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Antonio Mantello DIRITTO PRIVATO ROMANO LEZIONI I

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Antonio Mantello

DIRITTO PRIVATO ROMANO

LEZIONI I

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CAPITOLO PRIMO

IL PROBLEMA DEL DIRITTO ROMANO

1. Noi e il passato

Il passato è un processo in cui anche noi siamo immersi e che si sviluppa in modo

ascendente. Secondo tale visione ottimistica, la nostra è una posizione di supremazia

e il passato è strumentale al presente. Rifiutandola, si concepisce invece il passato

come un processo funzionale al presente solo poiché in esso si possono rintracciare le

cause dei limiti del presente stesso, secondo quindi una rottura tra presente e passato.

La ricostruzione del passato è dunque soggettiva perché ognuno se ne riappropria a

modo suo e tale soggettività rende difficile trovare un metodo per analizzarlo; in

realtà, l’importante non è stabilire il metodo ma essere consapevoli delle nostre

premesse ideologiche per analizzare il passato in modo più coerente.

Tutto ciò può ben capirsi col “Corpus iuris civilis” di Giustiniano, prodotto ultimo

dell’esperienza giuridica antica che per secoli è stato lo strumento per

l’individuazione di norme comportamentali nella nostra area geografica. Esso è

costituito da una raccolta di materiali non riconducibili ad un solo legislatore, né

all’ordine sistematico del nostro codice civile attuale, ma essi avevano all’epoca una

loro valenza vincolante. Oltre le constitutiones imperiali vi erano altri scritti elevati al

loro rango per volere dello stesso imperatore, rappresentante di dio in terra, creatore e

personificazione stessa della legge.

La suddivisione del corpus non risale direttamente a Giustiniano perché la quarta

parte è costituita da materiale risalente sì a Giustiniano, ma la cui raccolta non è

avvenuta in modo non ufficiale. Il corpus è costituito da quattro parti:

- le Institutiones (da “instituere”, insegnare i primi elementi), ovvero un

discorso dell’imperatore per l’avviamento dei giovani allo studio del diritto; in

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esse si individua l’intera opera sia come destinata all’insegnamento, sia come

fonte legislativa;

- i Digesta, ovvero le Pandecte (da “digerire”, mettere insieme in modo

ordinato, e da “παν δέχοµαι”, raccolgo tutto in senso enciclopedico), composti

dai brani necessari per la comprensione dei problemi giuridici, estratti dagli

scritti dei giuristi romani vissuti precedentemente;

- il Codex repetitae praelectionis (codice in seconda edizione), che si distingue

dal Digesto perché riguarda non gli scritti giurisprudenziali ma le

constitutiones imperiali sui singoli temi giuridici e perché la valenza

normativo-precettiva non è stata attribuita a posteriori, ma è intrinseca al

materiale stesso;

- le Novellae Costitutiones, costituite dagli atti normativi emanati

dall’imperatore dopo la pubblicazione delle prime tre parti fino alla sua morte;

per questo tale produzione non fu riunita dallo stesso Giustiniano ma da altre

figure al di fuori della cancelleria imperiale.

Tali materiali causano svariati problemi perché:

- le varie parti sono nate in momenti successivi;

- nelle stesse parti vi sono soluzioni contraddittorie;

- nei Digesta si hanno richiami a costituzioni antiche, senza riportare però le

modifiche subite da esse ad opera delle costituzioni giustinianee;

- le Novelle Constitutiones introducono una disciplina nuova rispetto a quella

delle altre parti ufficiali.

L’ esportazione in Italia avvenne in due momenti:

1. Invio dell’opera perché venisse pubblicata;

2. Richiesta del papa Vigilio, soddisfatta da Giustiniano che ne confermò la

vigenza anche in Italia.

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L’Italia divenne così terra di diritto giustinianeo-bizantino, almeno fino alla

dominazione longobarda, dopo la quale la situazione non fu recuperabile nemmeno

con l’incoronazione di Carlo Magno nell’800.

La sopravvivenza del corpus si ebbe ad opera della Chiesa, con sommari, riassunti e

raccolte e con l’importazione dall’Oriente di nuove raccolte nei territori ancora

bizantini, come la τα βασιλικα, volta al recupero del modello giustinianeo con la

distribuzione in 60 libri del materiale del corpus. La ricomparsa della versione

originale del corpus si ebbe tra XI e XII secolo d.C. in Italia con un processo fatto di

analisi testuali dirette a stabilire regole giuridiche per il presente. Autore del recupero

fu Irnerio , la cui interpretazione del corpus era basata sull’elaborazione delle glosse,

ovvero annotazioni al testo per chiarirne il significato ma anche per effettuare una sua

analisi critica. L’opera dei glossatori fu rivista da Accursio che elaborò la “Magna

glossa”, o semplicemente “Glossa”. Nel tardo medioevo invece si ebbe un altro tipo

di studio del corpus, basato stavolta sul commento; i commentatori approfondirono

l’opera dei glossatori, andando però alla ricerca del significato più profondo e delle

rationes sottostanti al tessuto linguistico. Tale opera risentiva della riscoperta della

logica aristotelica, grazie alla quale si capì che l’interpretazione del diritto doveva

svolgersi dal basso verso l’alto e partire dal dato reale, ossia dalla norma giustinianea.

Il lavoro dei glossatori e poi quello dei commentatori è passato alla storia con il nome

di “mos italicus”, per il luogo di nascita e sviluppo. Ciò avvenne con l’avvento

dell’Umanesimo, nato e sviluppatosi in Italia sotto il profilo letterario, ma

maggiormente in Francia per l’ambito giuridico, tanto da creare lì il cosiddetto “mos

gallicus”, contrapposto a quello italiano. Si frantuma così l’unità della riflessione sul

corpus avutasi nel medioevo e si viene a concepire che esso possa essere letto in

molteplici, differenti modi.

In Italia si avvertì l’esigenza tipicamente umanistica di guardare al segmento storico

greco-romano nella convinzione che lì si potesse trovare la chiave per risolvere i

problemi esistenziali del presente. Così Giustiniano era visto come l’esponente dei

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secoli bui del medioevo e la sua opera come la manifestazione di tale oscurantismo,

tanto che furono condannati gli stessi glossatori e commentatori per non aver

sottolineato la devastazione effettuata dall’imperatore sulle opere giuridiche

precedenti.

In Francia, invece, si hanno due tendenze interne al mos gallicus:

- Studio dell’esperienza romana nella ricerca della distinzione tra il diritto

giustinianeo e quello dell’epoca in cui le opere sono state scritte;

- Riappropriazione del contenuto del corpus senza però il rispetto dei giuristi

medievali verso l’ordine interno all’opera per l’ossequio nei confronti di

giustiniano.

Erano questi due diversi modi per rispondere alle stesse esigenze del presente, ossia

individuare un nuovo diritto per l’area europea ma soprattutto per la Francia.

Tale quindi fu la recezione ufficiale del corpus (1495), distinta da quella già

avvenuta in precedenza per l’opera di glossatori e commentatori. La recezione ebbe

risultati inversamente proporzionali alla riuscita politica dell’impero perché, dopo la

Guerra dei Trent’anni e la successiva Pace di Westfalia del 1648, il nuovo assetto

europeo andò tutto a favore della Francia con il necessario tramonto dell’autorità

tedesca, anche se il mos italicus sopravvisse divenendo addirittura usus modernus,

come se si volesse conservare nei territori dell’ex impero una parvenza di unità

almeno a livello giuridico.

Fra il Seicento e il Settecento si sviluppa il Giusnaturalismo, tra i cui seguaci vi

furono filosofi-giuristi che affrontarono il problema del diritto e dello stesso corpus

iuris insistendo sull’idea della ragione come strumento di conoscenza; il

giusnaturalista cedeva la costruzione di un diritto naturale, basato su un postulato

che possa dare giustificazione a tutti i precetti, ricavabili dallo stesso corpus iuris. È

questa l’ennesima strumentalizzazione del corpus iuris, che comportò tre effetti:

- l’elaborazione del diritto naturale come modello per il diritto positivo;

- la tendenza a vedere il diritto naturale come costruito per l’individuo in sé,

ovvero come la fonte di diritti e doveri dell’uomo in quanto tale;

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- la predilezione per un ordine rigoroso dei precetti.

Il giusnaturalismo però non fu di per sé sufficiente a impedire la creazione dello stato

assoluto, tanto che gli stessi sovrani si servirono di esso, trasferendo i suoi concetti

nella sfera storico-positiva. Ciò si nota in Austria, dove fu pubblicato il “Codice

civile per i territori ereditari tedeschi”: in esso si affermava l’attenuazione delle

distinzioni sociali a favore dell’idea giusnaturalistica dell’uomo in sé e per sé, ma per

una rigorosa applicazione di tali concetti fu necessaria la Rivoluzione francese. Nel

1804 Napoleone pubblica il “Code civil des francais”, nella cui apertura si hanno due

norme fondamentali che esprimono la possibilità di esercitare i propri diritti civili

indipendentemente dal possesso della cittadinanza. Ciò è espressione di qualcosa di

nuovo, proveniente dalla distruzione dell’ordinamento monarchico assoluto

dell’ancien règime, anche se Napoleone non esitò a farsi incoronare imperatore,

giustificando tale atto come l’unico modo per salvare la rivoluzione.

Dopo l’avventura napoleonica e la Restaurazione seguita al Congresso di Vienna del

1815 si ebbe il definitivo abbandono del giusnaturalismo a favore della supremazia

del diritto positivo; ciò avvenne grazie al codice civile, che ebbe origine nella

circostanza della nascita, dal terzo stato, della borghesia, che ha reinterpretato il

giusnaturalismo in base alle esigenze del capitalismo moderno. Così però i ceti

intermedi finirono per creare un ordinamento del tutto a proprio favore.

Il codice civile napoleonico è stato comunque un archetipo, almeno per l’Italia, dove

fu sfruttato per il codice civile del 1865, immediato antecedente di quello del 1942,

tuttora vigente. Altrettanto non avvenne in Germania dove l’idea dell’utilizzo del

modello francese fu bocciata e sostituita da quella di un ulteriore recupero del corpus

iuris come modello base. I risultati della Pandettistica, movimento scaturito da tale

recupero, sfociarono nel codice civile del Reich bismarckiano del 1900. Si chiude

così il periodo delle grandi codificazioni e il corpus venne rispedito nel passato, non

avendo più alcuna influenza sul presente, caratterizzato dalle codificazioni moderne.

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L’analisi del corpus ha il fine di ricostruire sia il diritto presente in esso, sia quello ad

esso precedente a noi pervenuto minimamente per altra via.

Il periodo identificabile come ESPERIENZA GIURIDICA ROMANA è quello che

va dall’VIII secolo a.C. al VI d.C., distinto da quelli successivi perché in essi il

corpus non ha causato il prolungamento di tale esperienza ma è servito come

strumento per l’individuazione di un diritto nuovo.

2. Dal presente al passato

Per esperienza giuridica si intende il complesso di regole che disciplinano le strutture

organizzative, i loro rapporti con le persone e i loro stessi rapporti intersoggettivi.

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CAPITOLO SECONDO

I TEMI

3. Il “burattinaio” e la “marionetta”: un meccanism o ideologico

Ogni cosa passa sotto il principio della subordinazione che determina la

qualificazione giuridica dell’entità subordinata così come voluta da quella

sovraordinata. L’immagine è quella del burattinaio – Stato – e della marionetta –

individuo. Per rendere concreta la metafora si identifica la supremazia dello stato

nell’emanazione di precetti vincolanti chiamati nel loro complesso diritto oggettivo,

distinto in pubblico e privato e, all’interno di quest’ultimo, si ha l’ulteriore

distinzione dei precetti che valutano l’individuo dal punto di vista statico del modo di

essere e quelli che lo valutano dal punto di vista dinamico del loro agire e dei suoi

effetti.

Circa il diritto oggettivo vi sono due teorie:

- Kelsen elabora la teoria normativa, secondo cui la singola norma è

caratterizzata dall’elemento sanzionatorio e deve corrispondere ad una norma

fondamentale che possa giustificare l’intero sistema;

- Santi Romano invece elabora la teoria istituzionale che privilegia meno il

principio sanzionatorio e vede come diritto oggettivo sia il complesso di

norme, sia il gruppo sociale che lo ha elaborato. La norma non ha bisogno di

fare riferimento ad una norma fondamentale perché è la stessa realtà storica a

determinare il suo carattere giuridico.

Per Kelsen dunque la norma giuridica è un giudizio ipotetico, mentre per Santi

Romano è una regola di comportamento ed essa è considerata da entrambi importante

anche a livello particolare perché la sentenza è la concretizzazione della stessa norma

giuridica; con l’affermazione di tale gerarchia si capisce che entrambi avevano ben

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presente la realtà storica del tempo che privilegiava l’assetto organizzativo statale. A

nessuno dei due interessava la distinzione diritto giusto / diritto ingiusto , perché:

- Kelsen elabora una dottrina pura del diritto, quindi depurata da ogni visione

politica;

- Santi Romano afferma che il giurista non si deve interessare dell’eticità del

diritto.

Attualmente il diritto oggettivo è diviso in diritto pubblico e diritto privato e in ciò si

nota il peso dell’influenza dell’antichità sulle questioni moderne. Si fa, infatti, risalire

a Ulpiano, giurista del III secolo d.C., una frase riportata poi nell’apertura del

Digesto e delle Istituzioni giustinianee secondo cui il diritto pubblico è quello che

interessa il modo d’essere della struttura organizzativa romana, mentre quello

privato è quello concernente più da vicino l’utilità dei singoli. Viene quindi adottato

un criterio oggettivo per il diritto pubblico e un criterio teleologico per quello privato;

il secondo crterio viene preferito da tale giurista, come conferma la parte successiva

di tale frase in cui si afferma che vi sono infatti fini che interessano la sfera pubblica

e fini che interessano quella privata. Da tutto ciò proviene la difficoltà per trovare

criteri stabili per l’analisi della giurisprudenza antica.

La distinzione tra i precetti che riguardano il modo d’essere del soggetto di diritto e

quelli che riguardano i suoi atti e i loro effetti è la distinzione tra norme di

determinazione e norme di comportamento. Tra queste poi si distingue l’atto

giuridico lecito dall’atto giuridico illecito, a seconda che la volontà sia considerata

degna di protezione da parte dell’ordinamento. Qui si trova il concetto di negozio

giuridico, che può essere dichiarativo o meno. Riguardo alle manifestazioni della

volontà vi sono state diverse opinioni nel corso della storia che, in caso di contrasto

tra volontà effettiva e sua esternazione, esaltano, alcune, il primato del momento

dell’interiorità, altre quello dell’esteriorità. Altro problema affrontato nel corso della

storia è quello riguardante gli effetti dell’attività del soggetto di diritto , circa la

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creazione di relazioni intersoggettive o di situazioni giuridiche soggettive. Sicuro è

che la prima è concepibile solo in presenza delle ultime e viceversa.

Il diritto soggettivo viene configurato come la pretesa di un comportamento passivo

di astensione degli altri per l’esercizio da parte del titolare di una serie di facoltà. In

questo caso il diritto soggettivo è assoluto e può essere della personalità, a carattere

non patrimoniale, o reale, a carattere patrimoniale. Quest’ultimo si distingue in:

- diritto soggettivo reale per eccellenza, ovvero la proprietà;

- diritto soggettivo reale di godimento, ossia l’usufrutto;

- diritto soggettivo reale di garanzia, ovvero il pegno e l’ipoteca.

Poi vi è il diritto soggettivo relativo, quando non vi è la pretesa di astensione altrui

ma quella di cooperazione (esempio: rapporto del creditore col debitore). Le

situazioni giuridiche passive sono configurate di riflesso a quelle attive quindi si ha:

- diritto soggettivo assoluto � dovere d’astensione;

- diritto potestativo � soggezione;

- diritto di credito � obbligazione.

Oltre al soggetto di diritto inteso come persona fisica vi sono altri soggetti di

imputazione, ovvero gli enti che possono essere a base patrimoniale, ovvero la

fondazione, basata sulla devoluzione di un complesso di beni a scopo non lucrativo,

oppure a base personale, ovvero un gruppo di persone che lavorano per lo stesso

scopo, e di questo gruppo fanno parte le associazioni, a scopo non lucrativo, e le

società, a scopo lucrativo, che possono essere di persone o di capitali; queste ultime

ricevono la soggettività giuridica più piena propria delle associazioni riconosciute,

ovvero la massima autonomia del patrimonio dell’ente rispetto a quello delle persone

fisiche.

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4. Lo smontaggio della rappresentazione

Per i REFERENTI POLITICO-ISTITUZIONALI non si può utilizzare il concetto

di Stato, che rappresenta la realtà organizzativa a noi più vicina. Negli assetti antichi,

i tipi di organizzazione del potere erano:

- il regnum arcaico fino al VI secolo a.C., incentrato sulla figura del rex,

assistito dal senato e da una assemblea popolare su base territoriale, i comitia

curiata, poi trasformata su base censitoria, ossia i comitia centuriata;

- la repubblica dal IV al I secolo a.C., basata su una magistratura diarchica,

ovvero i consules, e con un maggior rilievo dato al senato le cui decisioni, i

senatusconsulta, vennero rese vincolanti;

- il principato fino al III secolo d.C., inaugurato da Ottaviano Augusto, che

insisteva sull’idea di una sua auctoritas di per sé sufficiente a superare i limiti

dell’organizzazione precedente;

- il dominato fino alla divisione nel 394 delle due partes, quella d’oriente e

quella d’occidente, e al venir meno nel 476 di quella occidentale, caratterizzato

dall’idea della discendenza del potere direttamente da Dio;

- l’ impero bizantino riguardante la parte orientale dal 476 al 565, anno della

morte di Giustiniano, evento che segna la fine dell’esperienza antica.

Per i REFERENTI SOCIO-ECONOMICI , invece, è inutile parlare di capitalismo,

strettamente connesso al concetto di Stato. Cicerone afferma che all’epoca il

commercio non era molto sviluppato e ci si basava maggiormente sull’attività

agraria; suo scopo, peraltro, non era il profitto, proprio perché si privilegiava il

valore d’uso, ossia quello proveniente dal diretto consumo del bene, rispetto al valore

di scambio, caratterizzante il bene per la possibilità di essere venduto, esattamente

nel modo contrario rispetto alla situazione attuale.

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Le fasi degli assetti economici non furono del tutto coincidenti con quelle politico-

istituzionali.

1. Modo di produzione arcaico (fino al IV – III secolo a.C.), caratterizzato dalla

prevalenza degli aspetti statici dell’economia e dalla schiavitù domestica.

L’unico cambiamento all’interno di tale fase ci fu intorno al VI secolo con la

monarchia etrusca che portò una maggiore propensione al commercio rispetto

alla dominanza in precedenza dell’aristocrazia terriera della fase latino-sabina;

la situazione fu recuperata con la cacciata dei Tarquini ad opera degli stessi

latino-sabini.

2. Modo di produzione schiavistico (dal III – II secolo a.C. al II – III secolo

d.C.), in cui lo strumento servile fu quello predominate; l’approvvigionamento

degli schiavi AVVENIVA grazie al momento bellico dovuto alla grande

espansione di Roma, anche se tuttavia l’agricoltura era ancora predominante e

da questa derivava il duplice ruolo degli schiavi sia come valore di scambio sia

come valore d’uso.

3. Modo di produzione tardo-antico (dal II – III secolo al VI d.C.) in cui si ha

l’espansione del fenomeno latifondistico dovuto anche alla crisi di Roma del

III secolo perchè ormai non era più adatta a ricoprire il ruolo di centro

propulsore di tutto l’impero.

Col il VI secolo, infine, il cambiamento diviene evidente e si ha l’affermazione

dell’economia chiusa tipica del medioevo.

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CAPITOLO TERZO

I PRECETTI

5. Diritto come norma e diritto come esperienza giuridica

Per affrontare l’analisi degli assetti giuridici dell’epoca romana non si può utilizzare

il concetto di diritto oggettivo, in quanto troppo legato alle visioni statalistiche

moderne. Piuttosto si può parlare di ESPERIENZA GIURIDICA intesa come il

complesso di norme comunque poste e vincolanti le strutture organizzative secondo i

criteri da esse stesse posti. Si può parlare di esperienza giuridica là dove vi siano i tre

momenti:

- dato realtà, ossia le regole poste comunemente dalla prassi;

- dato statuizione normativo, ovvero le regole poste in modo formale;

- dato riflessione tecnico-interpretativa, ovvero le regole provenienti

dall’opera di controllo dei giuristi.

6. L’esperienza giuridica romana: l’età regia

L’età del regnum fu caratterizzata dal dato realtà, poiché le regole esistevano per lo

stabilizzarsi di determinati comportamenti. I referenti erano visti sia nella volontà

divina, sia nell’ordine naturale delle cose; all’epoca però la divinità era intesa come

immanente alla realtà, per cui non esisteva il fato e l’ordine naturale delle cose non

poteva identificarsi con esso.

Il dato statuizione normativa era rappresentato dai precetti concessi al popolo dal re,

mentre il dato riflessione tecnico-interpretativa consisteva nell’attività dei pontefici.

Su ciò si ha un problema di interpretazione degli storici moderni, per cui alcuni

credono che al rex spettasse la disciplina giuridica di casi singoli e particolari, mentre

altri ritengono che egli creava norme generali insieme all’assemblea popolare. In

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realtà tale discussione nasce dalla contrapposizione tutta moderna tra astrattezza e

generalità, non applicabile all’epoca romana

Ciò che caratterizzava l’epoca antica era il formalismo, ossia il vincolo alla

pronuncia di determinate formule e alla ritualità degli atti. Gaio, giurista del II secolo

d.C., afferma che nella sua epoca esisteva un negozio giuridico chiamato

“mancipatio”. Esso si svolgeva di fronte a cinque testimoni, che dovevano essere

cittadini romani e ad un altro, nelle stesse condizioni, chiamato libripens, poiché

teneva in mano una bilancia. L’accipiente pronunciava la formula tipica e percuoteva

la bilancia con un pezzo di bronzo che successivamente donava al soggetto che gli

consegnava l’oggetto di scambio. Alcune incongruenze, come la presenza di una

bilancia non utilizzata, fanno presupporre l’esistenza di una storia interna alla

mancipatio così come descritta da Gaio. In epoca antica, infatti, la compravendita

avveniva attraverso la pesatura di un “quantum” da versare per l’acquisto del bene

poiché, non essendo stata ancora coniata la moneta, si usavano al suo posto pezzi di

materiale bronzeo.

Sempre Gaio afferma che in caso di dibattiti riguardanti la proprietà delle cose, le

parti si presentavano con l’oggetto (o la persona, in caso di schiavo) o almeno parte

di esso; una delle due parti toccava la cosa con una festuca, ovvero un bastoncino di

legno che simboleggiava la lancia per indicare la giusta proprietà derivante dal

motivo bellico, e poi pronunciava la formula tipica. Era questo l’atto della

“vindicatio”, al quale l’altra parte poteva rispondere con gli stessi gesti rituali;

seguiva quindi lo scambio di alcune formule fino alla scommessa di una certa somma

di denaro che la parte soccombente doveva versare all’erario. Alcuni affermano che

la presenza in tale ultima formula del termine “sacramentum” dovesse qualificare

l’atto come sacro, ovvero la somma in questione doveva essere donata ad un tempio;

Cicerone afferma che in tempi ancora più remoti al posto della donazione in denaro

vi era quella di buoi o addirittura il vero e proprio sacrificio di persone.

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7. L’età repubblicana

In età repubblicana avviene un grande cambiamento grazie alla compilazione della

LEGGE DELLE DODICI TAVOLE con la quale si capì che i precetti potevano

provenire anche da un intervento autoritativo. A ciò si arrivò grazie alla lotta tra

patrizi e plebei anche se per essa non si può parlare di una vera e propria vittoria di

classe perché i gruppi sociali non erano blocchi compatti, né le tavole erano costruite

a senso unico. Molto in ogni modo continuava a provenire dalla consuetudine e

importante rimane anche il ruolo del collegio sacerdotale dei pontefici. Dopo tale

intervento, però, non fu portata avanti la linea guida inaugurata con le dodici tavole

perché si lasciò ad altri tale compito, ovvero alla magistratura per il dato statuizione

normativa e ai giuristi di professione per il dato riflessione tecnico-interpretativa.

Con il modo di produzione schiavistico, alle procedure contenute nelle dodici tavole

si aggiungono delle nuove prassi. L’attività legislativa consisteva nella produzione di

LEGES che potevano essere leges rogatae, ossia proposte dal magistrato e sottoposte

all’approvazione delle assemblee di tutto il popolo, oppure i plebiscita, ovvero

determinazioni dell’assemblea della plebe. Si determinava così la distinzione tra la

lex, proveniente da tutto il popolo, e il plebiscitum, proveniente dalla plebe, ossia il

popolo esclusi i patrizi. Dal materiale a nostra disposizione non proviene un principio

secondo cui la lex non potesse sostituire il traditum, anzi il “iussum populi vel

plebis” (ovvero l’attività legislativa dell’epoca, costituita da leges e plebiscita) era

proprio mirato allo svecchiamento del traditum.

Vi erano varie magistrature, tra le quali la più importante era quella del PRETORE la

cui opera non consisteva nella creazione di diritto nuovo ma nella concessione o non

concessione di tutela processuale a quei rapporti intersoggettivi stimati degni di

considerazione. Il suo diritto era il IUS HONORARIUM, distinto da quello già

esistente, detto IUS CIVILE . Si ha così un nuovo tipo di processo senza più i vecchi

rituali e diviso in una fase in iure e in una apud iudicem. Nella prima, il pretore

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ascoltava le parti ed elaborava una formula per limitare la successiva azione del

giudice; nella seconda, il giudice prendeva in considerazione eventuali testimonianze

e prove per poi emanare la sua decisione ma sempre nei limiti previsti dal pretore. Vi

era quindi una vasta gamma di formule, per cui il pretore limitava da sé la sua azione

predisponendo le varie azioni e le relative formule-tipo riferibili alle diverse

fattispecie processuali nell’EDITTO, che emanava all’inizio della sua carriera.

L’editto era suddiviso in cinque parti:

- inizio del processo;

- actiones e formule;

- successioni a causa di morte;

- esecuzione delle sentenze;

- exceptiones, ovvero vari tipi di difesa del convenuto, e altri rimedi.

L’ azione del pretore poteva essere di tre tipi:

- strumentale per l’applicazione delle regole esistenti;

- correttiva, per il parziale cambiamento o il totale annullamento di tali regole;

- innovativa, quando tali regole mancavano.

Il pretore quindi assicurava l’applicazione della vecchia legge, ma con il modo di

produzione schiavistico vi fu il sorgere di nuove esigenze. La mancipatio, ad

esempio, non era più il vecchio negozio di compravendita effettiva ma divenne

l’“ imaginaria venditio” descritta da Gaio in tutti i suoi mutamenti. La disponibilità

del bene acquistato diveniva vero e proprio dominium solo al decorrere di un anno

dall’atto di compravendita; in tale arco di tempo l’acquirente non era tutelato da terzi

che gli sottraessero il bene o anche dal vecchio proprietario che poteva intervenire per

recuperare la cosa con la “rei vindicatio”. Il pretore intervenne dunque a difesa

dell’acquirente con varie previsioni, come l’actio Publiciana, ossia la rivendicazione

da parte dell’acquirente della cosa eventualmente detenuta da terzi, come se egli fosse

già l’effettivo proprietario; inoltre nella formula della rei vendicatio effettuata dal

vecchio proprietario fu inserita una variazione, detta “exceptio venditae ed traditae”.

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Infine fu prevista la “denegatio actionis”, nel caso in cui venisse rivendicata la

proprietà su uno schiavo messo in libertà seppur non con il metodo formale e

ufficiale. Questo rientra tutto nell’ambito della funzione correttiva del pretore. Per la

funzione innovativa, invece, vi fu ad esempio l’“actio commodati”, prevista in caso

di controversia per la mancata restituzione di un bene concesso in prestito e

gratuitamente.

Per il dato riflessione tecnico interpretativa si nota una accelerazione e una

laicizzazione del fenomeno, tanto che gli schemi processuali dei pontefici furono

divulgati e prese piede la prassi di conferire pareri anche pubblicamente. Tale dato

era quindi il motore della giuridicità sia come consiglio alle magistrature sia come

interpretazione e spiegazione a posteriori per ovviare alle difficoltà interpretative

delle dodici tavole, delle leges rogatae, dei plebiscita, ecc. Non si ricercava però la

certezza del diritto perché spesso tale opera comportava una sua problematizzazione e

un “ius controversum”.

8. L’età del principato

L’assetto organizzativo introdotto da Ottaviano Augusto comportò radicali

mutamenti all’interno delle strutture repubblicane e assoggettò il far diritto alla

volontà di un singolo. Punto di svolta furono le sue stesse parole che distinguevano

tra:

- la potestas avuta in relazione alle magistrature di tradizione repubblicana;

- l’ auctoritas, ovvero l’autorevolezza effettiva riconosciutagli

indipendentemente da tali cariche.

Ciò comunque avvenne in tempi diversi, per cui almeno per i primi periodi del

principato è ancora riscontrabile il dato statuizione normativa proveniente dalle

assemblee popolari. Successivamente, dopo Augusto, la convocazione dei comizi

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venne sempre meno e ciò fu fatto passare come il naturale decesso di qualcosa di

ormai troppo vecchio e antiquato. In realtà tutto ciò fu dovuto ad un vero e proprio

programma politico che intese sostituire alle assemblee popolari il primato del

senato in quanto organo più facilmente controllabile tanto che le sue decisioni, i

senatusconsulta, subentrarono alla lex di derivazione popolare, mentre prima essi

avevano solo una valenza politica di pressione psicologica.

Durante il principato venne meno anche la creazione edittale tra il I e il II secolo d.C.

Fu, infatti, emanata una redazione definitiva dell’editto pretoriale da parte di

Adriano. Alcuni spiegano tale notizia come il tentativo di giustificare a posteriori la

fine dell’attività pretorile con un intervento adrianeo, ma ciò non spiega per quale

motivo si sarebbe dovuta attribuita la falsificazione proprio a tale principe. Il pretore

fu così esautorato dal libero esercizio delle sue facoltà tra cui quella integrativa che

divenne priorità dello stesso principe o attraverso la regolamentazione diretta o

attraverso il ricorso al principio analogico. Gli atti precettivi posti in essere dal

principe erano di varia natura:

- gli edicta, che ponevano in essere regole di carattere generale;

- i mandata, ovvero le istruzioni per i governatori dei territori extra-italici;

- i decreta, ovvero le sentenze;

- i rescripta, ossia enunciazioni di regole giuridiche di controversie particolari,

su istanza dei privati;

- le epistulae, simili ai rescripta ma su istanza del magistrato.

Per quanto concerne il dato riflessione tecnico-interpretativa si nota ancora il

bisogno dell’intervento del giurista, desumibile dalla nascita di dibattiti di scuola che

comportarono la fioritura di diversi generi e opere letterarie. A ciò Augusto fece

fronte subordinando l’autorevolezza del giurista alla sua nell’ambito delle consulenze

legali date ai privati e attribuendo solo ad alcuni giuristi la facoltà di rilasciare pareri

grazie ad una vera e propria concessione, detta ius respondendi. Nell’ambito poi

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della riflessione più propria ci fu l’inserimento di una “cooptazione” dei giuristi

considerati più rilevanti all’interno dell’apparato imperiale con la conseguente

burocratizzazione del ceto dei giuristi e la relativa perdita da parte della

giurisprudenza del suo ruolo di potere sociale estraneo ad ogni assetto politico.

9. L’età tardo-antica

Col passaggio dal principato al dominato e poi all’impero bizantino e con il passaggio

dal modo di produzione schiavistico a quello tardo-antico, le constitutiones imperiali

divennero l’elemento portante dell’esperienza giuridica. Furono privilegiati gli edita,

come leges generales, e i rescripta, come leges speciales. La lex assunse diversi

significati:

- regolamentazione unilaterale proveniente da un centro di potere pubblico;

- regolamentazione data unilateralmente da un privato in rapporti con un altro

privato

- regolamentazione realizzata attraverso la collaborazione tra assemblea

popolare e magistrato.

Mentre in precedenza Gaio affermava che le constitutiones erano poste al pari della

legge ma non erano la legge, ora invece si ha una vera e propria equiparazione tra

constitutiones e leggi. Rimane comunque valido il principio secondo cui le regole

provenienti dalla tradizione dovessero essere considerate vigenti e da qui scaturisce il

problema del rapporto tra constitutiones e precetti preesistenti affrontato con la

tendenza, culminata poi nell’apoteosi giustinianea, di catalogare sia le costituzioni

imperiali sia le opinioni dei giuristi del principato.

Riguardo al problema circa il tipo di recupero da effettuare per integrare la dominante

ma tuttavia non sufficiente produzione normativa imperiale, Valentiniano III emanò

la “Legge delle citazioni”, nella quale si stabilivano i criteri da adottare per ricavare

dalle opere dei giuristi precedenti quanto fosse necessario alla risoluzione delle

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controversie processuali. Fu stabilito che si dovesse tener conto di Gaio, Paolo,

Ulpiano, Modestino, Papiniano; bisognava scegliere il parere della maggioranza, in

caso di mancanza di almeno due pareri concordanti si doveva riprendere quello di

Papiniano e, in caso di difetto di una sua posizione in merito, il giudice poteva

scegliere liberamente. I pareri di tali giuristi quindi non facevano più parte del dato

riflessione tecnico interpretativa ma del dato statuizione normativa. Tale Legge delle

citazioni rimanda ad un rescritto adrianeo del II secolo d.C., in cui si affermava che

non si poteva disapplicare la regola giuridica dei giuristi aventi il ius respondendi, a

patto che fossero tutti concordi sulla questione.

Page 22: Diritto Romano Mantello.pdf

CAPITOLO QUARTO

LE PERSONE

10. Soggetto di diritto e persone

Nell’esperienza giuridica romana non è possibile parlare di soggetto di diritto,

concetto questo troppo legato alla sua caratterizzazione odierna in termini identici per

tutti e riferibili alla capacità giuridica, legata alla nascita, e alla capacità di agire,

connessa alla maggiore età. In epoca romana la caratterizzazione delle qualificazione

giuridica dell’individuo avveniva in modo opposto.

Nel II secolo d.C. Gaio afferma che gli uomini venivano distinti in base al possesso o

meno della libertà in schiavi e liberi, a loro volta divisi in ingenui e ex-schiavi o

liberti a seconda che la libertà gli appartenesse dalla nascita o da un momento ad essa

successivo. Inoltre la cittadinanza, intesa come riconducibilità ad un assetto

organizzativo superiore, era distinta in: romana, latina, straniera. Terza e ultima

distinzione era quella riferita al gruppo familiare di persone sui iuris, che

possedevano uno ruolo di comando, e persone alieni iuris, sottomesse al potere della

persona sui iuris.

Nel VI secolo abbiamo le Institutiones giustinianee, in cui permane la distinzione

liberi/schiavi e ingenui/liberti ma col solo rilievo della cittadinanza romana e

nell’ambito familiare le persone alieni iuris erano solamente figli e schiavi.

11. La formulazione gaiana: premesse

La parentela naturale era detta cognatio, preferita dal ius honorarium, mentre quella

presa in considerazione per la qualificazione delle persone nell’ambito famigliare era

l’ adgnatio; essa era quella interna alla familia proprio iure, distinta dalla familia

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communi iure, composta da coloro che erano legati da legami di sangue per la

discendenza da un unico capostipite.

12. Gli schiavi

Il processo della schiavitù si era sviluppato in fasi diverse:

- in una fase più antica si aveva la schiavitù cosiddetta per nascita da madre

schiava, perché in assenza di nozze legittime, che fra schiavi non potevano

avvenire, il figlio seguiva la condizione della madre;

- in una seconda fase, invece, si ha il fenomeno della prigionia di guerra che

spesso coinvolgeva i romani stessi; essi venivano considerati schiavi delle

popolazioni nemiche fintantoché non avessero rimesso piede nel territorio della

propria patria, secondo l’istituto del “postliminium”. Per quanto riguarda

invece i romani catturati e che in precedenza avevano fatto testamento, se

morivano durante la prigionia, esso non era più considerato valido, almeno

finché fu prevista la “fictio legis corneliae”, secondo cui si considerava

avvenuta la morte nel momento della cattura.

Durante il modo di produzione arcaico lo schiavo non poteva essere titolare di

situazioni giuridiche soggettive, ma gli effetti a lui negati potevano ricadere sul

padrone in caso migliorassero la sua situazione.

Nel modo di produzione schiavistico invece fu previsto dal ius honorarium che il

padrone fosse responsabile anche delle azioni negative del servo, da lui permesse.

Furono previste cinque actiones, dette adiecticiae qualitatis ovvero:

- l’actio exercitoria, l’actio institutoria e l’actio quod iussu in caso di

inadempimento degli obblighi da parte di quel servo preposto alla gestione di una

azienda marittima o terrestre o in caso di inadempimento dell’obbligazione

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assunta dallo schiavo su esplicito consenso del padrone, per cui il terzo poteva

veder condannato il padrone a quanto dovuto;

- l’actio de peculio et de in rem verso e l’actio tributoria in caso di attribuzione al

servo da parte del padrone del peculium, ossia una sorta di patrimonio, per cui la

responsabilità del padrone era minore.

In caso di atti illeciti, i cosiddetti delicta, il padrone rispondeva con il pagamento di

una somma di denaro o con la “noxae deditio”, cioè l’abbandono del sottoposto alla

controparte.

13. Gli ingenui

Fino al V secolo a.C. la CITTADINANZA ROMANA dipendeva dall’appartenenza

alla piccola comunità di Roma, secondo quindi il criterio etnico, per cui era cittadino

romano chi nasceva da genitori romani oppure da padre romano e da madre non

romana ma legittimata alle nozze.

In seguito la cittadinanza fu attribuita secondo il criterio autoritativo, legato alle

conquiste territoriali in diversi modi:

- fu estesa alle colonie già esistenti, trasformate nei cosiddetti municipia;

- furono creati altri insediamenti, chiamati coloniae civium romanorum;

- fu estesa a gran parte dell’Italia centro-meridionale dopo il bellum sociale (90 –

88 a.C.), perso da Roma ad opera dei popoli lì stanziati che, pur non essendo

considerati cittadini romani ma Socii italici, dovevano sostenere per Roma ingenti

spese;

- nel 212 d.C. la Costituzione di Caracalla la estese a tutte le popolazioni

sottomesse così da renderla una caratteristica dei sudditi imperiali;

- veniva riconosciuta a titolo onorifico ai ceti dirigenti delle altre popolazioni, così

da renderle maggiormente controllabili.

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Così come poteva essere acquistata, tale cittadinanza poteva essere persa come in

caso di prigionia di guerra quando, venendo meno la libertà veniva meno la

cittadinanza, o nel caso di acquisto di altra cittadinanza, secondo il principio per cui

se ne poteva avere solamente una, venuto meno poi durante il principato.

La CITTADINANZA LATINA ha avuto varie fasi:

- nel 493 abbiamo il Foedus cassianum, ovvero un patto tra Roma e le città del

Lazio, con cui si stabiliva che i rapporti tra persone di stesso ordinamento

venivano regolati dai principi di quest’ultimo, mentre quelli tra un latino e un

romano dall’ordinamento vigente nel luogo in cui il rapporto avveniva;

- nel 338 a.C. invece, all’epoca delle guerre sannitiche, Roma sciolse la lega

preesistente al Foedus cassianum per ristabilire la sua posizione di forza nei

confronti dei latini; alcuni ordinamenti furono trasformati in municipia, mentre ad

altri fu riconosciuta l’autonomia di ordinamenti latini ma sempre grazie ad una

gentile concessione di Roma, con la quale furono creati i latini coloniarii per

distinguerli dai latini prisci, ovvero quelli già esistenti.

La latinità venne meno col bellum sociale, ma rimase viva e fu sfruttata per i territori

extra-italici.

La CITTADINANZA STRANIERA era la più problematica e si individuava in base

ai trattati tra Roma e le comunità straniere; vi erano:

- le civitates liberae et foederate, che avevano stipulato il patto con Roma, per

cui gli veniva riconosciuta l’autonomia;

- le civitates liberae sine foedere, considerate al pari di quelle liberae et

foederate ma senza alcun patto;

- le civitates libere di fatto, la cui autonomia era postulata di per sé senza il

riconoscimento proveniente da Roma;

- gli ordinamenti non autonomi, per svariati motivi come per il fatto di aver

guerreggiato con Roma.

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Vi era quindi una gerarchia tra i peregrini:

- peregrini alicuius civitatis, appartenenti a comunità preesistenti a Roma;

- peregrini nullius civitatis, appartenenti ad ordinamenti considerati non certi;

- all’interno di questo ultimo gruppo i peregrini dedeticii, appartenenti alle

comunità che avevano dimostrato ostilità a Roma.

Per i rapporti interni tra due peregrini dunque si seguivano i precetti del loro

ordinamento sempre secondo l’influenza esercitata da Roma; per i rapporti interni ma

con un romano si seguiva lo stesso criterio, mentre per i rapporti esterni con un

romano si seguiva il ius civile per gli istituti più importanti, ovvero il conubium e il

commercium, e il ius honorarium con la figura del pretor peregrinus per il resto.

14. I liberti

I liberti erano gli ex-schiavi a cui veniva concessa dall’alto la cittadinanza romana,

latina o straniera secondo i modelli dell’ingenuo romano, del latino coloniario o del

peregrino dedeticio, sempre però in termini peggiorativi affinché rimanesse una certa

differenza con i nati liberi. Il passaggio dello schiavo allo stato di libertà avveniva in

vari modi:

- manumissio testamento, con la quale il padrone esprimeva il desiderio di dare

libertà al proprio schiavo dopo la sua morte;

- manumissio vendicta, con la quale il padrone portava lo schiavo di fronte ad un

giudice insieme ad un terzo che dichiarava la libertà dello schiavo; a ciò il padrone

rispondeva con un atto opposto, ma il giudice dichiarava l’addictio in libertatem; era

dunque un istituto volto ad avere gli stessi effetti della manumissio testamento, ma

quando il padrone era ancora in vita;

- manumissio censu, con la quale i censori dichiaravano libero lo schiavo su sua

personale richiesta e con l’approvazione del padrone.

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In seguito, con la tarda repubblica, tali forme persero molto della loro ritualità, per

cui il ius honorarium dovette far fronte al fatto che molti padroni si approfittavano

della non legittimità del procedimento con cui avevano messo in libertà lo schiavo

per rivendicare la proprietà su di lui. Così il pretore previde la denegatio actionis, ma

la libertà dello schiavo era prevista solo dal ius honorarium, per cui si aveva uno

sdoppiamento della sua personalità tra ius civile e ius honorarium. Ciò venne meno

con Augusto, che riconobbe la libertà degli schiavi manomessi non ritualmente,

attribuendogli la cittadinanza latina, facendo così nascere i liberti latinii iuniani . Già

in precedenza erano state modificate le procedure di alcuni istituti: nella manomissio

testamento fu prevista una percentuale massima di schiavi affrancabili sul numero

complessivo; nella manumissio vindicta fu stabilità l’età minima del padrone che

intendeva affrancare lo schiavo a venti anni e fu deciso che lo schiavo con almeno

trenta anni divenisse cittadino romano, altrimenti cittadino latino. Per gli schiavi

macchiati di reati gravi fu prevista la qualificazione di peregrini dediticii.

Solo con Giustiniano si ebbe il venire meno della latinità e della peregrinità degli ex-

schiavi a vantaggio dell’unica cittadinanza romana.

15. La persona sui iuris

Per la qualificazione della persona sui iuris contava l’incidenza dei rapporti

famigliari, per cui la libertà e la cittadinanza romana si accompagnavano al non

essere sottoposti al potere di un paterfamilias. L’incidenza dei gruppi famigliari risale

alle esigenze antiche, quando la famiglia era la principale forma di aggregazione. Le

fonti parlano di familia communi iure, di familia proprio iure e anche di gentes.

Le gentes erano probabilmente gruppi nati dallo sfaldamento di antiche comunità che

non avevano un capostipite.

Le familiae erano invece nate dallo sfaldamento delle gentes, con la successiva

distinzione in familia communi iure e famiglia proprio iure.

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Le dodici tavole riportano la gerarchia delle parentele in caso di morte di un pater

senza testamento:

1. Famiglia proprio iure;

2. Famiglia communi iure;

3. Componenti della gens.

La persona sui iuris, nella figura del paterfamilias, poteva vendere il filius ad un

terzo, ma si stabilì nelle dodici tavole che ciò non poteva avvenire per più di tre volte,

pena la perdita del potere sul sottoposto. La riflessione tecnico interpretativa volle

leggere in ciò la possibilità di rendere sui iuris un figlio anche prima della morte del

padre. Nacque così l’emancipatio: il pater effettuava le vendite ad un terzo che, con

la manumissio vindicta, rivendicava la liberazione del filius dal pater in forza delle

tre vendite, il pater non si opponeva e il filius diveniva sui iuris.

La perdita della qualificazione di persona sui iuris poteva avvenire per morte oppure

per l’adrogatio, ovvero la trasformazione da persona sui iuris ad alieni iuris

nell’ambito di un altro gruppo famigliare insieme però a tutti i propri sottoposti, ossia

gli altri membri della famiglia. Ciò si giustificava con la necessità di creare eredi ad

un pater che non avesse avutopropri discendenti.

16. Le persone alieni iuris

Gaio distingue diversi tipi di persone alieni iuris, a seconda del tipo di potere cui

erano sottoposti. I figli e i servi erano sottoposti alla POTESTAS, la donna libera

alla MANUS, il sottoposto libero altrui entrato nella famiglia per mancipatio al

MANCIPIUM .

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17. Le persone alieni iuris in potestate

Il figlio era paragonato al servo, ma la sua qualificazione differiva per il fatto che egli

godeva della libertà. Si diveniva filiusfamilias per la nascita da padre sui iuris ma con

la necessità di nozze legittime tra i genitori, se entrambi cittadini romani, o di

conubium, se la madre era di altra cittadinanza. In mancanza di tali elementi il figlio

seguiva la qualificazione della madre e veniva considerato “vulgo quaesitus”.

Altrimenti si utilizzavano mezzi artificiosi, quali l’adrogatio o l’adoptio, che

sfruttava il limite del ius vendendi del figlio per permettergli di entrare in un’altra

famiglia. Si perdeva lo stato di filiusfamilias con la morte del paterfamilias o con

l’emancipatio.

Per il ius civile il filiusfamilias non poteva essere titolare di situazioni giuridiche

soggettive così come il servo ma, sempre come al servo, il ius honorarium gli

riconosceva il principio della responsabilità adiettizia del titolare della potestas, e

anche per lui valeva il principio della nossalità per gli atti illeciti; a differenza dello

schiavo però i rapporti famigliari erano quelli di una persona libera, per cui il

matrimonio non era un contubernum, ed essi si regolavano secondo i principi della

cognatio e della adgnatio.

Nella tarda repubblica si ammise la possibilità che potesse contrarre debiti validi per

il ius civile e risponderne in giudizio, mentre nel principato gli fu riconosciuta la

piena disponibilità del peculium castrense, ovvero dei beni procuratigli dall’attività

militare, distinto dal peculium profecticium, eventualmente concessogli dal

paterfamilias e valido per le actiones adiecticiae qualitatis.

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18. Le persone alieni iuris in manu

La manus riguardava ogni persona di sesso femminile sottoposta al potere di un

uomo sui iuris con cui aveva contratto delle nozze. La sua posizione era comparata a

quella della filiafamilias, ma si diveniva donna in manu con altri procedimenti:

- la confarreatio, con la quale l’uomo e la donna offrivano un pane di farro a

Giove;

- la coemptio, una specie di compravendita effettuata solo per far sorgere il

vincolo potestativo tra l’uomo e la donna, se era sui iuris, o col pater di lei, se ella

fosse alieni iuris;

- l’usus, consistente nella convivenza tra uomo e donna della durata di un anno.

Non si sa se tali istituti servissero solo a far sorgere il vincolo potestativo oppure

fossero delle vere e proprie forme matrimoniali. Vi sono a proposito due correnti di

pensiero: l’una afferma che l’unione matrimoniale si realizzava con la volontà di

entrambi i coniugi nel matrimonio sine manu, l’altra invece sostiene che in antichità

esisteva il matrimonio cum manu, mentre in seguito matrimonio e mano furono

scissi.

Il matrimonio dipendeva dunque dalla volontà e poteva essere iniziale o continuata,

detta quest’ultima affectio maritalis, al cui venir meno seguiva la cessazione del

rapporto coniugale. Nel matrimonio cum manu per la cessazione si aveva la

diffareatio per la confarreatio, la remancipatio per la coemptio e il trinoctium per

l’usus, nel caso in cui la moglie restava fuori casa per tre notti. Nel matrimonio sine

manu, invece, la cessazione avveniva per divorzio in caso di consenso di entrambi,

altrimenti per repudium.

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19. le persone alieni iuris in mancipio

Per quanto concerne le persone in mancipio, all’epoca delle XII tavole, non essendoci

alcun limite al ius vendendi, il pater venditore manteneva la potestas sul filius

emancipato, che quindi dopo un determinato periodo di tempo tornava a lui e così si

spiegava la vendita per l’acquisizione più o meno temporanea da parte del nuovo

gruppo familiare di ulteriore forza lavoro. In epoca successiva, invece, quando ormai

non si parlava più di esigenze lavorative, il mancipium era analizzato dai giuristi per i

problemi connessi all’eventuale nascita di discendenti al filius durante tale stato di

dipendenza. All’epoca di Gaio però permanevano ancora echi della situazione antica,

per cui le persone in mancipium erano considerate loco servorum; ciò aveva come

conseguenza che esse non potevano ricavare vantaggi patrimoniali alla morte del

titolare del potere.

20. La formulazione giustinianea: premesse

I cambiamenti apportati dopo Gaio sono dovuti alle modificazioni socio-politiche ed

economiche. Le Institutiones di Giustiniano riportano un quadro non del tutto

allineato con l’effettiva realtà: la cittadinanza romana rimane l’unica del suo ambito e

il paterfamilias aveva solo il potere della potestas; ormai, infatti, la cittadinanza

romana, da carattere discriminante in positivo era divenuta un marchio negativo che

contraddistingueva i cittadini romani come subiecti, ossia sudditi, mentre per la figura

del pater, era ormai da tempo che la manus e il mancipium erano venuti meno. Una

probabile spiegazione dei silenzi circa la complessità della realtà, di cui un esempio

sono le figure dei coloni e dei lavoratori della terra, è il carattere didattico dell’opera

o anche l’individuazione dei suoi destinatari negli studenti della zona intorno a

Costantinopoli, legata più al commercio che all’agricoltura.

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21. Gli schiavi e i coloni

Ora la schiavitù era giustificata facendo richiamo al ius gentium, visto in opposizione

al ius naturale, il quale prevedeva la libertà per tutti gli esseri umani. Il ius civile

dunque era considerato una mediazione tra ius gentium e ius naturale e nemmeno

l’influenza del Cristianesimo fu decisiva: anzi, le stesse esigenze economiche

ecclesiastiche prevedevano lo sfruttamento servile, giustificandolo come la giusta

punizione inflitta all’umanità per il peccato originario.

L’ISTITUTO MANOMISSORIO mantenne la sua importanza ma con il venir meno

della manumissio censu e della distinzione tra le altre due forme, la manumissio

testamento e la manumissio vindicta, nei confronti della quali Giustiniano intervenne

riconoscendo validità a qualsiasi atto che esprimesse la volontà del padrone di far

cessare il rapporto potestativo con il servo. Nacquero in tale ambito le libertates

fideicommissae o fideicommissariae, consistenti in una preghiera testamentaria

all’erede di manomettere lo schiavo, e le manumissiones in ecclesiis, ovvero

dichiarazioni del padrone di fronte alla comunità dei fedeli e all’autorità ecclesiastica.

Non vi furono novità circa la nossalità e le tematiche patrimoniali, tranne che per

l’ actio de peculio, che esprimeva il principio per cui, quando il servo non aveva

debiti nei confronti del padrone, il terzo poteva rifarsi direttamente su di lui; si

esprimeva così una maggiore autonomia del servo, ma ciò nascondeva la vera

esigenza di maggior tutela degli interessi del padrone.

A causa delle nuove strutture economiche latifondistiche, si ha la nascita di una

nuova forma di subordinazione, il COLONATO. Il lavoro libero si sviluppò per la

diminuzione delle fonti di approvvigionamento degli schiavi, che in precedenza erano

state identificate nel motivo bellico. La coltivazione frazionata prevedeva che:

- nella pars dominica, soggetta allo sfruttamento diretto del padrone, vi fosse

l’attività servile;

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- le parti restanti erano assegnate in coltivazione ai coloni, dietro ricompensa in

denaro o in natura.

I possibili fenomeni di intercambiabilità tra tali assetti fecero sì che il trattamento dei

coloni fosse assimilato a quello degli schiavi per cui, a parte una certa autonomia

patrimoniale derivatagli dalla loro libertà, essi erano sottoposti alle regole paraservili.

Si diveniva coloni:

- per nascita da madre colona;

- per iscrizione nei registri fiscali per l’impegno a coltivare un fondo (colonus

adscripticius).

Lo stato di colono veniva meno:

- con una rinuncia volontaria alla terra da parte del latifondista;

- con l’assunzione di una dignità ecclesiastica da parte del colono, con l’assenso

del latifondista.

22. Gli ingenui e i liberti

Giustiniano concepiva la cittadinanza in modo unitario come stretto rapporto fra

l’individuo e gli assetti generali, identificati nella figura dell’imperatore. Qualcuno

ritiene che egli abbia addirittura equiparato ingenui e liberti, ma è un’ipotesi

azzardata perché egli non rinuncia all’obsequium dovuto dallo schiavo manomesso

all’ex-padrone.

La cittadinanza si poteva acquisire per nascita da genitori liberi e quindi romani, e si

diveniva:

3. alieni iuris in potestate, in caso di nozze legittime;

4. vulgo quaesitus, in caso contrario.

Essa si perdeva in caso di caduta in schiavitù, oppure in caso di acquisto di un’altra

cittadinanza.

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Si diveniva LIBERTI grazie alle manomissioni, ma si ammise la possibilità di tornare

allo stato servile. Fu introdotta la distinzione fra liberti poveri e liberi non poveri

nell’ambito delle successioni senza eredi: in precedenza, infatti, alla morte di un

liberto con testamento ma senza eredi, metà del suo patrimonio andava all’ex-

padrone.

23. La persona sui iuris

Anche la famiglia del tardo-antico aveva un carattere gerarchico ma con assetti meno

rigidi a causa del ridimensionamento dei poteri della persona sui iuris e della

riduzione di importanza dei vincoli agnatizi a vantaggio della parentela naturale.

Costantino stabilì i limiti della potestà paterna attribuendo all’autorità pubblica il

compito di valutare i comportamenti gravi del sottoposto. Nonostante ciò, comunque,

la persona sui iuris continuò a mantenere il primo posto nella gerarchia delle

qualificazioni giuridiche familiari.

24. Le persone ancora e già qualificate alieni iuris

L’acquisto dello stato di filiusfamilias avveniva:

- per nascita;

- per adrogatio;

- per adoptio, limitata ormai all’ipotesi in cui l’adottante fosse un avo materno o

paterno, sempre per il maggior rilievo della cognatio a discapito dell’adgnatio,

motivi per cui inoltre la potestas sull’adottato continuava ad essere quella del

padre d’origine;

- grazie alla facoltà del padre di riconoscere un figlio avuto prima delle nozze,

secondo l’istituto della legitimatio per subsequens matrimonium.

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La cessazione dello stato di filiusfamilias avveniva:

5. per la morte del padre;

6. per emancipatio, divenuta ormai una dichiarazione da farsi davanti all’autorità

pubblica.

Per le implicazioni patrimoniali si ha l’autonomia nell’ambito del peculium castrense,

la cui disciplina fu estesa all’ambito del peculium non castrense, riguardante i beni

acquisiti grazie ad attività non militari, e la proprietà dei beni patrimoniali della

madre, di cui il padre aveva invece un limitato potere di godimento.

Si continuava a non considerare il problema del sorgere di vincoli potestativi sulla

donna sposata, che conservava la sua posizione giuridica goduta prima delle nozze.

Rispetto alla maggiore importanza data in precedenza all’affectio maritalis (=volontà

continuata), ora si preferiva la volontà iniziale, senza però ancora giungere agli

schemi contrattuali successivi. Per questo, la prigionia di guerra non fu più

considerata sufficiente per la fine del matrimonio.

25. Ulteriori tematiche

���� ISTITUTO DOTALE (dote). Complesso di beni conferiti dalla famiglia di

origine della donna (se alieni iuris) o dalla donna stessa (se sui iuris) al marito (se sui

iuris) o al padre del marito (se alieni iuris), come contributo per le esigenze

economiche matrimoniali e, in seguito, anche ai fini di sostentamento della donna in

caso di cessazione del matrimonio.

La genesi di tale istituto si ha nel passaggio dal matrimonio cum manu al matrimonio

sine manu: nel primo tipo, la donna diveniva loco filiae, per cui i beni dotali

rifluivano nel patrimonio della persona sui iuris ed erano da lei riottenibili, spesso

solo in parte, per successione ereditaria; diversamente, nel matrimonio sine manu, la

donna manteneva la sua qualificazione giuridica per cui i beni dotali le venivano

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restituiti (a lei se sui iuris, altrimenti alla sua famiglia di origine) in ogni caso di

cessazione del matrimonio.

Furono poi precisate:

- le tipologie di dote a seconda della provenienze: dote profecticia, proveniente

dalla famiglia, dote adventicia, proveniente dalla donna, dote recepticia,

proveniente da un terzo;

- le modalità di godimento della dote da parte di chi ne avesse avuto la proprietà

durante il matrimonio;

- le modalità di restituzione della dote, a seconda del modo di cessazione del

vincolo coniugale, prevedendo spesso le retentiones, ovvero quote trattenute per i

figli nati dal matrimonio (ma nel tardo-antico perse di importanza).

���� RIMEDI PER GLI IMPEDIMENTI DELLA PERSONA SUI IURIS stabiliti a

seconda del rilievo di età, sesso, alterazioni psico-fisiche.

1) La TUTELA IMPUBERUM riguardava i ragazzi (chiamati pupilli) di sesso

maschile e femminile non sottoposti alla potestas di una persona sui iuris ma non

ancora capaci di procreare. Tale capacità era determinabile con un controllo corporale

per i maschi e col criterio del raggiungimento dei 14 anni per i maschi e i 12 anni per

le femmine.

Il pupillo si differenziava a seconda dell’età:

- Infans, per i primi anni;

- Infans maior, per il periodo intermedio tra l’infanzia e gli anni immediatamente

anteriori alla capacità di procreare;

- Iubertati proximus, per gli anni anteriori alla capacità di procreare.

Anche la disciplina era diversificata: ad esempio l’infans maior si vedeva attribuita la

validità di quegli atti da lui posti in essere che gli portassero vantaggi, mentre il

pubertati proximus era direttamente responsabile degli atti illeciti da lui commessi.

Il tutore si differenziava a seconda del tipo di nomina:

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- tutore testamentario;

- tutore legittimo (parente più prossimo);

- tutore Atiliano o dativo (nomina effettuata dal pretore in mancanza dei suddetti

due tipi).

Inizialmente la tutela si identificava più come un potere, per cui il tutore

testamentario e quello legittimo potevano anche non assolvere ai loro compiti e non

erano nemmeno perseguibili per eventuali comportamenti scorretti. In seguito, a

causa delle nuove e diverse esigenze dell’età commerciale, il pupillo divenne una

persona da proteggere insieme al suo patrimonio.

2) La CURA riguardava i ragazzi di sesso maschile che fossero sui iuris ma non

avessero ancora compiuto i 25 anni. Tutto ebbe inizio nel II secolo a.C. con la Lex

Laetoria de circumscriptione adulescentium che prevedeva una sanzione per il

contraente che avesse approfittato dell’inesperienza di un minore, senza tuttavia

escludere la validità dell’atto da lui posto in essere e dei suoi effetti. Il pretore previde

così una exceptio legis Laetoriae, ordinando al giudice di decidere come se il minore

non avesse posto in essere l’atto. Ciò causò altri problemi perché tale legge costituiva

un freno per tutti gli eventuali contraenti con un minore; così si decise di far assistere

quest’ultimo da una persona di maggiore esperienza. Nel tardo-antico la cura venne

meno e prese il suo posto la stessa tutela impuberum, che non si fermava più allo

stato della pubertà.

3) La TUTELA MULIERUM riguardava le donne puberi sui iuris e continuava per

tutta la vita. Aveva una funzione potestativa e non protettiva, ma non era incisiva

nella gestione del patrimonio della donna perché essa trattava spesso da sola i suoi

affari.

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4) La CURA DELLE PERSONE SOGGETTE AD ALTERAZIONI PSICO-

FISICHE , quali pazzia e prodigalità. Il pazzo riceveva il trattamento dell’infans,

mentre il prodigo quello dell’infans maior.

26. I centri di imputazione diversi dalla persona fisica

Riccardo Orestano fornisce riguardo a ciò le sue “quattro concezioni”:

1- Complessi da un punto di vista materiale, considerati tali per determinati

impieghi linguistici (nomen romanum);

2- Complessi da un punto di vista totalistico, nel senso che i componenti erano

visti come un insieme rappresentato, e non creato, da un sostantivo plurale o da

forme verbali (privati, abitanti);

3- Complessi da un punto di vista corporalistico, la cui unità è data dal ricorso ad

un nome collettivo (populus, grex);

4- Complessi da un punto di vista astratto, dotati di una propria essenza, distinta

da quella dei componenti (eredità).

In età repubblicana, il populus romanus costituiva il centro di riferimento massimo,

come è per noi lo Stato; successivamente, assunse maggior rilievo il ficus riguardante

l’organizzazione finanziaria, entità a sé stante cui venivano riconosciuti privilegi

anche in campo giuridico.

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CAPITOLO QUINTO

I FATTI E GLI ATTI GIURIDICI

27. Persone e accadimenti

Circa le cosiddette norme di comportamento, oggi si privilegia l’agire umano, ma

senza escludere altre ipotesi secondo cui possano delinearsi gli accadimenti. Essi

sono raggruppati sotto la nozione di FATTO GIURIDICO, distinto in altri due

concetti:

- Fatto giuridico in senso stretto, evento non dipendente dal soggetto di diritto;

- Atto giuridico, evento identificato con l’agire del soggetto di diritto.

Per sancire la prevalenza dell’atto giuridico è stata fondamentale, nell’ambito

dell’atto giuridico lecito, la nozione di NEGOZIO GIURIDICO, ovvero una

dichiarazione privata di volontà mirante a produrre un effetto giuridico. Può

chiamarsi tale solo quell’atto in cui ci sia un forte nesso tra volontà ed effetti. Il

problema riguardava il concetto di “dichiarazione di volontà”, ovvero il fatto se

poteva essere usato, oltre che quando la volontà si manifestava sotto forma

dichiarativa, anche quando lo faceva attraverso un comportamento. La soluzione fu

quella di intendere la dichiarazione di volontà come MANIFESTAZIONE DI

VOLONTA’. In quanto tale, il negozio giuridico sarebbe poi stato diviso in:

- negozio giuridico non dichiarativo;

- negozio giuridico dichiarativo.

A sua volta, quest’ultimo si distingueva in:

- atti negoziali unilaterali;

- atti negoziali bi-plurilaterali, nozione strettamente connessa a quella di

CONTRATTO.

Il contratto era un accordo di due o più parti per istituire, regolare o estinguere un

rapporto giuridico patrimoniale.

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Il cosiddetto “problema dei problemi” riguarda la volontà, che si caratterizza sotto

due profili, quello interiore e quello esteriore, e quindi la determinazione del profilo

primario tra i due. Le soluzioni individuate sono molteplici:

- “dogma della volontà”, legato al rilievo del volere effettivo;

- “dogma della dichiarazione e dell’affidamento del terzo”, fondato sul prevalere

dell’esternazione;

- configurabilità dell’esternazione in senso oggettivo, come dotata di vita

autonoma.

Anche nell’età antica si era avuta l’esigenza di introdurre una qualche classificazione

circa gli accadimenti. Nelle Istituzioni gaiane si ha la distinzione tra:

- contratto come atto lecito;

- delitto come atto illecito.

Il contratto si distingueva se presentava nella struttura:

- l’ elemento reale, ovvero la consegna di un bene:

- l’ elemento verbale, ovvero l’uso delle parole;

- l’ elemento letterale, ovvero l’uso della scrittura;

- l’ elemento consensuale, ovvero l’accordo fra le parti.

28. Fra i contratti

Tale QUADRIPARTIZIONE GAIANEA si era avuta nel ius civile con apporti anche

del ius honorarium e si fondava sulla tipicità, ovvero sull’idea che i contratti si

identificavano in figure predeterminate. Sicuramente il “disfavore” verso il concetto

di volontà era stato superato, altrimenti se fosse mancato il consenso nei contratti

reali, verbali e letterali non ci sarebbe stato nemmeno il contratto consensuale.

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CONTRATTI REALI così chiamati perché la trasmissione di beni era necessaria per

far sorgere l’effetto giuridico, consistente nell’obbligo di restituzione di quanto

ricevuto.

- Mutuo, trasferimento di entità fungibili con l’obbligo per il ricevente di

restituirle in pari quantità e genere;

- Comodato, disponibilità di un bene fungibile o meno che il destinatario era

obbligato a restituire alla scadenza;

- Deposito, trasferimento come il comodato ma a fini di custodia;

- Pegno, cosa trasferita a titolo di garanzia su cui il destinatario si rivaleva in

caso di mancato adempimento della controparte ai suoi obblighi, con

l’impegno invece a restituirlo in caso contrario.

CONTRATTI VERBALI caratterizzati dal necessario ricorso a pronunce di parole

per produrre l’effetto giuridico, consistente nel vincolo ad un dare o un fare.

La figura principale era quella della sponsio/stipulatio, che si fondava prima

sull’impiego del verbo “spondere” (impegnarsi), e poi su altri verbi che hanno portato

al nome più generale di stipulatio.

CONTRATTI LETTERALI divisi in:

- nomina transcripticia che potevano essere: “a re in personam”, quando il

creditore annotava sul suo registro contabile di aver dato una certa somma alla

controparte (al posto di scrivere l’oggetto venduto), oppure “a persona in

personam”, quando l’obiettivo era sostituire il debitore con un altro.

- singrafi e chirografi, usati dai peregrini.

CONTRATTI CONSENSUALI che prevedevano la sola necessità del consenso per

realizzare gli effetti obbligatori basati sempre su di un vincolo precettivo.

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- Compravendita, obbligo per il venditore di trasferire la cosa e per il

compratore di pagarne il relativo prezzo;

- Locazione, che rimandava a molteplici fattispecie, sistemate nelle epoche

successive in: locatio rei, affitto in senso stretto, locatio operarum, contratto di

lavoro, locatio operis, simile al nostro moderno contratto d’appalto.

- Società, obbligo per le parti a realizzare le attività nel comune interesse;

- Mandato, consistente in un obbligo certo del mandatario e in un probabile

obbligo del mandante.

I primi tre erano a reciprocità forte, l’ultimo a reciprocità debole.

Nel tardo-antico la conservazione del “vecchio” fu arricchita da Giustiniano con la

preferenza per la scrittura; ciò era dovuto all’esigenza di mantenere l’equilibrio

sociale e di privilegiare i ceti più forti a livello di ricchezza e quindi di cultura.

29. I contratti al microscopio: esperienze giuridiche moderne

In età moderna, si è ritenuto che il contratto possa essere “sezionato” nelle sue parti

costitutive, dette ELEMENTI, distinti in elementi essenziali, accidentali e naturali.

ELEMENTI ESSENZIALI

- Volontà;

- Soggetti;

- Causa, di cui si è molto discusso in Italia, perché nel codice del 1865 la si

riteneva il fine soggettivo, in quello del 1942 invece il momento oggettivo

dell’atto negoziale; si può comunque avere un contratto causale, a causa fissa,

e un contratto astratto, a causa variabile;

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- Forma, identificabile nell’esternazione della parola, che può essere orale o

scritta; si può avere un contratto a forma vincolata, ovvero scritta, o un

contratto a forma variabile, ovvero scritta o orale; in quest’ultimo, a forma

orale, si può avere la scrittura per futura memoria dell’accordo ma essa ha una

funzione probatoria;

- Oggetto, in conflitto col contenuto.

ELEMENTI ACCIDENTALI

- Condizione, avvenimento futuro ed incerto dal cui avverarsi o meno si faccia

dipendere l’inizio o la fine degli effetti dell’atto giuridico; è suddivisa in

condizione sospensiva, quando gli effetti sono sospesi fino al prodursi o non

prodursi dell’avvenimento, e condizione risolutiva, quando gli eventi vengono

fatti cessare col realizzarsi o non realizzarsi dell’avvenimento;

- Termine, avvenimento futuro e certo, anch’esso diviso in termine sospensivo e

termine risolutivo;

- Modo o onere, avvenimento futuro e incerto che determina una particolare

maniera di realizzazione degli effetti a carattere oneroso.

30. Esperienza giuridica antica

La sistemazione odierna degli elementi del contratto non poteva sussistere

nell’esperienza giuridica romana, causa l’incombenza della quadripartizione.

La causa era vista in modi differenti:

- causa efficiente, ovvero un evento dante origine a qualcosa;

- causa finale, ossia lo scopo perseguito (la quale ebbe maggior rilievo).

Erano univocamente causali: contratti reali e consensuali;

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Erano non univocamente causali: la stipulatio e i contratti letterali, dato che singrafi

e chirografi potevano avere anche un carattere astratto.

La forma, distinta dal formalismo come esasperato ricorso alla ritualità degli atti, era

allora intesa come modalità espressiva concernente l’atto negoziale, a differenza

dell’attuale visione che la vede come modalità di esternazione della volontà.

Con l’editto di Caracalla del 212 d.C., fu estesa a tutti gli abitanti dell’impero la

cittadinanza romana. Così i nuovi cittadini dovettero adattarsi alle norme giuridiche

romane e alla forma ab sustantiam orale, mentre i peregrini erano abituati a

privilegiare quella scritta. La soluzione fu di compromesso, perché furono mantenute

le tradizioni scritte locali, ma con la dichiarazione di aver preventivamente

provveduto ad una stipulatio. Spesso però ciò non avveniva effettivamente e la

reazione degli imperatori fu quella di prevedere mezzi processuali a favore della parte

indicata come debitrice. In realtà, però, tale soluzione non fu molto efficace tanto che

si arrivò ad un ridimensionamento definitivo dell’oralità.

Le PATOLOGIE CONTRATTUALI sono i casi in cui il negozio non sorga

correttamente per la presenza in esso di difetti più o meno gravi.

- Invalidità, per i profili strutturali � mancanza di qualche elemento essenziale

o presenza di qualche vizio della volontà;

- Inefficacia, per i profili funzionali � mancata produzione in sé degli effetti

dovuta a circostanze esterne;

- Nullità � i comportamenti delle parti non sono del tutto conformi alla

previsione giuridica;

- Inesistenza � totale mancanza di corrispondenza tra negozio giuridico e

previsione giuridica.

La mancanza dell’elemento volitivo è teorizzata in diverse tipologie:

- Violenza fisica o assoluta, quando si impedisce alla controparte di porre in

essere liberamente il negozio;

- Simulazione assoluta, quando entrambe le parti fingono di porre in essere un

negozio, senza volerne gli effetti.

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Si ha invece annullabilità quando si ha la presenza sia del momento interiore che di

quello esteriore della volontà ma anche di una loro non concordanza, spesso dovuta

allo scorretto formarsi del primo di essi.

- Errore ostativo, quando si dichiari qualcosa di diverso da ciò che

effettivamente si vuole;

- Errore-vizio, ovvero una falsa rappresentazione della realtà, non causata

dall’inganno della controparte;

- Dolo-vizio, quando la falsa rappresentazione della realtà è causata dall’inganno

della controparte;

- Violenza morale o relativa, quando la libera formazione della volontà di una

parte sia ostacolata da un ricatto psicologico della controparte.

Tutte queste sfumature non appartengono all’epoca romana, dato che l’attuale

disciplina è dovuta al ruolo centrale attribuito al dato volitivo, mentre in età romana

le patologie della volontà erano legate al problema di stabilire il suo ruolo. Si

avevano solo espressioni del tipo nullum esse o inutile esse. Per i contratti verbali,

non ci fu l’autosufficienza del ius civile, come si era avuta per quelli consensuali, e ci

fu bisogno del ricorso al ius honorarium che previde:

- l’ exceptio doli (eccezione di dolo) e l’exceptio metus causa (eccezione per

violenza), a disposizione della parte lesa per contestare la pretesa di

controparte di vederla condannata a quanto dovuto;

- l’ actio de dolo (azione attinente al dolo) e l’actio quod metus causa (azione

giustificativa per motivi di violenza), a disposizione della parte lesa per

chiamare essa stessa in giudizio la controparte.

Anche per quanto riguarda gli elementi accidentali, le nozioni non erano estranee

all’esperienza giuridica romana, ma cambiava il tipo di approccio. Mancava la pari

importanza della condicio risolutiva rispetto a quella sospensiva; solo con le nuove

esigenze mercantili del principato si rivalutò la condizione risolutiva, nell’idea di

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legare la fine degli effetti dell’atto ad un avvenimento futuro ed incerto. Il termine

finale entrava in gioco solo quando si avevano effetti durevoli (locazione).

L’ambiguità odierna del modo deriva da quella antica, poiché, a parte il fatto che la

parola modus aveva numerosi significati, essa era utilizzata non nell’ambito della

quadripartizione, ma per altre attività negoziali (testamenti).

31. Gli ulteriori atti e fatti giuridici: impostazi one del problema

Già all’epoca romana, era noto che la materia contrattutale non costituiva la totalità

degli accadimenti giuridici; tale esperienza quindi, pur ancora lontana dalle esigenze

classificatorie moderne, previde (rispetto ai nostri):

- fatti giuridici in senso stretto � eventi naturali già considerati ai fini

dell’acquisizione in proprietà di un bene;

- atti giuridici illeciti � disciplina dei delitti privati come atti fondanti l’obbligo

di pagare all’offeso una somma di denaro;

- atti giuridici non dichiarativi, costruiti su comportamenti fattuali � Previsione

dell’occupatio, ovvero l’acquisto di una cosa di nessuno o abbandonata da altri

grazie all’impossessarsi di essa, e della traditio, ovvero la consegna informale

di un bene, non rientrante nelle res mancipi soggette a mancipatio, dal

proprietario all’acquirente;

- atti giuridici bilaterali dichiarativi ma non contrattuali � esistenza della

mancipatio, a livello di ius civile, e di pacta, a livello di ius honorarium;

- atti giuridici unilaterali � istituzione dell’erede in sede testamentaria.