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EFFICACIA DELLA LEGGE NEL TEMPO Ogni norma giuridica ha una “nascita” e una “morte”, atteso che la sua durata non è illimitata nel tempo, ma conosce un momento iniziale ed uno finale per la sua operatività nel nostro ordinamento giuridico. 1.- Entrata in vigore della legge Affinché una norma giuridica possa essere applicata, è necessario non solo che essa venga approvata da parte delle due Camere e successivamente promulgata dal Presidente della Repubblica, ma anche che essa possa essere conosciuta dai cittadini, ai quali è diretta. A questo fine, tutte le leggi e i regolamenti devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Per dar tempo a tutti i cittadini di prenderne conoscenza è stabilito che le leggi e i regolamenti non entrino in vigore (non possano cioè essere applicati) se non dal quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione: questo periodo di tempo (detto vacatio legis) può essere abbreviato dalla stessa legge, o, al contrario, può essere allungato nel caso in cui la complessità delle disposizioni contenute nella nuova legge sia tale da richiedere un periodo di tempo maggiore per consentire a tutti di prenderne adeguata conoscenza.

Diritto privato

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EFFICACIA DELLA LEGGE NEL TEMPO

Ogni norma giuridica ha una “nascita” e una “morte”, atteso che la sua durata

non è illimitata nel tempo, ma conosce un momento iniziale ed uno finale per la

sua operatività nel nostro ordinamento giuridico.

1.- Entrata in vigore della legge

Affinché una norma giuridica possa essere applicata, è necessario non solo che

essa venga approvata da parte delle due Camere e successivamente promulgata

dal Presidente della Repubblica, ma anche che essa possa essere conosciuta dai

cittadini, ai quali è diretta. A questo fine, tutte le leggi e i regolamenti devono

essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.

Per dar tempo a tutti i cittadini di prenderne conoscenza è stabilito che le leggi e i

regolamenti non entrino in vigore (non possano cioè essere applicati) se non dal

quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione: questo periodo di

tempo (detto vacatio legis) può essere abbreviato dalla stessa legge, o, al

contrario, può essere allungato nel caso in cui la complessità delle disposizioni

contenute nella nuova legge sia tale da richiedere un periodo di tempo maggiore

per consentire a tutti di prenderne adeguata conoscenza.

Allo scadere di detto termine, le norme contenute nelle leggi (o nei regolamenti)

operano per chiunque in quanto si presume in astratto la loro conoscenza, mentre

non rileva che in concreto qualcuno non l'avesse conosciuta (ignoranza legis non

excusat).

In altri termini, trascorso il periodo di vacatio legis, la legge si applica anche a

chi non la conosce in modo effettivo, posto che l'ordinamento non può

consentire che i privati si sottraggano all'osservanza della legge, adducendo quale

motivazione la loro ignoranza.

Tuttavia, questo principio (cioè la non rilevanza della colpevolezza

dell’ignoranza legis) è stato recentemente ridimensionato dalla Corte

Costituzionale che, con la sentenza n° 364/1988, ha riconosciuto che l'ignoranza

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della legge è scusabile nel solo caso in cui l'errore di un soggetto sull'esistenza o

sul significato di una norma sia stato inevitabile.

2.- Abrogazione della legge

Come detto, le leggi vigenti in un determinato ordinamento hanno efficacia

temporale limitata. Una delle cause che possono privare di efficacia una legge - o

di altro atto normativo equiparato - è la c.d. "abrogazione": attraverso

l'abrogazione una legge successiva sostituisce, totalmente (abrogazione totale) o,

talvolta, solo parzialmente (abrogazione parziale) la legge precedente,

sancendone, in tal modo, l'inefficacia - totale o parziale - per l'avvenire.

L'abrogazione di una norma può essere espressa (quando la nuova legge dichiari

esplicitamente che una vecchia legge è abrogata) o tacita (il che accade sia nel

caso in cui una legge successiva contenga norme incompatibili con quelle della

legge precedente, in quanto sarebbe impossibile applicare contestualmente le due

leggi, sia quando venga emanata una nuova legge che regoli tutta la materia già

disciplinata dalla legge precedente, che in tal modo rimane assorbita da quella

nuova in modo integrale, non essendo infatti ammessa un'abrogazione tacita di

questo tipo solo parziale).

L’abrogazione parziale non va confusa e va tenuta distinta dalla deroga. Si ha

deroga quando una nuova norma sostituisce, limitatamente a singoli e specifici

casi, la disciplina prevista dalla norma precedente, che continua ad essere

applicabile in tutti gli altri casi; l'abrogazione parziale fa venire meno

l'operatività di una norma per ogni fattispecie, mentre la deroga fa venire meno

l'efficacia di certe norme solo per determinate fattispecie.

Si è detto che l'abrogazione di una norma può essere espressa oppure tacita e che

si ha abrogazione espressa qualora entri in vigore una seconda legge che dichiari

espressamente di abrogare le norme previgenti nella stessa materia: tuttavia, non

è questa l'unica ipotesi di abrogazione espressa di una norma giuridica, essendo

altresì previsto nel nostro ordinamento lo strumento del referendum popolare

abrogativo e della dichiarazione di incostituzionalità di una legge.

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Nel primo caso (art. 75 Cost.), quando ne facciano richiesta almeno

cinquecentomila elettori o cinque Consigli Regionali, la proposta di abrogazione

si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi

diritto purché la proposta di abrogazione consegua la maggioranza dei voti

espressi.

Nel secondo caso la Corte Costituzionale, ritenendo che la norma impugnata sia

contraria ai principi fondamentali tutelati dalla Costituzione, con sentenza

dichiara l'incostituzionalità della norma stessa, privandola di ogni efficacia ed

impedendo che essa possa essere nuovamente applicata in futuro.

Ciò che differenzia la pronuncia di costituzionalità dagli altri casi di abrogazione

espressa (parziale o totale) è l'ambito di efficacia della medesima: infatti, mentre

l'abrogazione espressa per effetto di una nuova legge elimina la norma

dall'ordinamento con efficacia ex nunc - cioè, solo per l'avvenire -, l'abrogazione

a seguito di sentenza della Corte Costituzionale opera solamente ex tunc, cioè

con effetto retroattivo, in modo che la norma giudicata incostituzionale è come se

non fosse mai esistita, ad eccezione dei casi già decisi con sentenza passata in

giudicato. La sentenza di incostituzionalità infatti opera con riferimento ad un

particolare caso concreto, ossia con riferimento alla lite giudiziaria a seguito

dell’instaurazione della quale essa ha tratto origine.

La legge nuova che abroga la legge precedente, che a sua volta ne aveva abrogata

un'altra, non fa rivivere quest'ultima a meno che le venga espressamente conferita

valenza riparatoria.

3.- Irretroattività legge

Lo scopo di ogni norma giuridica è di stabilire quali conseguenze giuridiche

debbano discendere da una certa fattispecie descritta in astratto nella norma

stessa.

Sicché quando, nella realtà concreta si verifica un fatto corrispondente alla

fattispecie astrattamente prevista dalla legge, allora, ad esso si applicheranno le

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stesse conseguenze giuridiche collegate dalla legge alla corrispondente fattispecie

astratta.

Per tale motivo, il nostro ordinamento conosce il generale principio di

irretroattività delle norme giuridiche. Principio, che si ancora all’esigenza di

chiunque di poter conoscere in anticipo quali conseguenze giuridiche siano

connesse dall’ordinamento ad un certo comportamento.

Secondo quanto disposto dall'art. 11 disp. prel., infatti, una legge si applica

tendenzialmente solo ai fatti che si verificano successivamente alla sua entrata in

vigore. Tale regola tuttavia è inderogabile solo per il diritto penale (in quanto

l'art. 2 c.p. è elevato a rango Costituzionale dall'art. 25 Cost.) ma non per altre

leggi che, in via eccezionale, possono essere anche retroattive (per esempio, sono

retroattive le leggi che forniscono un'interpretazione autentica – ossia

indiscutibile e definitiva - di una legge entrata in vigore precedentemente e sul

cui contenuto vi era incertezza di lettura).

L'applicazione del principio dell'irretroattività non è sempre agevole, quando si

tratti di fattispecie verificatesi anteriormente all'entrata in vigore della nuova

legge, ma i cui effetti perdurano nel tempo.

In taluni casi è il legislatore a risolvere, direttamente, caso per caso, il problema

della successione delle leggi nel tempo, stabilendo con apposite disposizioni

transitorie quale dovrà essere la disciplina applicabile ai rapporti sorti nel

periodo di tempo intermedio.

INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE

1.- In generale

Interpretare un testo normativo non significa solo accertare il suo contenuto

letterale ma restituire il suo significato: ciò perché ogni norma ha in sé diversi

significati e si presta ad una lettura polisemantica, cosicché è necessario accertare

quale tra letture possibili sia da ritenersi la più idonea al caso concreto.

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L'interpretazione così può definirsi come l'attività intellettuale diretta a ricercare

il significato proprio della norma giuridica.

Nei casi in cui il dato letterale non presenti elementi di incertezza,

l'interpretazione sarà particolarmente semplice ed univoca, per lo meno dal punto

di vista letterale. Ciò nonostante, per risalire ad una corretta interpretazione della

norma giuridica non è in ogni caso sufficiente fermarsi al dato letterale, ma è

necessario ricercare il significato della legge più consono al caso singolo

utilizzando ulteriori e differenti criteri interpretativi.

La necessità di ricorrere a criteri interpretativi ulteriori rispetto al dato letterale è

dovuta ad una serie di circostanze, prima fra tutte il fatto che non tutti i vocaboli

espressi nelle norme – specie per le espressioni generali ed “elastiche” (per es. il

concetto di "normale tollerabilità" utilizzato dal legislatore in tema di immissioni

nel fondo del vicino ex art. 844 c.c.) - vengono chiariti nel loro esatto significato

dalla norma stessa o dalla legge: in tale contesto occorre, quindi, ricostruire il

significato della norma appellandosi a dati extratestuali.

E' lo stesso legislatore, peraltro, a consacrare la legittimità di una simile

operazione interpretativa (art. 12 disp. Prel. Cod. Civ.), stabilendo che

l’interprete, dopo aver attribuito alle parole il significato loro proprio, debba

risalire alla c.d. “intenzione del legislatore” (di cui diremo tra breve). Senza tacer

del fatto che, ogni norma contiene disposizioni generali (riferite cioè non a

singoli e specifici soggetti ma alla collettività in generale) e astratte (dettate per

una serie indeterminata di casi e non per singoli casi concreti già presenti nella

realtà), con la conseguenza che l’interprete deve decidere in astratto se una certa

norma sia o meno applicabile al caso concreto e pertanto quale sia il campo di

applicazione della norma stessa: il risultato di una simile operazione può anche

portare ad una interpretazione estensiva o, al contrario, restrittiva della medesima

a seconda che la norma venga considerata suscettibile di un’applicazione ad una

gamma di fattispecie più ampia o più ristretta rispetto a quella ricavabile, in

astratto, dal contenuto letterale della norma.

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L'attività dell'interprete è altresì rilevante al fine di risolvere i conflitti esistenti

fra più leggi, attraverso l'applicazione delle norme dettate in tema di gerarchia

delle fonti: tale operazione, tuttavia, non è semplice considerato che spesso è

complicato stabilire quale sia la legge superiore, piuttosto che quella anteriore o

quella speciale: anche sotto questo profilo, si impone così la necessità di ricorrere

a dati extratestuali.

Infine, la necessità di ricorrere a dati extratestuali funzionalmente alla più

corretta interpretazione possibile della norma giuridica, è imposta dall'esigenza di

coordinare le diverse norme del sistema dettate in riferimento ad un medesimo

argomento (in questi casi si parla di interpretazione sistematica).

Alla luce di quanto sopra riportato, si desume la regola generale che deve guidare

l’interpretazione delle norme giuridiche; regola che può essere sintetizzata nel

brocardo in claris non fit interpretatio, ossia nel principio che l'interprete deve, in

prima battuta, attenersi il più possibile al dato letterale - c.d. interpretazione

dichiarativa – solo finché però tale operazione consenta di attribuire il significato

proprio alla norma in oggetto, dovendo egli ricorrere, diversamente, a criteri

interpretativi extratestuali.

Si può in conclusione forse affermare che il documento è muto senza l'interprete,

considerato che il suo significato è il risultato dell'esegesi e non il suo

presupposto.

2.- Classificazione

A seconda del soggetto che interpreta la norma, si può distinguere una

interpretazione autentica, una interpretazione giurisprudenziale ed una

interpretazione dottrinale.

L'interpretazione autentica è quella compiuta dal legislatore stesso, per mezzo

dell'emanazione di una norma interpretativa che ha efficacia retroattiva,

vincolando essa tutti gli interpreti ad applicare la norma secondo il significato

chiarito dalla norma interpretativa anche ai rapporti sorti prima dell'emanazione

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della seconda, lasciando, pur tuttavia, impregiudicato il significato già formatosi

su quella legge.

Il carattere interpretativo può essere desunto implicitamente dal contenuto della

legge stessa, non rilevando esclusivamente il fatto che il legislatore abbia

conferito o meno alla legge la qualifica di "legge interpretativa".

L'interpretazione giurisprudenziale è quella che è data dai giudici nell'esercizio

delle loro funzioni: è vincolante soltanto per quei soggetti nei cui confronti fu

pronunciata la sentenza (e cioè le parti in causa), mentre non spiega efficacia

vincolante per i giudizi futuri anche se di fatto può influenzarli. Infatti può

accadere, anzi accade di sovente, che i giudici decidano di seguire la stessa

interpretazione della norma che fu fornita in passato da una sentenza già emanata

da altri giudici per una pregressa controversia.

L'interpretazione dottrinale è quella offerta da ogni studioso del diritto: anch’essa

non vincola per legge i giudici, pur potendo avere di fatto soltanto quella

vincolatività che le deriva dalla solidità degli argomenti addotti dall'interprete e

dalla autorevolezza e prestigio di quest’ultimo.

3.- Regole interpretative

Come si è visto l'esegesi della norma non deve fermarsi al significato letterale ma

deve valutare anche la c.d. “intenzione del legislatore”.

Quando si fa riferimento all'intenzione del legislatore non ci si intende riferire ad

una realtà storica, ma si allude ad una personificazione astratta della legge al fine

di individuare lo scopo sotteso da quella stessa legge (e non, quindi, l'intenzione

di un concreto soggetto “in carne ed ossa” in un determinato momento storico).

Per ricostruire l'intenzione del legislatore, può essere utile verificare il dibattito

svoltosi contestualmente ai lavori preparatori di quella legge; tuttavia,

l'intenzione del legislatore più che uno strumento per la interpretazione è il

risultato cui la stessa approda, in quanto ricostruire il significato di una legge

vuol dire innanzitutto ricostruire lo scopo della legge (ossia la sua funzione).

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Così, considerati i limiti di una interpretazione meramente letterale, si ritiene che

al fine di pervenire a risultati maggiormente soddisfacenti, sia necessario

utilizzare altri criteri interpretativi delle norme, e precisamente:

1) criterio logico: consiste nell’interpretare la norma attraverso argomentazioni

successive a contrario (escludendo dal possibile significato della norma ciò che la

norma espressamente non dice: ubi lex voluit, dixit), a simili (estendendo la

portata della norma a fenomeni simili a quelli contemplati espressamente dalla

norma), a fortiori (estendendo la portata della norma a quei fenomeni che,

seppure non espressamente contemplati nella norma stessa, sarebbero a maggior

ragione da ricondurre a quella disciplina), ad absurdum (escludendo quella

interpretazione che porti a risultati applicativi assurdi).

2) criterio storico: consiste nell’interpretare la nuova norma alla luce di tutte le

disposizioni normative precedentemente vigenti nell'ordinamento, al fine di

cogliere quale sia la reale portata che alla disposizione da interpretare deve essere

attribuita.

3) criterio sistematico: consiste nell’interpretare la norma giuridica, ponendola a

confronto con il quadro complessivo delle norme in cui essa va inserita, al fine di

evitare che all'interno del medesimo ordinamento giuridico si creino

incompatibilità, ripetizioni o contraddizioni.

4) criterio sociologico: consiste nell’interpretare la norma tenendo conto del

contesto economico-sociale in cui la medesima dovrà trovare applicazione.

5) criterio equitativo: consiste nell’interpretare la norma in modo da evitare che

si creino contrasti tra il senso attribuito alla norma stessa ed il senso di giustizia

della comunità, sforzandosi di adottare l'interpretazione che maggiormente operi

un equo bilanciamento degli interessi eventualmente in conflitto.

4.- L’analogia

Può accadere che nessuna norma regoli il caso singolo che è stato sottoposto al

giudice, evidenziandosi in tal modo una lacuna dell’ordinamento giuridico: le

circostanze della vita sono infatti tanto varie da non poter essere tutte contenute

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esattamente negli schemi astratti predisposti dal legislatore. Il nostro ordinamento

giuridico, come ogni altro ordinamento giuridico, non può cioè essere in grado di

prevedere per ogni caso concreto dell’esperienza umana, una norma giuridica

capace di regolare ad hoc e in astratto quella fattispecie; ciò perché la produzione

normativa non può essere così capillare e ricca da risolvere ex ante e in astratto

ogni situazione concreta meritevole di considerazione da parte dell’ordinamento

giuridico.

Tuttavia, è anche vero che il giudice non può rifiutarsi di decidere, adducendo

l’inesistenza di una norma dettata ad hoc per quella fattispecie. Infatti se in tali

situazioni il giudice non dovesse pronunciare la propria decisione, si

verificherebbe un caso di denegata giustizia, con il rischio per il magistrato di

essere accusato del reato di omissione di atti d'ufficio.

Al fine di risolvere il problema di un eventuale difetto di disciplina per il caso

concreto, il legislatore ha previsto, all'art. 12 disp. prel. c.c., l'ammissibilità del

ricorso all'analogia: si permette al giudice di applicare la disciplina prevista in

astratto per una certa fattispecie anche a fattispecie simili, sebbene non

espressamente contemplate in detta norma.

Per una corretta applicazione del principio dell'analogia è però necessario che,

oltre alla somiglianza esistente fra il caso espressamente contemplato nella norma

e quello sottoposto in concreto al giudizio del giudice, l'applicazione analogica

della norma sia giustificabile in entrambi i casi, sia cioè uguale la ratio della

norma in uno, come nell'altro caso (c.d. aedem ratio). In tale situazione si parla

di analogia legis.

Tuttavia, l'art. 12 disp. prel. c.c. autorizza anche l'analogia juris, non solo

l'analogia legis: consente, cioè, di ricavare per analogia la regola non scritta non

solo dalle leggi scritte e codificate, ma anche dall'insieme dei principi non scritti

desumibili in modo implicito dall'intero ordinamento.

5.- Limiti all'applicazione dell'analogia.

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L'art. 14 disp. prel. c.c. vieta il ricorso allo strumento dell’analogia per le leggi

penali ("è vietato applicare per analogia norme che istituiscono reati o

sanciscono pene ... "), in osservanza del principio di certezza del diritto: se si

potessero applicare per analogia norme incriminatrici di condotte illecite si

finirebbe per creare nuove figure di reato, privando in tal modo i cittadini della

certezza di quali condotte siano penalmente punibili e quali siano certamente

lecite.

Il medesimo articolo, vieta altresì l'applicazione analogica delle norme "che

fanno eccezione a regole generali": si è ritenuto opportuno stabilire tale divieto

in considerazione del fatto che se la norma ha carattere eccezionale deve ritenersi

giustificata una applicazione limitata ai soli casi eccezionali in essa

espressamente contemplati. Tuttavia, si ammette, a parziale temperamento di tale

divieto, un'interpretazione estensiva delle stesse al fine di ampliare la portata

applicativa delle norme eccezionali, restando in ogni caso ancorati al dato

letterale.

L’interpretazione estensiva si differenzia quindi dal metodo dell’analogia: nel

primo caso si tratta di interpretare una norma partendo dal suo dato letterale per

estenderne l’applicazione a quei casi che, pur non espressamente contemplati

dalla norma, sono ugualmente riconducibili direttamente al suo contenuto. Nel

secondo caso, invece, si applica una norma a delle situazioni concrete non

riconducibili direttamente (in via interpretativa) al suo contenuto, ma pur

suscettibili di essere regolate da quella norma per identità di ratio e similitudine

di fattispecie.

QUESITI

Cosa significa interpretare una legge?

Cosa significa interpretare una norma secondo il significato proprio delle

espressioni utilizzate?

Cosa significa intenzione del legislatore?

Cos'è il principio dell'analogia?

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Cos'è l'analogia legis e cos'è l'analogia juris?

Cos'è l'interpretazione estensiva?

Cos'è il principio di equità?

Cos'è l'interpretazione autentica?

Definire l'abrogazione della legge

Differenza tra abrogazione espressa e abrogazione tacita.

Il principio di irretroattività della legge.

LO STATUS FAMILIAE

Il diritto attribuisce rilevanza anche alla posizione che ogni individuo può

assumere nel nucleo famigliare. Questa posizione può essere di diversi tipi:

1) Parentela: è il vincolo che unisce più persone discendenti da una stessa

persona, detto "stipite": al fine di determinare l'intensità del vincolo occorre

considerare le linee e i gradi.

Quanto alle prime, tale vincolo può essere in linea retta (nel caso in cui un

parente discende direttamente dall'altro ed il vincolo riguarda quei due soggetti.

Per es.: nonno-nipote; padre-figlio) o in linea collaterale (nel caso in cui il

vincolo riguarda due soggetti in cui uno non sia discendente diretto dell'altro, pur

avendo lo stipite comune: per es. due fratelli non discendono l'uno dall'altro, pur

avendo in comune i genitori).

Quanto al diverso grado di parentela, per poterlo correttamente calcolare si deve

computare il numero di persone che si frappongono fra i due parenti presi in

considerazione, sottraendo lo stipite (per es. nonno - nipote = 2). Per il diritto, il

rapporto di parentela è di regola riconosciuto fino al sesto grado.

2) Affinità: è il vincolo che unisce un coniuge ai parenti dell'altro coniuge (per

es. suocera, nuora, cognato): si calcola tenendo conto del grado di parentela che

lega il coniuge all'affine (per es. suocera e nuora = 1 grado). L'affinità dura anche

dopo la morte del coniuge.

3) Coniugio: è il rapporto esistente fra due coniugi.

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LA CESSAZIONE DELLA PERSONA

La perdita della capacità giuridica della persona avviene con la morte.

Sotto molteplici punti di vista assume particolare rilevanza la determinazione del

momento esatto in cui deve considerarsi avvenuto il decesso della persona: si

pensi, ad esempio, alle notevoli conseguenze che derivano da tale evento nella

disciplina dei trapianti: normalmente, in tali casi si ritiene decisiva la morte

encefalica (cerebrale). Può avere altresì rilevanza determinare il momento esatto

del decesso nei casi di sinistri stradali in cui muoiono più soggetti, ma non si sa

chi sia morto per primo (per es. nel caso della morte di due coniugi in un

incidente per stabilire chi ha ereditato i beni dell’altro occorre sapere chi è morto

per primo).

Tale problema è risolto dal complesso delle regole dettate in tema di ripartizione

dell’onere della prova: la legge pone a carico della parte che ha interesse a

dimostrare la sopravvivenza di una persona sull’altra l'onere di provare la

fondatezza delle proprie pretese; nel caso in cui non adempia a tale onere

probatorio, la legge presume che tutte le persone coinvolte siano decedute nello

stesso istante (presunzione di commorienza).

SCOMPARSA, ASSENZA E MORTE PRESUNTA

Talvolta può accadere che per particolari eventi (quali ad esempio, alluvioni,

attentati, guerre, ecc.) non sia possibile stabilire se una persona sia morta

effettivamente, né, a maggior ragione, quale sia stato con precisione il momento

della morte.

In tali casi soccorrono gli istituti previsti dagli artt. 48 e segg. c.c., e, in

particolare:

a) Scomparsa: quando una persona non è più comparsa (per un certo lasso di

tempo non meglio specificato dal legislatore) nel luogo dell'ultimo domicilio o

dell'ultima residenza, il tribunale di tale luogo può nominare un curatore che

rappresenti lo scomparso per il compimento degli atti necessari per la

conservazione del patrimonio dello scomparso.

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b) Assenza: dopo due anni dal giorno a cui risale l'ultima notizia che si ebbe

dello scomparso, i presunti successori di esso possono chiedere che il tribunale

ne dichiari con sentenza l'assenza, producendo l’immissione provvisoria dei

presunti eredi nel possesso dei beni dello scomparso. Detta immissione

provvisoria dei presunti eredi nel possesso dei beni dello scomparso rappresenta

un effetto giuridico diverso dagli effetti discendenti dalla morte, perché ora gli

effetti riguardano solo il piano patrimoniale e non anche quello personale (per es.

la sentenza non scioglie il matrimonio dell’assente). Inoltre, gli effetti

patrimoniali sono limitati: gli immessi nel possesso temporaneo acquistano solo

il potere di rappresentanza processuale dell’assente, il potere di amministrare i

beni dell’assente e di godere dei suoi frutti, ma non acquistano né la titolarità dei

beni né la legittimazione a disporne.

La scomparsa e l'assenza sono due istituti tra loro autonomi, atteso che la legge

non richiede quale presupposto necessario della dichiarazione di assenza, che sia

stata chiesta preventivamente la scomparsa della stessa persona.

c) Morte presunta: decorsi dieci anni dal giorno in cui risale l'ultima notizia

dello scomparso, il tribunale può dichiarare con sentenza la morte presunta di

questo; in casi particolari, in situazioni che accrescono la probabilità di morte del

soggetto (ad esempio in caso di guerra) il termine è inferiore a dieci anni.

La sentenza di dichiarazione di morte presunta produce gli stessi effetti giuridici

che produrrebbe la morte realmente accertata. In particolare, si apre la

successione e perciò i chiamati all'eredità possono accettarla o meno; i diritti

intrasmissibili si estinguono; il matrimonio si scioglie. Gli effetti giuridici

connessi alla dichiarazione di morte presunta sono quindi molto più importanti di

quelli prodotti dalla dichiarazione di assenza, comportando fra l'altro, l'acquisto

della piena titolarità sul patrimonio da parte degli eredi.

Non è impossibile, tuttavia, che il dichiarato morto si ripresenti vivo al proprio

domicilio o residenza: in questo caso gli eredi dovranno restituire ciò che ancora

resti dei beni ereditari (gli stessi beni o il prezzo a suo tempo ricavato dalla

vendita); il vecchio matrimonio tornerà ad avere valore, e sarà nullo il nuovo

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matrimonio eventualmente contratto dall'altro coniuge (ma i figli nati dal

secondo matrimonio conserveranno lo stato di figli legittimi).

Vista la notevole diversità di effetti riconosciuta dall’ordinamento alla

dichiarazione di morte presunta rispetto alla morte effettiva di un soggetto, è

legittimo chiedersi se, nel primo caso, vi sia vera e propria successione ereditaria

o se, piuttosto, vi sia un acquisto della titolarità e della disponibilità del

patrimonio, sottoposto alla condizione risolutiva che il dichiarato assente, e

successivamente morto, ritorni alla propria residenza: a favore della seconda

soluzione si è considerato che gli eredi, a differenza di quanto accade nella vera e

propria successione ereditaria, non sono responsabili ultra vires dei debiti del de

cuius.