonostante il suo stato».

Pensai che entrambe le ultime frasi erano clamorosamente false. La prima perché mentre lei scopicchiava col tipo calvo da chissà quanto tempo c’ero sempre stato io accanto al de-sperado Marcello, nel bene e nel male; e quindi non aveva diritto di dire che gli era stata accanto, cazzo! In quanto a me non mi sentivo già allora minimamente in colpa; quindi che parlasse al singolare. La seconda perché Marcello, negli ultimi giorni specialmente, aveva invocato aiuto; solo che io, che ero per davvero l’essere umano a lui piú vicino, non gli avevo prestato nessun sostanziale soccorso; e purtuttavia, ri-peto, non mi riuscivo assolutamente a ritenere responsabile della morte. Affetto da una certa indolenza, gli ero comun-que sempre stato accanto. Indolenza di cui nessuno sapeva, e di cui nessuno quindi poteva accusarmi. Ricapitolando: l’unica persona che potesse accusarmi di negligenza era Va-

leria, cioè quella stessa persona che se l’era portato a letto, mettendo le corna al tipo ufficiale e illudendo - forse avvi-cinando definitivamente al baratro... sí, in fondo era quasi tutta colpa sua! - il povero Marcello, del quale s’era poi se-renamente dimenticata: stavo piú che tranquillo! Comunque ripetei la stessa faccia di prima, annuendo e aggiungendo espressioni verbali adatte allo scopo. E cercando di far caso a quella voce ridicola di cui m’aveva detto Marcello, ma che forse, dato il frangente, faticava a venir fuori.

Io continuavo a parlare, pur di inserirmi nella discussione, e finii col mentire e inventarmi episodi mai avvenuti.

«Mai il minimo sospetto. Era sí molto giú negli ultimi tem-pi, ma mai che mi avesse parlato concretamente delle sue intenzioni. Una cosa assolutamente imprevedibile». Per piú di qualche secondo fui tentato di dire che aveva sofferto per una donna, un tipo falso dai terribili costumi; ma mi corressi presto e quindi giocai subito la mia carta preziosa, servita con una faccia piuttosto intelligente.

«Stava anzi studiando l’Hammerklavier, e mi sembrava estremamente entusiasta della cosa. Ne parlavamo quasi tutte le sere».

Ci avevo azzeccato: la citazione scosse estremamente il maestro, che io sapevo essere, almeno nelle intenzioni, un appassionato beethoveniano: mi guardò meglio di come avesse fatto fino ad allora, si aggiustò gli occhiali sul naso, quindi, dimenticandosi totalmente del contesto reale in cui ci trovavamo, alzò di molto la voce (finalmente!) e mi disse: «Lei suona?»

Non potevo mentire con un Maestro di pianoforte, alme-no non potevo promettere doti che non possedevo, quindi decisi semplicemente di infiocchettare la cruda realtà.

«Ho suonato per qualche anno il pianoforte, poi ho ab-

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bandonato lo strumento. Ma la musica, la Musica fa par-te costantemente della mia vita! Non passa giorno che non ascolti o analizzi per quanto possa fare uno spartito».

«Conosce l’Hammerklavier?»«Naturalmente! Benché non ne sappia suonare a mala-

pena che le voci estreme. E una mano per volta!» Cercai di risultare almeno simpatico, pur di evitare che provasse uni-camente pena nei miei confronti. E a quanto pare ci riuscii, visto che comunque si aprí in un discreto sorriso. Poi buttai sul panno forse l’ultima carta, confidando nella correttezza delle informazioni di Marcello.

«Adoro, adoro l’interpretazione di Pollini. Un’esecuzione per me assolutamente sacra.»

Informazioni giuste: il Maestro adorava Pollini, e questa mia uscita sembrò renderlo veramente felice: «Assolutamen-te fondamentale», disse.

A questo punto si rendono però assolutamente necessarie due considerazioni. Innanzitutto bisogna dire che il mae-stro non è assolutamente una persona ingenua, come invece sembra trasparire dalla cronaca di queste prime nostre bat-tute. È pervaso, è vero, da una sorta di spirito fanciullesco che lo porta a un facile entusiasmo, in particolar modo per tutto quello che concerne la musica; ma non è certo persona che si possa sedurre tanto facilmente. Io fui avvantaggiato soprattutto dalle preziose informazioni che mi erano state a suo tempo passate e dalla disposizione cui il sensibilizzante frangente lo aveva condotto; e comunque c’è da dire che la mia passione per la musica è stata sempre sincera e forte, cosa che non dubito abbia immediatamente avvertito; e che altrettanto sinceramente e fortemente sono convinto dell’ec-cellenza di quella magnifica esecuzione. L’altra considera-zione da fare è che, in qualche modo, io mi sentivo adesso

pienamente e curiosamente una sorta di erede spirituale di Marcello. Come ne avessi raccolto un qualche messaggio; in un codice, però, che io soltanto avrei saputo decifrare e che forse, avrei persino io stesso potuto inventare.

Il fatto di aver condiviso molte delle questioni che lo ave-vano ultimamente lacerato - meglio: aver odorato le affezioni dell’animo che ne scaturivano - mi poteva rendere, almeno nel cuore e nella volontà, benché forse i fatti avrebbero vo-luto dire altre cose, un compagno realmente fedele, e allora in grado di rivendicare l’esistenza effettiva di un suo qualche pensiero. Adesso che la sua figura s’era totalmente dissolta nella mia esistenza, avevo l’impressione di percepirne sin-ceramente il messaggio, seppure con tratti soffusi. E parlo solo di me stesso con una certa sicurezza perché nessuno degli altri viventi sembrava avesse davvero ascoltato le sue parole. La stessa Valeria, amica buona e pure occasionale amante, mi pareva sordastra e ottusa, incapace di attribuirgli un valore e uno spessore che a questo punto poteva essere benissimo unicamente una mia faccenda intima e squisita-mente personale.

Da cui un dubbio: che Marcello e soprattutto la presenza di questo suo messaggio ancora tutto da rintracciare e deco-dificare me lo fossi costruito io, a mia immagine e volontà; che fosse solo un personaggio dei molti che porto nell’ani-mo: vecchi discorsi, certo... ma sostenitori almeno di nessun rimorso. Piú sminuivo dentro di me il valore reale di Marcel-lo, per sostituirlo con uno fittizio e buono per un pubblico scelto di cui io avrei fatto parte, piú i miei eventuali rimorsi per un’amicizia dovuta ma mai stata si avvicinavano allo condizione di fantasmi, pensosità diverse e vaghissime, del-lo stesso valore di molte altre fantasie. Mi volevo eleggere comunque, a questo punto e tutto sommato forse con estre-

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mo diritto, un suo discepolo, il suo unico discepolo - quasi il discepolo potesse inventarsi un maestro! Quindi, quasi per transitività, discepolo addirittura del maestro stesso.

Insomma, avevo scaltramente, sebbene senza troppa coscienza, cercato un valico mentale e in qualche modo anche etico, per arrivare a una figura cui anelavo sul serio. Marcello come tramite necessario e occasionale allora per ben altri paesaggi montani. Questo atteggiamento un poco usurpatore lo assunsi quasi immediatamente, volendo rico-noscere nel maestro la guida che tanto invano avevo cercato. E automaticamente dismisi quasi ogni venerazione intima nei confronti di Marcello (venerazione che non avevo mai manifestato, neppure a lui stesso, e che forse m’ero inventa-to dopo la sua morte), per indossare i paramenti di un’altra scuola, questa volta chiari e ben leggibili. Divenni improvvi-samente molto eccitato dall’idea di avere trovato una Guida e una Scuola.

Altra nota: durante la nostra discussione Valeria si era al-lontanata per parlare coi genitori di Marcello, da cui invece io e il maestro ci eravamo tenuti accortamente lontani. Que-sto modo comune di affrontare un dovere fastidioso contri-buí a creare un’ulteriore complicità, al punto che il maestro, prima di lasciarmi, volle assolutamente che prendessi il suo numero di telefono, e promettessi di chiamarlo quanto pri-ma mi fosse stato possibile.

nono

Eventi vari non degni di cronaca.

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decimo

Ma ad esser sinceri siamo sempre allo stesso punto. Mar-cello è morto e io sembra non ne abbia approfittato abba-stanza. Ho già dichiarato che Valeria aspetta un bambino: potrei parlarne per ore, descrivere accuratamente le condi-zioni che hanno portato a. O almeno gridare quanto sono felice. Ancora ho conosciuto il maestro (se solo fosse meno vecchio potrei fantasticare su una Valeria-Margherita, giuro: almeno io scriverei qualcosa di bello!): e a dire il vero sono alquanto deluso per come l’ho presentato: è fin troppo chia-ro che si tratta di una brutta rappresentazione di un Marcello migliore. Forse mi sarei meritato di meglio! Trionfo dell’im-potenza letteraria, ovvero come mettere tanta carne al fuo-co, senza però avere neppure un fuoco decente. E carne di nemmeno troppo buona qualità.

Forse aveva ragione Marcello buon’anima: è l’ispirazione che mi manca. Non dovrei essere un impiegato delle parole. Certo, se avessi un minimo d’orgoglio letterario, farei leva sui gomiti per rialzarmi e spiegherei almeno perché l’incon-tro col maestro è stato talmente importante; potrei occupare diverse pagine raccontando i lunghi pomeriggi trascorsi in casa sua ad ascoltare e riascoltare e analizzare ogni passo e voce e tema e relative elaborazioni dell’Hammerklavier. Il tempo lento nelle prime battute: gradini che conducono a un tempio. E sicuramente non meno spazio dovrebbe essere dedicato alla serata magnifica in cui il maestro decise di ren-dere omaggio alla settima sinfonia, con relativa visione del DVD appena acquistato... Abbado e i Berliner.

Sono piuttosto stufo, la verità è questa. Mi sento attrat-to verso un altro punto morto dal quale non so davvero se riuscirò a cavarmi. Non che non fossero belle quelle che

piú che lezioni dovrei definire improvvisate composizioni di profumi, spesse volte sublimi. E le prime note, scelte ogni volta con la massima cura ed incredibilmente opportune ogni volta, s’affacciavano al mio cerebro ottuso assonna-to, eppure capaci di scavarsi nicchie di autentico piacere. La voce, la sua stessa voce, bella e strumento anch’esso di cui potevo dirlo virtuoso, s’accostava con umiltà calcolata a quella che ascoltavamo per radio, profonda e magnifica di Maurizio Pollini, prima d’ogni concerto, amoroso per il gesto d’eroe che di lí a poco avrebbe compiuto sul palco. Altre cose belle: persino il salotto chiaro rivestito di stoffa ruvida. I suoi due gatti persiani, nobili e noncuranti. Uno di loro, incredibilmente, a volte rispondeva al richiamo del proprio nome. E si andava a stendere sul tavolino di vetro su cui sempre finto-distrattamente erano posate ma riposa-vano riviste buone tipo «Limes» e «Micromega» nuove di parecchi mesi prima. Piú in là su una sedia accessoria rivi-ste musicali per appassionati; roba che poteva andar bene comunque anche per me, e che trovavo estremamente utile nei lunghi frequenti periodi in cui mi lasciava solo, con la scusa di preparare un tè o un caffè; operazioni per le quali impiegava effettivamente un tempo assai lungo. Chiudeva la porta dietro di sé e cosí non potevo indagare. Silenzio. Ma è chiaro che, almeno se escludiamo l’utilizzo di mezzi preistorici per produrre il fuoco e se diamo per scontata la presenza di acqua corrente, il fatto che impiegasse dai venti minuti a mezz’ora per far bollire il contenuto d’un pentoli-no e metterci in infusione una due bustine, non poteva che puzzarmi (ma solo piú tardi avrei potuto associarvi un odore ben preciso) e puzzarmi pure moltissimo.

E tuttavia per molto tempo la mia unica reazione fu quel-la di tapparmi il naso e dedicarmi all’avida lettura di cose

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tipo recensioni dell’Ulisse, Ritorno di. In Patria. Opera tutto sommato divertente, sulla quale il maestro insistette parec-chio, finendo col rintracciarvi la comparsa prima di un buon trenta per cento delle trovate musicali di tutti i tempi. Final-mente un pomeriggio, il maestro, dopo aver parlato per circa mezz’ora del valore innegabile e inscalfibile della bellezza, pure tanto giustamente provvisoria, mi rivelò con una certa dovizia di particolari cosa facesse esattamente in quelle sue lunghe frequenti vacanze trascorse nell’altra stanza: si ma-sturbava con cura pensandomi.

«Mio caro, sei assolutamente meraviglioso!»Chiaramente avevo già i miei bravi drammi cui pensare

per cui la cosa non mi scandalizzò neppure. Mi fece un po’ schifo, questo sí, e legai irrimediabilmente l’odore e la scena immaginati alla musica di Monteverdi, che da allora evito accuratamente di ascoltare. Mi alzai, non gli diedi la mano come avevo invece sempre fatto, e mi dissi piuttosto stanco. La sua faccia dimostrava una certa delusione ma anche ap-prezzabile rispetto per il mio comprensibile stato. Natural-mente non lo chiamai piú. Adesso capite perché non mi va di parlarne. Ecco come svaní improvvisamente tutto l’entu-siasmo che avevo, e tutte quelle farneticazioni - adesso pos-so riconoscerle come tali - sulla faccenda del Discepolo e del Maestro, roba che ha occupato piú di una pagina densa e molte mie ore di pensieri. Tutto svanito in un niente.

Pensate: io che mi ritrovo in un pomeriggio qualunque piuttosto caldo e appiccicoso di nuovo perfettamente solo, senza quel bastardo di Marcello che quantomeno mi faceva compagnia, e senza quel transustanziarsi di libido repressa che era il maestro: un’autentica tragœdia! Sí, vi ho mentito anche riguardo Valeria. Lei vi dirà che non è assolutamente vero che aspetta un figlio da me. Che lei sia incinta non

c’è alcun dubbio però, con quel pancione... solo che il pa-dre non sono io! Ne abbiamo parlato una volta, cioè: ho buttato lí la cosa per scherzo, ma lei ha subito cambiato discorso, dandomi in pratica dell’idiota importuno. Credo che il bambino sia del tipo calvo. Certo che mi piacerebbe tantissimo mettere al mondo un esserino, in particolar modo se condiviso con una creatura splendida come Valeria. Ma ultimamente le cose non sono andate troppo bene tra noi e poi lei continua a sostenere che siamo solo amici. Però una volta ci siamo veramente baciati. Subito dopo la morte di Marcello: era cosí affranta... Ricordo ancora perfettamente la sensazione che mi procurò leccare la sua lingua inaspet-tatamente molto grossa.

È come in certi pezzi di Schumann: a un certo punto non capisci le idee da dove vengono, ma vengono e sono pure molto belle. Cosí accadde una sera. Me ne stavo seduto a guardare la televisione, niente di piú innocuo. A un certo punto mi alzai, presi il contenuto di tutti i cassetti della mia scrivania (sia le cose buone che quelle meno buone, e anche tutti i disegni) ne feci poltiglia e tirai l’acqua del water parec-chie volte, impaziente per i lunghi tempi di attesa necessari tra un’operazione catartica e l’altra. Poi tornai a sedermi.

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epilogo

Benché abbia adesso la testa piuttosto confusa ricordo an-cora perfettamente le operazioni che feci quel venerdí quin-dici maggio, vigilia del mio compleanno, quando mi resi conto, per la prima volta nella mia vita, di non essere piú in grado di discernere ciò che era accaduto secondo me da quello che era accaduto secondo gli altri, che pure si ostina-vano a far fronte comune contro le mie percezioni.

Non sapevo piú che fare, cosí mi adagiai sul letto, com-pletamente nudo dopo una doccia che presto avrebbe perso i suoi effetti ristoratori, e raccolsi tutte le mie forze. Tutta la mia volontà era diretta verso un unico scopo: pensare un punto. Un eclatante monopensiero puntiforme, indefinito nelle dimensioni, capace di occupare l’intera mia immagi-nazione. Non potevo fare altro, lo capite? Non restava nien-te della mia vita... non capivo che cosa potessi definire vita e cosa no. Io ero sinceramente convinto di aspettare un figlio da Valeria quando ve l’ho detto. Ma dovete pur ammette-re che se lei si ostina a negare la mia evidenza, ciò che è evidente a me, e tutti intorno sono con lei d’accordo, be’: non mi resta che resettare ogni cosa. Ecco, adesso avrete piú chiaro il monopensiero: pensare quel punto che, se ti riesce di premerlo, funziona esattamente come il tastino sul fianco del computer: resetta ogni cosa...

Quel diavolo di quindici di maggio resettai parzialmen-te le cose, e questo fu un danno, perché l’operazione o ti riesce alla perfezione o è un’autentica sciagura: perdi la co-gnizione del tempo, ieri e domani diventano paurosamente simili, non capisci se la tua vita è una spirale ingarbugliata, cominci a filosofeggiare... da allora ho perso ogni totale co-gnizione temporale e affettiva, non distinguo la sincerità dal

dopodomani e una mela da una frase d’amore. E siccome tutte le parole che precedono e seguono - sí, insomma, tutte quelle che stanno attorno al quindici di maggio - sono figlie di questo stato, io non posso garantire piú nulla. Ecco che significa resettare malamente! Magari l’idea era buona ma adesso non so piú da che parte vado. Mi ritorna in mente, brutto com’è e forse ancor di piú, quel maniaco di un inse-gnante pederasta, e non riesco a capire perché ho detto che è stato importante per la mia vita. Non ha fatto un bel nien-te per la mia vita! Almeno che io adesso mi ricordi. Devo scusarmi: tutta questa confusione non vi deve allietare poi troppo, o miei sultani...

La strada bianca non c’è piú. Nessun volto di donna, or-mai, domina i miei pensieri. Nemmeno piú forme umane. A stento certe volte riesco a sfiorare con lo sguardo il mio naso. Vedo invece molte altre cose belle. E diversissime, ma ogni giorno uguali. Cambia l’immagine, che pare incastrarsi nella mia retina per un intero giorno per poi svanire del tutto senza mai piú tornare, ma l’impressione rimane sempre la stessa. Un’estrema luce, impalpabile investe i miei sogni. I miei pensieri, anche, dal momento che ormai non è piú pos-sibile distinguerle gli uni dagli altri. Ruzzolo quasi contro le visioni a testa bassa, cercando a volte di sfuggire a queste immagini che troppo spesso si fanno opprimenti. Certi gior-ni ci riesco occupando la mente con la vista di una finestra mezza aperta, in alto sul muro. Ma poi mi viene dolore al collo, e allora devo restare un altro giorno senza muovere la testa. E penso a quello che avevo pensato il giorno prece-dente scrutando quell’apertura magica sul mondo. Dava sul cortile, ma era troppo vicina al tetto altissimo perché potessi arrivarvi col capo; mi limitavo a scrutare i minuscoli fasci di luce che passavano indiscreti per essa. Cosí meditando

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arrivai finalmente un giorno a poter affermare senz’ombra di dubbio, dopo mesi e mesi di osservazione accorta, che la luce è composta da particelle vitali. Esse vivono e splendono finché possono librarsi in aria, ma quando giungono a terra si schiantano contro il pavimento duro e muoiono sfracel-late. E io ho raccolto in tutto questo tempo i loro corpi, di quelle che passavano per la mia finestra, e li ho messi in un barattolo di vetro che mi sono inventato e che ormai è quasi pieno. Ogni tanto lo guardo quel barattolo, e mi inorgogli-sco del mio importante lavoro.

Sono cosciente che se non uscirò mai da questa prigione bianca tutti i miei sforzi saranno vani e nessuno conoscerà mai questa mia fondamentale scoperta: non onda ma cor-po... incido sui muri della mia cella molte parole con una penna che mi ha portato una gazza, un giorno, rubata chissà dove. Sono per lo piú verbi; ho sempre amato i verbi, perché significano sempre qualcosa di vitale. Un verbo è un’azio-ne. Anche morire o star fermi è un’azione, mentre qualsiasi parola senza un verbo non potrebbe esistere, non avrebbe alcun senso. Si limiterebbe a descrivere. Qui i custodi sono molto ignoranti, non apprezzano i miei sforzi. Un giorno entrarono nel mio minuscolo appartamento, ma non so dire quando, e videro tutte quelle scritte piccolissime. Il muro diceva: Sono, Esisto, meravigliato, estasiato, CONTINUO, Penso, Mi sforzo. Ma loro non compresero nulla nella loro bassezza d’intelletto; presero la penna e mi sventrarono con quella la mano destra. Pochi colpi bastarono perché i miei fragili tendini e le ossa fradice cedessero in una pozza di sangue dolorante.

Da quel giorno, ogni volta che entravano nella mia stanza bianca, mi affrettai a conservare subito una nuova penna dentro di me, per ripulirla subito dai succhi del mio intestino,

non appena avessero finito di picchiarmi. Imparai a scrivere con la mano sinistra, e la prima parola nuova che scrissi, na-turalmente fu un verbo. Sopravvivere avevo voluto tracciare con quella cannuccia il cui inchiostro stava ormai per finire, ma che si era adesso cominciata ad alimentare del mio stes-so sangue e della mia forza di resistere, nonostante tutto...

Mi hanno dimesso dalla clinica dopo non so quanti mesi anni stamattina. Dicono che sono tranquillo e finalmente ho raggiunto un equilibrio (farmacologico). I pensieri sono abbastanza chiari, ma piuttosto elementari: non mi riesce di pensare niente di quelle cose meravigliose che la mia mente era in grado di generare un tempo. Non sono piú in grado di immaginare un Marcello che muore e risorge come Cri-sto, una Valeria bellissima che non è mai esistita. Ma sono abbastanza tranquillo. Tranne domani, verso le undici, che è venuto a trovarmi Marcello. Stavo scendendo le scale e mi toccavo il mento rasato da poco: ma troppe punte: davvero incapace come barbiere. All’inizio mi ha fatto piacere ve-derlo e niente affatto stupito. Abbiamo parlato dell’assurdità della democrazia e dell’Hammerklavier e altre cose a noi sempre care. Mi ha detto di quella volta che era svenuto e io e Valeria l’avevamo soccorso; mi ringraziò ancora una volta. Da allora tutto era cambiato per lui: aveva smesso di bere e aveva ripreso a studiare il pianoforte alacremente e con pro-fitto: proprio in quei giorni sarebbe partito per una piccola tournée. L’editore calvo si è interessato e grazie a certe sue amicizie gli ha trovato un ingaggio. E grazie a quello che io avevo fatto, ma che dovevo aver irrimediabilmente rimosso, adesso le sue cose con Valeria andavano a gonfie vele. Non capivo. Mi ringraziò ancora. Prego.

Prego. Pregherei davvero per me, se solo conoscessi le

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Postfazionedi Angela Migliore

Giocare col fuoco

Un romanzo non romanzato: “Non c’è bisogno di nessuna storia da raccontare. Le parole come le note, belle da sentire, in strutture meravigliose di architetti supremi e combinatorie disposizioni”, senza per questo dover necessariamente avere un plot di cui diventare schiavi.

Perché “Si legge quello che piace leggere, ma non si scrive quello che si vorrebbe scrivere, bensì quello che si è capaci di scrivere” (J.L. Borges) e Busetta pare concordare. Annui-sce dalle righe del suo Diario della stanza bianca e vuota, dove riconosce allo scrittore l’attitudine a costruirsi il proprio mondo ideale e a rievocarlo mediante le sue pagine, non già per necessità di raccontare, quanto per ridestare dall’oblio la memoria di castelli di carta e di penne lucenti al pari di spade da leggenda, ritrovando la via verso quella “terra privilegiata di sogni, che cresce ad ogni risveglio” e che rappresenta il proprio habitat naturale.

Da qui, il male di vivere. Perché “la vita ha quasi mai a che vedere coi romanzi” e “da uno che non sa vivere normalmen-te non si può pretendere che scriva cose che sappiano di vita normale”. La trama, pertanto, diventa mero espediente attra-verso il quale consumare l’epifania di quella sofferenza mista all’insaziabile bisogno di consolazione di cui scriveva Stig Dagerman, in tal modo sottolineando l’incapacità di trattare in termini concreti con il mondo e il conseguente smarrimen-to generato dalla carenza acuta di significato da attribuire ai propri giorni, che distorce la visione della morte qui concepi-ta come “unico modo per risolvere sensatamente la vita”.

La prospettiva del romanzo è senza dubbio egocentrica:

parole giuste. Pregherei per la mia anima se solo fossi certo di averne una. E d’altronde perché innaffiare un campo su cui non sono mai state sparse sementi. In verità, in verità vi dico che non c’è rimasto niente.

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nell’incrocio tra il proprio destino e quello dei restanti per-sonaggi, il protagonista considera gli altri esclusivamente in funzione di se stesso, e perso nei numerosi buchi della pro-pria intelligenza relazionale - i cui nomi corrispondono a in-genuità e fiducia sconsiderata, concessa con ingiustificabile fretta - si curva deluso su un foglio biancastro per mescolare il proprio dolore all’inchiostro, facendone autoritratto in tin-ta ironica. Busetta, infatti, stempera la tensione puntando su un umorismo agrodolce che sfocia, talvolta, nel cinismo di chi guarda al futuro col ghigno della più disincantata indiffe-renza: “Dal momento che mi sono piuttosto rassegnato alla perfetta latitanza (ammessa la sua esistenza - cosa già questa ardua piuttosto da ammettere) dell’Oste senza nome di que-sta cacchio di locanda grossa, ecco, dal momento che non si fa vivo nessuno, be’: per quanto mi riguarda io potrei essere già morto da un pezzo; giuro che non mi cambierebbe un granché. Né sono perfettamente sicuro d’essere vivo. Non ho nessuna irrefutabile prova di questo...”

Al pari di Dagerman, seppure in toni che qui sfiorano la goliardia, emerge un rapporto conflittuale con un Dio che, stigmatizzato, continua, però, a “meritare” quella maiuscola, segno di malcelato ossequio. È motivo ricorrente, più volte ripreso nel corso del romanzo, senza la rassegnazione affranta dello scrittore svedese, ma con tono fintamente scanzonato e tuttavia incapace di ridimensionare il disagio. “Valeria, due cose mi mancano: L’amore. E Dio”. Una sola frase che fissa con chiarezza indiscutibile e lapidaria lo smarrimento di un uomo lontano dai due unici centri propulsori di energia vitale: l’amore e la fede. Ne consegue la tristezza inconsolabile che spegne la voglia di restare al mondo e soffoca il tempo nel fondo di un bicchiere in grado di sbiadire la lucidità, regalan-do un’etilica allegria.

Lo stile è quello limpido del parolaio facilmente capace di districarsi entro il perimetro delle proprie pagine. Caratteristi-ca fondamentale: la fluidità di scrittura che, priva di orpelli e barocchismi, scivola via leggera con l’incisività dell’immedia-tezza, consentendo l’immedesimazione totale del lettore, di-nanzi al quale viene rappresentata la resa incondizionata nei confronti di una vita subita al pari di una tortura, di una pena da scontare. Non c’è tempo futuro, i giorni scorrono inesora-bili, uno dopo l’altro e ognuno identico a se stesso, con l’insi-gnificanza delle azioni quotidiane che si pone come scenario entro cui il protagonista agisce non allo scopo di raccontarsi, ma, cosa ben più difficile, di essere compreso.

Non c’è spazio dunque, per la storia: dialoghi e gesti servo-no unicamente da sfondo e lasciano trasparire la più autentica solitudine, concepita come prospettiva privilegiata al fine di indagare la natura inconsolabile del proprio dolore. Strumen-to principale dello scandaglio operato da Busetta diventa la forza della sua stessa prosa che, senza perdersi nel narcisismo compiacente comune a molti contemporanei, riesce a non banalizzare la semplicità, troppo spesso erroneamente asso-ciata ad una povertà di contenuti, traducendola, invece, nel più efficace codice espressivo in grado di dar voce alla do-lorosa consapevolezza del proprio percorso borderline, con le pagine che, di volta in volta, registrano la precarietà di un Io continuamente in bilico tra l’urgenza di riempire fogli che siano specchio del proprio sentire e il desiderio di tacere. Per-ché “uno che è scrittore di suo, non ha bisogno neppure di scrivere, forse tranne il caso in cui si voglia ricordare il proprio mondo in certi momenti di oblio... allora sì. L’ideale, a dire il vero, sarebbe quello di essere sempre uno scrittore, e non dimenticarsi mai il proprio mondo”.

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