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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI
Relazione per il Corso di Diritto Penale progredito nel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01
A.A. 2016/2017 3 Maggio 2017
Gli incerti confini del delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza (art. 513-bis c.p.)
A cura di:
Antonio Oriente
Nicolò Gavioli
Tommaso Baschini
Relatrice: Dott.ssa Martina Galli
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INDICE
1. Introduzione………………………………………………………………………………..pag. 3
2. Evoluzione storica dell’art. 513 bis c.p…………………………………………………...pag. 4
2.1. I precedenti normativi: l’art. 165 del codice Zanardelli e l’art. 513
del codice Rocco……………………………………………………………………......pag. 4
2.2. Legge 13 settembre 1982 n.646 (Rognoni-La Torre)………………………………......pag. 5
2.3. L’espansione progressiva della fattispecie: da legge antimafia
a legge generale...............................................................................................................pag. 6
3. Art. 513 bis c.p.: profili di tutela e ambito soggettivo…………………………………..pag. 8
3.1. Il bene giuridico………………………………………………………………………..pag. 8
3.2. Reato comune o reato proprio?.......................................................................................pag. 9
4. I confini “interni” del reato di illecita concorrenza con violenza e minaccia…………pag. 10
4.1. Violenza e minaccia come requisiti della condotta…………………………………....pag. 10
4.2. La nozione di “atti di concorrenza”……………………………………………………pag. 12
4.2.1. Interpretazione restrittiva………………………………………………………...pag. 13
4.2.2. Interpretazione estensiva………………………………………………………...pag. 16
4.2.3. Gli atti di concorrenza alla luce delle fonti di matrice
comunitaria……………………………………………………………………….pag. 19
5. I confini “esterni” del delitto di illecita concorrenza
5.1 Il concorso tra l’art. 513-bis c.p. e l’art. 629 c.p.…………………………………….…pag. 20
5.2 Il concorso tra l’art. 513-bis c.p. e l’art. 416-bis c.p.….………………………………...pag. 22
6. Considerazioni conclusive……………………………………………………………........pag. 22
Bibliografia………………………………………………………………………………........pag. 24
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1. Introduzione
Questa trattazione vuole prendere ad esame il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia
previsto all’art.513 bis, Capo II, Titolo VIII, Libro II del codice penale.
Il disposto di tale norma recita come segue: «Chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, o comunque
produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è
aumentata se gli atti di concorrenza riguardano un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo stato o
da altri enti pubblici».
Benché, come vedremo meglio nel paragrafo successivo, il legislatore avesse ben chiaro lo scopo da
raggiungere con tale norma (rinforzare il nascente sistema repressivo della criminalità mafiosa), il
disposto della stessa ha dato adito negli anni a numerosi problemi interpretativi, da cui sono derivate
notevoli incertezze in sede applicativa. Essa non solo appare priva dei connotati tipici che
caratterizzano la criminalità mafiosa, sia sul piano delle qualifiche soggettive che sul piano delle
modalità operative, ma il testo normativo, come già si può evincere ad una prima lettura, appare di
difficile interpretazione.
In primo luogo non si capisce quale sia il significato da attribuire all’espressione «atti di
concorrenza»1, come anche ai termini violenza e minaccia2. In secondo luogo le espressioni appena
citate, accostate dal legislatore all’interno del testo normativo, appaiono tra loro difficilmente
conciliabili: la presenza di una situazione di concorrenza sembrerebbe automaticamente escludere
l’utilizzo di mezzi riconducibili a violenza o minaccia, non è quindi agile comprendere quando degli
atti di concorrenza possono essere configurati come violenti o minacciosi. Al fine di meglio afferrare
i problemi legati al reato di illecita concorrenza e ai suoi confini è bene ricostruire dapprima il
percorso che ha portato alla nascita e allo sviluppo della norma, dopodiché si passerà all’analisi della
strutturale della fattispecie e, infine, all’esame dei rapporti che quest’ultima intrattiene con altre
fattispecie di “confine”.
2. Evoluzione storica dell’art. 513-bis c.p.
2.1. I precedenti normativi: l’art. 165 del codice Zanardelli e l’art. 513 del codice Rocco
1 Sul punto si veda B.ROSSI, Osservazioni a Cass. Pen., 10 dicembre 2015, sez. III, n. 3868, in Cass. Pen., fasc.11, 2016, pag. 4119. 2 Sul punto si analizzi G. DE SIMONE, Violenza, in Enc. Dir., XLVI, 1993, pag. 5 ss.
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Il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia non era originariamente previsto dal codice
Rocco del 1930. Infatti quest’ultimo tutelava soltanto, all’art. 513, la turbativa della libertà
dell’industria e del commercio, commessa con violenza sulle cose o mediante atti fraudolenti.
Quest’ultima fattispecie, a tutt’oggi vigente, punisce con la reclusione fino a due anni e con la multa da centotre euro a
milletrentadue euro (a querela della persona offesa e purché il fatto non costituisca più grave reato) «chiunque adopera
violenza sulle cose ovvero mezzi fraudolenti per impedire o turbare l’esercizio di un’industria o di un commercio».
Tipico esempio dell’uso della violenza nella fattispecie del 513 c.p. è quello in cui il reo ostacola materialmente l’altrui
attività produttiva, intralciando il normale funzionamento dei prodotti o la loro circolazione. Utilizzo di mezzi fraudolenti
si avrà, invece, quando si ricorra al meccanismo dell’inganno, che potrà essere esercitato verso lo stesso esercente o
comunque su un individuo che ha rapporti con l’attività (si può ad esempio pensare all’inganno del fornitore che ostacoli
l’approvvigionamento di materie prime o all’inganno della clientela che pregiudichi lo smercio della produzione). In
dottrina3 si tende invece ad escludere che nel concetto di “mezzi fraudolenti” possa essere ricompresa anche la
clandestinità propria di ogni condotta atta non già a provocare un errore, ma a mantenere l’interessato in una condizione
di ignoranza; questa interpretazione porterebbe infatti a ritenere rilevante qualunque illegalità, purché passi inosservata,
stemperando eccessivamente la nozione di fraudolenza.
Si deve però segnalare come sia la previsione del dolo specifico, sia la presenza di una formula vaga come “mezzi
fraudolenti”, sia, infine, un quadro normativo nel quale altre fattispecie si sovrappongono alla condotta descritta dall’art.
513 c.p. (ad es. boicottaggio, danneggiamento, truffa), hanno finito per condannare tale fattispecie alla pressoché totale
disapplicazione4.
Il precedente immediato dell’art. 513 c.p. veniva comunemente indicato nell’art. 165 del codice
Zanardelli.
L’art. 165 del codice Zanardelli, ivi collocato entro la cornice «dei delitti contro la libertà», e più
specificatamente sotto la rubrica «dei delitti contro la libertà del lavoro»5 recitava precisamente:
«Chiunque, con violenza o minaccia, restringe o impedisce in qualsiasi modo la libertà dell’industria
o del commercio è punito con la detenzione sino a venti mesi e con la multa da lire cento a tremila».
A ben vedere tuttavia con quest’ultima norma l’art. 513 c.p. ha ben pochi punti di contatto. Infatti,
come ha evidenziato l’illustre Maestro Pedrazzi6, la vocazione primaria dell’art. 513 c.p., nel quadro
della disciplina penale della vita economica, è da individuarsi nella criminalizzazione della
concorrenza sleale (attuata con mezzi fraudolenti o con violenza sulle cose). La libertà viene così
tutelata sotto il profilo del concreto esercizio dell’iniziativa economica: come normalità di
condizioni di esercizio e assenza di indebiti condizionamenti estrinseci. Rimane invece estranea una
3 Sul punto si veda C. PEDRAZZI, voce Turbativa della libertà dell’industria o del commercio, in Enc. Dir., XLV, 1992, pag. 4. 4 D. PULITANÒ, Diritto penale: Parte speciale, vol. II, Tutela penale del patrimonio, Torino, 2013, pag. 258. 5 Cfr. C. PEDRAZZI, op. cit., pag. 1. 6 Ibidem.
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tutela penale della libertà di iniziativa economica intesa come autodeterminazione, nella sottospecie
della libertà morale7.
Al contrario la norma del 1889, nel punire qualsiasi atto violento o minaccioso diretto a restringere
la libera dell’industria o del commercio, presentava sì una marcata vocazione commerciale e
industriale, ma quest’ultima doveva essere intesa come tutela penale della libertà di iniziativa
economica, a sua volta concepita come autodeterminazione della stessa libertà personale, nella
sottospecie della libertà morale8. Ebbene questo orizzonte di tutela, totalmente estraneo alla logica
ispiratrice dell’art. 513 c.p., sembra essere recuperato dal legislatore, pur in un mutato quadro di
contorno, proprio con l’art. 513-bis c.p.9
Infatti, con l’affermarsi della criminalità organizzata, il legislatore è stato indotto a prevedere la
violenza e la minaccia verso le persone come mezzi per turbare la concorrenza.
2.2. La legge 13 settembre 1982 n. 646 (Rognoni-La Torre)
Il delitto di Illecita concorrenza con violenza e minaccia (art.513-bis c.p.) è stato previsto dall’art. 8
della legge 13 settembre 1982, n.646 (c.d. Legge Rognoni- La torre)10, legge concepita in un periodo
difficile per la giustizia italiana, stretta nella morsa dell’associazionismo criminale di stampo
mafioso.
In effetti, la legge 646 del 1982 fu emanata subito dopo il triste e ben noto omicidio del Generale dei Carabinieri Carlo
Alberto Dalla Chiesa eseguito da “Cosa Nostra” il 3 settembre del 1982 a Palermo, città dove lo stesso Dalla Chiesa era
stato nominato Prefetto proprio al fine di combattere le varie associazioni mafiose che attanagliavano la Sicilia e
indirettamente il resto dell’Italia.11
Nella legge 646 del 1982 rientrano infatti, oltre alla disposizione del 513-bis c.p., tutto un insieme
di disposizioni in tema di lotta alla criminalità organizzata, prima fra tutte la figura dell’associazione
di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.).
Le ragioni di politica criminale che hanno ispirato il legislatore nell’introduzione del reato di illecita
concorrenza si evincono chiaramente dai lavori preparatori della stessa legge12, dove esplicitamente
7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Ibidem 10 Si veda E. D’IPPOLITO, L’illecita concorrenza con violenza o minaccia: tra metodo mafioso e direzione dell’intimidazione, il problema resta l’equivoco sugli atti di concorrenza, in Cass. Pen, fasc.11, 2011, pag. 3820 (nota a Cass. pen, sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462). 11 Ivi, pag. 3824. 12 «La mafia, peraltro ,opera ormai anche nel campo delle attività lecite e si consolida l’impresa mafiosa che interviene nelle attività produttive, forte dell’autofinanziamento illecito(sequestro di persona, contrabbando, etc.) e mira
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si afferma la volontà di far fronte ad un comportamento tipico della criminalità mafiosa quale è
quello di scoraggiare la concorrenza tramite l’esplosione di ordigni, i danneggiamenti o l’esercizio
di violenza nei confronti delle persone13.
2.3 L’espansione progressiva della fattispecie: da legge antimafia a legge generale
Quando venne emanata la Legge Rognoni-La Torre la volontà parlamentare era senz’altro quella di
ostacolare le attività imprenditoriali coordinate, in maniera diretta o indiretta, da associazioni di
stampo mafioso, o comunque da quest’ultime sostenute mediante condotte intimidatorie poste in
essere a danno di imprese operanti nello stesso settore, con l’obiettivo di garantirsi posizioni di
preminenza nel mercato14. Tale necessità si faceva sempre più pressante dal momento che proprio
negli anni in cui si stava progettando la legge, il rapporto tra le associazioni criminali ed il mondo
dell’imprenditoria si intensificava notevolmente15.
Lo strumento di tutela ideato con l’art. 513-bis c.p. voleva fronteggiare l’evoluzione conosciuta dalla mafia negli anni ’70
del secolo scorso, quando da un modello statico di mafia (che non prevedeva attività imprenditoriale) si è passati ad uno
di tipo dinamico, dove l’esercizio dell’attività d’impresa rappresenta lo sbocco naturale e il centro di interessi del sodalizio
criminale16. L’imprenditoria mafiosa, ricorrendo a metodi violenti intimidatori, finisce con lo scoraggiare o eliminare del
tutto l’altrui lecita concorrenza: la mafia sfrutta così il proprio “vantaggio competitivo” per attuare un disegno
monopolistico (per settori o aree geografiche di appartenenza) che mette a repentaglio la libera dinamica economica17.
L’art. 513-bis c.p., nella visione di una certa dottrina18, sarebbe così andato a colmare un vuoto di
tutela che né il delitto di estorsione (629 c.p.) né la fattispecie di turbativa dell’industria e del
commercio (art. 513 del c.p.)19 riuscivano a riempire. Da un lato si evidenziava come il reato di
estorsione, oltre ad avere una vocazione esclusivamente patrimonialistica (tutelando cioè il
patrimonio del singolo), risultava di difficile dimostrazione in giudizio, dovendo essere provati sia
l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno sia la presenza di una costrizione a «fare o ad
all’accaparramento dell’intervento pubblico, scoraggiando la concorrenza….Con la previsione del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, si punisce un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza». Così la Relazione alla proposta di legge n.1581 presentata alla camera dei deputati il 31 marzo 1980 in atti parlamentari, VIII legislatura. http://legislature.camera.it, (31 marzo 1980). 13 Si veda E. D’IPPOLITO, L’illecita concorrenza con violenza o minaccia: tra metodo mafioso e direzione dell’intimidazione, il problema resta l’equivoco sugli atti di concorrenza, in Cass. Pen., fasc.11, 2011, pag. 3820 e Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462. 14 Sul punto, si analizzi A. MARCHINI, Osservazioni a Cass. Pen., 27 maggio 2014, sez. II, n. 29009, in Cass. Pen., fasc. 2, 2015, pag. 637 15 Ibidem. 16 Sul punto si veda A. ALESSANDRI Concorrenza illecita con violenza o minaccia, in Digesto delle Discipline penalistiche, vol. II, 1988, pag. 411. 17 Ibidem. 18 A. MARCHINI, op. cit., pag. 637. 19 Ibidem.
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omettere qualche cosa». Neppure il reato previsto all’art. 513 c.p. appariva del resto in grado di colpire
fenomeni come quelli sopra descritti (esercizio di metodi intimidatori per scoraggiare la libera
concorrenza): la norma incrimina infatti pacificamente il compimento di atti di violenza che siano
rivolti esclusivamente verso le cose20. L’inserimento della fattispecie dell’art. 513-bis c.p. avrebbe
così coperto un vuoto esistente tra i due articoli sopra citati.
Ciò detto, l’intenzione del legislatore di osteggiare i tipici comportamenti della “mafia imprenditrice”
non ha tuttavia trovato una piena trasposizione nel dettato dell’art. 513-bis c.p., il quale nei fatti non
sembra risentire del contesto legislativo di provenienza.
A ben vedere, benché si specifichi che gli atti di concorrenza debbano essere effettuati con violenza
o minaccia, ossia attraverso le modalità proprie del c.d. metodo mafioso21, non vi è alcun espresso
riferimento alla criminalità mafiosa né sotto il profilo oggettivo della condotta, né sotto il profilo
soggettivo22.
Inoltre il legislatore ha improvvidamente inserito elementi selettivi (l’atto e il rapporto di
concorrenza) che non appaiono congrui rispetto al fine repressivo dichiarato23: infatti gli atti di
concorrenza, che specificano la norma in termini modali, rinviano piuttosto, come elemento
normativo, alla competizione imprenditoriale svolta in via pacifica.
Infine la collocazione della norma all’interno del Capo II, relativo ai delitti contro l’industria e il
commercio, Titolo VIII, Libro II del codice penale, allontana di fatto l’istituto da quell’insieme di
norme costituenti il nocciolo duro della disciplina antimafia.
Possiamo allora dire che, a discapito della rilevanza sociologica esatta (vale a dire l’operare sul
mercato di imprese mafiose che paralizzano il libero gioco della concorrenza) da cui il nuovo reato
aveva preso le mosse, vari fattori sembrerebbero perciò imporre di attribuire all’art. 513-bis c.p. una
portata generale.
Così, in giurisprudenza si è ritenuto che «l’ambito di applicazione della norma non è limitato al solo settore della
criminalità organizzata, ma si estende a tutte quelle situazioni nelle quali la condotta dell’agente si concretizza in atti di
intimidazione nei confronti del soggetto passivo [...]», sicché l’eventuale «riferimento alle condotte tipiche della
criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l’ambito di applicabilità della norma [...] ma solo caratterizzare
i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo»24.
20 Ivi, pag. 638 21 Il metodo mafioso è enunciato dall’art. 416-bis c.p. in cui si espone come un’associazione a delinquere è di tipo mafioso se vi è la presenza di tre elementi: la forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento esistente e lo stato di omertà che da esso deriva. Tutti e tre gli elementi sopra menzionati sono necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di associazione mafiosa. Sul punto, si veda https://www.filodiritto.com (05 febbraio 2011). 22 Ivi, pag. 639. 23 A. ALESSANDRI, op. cit., pag. 415. 24 Cfr. Cass. pen., Sez. II, 5 febbraio 2008, n. 7923, in Giur. It., 2008, 10 ss.
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Constatato lo scollamento tra la norma e la realtà che nell’intenzione del legislatore questa si
prefiggeva di tutelare, vi è chi25 si è chiesto se l’art. 513-bis c.p. comunque apporti un contributo al
complessivo assetto penale della concorrenza. La norma in questione, infatti, sembrerebbe
rappresentare un presidio per la «libera concorrenza» in senso civilistico, da intendersi come regime
contrapposto a quelli di monopolio ed oligopolio, ed andrebbe a punire i c.d. atti di concorrenza sleale
ex art. 2598 c.c., già colpiti dalle sanzioni civili di cui all’ art. 2599 c.c. Tuttavia, il contraddittorio
accostamento tra gli «atti di concorrenza» e la «violenza o minaccia» rappresenta un non-sense che
fa seriamente dubitare della idoneità dell’art. 513-bis c.p. a soddisfare le moderne esigenze di
criminalizzazione della concorrenza illecita. La risposta a questo interrogativo è comunque rinviata
al termine della trattazione.
3. Art. 513-bis c.p.: profili di tutela e ambito soggettivo
3.1. Il bene giuridico
Volendo inoltrarci nell’analisi dell’art. 513-bis c.p., appare opportuno da subito individuare il bene
giuridico che la norma si prefigge di tutelare. Anzitutto la sua collocazione sistematica porta tale
disposizione ad essere ricompresa tra i reati contro l’ordine economico. Essa va dunque ad affiancare
numerose altre disposizioni che prendono in considerazione condotte poste in essere da soggetti che
operano nell’ambito di imprese ontologicamente lecite, le quali, pur avvalendosi di un modus
operandi illecito26, sono nate per il perseguimento di un oggetto sociale perfettamente legale. La
dottrina prevalente27 ritiene quindi che l’orizzonte di tutela in cui si proietta la norma sia quello
dell’ordine economico, concepito come il naturale funzionamento del sistema economico. D’altra
parte è evidente come il bene del corretto andamento del sistema economico (e della concorrenza che
è alla base del suo funzionamento) sia tutelato dalla norma solo in via mediata e indiretta: le modalità
della condotta (violenza e minaccia) consentono infatti di ritenere che la tutela dell’ordine economico
in generale è perseguito attraverso la tutela dell’autodeterminazione nell’esercizio di attività
economiche del singolo individuo. Per questa ragione vi è chi28 ritiene che il reato in esame debba
essere classificato come reato pluri-offensivo, ovvero un reato che lede contemporaneamente una
pluralità di beni giuridici. Infatti, si è in presenza di un bene tutelato di natura strumentale,
25 Ivi, 412. 26 In effetti, le società o comunque gli imprenditori che rientrano nell’applicazione di questa fattispecie di reato potrebbero essere (e quasi sempre lo sono) delle società civilmente lecite e riconosciute. Sul punto si vedano E. D’IPPOLITO, op. cit,. pag. 3820 ss. 27 Ibidem. 28 Ibidem.
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l’autodeterminazione del singolo nelle attività economiche, e di un bene tutelato di natura finale che,
come già specificato, è l’ordine economico generale.
3.2 Reato comune o reato proprio?
Un diverso interrogativo può sorgere in merito alla cerchia di possibili soggetti attivi dell’art. 513-bis
c.p.. Ad una prima visione, il termine “chiunque” con cui esordisce l’art.513-bis c.p. potrebbe far
trasparire che ci troviamo davanti ad un reato comune: l’utilizzo di questo pronome sembrerebbe
infatti indicare che la soggettività di chi compie il reato non è rilevante ai fini del verificarsi
dell’evento tipizzato dalla norma. Analizzando la norma con maggiore attenzione, scopriamo invece
che l’art. 513-bis del codice penale debba essere qualificato come un reato proprio29. In effetti è
pacifico che solo chi esercita un’attività produttiva, o industriale o commerciale possa realizzare il
reato descritto dalla norma.
È tuttavia evidente che la fattispecie in questione si distingue dagli altri reati propri da noi meglio conosciuti. Mettendo
a confronto il delitto di illecita concorrenza ad esempio con il delitto di peculato di cui all’art. 314 del c.p.30, ci troviamo
di fronte ad una importante differenza. Mentre la norma sul peculato presuppone a priori che chi compie il delitto debba
essere un pubblico ufficiale, senza così lasciare spazio ad alcuna interpretazione circa la soggettività del reo, nell’art 513-
bis del c.p. non vi è una descrizione diretta e precisa: qui ritroviamo anzi una commistione di termini, alcuni dei quali
sembrerebbero delineare un reato comune, mentre altri farebbero propendere per un reato proprio.
In ogni caso, benché la soggettività del reato non risulti in via immediata dal dato letterale, la
dottrina31 non ha dubbi sul fatto che ci si trovi di fronte ad un reato proprio, richiedendo che la
dimensione soggettiva del reato sia di volta in volta indagata in riferimento alla situazione sostanziale
del reo, verificando dunque caso per caso l’espletamento di un’attività commerciale industriale o
comunque produttiva.
Interessante è peraltro notare come il legislatore non si fermi alle sole ipotesi di attività commerciale
o industriale, ma inserisce le parole “o comunque produttiva”, così estendendo la delimitazione dei
soggetti attivi anche oltre i requisiti di professionalità e di organizzazione, tipici della nozione
civilistica di imprenditore. Dottrina e giurisprudenza sono perciò concordi nel ritenere che nella
29 Possiamo qui ricordare come sia proprio quel reato che può essere commesso soltanto da colui che rivesta una determinata qualifica, posizione o da chi possiede determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone, così E. DOLCINI-G. MARINUCCI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2012, pag. 201. 30 Ecco il testo dell’art. 314 del c.p.: «Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui , se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita». 31 Si veda E. D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3822 (in particolare par.3).
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cerchia dei soggetti attivi rientri chiunque semplicemente esplichi in concreto un’attività
economica.32
La giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato che «quanto alla configurazione del delitto di illecita concorrenza
con minaccia o violenza (art. 513 bis c.p.), esso ha bensì la struttura del reato proprio, in quanto si richiede che il soggetto
attivo svolga un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva. Ma tale qualificazione non deve essere intesa
in senso meramente formale, essendo sufficiente che si tratti di un operatore economico, anche svolgente la sua attività
in via di fatto, il quale si adoperi per eliminare la concorrenza da parte di altri operatori economici».33 Quindi per rivestire
la qualifica di soggetto attivo non è comunque necessario che il soggetto sia imprenditore ai sensi del codice civile,
essendo la formula idonea a ricomprendere chiunque svolga attività “produttive”, purché tale attività non sia stata posta
in essere una tantum.34
4. I confini “interni” del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia
4.1. Violenza e minaccia come requisiti della condotta
Passando ad esaminare le modalità della condotta, occorre concentrare l’attenzione sui requisiti della
violenza e della minaccia.
Come è noto il delineamento dei contorni reciproci tra i requisiti della violenza e della minaccia è argomento ampiamente
dibattuto in dottrina e in giurisprudenza. In passato si era affermata una teoria che tendeva a contrapporre la violenza alla
minaccia denominando l’una come vis phisica o vis absoluta e l’altra come vis moralis o relativa35. La differenza tra le
due era che mentre la prima eliminava completamente la volontà del soggetto che la subiva, costringendolo ad agire
esclusivamente in un certo modo, la seconda lasciava una possibilità, seppur vincolata, di scelta, incidendo soltanto sulla
sua libertà di decisione36. Ad oggi questa teoria è tuttavia da considerarsi superata. La contrapposizione su cui si fonda
tale teoria appare infatti priva di fondamento. Se consideriamo che da un lato la violenza può, in taluni casi, essere
utilizzata in chiave motivante, quindi non eliminando totalmente la possibilità di scelta del soggetto passivo (es. la
violenza fisica utilizzata per estorcere una confessione), dall’altro la minaccia, a seconda del contesto e del modo in cui
viene fatta, può risultare così stringente da precludere qualsiasi possibilità scelta (es. il malvivente che nel corso di una
rapina minaccia l’aggredito con una pistola affermando “o la borsa o la vita”).37 Oggi quindi non si tende più a
contrapporre la violenza alla minaccia, ma si applicano criteri di distinzione più appropriati, come ad esempio quello
32 Il punto è analizzato in maniera approfondita da E. D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3820. 33 Cass. Pen., Sez. II del 3 luglio 2001, n. 26918, in https://www.iusexplorer.it. 34 Sul punto si veda A. MARCHINI, op. cit.. pp. 637 ss. 35 Per maggiore approfondimenti sulla teoria della coazione relativa e assoluta vedere G. DE SIMONE, Violenza, in Enc. Dir., XLVI, 1993, passim. 36 Prima della prospettazione di tale teoria l’illustre giurista Karl Binding aveva sostenuto la tesi che la violenza è concepibile solo nella forma della vis absoluta. L’insigne autore per violenza intendeva infatti «qualunque azione che priva l’aggredito della capacità di formazione o di attuazione del volere». 37 Cfr. G.DE SIMONE, op. cit., pag. 34.
11
fondato sull’attualità del male. In breve, secondo la teoria basata su tale criterio la minaccia consiste nella mera
prospettazione di un male, mentre la violenza è un male già posto in atto.38
Violenza e minaccia si possono distinguere in personali o reali a seconda che siano rivolte verso le
persone o le cose39. Nell’art. 513-bis c.p. la violenza e la minaccia sono rivolte alle persone; questo è
uno dei tratti che distingue tale disposizione dall’omonimo art. 513 c.p. dove invece la violenza, ai
fini della consumazione del reato, è esercitata sulle cose40.
Se guardiamo alle figure delittuose previste dal nostro codice penale, ci accorgiamo che la minaccia
e la violenza talvolta figurano come elementi costitutivi della condotta, talaltra come circostanze
aggravanti41. Nel delitto di illecita concorrenza tanto la violenza quanto la minaccia sono elementi
costitutivi della condotta; di conseguenza la loro mancanza preclude la possibilità del verificarsi
dell’illecito.
Deve peraltro evidenziarsi come di recente, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 6462 del 2010
ha affermato che «ai fini della consumazione del reato previsto dall’art. 513-bis è sufficiente il ricorso
a quelle forme intimidatorie tipiche della criminalità organizzata descritte dall’art. 416-bis c.p.,
poiché è certo che “l’intimidazione mafiosa è espressione di una violenza gravissima”, certamente
idonea e forse ancor più efficace di una semplice minaccia nello scoraggiare o impedire la lecita
concorrenza»42. Con questa affermazione la Cassazione, lungi dallo sminuire l’importanza della
violenza o della minaccia ai fini della consumazione del reato, ha voluto affermare a chiare lettere
che le tipiche modalità intimidatorie della criminalità organizzata, previste dall’art. 416-bis c.p.,
integrino perfettamente i requisiti della minaccia e della violenza (in particolare esse possono recare
nel soggetto che le subisce un terrore tale da limitare fortemente la possibilità di scelta e da poter
essere considerate come una vera e propria violenza ai sensi dell’articolo in questione)43. Ancora nella
sentenza 6462 del 201044 la Corte di Cassazione ha ritenuto che il reato si configuri anche quando la
violenza e la minaccia siano protratte verso soggetti terzi, purché questi siano legati da rapporti
economici o professionali con l’imprenditore concorrente. Di conseguenza, ferma la necessità che la
violenza risulti idonea a impedire o scoraggiare la concorrenza, possiamo ritenere irrilevante il
soggetto verso cui questa venga indirizzata.
38 Non appare invece condivisibile l’asserzione che, mentre la minaccia opererebbe attraverso la via mediata dell’intelletto, la violenza opererebbe invece senza tale mediazione.V. G. DE SIMONE, op. cit., pag. 35. 39 Ivi, pp. 16. 40 Ibidem. 41 Ad esempio la violenza agisce come circostanza aggravante nell’oltraggio a pubblico ufficiale. (art. 341 ult. Comma) 42 Così E. D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3820. 43 In ambito economico la violenza o la minaccia esercitate dal sodalizio mafioso sono caratterizzate dall’intimidazione. Con forza d’intimidazione si intende la possibilità di sfruttare quel “prestigio criminale” che si riferisce all’associazione nel suo complesso e non alla condotta del singolo individuo. 44 Così Cass. Pen., sez. II, 16 Dicembre 2010, n.6462, in Cass. Pen., fasc.11, 2011, pag. 3820.
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Se ad esempio un imprenditore minaccia di morte il fornitore di una impresa concorrente intimando ad esso di non
rifornire più la stessa, si potrà dire integrato il reato di illecita concorrenza anche se la minaccia viene effettuata non già
direttamente verso l’imprenditore concorrente, bensì verso un terzo legato professionalmente a quest’ultimo in quanto lo
scopo è evidentemente quello di falsare la concorrenza.
4.2. La nozione di “atti di concorrenza”
A partire dalla sua predisposizione tramite la già richiamata legge Rognoni- La Torre del 1982,
benché quasi sempre considerato di minoritaria importanza rispetto ad articoli che oseremmo definire
più “popolari”, l’articolo in esame è stato oggetto di un acceso dibattito in giurisprudenza e in
dottrina45. Nella giurisprudenza degli ultimi anni possono essere individuati due filoni
giurisprudenziali tra loro contrastanti che si alternano nell’interpretazione della norma.
Secondo un primo filone, che potremmo indicare come restrittivo, l’articolo 513-bis c.p., punirebbe
solo quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali descritte all’articolo 2598 c.c. (in particolare,
quelle condotte che la giurisprudenza tende a ricondurre entro il comma 3 dell’art. 2598 c.c., v. infra),
attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale.
Il testo integrale dell’art. 2598 c.c.: «Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di
brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o
imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i
prodotti e con l’attività di un concorrente;
2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si
appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;
3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e
idoneo a danneggiare l’altrui azienda».
Il secondo filone, facendo perno sulla ragione che ha indotto il legislatore alla creazione della norma,
e cioè la repressione delle dinamiche mafiose, il cui modus operandi per eccellenza consiste nella
creazione di un clima di paura e di intimidazione, anche attraverso modalità tacite46, fornisce invece
un’interpretazione che potremmo definire estensiva della norma, ritenendo che ai fini
dell’integrazione del reato, non è necessario che siano posti in essere dei veri atti di concorrenza,
come tipizzati all’articolo 2598 c.c.. In questa visione, il concetto di atti di concorrenza viene esteso
fino a ricomprendere gli atti intimidatori e impeditivi della libera e lecita concorrenza.
45 Non vi sono dubbi infatti che nella legge Rognoni-La Torre del 1982 la norma in primo piano fosse il 416-bis c.p.: la previsione di un reato nominato “Associazioni di tipo mafiose anche straniere” attirò su di sé tutta l’attenzione sia dei media e della dottrina, lasciando ad un ruolo di secondo piano previsione normative come l’articolo in esame. 46 Cfr. R. M. SPARAGNA, Metodo mafioso e cd. Mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in www.penalecontemporaneo.it, 10 novembre 2015, pp. 1-2.
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Il problema su cui si confrontano i due orientamenti è dunque quello già in parte evidenziato:
richiedere la violenza o la minaccia per eseguire un atto di concorrenza potrebbe risultare (e risulta)
una contraddizione di termini, dal momento che se la concorrenza è un attività fondamentalmente
lecita e tutelata come diretta emanazione dell’articolo 41 della Costituzione, essa appare
incompatibile con atti violenti o minacciosi47. In chiave interpretativa, quindi, si gioca una partita
fondamentale sul concetto di “atto di concorrenza” in relazione all’esercizio di violenza o minaccia.
4.2.1 Interpretazione restrittiva
Una certa parte della dottrina crede che l’errore del legislatore risieda nel considerare la violenza o la
minaccia uno strumento per conquistare parti del mercato; infatti, mentre potrebbe ancora rientrare
nel concetto di concorrenza sleale l’uso di un mezzo fraudolento, la previsione dell’uso di violenza o
minaccia come strumento di conquista del mercato si spingerebbe oltre il limite estremo segnato dal
concetto di concorrenza, collocandosi ben al di là anche delle più scorrette forme di attività
concorrenziale48. Il limite del concetto di concorrenza dovrebbe infatti essere segnato da quei
comportamenti che «anziché migliorare la posizione di un soggetto rispetto ad un altro, eliminano le
stesse condizioni di svolgimento del rapporto tra imprenditori»49.
Condividendo questa impostazione di fondo, la Sezione II della Corte di Cassazione nella sentenza
numero n.7923 del 200850 non ha mancato di evidenziare il problema della coabitazione tra la ratio
legis che ha ispirato la norma e la sua poco felice trasposizione letterale.
Nella sentenza presa in esame la Corte di Cassazione si era trovata a giudicare sulla legittimità della sentenza con cui il
Tribunale di Agrigento aveva condannato il sig. G.R. per i reati di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) e di
estorsione aggravata (art. 629 c.p.), avendo questi costretto il sig. S.S.G., vittima del reato, ad interrompere l’attività di
trasporto di materiale inerte dalla sua cava al cantiere dei lavori di ristrutturazione di un campo sportivo, avviata in base
a contratto di appalto stipulato con la ditta Caramazza Pali s.r.l.. Nella fattispecie, l’intercettazione di una telefonata tra
l’imputato e la parte offesa, seppur fatta con modi gentili ed apparentemente cortesi, era stata giudicata dal tribunale
territoriale come una sorta d’intimidazione e di minaccia che ha posto la parte offesa in un clima di paura. L’imputato
G.R. aveva presentato quindi ricorso avverso tale sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione, tra gli altri motivi lamentando
l’erronea qualificazione del fatto: dovendo essere individuato il fine della condotta nell’ottenimento di una commessa di
fornitura di materiali a scapito della persona offesa, il tribunale avrebbe dovuto ritenere di conseguenza la sussistenza del
reato di cui all’art. 513-bis c.p., in luogo dell’art. 629 c.p.
47 Sul punto si veda B. ROSSI, op. cit., pag. 4119. 48 Così G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, Bologna, 2007, IV ed., I, pag. 649; in tema cfr. anche Anon.., Nota in tema di concorrenza con violenza o minaccia, in Giur. It, 2008, pag. 10. 49 Ibidem (dove si richiama l’opera di T. VITARELLI, voce Illecita concorrenza con minaccia o violenza, in Dizionario dei reati contro l’economia, a cura di MARINI-PATERNITI, Milano, 2000, 355 ss). 50 Si veda Cass. pen. Sez. II, 20 febbraio 2008, n. 7923, , in Giur. It, 2008, 10 ss.
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Ebbene la Corte di Cassazione, pur chiarendo che la ratio originaria della norma era di sanzionare
quelle tipiche forme di intimidazione che, nello specifico ambiente della criminalità organizzata di
stampo mafioso, tendono a controllare le attività commerciali, industriali o produttive, seguendo un
filone giurisprudenziale affermatosi nei primi anni novanta, ha poi concluso che di fatto «il testo
legislativo restringe l’ambito di applicabilità dell'art. 513-bis c.p., alle condotte concorrenziali attuate
con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale; pertanto, vi rientrano i
tipici comportamenti competitivi che si prestano ad essere realizzati con mezzi vessatori
(boicottaggio, storno di dipendenti rifiuto di contrattare etc..)»51.
In particolare, nella giurisprudenza civile52 si è ritenuto di definire come atto di concorrenza sleale rilevante ai sensi
dell’art. 2598 c.c. il boicottaggio secondario, ovvero quel boicottaggio in cui il preteso boicottante esercita pressione su
soggetti terzi affinché non intrattengano rapporti commerciali con il boicottato.
Un’altra fattispecie di sleale concorrenza è lo sviamento (o storno) di clientela che si verifica allorquando un ex dipendente
di un determinato imprenditore sottragga dei clienti all’azienda dove lavorava precedentemente, sfruttando know how e
competenze (esempio listino prezzi, condizioni commerciali, caratteristiche tecniche dei prodotti, ecc.) acquisite
lavorando presso l’ex datore di lavoro, arrecandogli quindi un danno.
Un’ulteriore ipotesi di anti-concorrenzialità è data poi dal rifiuto a contrarre, ossia dalla situazione in cui un imprenditore
si rifiuta di stipulare un contratto con un determinato cliente abituale: questa pratica, usata maggiormente negli ultimi
anni, conduce ad una limitazione degli sbocchi economici del concorrente, così producendo produce effetti di concorrenza
sleale.
Per contro la norma non comprenderebbe, e quindi non reprimerebbe, la condotta di chi, in relazione
all’esercizio di una attività imprenditoriale o commerciale, compie atti intimidatori “puri” al fine di
contrastare o scoraggiare l’altrui libera concorrenza; questi comportamenti, pur avendo come mira
teleologica la concorrenza (o, meglio, la violazione della libera concorrenza), esulano infatti dal
nucleo fondamentale dell’elemento oggettivo del reato in questione, costituito dalla realizzazione di
un tipico atto di concorrenza sleale civilisticamente rilevante; tali condotte rimarrebbero comunque
riconducibili ad altre fattispecie di reati preesistenti (nel caso affrontato dalla Corte, il reato di
estorsione).
Poiché nel caso di specie l’imputato non aveva «condizionato la libertà di intervento e di iniziativa sul mercato del
soggetto passivo facendo ricorso ad atti concorrenziali non consentiti perché vessatori», avendolo semplicemente costretto
sospendere il contratto suddetto attraverso atti di minaccia (pur volti teleologicamente a rimuovere un ostacolo alla propria
attività economica), la Corte ha escluso la sussistenza dell’art. 513-bis c.p.
51 Si veda Cass. pen. Sez. II, 20 febbraio 2008, n. 7923, , in Giur. It, 2008, 10 ss. 52 Cass. Civ. Sez. Un. 15 marzo 1985, n. 2018, in CED Cass. pen., rv 439926 e Cass. Civ., Sez. I, 13 marzo1989, n. 1263, in CED Cass. pen. rv 462133.
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Riconosciamo dunque in questa giurisprudenza una tendenza ad interpretare restrittivamente il
concetto di “atti di concorrenza”, escludendo dal fuoco applicativo della norma tutte quelle condotte
che non possono essere qualificate come atti tipicamente concorrenziali, ancorché posti in essere
attraverso forme di coartazione (ossia con l’uso di violenza o minaccia). Alla luce di questa
interpretazione non soddisferebbero perciò il dettato dell’art. 513-bis c.p. condotte di tipo
intimidatorio poste in essere da un sodalizio mafioso che, pur essendo in grado di destabilizzare la
normale dinamica imprenditoriale, non rientrino nel modello tipico di “atti di concorrenza”.
Di conseguenza, non integrano ad esempio il reato le condotte di chi costringe la persona offesa, mediante formulazione
di minacce, a risolvere un contratto a prestazione d’opera, ovvero, nel caso pratico, il commerciante che minacci e
percuota materialmente altro commerciante al fine di scoraggiarne la concorrenza.
La Corte di Cassazione è tornata a ribadire questa impostazione nella sentenza n. 29009 del 201453,
dove si afferma che «l’art. 513-bis c.p. punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente
concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate,
però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando,
invece, nella fattispecie astratta, gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare
l’altrui libera concorrenza».
Un’altra affermazione di questo filone giurisprudenziale che tende a restringere il campo di
applicazione della norma in esame può essere rintracciata nell’ambito degli arresti della Suprema
Corte in tema di interposizione fittizia e parassitaria di una società.
La definizione di una società interposta e parassitaria ci è data da una circolare dell’Agenzia delle entrate che definisce
tale società come «una società localizzata in un Paese avente fiscalità privilegiata, non soggetta ad alcun obbligo di tenuta
delle scritture contabili, in relazione alla quale lo schermo societario appare meramente formale e ben si può sostenere
che la titolarità dei beni intestati alla società spetti in realtà al socio che effettua il rimpatrio»54. Si ha interposizione fittizia,
quindi, quando un soggetto, solitamente una persona o nei nostri casi una società, si pone come contraente in un rapporto
contrattuale bilaterale, anche se gli effetti del negozio stipulato dalle parti non si produrranno su di esso ma su di un terzo.
Tale tipo di istituto si dice parassitario quando è voluto dallo stesso contraente fittizio al fine di trarne un vantaggio
economico.
Nelle sentenze n. 33791 del 201155 e n. 10395 del 201256 i giudici di legittimità hanno infatti tentato
di demarcare i confini di tipicità oggettiva descritti dall’art. 513-bis c.p., affermando espressamente
che la semplice interposizione commerciale, riferibile al civilistico contratto di mediazione, è esclusa
53 Cass. Pen., sez. II, 27 maggio 2014, n.29009, in in Cass. Pen., fasc. 2, 2015, pag. 637. 54 Sul punto si veda Agenzia delle Entrate Circolare 4 dicembre 2001, n.99/E., http://www.ilsole24ore.com (21 settembre 2001). 55 Cass. pen., 6 luglio 2011, n. 33791, in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2011, 324 ss., 56 Cass. pen., 2 febbraio 2012, n. 10395, in , in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2012, 246 ss
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dalla tipizzazione delittuosa; a maggior ragione la condotta di interposizione fittizia non rientrerà
nell’art. 513-bis c.p. se posta in essere in assenza di qualsiasi minaccia o violenza. In particolare si è
affermato che l’interposizione fittizia «non appare idonea ad integrare, sol perché qualificata
parassitaria, condotta riconducibile al reato in esame, sia perché oggettivamente esclusa dalla
tipizzazione delittuosa, sia perché nello specifico consumata senza che il tribunale ne chiarisse i
profili violenti ovvero minacciosi»57.
4.2.2. Interpretazione estensiva
Una diversa interpretazione della norma in esame ci è data dalla sentenza n. 6462 del 2010 della
Seconda Sezione della Corte di Cassazione58.
La pronuncia della Suprema Corte originava dal ricorso avverso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in
relazione al delitto di cui all’art. 513-bis c.p. dal Gip del Tribunale di Napoli nei confronti di due individui appartenenti
al clan dei Casalesi; clan che, oltre a soggiogare militarmente la provincia di Caserta, esercitava un controllo si direbbe
monopolistico su diverse attività economiche del territorio.
In particolare i due indagati operavano all’interno della suddetta struttura economico-criminale per conseguire e
mantenere, attraverso due società gestite direttamente dal sodalizio criminale, la gestione monopolistica e il controllo del
trasporto su gomma da e per i mercati ortofrutticoli di varie importanti città del sud Italia e della Sicilia. Per di più, in
concorso con i due indagati del giudizio, altre due persone, referenti del sodalizio criminale denominato “Cosa Nostra”,
avrebbero imposto, ai commercianti operanti nei mercati della Sicilia occidentale, la ditta gestita dai due indagati per
effettuare il trasporto su gomma dei prodotti verso la Campania, il Lazio e altre zone del territorio nazionale.59 Il Tribunale
del Riesame di Napoli aveva accolto il ricorso proposto dagli indagati, ritenendo che, pur essendosi svolti i fatti in un
ambiente in “odore di camorra” e in un clima dichiaratamente intimidatorio, non fossero stati posti in essere effettivi
episodi di minaccia o violenza da parte dei due individui facenti parte del sodalizio camorristico.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul proposto dalla Procura di Napoli, è intervenuta
con una pronuncia che, recuperando l’iniziale scopo del legislatore di reprimere e di combattere le
dinamiche imprenditoriali mafiose, per buona parte stravolge il filone giurisprudenziale restrittivo a
tutt’oggi preponderante. Affermava infatti che il Tribunale del Riesame, nel pervenire alle
conclusioni sopra delineate, avesse «ignorato che la norma in esame è stata introdotta dalla L. n. 646
del 1982, art. 8 (Legge antimafia Rognoni - La Torre) proprio con la finalità, peraltro non risultante
dal testo normativo, di reprimere l’illecita concorrenza attuata con metodi mafiosi che impedisce il
libero gioco del mercato». Secondo la Corte, infatti, «il legislatore nella lotta contro la mafia ha (…)
57 V. Cass. pen., 6 luglio 2011, n. 33791, in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2011, pag.324 ss. 58 V. Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462, in Cass. Pen., fasc.11, 2011, pag. 3820. 59 Ibidem.
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cercato di adeguare gli strumenti normativi ai differenti modelli operativi delle associazioni criminali
che sono capaci di penetrare nelle attività economiche e produttive attraverso forme di intimidazione
al fine di ottenerne il controllo e comunque di condizionarne la gestione60»; di conseguenza «il testo
dell’art. 513 bis c.p. (che fa esclusivo riferimento ad “atti di concorrenza con violenza o minaccia”)
e la ratio della norma (assicurare che «la concorrenza sia non solo libera ma anche liberamente
attuata»: Cass., sez. 6, 9 gennaio - 6 marzo 1989, Spano, riv. n. 180706) non lasciano dubbi sul fatto
che (…) ai fini del reato si richiede esclusivamente l’esistenza di comportamenti caratterizzati da
minaccia o violenza (indipendentemente dalla direzione della stessa) idonei a realizzare una
concorrenza illecita, cioè a controllare o condizionare le attività commerciali, industriali o produttive
di terzi con forme di intimidazione tipiche della criminalità organizzata». La stessa sentenza specifica
inoltre anche quale valore dare alla direzione che assumono la violenza e la minaccia61, ritenendo che
queste ultime, purché idonee a ledere la concorrenza, non debbano essere esplicite e aperte nei
confronti dell’attività concorrente.
In senso conforme si era già pronunciata anche Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 199862, dove i giudici avevano affermato
che: «La fraudolenta aggiudicazione di una gara d’appalto a favore di un’impresa contigua ad un’associazione criminosa,
resa possibile in virtù del clima di intimidazione creato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso, integra il reato
previsto dall’art. 513 bis c.p. [...] il quale mira a reprimere con la sanzione penale tutti quei comportamenti che, attraverso
l’uso strumentale della violenza o della minaccia, incidano su quella fondamentale legge di mercato che vuole la
concorrenza non solo libera ma anche lecitamente attuata».
Secondo questa visione63, palesemente tendente ad autonomizzare la nozione penalistica di atti di
concorrenti dal sostrato della disciplina civilistica, il nucleo essenziale del reato andrebbe dunque
individuato negli atti violenti o minacciosi che, semplicemente in virtù di tali caratteristiche,
dovrebbero qualificarsi come “di concorrenza illecita” (anche a prescindere dalla loro riconducibilità
alle previsioni dell’art. 2598 c.c.). Il momento oggettivo del fatto si esaurirebbe così nella
realizzazione di comportamenti, caratterizzati dalla minaccia o di violenza, idonei, solo in funzione
di queste specifiche modalità, a presentarsi come concorrenziali rispetto all’attività economica degli
altri consociati operanti nel settore.
Nell’ambito di tale corrente interpretativa vi è poi chi, per restituire valore al riferimento normativo
agli “atti di concorrenza”, li fa assurgere ad oggetto di un supposto dolo specifico dell’agente64. Ossia,
60 Ibidem. 61 Sul punto si veda E. D’IPPOLITO, op. cit., pp. 3820 ss. 62 Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 1998, in C.E.D. Cass., 209924. 63 Sul punto si veda, oltre alle sentenze già richiamate, anche le seguenti sentenze: Cass. pen., sez. III, 24 marzo 1995, in C.E.D. Cass., 201578 e Cass. pen., Sez. II, 13 aprile 2005, in Riv. Pen., 2006, pag. 353 ss.. 64 V. D. PULITANÒ, op. cit., 259.
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la formula «chiunque [...] compie atti di concorrenza» andrebbe letta come «chiunque compie atti
diretti a scoraggiare la concorrenza» ed il reato rientrerebbe tra quelli a consumazione anticipata, non
essendo necessario, per la sua integrazione, che la limitazione della concorrenza si verifichi
effettivamente come risultato del comportamento violento o minaccioso. È chiaro che la proposta di
rileggere in questi termini la fattispecie consentirebbe di risolvere la principale contraddizione tra
lettera della norma e motivazione di politica criminale che l’ha prodotta. Sopra si è infatti detto di
come la fattispecie avrebbe inteso colpire, ad esempio, l’esplosione di ordigni collocati nell’altrui
azienda per dissuadere l’imprenditore dall’affacciarsi sul mercato (per es. presentarsi a gare
d’appalto). Questo esempio finisce però per non rientrare nel modello tipico, per la ragione che il
comportamento se è certo violento non è anche un «atto di concorrenza».
Possiamo dunque notare come l’interpretazione c.d. estensiva faccia perno sulla ragione che ha
indotto il legislatore alla creazione della norma, e cioè la repressione delle dinamiche mafiose il cui
modus operandi per eccellenza consiste nella creazione di un clima di paura e di intimidazione,
seppure tacita.
D’altra parte questo tipo di interpretazione, che trasforma un requisito che attiene alla tipologia degli
atti in un fine (ossia la neutralizzazione della concorrenza), comporta una vera e propria
manipolazione del dato normativo che conduce ad una grave violazione dei principi di legalità e
tassatività65.
In particolare, piegare la norma nella sua applicazione ad uno scopo in totale spregio dei limiti interni
di tipicità conduce a presupporre l’esistenza di fini o scopi superiori rispetto alle stesse istanze di
libertà e alle certezze garantite dal principio di legalità. Ma ciò, come ha fatto notare un
commentatore, «comporta un allontanamento da quel diritto penale moderno, che è diritto penale
della libertà, e quindi diritto penale del fatto, dove per fatto s’intende il fatto tipico, il Tatbestand-
pendant del principio di frammentarietà -, così importante non solo perché cardine della legalità
formale, ma anche, in quanto, presupposto necessario della colpevolezza personale e della teoria dello
scopo della pena»66.
4.2.3. Gli atti di concorrenza alla luce delle fonti di matrice comunitaria
Una lettura in qualche misura estensiva dei requisiti della fattispecie di cui all’art. 513-bis c.p ci è
data dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 3868 del 201567. Questo arresto
della Suprema Corte, offrendo una diffusa argomentazione anche alla luce del quadro normativo, in
65 Ivi, pag. 637. 66 D’IPPOLITO, op. cit., 1325. 67 V. Cass. Pen., sez. III, 10 dicembre 2015, n. 3868 in Cass. Pen., fasc.11, 2016, pag. 4119.
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tema di concorrenza, risultante anche dalle fonti di matrice comunitaria, riflette un’interpretazione
estensiva dell’art. 513-bis c.p. concepita in modo diverso dalle sentenze appena sopra esaminate.
Il ricorrente, socio di una società attiva nel campo dei gas tecnici industriali, la Sicilcryo srl, era stato condannato all’esito
dei due gradi di giudizio, perché attraverso minacce (l’imputato aveva incontrato la persona offesa presso un’area di
servizio, proferendo minacce gravi del tipo «stai scherzando con il fuoco») aveva imposto alla vittima (che in precedenza
era stata dipendente della Sicilcryo srl e che all’epoca dei fatti invece era addetta alle vendite di una diversa società, la
Eurocryo srl), di non avere contatti con i propri clienti, così scoraggiando l’attività di concorrenza ed il normale
svolgimento delle specifiche attività produttive nel campo dei gas tecnici industriali.
Constatata la presenza di una condotta minacciosa, la Corte di Cassazione era in particolare chiamata a decidere se il
comportamento dell’imputato rientrasse nei confini del 513-bis c.p.. La difesa poneva la questione della configurabilità
degli atti di concorrenza integranti la condotta materiale del reato, adducendo che il delitto in questione punisce soltanto
le condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno di dipendenti, il rifiuto di contrattare)
realizzate con violenza o minaccia, ma non le condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare o coartare l’altrui libera
concorrenza (ferma restando la riconducibilità di tale condotte ad altre fattispecie di reato).
Qui il ragionamento seguito dai giudici muove dalla constatazione dell’assenza di una definizione
penalistica di “atti di concorrenza”, definizione che, sottolineano i giudici, è però comunque
ricavabile dai testi normativi, e nel caso specifico dall’articolo 2598 c.c.
Tale articolo, mentre ai primi due commi prevede e tipizza casi di concorrenza sleale, al terzo comma
presenta una disposizione di chiusura affermando che è esercitata concorrenza sleale ogni qualvolta
un individuo «si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della
correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda»68.
La stessa Corte spiega come tale articolo vada inteso ai sensi della normativa europea in materia di
mercato e concorrenza69, rintracciabile sia all’art. 16 della Carta EDU70 sia agli artt. 101 ss. del
T.F.U.E (in particolar modo all’art. 12071). Nella normativa europea la tendenza sarebbe infatti di
ricomprendere nel concetto di atto contrario alla concorrenza qualsiasi comportamento o turbativa
che possa ledere il normale svolgimento dell’attività d’impresa. La Corte allora dichiara di volersi
allineare a questa visione, sottolineando che la nozione civilistica di atto di concorrenza ai fini
dell’integrazione della condotta materiale del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia di
68 V. testo art. 2598 c.c. 69 Sul punto si veda B. ROSSI, Osservazioni a Cass. Pen., 10 dicembre 2015, sez. III, n. 3868, in Cass. Pen., fasc.11, 2016, pag. 4119. 70 Art. 16 della Carta EDU: « è riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali. » 71 L’art. 120 TFUE recita infatti: «Gli Stati membri attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell'Unione definiti all'articolo 3 del trattato sull'Unione europea e nel contesto degli indirizzi di massima di cui all'articolo 121, paragrafo 2. Gli Stati membri e l'Unione agiscono nel rispetto dei principi di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un'efficace allocazione delle risorse, conformemente ai principi di cui all'articolo 119».
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cui all’art. 513-bis c.p. deve necessariamente ricomprendere tutte le ipotesi ivi previste, dunque sia le
condotte tipicizzate nei numeri 1) e 2), sia quella di chiusura dell’art. 2598 cod. civ., n. 3).
In definitiva la Corte arriva ad affermare il principio secondo cui «nella nozione di atti contrari alla
correttezza professionale ai sensi dell’art. 2598 c.c., n. 3 devono farsi rientrare non solo quegli atti
che direttamente sono tesi a distruggere l’attività del concorrente, ma anche quegli atti che sono diretti
ad evitare che possa essere esercitato un atto di concorrenza lecita, come quello della ricerca di
acquisizione di nuove fette di mercato. Dunque devono ritenersi ricompresi nella condotta materiale
del reato di cui all’art. 513-bis c.p. anche gli atti impeditivi dello svolgimento dell’altrui libera
concorrenza».
Conclusivamente, secondo questo orientamento72, con la norma in esame non si è voluto reprimere
forme di concorrenza sleale già previste come illecite dal codice civile e in quella sede tutelate, ma
tutte le forme di concorrenza tese ad impedire che tramite comportamenti violenti o intimidatori siano
eliminati gli stessi presupposti della concorrenza al fine di acquisire illegittimamente posizioni di
preminenza o di dominio in un settore economico.
5. I confini “esterni” del delitto di illecita concorrenza
Appurato che, in una lettura rispettosa dei principi di legalità e di tassatività, il reato di cui all’art.
513-bis c.p. debba essere inteso in senso restrittivo, può essere interessante vedere quali siano i
rapporti di questa norma con fattispecie limitrofe per valutare, allo stesso tempo, quali norme si
applicano nel caso in gli atti di concorrenza vengano a mancare o siano soltanto il fine della condotta
violenta o minacciosa.
In particolare si considerino le percosse (art. 581 c.p.), la violenza privata (art. 610 c.p.), la minaccia
(art. 612 c.p.), il danneggiamento (art. 635 c.p.), l’incendio (art. 423 c.p.), il danneggiamento seguito
da incendio (art. 424 c.p.), tutte ipotesi attraverso le quali gli atti di concorrenza possono assumere
carattere violento o minaccioso e quindi integrare anche il reato d’illecita concorrenza. È chiaro che
rispetto a questi reati, il delitto d’illecita concorrenza per essere integrato ha bisogno di un quid pluris,
ossia l’atto di concorrenza: in questi casi, per il principio di specialità (art. 15 c.p.), la norma generale
(ad esempio l’incendio) dovrebbe considerarsi assorbita dalla norma speciale73.
In ogni caso, qualora questo quid pluris venisse a mancare, il fatto resterebbe penalmente rilevante ai
sensi della norma generale.
72 Così anche Cass. pen., Dez. II, 26 marzo 2015, n. 15781, in CED Cass. pen., Rv 263529. 73 In proposito si deve però segnalare che la giurisprudenza, riconoscendo la natura di reato complesso del 513-bis, in passato ha ritenuto che sussistesse il concorso formale eterogeneo tra l’illecita concorrenza con violenza o minaccia e il danneggiamento seguito da incendio. Cfr. Cass. pen., sez. VI, 9 novembre 1989, in Cass. pen., 1990, p. 609.
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Qualcuno74, seguendo questo ragionamento, ha peraltro fatto notare che, essendo gli atti violenti posti in essere per
scoraggiare la concorrenza ad ogni modo punibili, anche la necessità pratica di ricorrere ad interpretazioni estensive,
gravemente lesive dei principi fondamentali dell’ordinamento, appare ridimensionata.
La questione appare invece più complessa quando il reato in esame si trova in rapporto di specialità
bilaterale o reciproca con altri reati, come accade ad esempio nel caso dell’estorsione (art. 629 c.p.)
e dell’associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.).
5.1. Il concorso tra l’art. 513 bis c.p. e l’art. 629 c.p.
Ad una prima lettura le fattispecie di concorrenza con violenza e minaccia e di estorsione potrebbero
sembrare simili, in quanto le modalità realizzative sono pressoché le medesime: in entrambe le
fattispecie la condotta deve infatti essere violenta o minacciosa. Ciononostante i due reati presentano
degli elementi che tendono a differenziarli.
La prima differenziazione, che può dirsi sostanziale, consiste nel bene giuridico tutelato, poiché, come
suggerisce anche la loro ubicazione nel codice, l’art. 513-bis ha come obiettivo la tutela dell’ordine
economico generale75, e quindi del normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti,
mentre il reato di estorsione tende a salvaguardare il patrimonio dei singoli76.
Le due norme presentano poi elementi specializzanti che conducono ad individuare un rapporto di
specialità bilaterale o reciproca: mentre l’art. 513-bis c.p. presenta infatti l’elemento degli atti di
concorrenza, l’art. 629 c.p. richiede la presenza di un ingiusto profitto con altrui danno, oltre
all’elemento dell’effettivo costringimento di taluno a fare od omettere qualcosa.
I reati di cui agli artt. 513-bis e 629 c.p. appaiono perciò caratterizzati da diverse oggettività giuridiche
e da diversi caratteri funzionali. Di conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ammette
pacificamente il concorso tra le due fattispecie. Quindi, nel caso in cui siano realizzati gli elementi
costitutivi di ambedue le norme, si dovrà configurare il concorso formale tra i due delitti, non
ricorrendo l’ipotesi del concorso apparente di norme. In ogni caso, quando è esclusa la configurabilità
dell’art. 513-bis c.p., si ravviserà il delitto di estorsione nelle sue due possibili forme, consumata o
tentata77.
Il reato di cui all’art. 513-bis c.p. potrà dirsi integrato solamente se l’azione violenta si sostanzia in atti di concorrenza,
cioè in azioni che tendono a sovvertire il normale svolgimento delle attività imprenditoriali attraverso comportamenti
violenti che colpiscono direttamente il funzionamento dell’impresa; quando l’azione violenta si sostanzia in una
74 Così D’IPPOLITO, op. cit., 3826. 75 B. ROSSI, op. cit., pag. 4119. 76 Sul punto si veda A. MARCHINI, op. cit., pag. 638. 77 Si veda Cass.Pen., sez. II, 27 maggio 2014, n. 29009, in Cass. Pen., fasc. 2, 2015, pag. 642.
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coartazione fisica e psichica dell’imprenditore, senza tradursi però in una manipolazione violenta e diretta dei meccanismi
di funzionamento dell’attività economica concorrente, potrà dirsi consumato solo il reato di cui all’art. 629 c.p.78.
La posizione della giurisprudenza di legittimità in merito ai caratteri differenziali fra il 513-bis c.p. e il 629 c.p. emerge
chiaramente anche nella sentenza già citata della Corte di Cassazione n. 7923 del 200879. Ricordiamo che nel caso di
specie la Corte aveva ritenuto che l’imputato non avesse condizionato la libertà di intervento e di iniziativa sul mercato
del soggetto passivo facendo ricorso ad atti concorrenziali non consentiti perché vessatori, al contrario avendo costretto
la vittima a sospendere il contratto suddetto attraverso semplici atti di minaccia. La Corte concludeva quindi che «la
condotta in questione, non risolvendosi in atti di concorrenza vessatori, seppur volta teleologicamente a rimuovere un
ostacolo alla propria attività economica, non è sussumibile nella previsione normativa di cui all’art. 513-bis c.p., e non
rientra nel novero dei reati contro l’ordine economico, bensì in quello dei reati contro il patrimonio essendo la minaccia
realizzata dall’imputato finalizzata, siccome correttamente rilevato dai giudici di merito di primo e secondo grado, a
costringere il soggetto passivo a risolvere il contratto con la società predetta, e quindi a compiere un determinato atto
pregiudizievole procurando a sé un ingiusto profitto».
5.2. Il concorso tra l’art. 513-bis c.p. e l’art. 416-bis c.p.
Passando all’analisi del rapporto tra l’art. 416-bis c.p. e l’art. 513-bis c.p. si deve innanzitutto ribadire
che le due fattispecie di reato sono accomunate dalla medesima ratio ispiratrice, essendo entrambe
frutto della legge 13 settembre 1982 n. 64680.
Le due norme condividono in particolare il riferimento ad atti intimidatori (utilizzo di violenza e
minaccia), pur distinguendosi per gli ulteriori elementi costitutivi di entrambe (atti di concorrenza per
il 513-bis c.p., associazione formata da tre o più persone per il 416-bis c.p.).
La dottrina, per capire se vi è possibilità di concorso tra i due reati, propone di partire dai contenuti
della fattispecie associativa81. Se quest’ultima viene intesa come reato meramente associativo (c.d.
“reato associativo puro”), che si perfeziona sin dal momento della costituzione dell’organizzazione
mafiosa, anche se l’effetto intimidatorio non viene prodotto, sarà sempre configurato un concorso
materiale tra i due reati.
Se invece l’associazione mafiosa viene intesa, come è preferibile, come un’associazione che delinque
tramite la commissione di violenza e minaccia (“reato associativo a struttura mista”), dove il metodo
intimidatorio deve necessariamente estrinsecarsi, allora potranno aversi casi di interferenza fra i due
articoli, e, quindi, potrà configurarsi un concorso formale tra i reati82.
78 Cass. Pen., sez. II, 8 novembre 2016, n. 53139, in Banca Dati DeJure. 79 Cass. pen. Sez. II, 20 febbraio 2008, n. 7923, in Giur. It, 2008, 10 ss. 80 Si veda E. D’IPPOLITO, op. cit. pag. 3820 ss. 81 Ibidem. 82 Questo ragionamento è sostenuto da molteplici arresti della Suprema Corte. Si veda ad esempio Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 2014, n. 6055, in https://www.iusexplorer.it., dove la Corte afferma che: «Benchè in ultima analisi il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia miri a reprimere la concorrenza illecita che sì manifesti in forme di
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A noi però sembra chiaro che il problema dell’interferenza tra 416-bis c.p. e 513-bis c.p. dipenda in
larga parte dall’interpretazione del concetto di “atti di concorrenza” in relazione ai requisiti della
“violenza e della minaccia”. Mentre in un’ottica estensiva dell’art. 513-bis c.p. i due reati tenderanno
a coincidere (cosicché il reato di concorrenza illecita resterà “assorbito” nel 416-bis c.p.), in un’ottica
restrittiva il reato illecita concorrenza con violenza e minaccia, contemplando un elemento
specializzante ulteriore (l’esercizio di atti di concorrenza rilevanti ai sensi dell’art. 2598 c.c.) non
potrà che concorrere, qualora siano integrati gli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie, con
quello di associazione per delinquere di stampo mafioso. Arriviamo quindi al risultato neppure tanto
paradossale che in presenza di un’associazione di stampo mafioso l’interpretazione restrittiva è quella
che finisce per offrire maggiore tutela.
6. Considerazioni conclusive
Nel corso di questa trattazione abbiamo tentato di mettere in luce il contrasto tra intenzione del
legislatore (colpire l’imprenditoria mafiosa o che agisce con metodo mafioso), dettato normativo (che
fa espresso riferimento ad “atti di concorrenza” che poco hanno a che vedere con il ricorso alla forza
tipico dell’intimidazione mafiosa) e interpretazione giurisprudenziale, che, spiazzata dalla
contradditorietà del dato normativo e malgrado le sue “buone intenzioni”, ha raggiunto interpretazioni
per niente in linea con i principi di legalità, tassatività e divieto di analogia in malam partem.
Ricordiamo infatti che, in assenza di una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione, sono fatti
rientrare nel concetto di “atti concorrenziali” anche atti non tipicamente concorrenziali (purché la
concorrenza sia il fine perseguito dall’agente) o atti considerati “concorrenziali” in virtù di
interpretazioni estensive adottate alla luce della normativa europea.
Il filtro selettivo delle condotte (la presenza di atti di concorrenza) che campeggia al centro del dato
legislativo, e che segna la separatezza tra il volto reale dell’art. 513-bis c.p. e il contesto
fenomenologico cui la norma in origine si rivolgeva, non può essere ignorato. Cosicché, per come è
uscita dalla penna del legislatore, la lettera dell’art. 513-bis c.p. ci costringe a guardare solo a quei
comportamenti che appartengono alla fenomenologia, normativamente determinata, degli atti tipici
della concorrenza: sfuggono perciò dall’ambito applicativo della norma i casi di diretta aggressione
ai beni dell’imprenditore concorrente e, a maggior ragione, alla sua persona, rientrandovi solo
comportamenti tipicamente competitivi che si prestano ad essere realizzati con mezzi violenti
intimidazione tipiche della criminalità organizzata (laddove questa si prefigge il controllo delle attività commerciali e produttive dell'area territoriale di riferimento), le due fattispecie - a prescindere dal carattere episodico della prima e da quello permanente della seconda - non sono legate da specifico rapporto di continenza o di specialità».
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(boicottaggio, storno di dipendenti, rifiuto di contrarre). È tuttavia chiaro che la norma, a causa
dell’infelice trasposizione letterale, lungi dal rappresentare un presidio specifico contro
l’imprenditorialità mafiosa e violenta, neppure apporta un effettivo contributo al complessivo assetto
della tutela penale della concorrenza83. Come ha fatto notare il Professor Alberto Alessandri, la
disciplina della concorrenza, se vuole essere tale, deve «essere disciplina della disponibilità e dell’uso
dei normali fattori produttivi, non di condotte che disgregano il naturale disgregarsi delle relazioni
interpersonali, ancor prima che concorrenziali»84.
Per questa ragione lo stesso Autore ha sottolineato come un intervento penalistico in materia di
concorrenza necessiterà, per il futuro, un meditato impegno sul terreno civilistico: il legislatore
penale, in specie quando interviene nella materia economica, necessita infatti di un preciso quadro di
riferimento sui cui valori modellare selettivamente la griglia degli sbarramenti penali85.
In attesa di questi futuri sviluppi in materia di concorrenza, per ciò che concerne l’art. 513-bis c.p.
non possiamo che auspicare, in una prospettiva de jure condendo, una modifica del delitto in chiave
teleologica (ossia trasformando gli atti di concorrenza da requisito della condotta a mira teleologica
dell’agente): infatti, stando all’attuale tipicità, e dovendo considerare il nucleo di disvalore della
condotta incentrato sull’utilizzo di metodi violenti o minaccia, questa appare la soluzione più congrua
al fine di riavvicinare il reato alla realtà criminale che in origine si proponeva di punire86.
83 Ibidem. 84 A. ALESSANDRI, op. cit., pag. 412. 85 Ibidem. 86 D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3827.
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