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1 A cura del cons. Roberto Garofoli Dispensa di diritto penale parte speciale II

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A cura del cons. Roberto Garofoli

Dispensa di diritto penale

parte speciale II

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Parte speciale II: delitti contro l’ordine pubblico, contro l’incolumità pubblica, contro la fede pubblica, contro la famiglia, contro la persona

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Indice

IV. DELITTI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO

Cass., sez. un., 13 giugno 2014, n. 25191, sui rapporti tra associazione mafiosa e riciclaggio

(sui rapporti tra riciclaggio e reati presupposto, da ultimo, Cass., sez. II, 4 marzo 2015, n.

9392).

Cass., sez. un., 23 aprile 2013, n. 18374, sull’applicabilità anche alla fattispecie associativa

delle aggravanti previste per i delitti-scopo, con particolare riguardo all’aggravante speciale

della transnazionalità ex art. 4 legge n. 146/2006 (da ultimo, cfr. anche Cass., sez. III, 20

gennaio 2015, n. 2458).

Cass, sez. VI, 28 agosto 2014, n. 36382 e Cass., sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374, sul reato

di scambio elettorale politico-mafioso dopo la riscrittura dell’art. 416-ter c.p. intervenuta

con la legge 17 aprile 2014, n. 62.

Art. 416 bis. Requisiti di configurabilità della natura mafiosa

Cass., sez. V pen., 3 marzo 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31666 e Cass., sez. II pen. 21-30 aprile

2015 (dep. 4 agosto 2015), n. 34147, dimostrano la persistente attualità del contrasto

giurisprudenziale la cui soluzione era stata deferita alle Sezioni Unite con ordinanza Cass., sez.

II, ord., 16 aprile 2015, n. 15807, secondo una prospettazione disattesa dal Primo Presidente. La

questione verte sui requisiti di configurabilità della natura mafiosa: è sufficiente il semplice

collegamento con l’associazione principale, oppure la suddetta diramazione deve esteriorizzare

in loco gli elementi previsti dall’art. 416-bis, comma 3, c.p.?

Art. 416 ter c.p.

La rilevanza del riferimento al metodo di cui all’art. 416 bis, co. 3, c.p.

Cass., sez. VI, 19/05/2015, n. 25302, secondo cui “Il cd. metodo mafioso, nuovo elemento

costitutivo dell'art. 416 ter c.p., è considerato presunto ed immanente nell'illecita pattuizione

qualora il soggetto che si impegni a procurare voti in cambio dell'erogazione di denaro o altre

utilità sia persona appartenente ad una consorteria di tipo mafioso, ed agisca in nome e per

conto della stessa. Nel caso in cui il promittente sia soggetto estraneo all'associazione per la

configurabilità del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, occorre la prova del concreto

impiego o della specifica programmazione del ricorso all'intimidazione o alla prevaricazione

mafiosa con le modalità di cui al comma terzo dell'art. 416 bis c.p.”

Concorso esterno e CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, sul principio di legalità

CEDU in relazione al concorso esterno in associazione mafiosa.

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V. DELITTI CONTRO L’INCOLUMITÀ PUBBLICA

Cass., sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941, sul reato di disastro innominato di cui all’art. 434

c.p., in particolare sull’individuazione del momento consumativo (caso Eternit).

Cass., sez. IV, 25 gennaio 2016 (dep. 29 marzo 2016), n. 12675, secondo la quale "Il reato di

disastro colposo di cui all'art. 449 c.p., richiede un avvenimento grave e complesso con

conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente

considerate; è … necessaria per la sua sussistenza, proprio per la natura di delitto colposo

di comune pericolo, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità

pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”

VI. DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA

Cass., sez. II, 4 febbraio 2014, n. 5546, sull’esclusione dell’assorbimento tra il reato di falso

ideologico in atto pubblico e quello di abuso d'ufficio (tra le pronunce di segno contrario

cfr. Cass., sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1417).

VII. DELITTI CONTRO FAMIGLIA

Alterazione di stato e surrogazione di maternità

Cass., Sez. VI, 11 novembre 2015 (dep. 26 febbraio 2016), n. 8060 e Cass. Sez. V, 10 marzo (dep.

5 aprile) 2016, n. 13525, in relazione al delitto di alterazione di stato ex art. 567 cp a seguito di

trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero in riferimento ad un minore nato tramite

surrogazione di maternità, pervengono a conclusioni opposte: la prima nel senso

dell’integrazione del delitto ogniqualvolta il nato non risulti geneticamente “figlio” dei

genitori, ove costoro traggano in inganno l’ufficiale di stato civile; la seconda invece esclude

tale possibilità ove sia osservata la lex loci.

Rilevanza penale del Mobbing

Cass. Pen., Sez. VI, 22 ottobre 2014 (dep. 22 dicembre 2014), n. 53416, sulla rilevanza penale del

mobbing ex art. 572 cp anche in imprese medio-grandi.

VIII. DELITTI CONTRO LA PERSONA

Cass., sez. un., 14 aprile 2014, n. 16207, sul reato di prostituzione minorile di cui all’art. 600-

bis, c.p., in particolare sul concetto di induzione alla prostituzione (da ultimo, cfr. Cass.,

sez. III, 12 marzo 2015, n. 10487; Id., 17 febbraio 2015, n. 6821).

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Cass., sez. III, 1 dicembre 2014, n. 49990, sul reato di violenza sessuale, in particolare

sull’interpretazione dell’espressione “abuso di autorità” di cui all’art. 609-bis c.p.

Cass., sez. III, 30 luglio 2013, n. 32928, su violenza sessuale di gruppo e concorso di

persone (in tema cfr. anche Cass., sez. III, 17 aprile 2014, n. 17004; Id., 18 luglio 2014, n.

31842).

Sul reato di atti persecutori:

- Cass., sez. III, 14 novembre 2013, n. 45648, con particolare riferimento all’ipotesi di reciproci

comportamenti molesti e sui rapporti con il reato di violenza sessuale (sul reato di cui all’art.

612-bis c.p., cfr. anche Cass., sez. V, 19 maggio 2014, n. 20531; Id., sez. III, 11 febbraio 2014, n.

6384);

- Cass., sez. V, 16 gennaio 2015, n. 2283 (in senso conforme, cfr. Cass., sez. V, 25 maggio 2011,

n. 20895) e Cass., sez. III, 13 giugno 2013, n. 25889 (in senso conforme, cfr. Cass., sez. III, 18

novembre 2013, n. 46179) sui rapporti tra il reato di atti persecutori e quello di violenza privata

(secondo la prima pronuncia le due fattispecie possono concorrere, mentre la seconda rileva la

specialità del reato di cui all’art. 610 rispetto all’art. 612-bis).

- Stalking: nozione di violenza alla persona

Cass. pen., ord. 9 luglio 2015 (dep. 20 ottobre 2015), n. 42220, in tema di c.d. stalking, ha

rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: "se l'espressione normativa violenza alla

persona, di cui agli artt. 408, comma 3 bis c.p.p., introdotto con l'art. 2, comma primo, lett. G

d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, con la legge 15 ottobre 2013, n. 119, e

393 e 649, comma terzo c.p., comprenda le sole condotte di violenza fisica o includa anche

quelle di minaccia, e se di conseguenza il reato di cui all'art. 612 bis c.p. sia incluso fra quelli

per i quali il citato art. 408, comma 3 bis c.p.p. prevede la necessaria notifica alla persona offesa

dell'avviso della richiesta di archiviazione". Secondo l'informazione provvisoria diffusa dalla

Suprema Corte, al quesito è stata data soluzione affermativa, con la l'ulteriore precisazione

che la stessa soluzione si impone «anche con riguardo al reato di cui all'art. 572 cod. pen.».

Reati lungo-latenti e consumazione

Cass. pen., 17 aprile 2015, n. 22379, in tema di irretroattività sfavorevole e reati lungo-latenti

(nel senso di determinare la normativa applicabile in riferimento all’evento anziché alla

condotta), in relazione all’art. 589, co. 3 c.p.

IRRETROATTIVITÀ SFAVOREVOLE E REATI D’EVENTO “LUNGO-

LATENTE”:

Riflessioni a margine di una discutibile pronuncia della Cassazione (Cass. pen., 17 aprile 2015,

n. 22379, Pres. Zecca, Rel. Piccialli, ric. Sandrucci e al.) e considerazioni sui rimedi esperibili a

Strasburgo di Stefano Zirulia

All. 2

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Cass. Pen., Sez. VI, 10.3.2015 (dep. 28.5.2015), n. 22526, secondo cui "L'art. 602 quater,

introdotto dalla l. n. 172/2012, incide sull'elemento soggettivo delle figure di reato in

esso richiamate (compresa in particolare la prostituzione minorile) riducendo l'area

dell'errore di fatto scusabile (art. 47 comma 1 c.p.). Ne consegue che, in relazione ai

fatti di reato commessi prima della sua introduzione, rappresenta una modifica in senso

sfavorevole all'autore del reato, che non può essere applicata retroattivamente".

Cass., sez. IV, sent. 19 novembre 2015, dep. 24 marzo 2016, n. 12478, sul terremoto di

L’Aquila in tema di omicidio colposo

All. 3

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Selezione giurisprudenziale

IV. DELITTI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO

Cass., sez. un., 13 giugno 2014, n. 25191, sui rapporti tra associazione mafiosa e riciclaggio (sui

rapporti tra riciclaggio e reati presupposto, da ultimo, Cass., sez. II, 4 marzo 2015, n. 9392).

(omissis)

7. La Prima Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato ratione materiae, registrata l'esistenza di un

contrasto di giurisprudenza sul tema centrale che ha formato oggetto del ricorso, con ordinanza del 1 ottobre

2013 (depositata il successivo 28 novembre), ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, a norma dell'art.

618 c.p.p..

7.1. L'ordinanza di rimessione osserva che, nella giurisprudenza della Suprema Corte, esistano due orientamenti

interpretativi.

Il primo indirizzo, parte dalla considerazione che tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per

delinquere non esiste alcun rapporto di "presupposizione" e non opera la clausola di riserva ("fuori dei

casi di concorso nel reato") che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio dei beni

provenienti dall'attività associativa. Pertanto, il concorrente nel reato associativo può essere chiamato a

rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa sia quando il delitto

presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso

dell'associazione (Sez. 2, n. 44138 del 08/11/2007, Rappa, Rv. 238311; Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005,

Cardati, Rv. 232524; Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Bertolotti, Rv. 223689) sia quando il delitto

presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sè idoneo a produrre proventi illeciti,

rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività

economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, Rv. 242665).

Sulla stessa linea, Sez. 1, n. 40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv. 251166; Sez. 2, n. 27292 del 04/06/2013,

Aquila, Rv. 255712.

Tali principi opererebbero anche con riguardo al delitto previsto dall'art. 648 ter c.p..

In base al secondo indirizzo, una volta che il delitto associativo di tipo mafioso sia ritenuto

potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego,

non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche per escludere anche per esso l'operatività della cosiddetta

clausola di riserva "fuori dei casi di concorso nel reato", contenuta negli artt. 648-bis e 648-tercod. pen.

(Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv. 253010).

7.2. Alla luce del rilevato contrasto, la Prima Sezione penale, nel rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, ha così

formulato la questione di diritto: "Se sia configurabile il delitto di riciclaggio previsto dall'art. 648-ter cod. pen. nei confronti di

un imputato al quale sia stato contestato anche il delitto previsto dall'art. 416 bis c.p., comma 6, nel caso in cui il reimpiego

riguardi capitali provenienti dalla attività illecita svolta dalla stessa associazione mafiosa di

appartenenza".

(omissis)

1. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è dunque il seguente: "Se sia configurabile

il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter c.p., e quello di cui all'art. 416 bis c.p., quando la

contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti proprio dal

delitto di associazione mafiosa".

2. Ai fini del corretto inquadramento delle problematiche sottoposte all'esame del Collegio occorre prendere le

mosse dagli interventi legislativi che hanno introdotto nell'ordinamento penale i delitti previsti dagli artt. 648 bis

e 648 ter c.p..

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2.1. Il D.L. 21 marzo 1978, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 maggio 1978, n. 191, inseriva il

nuovo art. 648 bis c.p., sotto la significativa rubrica "Sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina

aggravata, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione". Veniva in tal modo per la prima

volta disciplinata un'autonoma fattispecie incriminatrice volta a perseguire le condotte di "trasformazione" dei

beni provenienti da un numero chiuso di delitti, condotte che, in precedenza, ricadevano nelle previsioni della

ricettazione, del favoreggiamento personale o di quello reale, a seconda dei relativi dati tipizzanti e dell'elemento

soggettivo. In questa prima fase, l'attenzione del legislatore era prevalentemente rivolta ad ostacolare e a

reprimere i reati-presupposto, come desumibile dalla struttura del delitto quale reato a consumazione anticipata,

per la configurabilità del quale erano sufficienti "fatti" o "atti" diretti alla sostituzione del denaro o dei valori,

posti in essere al fine di procurare a sè o ad altri un profitto. La nuova figura criminosa si caratterizzava, quindi,

per la sua peculiare e ambivalente fisionomia: esso, infatti, non si connotava per una sua spiccata autonomia nè

era rivolto al contrasto del "riciclaggio" in quanto tale, ma svolgeva piuttosto una funzione sussidiaria rispetto ai

reati presupposto, di cui condivideva l'oggetto giuridico, comprensivo della tutela non del solo patrimonio, ma

anche dell'ordine pubblico; al contempo, al pari della ricettazione e del favoreggiamento personale e reale,

prevedeva una "clausola di esclusione" rispetto all'ipotesi del concorso nei reati presupposto.

2.2. Le modifiche apportate all'art. 648 bis c.p., dalla L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 23, ("Nuove disposizioni per la

prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale"),

motivate dall'esigenza di conformare la normativa interna agli impegni assunti in sede di adesione alla

Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico di stupefacenti (adottata a Vienna il 20 dicembre e ratificata

con legge 5 novembre 1990, n. 328), caratterizzavano in maniera più accentuatamente autonoma il reato.

Esse costituivano altresì il recepimento, sul versante interno, dei principi affermati dalla Dichiarazione dei

principi di Basilea del 12 dicembre 1988 e dal Comitato internazionale di esperti delle Amministrazioni

finanziarie per lo studio del riciclaggio, (c.d."Comitato di azione finanziaria", GAFI) in seno al vertice dei Capi di

Stato e di Governo dei sette Paesi più industrializzati svoltosi a Parigi nel 1989, dal quale ha tratto origine una

parte significativa della normativa in questa materia.

Oltre ad assumere l'espressa denominazione di "riciclaggio", la fattispecie incriminatrice estendeva il novero dei

reati presupposto ai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti. Ampliava, inoltre,

l'oggetto materiale della condotta ("denaro, beni o altre utilità"), riferito non solo a proventi derivanti da atti

ablatori di ricchezze, ma anche a quelli originati da processi creativi delle stesse ed espressivi di realtà economiche

più complesse. Eliminava ogni richiamo alla finalità di procurare a sè o ad altri profitto o aiuto, con il chiaro

intento di recidere definitivamente qualsiasi collegamento con i reati di ricettazione e di favoreggiamento.

Aggravava, poi, il complessivo trattamento sanzionatorio e introduceva un'aggravante per l'ipotesi in cui il fatto

fosse stato commesso nell'esercizio di un'attività professionale, così rivelando una nuova consapevolezza della

dimensione di criminalità economica organizzata espressa dal reato.

2.3. Con la L. 9 agosto 1993, n. 328, che ratificava e dava esecuzione alla Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il

sequestro e la confisca di proventi del reato, adottata dal Consiglio d'Europa a Strasburgo l'8 novembre 1990, il

testo dell'art. 648 bis c.p., subiva ulteriori modifiche: veniva eliminata la categoria "chiusa" dei reati-presupposto,

estesa a tutti i delitti non colposi; la condotta materiale del reato era estesa non solo alla sostituzione dei beni,

bensì anche al trasferimento dei proventi illeciti - evocativo di meccanismi traslativi di occultamento della genesi

delle ricchezze - e al compimento di "altre operazioni in modo da ostacolare l'identificazione", comportamento

quest'ultimo indicativo di uno scopo, più che di un evento, a differenza di quanto in precedenza previsto

("ostacola l'identificazione").

Per tale via veniva assicurata la tutela penale a tutte e tre le fasi attraverso le quali si realizza il riciclaggio: a) il

"collocamento" (placement), consistente nell'insieme delle operazioni intese a trasformare il denaro contante in

moneta scritturale ovvero in saldi attivi presso intermediari finanziari; b) la stratificazione (layering),

comprendente qualsiasi operazione che fornisce alla ricchezza proveniente da reato una copertura tale da

renderne apparentemente legittima la provenienza; c) l'integrazione (integration), consistente nella reimmissione

della ricchezza ripulita nel circuito economico legale.

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2.4. Con la L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 24, era poi stato introdotto nel codice penale l'art. 648 ter ("Impiego di

denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita"), che configurava come illecito penale l'impiego in attività

economiche o finanziarie di quegli stessi proventi illeciti (denaro, beni e altre utilità) richiamati nella descrizione

dell'oggetto materiale del delitto di riciclaggio. La rato della disposizione era quella di non lasciare vuoti di tutela a

valle dei delitti di riciclaggio e ricettazione e di sanzionare anche la fase terminale delle operazioni di recycling (il

c.d. integration stage), ossia l'integrazione del denaro di provenienza illecita nei circuiti economici attraverso

l'immissione nelle strutture dell'economia legale dei capitali previamente ripuliti. L'obiettivo evidente, sotteso

all'introduzione della nuova fattispecie, era, quindi, quello di tutelare la fase successiva rispetto a quella relativa

all'area d'intervento prevista dalla ricettazione e dal riciclaggio. La disposizione in esame era, infatti, tesa ad

evitare il successivo impiego del denaro ripulito in legittimi investimenti. In sostanza si preoccupava di colpire

tutte quelle operazioni insidiose in cui il denaro di provenienza illecita, immesso nel circuito lecito degli scambi

commerciali, tende a far perdere le proprie tracce, camuffandosi nel tessuto economico- imprenditoriale.

2.5. Il legislatore, nell'introdurre la nuova fattispecie, l'ha dunque disegnata in forma residuale rispetto ai delitti di

ricettazione e di riciclaggio, come si desume dalla doppia clausola nell'incipit della disposizione ("Fuori dei casi di

concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648 bis") che circoscrive in maniera significativa il suo

ambito di applicazione. Con tale norma, secondo una parte della dottrina, il legislatore ha inteso rendere possibile

la responsabilità per la condotta anche quando non è dato provare che l'agente che impiega il bene proveniente

da delitto sia consapevole di tale provenienza al momento in cui l'ha ricevuto, mentre vi sia la prova di tale

consapevolezza (comunque necessaria) in un altro e successivo momento. Altri Autori hanno osservato che la

previsione realizza, nel sistema di tutela dell'ordinamento dalla creazione di patrimoni illeciti, una particolare

forma di progressione criminosa, composta secondo un'ideale scala crescente di disvalore.

Tali rilievi, uniti all'analisi del testo della norma, nel quale è assente la locuzione "in modo da ostacolare

l'identificazione della provenienza delittuosa" (presente, invece, nell'art. 648-bis, cod. pen.) e l'abbandono di una

prospettiva "accessoria" rispetto ai reati presupposto, hanno fatto propendere per la natura plurioffensiva della

fattispecie che, pur se collocata tra i delitti contro il patrimonio, appare maggiormente orientata alla tutela dalle

aggressioni al mercato e all'ordine economico e ad evitare l'inquinamento delle operazioni economico-finanziarie

(Sez. 2, n. 4800 del 11/11/2009, Aschieri, Rv. 246276).

3. Le tappe significative di questa articolata elaborazione normativa possono essere colte mediante l'analisi

diacronica della giurisprudenza.

Inizialmente, le modifiche introdotte dal D.L. n. 59 del 1978, venivano valorizzate soprattutto nella loro valenza

dissuasiva alla realizzazione di vantaggi patrimoniali grazie alla commissione dei reati-presupposto e nella loro

finalità di contrasto degli stessi (Sez. 2, n. 2347 del 30/06/1980, Vilasi, Rv. 145758; Sez. 2, n. 11011 del

19/09/1988, Agresta, Rv. 179703). A seguito delle modifiche apportate nel 1990 e nel 1993, gli artt. 648 bis e 648

ter c.p., venivano letti come una forma di "particolare ricettazione", atteso che il riciclaggio presuppone il più

delle volte l'acquisto o la ricezione dei beni di provenienza delittuosa e che l'impiego degli stessi in attività

economiche o finanziarie ne presuppone il riciclaggio o rappresenta esso stesso una forma di riciclaggio (Sez. 6,

n. 3390 del 14/07/1994, Masito, Rv. 201066). Al contempo veniva sottolineata l'irrisolta dicotomia sottesa agli

interventi del legislatore, tesi, per un verso, ad incidere sui proventi dei reati presupposto impedendone la

realizzazione e, per altro verso, a scongiurare qualsiasi forma di contaminazione tra economia legale e ricchezza

illecite.

La complessità della vicenda normativa, che ha condotto ad una moltiplicazione dei tipi codicistici, si è riflessa

inevitabilmente nella ricostruzione dell'oggetto giuridico del reato, indubbiamente caratterizzato da una

polivalenza di scopi politico-criminali. Si è, infatti, correttamente osservato che le condotte di riciclaggio non

offendono solo l'ambito patrimoniale, ma incidono sull'interesse all'accertamento dei fatti - rendendo più difficile

la ricostruzione della provenienza illecita dei beni riciclati - e sull'ordine economico (Sez. 2, n. 25773 del

12/06/2008, Fiore, Rv. 241444), atteso che la ricollocazione d'ingenti ricchezze sui mercati finanziari di ricchezze

illecite rappresenta un meccanismo d'inquinamento dell'economia, del mercato, della libera concorrenza, della

stabilità ed affidabilità degli intermediari finanziari (come desumibile anche dal D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231,

attuativo della direttiva 2005/60/CE, concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di

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riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, nonchè della direttiva

2006/70/CE, che ne reca misure di esecuzione), arrivando a compromettere l'uguaglianza nei rapporti economici

e la libertà d'iniziativa economica (artt. 3 e 41 Cost.).

La plurioffensività dei delitti disciplinati dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p., costituisce uno dei profili che

giustificano l'affermazione che il delitto di riciclaggio è speciale rispetto alla ricettazione (cfr. ex plurimis Sez. 2, n.

43730 del 12/12/2010, Gizzi, Rv. 248976; Sez. 2, n. 32901 del 09/05/2007, Batacchi, Rv.237488; Sez. 2, n.

199707 del 19/02/2009, Abruzzese, Rv. 244879), ferma restando la loro reciproca distinzione anche per

l'elemento materiale e per quello soggettivo (Sez. 2, n. 25940 del 12/02/2013, Bonnici, Rv. 256454; Sez. 2, n.

35828 del 09/05/2012, Acciaio, Rv.253890; Sez. 2, n. 47088 del 14/10/2003, Di Capua, Rv. 227731; Sez. 2, n.

13448 del 23/02/2005, De Luca, Rv. 231053), e che analogo rapporto di specialità esiste tra il delitto di

riciclaggio e quello di reimpiego (Sez. 2, n. 18103 del 10/01/2003, Sirani, Rv. 224394;Sez. 2, n. 29912 del

17/05/2007, Porzio, Rv. 237262; Sez. 4, n. 6534 del 23/03/2000, Aschieri, Rv. 216733).

Il complesso degli interventi legislativi in precedenza ricordati e l'esame della giurisprudenza conseguentemente

formatasi mette in luce una progressiva e sempre più accentuata autonomia dei reati di riciclaggio e di reimpiego

rispetto al reato presupposto, una loro chiara emancipazione rispetto ad ipotesi di partecipazione post delictum al

reato precedentemente commesso, un loro netto affrancamento concettuale e strutturale dalla categoria della

complicità criminosa.

4. Tanto premesso, si tratta di cogliere il nesso esistente tra le connotazioni assunte dai delitti di

riciclaggio e reimpiego (quali desumibili dagli interventi legislativi in precedenza illustrati) e la

clausola, contenuta nell'incipit delle due disposizioni, che prevedono entrambe l'impunità per tali reati

nei confronti di colui che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto. Le due

ipotesi di delitto esordiscono facendo salvi i casi di concorso di persone nel reato, con la conseguenza

che il riciclaggio e l'impiego di denaro, beni o utilità, posti in essere dai partecipi dei delitti dai quale

essi provengono non determinano l'attribuzione di una responsabilità ulteriore rispetto a quella che

deriva dall'art. 110 c.p..

Il significato di tale clausola ("fuori dei casi di concorso nel reato) è stato variamente interpretato.

In giurisprudenza si è affermato che essa esprime un rapporto di sussidiarieta espressa, funzionale a delineare un

concorso apparente di norme in luogo di un concorso di reati (Sez. 2, n. 47375 del 06/11/2009, Di Silvio, Rv.

246433 e 246434).

Tale tesi è stata oggetto di alcuni rilievi critici. Innanzitutto si è osservato che la sussidiarieta presuppone norme

incriminatrici che convergono su un medesimo "fatto" e che dunque, non può sussistere un rapporto di

sussidiarietà tra riciclaggio e delitto presupposto che si qualificano per condotte fra loro profondamente diverse.

Si è, inoltre, argomentato che la sussidiarietà richiede o diversi gradi di offesa ad un medesimo bene o,

comunque, la convergenza nella delineazione di un complessivo assetto di tutela in relazione a determinati

interessi. Sotto questo profilo, l'analisi comparativa tra la pluralità dei reati-presupposto e i delitti di riciclaggio e

reimpiego evidenzia l'insussistenza di un rapporto di gradualità o di complementarietà, avuto riguardo alla

significativa divergenza dell'offensivita dei fatti e alla eterogeneità dei rispettivi oggetti giuridici. La stessa diversità

del trattamento sanzionatorio è stata valorizzata quale argomento di conferma del fatto che la sussidiarieta è una

categoria inidonea a qualificare i rapporti tra reato presupposto, riciclaggio, reimpiego, considerato che, spesso,

queste ultime due fattispecie sono punite più severamente del primo.

Una parte della dottrina evoca il principio del ne bis in idem sostanziale quale linfa del criterio dell'assorbimento

(o consunzione), osservando che punire a titolo di riciclaggio l'autore del reato presupposto comporterebbe una

doppia punizione per un medesimo fatto, unitariamente voluto dal punto di vista normativo.

Tale richiamo - secondo altri Autori - non tiene conto dell'insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25887 del

26/03/2003, Giordano, Rv. 224605-08). Le norme del cui "assorbimento" si discute devono, infatti, perseguire

scopi per loro natura omogenei, pur escludendosi che l'omogeneità si traduca in identità del bene giuridico. Lo

scopo perseguito dalla norma che prevede il reato meno grave è assorbito da quello concernente il reato più

grave. La punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo e la condotta successiva rappresenta

un normale sviluppo di quella antecedente, attraverso la quale il soggetto realizza l'utile perseguito con il primo

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reato o se ne assicura il frutto. E' soltanto in questi limiti che, in ossequio al principio di proporzione tra fatto e

pena che ispira l'ordinamento penale, non è ammessa una duplicazione di tutela e di sanzione.

L'eterogeneità dei beni giuridici tutelati rispettivamente dal delitto presupposto e da quelli di riciclaggio e

reimpiego impedisce di ritenere che la punizione per il reato presupposto possa "assorbire" il disvalore dei reati

previsti dagli artt. 648 bis e 648- ter cod. pen. Al riguardo è stata sottolineata la circostanza che talora i delitti di

riciclaggio o di reimpiego sono assistiti da una sanzione penale più elevata rispetto a quella prevista per il reato

presupposto.

Infine, una parte della giurisprudenza (Sez. 5, n. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv.236254) e della dottrina

ricollegano la clausola presente nell'incipit degli artt. 648 bis e 648 ter c.p., al post factum non punibile,

osservando che il disvalore della condotta susseguente è già incluso in quella precedente che integra il reato più

grave e che le operazioni d'investimento dei proventi dei delitti costituiscono il normale sbocco della precedente

attività criminale. Pertanto, essendo tali condotte strettamente funzionali agli illeciti principali, sarebbe l'antefatto

delittuoso a risolvere "sostanzialmente" il contenuto offensivo della condotta consequenziale.

Tale criterio è considerato inappagante da una parte delle dottrina, tenuto conto dell'eterogeneità dei delitti

presupposto e del corredo di sanzioni potenzialmente più gravi per le attività post - delictum rispetto a quelle

previste per il reato base all'esito delle modifiche normative in precedenza ricordate.

In altra prospettiva si è osservato che l'esclusione della sanzione penale nei confronti di colui che ricicla o

reimpiega i proventi derivanti da un delitto da lui stesso in precedenza commesso costituisce una causa soggettiva

di esclusione della punibilità alla cui stregua il legislatore, pur riconoscendo il disvalore penale del fatto, rinuncia

ad irrogare per esso la pena. La ratio di questa scelta viene individuata nell'esigenza di evitare cause pressochè

automatiche di aggravamento della responsabilità, indipendenti dal disvalore rinvenibile nel riciclaggio o nel

reimpiego del bene e degli effetti ad esso ricollegabili, nell'irragionevolezza di un'indiscriminata risposta

sanzionatoria a fronte di un'ampia varietà delle singole situazioni concrete e della differente pericolosità del loro

concreto atteggiarsi, nonchè nella volontà di scongiurare meccanismi presuntivi nella ricostruzione del fatto

tipico e delle responsabilità per il reato presupposto.

Indipendentemente dalla ricostruzione dogmatica della clausola, il Collegio tuttavia ritiene che la previsione che

esclude l'applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o

concorso a commettere il delitto presupposto costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione

di essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l'intero disvalore dei fatti ricompreso nella

punibilità del solo delitto presupposto.

5. Così ricostruito l'intervento normativo, occorre anzitutto verificare se il delitto di associazione di tipo

mafioso possa costituire di per sè una fonte di ricchezza illecita suscettibile di riciclaggio o di

reimpiego, indipendentemente dalla commissione di singoli reati-fine.

5.1. Il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, ritiene che il delitto di

associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere

dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre

vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso (omissis.).

Depongono in tal senso plurimi elementi interpretativi.

Su un piano letterale devono essere valorizzati la rubrica e il dato testuale dell'art. 416 bis c.p..

La significativa diversità tra la rubrica dell'art. 416 c.p., ("Associazione per delinquere") e quella dell'art. 416 bis

c.p., ("Associazioni di tipo mafioso anche straniere") rispecchia la differenza ontologica delle due fattispecie,

l'una preordinata esclusivamente alla commissione di reati, l'altra contraddistinta da una maggiore articolazione

del disegno criminoso.

L'associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti. L'art.

416 bis c.p., comma 3, individua il "metodo mafioso" mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti -

forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà - da

considerare tutti e tre come elementi necessari ed essenziali, perchè possa configurarsi questo reato associativo,

come del resto si desume senza possibilità di dubbio dall'uso della congiunzione "e" impiegata nel testo

normativo.

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Il ricorso specifico, da parte di ciascun membro del gruppo, all'intimidazione, all'assoggettamento e all'omertà

non costituisce una modalità di realizzazione della condotta tipica - la quale si esaurisce nel fatto in sè di

associarsi, ovvero di promuovere, dirigere, organizzare un'associazione di questo tipo, apportando un certo

contributo all'esistenza dell'ente - ma costituisce l'elemento strumentale tipico di cui gli associati si avvalgono in

vista della realizzazione degli scopi propri dell'associazione. La tipicità del modello associativo delineato dall'art.

416 bis c.p., risiede, quindi, nella modalità attraverso cui l'associazione si manifesta concretamente (modalità che

si esprimono nel concetto di "metodo mafioso").

La maggiore ampiezza degli scopi perseguiti dal sodalizio di stampo mafioso, delineati nel terzo comma dell'art.

416 bis c.p., in modo alternativo, esprime, traducendole nello schema della fattispecie penale, le più recenti

dinamiche delle organizzazioni mafiose, che cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di

azioni criminose, ma anche in altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi

derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati, il controllo delle attività economiche attuato mediante il ricorso

alla metodologia mafiosa, la realizzazione di profitti o vantaggi non tutelati in alcun modo, nè direttamente nè

indirettamente, dall'ordinamento e conseguiti avvalendosi della particolare forza d'intimidazione del vincolo

associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano.

Particolarmente significativo appare, altresì, l'art. 416 bis c.p., comma 7, che, nel prevedere la confisca

obbligatoria, nei confronti del condannato per tale reato, delle cose costituenti il prezzo, il prodotto, il profitto

del reato o l'impiego dei predetti proventi, presuppone che l'associazione in quanto tale sia produttiva di

ricchezze illecite. Qualora, invece, si ritenesse che il presupposto dei delitti di riciclaggio o di reimpiego possa

essere rappresentato unicamente dai profitti acquisiti grazie alla commissione dei singoli reati-fine, e non negli

altri casi, si giungerebbe a conseguenze prive di qualsiasi intrinseca razionalità e coerenza: sarebbe, infatti,

obbligatoria, ai sensi dell'art. 416 bis c.p., comma 7, soltanto la confisca dei profitti conseguiti grazie alle attività -

diverse da quelle consistenti nella commissione dei singoli delitti - gestite con metodologia mafiosa

dall'associazione; al contrario, sarebbe meramente facoltativa, ai sensi dell'art. 240 c.p., la confisca dei profitti

derivanti dalla realizzazione dei reati-fine.

5.2. (omissis)

E', quindi, evidente che il contrasto giurisprudenziale non verte tanto sulla capacità dell'associazione

mafiosa in quanto tale di generare autonomamente ricchezza illecita, anche a prescindere dalla

realizzazione di singoli reati-scopo, quanto piuttosto sulle conseguenze logico-giuridiche derivanti da

tale affermazione.

5.3. Alla stregua delle argomentazioni sinora svolte deve, quindi, affermarsi il seguente principio di diritto: "Il

delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648 bis c.p.) e di reimpiego di capitali (art. 648 ter c.p.)

può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sè idoneo a produrre proventi illeciti".

6. Le opzioni ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al possibile ruolo di reato

presupposto del reato associativo ex art. 416 bis c.p., rappresentano l'antecedente logico della questione

riguardante l'applicabilità della clausola di riserva al concorrente nell'associazione o al partecipe.

Al riguardo è dato registrare un contrasto interpretativo che forma l'oggetto della questione rimessa alle Sezioni

Unite.

6.1. Al primo indirizzo - ritenuto prevalente nell'ordinanza di rimessione, ma in realtà non qualificabile come tale,

ove si abbia riguardo all'effettivo contenuto delle singole decisioni - vengono ascritte decisioni contraddistinte da

significative diversità e, in quanto tali, non suscettibili di essere accomunate.

Una prima pronunzia (Sez. 1, n. 40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv.251166), dopo avere argomentato che

l'associazione di stampo mafioso rientra nel novero dei reati-presupposto in ragione della sua capacità di

costituire di per sè fonte di ricchezza illecita, esclude l'applicabilità della clausola di riserva ("Fuori dei casi di

concorso nel reato") sia nel caso in cui i proventi delittuosi siano riconducibili all'associazione mafiosa in quanto

tale sia nel caso in cui essi derivino dai soli reati-fine. Tale conclusione viene giustificata in duplice modo: a)

richiamando l'assenza di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere ex art.

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416 c.p., a sua volta basata sul fatto che l'associazione per delinquere non è di per sè produttiva di proventi

illeciti, ove non vengano commessi i singoli reati-fine;

b) evocando l'indirizzo esegetico (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Ceccherini, cit.; Sez. 1, n. 1439 del

27/11/2008, Benedetti, cit.) secondo il quale l'associazione di stampo mafioso è riconducibile alla categoria dei

reati-presupposto del delitto di riciclaggio, indirizzo che, però, non si era pronunziato sulla non punibilità

dell'autoriciclaggio.

Una seconda decisione, riprendendo le osservazioni sviluppate dalla sentenza sopra menzionata (Sez. 1, n. 40354

del 27/5/2011, Calabrese, cit.), si esprime, invece, soltanto, escludendolo, sull'ammissibilità del concorso tra

associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74) e riciclaggio (art. 648

bis c.p.). Muovendo dal presupposto che l'associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, in quanto tale

non è di per sè produttiva di ricchezza illecita, ha negato l'operatività della clausola di riserva nei confronti

dell'imputato che non aveva concorso nella realizzazione dei singoli reati-scopo previsti dal D.P.R. n. 309 del

1990, art. 73), bensì soltanto nel delitto associativo (Sez. 2, n. 27292 del 04/06/20013, Aquila, Rv.255712).

Sulla base delle considerazioni sinora svolte è, quindi, evidente che le decisioni ricondotte al primo dei due

indirizzi giurisprudenziali ritenuti espressione del contrasto non hanno, in realtà, affrontato la specifica questione

sottoposta all'esame del Collegio.

6.2. Altre pronunzie hanno, invece, esaminato specificamente il tema del possibile concorso tra il delitto di cui

all'art. 416 bis c.p., e quello di reimpiego. Una prima sentenza (Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv.

253010) ha ritenuto non configurabile il reato previsto dall'art. 648-ter cod. pen., quando la contestazione di

reimpiego riguardi denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trovi la sua fonte nell'attività costitutiva

dell'associazione per delinquere di stampo mafioso ed è rivolta ad un associato cui quell'attività sia concretamente

attribuibile. In proposito argomenta che, ove si ritenga che il delitto associativo di tipo mafioso sia da considerare

per sè potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, "non

sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l'operatività della c.d.

clausola di riserva - fuori dei casi di concorso nel reato - anche per esso".

A conclusioni analoghe è pervenuta un'altra sentenza (Sez. 5, n. 17694 del 14/01/2010, Errico, non massimata),

che - sia pure incidentalmente - ha ammesso che il reato di associazione di tipo mafioso può costituire reato

presupposto del delitto di riciclaggio e ha affermato che nei confronti del soggetto cui siano stati contestati sia il

delitto di cui all'art. 416 bis c.p., che quello di riciclaggio opera la clausola di riserva.

Tale orientamento è confermato da un'altra decisione di questa Corte (Sez. 2, n. 9226 del 23/01/2013, Del

Buono, Rv. 255245) che ha affermato la non punibilità a titolo di riciclaggio del soggetto responsabile del reato

presupposto che abbia in qualunque modo sostituito o trasferito il provento di esso, anche nel caso in cui abbia

fatto ricorso ad un terzo inconsapevole, traendolo in inganno.

6.3. Il Collegio ritiene che le due sentenze ricondotte al primo orientamento (cfr. paragrafo 6.1.) fanno

impropriamente interagire, confondendo la loro valenza, principi attinenti ad aspetti tra loro profondamente

diversi e che operano su piani distinti: a) l'attitudine dell'associazione di stampo mafioso in quanto tale a produrre

proventi illeciti; b) la possibilità di ricomprendere tra i delitti presupposto di riciclaggio anche l'associazione di

stampo mafioso; c) il significato della clausola di riserva contenuta nell'art. 648 bis c.p.; d) la configurabilità del

delitto di riciclaggio nei confronti del concorrente nel delitto associativo presupposto (l'associato di rango

primario o secondario, nonchè il concorrente esterno).

Esse giungono ad affermare che il concorrente nel delitto associativo di stampo mafioso può essere chiamato a

rispondere anche di quello di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa sia quando il delitto

presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell'associazione

mafiosa sia quando esso sia costituito dallo stesso reato associativo di cui all'art. 416 bis c.p., di per sè idoneo a

produrre proventi illeciti, richiamando impropriamente, a sostegno della inoperatività della esclusione della

punibilità, i principi espressi da altre due decisioni (Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Ceccherini, cit.; Sez. 1, n.

1439 del 27/11/2008, Benedetti, cit.) che non avevano affrontato tale problematica, ma si erano limitate ad

analizzare (fornendo ad essa risposta affermativa) un'altra questione: se il delitto di associazione di stampo

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mafioso possa costituire o meno il presupposto di quello di riciclaggio, in quanto di per sè idoneo a produrre

proventi illeciti.

La corretta analisi della questione implica, invece, la netta individuazione dei successivi passaggi logici che essa

comporta. Una volta riconosciuta la capacità dell'associazione mafiosa in quanto tale di produrre

ricchezze illecite e ammessa la possibilità che il delitto previsto dall'art. 416 bis c.p., possa rientrare

nella categoria dei reati-presupposto della fattispecie di riciclaggio, si tratta di ricostruire l'esatto

significato e ambito applicativo della clausola presente nell'incipit degli artt. 648 bis e 648 ter c.p.,

("fuori dei casi di concorso nel reato"), di verificare le condizioni e i limiti del concorso nel reato

presupposto, di chiarire i rapporti tra clausola di riserva contenuta negli artt. 648 bis e 648 ter c.p., e i

reati associativi.

7. Gli artt. 648 bis e 648 ter c.p., stabiliscono che fra i soggetti agenti non è ricompreso colui che abbia

concorso nel reato presupposto. La valenza di tale previsione è anch'essa controversa sia in giurisprudenza che

in dottrina.

7.1. Un primo indirizzo interpretativo valorizza il c.d. criterio temporale che ha riguardo al momento in cui è

intervenuto l'accordo tra l'autore del reato presupposto e il soggetto deputato al riciclaggio o al reimpiego.

Argomenta, pertanto, che la promessa di assistenza o di aiuto nelle successive attività di riciclaggio o di illecito

reimpiego, prestata prima o durante l'esecuzione del delitto presupposto e idonea a suscitare o a rafforzare nel

suo autore il proposito criminoso, esclude la punibilità autonoma per i delitti previsti dagli artt. 648 bis e 648 ter

c.p.. Se, invece, l'accordo interviene successivamente, si configurano, a seconda dei casi e in presenza dei relativi

presupposti, i delitti di riciclaggio o di reimpiego, in quanto l'accordo non ha esercitato alcuna influenza causale

sulla realizzazione del reato presupposto.

7.2. Secondo un diverso orientamento, questo criterio non è appagante, in quanto eccessivamente schematico e

non pienamente rispondente ai principi generali del diritto penale in tema di concorso di persone nel reato. In

ossequio al criterio della determinazione causale si sottolinea, pertanto, che occorre stabilire se l'accordo

intervenuto anteriormente abbia fornito un contributo effettivo alla realizzazione del reato presupposto. Sotto

altro profilo si evidenzia che il riciclaggio (o il reimpiego) non può considerarsi come un mezzo necessario per la

realizzazione del fine perseguito dall'autore del delitto presupposto. Sulla base di queste premesse si argomenta

che ogni contributo causale che abbia determinato, sotto il profilo materiale o psicologico, la commissione del

reato presupposto integra l'ipotesi del concorso nello stesso.

Qualora l'accordo, pur se intervenuto antecedentemente alla commissione del reato presupposto, non abbia

esercitato su di esso alcuna efficacia, non si configurano gli elementi costitutivi del concorso nel medesimo.

Tale impostazione è recepita da quella parte della giurisprudenza che, in tema di riciclaggio di denaro, beni o altre

utilità provenienti da delitto, afferma che il criterio per distinguere la responsabilità in ordine a tale titolo di reato

dalla responsabilità per il concorso nel reato presupposto (che escluderebbe la prima in virtù della clausola di

riserva) non può essere unicamente quello temporale, ma occorre verificare, caso per caso, se la preventiva

assicurazione di "lavare" il denaro o di reimpiegarlo abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato,

nell'autore del reato principale, la decisione di delinquere (Sez. 5, In. 8432 del 10/01/2007, Gualtieri, Rv.

236254).

E', infine, non controverso che la condotta descritta nell'art. 648 bis c.p., può essere sussunta in una fattispecie di

concorso nel reato presupposto solo in presenza del necessario requisito psicologico: il soggetto deve

rappresentarsi gli effetti della propria condotta sulla realizzazione del c.d. reato principale e deve volerli come

consapevole contributo alla realizzazione dello stesso.

La dimensione probatoria, indubbiamente in parte evocata da questo indirizzo interpretativo, non pare

configurarsi - come pure prospettato da un'autorevole dottrina - come una "contaminazione" delle categorie

penalistiche, ma esprime piuttosto lo sforzo di una corretta traduzione, anche nei canoni di valutazione del fatto

dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato.

8. Le condizioni e i limiti della configurabilità del concorso fra il delitto associativo ex art. 416 bis c.p., e quelli di

riciclaggio (art. 648 bis c.p.) e reimpiego (art. 648 ter c.p.) devono essere ricostruiti in base al fatto tipico nelle sue

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connotazioni oggettive e soggettive, alla provenienza dei beni oggetto delle attività di riciclaggio o reimpiego, ai

principi in precedenza enunciati in tema di concorso nel reato presupposto.

L'estraneità del soggetto che ripulisce o reimpiega il denaro, i beni o le altre utilità sia all'organizzazione mafiosa

che ai delitti fine rende configurabile, nei suoi riguardi, in presenza dei rispettivi elementi costitutivi, le

contestazioni di riciclaggio o reimpiego, essendo da escludere qualsiasi suo apporto alla commissione dei reati

presupposto.

Il concorso del soggetto, non appartenente all'associazione mafiosa, nei soli reati-fine espressione

dell'operatività della stessa, comporta la responsabilità in ordine agli stessi, aggravati ai sensi del D.L. n. 152 del

1991, art. 7, quando l'oggetto dell'attività di riciclaggio o di reimpiego sia costituito da denaro, beni o altre utilità

conseguiti proprio grazie alla commissione dei suddetti reati.

Qualora il soggetto non fornisca alcun apporto all'associazione mafiosa, ma si occupi esclusivamente di

riciclare o reimpiegare il denaro, i beni, le altre utilità prodotti proprio dalla stessa, sono integrati i

presupposti applicativi delle sole fattispecie previste, rispettivamente, dall'art. 648 bis c.p., o dall'art. 648 ter c.p.,

non sussistendo alcun contributo alla commissione del reato presupposto.

Nei confronti del membro dell'associazione mafiosa che "ripulisca" o reimpieghi il denaro, i beni, o le

altre utilità riconducibili ai soli delitti-scopo, alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun apporto,

non opera la clausola di esclusione della responsabilità prevista dall'art. 648 bis c.p., in quanto l'oggetto

dell'attività tipica del delitto di riciclaggio non è direttamente ricollegabile al reato cui egli concorre.

Il partecipe del sodalizio di stampo mafioso che, nella ripartizione dei ruoli e delle funzioni all'interno

dell'associazione, abbia il compito di riciclare o reimpiegare la ricchezza prodotta dall'organizzazione

in quanto tale, non è punibile per autoriciclaggio, in quanto oggetto della sua condotta sono il denaro, i beni, le

altre utilità provenienti dall'associazione cui egli fornisce il suo consapevole e volontario contributo.

Infine, in adesione ai principi espressi dalle Sezioni Unite in tema di concorso esterno in associazione mafiosa

(Sez. U, n. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670 e 231679), risponde del delitto previsto dagli artt.

110, 416-bis cod. pen. il soggetto che, pur se non inserito stabilmente nella struttura organizzativa

dell'associazione di stampo mafioso e privo dell'affectio societatis, fornisca, mediante l'attività di

riciclaggio o di reimpiego dei relativi proventi, un concreto, specifico, consapevole e volontario

contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e si configuri, quindi, come condizione necessaria

per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un

suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, se si tratta di un sodalizio

particolarmente articolato. In tale ipotesi, infatti, l'apporto di colui che pone in essere le condotte di riciclaggio

o reimpiego caratterizzate, in base ad una valutazione ex post, da effettiva efficienza causale in relazione alla

concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo, costituisce un elemento essenziale e tipizzante della

condotta concorsuale, di natura materiale o morale.

Le argomentazioni sinora svolte consentono di affermare il seguente ulteriore principio di diritto: "Non è

configurabile il concorso fra i delitti di cui gli artt. 648 bis o 648 ter c.p., e quello di cui all'art. 416 bis

c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti

proprio dal delitto di associazione mafiosa".

(omissis)

Cass., sez. un., 23 aprile 2013, n. 18374, sull’applicabilità anche alla fattispecie associativa delle

aggravanti previste per i delitti-scopo, con particolare riguardo all’aggravante speciale della

transnazionalità ex art. 4 legge n. 146/2006 (da ultimo, cfr. anche Cass., sez. III, 20 gennaio 2015, n.

2458).

(omissis)

2. La questione di diritto, investita dal ricorso del V., che deve essere esaminata dalle Sezioni Unite, è la seguente:

"se la circostanza aggravante ad effetto speciale della c.d.transnazionalità, prevista dalla L. 16 marzo

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2006, n. 146, art. 4, sia compatibile con il reato di associazione per delinquere o sia applicabile ai soli

reati fine".

3. (omissis)

4. Il tema anzidetto ha costituito oggetto di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di questa Corte

regolatrice, nei termini già segnalati dall'Ufficio del Massimario con relazione n. 15 del 18 aprile 2011.

Ed invero un primo orientamento è espresso - in tema di associazione per delinquere dedita al narcotraffico,

prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, - da Sez. 5, n. 1937 del 15/12/2010, dep. 21/01/2011, Dalti,

Rv. 249099, secondo cui la speciale aggravante è concettualmente ed ontologicamente incompatibile con l'ipotesi

associativa, sul riflesso che la detta circostanza presuppone l'esistenza del gruppo criminale organizzato e può

accedere, pertanto, ai soli reati costituenti la diretta manifestazione dell'attività del gruppo (c.d. reati-fine

dell'associazione) ovvero di quelli ai quali il gruppo abbia prestato un contributo causale.

Il secondo orientamento - nel senso dell'applicabilità della circostanza aggravante anche al reato associativo - è,

invece, sostenuto da un maggior numero di pronunce emesse da diverse Sezioni(omissis)

5. All'esame della questione di diritto giova premettere un breve richiamo al contesto normativo di

riferimento.

La L. n. 146 del 2006, art. 4, recante l'intestazione: "Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli

delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'Assemblea generale il 15 novembre

2000 ed il 31 maggio 2001", così dispone:

"1. Per i reati previsti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione

dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di

uno Stato la pena è aumentata da un terzo alla metà. - 2. Si applica altresì il D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7,

comma 2, convertito, con modificazioni dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni".

Si tratta, in tutta evidenza, di circostanza "speciale" - in quanto applicabile solo a determinati reati, ritenuti gravi

siccome puniti con pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione - e, ad un tempo, "ad effetti

speciali", in ragione dell'entità dell'aumento di pena previsto, superiore ad un terzo, ai sensi dell'art. 63 c.p.,

comma 3.

All'operatività dell'aggravante è stato esteso il divieto di bilanciamento con le circostanze attenuanti diverse da

quelle di cui agli artt. 98 e 114 c.p., previsto, per reati connessi ad attività mafiose, dal D.L. 13 maggio 1991, n.

152, art. 7, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, ad eloquente sottolineatura

della particolare pericolosità attribuita dal legislatore a fatti-reato alla cui realizzazione abbia dato un contributo

causale un gruppo criminale organizzato "impegnato in attività criminali in più di uno Stato".

5.1. La lettura della norma in parola non può andare disgiunta - nell'ineludibile esigenza di una prospettiva

sistematica - dall'esame di quella immediatamente precedente, che, recando la definizione di "reato

transnazionale", è con essa intimamente connessa, nell'assumere un ruolo di indubbia centralità nella complessiva

impalcatura della disciplina in questione.

L'art. 3 dispone: "Ai fini della presente legge si considera reato transnazionale il reato punito con la pena della

reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato,

nonchè: - a) sia commesso in più di uno Stato; - b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale

della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo intervenga in un altro Stato; - c) ovvero sia

commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali

in più di uno Stato; - d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato".

5.2. Com'è fatto palese dalla riferita intestazione, la legge n. 146 del 2006 autorizza la ratifica della Convenzione

delle Nazioni Unite, sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000, correntemente

intesa "Convenzione di Palermo" o TOC Convention (da Transnational Organized Crime Convention). I

Protocolli aggiunti alla Convenzione, cui si fa espresso richiamo per farne parte integrante, riguardano,

rispettivamente, il traffico di immigrati clandestini (smuggling), la tratta degli esseri umani (trafficking), con

specifico riferimento allo sfruttamento di donne e bambini (exploitation), ed il traffico di armi da fuoco e relative

munizioni.

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5.3. Scopo della Convenzione - efficacemente scolpito dall'art. 1 - è quello di promuovere la cooperazione degli

Stati - parte per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace.

A fronte del dilagare di forme di criminalità organizzata travalicanti le frontiere nazionali, la comunità

internazionale ha preso coscienza della pericolosità di siffatta fenomenologia e della necessità che, ai fini di una

più efficace azione di contrasto, vengano adottate risposte capaci di rapportarsi alle nuove metodologie delle

organizzazioni criminali. In questa prospettiva di condivisione si è cercato di rendere, quanto più possibile,

omogeneo il piano di azione degli Stati - membri, mediante l'obbligo convenzionale di incriminare determinate

tipologie di attività illecite riconducibili a gruppi criminali internazionali (ed anche la mera partecipazione ad essi,

ai sensi dell'art. 5) e la previsione di forme di cooperazione giudiziaria e di polizia per rendere più efficaci gli

strumenti investigativi, in un quadro concertato di specifiche procedure di assistenza giudiziaria, estradizione,

trasferimento dei giudizi, sequestro e confisca dei proventi di reato e quant'altro.

D'altronde, già da tempo, in ambito internazionale, si era avuta chiara percezione della pericolosità di

aggregazioni attive in ambito transfrontaliero: eloquente segno, in tal senso, è costituito dall'elaborazione pattizia

della nozione "organizzazione criminale" recepita dall'art. 1 dell'Azione comune 98/733/GAI, relativa alla

punibilità della partecipazione a consorterie criminali negli Stati membri dell'Unione Europea, adottata il 21

dicembre 1998 dal Consiglio dell'U.E..

Anzi, proprio sulla relativa formulazione ("Ai fini della presente azione comune, per organizzazione criminale si

intende l'associazione strutturata di più di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo

scopo di commettere reati punibili con una pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza privativa

della libertà non inferiore a quattro anni o con una pena più grave, reati che costituiscono un fine in sè ovvero un

mezzo per ottenere profitti materiali e, se del caso, per influenzare indebitamente l'operato delle pubbliche

autorità") sembra disegnata la nozione di gruppo organizzato criminale ora in esame.

5.4. L'esigenza della previsione di un obbligo d'incriminazione delle fenomenologie delinquenziali in forma

organizzata va apprezzata sul rilievo che alla tradizione giuridica e culturale di alcuni Stati aderenti era estranea

l'elaborazione dell'associazionismo criminale, capace di sostanziare autonome configurazioni di reato. Il nostro

ordinamento, invece, sin dal lontano 1930, incriminava espressioni di delinquenza plurisoggettiva, dalla forma più

elementare del concorso di persone, ai sensi dell'art. 110 c.p., a quella più complessa dell'associazione per

delinquere di cui all'art. 416 c.p., Successivamente, sono state, via via, tipizzate peculiari fenomenologie di

aggregazione, come, tra le altre, l'associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati

esteri, di cui al D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 291 quater;

l'associazione di tipo mafioso, di cui all'art. 416 bis c.p.;

l'associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, di cui all'art. 74 T.U. stup.; sino alla violenza sessuale di

gruppo prevista dall'art. 609 octies c.p., e alle forme di discriminazione razziale di cui alla L. 13 ottobre 1975, n.

654, art. 3, che utilizza, alternativamente, le nozioni di organizzazione, associazione, movimento o gruppo.

6. Tornando, ora, alla legge di ratifica, il combinato disposto del L. n. 146 del 2006, artt. 3 e 4, consente, intanto,

di affermare che, per conformazione morfologica e strutturale, la transnazionalità non è elemento costitutivo di

un'autonoma fattispecie delittuosa, destinata ad incrementare il già cospicuo novero di illeciti dell'universo

penale. Si tratta, invece, di una peculiare modalità di espressione, o predicato, riferibile a qualsivoglia delitto (con

esclusione, quindi, delle contravvenzioni), a condizione che lo stesso, sia per ragioni oggettive sia per la sua

riferibilità alla sfera di azione di un gruppo organizzato operante in più di uno Stato, assuma una proiezione

transfrontaliera.

Il "reato transnazionale" è, dunque, nozione definitoria che si ricava dall'insieme degli elementi costitutivi di un

comune delitto e di quelli specifici, positivamente previsti.

6.1. In particolare, il citato art. 3 ancora la qualificazione della transnazionalità al concorso di tre distinti

parametri.

Il primo è connesso alla gravità del reato, determinata in ragione della misura edittale di pena (non inferiore nel

massimo a quattro anni di reclusione), dunque sulla base di un coefficiente di gravità non flessibile, bensì

predeterminato, peraltro in conformità della nozione di reato grave recepita dalla stessa Convenzione, che, nel

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"glossario" offerto dall'art. 2, qualifica "reato grave" proprio la condotta sanzionabile "con una pena privativa

della libertà personale di almeno quattro anni nel massimo o con una pena più elevata".

Il secondo criterio prevede il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato. Il lemma "coinvolto" che

figura nel testo normativo è sicuramente inusuale nel lessico penalistico, evocando espressioni di vago tenore

colloquiale o di conio prettamente giornalistico.

Si tratta, in realtà, della mera trasposizione letterale del termine che figura nel testo della Convenzione

(dall'inglese involving), ove assume una significazione volutamente generica, capace di compendiare, proprio per

ampiezza di formulazione, diversi modelli ordinamentali di incriminazione del fenomeno lato sensu associativo,

l'association de malfaiteurs, propria dei sistemi di civil law, l'associazione per delinquere di stampo mafioso,

tipicamente italiana, e la conspiracy, tradizionale strumento di contrasto giudiziario alla criminalità organizzata nei

sistemi penali di common law, in cui è, notoriamente, meno netta la distinzione tra concorso di persone e

fattispecie associative.

Nondimeno, trattandosi di approccio solo definitorio, può ritenersi che il termine alluda, genericamente, a

qualsivoglia forma di riferibilità del fatto-reato all'operatività di un gruppo criminale organizzato (quale esso sia e

tout court indicato, ossia indipendentemente dal suo impegno in attività criminali commesse in più di uno Stato,

come invece richiesto, più oltre, dalla previsione sub c); in breve, deve trattarsi di espressioni di criminalità in

forma organizzata, sicchè è agevole il rilievo che la dimensione organizzativa è componente coessenziale della

complessa fenomenologia criminale in questione.

Soggettiva "riferibilità", secondo l'interpretazione offerta dalle prime riflessioni dottrinarie sul tema, può essere

intesa in termini di interrelazione biunivoca, ossia come contributo alla commissione del reato offerto da uno o

più adepti del gruppo criminale organizzato, in adempimento del programma criminale dello stesso sodalizio,

ovvero come vantaggio che al gruppo oggetti va mente derivi, comunque, dall'attività delittuosa da altri posta in

essere.

Il terzo parametro si sostanza, invece, di uno degli elementi che la norma prevede, stavolta, in forma

alternativa: commissione del reato in più di uno Stato (a), commissione in uno Stato, ma con parte

sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato (b);

commissione in uno Stato, ma implicazione in esso di un gruppo criminale organizzato impegnato in

attività criminali in più di uno Stato (c); commissione in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali

in altro Stato (d).

6.2. La formalizzazione del connotato di transnazionalità, ancorchè priva di specifico contenuto precettivo e

sanzionatorio, non assolve, però, ad esigenza meramente definitoria o descrittiva, ma è, invece, foriera di rilevanti

effetti sul piano della disciplina sostanziale e processuale. Già questo lascia, chiaramente, intendere che la

connotazione in parola non è fine a se stessa, in quanto implica che, proprio per le dette ricadute, il fatto

delittuoso cui inerisce debba considerarsi, eo ipso, più grave rispetto alla forma ordinaria, in ragione del

coefficiente di maggiore pericolosità che l'ordinamento interno, in ottemperanza dei menzionati obblighi

convenzionali, era chiamato ad attribuire alla peculiare fenomenologia della criminalità organizzata

transnazionale.

Si intende fare riferimento, tra gli altri effetti, alla previsione della responsabilità amministrativa degli enti di cui

alla L. n. 146 del 2006, art. 10, che, proprio nel caso di commissione di uno dei reati previsti dall'art. 3, sancisce

l'applicabilità di particolari sanzioni amministrative in misura determinata; alla confisca obbligatoria anche per

equivalente prevista dall'art. 11 della stessa normativa proprio per i reati di cui al detto art. 3; all'estensione dei

poteri di indagine del pubblico ministero "nel termine e ai fini di cui all'articolo 430 del codice di procedura

penale", allo scopo di assicurare la confisca, nella massima estensione possibile, dei proventi dell'attività illecita, ai

sensi dell'art. 12; all’attribuzione al Procuratore distrettuale antimafia delle stesse competenze conferite al

procuratore della Repubblica ed al questore in tema di misure di prevenzione personali e patrimoniali, come

previsto – sempre per i reati di cui al menzionato art. 3 – dal successivo art. 13; alla possibilità del trasferimento

di processi penali (già prevista dall’art. 21 della Convenzione), che deve aver luogo esclusivamente nella forme e

nei limiti degli accordi internazionali.

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Dunque, tutta una serie di effetti “a cascata” che, come si è detto, valgono a conferire al reato transnazionale uno

specifico rilievo rispetto ad identica forma delittuosa priva di siffatta caratterizzazione.

7. Limitandosi ad introdurre una norma meramente definitoria, l’art. 3, non prevede, quindi, sanzione alcuna.

Invece, il successivo art. 4, introduce una speciale aggravante per il reato “grave” che sia commesso con il

“contributo” di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in più di uno Stato.

7.1. Dal raffronto delle due disposizioni balza evidente come la previsione della particolare aggravante sia stata

modellata su uno soltanto degli elementi alternativi rilevanti ai fini della definizione della transnazionalità, ossia

quello di cui alla lettera c). La circostanza è, dunque, “ritagliata” dalla definizione anzidetta con operazione

selettiva, che per una sola delle ipotesi di transnazionalità – cioè la “implicazione” di un gruppo criminale

organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato – ha previsto l’aggravamento di pena.

7.2. Potrebbe discutersi circa l’individuazione della ratio di una simile scelta, ma ciò che conta è che essa non

appare improntata ad irragionevolezza, ponendosi, anzi, in sintonia con le precipue finalità della Convenzione,

come sopra indicate, tenuto peraltro conto della disposizione di cui all’art. 34, comma 3, secondo cui “ciascuno

Stato Parte può adottare misure più rigide o severe di quelle previste dada presente Convenzione per prevenire e

combattere la criminalità organizzata transnazionale”.

7.3. La previsione dell’aggravante resta, ovviamente, inglobata nella più ampia nozione di transnazionalità, in

termini plasticamente rappresentabili con la configurazione geometrica dei centri concentrici.

E’ agevole, allora, inferire che non è il reato transnazionale in né soggetto ad aggravamento di pena, mentre la

sussistenza della speciale aggravante della L. n. 146 del 2006, art. 4, è, invece, già di per né, sintomo univoco di

transnazionalità, di talchè il reato comune aggravato è sempre – e necessariamente – reato transnazionale, ai fini

della stessa legge di ratifica.

7.4. All’atto dell’estrapolazione dal novero dei parametri di transnazionalità di una sola delle ipotesi previste

dall’art. 3, si è, poi, avuta la singolare trasposizione semantica dal lemma “implicato”, contenuto nella lett. c) (“in

esso sia implicato un gruppo criminale organizzato” – termine sostanzialmente coincidente con quello

“coinvolto”) – nel sintagma, contenuto nell’art. 4, “dato il suo contributo” (“Per i reati (...) nella commissione dei

quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato”).

Dall’atecnica ed aspecifica formula: “implicazione” si è, dunque, passati ad una locuzione ben più consona al

patrimonio lessicale penalistico. “Dare il contributo”, infatti, è null’altro che prestare un apporto causalmente

rilevante, in chiave di causalità materiale, nel senso che la commissione di un qualsiasi reato in ambito nazionale,

purchè punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, deve essere stata determinata, od

anche solo agevolata, in tutto od in parte, dall’apporto deterministico – quale esso sia – di un gruppo criminale

organizzato transnazionale.

7.5. L’inequivoca formulazione della norma, nello specifico richiamo al contributo causale di un gruppo criminale

organizzato, non consente la diversa opzione ermeneutica dell’applicabilità dell’aggravamento ad ogni ipotesi di

transnazionalità, nel concorso delle condizioni previste dalla L. n. 146 del 2006, art. 3, ogni qual volta, cioè, il

reato sia comunque riconducibile alla sfera di operatività di un gruppo organizzato transnazionale.

Se è vero, infatti, che uno degli indici della transnazionalità c.d. soggettiva è il “coinvolgimento” di un gruppo

criminale organizzato transnazionale, è pur vero che, per l’intervento selettivo del legislatore, ai fini

dell’aggravamento di pena è necessario un più elevato coefficiente di coinvolgimento, ossia la prestazione di un

contributo causale alla commissione del reato, giacchè – per quanto si è detto – solo siffatta situazione, per

discrezionale scelta del legislatore, è ritenuta di maggiore gravità ed allarme sociale.

7.6. Il generico riferimento normativo a qualsiasi reato, purchè ad esso si accompagni la previsione sanzionatoria

di cui si è detto, porta allora a ritenere che l’apporto causale di un gruppo siffatto possa spiegarsi nei confronti di

qualsivoglia espressione delittuosa, e dunque anche di quella associativa. Alla stregua dei dati normativi e delle

linee ispiratrici della Convenzione non è dato, infatti, ravvisare ragione alcuna né la particolare aggravante possa

applicarsi ai soli reati-fine e non anche al reato associativo, che costituisce il mezzo per la relativa consumazione.

Non esiste, dunque, alcun motivo – né d’ordine testuale né d’ordine logico-sistematico – per ritenere

l’incompatibilità della speciale aggravante con quest’ultimo reato.

(omissis)

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7.7. Il rilievo argomentativo sul quale si fonda il percorso motivazionale della sola sentenza che si è espressa in

favore dell'incompatibilità, ossia la citata Sez. 5 Dalti, risente in tutta evidenza di un equivoco di fondo, ossia del

convincimento che l'associazione per delinquere si identifichi nel gruppo criminale organizzato ovvero si

sovrapponga ad esso ("La circostanza presuppone l'esistenza del gruppo criminale organizzato e può accedere

pertanto ai reati costituenti la diretta manifestazione dell'attività del gruppo, c.d. reati-fine dell'associazione,

ovvero di quelli ai quali il gruppo abbia prestato un contributo causale. Il reato associativo, per contro, non è

qualificato da tale elemento circostanziale ove si consideri che l'associazione criminosa è la qualificazione

giuridica del gruppo criminale organizzato, speculare allo stesso, e non una proiezione esterna, un quid pluris, cui

il gruppo abbia dato il suo contributo"). In tale logica, se il gruppo criminale organizzato, il cui apporto è

presupposto dell'aggravante, non fosse altro che la contestata associazione per delinquere, non sarebbe

ovviamente ipotizzabile l'esistenza di un gruppo criminale che contribuisca all'esistenza di se stesso; donde, la

ritenuta riferibilità del contributo ai soli reati fine.

Invece, la formulazione normativa dell'aggravante, nella parte in cui evoca il contributo causale, lascia

chiaramente intendere che presupposto indefettibile della sua applicazione è la mancanza di immedesimazione,

richiedendo - piuttosto - che associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato si pongano come entità

o realtà organizzative affatto diverse. La locuzione "dare contributo" postula, infatti, "alterità" o diversità tra i

soggetti interessati, ossia tra soggetto agente (il gruppo organizzato) e realtà plurisoggettiva (trattandosi, appunto,

di aggregazione delinquenziale) beneficiaria dell'apporto causale. D'altronde, le espressioni: "associazione per

delinquere" e "gruppo organizzato", al di là dell'improprio uso promiscuo che può talora farsi nel linguaggio

corrente, non esprimono, in chiave giuridica, entità omogenee o concettualmente sovrapponibili.

Ed invero, quanto alla nozione "gruppo criminale organizzato" - che il legislatore non ha ritenuto definire - non

può che farsi riferimento alla definizione offerta dalla stessa Convenzione, che, del resto, proprio in forza della

legge di ratifica ed esecuzione n. 146 del 2006, è stata recepita, nella sua interezza, nel nostro ordinamento

giuridico.

(omissis)

E' ovvio poi che, ove il gruppo organizzato assuma siffatti connotati, diventi esso stesso associazione per

delinquere e, in tal caso, vi sarà sicura sovrapposizione od immedesimazione delle due entità.

Nell'ipotesi di cui all'art. 4, invece, siffatta immedesimazione non deve assolutamente sussistere, giacchè - per

quanto si è detto - la previsione del contributo causale implica diversità soggettiva, ossia l'esistenza di due distinte

realtà organizzative, nel senso che il gruppo criminale organizzato, peraltro impegnato in attività criminali in più

di uno Stato, deve aver contribuito alla commissione del reato associativo, cioè alla costituzione od

all'agevolazione, in qualsiasi forma, dell'associazione formatasi ed operante in ambito nazionale.

Dalla sfera di operatività della circostanza aggravante deve, quindi, essere espunta l'ipotesi in cui il gruppo

organizzato sia esso stesso associazione per delinquere. D'altronde, in uno al dato ontologico

dell'immedesimazione, all'applicabilità dell'aggravante osterebbe, sul piano formale, il chiaro disposto normativo

dell'art. 61 cod. pen., secondo cui le circostanze, positivamente previste, aggravano il reato "quando non ne sono

elementi costitutivi".

Deve pure essere espunta l'ipotesi che l'associazione abbia sue articolazioni periferiche in altri Stati od anche

l'ipotesi che parte dei sodali della stessa consorteria operino all'estero oppure gli effetti sostanziali dell'attività

della stessa consorteria si producano oltre confine.

In questi casi, infatti, il reato associativo assume, di per sè, connotato di transnazionalità, ai sensi della L. n. 146

del 2006, art. 3, ma la sua commissione non è il risultato dell'apporto contributivo di un gruppo organizzato

"esterno", nei termini della sola evidenza fattuale, che, per quanto si è detto, il legislatore - nella sua discrezionale

valutazione - ha ritenuto di tale gravità da comportare aggravamento di pena.

7.8. Dal combinato disposto delle norme di cui agli artt. 3 e 4 della legge di ratifica emerge, quindi, chiaramente,

che, ai fini della configurazione della speciale aggravante in esame, non è affatto necessario che il reato in

questione venga commesso anche all'estero, ben potendo restare circoscritto in ambito nazionale, come,

correttamente, ritenuto da Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, Mazzieri (in senso contrario, Sez. 3, n. 35465 del

14/07/2010, Ferruzzi, Rv.248481, che reputa, invece, necessario che la stessa struttura associativa sia impegnata

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in attività realizzate in più di uno Stato); nè che l'associazione per delinquere operi anche in paesi esteri (Sez. 1, n.

31019 del 06/06/2012, Minnella, Rv. 253280). Non è neppure necessario che del sodalizio criminoso facciano

parte soggetti operanti in paesi diversi (Sez. 3, n. 27413 del 26/06/2012, Amendolagine, Rv 253146; Sez. 3, n.

10976 del 14/01/2010, Zhu, Rv 246336), posto che - per quanto si è detto - quel che occorre, ai fini

dell'operatività dell'aggravante, è che alla commissione del reato oggetto di aggravamento abbia dato il suo

contributo un gruppo dedito ad attività criminali a livello internazionale.

7.9. Nell'individuazione dell'ambito concettuale del "contributo causale" non può certo sottacersi che, dal punto

di vista del sistema penale interno, "contribuire" alla realizzazione di un reato implica compartecipazione

delittuosa e, dunque, concorso nella relativa commissione. Ma siffatta evenienza non collide, di certo, con la sfera

di previsione della norma di cui all'art. 4, in quanto le due ipotesi attengono a distinti versanti concettuali: uno,

afferente al gruppo in sè considerato; l'altro, all'eventuale partecipazione e responsabilità di taluni suoi

componenti. Insomma, il gruppo organizzato può aver contribuito alla costituzione del sodalizio delittuoso (il

quale, ad esempio, si sia formato proprio nella prospettiva dell'apporto logistico e funzionale di un gruppo

operante all'estero), senza che tutti i suoi componenti possano poi - secondo il diritto interno - ritenersi partecipi,

o concorrenti esterni, del reato associativo commesso in ambito nazionale. Si tratta, a ben vedere, di un principio

mutuato dalla elaborazione giurisprudenziale in tema di associazione per delinquere, secondo cui la

partecipazione ad una consorteria criminale non comporta, eo ipso, l'imputabilità a tutti i sodali dei reati-fine

dalla stessa pianificati.

Il riferimento non deve ritenersi poco pertinente, ove si consideri che il gruppo criminale organizzato

transnazionale può anche essere stato costituito in Italia ed avere qui sede operativa, restando, quindi, soggetto

alla giurisdizione nazionale.

E', dunque, pacifico che, "in materia di reati associativi, il ruolo di partecipe rivestito da taluno nell'ambito della

struttura organizzativa criminale non è di per sè solo sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità

per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio, anche se riferibile all'organizzazione e inserito nel

quadro del programma criminoso, giacchè dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o

moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all'attuazione

della singola condotta criminosa, alla stregua dei comuni principi in tema di concorso di persone nel reato,

essendo teoricamente esclusa dall'ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala

responsabilità di posizione o da riscontro d'ambiente" (Sez. 6, n. 3194 del 15/11/2007, dep. 21/01/2008,

Saltalamacchia, Rv.238402; Sez. 6, n. 37115 del 28/09/2007, Vicorito, Rv. 237291).

Applicando siffatti principi alla fattispecie in esame, consegue che, per offrire contezza al maggior tasso di

disvalore insito nell'aggravante derivante dall'essersi avvalsi, per la commissione di un reato, del contributo

offerto da "un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato", occorre

postulare una necessaria autonomia tra la condotta che integra il reato "comune" e quella che vale a realizzare il

"contributo" prestato dal gruppo "transnazionale", giacchè, ove i due fatti si realizzassero reciprocamente

all'interno di una sola condotta, mancherebbe la ragione d'essere per ipotizzare la diversa - e più grave - lesione

del bene protetto. Si avrebbe, in tale ipotesi, un'unica associazione per delinquere "transnazionale", ossia una

fattispecie complessa, secondo il paradigma dell'art. 84 c.p., comma 1, in cui la circostanza aggravante -

corrispondente, del resto, alla previsione della L. n. 146 del 2006, precedente art. 3, lett. c), - verrebbe a porsi

come elemento costitutivo del reato associativo transnazionale. Si tratterebbe, però, non già di un'autonoma

fattispecie di reato - non prefigurata dal legislatore della novella e neppure enucleatane in via ermeneutica - bensì

di una "ordinaria" associazione per delinquere cui inerisce lo speciale connotato della transnazionalità, con ogni

conseguenziale implicazione.

In tale prospettiva, occorre dunque verificare se ed in che limiti il contributo di un gruppo organizzato

transnazionale, che in sè potrebbe già presentare, in ipotesi, tutti i connotati per realizzare la fattispecie di una

associazione finalizzata alla commissione di determinati delitti - divenendo per ciò stesso perseguibile in base al

quadro normativo vigente - possa rappresentare, a sua volta, quella autonoma condotta "aggravatrice" rispetto

alla stessa fattispecie associati va.

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Ebbene, poichè quel contributo - ancorchè realizzato in forma associativa - deve ontologicamente rappresentare

una condotta materialmente scissa da quella che è necessaria per realizzare la fattispecie-base, se ne può dedurre

che l'aggravante in questione non risulta compatibile con la figura della associazione per delinquere in tutti i casi

in cui le due condotte associative coincidano sul piano strutturale e funzionale, dando luogo ad un'unica

associazione transnazionale.

Ove, invece, l'associazione per delinquere "basti a se stessa", nel senso che i relativi associati o parte di essi ed il

programma criminoso posto a fulcro del sodalizio realizzino il fatto-reato a prescindere da qualsiasi tipo di

contributo esterno, ben può immaginarsi che, a tale condotta, altra (e autonoma) se ne possa affiancare, al fine di

estendere le potenzialità l'agere del sodalizio in campo internazionale; con la conseguenza che, ove un siffatto

contributo sia fornito da persone che in modo organizzato sono chiamate a prestare tale collaborazione, non

potrà negarsi che il reato-base assuma dei connotati di intrinseca maggiore pericolosità, tale da giustificare

l'applicazione della aggravante in questione. Il tutto, ovviamente, a prescindere dalla circostanza che il contributo

offerto dal "gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato" renda, poi, quello

stesso gruppo partecipe o concorrente nel reato associativo "comune", posto che è proprio quel contributo a

rappresentare il quid pluris che giustifica la ratio aggravatrice, che non può certo ritenersi assorbita dalle regole

ordinarie sul concorso nei reati.

7.10. In conclusione, con riferimento alla questione sottoposta alle Sezioni Unite, deve essere affermato il

principio di diritto secondo il quale "la speciale aggravante della L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 4, è applicabile al

reato associativo, semprechè il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l'associazione

stessa".

8. (omissis)

Cass, sez. VI, 28 agosto 2014, n. 36382 e Cass., sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374, sul reato di

scambio elettorale politico-mafioso dopo la riscrittura dell’art. 416-ter c.p. intervenuta con la legge

17 aprile 2014, n. 62.

3. Il ricorso appare fondato nei termini di cui in motivazione.

3.1 Preliminare rispetto all'esame dei motivi di censura inerenti la valutazione del compendio probatorio e la

tenuta della motivazione della sentenza impugnata, appare la ricognizione del dato normativo di riferimento,

costituito oggi dall'art. 416 ter c.p., quale risultante dalla novella di cui alla L. 17 aprile 2014, n. 62, pubblicata su

Gazz. Uff. 17 aprile 2014, n. 90.

La Corte d'Appello di Palermo ha, infatti, ritenuto essersi consumato il reato contestato in virtù della mera

accettazione della promessa di voti da parte del candidato / imputato in cambio del contributo in denaro e ciò in

riferimento ad un parametro normativo ed all'interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa Corte di cui

occorre apprezzare la perdurante o cessata validità.

Nel contesto di una significativa rimodulazione della fattispecie incriminatrice, infatti, oltre alla estensione

dell'ambito della controprestazione di chi ottiene la promessa di voti da parte di organizzazioni mafiose ad "altre

utilità", il legislatore è intervenuto anche sul contenuto delle promesse oggetto di pattuizione,

introducendo la locuzione "procurare voti mediante le modalità di cui all'art. 416 bis, comma 3",

previsione che, nella parte di specifico interesse, a sua volta recita: "L'associazione è di tipo mafioso quando

coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di

assoggettamento e di omertà che ne deriva (...) al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di

procurare voti a sè o ad altri in occasione di competizioni elettorali".

Nella Relazione alla proposta di legge C.204, presentata alla Camera dei Deputati il 15 marzo 2013 e poi

approvata con modificazioni, si evidenziava, infatti, che "l'ulteriore (diabolica) necessità di provare l'utilizzo del

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metodo mafioso, che non attiene alla struttura del reato, riconducibile ai delitti di pericolo ovvero a

consumazione anticipata, rischia di vanificare la portata applicativa della disposizione".

Di conseguenza la proposta era così formulata: "Chiunque, fuori delle previsioni di cui all'art. 416 bis, comma 3,

anche senza avvalersi delle condizioni ivi previste, ottenga, da parte di soggetti appartenenti a taluna delle

associazioni di tipo mafioso punite a norma dell'art. 416-bis ovvero da parte di singoli affiliati per conto delle

medesime, la promessa di voti, ancorchè in seguito non effettivamente ricevuti, in cambio dell'erogazione di

denaro o altra utilità è punito con la pena prevista dal primo comma del citato art. 416 bis".

Secondo tale formulazione letterale, dunque, avrebbe dovuto essere irrilevante il metodo attraverso il quale ci si

impegna a procurare i voti oggetto dell'accordo.

Senonchè il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 16 luglio 2013 sanzionava l'accettazione

del "procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell'art. 416 bis", previsione che, non più

modificata in occasione dei successivi passaggi parlamentari, è divenuta legge.

Il richiamo ai lavori parlamentari appare rilevante poichè dimostra che la locuzione definitivamente inserita nel

nuovo testo dell'art. 416 ter, ha costituito oggetto di specifica ponderazione, talchè proprio alla luce dei lavori

preparatori si deve ritenere che il suo mantenimento sia stato ritenuto funzionale all'esigenza di punire non il

semplice accordo politico-elettorale del candidato o di un suo incaricato con il sodalizio di tipo mafioso, bensì

quell'accordo avente ad oggetto l'impegno del gruppo malavitoso ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale

con le modalità intimidatorie tipicamente connesse al suo modo di agire.

La modifica, inequivoca per quanto sopra esposto, ha di fatto normativizzato quel filone ermeneutico

presente nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui è necessario che la promessa abbia ad

oggetto il procacciamento di voti nei modi, con i metodi e secondo gli scopi dell'organismo mafioso,

fondata su di un'interpretazione del previgente testo normativo che stabiliva l'applicabilità dell'art. 416 bis "a chi

ottiene la promessa di voti prevista dal medesimo art. 416 bis, comma 3" in funzione della sua collocazione tra i

delitti posti a tutela dell'ordine pubblico, messo in pericolo dal connubio tra mafia e politica, e solo in via

strumentale dell'interesse al corretto svolgimento delle consultazioni elettorali, espressamente tutelato dalle

norme contenute nel D.P.R. 361 del 1957, ed in particolare dall'art. 96 (omissis).

E' rimasta, dunque, recessiva nelle opzioni legislative la diversa interpretazione che reputa sufficiente ai fini del

perfezionamento del reato la semplice stipula del patto di scambio, contemplante la promessa di voti contro

l'erogazione di denaro (Sez. 1, sent. n. 32820 del 02/03/ 2012, Battaglia, Rv. 253740; Sez. 6, sent. n. 43107 del

09/11/2011, P.G. in proc. Pizzo e altro, Rv. 251370), a proposito della quale va per completezza detto che un

esame meno superficiale delle decisioni che l'hanno propugnata, dimostra che l'opzione era stata prescelta non

tanto in contrapposizione alla necessità di definire specificamente le modalità di procacciamento dei consensi,

quanto per escludere la rilevanza della materiale erogazione del denaro (Sez. 1 n. 32820/12) o della conclusione

di patti aggiuntivi, vincolanti l'uomo politico ad operare in favore dell'associazione in caso di vittoria elettorale

(Sez. 6 n. 43107/11).

Dal complesso delle superiori considerazioni si desume, pertanto, che ai sensi del nuovo art. 46 ter c.p., le

modalità di procacciamento dei voti debbono costituire oggetto del patto di scambio politico- mafioso,

in funzione dell'esigenza che il candidato possa contare sul concreto dispiegamento del potere di

intimidazione proprio del sodalizio mafioso e che quest'ultimo si impegni a farvi ricorso, ove

necessario.

Viene a questo punto in rilievo la questione, espressamente dedotta in ricorso, se l'art. 416 ter c.p., risultante

dalla modifica costituisca o meno legge più favorevole per l'imputato ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4,

ed a tale quesito non può che darsi risposta positiva.

E' stato, infatti, sicuramente introdotto un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie incriminatrice, tale da

rendere, per confronto con la previgente versione, penalmente irrilevanti condotte pregresse consistenti in

pattuizioni politico - mafiose che non abbiano espressamente contemplato tali concrete modalità di

procacciamento dei voti; quale logica conseguenza, deve esservi stata, ai fini della punibilità, piena

rappresentazione e volizione da parte dell'imputato di aver concluso uno scambio politico- elettorale implicante

l'impiego da parte del sodalizio mafioso della sua forza di intimidazione e costrizione della volontà degli elettori.

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L'individuazione tra più disposizioni incriminatrici che si susseguono nel tempo quale norma più favorevole per

l'imputato va, infatti, operata in concreto mediante il confronto dei risultati che deriverebbero dall'effettiva

applicazione di ciascuna di esse alla fattispecie sottoposta all'esame del giudice (Cass. sez. 1 sent. n. 40915 del

02/10/2003, Fittipaldi, Rv. 226475; Sez. 6 sent. n. 394 del 30/05/1990, Cosco, Rv. 186207: Sez. 2 sent. n. 98163

del 10/04/1987; Sez. 6 sent. n. 593 del 04/11/1982), prescindendo però da sue valutazioni discrezionali (Sez. 3

sent. n. 9234 del 04/07/1995 in fattispecie di norma contemplante la pena dell'arresto astrattamente convertibile

in pena pecuniaria di entità minore dell'ammenda prevista dalla previgente normativa).

Non è questo evidentemente il caso in esame, in cui l'aggiunta di un elemento descrittivo della norma

incriminatrice astratta impone di necessità al giudice di confrontarsi con il nuovo dato normativo ai fini della

stessa affermazione o per converso esclusione della responsabilità penale a detto titolo.

Spetterà, dunque, alla Corte territoriale rivalutare la fattispecie in base allo ius superveniens, onde stabilire se è

ancora possibile sussumere la condotta contestata - e quale risultante dal compendio probatorio acquisito -

nell'ambito di applicazione del nuovo art. 416 ter c.p., o se invece debba o meno ricondursi ad altra figura di

reato.

3.2 (omissis)

Cass., sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374

1. Il ricorso è fondato, anzitutto in relazione al primo dei motivi di doglianza espressi dal Pubblico ministero

palermitano.

2. E' corretta, in particolare, la critica alla tesi del Tribunale secondo cui, per l'integrazione del delitto

di cui all'art. 416 ter c.p., sarebbe necessario il comprovato ricorso per l'acquisizione dei voti, da parte

dei componenti la formazione mafiosa coinvolta nell'accordo, ai metodi di intimidazione e

assoggettamento descritti nel precedente art. 416 bis c.p..

In realtà la consumazione del reato precede l'effettiva acquisizione dei suffragi, essendo centrata sulla mera

conclusione dell'accordo concernente lo scambio tra voto e denaro (per l'integrazione del delitto a monte della

materiale erogazione del compenso si veda, ad esempio, Sez. 1^, Sentenza n. 32820 del 2/03/2012, rv. 253740;

per l'irrilevanza sul piano consumativo dell'attuazione di entrambe le promesse che segnano il c.d. patto politico -

mafioso può vedersi Sez. 5^, Sentenza n. 4293 del 13/11/2002, rv. 224274).

Dunque, l'esercizio in concreto del metodo mafioso, cioè il compimento di singoli atti di intimidazione

e sopraffazione in danno degli elettori, potrebbe costituire al più l'oggetto di una intenzione del

promittente, o del patto eventualmente concluso circa le modalità esecutive dell'accordo, ma non una

componente materiale della condotta tipica, rispetto alla quale costituisce un post factum, punibile

semmai con riguardo a diverse ed ulteriori fattispecie criminose (si veda per esempio, a tale ultimo

proposito, Sez. 2^, Sentenza n. 22136 del 19/02/2013, rv. 255727).

La figura incriminatrice contestata, per altro, non contiene una specificazione nel senso indicato, cioè non

prevede neppure che il soggetto alla ricerca di voti chieda all'interlocutore mafioso specifiche modalità di

attuazione della campagna, e ne ottenga la promessa. Se anche la ratio dell'incriminazione consiste nello specifico

rischio di alterazione del processo democratico che si determina quando il voto viene sollecitato da una

organizzazione mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esaurisce nella logica del

comportamento di chi, per proprie esigenze elettorali, promette denaro ad una organizzazione criminale siffatta,

ovviamente consapevole della sua natura e dei metodi che la connotano.

La fattispecie si atteggia quindi a reato di pericolo, fondandosi su consolidate regole di esperienza, e non richiede

affatto nè l'attuazione nè l'esplicita programmazione di una campagna singolarmente attuata mediante

intimidazioni: la sufficienza dell'assoggettamento di aree territoriali e corpi sociali alla forza del vincolo mafioso

costituisce, affinchè si determinino alterazioni del libero esercizio individuale e collettivo di diritti e facoltà,

costituisce uno dei profili essenziali del fenomeno, ed è ampiamente recepita nella legislazione repressiva.

3. Si sono anticipate in sintesi conclusioni che la giurisprudenza di questa Corte ha gradualmente elaborato e

consolidato, sia pure con un processo non del tutto lineare.

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(omissis). Si osserva in particolare che "la fattispecie di reato di cui all'art. 416 ter c.p., come può desumersi

dal tenore testuale della disposizione, presuppone la presenza di un'associazione di stampo mafioso

che si occupa anche del condizionamento del voto, e lo eserciti a servizio dei terzi, anche in

conseguenza della corresponsione di somme di denaro, in cambio della promessa di voto ... ciò che è

essenziale alla configurazione del reato, e nella specie alla verifica degli indizi sul punto, è la certezza

dell'intervento di componenti dell'associazione di stampo mafioso nel condizionamento del voto, e

l'avvenuta promessa da parte dell'estraneo alla compagine della corresponsione di denaro in cambio

del procacciamento di consenso, risultando indifferente che le somme promesse vadano a retribuire il

singolo voto procacciato, o l'azione dei responsabili di zona che tale attività sul territorio vadano

concretamente ad esercitare".

Le affermazioni citate riprendono aspetti significativi della giurisprudenza antecedente. Ciò che caratterizza il

reato in questione è la particolare qualità del soggetto che promette la campagna di reclutamento, soggetto il

quale esercita un condizionamento diffuso e fondato sulla prepotenza e la sopraffazione (Sez. 5^, Sentenza n.

23005 del 22/01/2013, rv. 255502). In tale qualità risiede l'elemento differenziale che, in effetti, va individuato

per distinguere tra il reato in contestazione e quelli di cui agli artt. 96 e 97 del T.U. delle leggi elettorali, approvato

con D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361. Ma l'indicata esigenza di delimitazione non si è risolta, se non episodicamente,

nella pretesa del concreto esercizio di pressioni ed intimidazioni, il quale, come sopra si è detto, non compare

quale elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice: "è sufficiente che l'indicazione di voto sia percepita

all'esterno come proveniente dal "clan" e come tale sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo (nel

caso di specie, la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza del tribunale che, in sede di riesame, aveva qualificato

il fatto come corruzione elettorale di cui al D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 96, modificando l'originaria

imputazione di delitto ex art. 416 ter c.p., ritenendo che la sola qualità di "mafioso" del promittente non fosse

sufficiente nè a comprovare la collusione fra candidato ed organizzazione criminale nè a dimostrare l'impiego

della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento che ne deriva per orientare

il voto)" (Sez. 1^, Sentenza n. 3859 del 14/01/2004, rv. 227476).

Anche nella sentenza riguardante L. si osservato che, "se pacificamente il reato si consuma con la conclusione

dell'accordo e la formulazione della promessa che vincola reciprocamente le parti alla raccolta dei voti, in cambio

di denaro, è del tutto evidente che non possano assumere alcuna rilevanza concrete le modalità di reperimento

del consenso, poichè la potenzialità lesiva della condotta è data dalla mercificazione del libero consenso

democratico, di cui viene aumentata la potenzialità corruttiva in quanto perseguita attraverso l'attività di un

gruppo associato, in attività nella zona territoriale di interesse, e le cui connotazioni di pericolosità emergano e

siano conosciute al proponente. Questi, con l'accordo concluso, ottiene l'ulteriore risultato di aumentare le

potenzialità invasive della libera determinazione delle persone sul territorio a cura dei componenti del gruppo

illecito, legittimati ad intervenire sulla raccolta di consenso, a prescindere dalle loro concrete modalità attuative,

che necessariamente vengono realizzate ad accordo concluso e quindi a reato già perfezionato".

In altre parole, "per la sussistenza del reato di cui all'art. 416 ter c.p., non è necessario che, nello

svolgimento della campagna elettorale, vengano posti in essere singoli ed individuabili atti di

sopraffazione o di minaccia, essendo sufficiente che l'indicazione di voto sia percepita all'esterno come

proveniente dal clan e come tale sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo (omissis).

4. (omissis)

Art. 416 bis. Requisiti di configurabilità della natura mafiosa

Cass., sez. V pen., 3 marzo 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31666 e Cass., sez. II pen. 21-30 aprile 2015 (dep.

4 agosto 2015), n. 34147, dimostrano la persistente attualità del contrasto giurisprudenziale la cui soluzione era

stata deferita alle Sezioni Unite con ordinanza Cass., sez. II, ord., 16 aprile 2015, n. 15807, secondo una

prospettazione disattesa dal Primo Presidente. La questione verte sui requisiti di configurabilità della natura

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mafiosa: è sufficiente il semplice collegamento con l’associazione principale, oppure la suddetta diramazione deve esteriorizzare in loco gli elementi previsti dall’art. 416-bis, comma 3, c.p.?

I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al nord: dicono di pensarla allo stesso

modo, ma non è così.

Osservazioni su Cass., sez. V pen., 3 marzo 2015 (dep. 21 luglio 2015),n. 31666, Pres. Lapalorcia, Rel. Br

uno, Imp. Bandiera e a. (sul processo

c.d. "Alba Chiara") e Cass., sez. II pen. 21­30 aprile 2015 (dep. 4 agosto

2015), n. 34147, Pres. Esposito, Est. Beltrani, Imp. Agostino e a. (sul processo c.d. "Infinito")

[Costantino Visconti] da www.penalecontemporaneo.it

1. Con il recente deposito delle motivazioni di due importanti sentenze della Cassazione che hanno chiuso i rispettivi processi celebrati a Torino ("Alba chiara") e a Milano ("Infinito") nei confronti di decine di imputati accusati di far parte di associazioni di tipo mafioso di matrice 'ndranghetista, lo scenario giurisprudenziale sul tema si arricchisce di un ulteriore capitolo problematico. Come rilevato altrove (C. Visconti, Mafie straniere e 'ndrangheta al nord. Una sfida alla tenuta dell'art. 416 bis c.p.?, in questa Dir. pen. cont. Riv.trim., n. 1, 2015, 357 e ss) la giurisprudenza formatasi in materia di 416 bis c.p. nell'ambito specifico della repressione delle "mafie al nord" ha dato vita a orientamenti non poco differenziati e per dir così " fotografati" dalla stessa prassi, tanto che una sezione della Cassazione aveva provato soltanto qualche mese addietro a sollecitare un intervento delle sezioni unite per dirimere il contrasto (Cass., sez. II pen., ord. 25 marzo 2015, 815, Pres. Petta, Rel. Rago, imp. Nesci). Dal canto suo, il Primo presidente della Corte, con provvedimento del 28 aprile 2015, ha deciso di non avallare tale richiesta, ritenendo che in realtà il contrasto evidenziato non fosse così rilevante e comunque ricomponibile senza l'intervento delle sezioni unite. La lettura delle motivazioni delle sentenze in questione, tuttavia, fa ritenere l'esatto contrario: al di là delle "rime obbligate" adoperate dai giudici di legittimità, infatti, il contrasto sussiste, eccome. A meno che non si voglia ritenere plausibile che il delitto di associazione mafiosa debba esibire una fisionomia sostanziale di volta in volta diversa a seconda della tipologia criminale presa in considerazione o addirittura in relazione al contesto territoriale ove trova applicazione. Ma qual è il punto diviso? In sintesi: mentre alcuni orientamenti ritengono sufficiente per integrare gli estremi dell'art. 416 bis c.p. la prova che il sodalizio presenti evidenti connotati di "mafiosità" sul piano organizzativo "interno", in particolare quando il gruppo criminale risulta insediato in aree di non tradizionale radicamento mafioso; altri, invece, considerano ineludibile in ogni caso anche la prova dell'esteriorizzazione del "metodo mafioso", quale riflesso dell'avvalersi "della forza di intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e omertà che ne deriva" postulato dal terzo comma del medesimo articolo. 2. Procediamo con ordine, prendendo le mosse dal provvedimento del Primo presidente della Corte di cassazione e in particolare dalla ricognizione ivi operata dei principi di diritto ritenuti indiscussi e indiscutibili nella giurisprudenza di legittimità. Ora, all'esito di tale ricognizione, il Primo presidente prende atto che "il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato sembra convergere nell'affermazione di principio secondo cui l'integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto Riassumendo con alcune parole chiave: per integrare il tipo criminoso descritto nell'art. 416 bis c.p., secondo il vertice della Cassazione, occorre accertare in capo al sodalizio una capacità di intimidazione "effettiva e attuale", nonché "obbiettivamente riscontrabile" e in grado di "piegare la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti". Viene da sé che un simile approccio si iscrive nel solco dell'orientamento meno estensivo sul piano applicativo, e più fedele alla lettera della legge quanto alla ricostruzione ermeneutica dei requisiti oggettivi della fattispecie criminosa. In termini teorici, esso si colloca nell'alveo di un robusto e condivisibile orientamento dottrinale che tende a configurare il delitto di associazione di tipo mafioso quale reato associativo "a struttura mista", ossia bisognoso per il suo perfezionamento di un quid pluris rispetto al solo dato organizzativo pluripersonale, elemento aggiuntivo identificato, appunto, nel concreto riscontro di un dispiegarsi effettivo della forza di

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intimidazione; con ciò segnando una marcata differenza dal modello di reato associativo "puro", suscettibile di perfezionarsi alla sola presenza di un'organizzazione diretta a commettere reati. 3. La prima sconfessione del tranquillizzante approccio del Primo Presidente arriva dalla sentenza della sezione V nel processo "Alba Chiara". I giudici di legittimità, infatti, dopo aver delineato in seno alla giurisprudenza più recente della Cassazione i contorni di un "contrasto all'apparenza evidente" lo ritengono in realtà superabile grazie tra l'altro a una doverosa "puntualizzazione delle precondizioni fattuali del relativo ragionamento". E così, secondo il collegio, occorre distinguere a monte due ben distinti fenomeni criminali. Un conto è aver di fronte una "neoformazione delinquenziale" che "si proponga di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche"; altro conto è se si tratta di giudicare una "mera articolazione di tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre". Nel primo caso, affermano i giudici, risulta "imprescindibile la verifica la verifica in concreto dei presupposti costitutivi della fattispecie di reato di cui all'art. 416 bis c.p. (...). Così, è assolutamente necessario che si accerti se la neoformazione delinquenziale si sia già proposta nell'ambiente circostante, ingenerando quel clima generale di soggezione"; e ciò perché, soggiunge la Corte, "è sin troppo palese per via della forza semantica della locuzione 'si avvalgono' (...) che il metodo mafioso debba essersi manifestato all'esterno producendo nell'ambiente circostante, in termini di causa ed effetto, la condizione di assoggettamento e omertà". Nel secondo caso, invece, una volta accertato che l'organizzazione criminale costituisca una effettiva articolazione territoriale insediatasi fuori dai confini tradizionali di una sodalizio mafioso radicato e operativo nel territorio d'origine, diventerebbe un "fuor d'opera" pretendere che in una "simile caratterizzazione delinquenziale (...) sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento e omertà"; piuttosto, soggiunge la Corte, in tali frangenti "il baricentro della prova deve spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa" sbarcata in aree non tradizionali e, soprattutto, sul suo "collegamento esistente se esistente con l'organizzazione di base" operante nella regione di provenienza, visto che "l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo" da quest'ultima consorteria. E con specifico riferimento al caso di specie scrutinato, i giudici di legittimità concludono in un modo che tradisce senza veli la valutazione di politica criminale o giudiziaria tout court che ha ispirato la decisione: "può senz'altro ritenersi che, una volta raggiunta la prova dei connotati distintivi della 'ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa sia, già in sé, pericolosa per l'ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza intimidatrice nel contesto ambientale in cui è radicata. I singoli partecipanti, che erano, di certo, ben consapevoli di non aderire ad un circolo ricreativo o ad un'associazione noprofit, sono stati giustamente chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 416 bis c.p.". Così riassunta la posizione della Corte, è facile rilevare che si tratta di un'impostazione incompatibile con quanto asseverato nel provvedimento del Primo presidente della Cassazione. Né può smorzare tale incompatibilità la scelta di riservare esclusivamente questa sorta di trattamento differenziato in punto di diritto al sottotipo criminologico individuato dai giudici di legittimità, ossia alla "neoformazione associativa" insediata in area non tradizionale che però vanti una filiazione diretta con una "casa madre" di tipo mafioso ben radicata nel territorio d'origine. Singolare, infatti, propugnare una fisionomia del delitto di associazione mafiosa "a geometria variabile", i cui requisiti sostanziali mutano in relazione al luogo di applicazione della norma e alla tipologia criminale oggetto di giudizio: una versione per dir così light del reato, cioè alleggerita dall'onere di provare un effettivo e non solo potenziale "avvalersi della forza di intimidazione" per le neoformazioni mafiose "in trasferta"; una versione, invece, "integrale" e quindi più impegnativa probatoriamente per le altre neoformazioni sfornite di patronage mafioso "D.O.C.", visto che gli stessi giudici riconoscono l'inequivoca "forza semantica" del termine legislativo "si avvalgono" contenuto nel 3° comma dell'art. 416 bis c.p. che richiama la necessità di avere un preciso riscontro dell'impatto ambientale determinato dal metodo mafioso. 4. La seconda sconfessione arriva dall'altra sentenza qui in commento, quella che ha chiuso il processo "Infinito" celebrato a Milano. La sezione II della Corte, infatti, se per un verso ripropone, con qualche superflua variazione rispetto ai precedenti specifici, il principio di diritto a detta del quale "nel caso in cui un'associazione di tipo mafioso (nella specie, la 'ndrangheta) costituisca in Italia od all'estero una propria diramazione" affinché quest'ultima integri la fattispecie incriminatrice "è necessario che essa sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva, ed obbiettivamente riscontrabile"; per altro verso, ha cura di precisare che "detta capacità di intimidazione potrà, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l'associazione principale, oppure dall'esteriorizzazione in loco di condotte integranti gli elementi previsti dall'art. 416 bis c.p.". A bene vedere, dunque, ci troviamo di fronte a un'apparente adesione all'orientamento che configura il delitto di associazione mafiosa alla stregua di un reato associativo a struttura mista. La Corte, infatti, richiede un "obbiettivo riscontro" di una "capacità intimidatoria" effettiva e non solo potenziale, ma poi mette sulle stesso

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piano due situazioni inconciliabili quali contesti integranti tale requisito oggettivo, ossia il caso del sodalizio che "esteriorizza in loco" la forza di intimidazione e quello del tutto diverso in cui quest'ultima invece "promana dalla diffusa consapevolezza del collegamento con la casa madre". Il che, davvero, non è logicamente plausibile: il riscontro obbiettivo di un'effettiva capacità intimidatrice in capo al sodalizio, se sganciato da una verifica incentrata su forme di "esteriorizzazione" del metodo mafioso nell'ambiente ove opera, si rivela vuoto di contenuti, un mero affidarsi a presunzioni, a congetture, anche spericolate quando come fa la Corte si fa ricorso addirittura a una non meglio precisata "diffusa consapevolezza del collegamento con l'associazione principale". E invero viene da chiedersi: "diffusa" dove? Come? Tra chi? Insomma, si tratta di un consapevole e mal riuscito tentativo di tenere insieme due ricostruzioni ermeneutiche del delitto di associazione di tipo mafioso tra loro antitetiche: quella, si ribadisce, frutto di una consolidata tradizione giurisprudenziale che in ogni caso richiede una forma di "esteriorizzazione obbiettivamente riscontrabile" del metodo mafioso per integrare il reato; l'altra, al contrario, inclinante verso la concezione di reato associativo "puro" che si accontenta del dato organizzativo, seppur in tal caso qualificato dalla "mafiosità" dei soggetti coinvolti. 5. Ma che le due sentenze fin qui criticate costituiscano un vero e proprio revirement giurisprudenziale sotto le mentite spoglie di asseriti piccoli aggiustamenti ermeneutici, lo testimoniano due sentenze sempre della Cassazione depositate soltanto qualche mese prima e riguardanti analogamente vicende giudiziarie, rispettivamente, torinesi e milanesi. La prima (Cass., sez. II pen., 23 febbraio 2015 (dep. 14 aprile 2015), n. 15412, Pres. Esposito, Rel. Manna, Imp. Agresta e a.), pur confermando le decisioni di condanna inflitte nel merito nel processo c.d. "Minotauro" celebratosi a Torino, non condivide del tutto il costrutto giuridico proposto dai giudici inferiori proprio sulla questione controversa fin qui discussa, in particolare ritenendo non corretto congedarsi da un modello ricostruttivo dei requisiti sostanziali del delitto di associazione mafiosa che faccia perno nulla necessità di riscontrare una obbiettiva "esteriorizzazione" della forza di intimidazione. In tale cornice, i giudici di legittimità si spingono ad osservare che allora "meglio sarebbe ridefinire la nozione di cd. mafia silente non già come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma pur sempre avvalendosi di quella forma di intimidazione per certi aspetti ancora più temibile che deriva dal non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere". La seconda sentenza (Cass., sez. VI pen., 22 gennaio 2015 (dep. 4 maggio 2015), n. 18459, Pres. Conti, Rel. Di Salvo, Imp. Barbaro e a.) stavolta annulla con rinvio (peraltro dopo un primo annullamento) una decisione di condanna per associazione mafiosa pronunziata dai giudici milanesi nel processo cd. "Cerberus", proprio facendo leva su un doppio registro, sostanziale e probatorio. Per un verso, infatti, la Corte ribadisce che l'elemento a carattere oggettivo che differenzia in termini "specializzanti" il delitto di associazione mafiosa dall'associazione per delinquere semplice risiede nel "metodo utilizzato, consistente nell'avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell'organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell'ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. L'associazione si assicura così la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo per l'ordine pubblico economico La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forza intimidatrice dell'associazione. Se essa è invece indotta da altri fattori, si avrà l'associazione per delinquere semplice". Per altro verso, i giudici di legittimità tornano a rimproverare i giudici del merito per non aver fornito "congrua risposta" ai quesiti posti dalla prima pronunzia di annullamento: in estrema sintesi, si trattava di dimostrare il nesso causale tra la diffusa condizione di assoggettamento e omertà, pur registrata in un determinato ambito territoriale o settore economico, e una vera e propria "esteriorizzazione" del metodo mafioso direttamente riconducibile agli imputati. Com'è agevole avvedersi, qui la Corte ripropone a tutto tondo l'impianto ermeneutico più fedele al dettato legislativo: non solo occorre registrare un "impatto ambientale" in termini di diffusa soggezione e omertà, ma quest'ultimo dato empirico va ricondotto a precise forme di "avvalimento" della forza di intimidazione del vincolo associativo da parte degli imputati. 6. In conclusione: il contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte di cassazione è evidente e permane, nonostante l'autorevole opinione contraria espressa dal Primo Presidente della Cassazione. Applicare il delitto di associazione mafiosa laddove vi sarebbero al più gli estremi per contestare l'associazione per delinquere semplice non può considerarsi un problema di poco conto, magari da tenere "in sordina" per non ostacolare le repressione delle mafie al nord. Spiace doverlo ricordare, ma il rispetto della legalità penale significa anche che "la legge è uguale per tutti”.

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Art. 416 ter c.p. La rilevanza del riferimento al metodo di cui all’art. 416 bis, co. 3, c.p.

Cass., sez. VI, 19/05/2015, n. 25302, : “Il cd. metodo mafioso, nuovo elemento costitutivo dell'art. 416 ter c.p., è considerato presunto ed immanente nell'illecita pattuizione qualora il soggetto che si impegni a procurare voti in cambio dell'erogazione di denaro o altre utilità sia persona appartenente ad una consorteria di tipo mafioso, ed agisca in nome e per conto della stessa. Nel caso in cui il promittente sia soggetto estraneo all'associazione per la configurabilità del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, occorre la prova del concreto impiego o della specifica programmazione del ricorso all'intimidazione o alla prevaricazione mafiosa con le modalità di cui al comma terzo dell'art. 416 bis c.p.”

(omissis) 5.1. L'art. 416 ter c.p. così come novellato in esito alla L. n. 62 del 2014 e applicabile alla specie nella sua formulazione attualmente vigente (l'accordo si sarebbe concretizzato in occasione dell'incontro del (OMISSIS) presso l'abitazione dei S.) dà luogo ad un reato contratto che si consuma immediatamente al momento dello scambio delle promesse oggetto del programma negoziale senza che sia necessario, poi, che i due poli del negozio illecito abbiano di fatto portato ad esecuzione l'impegno assunto. E' un reato catalogabile tra quelli di pericolo. La soglia di punibilità è infatti anticipata anche alla fase del mero scambio delle promesse mentre la concretizzazione dell'impegno (il reperimento dei voti con le modalità mafiose e il pagamento del corrispettivo) assume piuttosto il tenore del postfatto, al più destinato a rilevare penalmente se tale da integrare altre ipotesi di reato, eventualmente concorrenti o assorbenti. 5.2. L'oggetto dell'accordo deve necessariamente riguardare le modalità di acquisizione del consenso elettorale tramite il metodo mafioso. E' stata infatti recepita normativamente l'interpretazione maggioritaria offerta da questa Corte avuto riguardo a tenore letterale previgente della citata disposizione (omissis). Interpretazione in forza alla quale il patto elettorale illecito, per assumere valenza mafiosa e distinguersi dalle altre ipotesi di corruzione elettorale previste dai sistema, deve prevedere l'utilizzo della sopraffazione e della forza di intimidazione quali modalità di reperimento dei voti, non essendo sufficiente in sè il mero scambio contemplante la promessa di voti contro l'erogazione di denaro, in alcuni arresti da questa Corte ritenuto utile al fine per integrare l'ipotesi di reato in disamina (Sez. 1, sent. n. 32820 dei 02/03/2012, Battaglia, Rv. 253740; Sez. 6, sent. n. 43107 del 09/11/2011, P.G. in proc. Pizzo e altro, Rv. 251370). Peraltro, come del resto già precisato da questa sezione della Corte (con la sentenza n. 36382 del 03/06/2014 - dep. 28/08/2014, Antinoro, Rv. 260168) un esame meno superficiale delle decisioni da ultimo richiamate dimostra che "l'opzione era stata prescelta non tanto in contrapposizione alla necessità di definire specificamente le modalità di procacciamento dei consensi, quanto per escludere la rilevanza della materiale erogazione del denaro (Sez. 1 n. 32820/12) o della conclusione di patti aggiuntivi, vincolanti l'uomo politico ad operare in favore dell'associazione in caso di vittoria elettorale (Sez. 6 n. 43107/11)", in linea con l'affermazione, oggi ulteriormente corroborata dalla novella, della natura di reato di mero pericolo ascrivibile alla ipotesi di reato prevista dall'art. 416 ter c.p.. 5.3. Il sinaliagma illecito, si è detto, si concreta già solo attraverso la promessa delle reciproche prestazioni. E se oggi il dato normativo non è più espressamente limitato alla promessa di denaro da parte del candidato grazie al riferimento alle altre utilità che possono comunque costituire l'oggetto della dazione prospettata in funzione della conclusione dell'accordo (così da potersi ritenere oggi certamente ricomprese nella condotta in contestazione anche la promessa di "utilità" che solo in via mediata possono essere oggetto di monetizzazione), è rimasta sostanzialmente invariata la connotazione di fondo del negozio illecito siccome immediatamente correlata alla natura della prestazione, anche solo promessa, dal soggetto che si muove sull'altro versante negoziale: quella di garantire la veicolazione del consenso elettorale mediante le modalità di cui al terzo comma dell'art. 416 bis c.p., comma 3, dato, anche questo, oggi ancor più compiutamente esplicitato nella norma novellata ma che costituiva il frutto della interpretazione in tal senso offerta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, per quanto sopra già evidenziato. Si intende affermare che, ad opinione del Collegio, attraverso l'esplicito riferimento alle "modalità" di cui all'art. 416 bis c.p., comma 3, e dunque al metodo mafioso per l'acquisizione del consenso elettorale, è stata introdotta una novità linguistica nel tenore della norma di minimo contenuto, destinata a strutturare la fattispecie in termini ancora più compiuti e definiti, sempre coerenti, tuttavia, con la

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lettura più corretta che questa stessa Corte ha avuto modo di offrire già con riferimento al dato normativo previgente. Non vi è stata, dunque, alcuna, seppur parziale, delimitazione dell'area dell'illecito coperta dalla previgente versione dell'art. 416 ter c.p. (cfr. in senso contrario il recente arresto di questa sezione della Corte nr 36382 del 03/06/2014, Antinoro, già citato): oggi, come lo era nel passato, è necessario che l'accordo abbia avuto ad oggetto l'acquisizione del consenso elettorale tramite il metodo mafioso. Tanto non impone, tuttavia, che il patto sia necessariamente connotato dalla esplicitazione delle modalità di realizzazione dell'impegno assunto nei confronti del candidato, potendo la stessa desumersi, in via inferenziale, da alcuni indici fattuali sintomatici della natura dell'accordo. Ciò perchè, come puntualmente citato in un arresto (sopra già richiamato) di questa stessa sezione della Corte "se anche la ratio dell'incriminazione consiste nello specifico rischio di alterazione del processo democratico che si determina quando il voto viene sollecitato da una organizzazione mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esaurisce nella logica del comportamento di chi, per proprie esigenze elettorali, promette denaro ad una organizzazione criminale siffatta, ovviamente consapevole della sua natura e dei metodi che la connotano. La fattispecie si atteggia quindi a reato di pericolo, fondandosi su consolidate regole di esperienza, e non richiede affatto nè l'attuazione nè l'esplicita programmazione di una campagna singolarmente attuata mediante intimidazioni: la sufficienza dell'assoggettamento di aree territoriali e corpi sociali alla forza del vincolo mafioso costituisce, affinchè si determinino alterazioni del libero esercizio individuale e collettivo di diritti e facoltà, uno dei profili essenziali del fenomeno, ed è ampiamente recepita nella legislazione repressiva" (Sez. 6, n. 37374 del 06/05/2014 - dep. 09/09/2014, P.M in proc. Polizzi, Rv. 260167). 5.4. Le modalità di acquisizione del consenso tramite la sopraffazione e la intimidazione, momenti fondanti il metodo mafioso, oggi come in passato, costituiscono dunque non solo la promessa resa dalla controparte del candidato ma anche la ragione causale effettiva del negozio illecito. E se tale impegno può non essere esplicitato nel siglare l'accordo, esso al contempo rappresenta il colore di fondo, la ragion d'essere del patto elettorale illecito in questione. 5.5. E' invece diverso il perimetro soggettivo di riferimento della norma novellata. Grazie al nuovo art. 416 ter c.p., comma 2, oltre al candidato o al soggetto che nell'interesse di quest'ultimo si muove per acquisire consenso elettorale mettendo a frutto la forza di intimidazione che promana dall'azione di matrice mafiosa, oggi, senza più incertezze, risponde della condotta anche il soggetto che rende siffatta promessa, incamerando l'impegno all'acquisizione della utilità corrispettiva. Ed il legislatore, adottando un riferimento letterale aperto e quanto più ampio ("chi promette"), non ha delimitato siffatto ruolo soggettivo necessario al solo intraneo che agisce rappresentando l'organizzazione mafiosa: ciò che conta, piuttosto, è che il consenso venga acquisito, nella mera prospettazione negoziale e non necessariamente nel risultato, avvalendosi del metodo mafioso cosi che saranno protagonisti attivi dell'illecito anche soggetti che, senza essere intranei, si pongano quali intermediari dell'associazione mafiosa o comunque, sempre dall'esterno, garantiscano al candidato un siffatto metodo d'azione nell'acquisizione del consenso. 5.6. L'ampliamento dello spettro soggettivo di riferimento quanto ai possibili autori della condotta finisce per assumere ricadute ben precise sul piano della dimostrazione probatoria del tenore dell'accordo nei termini imposti dalla disposizione in disamina. Ciò non solo con riferimento alla puntuale configurazione del fatto ma anche in ordine alla prova del dolo avuto riguardo, in particolare, alla posizione del candidato che stipula l'accordo illecito e che deve essere consapevole dei termini di esecuzione della promessa assunta dalla sua controparte. (omissis) : è la fama criminale dell'interlocutore dei politico e la sua possibilità di incidere sul territorio di riferimento con i metodi tipici della mafiosità che lo rendono appetibile sul piano elettorale e che spingono il candidato a raggiungere l'accordo. Tanto nella consapevole, implicita ma logica, evidenza delle modalità attraverso la quale verrà veicolato in suo favore il reclutamento elettorale, essendo questa la logica causale della scelta di quello specifico interlocutore. Poichè, tuttavia, oggi, rispetto al passato, è stata ampliata la sfera dei soggetti attivi diversi dal candidato (o da chi agisce nel suo interesse), possono assumere un ruolo attivo sia soggetti estranei alla consorteria ma che si manifestino in grado di agire con le modalità in questione; sia i membri della stessa che agiscano uti singuli; sia, infine intermediari esterni alla cosca portatori della volontà della stessa. E, sul piano probatorio, il discorso inferenziale afferente la dimostrazione che l'accordo riguardi modalità di procacciamento dei voti nei termini di cui all'art. 416 bis c.p., comma 3, finisce evidentemente per risentirne. Diversamente dal caso dell'intraneo che agisce nell'interesse della associazione impegnandola a svolgere una campagna in favore del politico committente, in siffatti casi occorre infatti una prova chiara ed immediata della pattuizione delle modalità del procacciamento cui risulta piegato l'illecito patto di scambio

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elettorale, non potendosene ricavare la presenza dal mero ruolo di interlocuzione riferito in precedenza esclusivamente all'organizzazione criminale. 6. (omissis)

Concorso esterno e CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, sul principio di legalità CEDU in relazione al concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per la condanna inflitta a Bruno Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i giudici di Strasburgo, Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non “era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”. I giudici di Strasburgo, a differenza di quanto fatto da quelli italiani, gli hanno dato ragione, affermando che i tribunali nazionali, nel condannare Contrada, non hanno rispettato i principi di “non retroattività e di prevedibilità della legge penale”.

(omissis)

B. L’evoluzione della giurisprudenza interna riguardante la previsione del reato di concorso esterno in

associazione di tipo mafioso

26. Nelle loro osservazioni, le parti hanno inviato un elenco esaustivo delle cause trattate dalla Corte di

cassazione in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. 27. Da tale elenco risulta che la prima

sentenza nella quale è menzionato questo reato è la sentenza Cillari, n. 8092 del 14 luglio 1987, dove la Corte di

cassazione esclude esplicitamente l’esistenza di un reato simile. Nella sentenza Agostani, n. 8864 del 27 giugno

1989, la Corte giunse alle stesse conclusioni. Più tardi, nelle sentenze Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27

giugno 1994, la Corte smentì ugualmente l’esistenza nel diritto interno del reato di concorso esterno in

associazione di tipo mafioso. 28. Nel frattempo, nella sentenza Altivalle, n. 3492 del 13 giugno 1987, la Corte di

cassazione riconobbe l’esistenza del concorso eventuale in associazione di tipo mafioso nel limite dei reati detti

«di accordo», ossia i reati di tipo associativo nei quali le volontà di tutti gli individui coinvolti nei fatti hanno

come scopo la realizzazione di un obiettivo comune. Anche la sentenza Barbella, n. 9242 del 4 febbraio 1988,

fece riferimento al reato in causa, ponendo l’accento sulla natura episodica dei comportamenti dell’autore dei

fatti. Le sentenze Altomonte, n. 4805 del 23 novembre 1992, Turiano, n. 2902 del 18 giugno 1993 e Di Corrado,

del 31 agosto 1993, confermarono sostanzialmente tale impostazione. 29. È soltanto con la sentenza Demitry,

pronunciata dalle Sezioni Unite il 5 ottobre 1994, che per la prima volta la Corte di cassazione tenta di

elaborare la materia in oggetto, passando in rassegna le sentenze che negavano e quelle che avevano

riconosciuto il reato in causa e ammettendo esplicitamente l’esistenza del reato di concorso esterno in

associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno. 30. Questa stessa impostazione fu in

seguito confermata in altre sentenze, quali Mannino, n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30

ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005, anch’esse pronunciate dalle Sezioni Unite della Corte di

cassazione.

IN DIRITTO

I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE 31. Invocando

l’articolo 7 della Convenzione, il ricorrente ritiene che il reato di concorso esterno in associazione di tipo

mafioso è il risultato di una evoluzione giurisprudenziale posteriore all’epoca dei fatti per i quali è stato

condannato. 32. Perciò, tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali sull’esistenza di detto reato, il

ricorrente non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti che gli erano

ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava le sue condotte. 33. L’articolo 7 della Convenzione

recita: (omissis)

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32

B. Sul merito

(omissis) 2. La valutazione della Corte

a) I principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte

60. La Corte rammenta che i principi generali in materia del principio nulla poena sine lege, derivanti dall’articolo

7 della Convenzione, sono sintetizzati nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna [GC] (n. 42750/09, §§ 77‐80,

CEDU 2013), le cui parti pertinenti sono riportate qui di seguito. Tali principi sono richiamati anche nella

sentenza Rohlena c. Repubblica ceca [GC] (n. 59552/08, § 50, 27 gennaio 2015): «77. La garanzia sancita

all’articolo 7, che è un elemento essenziale dello stato di diritto, occupa un posto preminente nel sistema di

protezione della Convenzione, come sottolineato dal fatto che non è permessa alcuna deroga ad essa ai sensi

dell’articolo 15 neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione.

Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, essa dovrebbe essere interpretata e applicata in modo da assicurare

una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (omissis). 78. L’articolo 7 della

Convenzione non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale asvantaggio dell’imputato

(omissis). Esso sancisce anche, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene – «nullum

crimen, nulla poena sine lege» – (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 52, serie A n. 260 A). Se vieta in

particolare di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei

reati, esso impone anche di non applicare la legge penale in modo estensivo a svantaggio dell’imputato, ad

esempio per analogia (omissis). 79. Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li

reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal

testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data

dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le

viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti (Cantoni c. Francia, 15

novembre 1996, § 29, Recueil des arrêts et décisions 1996 V, e Kafkaris, sopra citata, § 140). 80. Pertanto, il

compito della Corte è, in particolare, quello di verificare che, nel momento in cui un imputato ha

commesso l’atto che ha comportato l’esercizio dell’azione penale e la condanna, esistesse una

disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da

tale disposizione (Coëme e altri, sopra citata, § 145, e Achour c. Francia [GC], n. 67335/01, § 43, CEDU 2006

IV).» 61. (omissis)

b) Applicazione dei principi suddetti al caso di specie 64. La Corte ritiene che la questione che si pone nella

presente causa sia quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile

definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Si deve dunque

esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l’aiuto dell’interpretazione della legge

fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei suoi atti sul piano

penale. 65. La Corte osserva anzitutto che, nel caso di specie, il ricorrente è stato condannato a una pena di dieci

anni di reclusioni per concorso in associazione di tipo mafioso con una sentenza emessa dal tribunale di Palermo

5 aprile 1996 riguardo a fatti compiuti tra il 1979 e il 1988. Nella parte in diritto della sentenza, tale concorso

veniva definito «eventuale» o «esterno». La condanna del ricorrente, dapprima annullata da una sentenza della

corte d’appello di Palermo, fu poi confermata da un’altra sezione di quest’ultima e, in via definitiva, da una

sentenza della Corte di cassazione. 66. La Corte fa notare che non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto

che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale. Ora,

come ha giustamente ricordato il tribunale di Palermo nella sua sentenza del 5 aprile 1996 (si veda il paragrafo 7

supra), l’esistenza di questo reato è stata oggetto di approcci giurisprudenziali divergenti.

67. L’analisi della giurisprudenza citata dalle parti (si vedano i paragrafi 26‐30 supra) dimostra che la Corte di

cassazione ha menzionato per la prima volta il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nella sua

sentenza Cillari, n. 8092 del 14 luglio 1987. (omissis) Tuttavia, è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle

Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una

elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono

l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente

ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso

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nell’ordinamento giuridico interno. 70. In questo contesto, l’argomento del ricorrente secondo il quale, all’epoca

della perpetrazione dei fatti (1979‐1988), la giurisprudenza interna in materia non era in alcun modo

contraddittoria, non può essere accolto. 71. (omissis) 72. La Corte osserva anche che, nella sua sentenza del 25

febbraio 2006, la corte d’appello di Palermo, pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di

concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994,

Mannino n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio

2005 (si veda il paragrafo 18 supra), tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente. 73. La Corte osserva per di più

che la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del principio della irretroattività e della prevedibilità della

legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio (si vedano i paragrafi 10 e 20 supra), non è stata oggetto

di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio

l’esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno

senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all’epoca dei fatti a lui ascritti (si

vedano i paragrafi 15, 17 e 18 supra). 74. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è

stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo

scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. 75. Perciò, all’epoca in cui sono stati commessi

i fatti ascritti al ricorrente (1979‐1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile

per quest’ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva

per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (omissis). 76. La Corte ritiene che questi

elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.

(omissis)

V. I DELITTI CONTRO L’INCOLUMITA’ PUBBLICA

Cass., sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941, sul reato di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., in particolare

sull’individuazione del momento consumativo (caso Eternit).

1. La Corte ritiene che per il reato di cui all'art. 434 cod. pen., l'unico cui si riferisce la condanna oggetto

d'impugnazione, sia maturata la prescrizione antecedentemente alla pronuncia della sentenza di primo grado, per

le ragioni che in prosieguo si esporranno.

La complessità della vicenda e delle questioni poste rende perciò necessaria una premessa di metodo.

(omissis)

C. Le questioni sostanziali.

3. Si è già evidenziato, in fatto, che all'imputato S. sono stati sin dall'inizio contestati soltanto i delitti contro

l'incolumità pubblica di cui agli artt. 437 e 434 cod. pen., nella forma aggravata dagli eventi descritti ai rispettivi

capoversi, ovverosia, per l'art. 434, l'unico reato per il quale la Corte di appello ha confermato le condanne, del

disastro innominato verificatosi; precisando la sentenza impugnata che i periodi di effettiva gestione imputabili a

S.S. partivano da giugno 1976 per i siti di (OMISSIS) - Bagnoli, con data finale per i primi due siti al 4 giugno

1986 e al 19 dicembre 1985 quanto al terzo; andavano invece dal 27 giugno 1976 sino al 16 dicembre 1984 per il

sito di (OMISSIS).

Il compendio probatorio si basava essenzialmente su indagini epidemiologiche svolte sulle popolazioni dei

soggetti esposti all'amianto della Eternit e sia il Tribunale sia la Corte di appello hanno negato ingresso alle

richieste di prova ulteriore e di completa ostensione della documentazione utilizzata nelle consulenze

epidemiologiche del Pubblico ministero, avanzate da imputati e responsabili civili al dichiarato fine di verificare i

nessi di causalità individuali, osservando, in sintesi, che detto accertamento non risultava pertinente all'oggetto

del procedimento, "rappresentato da un fenomeno unitario, riferibile a gruppi di persone e non ai singoli

individui che compongono tali gruppi, e la cui incidenza è stata rilevata e studiata attraverso l'applicazione del

diverso concetto di causalità collettiva" (p, 601 della sentenza impugnata). Sulla base di rilievi analoghi sono state

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respinte quindi anche le eccezioni relative alla mancata o incompleta ostensione dei cosiddetti "dati grezzi"

(elementi conoscitivi) posti a fondamento delle consulenze epidemiologiche del Pubblico ministero, e

considerate sostanzialmente irrilevanti le deduzioni difensive con le quali si obiettava, da un lato, che per parte

dei casi individuati (molti per la difesa, pochi per la Corte di appello) mancava anche la possibilità di riscontrare

l'esattezza delle diagnosi sulle quali si erano fondate le consulenze epidemiologiche e, dall'altro, che non risultava

verificato il collegamento tra insorgenza delle sintomatologie asbesto-correlate, periodi di esposizioni e periodi di

"effettiva gestione" riconducibili allo S..

Delle diversità delle impostazioni del Tribunale e della Corte di appello si è dato conto in Fatto ai paragrafi 3.,

3.1., 3.2., a cui per brevità si rinvia, e si tratterà più diffusamente nel prosieguo. Quello che preme qui rimarcare è

che dalla sentenza di secondo grado emerge chiaramente che a base della decisione impugnata sta il rilievo che

l'impianto accusatorio non consentiva di annettere rilievo individuale ai singoli eventi lesivi di malattia e di morte

con relativo inquadramento all'interno di corrispondenti figure di reato contro la persona, essendosi "puntato"

invece sul carattere unitario dell'offesa alla vita ed alla salute di un numero indeterminato di persone quale

disastro "interno" ed "esterno", ovverosia quale "attentato all'incolumità sia dei lavoratori addetti agli stabilimenti

..., sia riferibile alla popolazione residente nei siti in cui i quattro stabilimenti operavano ed ai soggetti conviventi

coi lavoratori, o comunque addetti alla pulizia dei loro indumenti di lavoro".

Tanto posto, la differenza della conclusione raggiunta per il reato di cui al capo A) - omissione dolosa di cautele

contro infortuni sul lavoro - dichiarato prescritto, e il reato di cui al capo B) - disastro innominato -, riposa,

nell'impianto della sentenza impugnata, esclusivamente sulla qualificazione dell'evento "disastro", nel primo caso,

come mera aggravante e, nel secondo, come fattispecie autonoma di reato.

La soluzione cui la Corte di merito è addivenuta per il capo B) è quindi indissolubilmente legata alla

definizione, fondamentale ai fini dello "spostamento in avanti" del momento della consumazione del

reato, dell'evento "disastro" quale situazione di pericolo ancora in atto, o meglio quale situazione in

cui, non essendo ancora venuto meno "l'eccesso numerico dei casi di soggetti deceduti o ammalati

rispetto agli attesi", l'effetto "epidemico" non poteva ancora considerarsi venuto meno.

Assumono per conseguenza rilievo preliminare, in relazione al capo B), la riconducibilità della

fattispecie per cui è intervenuta condanna al delitto di disastro di cui all'art. 434 c.p., comma 2, (infra

par. 4) e la definizione dell'ipotesi del capoverso dell'art. 434 cod. pen. alla stregua di reato pienamente

autonomo o di fattispecie aggravata dall'evento, anche ai fini di definirne la rilevanza (infra par. 5).

Dovrà verificarsi poi come è possibile collocare la data di consumazione di tale reato, aggravato o

autonomo che sia (infra par. 6), avuto riguardo alla natura dell'evento preso in considerazione dalla

norma (infra par. 7) e trarne le conseguenze ai fini della prescrizione (infra par. 8) e dell'applicazione

dell'art. 129 cod. proc. pen. (infra par. 9).

(omissis)

4. Il delitto di disastro. In relazione al primo ordine di questioni, quelle con cui si contesta la ravvisabilità della

fattispecie dell'art. 434 cod. pen., occorre prendere le mosse dal fatto che con la sentenza n. 327 del 2008 la Corte

costituzionale, investita da questione di legittimità costituzionale con la quale si dubitava della determinatezza

della nozione di disastro su cui gravità, nella cornice di una fattispecie a forma libera o causalmente orientata, la

descrizione del fatto represso dall'art. 434 cod. pen., ha dichiarato infondato il dubbio, osservando che a

precisare la valenza del vocabolo - riconducendo la previsione punitiva nei limiti di compatibilità con il precetto

costituzionale evocato - concorrono la finalità dell'incriminazione e la sua collocazione nel sistema dei delitti

contro la pubblica incolumità. Sulla base di tali elementi la Corte costituzionale ha affermato che è appunto

possibile "delineare una nozione unitaria di "disastro", i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e

concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di

proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi

ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con

l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la "pubblica incolumità") - un pericolo per la vita o

per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva

verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti". Così individuando una nozione disastro che la

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stessa Corte costituzionale espressamente riconosce sostanzialmente corrispondente a quella accolta dalla

giurisprudenza di legittimità, con un indirizzo apprezzabile in termini di "diritto vivente".

4.1. Ciò posto, non è esatto il rilievo che la sentenza non sarebbe del tutto pertinente nel caso in esame perchè

riferita alla sola ipotesi dell'art. 434 cod. proc. pen., comma 1 e non consentirebbe comunque di cogliere la

differenza tra detta ipotesi e quella del comma 2. Diversamente da quanto si sostiene, la pronunzia della Corte

non limita in alcun passo la sua pronunzia al comma 1. Nonostante la formale enunciazione della questione così

come posta, chiaramente indica che la fattispecie al suo esame è riconducibile all'ipotesi di danno del comma 2,

allorchè precisa che la questione concerne un procedimento a carico di soggetti imputati di avere "causato

dolosamente un "disastro ambientale"". Espressamente si riferisce, infine, anche al comma 2 laddove (par. 7)

sottolinea come il ""pericolo per la pubblica incolumità" - implicito, per quanto osservato dianzi, rispetto alla

fattispecie di evento contemplata dal comma 2 (verificazione del "disastro") - risulti espressamente richiesto

anche in rapporto al delitto di attentato previsto dal comma 1 (compimento di fatti diretti a cagionare un

disastro)".

4.2. Di maggiore spessore, ma anch'esso infondato, è il rilievo che la "semplice" diffusione di (fibre di) amianto,

per quanto pervasiva e pericolosa, possa ritenersi idonea ad integrare l'"evento distruttivo" che, come detto,

stando a Corte cost. n. 327 del 2008, implicitamente connota la nozione di "disastro" assunta nell'art. 434 cod.

pen..

Il problema, assai più dibattuto in dottrina che in giurisprudenza, è, in altri termini, se l'individuazione del

disastro in un fenomeno non dirompente ed eclatante, bensì diffuso e silente, per quanto importante e

penetrante, sia compatibile con la necessità, postulata dalla esigenza di determinatezza della

fattispecie, che la teorica polivalenza del termine disastro trovi soluzione univoca nella omogeneità

strutturale della relativa nozione da accogliersi ai fini dell'ipotesi in esame, rispetto ai "disastri"

contemplati negli altri artt. compresi nel capo dei delitti di comune pericolo "mediante violenza".

Può darsi per assodato che, come ricorda la sentenza n. 327 citata, l'art. 434 cod. pen., nella parte in cui punisce il

così detto disastro innominato ("altro disastro"), svolge la funzione di "norma di chiusura", mirando a riempire i

vuoti di tutela. Chiara, in tal senso, è la stessa Relazione del Guardasigilli al codice penale, ove si afferma che la

norma incriminatrice "è destinata a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme varietà dei fatti

possa presentarsi nelle norme ... concernenti la tutela della pubblica incolumità": giacchè "la quotidiana

esperienza dimostra come spesso le elencazioni delle leggi siano insufficienti a comprendere tutto quanto

avviene, specie in vista dello sviluppo assunto dalla attività industriale e commerciale, ravvivata e trasformata

incessantemente da progressi meccanici e chimici".

La prima osservazione da fare è perciò che, nonostante la inclusione della fattispecie del disastro innominato

nella disposizione che tratta specificamente del crollo, non si richiede che di tale fenomeno il disastro replichi le

caratteristiche fenomeniche, giacchè è palese - in base alla stessa relazione ministeriale - che può trattarsi di

evento del tutto eterogeneo.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 327 citata, ha d'altra parte richiamato il canone esegetico consolidato

della considerazione unitaria delle "finalità dell'incriminazione" (argomento teleologico) e del "più ampio

contesto ordinamentale in cui essa si colloca" (argomento sistematico), e ha sottolineato che "alla stregua di un

criterio interpretativo la cui validità appare di immediata evidenza, allorchè il legislatore - nel descrivere una certa

fattispecie criminosa - fa seguire alla elencazione di una serie di casi specifici una formula di chiusura, recante un

concetto di genere qualificato dall'aggettivo "altro" (nella specie: "altro disastro"), deve presumersi che il senso di

detto concetto - spesso in sè alquanto indeterminato - sia destinato a ricevere luce dalle species preliminarmente

enumerate, le cui connotazioni di fondo debbono potersi rinvenire anche come tratti distintivi del genus".

Proprio alla luce delle evenienze prese in considerazione dalle altre fattispecie incriminatrici del capo, che vanno

dall'incendio, frana, valanga, disastro ferroviario o aviatorio, crollo, all'attentato alla sicurezza degli impianti di

energia elettrica, del gas ovvero delle pubbliche comunicazioni telefoniche, può, dunque, escludersi che la

riconducibilità dei fenomeni presi in considerazione a un "macroevento" di immediata e dirompente forza

distruttiva costituisca requisito essenziale degli stessi.

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E' sufficiente al proposito richiamare Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini (cosiddetta sentenza

"Porto Marghera"), laddove ha efficacemente rilevato (pagine 335 - 336) che non tutte le ipotesi di disastro

previste dal Capo 1 del Titolo 6 del Libro 2 del codice penale (delitti contro l'incolumità pubblica) hanno di

necessità le caratteristiche di un macroevento di immediata manifestazione esteriore, poichè ad esempio la frana -

art. 426 - può consistere in spostamenti impercettibili che durano anni;

l'inondazione può consistere in un lentissimo estendersi delle acque in territori emersi. Sicchè anche nel disastro

innominato possono senz'altro essere ricondotti "non soltanto gli eventi disastrasi di grande immediata evidenza

(crollo, naufragio, deragliamento ecc.) che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli

eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che

pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri

valori della persona e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica

incolumità.".

4.3. Non conducente appare per conseguenza anche l'osservazione che la nozione di disastro innominato accolta

dalla giurisprudenza si risolverebbe così esclusivamente in un ineffabile dato "quantitativo". Vale infatti ripetere

che la grandezza del fenomeno naturale prodotto è misura dell'incriminazione non da sè sola, ma in

collegamento con il criterio teleologico delle finalità dell'incriminazione. L'entità dell'evento distruttivo concorre,

in altri termini, ad indicare il "peso" del carico offensivo del delitto, così contrassegnando il limite che giustifica

l'intervento punitivo per il titolo di reato in considerazione, così come, ad esempio, per la ipotesi di devastazione

rispetto a quella di danneggiamento.

4.4. La successiva obiezione consiste nella notazione che l'immissione di fattori inquinanti non avrebbe carattere

in sè "distruttivo".

Assunta la definizione proveniente dalla stessa Corte costituzionale a perimetro della nozione di disastro

(conforme, per altro, all'accezione primaria che il termine assume nel linguaggio comune, di "calamità", "evento

catastrofico"), in tal modo, però, arbitrariamente si riduce la nozione di distruzione ai fenomeni macroscopici e

visivamente percepibili, escludendo senza fondamento la rilevanza di tutti i fenomeni distruttivi prodotti da

immissioni tossiche che, come nel caso in esame, incidono altresì sull'ecosistema e addirittura sulla composizione

e quindi sulla qualità dell'aria respirabile, determinando imponenti processi di deterioramento, di lunga o

lunghissima durata, dell'habitat umano.

4.5. Ulteriore obiezione, suggestiva ma non condivisibile, è che, in ogni caso, in codesti casi, e in quello in esame

in particolare, l'effetto non potrebbe considerarsi il portato di un'azione realizzata "mediante violenza".

L'osservazione presenta analogie con la precedente, ma è assunta dalla prospettiva normativa, della "violenza-

mezzo" quale criterio discretivo dei delitti contemplati nel Capo 1 del Titolo 6 rispetto a quelli del Capo 2 (delitti

di comune pericolo mediante frode), ove, si dice, sarebbe contenuto in realtà il delitto più affine, quello

dell'epidemia (non predicabile, però, nel caso in esame, in cui il pericolo alla salute deriva dalla diffusione di

fattori patogeni che non sono "germi"). E' tuttavia agevole rilevare non solo che, come correttamente ha

evidenziato il Procuratore generale d'udienza, la distinzione accolta nel codice dei delitti commessi mediante

violenza e commessi mediante frode risponde più ad esigenze di ordine classificatorio che di natura definitoria ed

è espressione di criteri criminologici improntati alla prevalenza del disvalore di certi aspetti modali piuttosto che

ad altri pure richiesti per l'integrazione della fattispecie, ma, soprattutto, che tale osservazione erroneamente

identifica la nozione di "violenza", assunta a criterio classificatorio, con la violenza reale cosiddetta propria, o

materialmente inferta dall'agente. E' al contrario assunto consolidato e condiviso che nelle definizioni delle classi

di reati che si articolano in base a siffatte distinzioni, il riferimento alla commissione "mediante violenza" in

contrapposizione a "mediante frode", sta per lo più semplicemente ad indicare che il fatto postula l'impiego di un

qualsivoglia energia o mezzo - diretto o indiretto, materiale o immateriale - idoneo a superare l'opposizione della

potenziale vittima e a produrre l'effetto offensivo senza la "cooperazione" di quella. Sicchè non è seriamente

dubitabile che anche l'energia impiegata nell'ambito di un processo produttivo che libera sostanze tossiche e

l'inarrestabile fenomeno, così innescato, di meccanica diffusione delle stesse, alla cui esposizione non è possibile

resistere, rappresenta, nell'accezione considerata, violenza.

5. La natura dell'ipotesi del capoverso dell'art. 434.

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Si è anticipato che la sentenza impugnata ritiene che il reato di cui all'art. 434 cod. pen. sia ancora perseguibile sul

presupposto, anzitutto, che l'ipotesi del comma 2 di tale norma costituisca una fattispecie autonoma e in

relazione a tale impostazione il ricorso dell'imputato articola molteplici censure.

Con le precisazioni e nei limiti che si diranno, deve riconoscersi che si tratta di deduzioni fondate.

5.1. La giurisprudenza di questa Corte è assolutamente concorde nel ritenere che il capoverso dell'art. 434 cod.

pen. introduce un'ipotesi di reato aggravato dall'evento.

(omissis)

5.2. La tesi della Corte di merito, secondo cui in base ai principi di Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi,

sarebbe possibile giungere alla conclusione che si tratta di fattispecie autonoma, tradisce all'evidenza la ratio

decidendi di tale pronunzia, soffermandosi su criteri che le Sezioni Unite chiaramente considerano non

conducenti e trascurando quello che, come efficacemente sintetizza Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012,

Casani, Rv. 251270, è il nocciolo reale della soluzione della questione affrontata dalla sentenza Fedi e che risiede

nella constatazione "che l'unico criterio idoneo a distinguere le norme che prevedono circostanze da quelle che

prevedono elementi costitutivi della fattispecie è il criterio strutturale della descrizione del precetto penale".

E nel caso in esame, in cui il capoverso si limita ad affermare che "la pena è della reclusione da tre a dodici anni

se il crollo o il disastro avviene", senza neppure richiamare il "fatto" descritto al comma 1, ancor più che in

quello esaminato dalla sentenza Fedi, può dirsi che la descrizione dell'ipotesi del comma 2 non solo non reca

alcuna diversa formulazione degli elementi essenziali, materiali e psicologici, del delitto nè in alcun modo

consente di considerarli diversamente, ma alla fattispecie descritta nel comma 1 completamente si riporta

introducendo soltanto la considerazione di un evento, ulteriore, di danno che consiste nella mera realizzazione di

quello già considerato a fini intenzionali nel comma 1; sicchè tra le due ipotesi intercorre un evidente rapporto di

specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, tipica del rapporto esistente tra titolo di reato e

circostanza, nel senso che la seconda include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o

l'aggiunta di un fattore che ne aggrava la lesività e che consiste nel caso in esame appunto nella materiale

realizzazione dell'evento già incluso come mera finalizzazione della condotta nel primo. E restando immutata la

struttura essenziale del reato, non cambia neppure il bene giuridico tutelato. Nè incide l'osservazione ricorrente

secondo cui il dolo di disastro sarebbe intenzionale nel comma 1 mentre sarebbe semplicemente diretto o

generico nel secondo; tale opinione discendendo dalla considerazione che si tratterebbe di dolo rivolto verso

elemento che nel comma 1 è esterno rispetto alla realizzazione della fattispecie e che viene a formare invece

l'oggetto della fattispecie (aggravata) nel secondo. Cosa che, in definitiva, non serve a negare che in entrambe le

ipotesi si richieda l'intenzione di provocare il disastro, per entrambe mantenendosi il carattere di dolo eventuale

quanto al pericolo della pubblica incolumità.

5,3. Non conducenti paiono quindi gli argomenti che riposano sulla natura di delitto di attentato dell'ipotesi del

comma 1;sull'assimilabilità di questo al tentativo; sull'affermazione che di principio il codice penale considera le

fattispecie di delitto tentato autonome rispetto a quelle di delitto consumato;sull'evocazione, a contrario, dell'art.

59 cod. pen..

Che il comma 1 preveda un'ipotesi a consumazione anticipata, riconducibile allo schema del delitto di attentato,

ovvero del tentativo, è considerazione a grandi linee condivisa da giurisprudenza e dottrina. E sarebbe d'altronde

sterile ai fini che qui interessano soffermarsi sulla eventuale astratta differenza strutturale tra le due forme

(attentato e tentativo). Già la Relazione del Guardasigilli al codice riconosceva, con riferimento all'art. 434,

comma 1 che "Non è difficile stabilire quale sia il significato di "fatto diretto". In sostanza trattasi di fatti, che,

per la loro direzione e per la loro attitudine materiale ed obiettiva rientrerebbero nella sfera del tentativo rispetto

all'evento voluto dall'agente, ma che la legge considera come sufficienti alla perfezione di un delitto autonomo".

Quello che conta, invece, è che il legislatore, in questo come in altri analoghi delitti di attentato, ha inteso

delineare autonomamente una fattispecie a consumazione anticipata, sottraendola alle regole generali della

disciplina del tentativo, così rendendo, tra l'altro, irrilevanti le evenienze del terzo e quarto comma dell'art. 56

(desistenza volontaria e impedimento volontario dell'evento) e strutturando quindi alla stregua di fattispecie

aggravata l'ipotesi dell'evento realizzato. La conformazione del delitto come fattispecie di attentato

eventualmente aggravato dall'evento corrisponde dunque ad una precisa scelta normativa, sorretta dalla

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medesima logica di politica criminale che assiste l'opzione di arretrare, eccezionalmente, la soglia della

consumazione alla commissione del "fatto diretto a".

La tesi della teorica inconciliabilità della configurazione dell'evento realizzato come fattispecie aggravata del

delitto d'attentato, per una sorta di analogia sistematica con la disciplina del tentativo, ha dunque il difetto di

pretendere di interpretare la disciplina particolare del delitto di attentato sulla base delle regole generali riferibili al

delitto tentato: istituto simile, ma al quale il legislatore, disegnando la fattispecie come delitto di attentato,

deliberatamente ha voluto non si facesse ricorso.

Riceve, peraltro, esplicita - inequivocabile - smentita, ad esempio, nell'art. 280 cod. pen., comma 5 ove

espressamente si qualificano aggravanti le ipotesi previste ai commi precedenti, riferite appunto agli eventi

realizzati.

Un cenno merita infine l'obiezione, anche di recente ripresa da qualche voce, che fa leva sull'assunto che sarebbe

incompatibile con la disciplina dell'art. 59 cod. pen. una fattispecie circostanziale che si riferisce alla realizzazione

di un evento che deve essere oggetto di intenzione. L'art. 59, comma 2, stabilisce ora che le "circostanze"

aggravanti si valutano a carico dell'agente "soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute

inesistenti per errore determinato da colpa". Con ciò però pone un limite minimo per l'attribuzione di

responsabilità, ma non impedisce in alcun modo che il legislatore possa innalzare la soglia di imputazione

dell'elemento aggravante, espressamente prevedendo che sia addebitabile solo se voluto. E', d'altra parte, quanto

espressamente si chiariva, pure con riguardo alla previgente previsione dell'art. 59 c.p., comma 1, coeva alla

formulazione della norma incriminatrice in esame, nella Relazione al R. osservandosi:

"non si nega che, in qualche ipotesi, possa apparire eccessivo porre a carico del colpevole le circostanze secondo

la disposizione dell'epoca non conosciute, o non volute; ma senza alterare la regola generale, questi casi sono

tenuti nella debita considerazione dal Codice. Per ciò appunto l'art. 59 comincia(va) con la riserva:

"salvo che la legge disponga altrimenti""; e che, in costanza della precedente formulazione, faceva dire alla

dottrina che l'espressione ""anche se" non prevista", non escludeva di necessità che in forza di una disposizione

particolare potesse costituire aggravante la realizzazione di un risultato solo se previsto o addirittura voluto.

6. La consumazione del delitto aggravato.

La considerazione della realizzazione del disastro alla stregua di aggravante non comporta tuttavia, ad

avviso del Collegio, che, ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e della

decorrenza quindi dei termini di prescrizione, l'evento non debba essere considerato.

6.1. Secondo la definizione più comune, il reato è consumato allorchè la fattispecie è compiutamente realizzata e

si ha così piena corrispondenza tra modello legale e fatto concreto. Dottrina attenta e una parte considerevole

della giurisprudenza distinguono però perfezione e consumazione, osservando che la realizzazione di tutti gli

elementi della fattispecie nel loro contenuto "minimo" coincide con la perfezione del reato, e segna così la linea

di confine per la configurabilità del tentativo, ma non sempre e non necessariamente ne esaurisce la

consumazione, da intendere quale momento in cui si chiude l'iter criminis e il reato perfetto raggiunge la massima

gravità concreta riferibile alla fattispecie astratta e si apre la fase del posi factum.

Con il corollario essenziale, dunque, che esaurimento della consumazione non significa esaurimento di tutti gli

effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, giacchè: o gli effetti dannosi coincidono

con l'evento, ed allora l'esaurimento coincide con la consumazione; oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora

questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non

incidono sul momento (consumativo) del reato.

6.2. La distinzione viene così sostanzialmente a coincidere con quella tra inizio e cessazione della

consumazione ed assume rilevanza, ai fini del decorso del termine della prescrizione, nei reati a

consumazione protratta per definizione normativa, quali sono i reati permanenti, in cui (come evidenziano Sez.

U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, Rv. 221400, e Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola, Rv. 213932,

citando Corte cost. n. 520 del 1987) la fattispecie è caratterizzata dal fatto che "la durata dell'offesa è espressa da

una contestuale duratura condotta colpevole dell'agente", o i reati necessariamente abituali; e può in concreto

venire in rilievo nei reati eventualmente abituali e nei reati cosiddetti istantanei realizzati mediante una condotta

prolungata, o frazionata, non richiesta dalla fattispecie astratta pur non essendo con essa incompatibile (si pensi

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all'omicidio realizzato mediante somministrazione di dosi via via più letali di un veleno, al crollo determinato

mediante la provocazione di successive insistenti lesioni strutturali; all'estorsione con cui si richiedono pagamenti

rateali).

Ma non esplica alcuna funzione, come riconoscono dottrina e giurisprudenza consolidate, ai fini della

individuazione del momento consumativo, e quindi anche del dies a quo della prescrizione, in riferimento agli

effetti prolungati o permanenti dei reati istantanei o a condotta comunque esaurita (tra moltissime, oltre a Sez. U,

Lauriola, citata, Sez. U, n. 3 del 22/03/1969, Brunetti, Rv. 111410, in tema di contraffazione di atto pubblico;

Sez. U, n. 8 del 28/02/2001, Ferrarese, Rv. 218768, in tema di fraudolento trasferimento di valori; Sez. 6, n.

25976 del 04/05/2010 Silvestri, Rv. 247819, in tema di evasione; Sez. 3, n. 42343 del 09/07/2013, Pinto Vraca,

Rv. 258313, in tema di abbandono di rifiuti). Ciò appunto perchè nei cosiddetti reati ad effetti permanenti non si

ha il protrarsi dell'offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, ma ciò che perdura nel tempo sono

le sole conseguenze dannose del reato. E poichè quasi tutti i reati possono avere conseguenze più o meno

irreparabili in relazione non solo alla loro intima struttura (si pensi all'omicidio) ma anche alle imponderabili

variabili dei singoli casi concreti (si pensi all'evasione, al danneggiamento), in realtà quella dei reati ad effetti

permanenti neppure può considerarsi categoria dotata di autonoma rilevanza, se non, forse, ai fini di precisarne la

distinzione rispetto ai reati permanenti, abituati o a consumazione prolungata.

6.3. Sulla base delle stesse considerazioni anche il problema della data di consumazione del reato aggravato

dall'evento, che qui interessa, appare risolvibile quindi nel senso che il maggiore evento sposta la data di

consumazione.

In altri termini, come già affermava Sez. 5, n. 7119 del 20/06/1972, Sabatini, Rv. 122150 (in tema di false

dichiarazioni), la prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; la consumazione si

ha quando la causa imputabile ha prodotto interamente l'evento che forma oggetto della norma incriminatrice;

nulla consente di affermare che nella nozione di evento rientrino solo i risultati che sono assunti come elementi

costitutivi del reato e non anche quelli che importano un aggravamento della pena; per conseguenza, in caso di

reato aggravato dall'evento, l'iter criminoso si conclude col verificarsi di detto evento (nello stesso senso Sez. 1,

n. 2181 del 13/12/1994, Graniano, Rv. 200414, con riferimento all'ipotesi dell'art. 437 c.p., comma 2).

D'altronde, come è noto, nel sistema codicistico possono distinguersi grossomodo tre regimi di imputazione

dell'evento aggravatore: quelli per cui è indifferente che esso sia voluto (calunnia); quelli per cui l'evento è

previsto come finalità originaria dell'agente (reati a consumazione anticipata); quelli in cui l'evento non deve

essere nè voluto nè previsto perchè costituirebbe in tale caso delitto autonomo, concorrente e autonomamente

punibile (maltrattamenti, abbandono, omissione di soccorso).

Prescindendo dalle ipotesi che qui non ricorrono, non essendo questa la sede per dissertazioni generali, non è da

dubitare che nelle ipotesi in cui l'evento aggravante è previsto come finalità originaria dell'agente,

l'approfondimento della lesione è tipizzato nella stessa norma incriminatrice alla stregua di conseguenza legata

alla medesima condotta, in relazione alla quale si configura dunque un doppio evento, il secondo dei quali non

rappresenta mero effetto dannoso esterno alla fattispecie astratta ma è per ogni aspetto evento interno ad essa,

persino sotto il profilo del dolo, e perciò tipico, seppure non necessario per il perfezionamento nella forma

"minima", prevista per il titolo.

6.4. In conclusione, deve riconoscersi che nell'ipotesi di cui all'art. 434 c.p., comma 2, la realizzazione

dell'evento disastro funge da elemento aggravatore ma la data di consumazione del reato comunque

coincide con il momento in cui l'evento si è realizzato.

7. L'evento disastro.

Il punto focale della questione relativa alla consumazione del reato torna così ad essere quello della

individuazione del disastro che costituisce l'evento tipico della fattispecie dell'art. 434 c.p., comma 2.

(omisis)

7.4. Nessuna di dette costruzioni può essere condivisa.

Il Tribunale ha confuso non solo le nozioni di reato permanente e di reato così detto istantaneo a condotta

perdurante, ma, soprattutto, le nozioni di evento differito e di effetti permanenti, istituendo una inedita nozione

di evento permanente indipendentemente dal perdurare della condotta che gli ha dato origine, idoneo a

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determinare lo spostamento della consumazione del reato sino alla cessazione degli effetti oggettivi dell'evento

stesso. Che sarebbe come dire che in caso di lesioni il reato si consuma non quando la malattia viene prodotta o

si manifesta, ma quando la persona offesa guarisce.

E' evidente, in effetti, che in tanto nel reato permanente (e nel reato istantaneo a condotta perdurante) si

determina uno spostamento in avanti della consumazione rispetto al momento di iniziata realizzazione del reato,

in quanto, e fino a quando, la condotta dell'agente "sostenga" concretamente la causazione dell'evento. Del tutto

diversa è invece l'ipotesi del reato a evento differito, nel quale si ha semplicemente un distacco temporale fra la

condotta e l'evento tipico ad essa causalmente collegato; laddove, nel caso in esame, l'evento disastroso si è

realizzato contestualmente al protrarsi della condotta causativa e ha continuato a prodursi fino a che questa è

stata perpetrata.

La Corte di appello, probabilmente avvedendosi della confusione, ha invece cercato di ricondurre il concreto

manifestarsi del persistente pericolo per la pubblica incolumità nell'alveo dell'evento disastro, facendo coincidere

questo con il fenomeno definito epidemico, di eccessiva morbilità, e individuando così la consumazione del reato

nell'ipotetico momento, non ancora asseritamente verificatosi, di recessione di tale fenomeno.

Al riguardo occorre, per prima cosa, ricordare che la fattispecie in esame si riferisce, come oggetto dell'intenzione

al comma 1 e come evento al secondo, al solo "disastro"; non considera lesioni o morti come fini od eventi

ulteriori, neppure sotto forma di aggravante.

L'incolumità personale (collettiva) entra nella previsione normativa del disastro innominato solamente sotto il

profilo della pericolosità, o, come dice la Corte costituzionale, della proiezione offensiva della condotta, che ha

ad oggetto specifico un evento materiale, il disastro, inteso come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie,

qualitativamente caratterizzato dalla pericolosità per la pubblica incolumità.

Tale qualità rileva ex se e in via immediata ai fini dell'incriminazione e non va confusa con i concreti effetti per

l'incolumità delle persone, che rilevano ai soli fini della dimensione offensiva, com'è reso palese dalla pena

comminata per la fattispecie aggravata dall'evento voluto: inferiore nel massimo persino a quella prevista per

l'omicidio colposo plurimo. Non a caso nella Relazione del Guardasigilli (p. 2, p. 369) all'art. 577 cod. pen.

(circostanze aggravanti per l'omicidio) si osservava "Accanto al veneficio, ho dovuto prevedere la circostanza che

l'omicidio sia consumato con altri mezzi insidiosi .... L'omicidio commesso col mezzo di incendio, sommersione

o altro delitto di comune pericolo, rientra invece nel delitto di strage" (art. 422, punito con l'ergastolo).

La Corte di appello, che, pur riconoscendo che l'evento integrante la fattispecie del capoverso dell'art. 434 cod.

pen. deve essere voluto, fa rientrare in esso lesioni e morti (sia pure sub specie di accadimenti statisticamente

significativi), finisce al contrario per abbracciare una tesi che implicherebbe che l'art. 434 cod. pen. rende punibile

con pena massima sino a dodici anni la condotta di colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di

disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage: cosa questa che - come giustamente ha rilevato il

Procuratore generale - è insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contraria al buon senso.

Sul piano teorico, non può dimenticarsi che il pericolo non è mai, in se stesso, un evento fisico naturale, bensì

soltanto un giudizio qualitativo di probabilità - o, se si vuole, di apprezzabile possibilità - che ad un fatto ne segua

un altro. Ciò che di naturalistico vi è nel pericolo è, in altri termini, solo il fatto - pura condotta o condotta più

evento - cui va collegato il giudizio concernente il rischio di un effetto ulteriore. Pienamente condivisibile, perciò

(alla luce del principio di offensività e dell'art. 49 cod. pen.), l'opinione che per reati quali quello in esame, in cui il

pericolo è assunto quale fattore di connotazione del fatto tipico (e delimitazione dell'oggetto della fattispecie),

detto giudizio di probabilità dovrà informare anche la valutazione sulla obiettiva idoneità della condotta o

dell'evento. Ma tale giudizio, ancorchè formulabile ex post rispetto all'evento cui la norma richiede debba

collegarsi il pericolo di conseguenze ulteriori, non trasforma, de iure condito, l'effetto paventato in evento

ulteriore del reato e non può spostarne la consumazione oltre l'esaurimento dell'iter criminoso tipico sino al

momento di cessazione del pericolo, dando così al protrarsi nel tempo del "giudizio" di pericolosità un rilievo

autonomo rispetto al presupposto fattuale cui deve necessariamente accedere.

In breve: il reato di disastro innominato contempla, nella forma aggravata, un evento che è appunto il disastro

verificatosi; il disastro è da intendere, perchè sia assicurata, seguendo le rime obbligate desumibili dalla

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descrizione degli "altri disastri" nominati contemplati nel medesimo Capo I, la sufficiente determinatezza della

fattispecie, come un fenomeno distruttivo naturale di straordinaria importanza (Corte cost. n. 327 del 2008);

il pericolo per la pubblica incolumità, in cui risiede la ragione della incriminazione e che individua il bene

protetto, funge da connotato ulteriore del disastro e serve a precisarne sul piano della proiezione offensiva le

caratteristiche (Corte cost. n. 327 cit.); il persistere del pericolo, e tanto meno il suo inveramento quale concreta

lesione dell'incolumità, non sono richiesti per la realizzazione del delitto (Corte cost. cit.) e non essendo elementi

del fatto tipico non possono segnare la consumazione del reato, perchè, come icasticamente osserva Sez. 4, n.

32170 del 28/05/2014, Vicini (in un precedente del tutto conforme alla presente pronuncia), "non si deve

confondere l'evento pericoloso con gli effetti che ne sono derivati".

Perciò, mentre il Tribunale ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato, la Corte

di appello ha inopinatamente aggiunto all'evento costitutivo del disastro eventi rispetto ad esso estranei ed

ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio,

non oggetto di contestazione formale e in relazione ai quali in entrambi i giudizi di merito era stata

espressamente respinta qualsiasi richiesta volta alla verifica dei nessi di causalità con la contaminazione

ambientale.

Proprio la sentenza impugnata, in particolare, ha giustificato tali dinieghi esclusivamente sul rilievo che si trattava

di eventi ulteriori non oggetto in quanto tali di contestazione, facendo ricorso ad affermazioni quali quella che "la

prova del disastro è riferibile ad un concetto di causalità collettiva ... che riflette una condizione della realtà

distinta da quella relativa ai singoli infortuni, perchè li abbraccia, unificandoli come episodi particolari di un

fenomeno più esteso e li sussume, quindi, entro una categoria tassonomica di carattere generale: appunto quella

di disastro", che sovrappone, appunto, all'accadimento straordinario normativamente previsto i suoi effetti

concreti sulla collettività.

Non risultano dunque evocati, in relazione ai singoli casi, nè la natura di malattia professionale dell'asbestosi nè

saperi scientifici che consentissero di escludere con elevata credibilità razionale eziologie alternative del

mesotelioma polmonare e di risolvere univocamente il problema del rapporto tra periodi di esposizione,

responsabilità dell'imputato in relazione a tali periodi, nonchè eventuale effetto acceleratore delle esposizioni

frazionate a lui imputabili (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943).

E neppure si è fatto riferimento, sulla base delle evidenze epidemiologiche e in relazione alle morti da

mesotelioma o a quelle da tumori polmonari in eccesso rispetto alle "attese" (per bacini di popolazione

omogenea), alla teoria, suggerita con riferimento a vicende quali quella in esame da voci della Dottrina,

dell'accertamento alternativo (alla tesi, cioè, che l'evidenza epidemiologica, verificata, serve e basta per

l'affermazione di responsabilità per una determinata quota di decessi, a prescindere dalla individuazione di quali;

per altro concettualmente in contrasto con l'indiscriminato riconoscimento di un diritto al risarcimento del

danno da esposizione per tutte le persone offese costituitesi parti civili), la cui validità non è perciò suscettibile di

esame in questa sede.

8. La prescrizione del reato di disastro.

Discende da quanto evidenziato che nel caso in esame la consumazione del reato di disastro non può

considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della

lavorazione dell'amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all'imputato:

non oltre, perciò, il mese di giugno dell'anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo,

venne meno ogni potere gestorio riferibile all'imputato e al gruppo svizzero e gli stabilimenti cessarono, secondo

quanto riferiscono le stesse sentenze di merito, l'attività produttiva che aveva determinato e completato per

accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell'ambiente lavorativo e del

territorio circostante.

8.1. Non può annettersi invece rilevo, nella situazione normativa data, alla circostanza (richiamata anche da alcuni

difensori delle parti civili in sede di discussione orale) della mancata o incompleta bonifica dei siti.

Attribuirne la penale responsabilità all'imputato a titolo di protrazione della condotta costitutiva del disastro

postulerebbe che si potesse ricostruire la fattispecie in termini bifasici: una prima commissiva e una seconda

omissiva, violativa dell'obbligo di far cessare la situazione antigiuridica prodotta. Ma la fattispecie incriminatrice

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non reca traccia di tale obbligo, nè esso, o altro analogo, può desumersi dall'ordinamento giuridico, specie se

riportato al momento in cui lo stesso dovrebbe considerarsi sorto (1986).

D'altronde, come è stato efficacemente osservato a proposito della risalente analoga teorizzazione formulata con

riferimento alla configurazione del reato permanente, "se fosse concepibile un obbligo secondario di rimozione e

se il suo contenuto fosse quello di ripristinare l'assetto degli interessi offesi con l'azione o di attuare gli scopi

negletti con l'omissione, non si comprenderebbe perchè tale obbligo non dovrebbe operare rispetto a ogni

fattispecie che non contempli la distruzione del bene protetto, qualificando come permanente il relativo reato (in

tal modo, il furto o la ricettazione - universalmente riconosciuti come reati istantanei - dovrebbero essere

considerati reati permanenti fino alla restituzione al proprietario del bene sottratto)" (Sez. U, n. 17178 del

27/02/2002, Cavallaro, cit.); dovendo al contrario riconoscersi che ritenere incriminabile "anche la successiva

omissione di una contro-condotta", costituirebbe violazione del principio di tipicità e di tassatività che governa la

materia penale (Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola, cit.).

8.2. Non pertinenti appaiono inoltre, per il caso concreto, le deduzioni (pure articolate in sede di discussione

orale dalle parti civili) sulla irragionevolezza di un sistema normativo che non annette valore, ai fini dello

spostamento del decorso del termine di prescrizione, alla tardiva scoperta di un evento lesivo verificatosi molto

lontano nel tempo.

Il tema è oltremodo serio e meriterebbe riflessioni approfondite, specie con riferimento alla ipotesi dell'evento o

del danno occulto, ovvero alla situazione in cui l'evento lesivo si è compiutamente già realizzato nella sua

massima estensione ma è stato o è rimasto nascosto agli inquirenti: evenienza a sua volta sensibilmente differente

sul piano fenomenologico e concettuale sia da quella dell'evento a distanza (pure evocata facendosi l'esempio di

ordigno esplosivo seppellito che esplode dopo moltissimo tempo) sia da quella del danno così detto lungo-

latente cui si riferiscono, in ambito civile e agli effetti del risarcimento, Corte EDU sentenza 11 marzo 2014,

Howald Moor e altri c. Svizzera (relativa al caso di operaio, deceduto nel 2005, che nel maggio 2004 aveva

appreso di essere affetto da un mesotelioma pleurico maligno per essere stato esposto all'amianto negli anni

1960-1970 in ambiente di lavoro) e la giurisprudenza civile di legittimità in tema di esordio della prescrizione ai

sensi dell'art. 2947 cod. civ., ampiamente in linea con la posizione della Corte di Strasburgo in merito alla

decorrenza del termine prescrizionale dalla manifestazione del danno in tutte le sue componenti nei casi in cui si

riscontra un significativo scollamento temporale tra insorgenza del pregiudizio e condotta che lo cagiona (cfr., tra

molte, Sez. U civ, n. 23763 del 14/11/2011, Rv.619392, e n. 27337 del 18/11/2008, Rv. 605537).

Nessuna di dette evenienze, invero, assume rilievo nella fattispecie in esame.

Non l'ipotesi dell'evento a distanza (sicuramente riconducibile alla nozione di consumazione rilevante ai sensi

dell'art. 158 cod. pen.), perchè nel caso in esame l'evento, consistendo nella immutatio loci, si è realizzato ed è

venuto ad acquistare le connotazioni di straordinaria portata degenerativa dell'habitat naturale parallelamente e

contestualmente alla prosecuzione dell'attività di lavorazione dell'amianto, e il momento di sua massima

espansione sotto l'aspetto del fenomeno distruttivo naturalistico così innescato per fatto dell'imputato non può

collegarsi a momenti successivi alla chiusura degli stabilimenti.

Non l'ipotesi del danno lungo-latente riferita alle patologie asbesto correlate, perchè, a prescindere dal problema

della possibile rilevanza anche in materia penale del momento della manifestazione piuttosto che della teorica

insorgenza del male conseguente a condotta illecita, malattie e morti, come detto, non costituiscono l'evento del

reato di disastro e potevano semmai venire presi in considerazione quali eventi individuali di reati di lesioni e

omicidi, invece non contestati.

Non infine l'ipotesi dell'evento occulto, giacchè - ripetuto che il danno rilevante ai fini della consumazione e del

decorso della prescrizione è soltanto quello che coincide con l'evento tipizzato, e dunque con il disastro

ambientale - l'impostazione accusatoria e le condanne pronunziate dai giudici di merito presuppongono che già

quando l'odierno imputato aveva assunto la responsabilità della gestione del rischio di amianto per le aziende

Eternit Italia, gli effetti "disastrosi" della lavorazione (almeno quella non adeguatamente controllata) dell'asbesto

erano scientificamente noti.

8.3. D'altronde non può dimenticarsi che, come ricordano tra molte Corte cost. n. 434 del 2003 e n. 376 del

2008, il problema della efficacia morbigena delle polveri di amianto, ancorchè non bene identificati i modi, i

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tempi e i livelli di concentrazione della esposizione produttiva delle patologie tumorali, venne posto in luce in

sede comunitaria agli inizi degli anni ottanta, e la lavorazione dell'amianto è stata oggetto di interventi dapprima

limitativi poi inibitori che partono dalla direttiva CEE n. 477 del 19 settembre 1983.

Nelle considerazioni premesse a tale direttiva già si dava atto della nocività dell'amianto e si rilevava che erano

numerose le situazioni di lavoro in cui tale agente nocivo era presente, pur ammettendosi che le conoscenze

scientifiche dell'epoca non consentivano di stabilire il livello al di sotto del quale non vi fossero più rischi per la

salute. Sulla base di tali considerazioni, la direttiva dettava una serie di disposizioni volte, anzitutto, ad accertare,

mediante le opportune notifiche da parte delle imprese, le lavorazioni comunque comportanti l'uso dell'amianto

ed i livelli di concentrazione e ad ottenere la eliminazione di un certo tipo di lavorazione (applicazione

dell'amianto a spruzzo: art. 5), l'adozione di misure concernenti le modalità di svolgimento delle lavorazioni, la

protezione degli ambienti in cui si svolgevano, ed, infine, l'accertamento delle condizioni di salute dei lavoratori e

la dotazione di idonei equipaggiamenti individuali, qualora non fosse stato possibile eliminare altrimenti i rischi.

A tale direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione entro il 1 gennaio 1987, ad esclusione che per

le attività estrattive dell'amianto, per le quali era previsto un termine più lungo. L'Italia non adottò per tempo i

provvedimenti dovuti, e la Corte di giustizia delle Comunità Europee, a seguito di procedura di infrazione

promossa dalla Commissione, con sentenza 13 dicembre 1990, n. 240, la dichiarò inadempiente agli obblighi che

le incombevano in forza del Trattato CEE. Successivamente il Consiglio emise la direttiva n. 382 del 1991 con la

quale, "considerando che, l'amianto è un agente particolarmente pericoloso che può provocare malattie gravi ed è

presente in varie forme in numerose situazioni di lavoro", vietò, in aggiunta alla applicazione a spruzzo, altre

forme d'impiego del materiale e indicò nuovi valori-limite, pur dando atto che non poteva ancora essere adottata

una decisione che stabilisse "un unico metodo di misurazione del tenore di amianto nell'aria a livello

comunitario". Per dare attuazione alla direttiva n. 477 del 1983 e alle altre concernenti la protezione dei lavoratori

contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, in esecuzione della

delega di cui alla L. 30 luglio 1990, n. 212, art. 7 venne emanato il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, il quale, tra

l'altro, all'art. 31 fissava valori-limite di esposizione alla polvere di amianto espressi come media ponderata in

funzione del tempo di riferimento di otto ore. Con la L. 27 marzo 1992, n. 257, pubblicata un anno dopo, nella

Gazzetta Ufficiale del 4 agosto 1993, vennero infine dettate "Norme relative alla cessazione dell'impiego

dell'amianto". E in detto contesto normativo vale ricordare che l'art. 1, comma 1, individuava le finalità

perseguite nella dismissione dell'amianto dalla produzione e dal commercio, nella cessazione dell'estrazione,

dell'importazione, dell'esportazione, dell'utilizzazione di detto materiale e dei prodotti che lo contengono, nonchè

nella bonifica delle aree inquinate, nella ricerca di materiali sostitutivi e nella riconversione produttiva, mentre

l'art. 10, comma 1, prevedeva che regioni e province autonome adottassero, entro centottanta giorni dalla data di

emanazione del D.P.C.M. di cui all'art. 6, comma 5, piani di protezione dell'ambiente, di decontaminazione, di

smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall'amianto.

A tutto voler concedere, ed ammettendo in ipotesi che ai fini della nozione di evento "occulto" possa rilevare

anche il ritardo nella informazione scientifica degli organi pubblici legato alla lentezza della risposta politica a

problemi di tale fatta, almeno a far data dall'agosto dell'anno 1993 non poteva ignorarsi a livello comune l'effetto

del rilascio incontrollato di polveri e scarti prodotti dalla lavorazione dell'amianto, definitivamente inibita, con

comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti. E da tale data a quella del rinvio a giudizio (2009) e

della sentenza di primo grado (del 13 febbraio 2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti, con eventuali atti

interruttivi (12 anni più un quarto), per la maturazione della prescrizione in base alla L. n. 251 del 2005, per il

reato in esame.

(omissis)

Cass., sez. IV, 25 gennaio 2016 (dep. 29 marzo 2016), n. 12675, secondo la quale "Il reato di disastro

colposo di cui all'art. 449 c.p., richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la

vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate; è … necessaria per la sua sussistenza,

proprio per la natura di delitto colposo di comune pericolo, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo

per l'incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”

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44

(omissis)

In particolare, quanto alle dimensioni del fenomeno ed alla sua configurabilità in termini di distrastro colposo,

giovi considerare quanto più volte ribadito da questa stessa sezione, secondo cui "Il reato di disastro colposo di

cui all'art. 449 c.p., richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o

l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate; è necessaria quindi una concreta situazione

di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo

all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone,

anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacita

diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la

qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorchè, casualmente, l'evento dannoso non si è

verificato" (Sez. 4 n. 7664 del 15/10/2009 Ud. (dep. 25/02/2010), Rv. 246848), essendo necessaria per la sua

sussistenza, proprio per la natura di delitto colposo di comune pericolo, soltanto la prova che dal fatto derivi un

pericolo per l'incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno (in tal senso Sez. 4

n. 19342 del 20/02/2007, Rv.236410).

Quanto alle caratteristiche dell'evento, si è pure chiarito che, "Ai fini della configurabilità del delitto di disastro

ambientale colposo (art. 434 c.p., comma 2, e art. 449 c.p.) è necessario che l'evento di danno o di pericolo

per la pubblica incolumità sia straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di

eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di

prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e

che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicchè non è richiesto

che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure

colpire cose, purchè dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute

collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti

destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di

durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è

necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo" (Sez. 5 n. 40330 in data 11/10/2006, rv. 236295).

La valutazione condotta dal giudice del merito, oltre che coerente con gli elementi di prova richiamati in

sentenza, è anche pienamente rispettosa degli enunciati principi di diritto in ordine alle caratteristiche del disastro

colposo. In motivazione, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, si dà ampiamente conto degli indici di

gravità (vastità del fenomeno, forza distruttiva, difficoltà di contenimento, grado di pericolo astratto) del

fenomeno venutosi a creare anche a causa del comportamento omissivo dell'imputato.

Quanto a quest'ultimo, inoltre, la Corte d'appello ha descritto la natura del fenomeno, tutt'altro che improvviso,

distinguendo i fattori predisponenti, da quelli di preparazione e dalle cause che da ultimo hanno determinato la

frana e rilevando, con specifico riguardo alla condotta del B., che costui era ben consapevole delle peculiarità del

sito e della necessità di approntare un sistema di contenimento che tenesse conto della sua naturale acclività, ma

anche della presenza di un considerevole quantitativo di materiale da riporto che aveva influito sulle condizioni di

stabilità precaria dello stesso.

Nel fare ciò, la Corte territoriale ha precisato che lo scivolamento non era stato provocato da un crollo

improvviso, ma dall'evolversi di una situazione ben conosciuta, anche dal B., di fronte alla quale non era stato

predisposto un presidio idoneo. In tale contesto ha, quindi, ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che anche

il muro di contenimento esistente (non realizzato dalla Cavadino s.r.l.) fosse inidoneo, stante la rilevata

inadeguatezza delle misure, queste si approntate dalla società costruttrice, ben descritte nella sentenza censurata.

VI. DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA

Cass., sez. II, 4 febbraio 2014, n. 5546, sull’esclusione dell’assorbimento tra il reato di falso ideologico in atto pubblico e quello di abuso d'ufficio (tra le pronunce di segno contrario cfr. Cass., sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1417).

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(omissis)

Infondata è innanzitutto la tesi secondo cui il reato di cui all'art. 323 c.p., resterebbe assorbito nel più grave reato

di cui all'art. 476 c.p., essendosi in presenza di condotte distinte ciascuna munita di differente ambito di

offensività (cfr., Cass., Sez. 5^, n. 3349 del 01/02/2000-dep. 16/03/2000, Palmegiani ed altri, rv. 215587,

secondo cui il delitto di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico e quello di abuso

d'ufficio offendono beni giuridici distinti; il primo, infatti, mira a garantire la genuinità degli atti pubblici, il

secondo tutela l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.

Pertanto, mentre tra gli stessi ben può sussistere nesso teleologico - in quanto il falso può essere

consumato per commettere il delitto di cui all'art. 323 c.p. - la condotta dell'abuso d'ufficio certamente

non si esaurisce in quella del delitto di falso in atto pubblico nè coincide con essa; nello stesso senso,

Cass., Sez. 5^, n. 7581 del 05/05/1999-dep. 11/06/1999, Graci, rv. 213777).

Il Tribunale di Reggio Calabria ha correttamente tratto dalla lettura di due atti amministrativi (provvedimento

26.08.2008 n. 5068 emesso dalla Regione Calabria Dipartimento n. 8, Urbanistica e Governo del territorio; nota

29.01.2009 n. 179 del Commissario prefettizio presso il Comune di Brancaleone) temi utili e decisivi per

sgombrare il campo da equivoci di sorta ed in particolare dalla possibilità che il funzionario Vi. potesse essere

incorso in errore scusabile in ordine all'interpretazione della normativa urbanistica-edilizia di riferimento.

Al contrario, detti documenti, letti all'unisono con le altre risultanze probatorie, comprovano come la condotta

dell'indagato fosse frutto di dolosa parzialità e, in definitiva, di una vera e propria collusione-concertazione con il

C., ulteriormente suffragata dalla corrispondenza intervenuta e dai significativi e costanti contatti tra i due.

Conclusione che i giudici di seconde cure traevano dai seguenti ulteriori elementi di fatto:

a) dal tenore del parere fornito dal Vi., ricco di termini suadenti e mirante in modo lapalissiano ad una non

consentita interpretazione ortopedica delle norme di legge;

b) dai chiari ed in equivoci precedenti, proprio del Comune di Brancaleone, degli anni 1991, 1999 e 2000 in cui,

in casi analoghi, era stato seguito il corretto iter amministrativo, con variante allo strumento urbanistico,

condizionata e soggiacente al parere (quelle volte, richiesto) della preposta autorità regionale;

c) dalla qualificazione tecnica del Vi. in ragione delle stesse funzioni da egli esercitate;

d) dal finanche risibile tentativo di "confondere le acque" mediante un nebuloso e capzioso uso dei termini

"variante" ed "in deroga";

e) dal compimento di una violazione di legge - per quanto ben camuffata - macroscopica, tanto da potersi

desumere dalla semplice lettura del D.P.R. n. 380 del 2001 e che, nei fatti, era stata subito ravvisata dall'istituto di

credito a cui il C. si era rivolto per un mutuo di scopo.

Proprio con riferimento a tale ultima circostanza, evidenziava il Tribunale di Reggio Calabria, come la

macchinazione criminosa artificiosamente posta in essere dal Vi. e dal C. si fosse letteralmente "inceppata"

unicamente a cagione dei rilievi, critici ed ostativi, mossi dal predetto istituto di credito che, in buona sostanza,

hanno reso necessitato il "riesame" dei permessi n. 13/2007 e 6/2008, avviato obtorto collo dallo stesso Vi..

In tal senso, il successivo parere prò ventate dell'11.08.2008 chiesto all'avv. Infantino dal Vi., si configura -

secondo la valutazione del Tribunale di Reggio Calabria - alla luce della registrata evoluzione degli accadimenti,

come null'altro che una "pezza di appoggio", posticcia e solo apparentemente giustificativa del pregresso operato

del tecnico stesso.

Non vale, inoltre, ad escludere la configurabilità del reato di abuso di ufficio la dedotta mancanza, in capo al Vi.,

del potere decisorio finale in ordine agli emanandi permessi di costruire in virtù della ritenuta competenza del

dirigente dell'ufficio dal momento che la giurisprudenza della Suprema Corte che, anche la formulazione di un

parere consultivo, se espresso contra legem, può integrare la condotta di reato di abuso d'ufficio, nel caso in cui il

giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza

che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis, come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto

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illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio (cfr., Cass., Sez. 5^, n. 21947 del 02/02/2001-dep.

27/04/2001, Bertolini ed altro, rv. 219455).

Altrettanto è a dirsi - prosegue il Tribunale di Reggio Calabria - con riferimento ai contestati reati di falso, alla cui

integrazione non osta la circostanza che il giudizio espresso dal Vi. nel menzionato parere fosse, in effetti,

espressione della c.d. discrezionalità tecnica, stante il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità

secondo cui in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad

esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente

discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto:

diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di

valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di

conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicchè l'atto potrà risultare falso se detto giudizio

di conformità non sarà rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (cfr., Cass., Sez. 2^, n. 1417

del 11/10/2012-dep. 11/01/2013, P.C. in proc. Platamone e altro, rv. 254305).

12. (omissis)

VII. DELITTI CONTRO FAMIGLIA

Alterazione di stato e surrogazione di maternità

Cass., Sez. VI, 11 novembre 2015 (dep. 26 febbraio 2016), n. 8060 e Cass. Sez. V, 10 marzo (dep. 5 aprile)

2016, n. 13525, in relazione al delitto di alterazione di stato ex art. 567 cp a seguito di trascrizione dell’atto di

nascita redatto all’estero in riferimento ad un minore nato tramite surrogazione di maternità, pervengono a

conclusioni opposte: la prima nel senso dell’integrazione del delitto ogniqualvolta il nato non risulti

geneticamente “figlio” dei genitori, ove costoro traggano in inganno l’ufficiale di stato civile; la seconda invece

esclude tale possibilità ove sia osservata la lex loci.

Cass. 26 febbraio 2016, n. 8060 1. (omissis) 7. La fattispecie in fatto presenta contorni non incerti nei suoi tratti essenziali. E' infatti pacifico che con il neonato L. L. intercorrono rapporti genetici solo con il padre, l'odierno imputato L.F. e non con la B., cui viene pacificamente ascritto esclusivamente il ruolo di madre sociale. Emerge, anche, in linea con quanto segnalato dai due uffici ricorrenti, che solo in un secondo momento, paventata, dai funzionari del consolato, la possibilità della responsabilità penale correlata alla chiesta trasmissione in Italia del certificato di nascita tratto dal registro di stato civile ucraino che rassegnava nei ricorrenti i genitori del neonato, gli imputati hanno chiesto sospendersi e poi annullare la prima richiesta, sostituendo alla stessa una nuova, articolata dal solo L., richiesta di trasmissione, caratterizzata da allegazioni certamente in grado di disvelare con nettezza l'assenza di legami biologici tra il bambino e la B.. Sulla base di quest'ultima richiesta l'ufficiale di stato civile competente ha provveduto alla trascrizione, comunque indicando negli imputati i genitori del neonato pur nella consapevolezza della non coincidenza tra la maternità rassegnata nel certificato di nascita formato in Ucraina e il dato reale. 8. Il reato è stato contestato siccome consumato in Italia. Tanto in ragione di una condotta decettiva sostanziatasi in Ucraina (il certificato di nascita allegato alla richiesta di trasmissione), strumentale alla alterazione di stato al fine perseguita, realizzata, secondo la prospettazione accusatoria, al momento della trascrizione in Italia del detto atto di nascita. Siffatta ricostruzione teorica riposa su una corretta visione interpretativa della ipotesi di reato all'uopo contestata. 8.1. Il reato in disamina si concreta in un falso ideologico funzionale ad una alterazione dello status di filiazione ascrivibile al neonato. Alterazione che viene a realizzarsi in esito ad una registrazione anagrafica resa, grazie al falso, in termini distonici rispetto al naturale rapporto di procreazione.

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Ad essere tutelato è il complesso interesse sotteso allo stato di filiazione, in relazione al quale si intersecano momenti diversi: alcuni immediatamente correlati alla situazione di fatto determinata dalla procreazione, intimamente legati, dunque, allo sviluppo della personalità del neonato ed ai rapporti familiari, sia genitoriali che parentali che dalla prima dipendono; altri strettamente correlati al fascio di situazioni giuridiche che l'ordinamento fa discendere dalla iscrizione anagrafica del neonato quanto alla individuazione dei relativi genitori. 8.2. Per dare luogo alla alterazione di stato, dunque, occorre che la condotta di falso si muova all'interno della formazione dell'atto di nascita, concretandosi il reato con la registrazione dell'atto stesso. La registrazione anagrafica costituisce dunque lo spartiacque essenziale tra le possibili valutazioni interpretative inerenti la medesima condotta di falso: completa e definisce il quadro delle situazioni in fatto e diritto legate alla veridicità della procreazione destinate a delineare lo status di filiazione del neonato. Non rilevano al fine, in ragione di tanto, le condotte di falso successive alla formazione dell'atto di nascita, in genere ricondotte da questa Corte all'interno dell'ipotesi normativa di cui all'art. 495 c.p., comma 2. Per contro, quelle antecedenti la registrazione anagrafica (tipiche, pur se scolastiche, le ipotesi legate alle dichiarazioni di nascita cui non sia seguita poi la iscrizione anagrafica per fatti indipendenti dalla volontà dell'autore della dichiarazione non coincidente al vero) vanno ricondotte all'egida del tentativo del reato ex art. 56, 71 c.p., comma 2 e si distinguono dalla ipotesi di reato di cui all'art. 495 c.p., comma 2 perchè colorate dal quel quid pluris offerto dal momento di realizzazione della condotta decettiva, la formazione dell'atto di nascita in funzione della acquisizione dello status filiationis. 8.3. La dinamica che porta alla consumazione del reato assume ancor più complessità quanto più articolata si rivela la registrazione anagrafica. Fa gioco l'ipotesi che qui immediatamente interessa della trascrizione in Italia degli atti formati all'estero secondo la procedura imposta dal combinato disposto di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, art. 15, comma 2 e art. 17. In ragione di tale dato normativo, l'atto di nascita, formato secondo la lex loci, viene trasmesso su sollecitazione del dichiarante dalle autorità consolari all'ufficiale di stato civile del Comune territorialmente competente perchè quest'ultimo, con il solo limite della contrarietà dell'atto all'ordine pubblico (art. 18 stesso D.P.R.), provveda alla trascrizione presso i registri italiani. In siffatti casi, poichè la condotta di alterazione di stato presuppone la registrazione anagrafica in Italia, risultando collegata indefettibilmente a questo momento la nascita dell'insieme di situazioni giuridiche che l'ordinamento riconosce allo stato di filiazione, ne consegue che; - la formazione dell'atto di nascita in esito a condotte viziate da falsità ideologica che non esondano i confini dello stato nel quale si sono formate non rilevano ai fini della ritenuta consumazione del reato di cui all'art. 567 c.p., comma 2; - al più le stesse possono rilevare quali condotte funzionali a riscontrare in forma tentata il reato in questione laddove la mancata trascrizione in Italia sia conseguenza di scelte estranee alla volontà del dichiarante (ad esempio perchè l'Ufficiale dello stato civile non provveda a trascrivere perchè l'atto è contrario all'ordine pubblico); - non è ravvisabile l'ipotesi di reato ex art. 4951 c.p., comma 2, considerata la finalizzazione strumentale della condotta di falso all'alterazione di stato tale da ricondurre il tutto all'interno del tentativo di alterazione di stato ex art. 567 c.p., comma 2. 8.4. Tanto porta concludere per la correttezza della impostazione teorica sottesa alla imputazione, che vede la consumazione del reato in Italia siccome collegata alla avvenuta trascrizione dell'atto di nascita assertivamente tacciato di falsità formatosi in Ucraina; e segna, anche, la coerenza a siffatta ricostruzione delle stesse doglianze prospettate nelle impugnazioni delle due Procure ricorrenti, soprattutto con riferimento al gravame della Procura Generale, laddove, nel dare rilievo autonomo al segmento di condotta decettiva posta in essere in Ucraina dai due imputati nel formare l'atto di nascita relativa, si rivendica la configurabilità del tentativo di alterazione di stato o in alternativa l'ipotesi prevista dall'art. 4951 c.p., comma 2 proprio muovendo, tanto implicitamente quanto imprescindibilmente, dal presupposto della indifferenza della registrazione dell'atto di nascita nei registri di stato civile dell'Ucraina rispetto alla consumazione del reato di cui all'art. 567 c.p., comma 2. 9. Le considerazioni di principio sopra rassegnate assumono valenza determinante nel giungere alla conclusione della reiezione dei ricorsi. 9.1. In primo luogo consentono di affermare, alla luce delle indicazioni spese nel definire il bene giuridico tutelato dalla norma oggetto di scrutinio, l'irrilevanza della coerenza dell'atto di nascita formato in Ucraina alle disposizioni normative vigenti nel detto Stato, laddove, come è pacifico nella specie, quanto emerge dalla relativa iscrizione anagrafica non coincida con la verità in fatto della procreazione.

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Il tema, sul quale si spende in via argomentativa il Gup e che risulta affrontato anche dalla Procura Generale ricorrente, non ha rilievo rispetto alla configurabilità del reato in contestazione. Si confondono, in parte qua, i piani afferenti momenti di accertamento affini ma diversi. Segnatamente si confonde: - la valutazione sottesa alla trascrizione dell'atto formato all'estero, vincolata, salvo il limite dell'ordinè pubblico, dalla coerenza alla lex loci anche quando la distonia tra dati costitutivi reali (la discendenza secondo natura) e quelli rassegnati dall'atto siano favoriti da possibili finzioni normative (a voler ricondurre il tutto alla legislazione ucraina, le ipotesi di surrogazione di maternità assentite dal quell'ordinamento); - con la valutazione legata al giudizio sulla responsabilità penale, che prende le mosse dall'idea in forza alla quale lo stato di filiazione nell'ordinamento italiano presuppone a monte la coincidenza tra discendenza naturale ed emergenza documentale sottesa alla formazione dell'atto di nascita sì che, ogni qual volta quest'ultima risulti sfalsata in fatto da effetti distonici anche legittimi in forza di quanto previsto dall'ordinamento straniero, resta ferma la violazione del precetto penale che mira, come si è detto, a tutelare non solo le situazioni giuridiche consequenziali alla iscrizione anagrafica ma anche quelle in fatto legate alla verità naturale della procreazione. In siffatti casi, ferma la possibilità dell'Ufficiale di stato civile di rifiutare la trascrizione laddove ritenga che l'atto di nascita si sia formato in contrasto con l'ordine pubblico, tale potendosi considerare, per l'ordinamento interno, una iscrizione anagrafica che rassegni un dato non coincidente al vero rispetto alla discendenza naturale del neonato (così da legittimare negli interessati la possibilità di adire le verifiche giudiziali correlate ad un siffatto rifiuto), resta da dire che la trascrizione comunque effettuata è in linea di principio idonea a conclamare il reato di alterazione di stato perchè fondata su un presupposto fattuale falso, che, non importa se punibile o meno secondo la legislazione dello Stato di formazione dell'atto, costituisce lo snodo essenziale della condotta che porta ad alterare lo stato civile del neonato, non coincidente con quello costitutivo. 9.2. (omissis)

Cass. 10 marzo 2016, n. 13525 1. (omissis) 3. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione, con riferimento ai contestati reati di cui all'art. 567 c.p., comma 2, artt. 495, 48 e 476 cod. pen.. Prendendo le mosse dalle critiche che investono l'applicazione dell'art. 567 c.p., comma 2, si osserva che, ai fini della configurabilità di tale delitto, è necessaria un'attività materiale di alterazione di stato che costituisca un quid pluris rispetto alla mera falsa dichiarazione e si caratterizzi per l'idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza, in conseguenza dell'indicazione di un genitore diverso da quello naturale (Sez. 6, n. 47136 del 17/09/2014, P, Rv. 260996). Il ricorrente, pur citando tale sentenza a sostegno delle sue doglianze, trascura di considerare che, anche alla stregua di questa pronuncia, la condotta deve comportare un'alterazione destinata a riflettersi sulla formazione dell'atto di nascita, come infatti emerge, in modo evidente, da Sez. 6, n. 35806 del 05/05/2008, G., Rv. 241254, secondo cui il reato del quale si discute non è configurabile in relazione alle false dichiarazioni incidenti sullo stato civile di una persona, rese quando l'atto di nascita è già formato (la sentenza aggiunge che, in tale caso, la condotta può rientrare invece nella previsione dell'art. 495 c.p., comma 3, n. 1 ipotesi, nella specie, da escludere per le ragioni che si diranno). E, tuttavia, alla stregua della incontroversa ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza impugnata, non è dato cogliere alcuna alterazione dello stato civile del minore nell'atto di nascita del quale si discute, che, al contrario, risulta perfettamente legittimo alla stregua della normativa nella quale doverosamente è stato redatto. Ora, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 15, le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani (e tale è il minore, in quanto figlio di padre italiano: L. n. 91 del 1992, art. 1, comma 1, lett. a)) nati all'estero sono rese all'autorità consolare (comma 1) e devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti, se ciò è imposto dalla legge stessa. In questi casi, copia dell'atto è inviata senza indugio, a cura del dichiarante, all'autorità diplomatica o consolare (comma 2). Il ricorrente insiste nel sostenere che gli imputati avrebbero dovuto esibire all'Ambasciata italiana di Kiev il certificato di nascita n. 359 del 02/09/2014 e non anche il successivo certificato n. 301 emesso in data 04/09/2014, a seguito dell'autorizzazione della madre naturale e dell'Informazione di relazione genetica, nel quale gli imputati sono indicati come genitori del minore.

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Si tratta, tuttavia, di un'affermazione che non ha alcun fondamento normativo, ma che soprattutto, ai fini che rilevano nel presente procedimento, non dimostra affatto l'esistenza di una falsificazione, giacchè il secondo certificato, come si diceva (e senza bisogno di verificare, se, come sostengono gli imputati nella loro memoria, esso sarebbe in realtà l'unico atto dello stato civile ucraino, dal momento che il primo certificato sarebbe soltanto il certificato medico redatto dall'ospedale comunale), è stato redatto alla stregua della legge locale e in corrispondenza della situazione assunta come rilevante da quest'ultima. Peraltro, in termini assolutamente assertivi, il ricorso deduce che il secondo certificato contiene un'informazione falsa, rappresentata dall'indicazione dell'imputata come madre naturale del minore. In conseguenza dei superiori rilievi, non si espone a critica la sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso la sussistenza anche del reato di cui agli artt. 48 e 476 cod. pen., giacchè l'ufficiale di stato civile italiano non ha formato alcun atto falso, ma si è limitato a procedere alla trascrizione dell'atto, riguardante un cittadino italiano, formato all'estero. La assenza di ogni ammissibile critica alle considerazioni della sentenza impugnata, quanto alla mancanza di dichiarazioni degli imputati relative ad una loro genitorialità naturale, vale, infine, a dimostrare anche l'infondatezza delle critiche articolate, in relazione al reato di cui all'art. 495 cod. pen., dal ricorrente. Secondo quest'ultimo, infatti, la dichiarazione o falsa attestazione si sarebbe realizzata nel momento in cui gli imputati avrebbero ritenuto di non rispondere alla richiesta del funzionario consolare di chiarire se si fossero avvalsi della procedura di surrogazione di maternità, all'interno del territorio ucraino. Al riguardo, si osserva, tuttavia, anche a voler prescindere dal fatto che non si tratta della condotta contestata (che ha per oggetto le dichiarazioni contenute nella richiesta di trascrizione dell'atto di nascita, a proposito delle quali la sentenza impugnata ha rilevato che l'atto di nascita era stato registrato sulla base di una mera richiesta e non di ulteriori attestazioni), che il reato di cui all'art. 495 cod. pen. presuppone una falsa dichiarazione che, anche nella condotta valorizzata nel ricorso per cassazione dal P.M., non risulta essere intervenuta.

Rilevanza penale del Mobbing

Cass. Pen., Sez. VI, 22 ottobre 2014 (dep. 22 dicembre 2014), n. 53416, sulla rilevanza penale del mobbing ex

art. 572 cp anche in imprese medio-grandi.

(omissis) Giova premettere come la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, tradizionalmente concepita in un contesto familiare, sia stata nel tempo estesa - ed in tale senso è l'attuale disposto normativo dell'art. 572 cod. pen. - anche a rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia nonchè a rapporti professionali e di prestazione d'opera. Proprio avendo riguardo a tale ultima categoria di rapporti, questa Suprema Corte ha riconosciuto la possibilità di sussumere nella fattispecie dei maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità in contesto lavorativo la condotta di c.d. mobbing posta in essere dal datore di lavoro in danno del lavoratore, quale fenomeno connotato da una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti reiterati nel tempo convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio (Cass. Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv. 237439). Avuto riguardo alla ratio dell'art. 572 c.p. - che si sostanzia quale delitto contro l'assistenza familiare -, affinchè la condotta persecutoria e maltrattante del datore di lavoro in danno del dipendente possa essere sussunta nella fattispecie incriminatrice in parola è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzata dal tratto della "para-familiarità": l'ampliamento ad opera della giurisprudenza del perimetro delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo - familiare ha invero lasciato invariata la collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice nel titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione/sovra ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l'affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all'azione di chi ha ed esercita su di lui l'autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia

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discrezionalità ed informalità. Se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità para-familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell'art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo di irragionevolezza del sistema (Cass. Sez. 6, n. 685 del 22/09/2010, P.C. in proc. C, Rv. 249186; Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, Rv. 252607; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, Pg in proc. G, Rv. 260063). Secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. "mobbing") possono dunque integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para - familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia -soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest'ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (da ultimo, Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, Pg in proc. G., Rv. 260063; Cass. Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, Rv. 255976). Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell'ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para- familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell'ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall'art. 572 cod. pen.) (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368). 4. Di tali condivisibili principi non ha fatto buon governo la Corte piemontese laddove ha affermato l'insussistenza di un contesto interpersonale di natura para-familiare sulla base di argomentazioni contrarie a logica ed a comuni massime d'esperienza nonchè a diritto. 4.1. In primo luogo, la sussistenza (o insussistenza) di un rapporto di natura para-familiare non può essere desunta dal dato - meramente quantitativo - costituito dal numero dei dipendenti dell'impresa nell'ambito della quale siano commesse le condotte in ipotesi maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull'aspetto qualitativo, id est sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore. Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para familiarità allorchè ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare (come nel caso della collaborazione domestica svolta in ambito familiare) o comunque caratterizzata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, il quale gestisca l'azienda con atteggiamento "padronale" e, dunque, in modo autoritario sì da innestare quella dinamica relazionale "supremazia - subalternità" che si ritrova nelle relazioni fra soggetti che si trovino ad operare su piani diversi. Una relazione di siffatta natura difficilmente potrà essere configurata in realtà aziendali di notevoli dimensioni, nell'ambito delle quali i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati (non potendosi peraltro escludere dinamiche para-familiari nell'ambito dei singoli reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto). In caso di piccole o medie imprese (come appunto nella specie), la valutazione sul punto non può invece prescindere da una attenta indagine sulle effettive dinamiche relazionali intercorrenti fra titolare e lavoratore, sì da rilevare la sussistenza o meno di uno stato di soggezione nei termini sopra delineati. 4.2. Allo stesso modo, la para-familiarità non può essere ritenuta insussistente, come argomentato il giudice a quo, in considerazione del fatto che il rapporto di lavoro si sia sviluppato per ampio lasso temporale. Anche a tale proposito deve invero essere ribadito come la sussistenza di una situazione parafamiliare dipende dalla intensità e dalla natura della relazione interpersonale intercorrente fra datore di lavoro e dipendente più che dalla durata temporale della relazione stessa, potendo le condotte ostili e persecutorie del primo, tese alla mortificazione ed all'isolamento del lavoratore, essere tollerate per molti anni da quest'ultimo in ragione di una situazione di bisogno economico e mancanza di alternative professionali. Risulta pertanto priva di ragionevole fondamento la regola d'esperienza applicata dal giudice d'appello, secondo cui l'anzianità di servizio sarebbe inversamente proporzionale alla potenzialità di diventare soggetto passivo del c.d. mobbing. 4.3. Nè la para-familiarità può essere esclusa dal fatto che l'atteggiamento discriminatorio non fosse riservato alla sola persona offesa, ma costituisse una "prassi costante" applicata abitualmente dal datore di lavoro nei confronti di tutte le dipendenti rientrate in azienda dopo un periodo di maternità.

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Del tutto contraria a logica e diritto si appalesa l'affermazione fatta dal giudice distrettuale, secondo la quale "la prassi costante posta in essere dagli imputati nei confronti di un numero indeterminato di dipendenti madri è agli antipodi con un'intensificazione peculiare ed individualizzata del rapporto di lavoro, presupposto necessario per la sussistenza del reato di cui all'art. 572 cod. pen.". La circostanza che i comportamenti discriminanti e prevaricatori siano attuati nei confronti di più di una persona offesa, in un ambito che possa appunto ritenersi para- familiare, non è invero di per sè suscettibile di escludere la sussistenza della condizione di soggezione e di subordinazione che caratterizza la fattispecie de qua. Si deve ancora una volta ribadire come, a tale fine, debba essere verificata l'essenza della relazione e, dunque, la concretezza di una situazione di subalternità del lavoratore rispetto all'atteggiamento oppressivo, ingiusto e prevaricante serbato dal titolare, piuttosto che la reiterazione dell'atteggiamento penalizzante nei confronti di una stessa categoria di soggetti alle proprie dipendenze, nella fattispecie quella delle lavoratrici madri (ma ciò potrebbe ovviamente valere anche per lavoratori accumunati da condizioni soggettive diverse, quali quella di straniero ovvero di apprendista). Seguendo il ragionamento della Corte si finirebbe invero per affermare che la replica dell'atteggiamento discriminatorio nei confronti di una categoria omogenea di lavoratori sia idonea di escludere in radice il crearsi di una situazione di subalternità e soggezione: come perspicuamente osservato dal ricorrente Procuratore generale, tale circostanza, anzichè essere considerata come indicativa di una particolare intensità del dolo valutabile a carico del reo in sede di determinazione della pena, fungerebbe addirittura quale causa di non punibilità a favore dell'imputato, con conseguenze all'evidenza paradossali e contrarie, prima che al diritto, alla logica comune. Del resto, mai si è negata la configurabilità del reato di maltrattamenti commesso in un canonico contesto familiare allorchè le condotte aggressive, prevaricazione ed umilianti siano esperite dal pater familias abitualmente e sistematicamente nei confronti di tutti i membri di una famiglia molto numerosa. 4.4. Parimenti illogico e, pertanto, censurabile è l'ultimo passaggio del percorso motivazionale della sentenza in esame, laddove la Corte ha escluso la sussistenza della condizione di subordinazione in considerazione dei comportamenti posti in essere da Ma. C. nel denunciare, all'Autorità giudiziaria, al sindacato ed ai media, il fatto di essere vittima di c.d. mobbing da parte dei datori di lavoro. Ed invero, lo stato subordinazione e di soggezione del lavoratore vittima rispetto al datore di lavoro, quale condicio sine qua non per la sussumibilità del c.d. mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve sussistere all'atto delle condotte vessatorie ed oppressive e non può essere escluso - ex post - dal fatto che la vittima, dopo avere subito un sistematico e continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti affinchè possano essere perseguiti. Seguendo il ragionamento dei giudici d'appello, si dovrebbe giungere all'affermazione del principio, del tutto illogico ed irragionevole, che il reato de quo sia configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le vessazioni subite e che la successiva reazione della persona offesa, che abbia adito le vie legali e denunciato ai mezzi d'informazione i fatti di cui sia stata vittima, sia suscettibile di esentare da penale rilevanza il comportamento criminale posto in essere, col che il reato di c.d. mobbing - così come larga parte delle incriminazioni penali in danno alla persona, soprattutto quelle procedibili a querela - verrebbe ad essere configurabile soltanto in astratto.

(omissis)

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VIII. DELITTI CONTRO LA PERSONA

Cass., sez. un., 14 aprile 2014, n. 16207, sul reato di prostituzione minorile di cui all’art. 600-bis, c.p., in particolare sul concetto di induzione alla prostituzione (da ultimo, cfr. Cass., sez. III, 12 marzo 2015, n. 10487; Id., 17 febbraio 2015, n. 6821).

Deve ribadirsi, al riguardo, l'orientamento costante di questa Corte secondo il quale la nozione legislativa di

"atti sessuali" (rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 609 bis c.p., ma anche dell'art. 600 bis c.p.)

ricomprende oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto

corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ancorchè fugace ed estemporaneo, o comunque

coinvolgendo la corporeità sessuale di quest'ultimo, sia finalizzato e normalmente idoneo a porre in

pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale.

Punti focali sono la concreta idoneità della condotta, esprimente l'impulso sessuale dell'agente, a

compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, mentre

nessun rilievo decisivo si connette all'effettivo ottenimento del soddisfacimento del piacere sessuale

dell'agente medesimo. Ne consegue che anche i palpeggiamenti, i toccamenti e gli sfregamenti corporei, posti

in essere nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale, in quanto coinvolgono la

corporeità della vittima, possono costituire una indebita intrusione nella sfera sessuale di quella.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, inoltre, "l'elemento caratterizzante l'atto di prostituzione non è

necessariamente costituito dal contatto fisico tra i soggetti della prestazione, bensì dal fatto che un

qualsiasi atto sessuale venga compiuto dietro pagamento di un corrispettivo e risulti finalizzato, in via

diretta ed immediata, a soddisfare la libidine di colui che ha chiesto o che è destinatario della

prestazione", non essendo stato "mai messo in dubbio che l'attività di chi si prostituisce può consistere anche

nella esecuzione di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di chi ha chiesto la prestazione,

pagando un compenso, al fine di soddisfare la propria libidine, senza che intervenga alcun contatto fisico tra le

parti" (cfr. Sez. 3, n. 25464 del 22/04/2004, Mannone, Rv. 228692).

Nella fattispecie in esame i giudici del merito si sono correttamente attenuti ai principi di diritto dianzi enunciati.

Risulta accertato, invero, che il S. abbordava e conduceva nella propria abitazione i minori con il pretesto di fare

svolgere ad essi semplici mansioni domestiche, ma al vero scopo di poterli fare spogliare e non solo osservarli ma

compiere su di loro toccamenti, abbracci, massaggi ed altri contatti corporei anche diretti a cosce e genitali,

spingendosi a farsi masturbare dallo S.T. (vedi, al riguardo, le dichiarazioni rispettivamente rese al dibattimento

dai tre ragazzi, valutate con ampie e logiche argomentazioni nella sentenza impugnata).

A fronte della ricostruzione dei fatti come sopra effettuata, va rilevato che la motivazione della Corte di merito:

(omissis)

2. Al secondo motivo si connette la questione di diritto, per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite,

rivolta a stabilire "se la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca

una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente,

integri gli estremi della fattispecie di cui al comma primo o di cui all'art. 600 bis c.p., comma 2".

3(omissis)

4. Nella vicenda in esame, relativa a condotte delittuose la cui perpetrazione è riferita temporalmente al periodo

"dal 2005 al 2009", si applica l'art. 600 bis c.p., nelle rispettive previsioni delle L. n. 269 del 1998, e L. n. 38 del

2006, mentre non trova applicazione il nuovo e più gravoso assetto normativo di cui alla L. n. 172 del 2012.

5. Con riferimento alla normativa applicabile al caso concreto la formulazione dell'art. 600 bis c.p., pone una

netta differenziazione (resa più marcata per effetto delle modificazioni introdotte dalla L. n. 172 del 2012) fra

la più grave ipotesi di cui al primo comma, fattispecie destinata a punire coloro che avviano i minori

all'attività di prostituzione, li trattengono in tale attività e ne traggono vantaggio, e quella di cui al

secondo comma, funzionale alla punizione di coloro che si limitano a compiere atti sessuali a

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pagamento con soggetti minorenni, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano o meno già

dediti ad attività di mercimonio sessuale del proprio corpo.

In relazione a tali diverse previsioni incriminatrici la Sezione remittente ha dubitato della possibilità di

applicazione, nell'interpretazione delle stesse, dei principi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato con

riferimento alla disciplina dettata dalla L. n. 75 del 1958, per il reato di "induzione alla prostituzione" di persona

maggiorenne.

5.1. Nel caso di prostituzione di persona maggiorenne è stato evidenziato in dottrina come la legge Merlin (di

fronte alla evoluzione storica di un fenomeno, i cui aspetti più preoccupanti sono quelli legati all'impressionante

quota di attività direttamente gestita dalla criminalità organizzata) abbia perseguito la finalità di riconsegnare

all'alveo dell'attività del tutto libera, non sanzionabile da parte dell'ordinamento, l'esercizio del meretricio che sia

frutto di una scelta non condizionata da forme di coazione o di sfruttamento.

Anche questa Corte ha recentemente osservato (Sez. 3, sent. n. 20384 del 29/01/2013, Bolzanello, Rv. 255426),

in proposito, che bisogna muovere "dal punto fermo rappresentato dalla scelta del legislatore di considerare

attività non vietata, e dunque in sè lecita, quella che la persona liberamente svolge scambiando la propria fisicità

contro denaro", ed ha ricordato che "le sanzioni penali fissate dalla L. 20 gennaio 1958, n. 75, debbono essere

applicate a coloro che condizionano la libertà di determinazione della persona che si prostituisce, a coloro che su

tale attività lucrano per finalità di vantaggio e, infine, a coloro che offrono un contributo intenzionale all'attività

di prostituzione eccedendo i limiti dell'ordinaria prestazione di servizi", sottolineando la necessità di non operare

interpretazioni tali "da reintrodurre surrettiziamente presupposti di illiceità in sè della prostituzione che vengono

formalmente ed espressamente negati e che, invece, potrebbero finire per qualificare come illegali condotte e

prestazioni di servizi alla prostituta che non risulterebbero penalmente rilevanti se destinati ad altre attività".

5.2. Quanto vale per gli adulti muta tuttavia completamente nel caso dei minori, essendo la dottrina e la

giurisprudenza concordi sull'impossibilità di considerare "libera" la prostituzione di soggetti minorenni.

Per il minore, infatti, la prostituzione rappresenta raramente il frutto di una scelta spontanea, essendo

prevalentemente determinata da pressioni (o da vere e proprie coercizioni) di fronte alle quali egli non

dispone di alcuna valida alternativa, sicchè l'atto sessuale compiuto dal minore prostituito non può

inquadrarsi in un'area di libertà, area la cui sostanziale inesistenza il "cliente" non può dunque nè

ignorare, nè fingere di non conoscere.

Quand'anche, poi, si dovesse riscontrare l'assenza di interventi esterni di condizionamento di tale spazio di

libertà, è comunque ragionevole che l'ordinamento vieti l'acquisto di prestazione sessuali presso un soggetto che

presuntivamente non ha ancora raggiunto quel livello di maturità tale da consentirgli una valutazione davvero

consapevole in ordine alle ricadute della mercificazione del proprio corpo sul suo sviluppo psico-fisico; ne

consegue che, indipendentemente dal suo atteggiamento psicologico e dalla sua condotta (quand'anche

connivente o adescatrice), il minore è reputato sempre e comunque una vittima.

Il carattere "non libero" della prostituzione minorile - ritenuta dal legislatore come condotta che comporta

l'annientamento della personalità individuale del minore - spiega, sul piano teorico, la punibilità della condotta del

"cliente", del tutto immune da censure sul piano penale se invece rapportata alla prostituzione di soggetto adulto.

6. L'induzione alla prostituzione di maggiorenne - in mancanza di una specifica definizione legislativa ma in

coerenza con il primo criterio ermeneutico indicato dall'art. 12 delle "Disposizione sulla legge in generale"

rispetto al significato che del termine è universalmente accettato nella lingua italiana - è stata tradizionalmente

ritenuta come quell'attività, coscientemente finalizzata, di persuasione, di convincimento, di determinazione, di

eccitamento, di rafforzamento della decisione, svolta nei confronti di un soggetto, sia facendo sorgere in quello

l'idea di prostituirsi, sia aggiungendo ulteriori motivi o stimoli per dedicarsi alla prostituzione o a riprendere tale

attività se interrotta ed a persistervi se volesse abbandonarla (vedi già Sez. 3: n. 1833 del 20/12/1968, Pagani, Rv.

111772; n. 2298 del 04/12/1978, Madaschi, Rv.141310; n. 8869 del 12/03/1984, Furnari, Rv. 166148). L'opera

di convincimento può consistere anche in doni, lusinghe, promesse, preghiere, ma deve realizzarsi in una attività

positiva, idonea e concreta, non essendo sufficiente la semplice inerzia o tolleranza e neppure la semplice

proposta e deve avere avuto una efficacia causale e rafforzativa, sicchè senza il fatto del colpevole il soggetto non

si sarebbe dato alla prostituzione.

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La mera proposta di partecipare ad incontri sessuali a pagamento non costituisce condotta induttiva se non

accompagnata da condotte ulteriori consistenti in pressioni fisiche o psicologiche che spingono la persona a

prostituirsi superando le resistenze di ordine morale, o di altra natura, che la trattengono dall'attività di

prostituzione (così Sez. 2: n. 7424 del 13/05/1987, Cito, Rv.176185; n. 36156 del 03/06/2004, Nicolo, Rv.

229389; n. 33470 del 04/07/2006, Cantoni, Rv. 234787; n. 26216 del 19/05/2010, A.F., Rv.247696).

La dottrina assolutamente prevalente esclude la configurazione della condotta di induzione nell'ipotesi del

"cliente" stesso della prostituta maggiorenne, che, inteso quale mero fruitore delle prestazioni sessuali, viene

considerato del tutto estraneo a tale ipotesi criminosa.

Anche in giurisprudenza non paiono registrarsi orientamenti, nell'ambito della prostituzione di maggiorenne, che

qualifichino come illecita - sub specie dell'induzione - la condotta del "cliente";

condotta piuttosto inquadrata in alcune pronunce di merito nella diversa ipotesi del favoreggiamento, ma con

esiti che essenzialmente non hanno resistito al vaglio di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 16536 del 14/02/2001,

Mazzanti, Rv. 218870).

Nè un'interpretazione di segno contrario sembra possa riconnettersi ai precedenti menzionati nella sentenza n.

33470 del 04/07/2006, Cantoni.

In particolare, la sentenza Traiani (Sez. 3, n. 6191 del 20/04/1983, Rv. 159699, secondo cui sussiste l'attività di

prostituzione anche nel caso di rapporto con una sola persona parrebbe non riguardare il "fatto del cliente",

bensì il caso in cui la condotta induttiva era consistita nell'invito rivolto ad una donna ad incontrarsi

effettivamente con un solo individuo di sesso maschile, ma diverso dal soggetto induttore.

Anche la lettura della sentenza Rizzeri (Sez. 1, n. 7947 del 13/03/1986, Rv. 173482), relativa al caso di donna

indotta a concedersi in favore di una sola persona per avere in cambio sostanze stupefacenti, non chiarisce se vi

sia stata coincidenza o alterità fra "induttore" e "fruitore" delle prestazioni sessuali della donna.

7. Diversamente, nell'ipotesi di vittima minorenne, a partire dalla sentenza Cantoni n. 33470 del 2006

("capofila" dell'orientamento adottato da questa Corte in materia di induzione alla prostituzione minorile "per

fatto del cliente"), la Sezione Terza ha affermato che l'adulto che paga il minore perchè compia con lui atti

sessuali contestualmente lo induce alla prostituzione e perciò deve rispondere ai sensi dell'art. 600 bis c.p.,

comma 1.

Nella sentenza Cantoni (e nelle sentenze n. 43820 del 26/11/2007, C.M., non massimata; n. 26216 del

19/05/2010, A.F., Rv. 247696; n. 16759 del 07/02/2013, Gerbino, Rv. 255453) si è tuttavia evidenziata la

necessità che la dazione del corrispettivo sia accompagnata da un'opera di convincimento finalizzata a vincere la

resistenza del minore.

La sentenza n. 18315 del 14/04/2010, R.S., Rv. 247163 - in una fattispecie in cui all'indagato veniva contestato di

avere indotto alla prostituzione un ragazzino che non aveva ancora compiuto dieci anni, convincendolo ad avere

con lui rapporti sessuali dietro remunerazione - ha affermato, invece, che la semplice dazione di denaro doveva

considerarsi sufficiente a persuadere il minore a consentire agli atti sessuali sia pure esclusivamente con il

soggetto agente.

Con la sentenza n. 4235 del 11/01/2011, F., Rv. 249316, nella condotta di induzione è stata ricompresa anche

una ripetuta dazione o offerta di danaro o altra utilità che, di per sè sola considerata, ossia interamente affrancata

dalla necessità di ulteriori requisiti di condotta "suggestiva" (verbale o di altra natura), abbia spinto il minore al

meretricio.

8. A fronte del quadro interpretativo dianzi delineato, rileva il Collegio che anche la condotta di induzione alla

prostituzione minorile (sanzionata dall'art. 600 bis c.p., comma 1), per essere penalmente rilevante,

deve essere sganciata dall'occasione nella quale l'agente è parte del rapporto sessuale e oggettivamente

rivolta ad operare sulla prostituzione esercitata nei confronti di terzi.

L'induzione del minore alla prostituzione prescinde dall'effettuazione diretta dell'atto sessuale con

l'induttore e può riguardare soltanto chi determina, persuade o convince il soggetto passivo a

concedere il proprio corpo per pratiche sessuali da tenere non esclusivamente con il persuasore ma con

terzi, che possono consistere anche in una sola persona, a condizione però che questa non si identifichi

nell'induttore.

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Il principio secondo il quale sussiste l'attività di prostituzione di soggetto adulto anche nel caso di rapporto con

una sola persona è affermato da Sez. 3, n. 6191 del 20/04/1983, Traiani, Rv. 159699;Sez. 1, n. 7947 del

13/03/1986, Rizzeri, Rv. 173482; Sez. 3, n. 7933 del 04/05/1984, Sanfilippo, Rv. 165879. In tema di

prostituzione minorile lo stesso principio è enunciato da Sez. 3, n. 7368 del 18/01/2012, L, Rv. 252133.

Nella nostra tradizione giuridica il tipo normativo della "induzione alla prostituzione" si pone - infatti - dal lato

dell'offerta del sesso mercenario e non della domanda, sicchè la basilare distinzione fra induttore e cliente deve

muoversi fra attività rientranti nell'ambito dell'offerta di prostituzione e attività rientranti nell'ambito della

domanda.

Dagli stessi lavori preparatori della L. n. 269 del 1998 (relazione alla proposta di legge dell'on. Serafini) emerge

chiaramente che solo con l'art. 600 bis c.p., comma 2, "si introduce ... una figura nuova nel nostro codice: la

figura del cliente"; ne consegue che l'unica fattispecie utilizzabile ai fini dell'incriminazione del cliente è quella

prevista dall'art. 600 bis c.p., comma 2.

Tale opzione interpretativa non compromette le esigenze di maggior tutela del minore rispetto all'adulto

affermate anche a livello sovranazionale, poichè la valenza persuasiva strutturalmente insita nel pagamento del

minore per ottenere una prestazione sessuale diretta è già assorbita dal disvalore tipico del fatto descritto nell'art.

600 bis c.p., comma 2.

L'induzione di cui allo stesso art. 600 bis, comma 1, è stata distinta dal legislatore dalla mera fruizione di una

prestazione sessuale a pagamento in quanto equiparata a condotte di indubbia maggiore offensività

(reclutamento, sfruttamento, favoreggiamento, organizzazione e gestione della prostituzione minorile) che ben

giustificano - a fronte della collocazione sistematica delle due fattispecie all'interno del medesimo articolo - il

diversissimo quadro edittale di pena.

Tenuto conto che la fattispecie di cui all'art. 600 bis c.p., comma 2, presuppone la necessaria correlazione causale

fra la dazione o la promessa di danaro o di altra utilità e la prestazione sessuale del minore, deve essere altresì

evidenziato che la figura polivalente ed ubiquitaria del cliente mero fruitore del sesso a pagamento che, come tale,

contestualmente indurrebbe il minore alla prostituzione comporterebbe, di fatto, l'abrogazione implicita dello

stesso art. 600 bis, comma 2, (che, come osservato da autorevole dottrina, sarebbe "nato già morto").

Non possono ritenersi decisivi, in senso contrario, argomenti basati sulla collocazione del reato di cui all'art. 600

bis c.p., comma 2, sotto la rubrica "Prostituzione minorile": non c'è dubbio infatti che la condotta descritta dal

comma 2, presenta pur sempre un collegamento con il fenomeno della prostituzione minorile in quanto in

molteplici casi essa può essere destinata ad inserirsi in un contesto di sfruttamento sistematico del minore;

tuttavia la ratio della norma in esame è quella di sanzionare autonomamente anche il singolo ed estemporaneo

rapporto a pagamento per la sua attitudine ad alimentare, sia pure indirettamente, il circuito della prostituzione

(lo stimolo del compenso, infatti, potrebbe spingere il minore a proseguire l'attività e ad estendere la sfera dei

clienti, con l'inevitabile pericolo di determinare, nel tempo, un suo stabile inserimento nel mercato).

Nell'ambito dell'induzione alla prostituzione di soggetto maggiorenne il legislatore, se avesse ritenuto di poter

punire il cliente, avrebbe fatto emergere la contraddizione di un ordinamento che da una parte considera lecito il

meretricio in quanto tale, cioè l'offerta, e dall'altra sanziona penalmente la richiesta della prestazione, cioè la

domanda.

L'incriminazione del cliente in ambito minorile - sancita con l'art. 600 bis c.p., comma 2, - costituisce, invece,

un'evidente eccezione rispetto a tale paradigma, perfettamente giustificata dal diverso oggetto giuridico e dalla

differente finalità di tutela, ma che come tale, ossia proprio in quanto fattispecie autonoma di incriminazione

della dazione/offerta di denaro da parte del cliente per avere rapporti sessuali con il minore, segna la chiara

conferma, a contrario, della impossibilità di ravvisare una attività induttiva nella sola condotta di chi domanda ad

un minore prestazioni sessuali come "consumatore" dandone o promettendone il pagamento; condotta che

invece deve necessariamente rientrare, pena appunto una tacita abrogazione, nella fattispecie di cui al comma 2,

altrimenti applicabile soltanto nella pur esistente ma certamente ridotta casistica di dazione/offerta rivolta verso

minore già dedito alla prostituzione, in aperta contraddizione però con il consolidato approdo giurisprudenziale

che ha ripudiato fermamente, almeno negli ultimi anni, ogni vaga idea di minore "corrotto".

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9. Ritiene in conclusione la Corte di dovere affermare il seguente principio di diritto: "La condotta di promessa

o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere

rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al

comma secondo e non al comma primo dell'art. 600-bis del codice penale".

(omissis)

Cass., sez. III, 1 dicembre 2014, n. 49990, sul reato di violenza sessuale, in particolare sull’interpretazione

dell’espressione “abuso di autorità” di cui all’art. 609-bis c.p.

(omissis)

Passando, a questo punto, al primo motivo di impugnazione, con il quale è censurata la sentenza per avere

ritenuto integrato il reato di cui all'art. 609 bis c.p., anche nel caso in cui il soggetto attivo abbia realizzato la

condotta tipica del reato in questione abusando di una posizione di autorità che gli deriva non da un rapporto di

carattere pubblicistico ma da una relazione inter privatos, osserva la Corte che nella sua giurisprudenza sono

rinvenibili decisioni espressive sia dell'orientamento più ampio, fatto proprio anche dalla Corte salentina, sia di

un orientamento, invece, più restrittivo in base al quale, come è dato leggere con estrema nettezza, "in tema di

violenza sessuale, l'abuso di autorità presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico,

derivante dal pubblico ufficio ricoperto dall'agente" (Corte di cassazione, Sezione 3^ penale, 10 dicembre 2012,

n. 47869).

Orientata nello stesso senso è la decisione della Corte n. 2681 del 2012, nella quale, oltre ad affermarsi che

"l'espressione abuso di autorità che costituisce (...) una delle modalità di consumazione del reato previsto dall'art.

609 bis c.p., non include la violenza sessuale commessa abusando della potestà di genitore o di altra potestà

privata", si precisa, nel motivare il riportato principio, che a ritenere diversamente, resterebbe inapplicabile l'art.

609 quater c.p., comma 2, che presuppone l'inapplicabilità delle ipotesi previste dall'art. 609 bis c.p., tra cui

rientra, appunto, anche quella di ogni atto sessuale commesso con abuso di autorità (Corte di cassazione Sezione

3^ penale, 23 gennaio 2012 n. 2861).

Analogo principio è, infine, rinvenibile anche in un, non recentissimo per la verità, arresto delle Sezioni unite di

questa Corte, peraltro originato da un provvedimento di rimessione a detto consesso avente ad oggetto un

contrasto relativo ad una questione diversa da quella ora in discorso, ove si è osservato che "l'abuso di autorità di

cui all'art. 609 bis c.p., comma 1, presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e

pubblicistico" (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 5 luglio 2000, n. 13).

In particolare nella motivazione di questa ultima sentenza la Corte sostenne che "il delitto di violenza sessuale

introdotto dall'art. 609 bis c.p., consiste in uno o più atti sessuali compiuti senza il consenso della vittima, con

violenza, minaccia o abuso d'autorità da parte dell'agente (comma 1). (...) Se si considera che la fattispecie di cui

al comma 1, ha sostituito quella prevista dall'abrogato art. 519, comma 1, e art. 520 (nonchè dall'art. 521), se ne

deve concludere che l'abuso d'autorità previsto dalla norma vigente coincide con l'abuso della qualità di pubblico

ufficiale di cui all'art. 520, e comunque presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico".

Accanto a tale impostazione, come dianzi accennato, è dato ritrovarne un'altra, di segno diametralmente

opposto, dichiaratamente propugnata - come nella sentenza n. 19419 del 2012, la quale si esprime nel senso che

"l'espressione abuso di autorità che costituisce (...) una delle modalità di consumazione del reato previsto dall'art.

609 bis c.p., va intesa come supremazia derivante da autorità, indifferentemente pubblica o privata, di cui l'agente

abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Corte di cassazione, Sezione 3^

penale, 22 maggio 2012, n. 19419) - ovvero più o meno implicitamente sostenuta nei fatti - come nella sentenza

n. 2019 del 2009, nella quale è stata ritenuta correttamente contestata la violazione dell'art. 609 bis c.p., in

relazione alla condotta di violenza sessuale commessa con abuso di autorità in danno della figlia della propria

convivente, sulla base della considerazione che "il rapporto di convivenza tra imputato e la minore aveva

determinato una situazione di autorità del primo sulla seconda, accentuata dalla posizione dell'imputato che era

convivente della madre della minore e che quindi si collocava all'interno di una famiglia di fatto ricomposta"

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(Corte di cassazione, Sezione 3^ penale, 20 gennaio 2009, n. 2119), o come nella sentenza n. 23873 del 2009, in

cui si è osservato che, a seguito della complessiva riforma dei reati afferenti alla violenza sessuale, che aveva sul

punto modificato la previgente disciplina, doveva ritenersi che anche l'abuso dell'autorità genitoriale

(evidentemente autorità di carattere privatistico) e non solo quello di una posizione di tipo formale o

pubblicistico potesse costituire fattore integrativo del reato in questione (Corte di cassazione, Sezione 3^ penale,

1 giugno 2009, n. 23873), ovvero, infine, nella più recente sentenza n. 37135 del 2013, ove l'abuso di autorità è

stato riscontrato nel compimento di atti sessuali da parte dell'istruttore di arti marziali nei confronti dei propri

allievi (Corte di cassazione, Sezione 3^ penale, 19 settembre 2013, n. 37135).

Ritiene il Collegio di dovere preferire tale secondo indirizzo, peraltro confortato dalla adesione della prevalente

dottrina, secondo la quale il concetto di abuso di autorità va inteso in senso lato e non restrittivo.

In tal senso militano argomenti sia di carattere letterale che di carattere sistematico, peraltro già ampiamente e

proficuamente scandagliati dalla citata sentenza n. 19419 del 2012 di questa Corte.

Invero non può trascurarsi il dato letterale costituito dal fatto che la testuale espressione abuso di autorità sia

già utilizzata dal legislatore penale nello scolpire, all'art. 61 c.p., n. 11, come aggravata la condotta di chi

commetta un reato, appunto, "con abuso di autorità".

Al riguardo - oltre al rilievo che lo stesso art. 61 c.p., n. 11, nell'elencare altre analoghe situazioni il cui abuso

costituisce elemento di aggravamento comune in linea di principio a tutti i reati, enumera l'abuso di "relazioni

domestiche, (...) di relazioni di ufficio, di prestazioni di opera di coabitazione o di ospitalità", quindi tutte

situazioni caratterizzate dall'essere pertinenti a rapporti di diritto privato, mentre al numero 9 della stessa

disposizione legislativa, laddove disciplina l'aggravante derivante dall'aver commesso il fatto asservendo a ciò la

pubblica funzione o il pubblico servizio svolti, parla di abuso dei poteri connessi a tale qualifica (peraltro in

coerenza con la terminologia riscontrabile in numerose altre norme che prevedono la qualifica soggettiva di

pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio in capo all'agente come elemento costitutivo del reato) - va

osservato che l'interpretazione che la giurisprudenza ha fatto di detta disposizione è stata nel senso che "l'abuso

di relazioni di autorità, previsto come circostanza aggravante dall'art. 61 n. 11 cod.pen., riguarda principalmente

l'autorità privata e presuppone l'esistenza di un rapporto di dipendenza tra il soggetto passivo ed il soggetto

attivo del reato (Corte di cassazione, Sezione 2^ penale 26 novembre 2003, n. 45742).

Con riferimento all'argomento di carattere sistematico appare significativo rilevare che ove il legislatore ha

inteso riferirsi ad una posizione autoritativa di tipo pubblicistico l'ha indicato espressamente. Così, ad

esempio, all'art. 608 c.p., (abuso di autorità contro arrestati o detenuti) che fa espresso riferimento, come

possibile soggetto attivo del reato, al "pubblico ufficiale".

La conferma di tale impostazione si ricava proprio dall'abrogato art. 520 c.p.; questo prevedeva come

figura autonoma di reato la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale. Il primo

comma sanzionava "il pubblico ufficiale che, fuori dai casi preveduti nell'articolo precedente, si congiunge

carnalmente con una persona arrestata o detenuta, di cui ha la custodia per ragioni del suo ufficio, ovvero con

persona che è a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell'Autorità competente.."; il comma 2 della

medesima disposizione affermava che "la stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro pubblico

ufficiale, rivestito, per ragione del suo ufficio di qualsiasi autorità sopra taluna delle persone suddette".

La norma era, quindi, chiarissima nel ritenere che la congiunzione con "abuso di autorità" non potesse

che essere commessa da un pubblico ufficiale.

La L. n. 66 del 1996, con la quale è stata radicalmente riformata la disciplina dei reati afferenti alla sfera sessuale

dell'individuo, nell'abrogare il capo 1^ del titolo 4^ del cod. pen., ha riunito nell'art. 609 bis c.p., comma 1, le

ipotesi della violenza e minaccia (previste dall'abrogato art. 519 c.p.) e l'ipotesi dell'abuso di autorità (prevista dal

precedente art. 520 c.p.).

Significativamente, però, con l'espressione "abuso di autorità" non ha fatto più alcun riferimento ad una

posizione di preminenza di natura pubblicistica o comunque derivante da pubbliche funzioni.

Tale mancato riferimento non può essere frutto di una mera trascuratezza del legislatore, dovendosi, al contrario,

ritenere che in tal modo abbia inteso sanzionare qualsiasi soggetto che, dotato di autorità pubblica o privata,

abusi della sua posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali; si è, cosi, voluto

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far rientrare nella norma, ad evitare che rimanessero aree di impunità, tutte quelle ipotesi in cui la vittima sia

costretta a subire atti sessuali o contro la sua volontà o perchè il suo consenso è viziato stante la impossibilità di

esprimerlo in termini di effettiva consapevolezza e libertà di autodeterminazione.

Nè vale osservare che una siffatta interpretazione del concetto di abuso di autorità di cui all'art. 609 bis c.p.,

colliderebbe con la disposizione di cui all'art. 609 quater c.p., comma 2, rendendo di fatto inapplicabile siffatta

seconda disposizione di legge (così:Corte di cassazione Sezione 3^ penale, 23 gennaio 2012, n. 2681); infatti - al

di là del pur esistente dato offerto dalla diversità dell'espressione usata posto che in un caso, art. 609 bis c.p., il

legislatore parla di abuso di autorità, mentre nell'altro, art. 609 quater c.p., parla di abuso dei poteri, in tal senso

apparendo che nella seconda ipotesi è richiesta una più diretta ed effettiva strumentalizzazione della posizione

rivestita - l'elemento che caratterizza l'illecito delineato dalla seconda fra le disposizioni citata e che, pertanto, ne

segnala l'ambito di perdurante autonomia rispetto alla prima, è l'assenza di costrizione, essendo, invece, questa

presente nell'ipotesi di cui al 609 bis c.p..

(omissis)

Cass., sez. III, 30 luglio 2013, n. 32928, su violenza sessuale di gruppo e concorso di persone (in tema cfr.

anche Cass., sez. III, 17 aprile 2014, n. 17004; Id., 18 luglio 2014, n. 31842).

(omissis)

2. Il secondo motivo è invece fondato.

Come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. per tutte Sez. 3, Sentenza n. 44408 del

18/10/2011 Ud. dep. 30/11/2011 Rv. 251610), il delitto di cui all'art. 609 octies c.p. costituisce una

fattispecie autonoma di reato necessariamente plurisoggettivo proprio, consistente nella "partecipazione,

da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all'art. 609 bis c.p.", in cui la pluralità di agenti è

richiesta come elemento costitutivo.

La previsione di un trattamento sanzionatorio più grave si connette al riconoscimento di un peculiare disvalore

alla partecipazione simultanea di più persone, in quanto una tale condotta partecipativa imprime al fatto un grado

di lesività più intenso sia rispetto alla maggiore capacità di intimidazione del soggetto passivo ed al pericolo della

reiterazione di atti sessuali violenti (anche attraverso lo sviluppo e l'incremento di capacità criminali singole) sia

rispetto ad una più odiosa violazione della libertà sessuale della vittima nella sua ineliminabile essenza di

autodeterminazione.

La contemporanea presenza di più di un aggressore è idonea a produrre, infatti, effetti fisici e psicologici

particolari nella parte lesa, eliminandone o riducendone la forza di reazione. L'azione collettiva presuppone la

necessaria presenza di più di una persona al momento e sul luogo del delitto, ma l'esecuzione di questo

non richiede necessariamente che ciascun compartecipe realizzi l'intera fattispecie nel concorso

contestuale dell'altro o degli altri correi, ben potendo il singolo realizzare soltanto una frazione del fatto

tipico di riferimento ed essendo sufficiente che la violenza o la minaccia provenga anche da uno solo

degli agenti. Il concetto di "partecipazione", inoltre, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte,

non può essere limitato nel senso di richiedere il compimento, da parte del singolo, di un'attività tipica di

violenza sessuale (ciascun compartecipe, cioè, dovrebbe porre in essere, in tutto o in parte, la condotta descritta

nell'art. 609 bis c.p.), dovendo invece-secondo un'interpretazione più aderente alle finalità perseguite dal

legislatore - ritenersi estesa la punibilità (qualora sia comunque realizzato un fatto di violenza sessuale) a qualsiasi

condotta partecipativa, tenuta in una situazione di effettiva presenza non da mero "spettatore", sia pure

compiacente, sul luogo ed al momento del reato, che apporti un reale contributo materiale o morale all'azione

collettiva.

Nel caso in cui il contributo sia stato prestato da un complice non presente nel corso dell'esecuzione

del delitto, esso dovrà essere qualificato come concorso eventuale ex art. 110 c.p., nel reato di cui all'art.

609 octies c.p..

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59

Nel caso di specie, il punto nodale della questione era dunque individuare con esattezza quale fosse la fase

preparatoria del reato di violenza sessuale di gruppo e quale il contributo prestato dall'imputato.

(omissis)

Sul reato di atti persecutori:

- Cass., sez. III, 14 novembre 2013, n. 45648, con particolare riferimento all’ipotesi di reciproci

comportamenti molesti e sui rapporti con il reato di violenza sessuale (sul reato di cui all’art. 612-bis

c.p., cfr. anche Cass., sez. V, 19 maggio 2014, n. 20531; Id., sez. III, 11 febbraio 2014, n. 6384);

(omissis)

7. Anche il motivo riguardante la erronea applicazione della legge penale per avere la Corte confermato il giudizio

di responsabilità (e la qualificazione della condotta) nonostante la reciprocità delle condotte disturbatrici o

insolenti o petulanti o aggressive, non è fondato.

7.1 Sostiene la difesa che la ricerca da parte della donna, in più occasioni, di un contatto con l' U., si pone in

posizione antinomica con il concetto di atti persecutori che presuppone una vittima alla merce del suo stalker ed

impossibilitata, quindi, a reagire: secondo l'interpretazione del ricorrente, la ricerca da parte della donna del

contatto in via autonoma e persino dopo che da parte dell' U. veniva posta in essere una condotta minacciosa o

aggressiva, dimostrerebbe, da un canto, la inoffensività della asserita condotta persecutoria descritta dalla D. sulla

sua psiche e, dall'altro, una sua capacità reattiva in termini anche di indipendenza, incompatibile con il concetto

di stress enunciato dalla norma incriminatrice.

7.2 Come affermato da una recente decisione di questa Corte, la reciprocità dei comportamenti molesti non

esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più

accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell'evento di danno, ossia dello stato d'ansia o

di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone ad

essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Sez. 5^ 5.2.2010 n. 17698, Marchino,

Rv. 247226).

7.3 Alla base di tale decisione milita la considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi

la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento

reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell'agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o

minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d'ansia o di paura, oppure un fondato

timore dello stesso per l'incolumità propria o di soggetti vicini, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle

proprie abitudini di vita.

7.4 Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali termini tali condotte

"persecutorie" vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali

condotte maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non

può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la quale si riferisce invece ad

una posizione sbilanciata della vittima rispetto all'autore dei comportamenti intimidatori o vessatori.

7.5 Il termine reciprocità non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale

delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore

attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d'ansia o di

paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone a lei

vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso

della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei

due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura

persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare

la paura.

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Nè può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l'assenza dell'evento richiesto dalla norma

incriminatrice, non potendosi accettare l'idea di una vittima inerme alla merce del suo molestatore ed incapace di

reagire. Anzi non è neanche da escludere che una situazione di stress o ansia possa generare reazioni

incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura come reato di

evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all'art. 612 c.p., qualificato come reato di pericolo, pur

costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie.

7.6 (omissis)

- Cass., sez. V, 16 gennaio 2015, n. 2283 (in senso conforme, cfr. Cass., sez. V, 25 maggio 2011, n. 20895) e

Cass., sez. III, 13 giugno 2013, n. 25889 (in senso conforme, cfr. Cass., sez. III, 18 novembre 2013, n. 46179)

sui rapporti tra il reato di atti persecutori e quello di violenza privata (secondo la prima pronuncia le due

fattispecie possono concorrere, mentre la seconda rileva la specialità del reato di cui all’art. 610 rispetto all’art.

612-bis).

(omissis)

4. Non è corretto affermare l'assorbimento del delitto di violenza privata in quello di cui all'art. 612 bis

c.p., sebbene siano entrambi inseriti nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, giacchè il

suddetto bene giuridico presenta profili diversi, che esigono tutele diverse. Il delitto previsto dall'art. 612

bis c.p., tende alla protezione del singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la

vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, ovvero costringendo a modificare

comportamenti ed abitudini di vita (per questo, può dirsi che è rivolto alla tutela della persona nel suo insieme,

piuttosto che della sola libertà morale). Nella sua struttura è reato abituale e, sebbene la norma faccia riferimento

solo a molestie e minacce, quali fonti di responsabilità, deve ritenersi reato a condotta libera, in quanto le

minacce e le molestie costituiscono esemplificazione dei comportamenti che possono determinare gli stati

patologici sopra considerati, costituenti evento del reato.

La violenza privata è volta alla tutela della libertà morale, nel suo aspetto di libertà individuale; vale a dire come

possibilità di determinarsi spontaneamente, secondo motivi propri (libertà di autodeterminazione), e di agire di

conseguenza (libertà di azione).

Quindi, tende ad impedire che un soggetto faccia, ometta o tolleri qualcosa perchè costrettovi, con violenza o

minaccia, da altri, indipendentemente dalla induzione di uno stato morboso o dalla modificazione delle abitudini

di vita.

In altri termini, mentre l'art. 610 c.p., protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà

personale, l'art. 612 bis, è volto - al pari dell'art. 612 c.p. - alla tutela della tranquillità psichica, ritenuta,

con pieno fondamento, condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della volontà

suddetta. Pertanto, l'oggetto giuridico di categoria (la libertà morale) esige, per la sua salvaguardia, la protezione

di entrambe le sottospecie di beni sopra rassegnati, potendo essere aggredito nell'una o nell'altra manifestazione,

oppure in entrambe. Quando quest'ultima situazione si verifica, non vi sono ragioni, quindi, per escludere il

concorso di norme, siccome rivolte a tutelare aspetti diversi dello stesso bene.

Alla luce di tali criteri, nessuna censura merita la sentenza impugnata, che ha ritenuto sussistenti entrambi i reati.

(omissis)

Cass., sez. III, 13 giugno 2013, n. 25889

(omissis)

3. La fattispecie criminosa di atti persecutori (stalking), di cui all'art. 612 bis c.p., tutela il singolo

cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale,

procurando ansie, preoccupazioni e paure. Essa è finalizzata a garantire alla personalità individuale

l'isolamento da influenze perturbatrici.

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Ipotesi speciale rispetto a tale reato è il delitto di violenza privata, per la cui configurazione non è

sufficiente che sia stato indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità,

fungendo invece da elemento specializzante lo scopo di costringere altri - contro la sua volontà - a fare,

tollerare od omettere qualcosa, impedendone la libera determinazione con una condotta

immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica (di

determinazione e azione) del soggetto passivo.

Nel delitto di cui all'art. 610 c.p., il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di costringere il

destinatario della violenza a tenere, contro la sua volontà, la condotta pretesa dall'agente.

La sussistenza degli elementi fattuali e dell'elemento soggettivo della violenza privata appare correttamente

individuata dalla Corte di merito a fronte di un accertato comportamento rivolto ad interferire nella condotta di

guida della signora P., costretta con manovre intimidatorie a fermarsi (ed a rifugiarsi nel portone dell'abitazione

di una sua amica) piuttosto che proseguire secondo le originarie intenzioni.

4. (omissis)

Stalking: nozione di violenza alla persona

Cass. pen., ord. 9 luglio 2015 (dep. 20 ottobre 2015), n. 42220, in tema di c.d. stalking, ha rimesso alle Sezioni

Unite la seguente questione: "se l'espressione normativa violenza alla persona, di cui agli artt. 408, comma 3 bis c.p.p.,

introdotto con l'art. 2, comma primo, lett. G d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, con la legge 15 ottobre 2013,

n. 119, e 393 e 649, comma terzo c.p., comprenda le sole condotte di violenza fisica o includa anche quelle di minaccia, e se di

conseguenza il reato di cui all'art. 612 bis c.p. sia incluso fra quelli per i quali il citato art. 408, comma 3 bis c.p.p. prevede la

necessaria notifica alla persona offesa dell'avviso della richiesta di archiviazione". Secondo l'informazione provvisoria diffusa

dalla Suprema Corte, al quesito è stata data soluzione affermativa, con la l'ulteriore precisazione che la stessa

soluzione si impone «anche con riguardo al reato di cui all'art. 572 cod. pen.».

(omissis) Tale questione concerne sostanzialmente la possibilità di ricomprendere il reato di atti persecutori fra quelli definibili come realizzati con violenza alla persona, e conseguentemente fra quelli che, in quanto tali, rendono comunque necessaria, ai sensi della recente previsione dell'art. 408 c.p.p., comma 3 bis, la notifica alla persona offesa, a cura del pubblico ministero, dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione dallo stesso presentata. Il tema è rilevante nel caso di specie in quanto l'emissione dell'avviso di cui sopra, del quale la ricorrente lamenta la mancanza, non veniva espressamente richiesta nella denuncia proposta dalla persona offesa, costituendo pertanto l'omissione vizio ricorribile solo ove l'avviso sia ritenuto in ogni caso obbligatorio secondo la norma citata. Quest'ultima, occorre rammentarlo, veniva inizialmente introdotta con il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, art. 2, comma 1, lett. G, che prevedeva in origine la notifica alla persona offesa dell'avviso di presentazione della richiesta di archiviazione per il solo reato di cui all'art. 572 c.p.. Ed altresì opportuno notare, per le implicazioni interpretative che saranno nel seguito illustrate, che con la successiva lett. H dello stesso comma del decreto era altresì prevista la notifica alla persona dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari per lo stesso reato di maltrattamenti. In sede di conversione del decreto, avvenuta con L. 15 ottobre 2013, n. 119, la disposizione di cui alla lett. G, con riguardo al caso della richiesta di archiviazione, veniva modificata con l'estensione dell'obbligo di notifica dell'avviso alla persona offesa per tutti i delitti commessi con violenza alla persona. Modificazioni interessavano in quella sede anche la successiva disposizione di cui alla lett. H per il caso dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari; la cui necessaria notifica alla persona offesa era tuttavia diversamente disciplinata, disponendone l'obbligatorietà, oltre che per la già prevista ipotesi del reato di maltrattamenti, anche e solo per quella, specificamente indicata, del reato di atti persecutori. Proprio su quest'ultima circostanza si fonda una delle argomentazioni poste a sostegno del ricorso; per la quale l'espressa menzione del reato di cui all'art. 612 bis c.p., quale ipotesi di obbligatoria notifica alla persona offesa dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, non potrebbe che avere effetto, per identità di ratio, nell'includere detto reato fra quelli per i quali è obbligatoria la notifica dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione. Ancora alla ratio dell'intervento legislativo, che ha dato luogo all'introduzione dell'art. 408 c.p.p., comma 3 bis, è affidato l'ulteriore argomento proposto dalla ricorrente; per il quale l'esplicita intitolazione della L. n. 119 del

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2013, così come del decreto con la stessa convertito, all'intento di contrastare il fenomeno della violenza di genere, renderebbe ragionevole ritenere riferibile al reato di atti persecutori, che di siffatta tipologia di violenza costituisce manifestazione tipica, una normativa chiaramente funzionale al più efficace contrasto di tale violenza, quale quella relativa alla notifica dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione alla persona offesa, finalizzata a garantire alla stessa la più ampia possibilità di intervento nel procedimento penale. La speciale importanza della questione è già evidente nel riguardare la stessa un istituto di ricorrente applicazione nella pratica processuale, come quello della notifica dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione. Tale importanza è tuttavia ulteriormente rivelata dalla problematicità degli argomenti valutabili ai fini della risoluzione della questione, a partire da quelli esposti nel ricorso. Vero essendo che la norma di cui all'art. 408 c.p.p., comma 3 bis, sia stata introdotta con un intervento legislativo esplicitamente intitolato al contrasto della violenza di genere, è senza dubbio coerente con questo dato che il reato di atti persecutori sia ricompreso fra quelli oggetto delle previsioni di maggiore estensione della tutela penale che caratterizzano la legge in esame; ma tanto non appare risolutivo ai fini dell'interpretazione della specifica disposizione relativa all'archiviazione, essendo ben possibile che l'attuazione dell'intento legislativo sia differentemente modulata nei singoli istituti processuali. Quanto poi all'argomento relativo all'espressa menzione del reato di cui all'art. 612 bis c.p., fra le fattispecie per le quali è prevista la notifica alla persona offesa dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, lo stesso è suscettibile di una doppia lettura. A quella fatta propria dalla ricorrente, per la quale tanto renderebbe doverosa un'interpretazione nel senso della riferibilità anche a tale reato della previsione di obbligatoria notifica dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione, può infatti essere contrapposta, con quanto meno analoga ragionevolezza, quella per cui la mancata riproduzione, nella disposizione concernente la richiesta di archiviazione, dell'esplicito richiamo al reato di atti persecutori invece presente nella disposizione riguardante l'avviso di conclusione di cui all'art. 415 bis c.p.p., sarebbe indicativa della volontà del legislatore di limitare a quest'ultimo caso la rilevanza del reato di cui all'art. 612 bis c.p.; e ciò soprattutto ove si consideri che, come si è precedentemente rammentato, sia l'ipotesi della notifica dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione che quella della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari sono state oggetto di modifiche in sede di conversione, per effetto delle quali i presupposti dei due istituti, in precedenza comunemente individuati nell'essere il procedimento relativo allo specifico reato di cui all'art. 572 c.p., venivano diversificati nei termini attualmente previsti dalla norma. La menzionata problematicità delle considerazioni proposte dalla ricorrente trova peraltro fondamento in quella più genericamente riconoscibile nella riconducibilità del reato di atti persecutori alla nozione dei delitti commessi con violenza alla persona. La discussione sul punto passa necessariamente attraverso la risoluzione della questione della possibilità ritenere tale nozione comprensiva della violenza morale, oltre che di quella fisica; e, per altro verso, attinge il profilo di fatto della concreta manifestazione della condotta in forme minacciose, per l'appunto espressive di violenza morale. Per questo secondo aspetto, il caso di specie non presenta alcuna difficoltà, risultando dalla denuncia in atti che stessa riguardava anche fatti di minaccia. La generale riferibilità a tali fatti della nozione di violenza alla persona costituisce invece tema di portata tale da rendere vieppiù opportuno l'intervento delle Sezioni Unite; e ciò anche perchè l'approfondimento dello stesso investe, come si è anticipato, situazioni sulle quali si registra un contrasto giurisprudenziale. Inevitabile è invero, ai fini di cui sopra, l'indagine su altre fattispecie normative nelle quali la nozione di cui sopra sia evocata; ed in tal senso è evidente la rilevanza della previsione di cui all'art. 649 c.p., comma 3, per la quale le disposizioni dei commi precedenti dello stesso articolo, con riguardo alla non punibilità per i reati contro il patrimonio commessi nei confronti di soggetti legati al reo da determinati rapporti coniugali o parentali, non si applicano, oltre che ai reati di cui agli artt. 628, 629 e 630, anche ad ogni altro delitto per l'appunto commesso con violenza alle persone. Orbene, secondo un primo orientamento (omissis), tale previsione sarebbe da intendersi come limitata alle fattispecie di violenza fisica, rimanendone pertanto escluse le condotte commesse con minaccia. A tale interpretazione se ne contrappone tuttavia altra, peraltro conforme ad opinioni espresse dalla prevalente dottrina, per la quale nella nozione di violenza alle persone rientrerebbe anche la violenza morale; e ciò in quanto i reati oggetto della norma sarebbero individuati nella loro assimilabilità a quelli specificamente indicati nei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo estorsivo, le cui fattispecie incriminatrici parificano la condotta minacciosa a quella violenta (Sez. 6, n. 19299 del 18/12/2007, dep. 2008, Casale, Rv. 240500). Non va peraltro sottaciuto, a conferma della discutibilità degli elementi sistematici disponibili per la risoluzione della questione, che la rubrica dell'art. 393 c.p., qualifica testualmente come "esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone" una condotta descritta nel corpo della norma come realizzabile sia con violenza che con minaccia; dove, se per un verso sono noti i limiti del valore interpretativo di una rubrica, per

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altro quella dell'articolo in esame sembra indubbiamente ricomprendere la minaccia nel più ampio concetto di violenza alla persona. Queste considerazioni impongono la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte sul seguente punto: "se l'espressione normativa violenza alla persona, di cui all'art. 408 c.p.p., comma 3 bis, introdotto con il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, art. 2, comma 1, lett. G, convertito, con modificazioni, con la L. 15 ottobre 2013, n. 119, e art. 393 c.p., e art. 649 c.p., comma 3, comprenda le sole condotte di violenza fisica o includa anche quelle di minaccia, e se di conseguenza il reato di cui all'art. 612 bis c.p., sia incluso fra quelli per i quali il citato art. 408, comma 3 bis, prevede la necessaria notifica alla persona offesa dell'avviso della richiesta di archiviazione".

Reati lungo-latenti e consumazione

Cass. pen., 17 aprile 2015, n. 22379, in tema di irretroattività sfavorevole e reati lungo-latenti (nel senso di

determinare la normativa applicabile in riferimento all’evento anziché alla condotta), in relazione all’art. 589, co. 3

c.p.

IRRETROATTIVITÀ SFAVOREVOLE E REATI D’EVENTO “LUNGO-LATENTE”:

Riflessioni a margine di una discutibile pronuncia della Cassazione (Cass. pen., 17 aprile 2015, n. 22379, Pres.

Zecca, Rel. Piccialli, ric. Sandrucci e al.) e considerazioni sui rimedi esperibili a Strasburgo

di Stefano Zirulia

All. 2

Omissis..

I ricorsi sono infondati. In via preliminare va esaminata la questione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti, già disattesa in sede di merito. In disparte il rilievo che la pena applicata non risulta illegale perchè è comunque ricompresa nei limiti edittali prevista dalla norma, da ritenere applicabile comunque osservato la correttezza della decisione del giudice di merito che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità, evidenziando che per il trattamento sanzionatorio doveva comunque aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell'evento lesivo. Non vi è quindi ragione di evocare l'art. 2 c.p., comma 4, per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. E' cioè rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta. Quindi è al momento della consumazione che bisogna avere riguardo alla normativa applicabile e rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta. Ciò che qui deve escludersi, con conseguente manifesta infondatezza in fatto della questione di costituzionalità. Sul punto, possono rinvenirsi anche puntuali richiami nella giurisprudenza di questa Corte. E' utile, esemplificando, la sentenza della Sezione 1^, 11 maggio 2006, Caffo, rv. 234284) che, in occasione della trasformazione da contravvenzione in delitto ad opera della legge n. 155 del 2005 della violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione dell'obbligo di soggiorno, ha ritenuto applicabile la novella nell'ipotesi di frequentazione abituale di pregiudicati anche quando solo uno degli episodi integranti l'abitualità della condotta si era verificato dopo l'entrata in vigore della legge meno favorevole. Nel caso in questione la Suprema Corte ha appunto ritenuto non operante la regola di cui dell'art. 2 c.p., comma 4, sulla base dell'osservazione che il reato si sarebbe consumato nella vigenza della legge posteriore, poichè proprio l'ultimo comportamento materiale, segnando la cessazione dell'abitualità della condotta, avrebbe per l'appunto determinato l'effettiva consumazione del reato. Utili riferimenti possono ricavarsi dalla disciplina degli atti persecutori, previsti e puniti dall'art. 612 bis c.p., introdotto con il D.L. n. 11 del 2009, convertito dalla L. n. 38 del 2009: non è dubitabile la configurabilità del reato quanto uno degli eventi alternativi che integrano la fattispecie cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, sempre in alternativa, costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita: cfr. anche Sezione 5^, 22

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giugno 2010, Proc. Rep. Trib. Napoli in proc. D.G.; nonchè, Sezione 5^, 19 maggio 2011, L si sia verificato nella vigenza della norma incriminatrice, pur se la condotta materiale di minaccia e/o di molestia si sia svolta integralmente prima dell'entrata in vigore di tale norma incriminatrice. (omissis) Passando alla trattazione dell'altro profilo di doglianza, va rilevato che le censure proposte concentrano i rilievi esclusivamente sulla carenza di motivazione in merito all'affermato nesso di causalità tra l'esposizione dei lavoratori all'amianto e gli eventi lesivi oggetto di contestazione (mesotelioma pleurico ed adenoma polmonare). La sentenza ha, invece, ricostruito con meticolosa attenzione gli elementi in grado di supportare il necessario nesso eziologico tra la morte dei lavoratori e l'esposizione lavorativa, rispettando il principio più volte richiamato da questa Corte, secondo il quale per potere addebitare l'evento dannoso qui la morte dei lavoratori sulla base della ipotizzata esposizione lavorativa al titolare della posizione di garanzia, prima ancora di poter articolare un giudizio sui profili di colpa, occorre che la dinamica del sinistro possa essere ricostruita con certezza. Ciò che nella fattispecie in esame è stato puntualmente fatto confermando l'ipotesi accusatoria ed escludendo la coesistenza di un'alternativa ipotesi eziologica, idonea ad escludere gli addebiti di responsabilità, in quanto conducente ad una situazione di dubbio irresolubile sullo sviluppo causale degli accadimenti, che appunto giustifica l'adozione della pronuncia assolutoria (Sezione 4^, 15 dicembre 2010, Proc. gen. App. Firenze ed altri in proc. Lenzi). La Corte di merito ha, innanzitutto, esaminato la questione dell'affidabilità delle diagnosi delle malattie che hanno provocato il decesso delle persone offese ed ha verificato il possibile intervento di fattori di rischio alternativi all'amianto, escludendo, per ciascuna di esse, in concreto, la sussistenza di eventuali ulteriori fonti oncogene. La sentenza ha, poi, affrontato, il tema, discusso anche in ambito scientifico, afferente l'individuazione delle dosi di amianto eziologicamente rilevanti nell'insorgenza e nello sviluppo delle patologie asbesto-correlate. La Corte territoriale, condividendo le conclusioni del primo giudice, fondate sulle perizia del consulente del PM, ha affermato l'esistenza di una precisa relazione tra l'entità della esposizione ad amianto e l'incidenza di mesotelioma. Sul punto sono state riportate per esteso le conclusioni del citato perito secondo il quale gli studi epidemiologici hanno fornito evidenze inconfutabili del fatto che la relazione dose risposta è un dato fortemente acquisito nella comunità scientifica, espresso anche attraverso una formula matematica, essendo stato dimostrato che l'incidenza di mesotelioma aumenta con il trascorrere del tempo dall'inizio dell'esposizione ma l'intensità o livello di esposizione determina quanto di incidenza si riesca a raggiungere in un certo arco di tempo. Il che significa che dosi maggiori comportano una maggiore occorrenza di eventi a parità di tempo trascorso dall'inizio della esposizione oppure analogamente comportano che la stessa occorrenza di eventi si verifichi precocemente rispetto al tempo trascorso dall'inizio della esposizione. E' stato evidenziato,inoltre, in conformità a quanto rilevato dal consulente del PM, che risulta coerente con le formulazioni della relazione dose risposta (tra esposizione ad amianto ed incidenza/rischio di mesotelioma maligno) l'assenza di una dose soglia priva di rischio ( una dose al di sotto della quale vi sia assenza di effetto). Tali conclusioni sono state poste a confronto, oltre che con quelle dei consulenti di parte, con la perizia collegiale disposta dal giudice di primo grado, i cui risultati sono stato dialetticamente discussi nel corso del processo di primo grado. Il fulcro del dibattito, riportato scrupolosamente nella sentenza, è stato incentrato principalmente sulla rilevanza causale delle dosi successive a quelle di innesco. I periti collegiali, anche alla luce dei singoli casi, oggetto del presente procedimento, hanno affermato la irrilevanza delle esposizioni successive e/o recenti, sostenendo che le esposizioni aggiuntive più recenti, soprattutto se di ridotta entità, non giocano un ruolo di rilievo nel determinare incrementi di rischio e ciò anche in rapporto alla biopersistenza delle fibre di amianto nell'organismo, dove possono rimanere attive e presenti per numerosi anni. Secondo tale teoria, l'incidenza di mesotelioma è direttamente proporzionale alla dose, ma è proporzionale alla latenza elevata al quadrato o al cubo, e, pertanto, il fattore chiave per il mesotelioma sarebbe la latenza, non la dose, con la conseguenza che solo le esposizioni iniziali sono importanti, mentre quella successive non hanno rilevanza. Prima di esaminare la validità scientifica di tale teoria, rispetto a quella fatta propria del consulente del PM, i giudici di appello hanno esaminato le situazioni particolari di ciascun lavoratore, confutando la tesi sopra esposta sul rilievo che era partita dall'erroneo presupposto della sovrapponibilità delle diverse vicende in esame, ognuna caratterizzata, invece, da variabili individuali idonee a determinare differenze anche sensibili sulla prognosi, ivi dettagliatamente spiegate. E' stata, poi, disattesa la validità scientifica di tale teoria, alle luce delle dichiarazioni rese dal consulente del PM, il quale ha sottolineato che la intensità, durata e dose cumulativa (prodotto di intensità e durata) rappresentano

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l'esposizione ad amianto mentre la latenza non rappresenta l'esposizione ma il trascorrere della vita per gli esposti, lo scorrere del tempo, prima che si manifestino e possano essere percepiti i sintomi che portano alla diagnosi della malattia. Il ruolo della latenza è, pertanto, di agire come "peso" applicato ai periodi esposizione: in altri termini, questo " peso" va considerato come proporzione di tempo libero da malattia che viene perduto a causa di quella particolare fase di esposizione (ad, esempio, gli ultimi dieci anni) da ogni soggetto che sviluppa il mesotelioma. I giudici di merito hanno, pertanto, motivatamente accolto la teoria che fa leva sulla legge scientifica nota come "modello multistadio della cancerogenesi", secondo cui la formazione del cancro è un'evoluzione a più stadi, la cui progressione è favorita dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno: con la conseguenza che l'aumento della dose di amianto inalata, è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Pertanto, secondo la teoria multistadio, il tumore polmonare rappresenta una patologia "dose-correlata", ossia il cui sviluppo, in termini di rapidità e gravità, è condizionato dalla quantità di fattore cancerogeno inalato. Ciò consente di ritenere che, a prescindere dal momento esatto in cui la patologia è insorta, tutte le esposizioni successive e tutte le dosi aggiuntive devono essere considerate concause poichè abbreviano la latenza e dunque anticipano l'insorgenza della malattia o l'aggravano, con l'effetto pratico che i titolari della posizione di garanzia, tenuti cioè a proteggere i lavoratori esposti all'inalazione delle fibre di amianto, indipendentemente dal momento di assunzione della posizione di garanzia e dalla durata della loro carica (purchè operativa durante il periodo di esposizione all'amianto dei lavoratori ammalatisi e poi deceduti), possono essere ritenuti responsabili, sull'assunto che la loro condotta omissiva colposa avrebbe ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente. Ciò premesso la motivazione non si palesa manifestamente illogica nè presenta vuoti motivazionali. Questa Corte, in più occasioni, nel caso delle morti derivanti da malattie correlate all'esposizione dell'amianto, ha posto in evidenza le difficoltà a livello probatorio sulla sussistenza del nesso causale che deve intercorrere tra il fatto dannoso ed il pregiudizio subito dal lavoratore ed ha affermato che lo stesso va dimostrato in giudizio in modo diretto e specifico per ogni singolo caso ( v. Sezione 4^, 10 giugno 2010 n. 38991, Quaglieri ed altri, 17 settembre 2010 n. 43786, Cozzini ed altri e, da ultimo, 21 novembre 2014, n. 11128/15, Lemetti ed altri). Nel caso di esposizione all'amianto esiste, infatti, la dimostrazione in termini generali dell'effettiva pericolosità della sostanza ( che manca per esempio, con riferimento ad altre sostanze) ed il problema riguarda solo l'accertamento del nesso causale nel caso specifico, laddove tanti lavoratori sono "legati" solo da una questione comune, per essere stati esposti all'amianto, ma per il resto, ognuno presenta, percorsi di vita e di esperienza diversi. Nei casi, come questi, di provata pericolosità è chiaro che le prove scientifiche possono fornire solo le premesse per inferenze indirette relative ai singoli casi particolari. Si tratta di un settore in cui il problema della prova scientifica è esploso con particolare evidenza. E quando, come nel caso in esame, le teorie scientifiche di spiegazione causale siano antagoniste tra di loro, non è consentito al giudice defilarsi con un "non liquet", ma è suo compito dare conto, con la motivazione, della legge scientifica che ritiene più convincente ed idonea o meno a spiegare l'efficacia causale di una determinata condotta, tenendo conto sempre di tre parametri di valutazione: a)il ragionamento epistemologico deve essere ancorato ad una preventiva dialettica tra le varie opinioni; b)il giudice non crea la legge, ma la rileva; c)il riconoscimento del legame causale deve essere affermato al di là di ogni ragionevole dubbio. Come emerge da quanto sopra esposto, la Corte territoriale si è attenuta strettamente a tali principi, approfondendo, nel contraddittorio tra i periti, il delicato tema del nesso causale. Su questo sfondo di carattere generale va esaminata la censura proposta con il ricorso con la quale si sostiene l'insussistenza di un rischio da reale da contaminazione e la mancanza di concrete circostanze idonee a superare l'incertezza circa l'epoca di insorgenza della malattia e circa l'effettiva incidenza su di essa delle esposizioni al fattore di rischio nel periodo in cui gli imputati avevano rivestito una posizione di garanzia. (omissis) Ed è proprio alla luce di tali principi che può affermarsi che Corte di merito ha fornito un'adeguata motivazione in relazione all'accertamento del legame causale tra le condotte omissive degli imputati ed i decessi per mesotelioma pleurico ed adenoma polmonare. Il problema della prova scientifica assume precipua rilevanza nei processi come questo in esame, in cui l'accertamento del fatto non può essere articolato sulla base del sapere diffuso, perchè vi sono tesi in conflitto o

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si è in presenza di problemi causali nuovi, laddove si fa riferimento alla contrastata tesi della dose dipendenza ed a quella della rilevanza delle esposizioni al fattore oncogeno "successive" e/o recenti. E' noto, infatti, che il problema dell'effetto acceleratore si scompone in due sottoproblemi in relazione all'attribuzione del fatto ad imputati che hanno agito in tempi diversi: l'accelerazione dei processi di iniziazione; l'abbreviazione dei periodi di latenza tra l'iniziazione e la formazione della prima cellula patologica. E'vero, come sostenuto dalla difesa, che non esiste una legge scientifica di carattere universale che consenta di definire con precisione e con sicura affidabilità meccanismi causali del mesotelioma e che confermi l'effetto acceleratore delle ulteriori esposizioni, ma non è possibile ritenere che l'utilizzazione di una legge scientifica imponga che essa abbia riconoscimento unanime. Le stesse Sezioni unite con la sentenza 25 gennaio 2005 , n. 9163, Raso hanno avuto modo di affermare che le acquisizioni scientifiche cui è possibile attingere nel processo penale sono quelle più generalmente accolte e più condivise, non potendosi pretendere l'unanimità alla luce della diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità del sapere scientifico. Ciò che rileva, nei processi come quello in esame, caratterizzati dalla mancanza di una legge a carattere universale, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in conformità agli insegnamenti delle Sezioni unite, 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, è che non vi siano altri decorsi causali in grado di spiegare il fatto. E' possibile, infatti, anche in tale ipotesi superare nell'ambito del giudizio concreto la probabilità statistica per giungere ad un giudizio di certezza, espresso in termini di credibilità razionale. L'itinerario argomentativo va quindi rapportato alla peculiarità del caso, laddove devono essere evidenziate le contingenze del caso concreto. E tale itinerario è stata compiutamente seguito nella sentenza impugnata, che, prima si è soffermata sull'affidabilità delle diagnosi di mesotelioma pleurico ed adenocarcinoma polmonare e poi, proseguendo nel percorso argomentativo, ha escluso, caso per caso, la possibile sussistenza di cause alternative all'amianto- ivi compreso il fumo da sigaretta, che aveva interessato per un periodo limitato due dei lavoratori- in grado di spiegare l'insorgenza delle patologie delle persone offese. Solo esaurita tale fase, i giudici di appello hanno concentrato la loro attenzione sul discusso problema della individuazione delle dosi di amianto eziologicamente rilevanti nell'insorgenza e nello sviluppo delle patologie asbesto correlate e su quello, ancora più controverso, dal punto di vista scientifico, relativo alla rilevanza causale delle esposizioni successive a quelle di innesco. Sotto il primo profilo (individuazione delle dosi di amianto eziologicamente rilevanti nella insorgenza e nello sviluppo delle patologia asbesto correlate), la Corte di merito ha, innanzitutto, motivatamente disatteso, nei termini sopra indicati, la conclusione dei periti circa l'irrilevanza, ai fini della induzione delle malattie asbesto correlate, dei periodi di esposizione intervenuti presso lo stabilimento (OMISSIS). Il giudice di appello ha poi valutato più affidabile, in quanto conforme alla più aggiornata letteratura scientifica in materia, e in grado di fornire concrete ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente il caso concreto, la tesi esposta dal consulente del PM, secondo il quale gli studi epidemiologici hanno fornito evidenze inconfutabili del fatto che la relazione dose risposta è un dato fortemente acquisito nella comunità scientifica, essendo stato dimostrato che dosi maggiori comportano una maggiore occorrenza di eventi a parità di tempo trascorso dall'inizio della esposizione oppure analogamente comportano che la stessa occorrenza di eventi si verifichi precocemente rispetto al tempo trascorso dall'inizio della esposizione. E' stato evidenziato,inoltre, in conformità a quanto rilevato dal consulente del PM, che risulta coerente con le formulazioni della relazione dose risposta (tra esposizione ad amianto ed incidenza/ rischio di mesotelioma maligno) l'assenza di una dose soglia priva di rischio (una dose al di sotto della quale vi sia assenza di effetto). La Corte di appello, ha ritenuto, pertanto, che la tesi del tumore dose correlato, se non costituisce una legge universale, è in ogni caso un sapere scientifico probabilistico idoneo a far ritenere provato con elevato grado di credibilità razionale la necessaria correlazione tra il periodo di esposizione all'amianto e gli effetti nocivi dai quali deriva l'insorgere di affezioni tumorali accelerate proprio dalla protrazione all'esposizione. In conseguenza, se gli imputati avessero adottato le opportune misure di prevenzione avrebbero ridotto l'esposizione e quindi accresciuto la durata del periodo di latenza, così ritardando l'esito letale. Sotto il secondo profilo ( rilevanza delle esposizioni successive a quelle di innesco), il giudice di appello, premesso che l'amianto è un cancerogeno completo, capace di influenzare sia le fasi precoci sia le fasi tardive del processo di cancerogenesi, ha, innanzitutto, operato una distinzione tra tumore polmonare e mesotelioma- sulla quale non sono state registrate divergenze tra gli esperti- evidenziando che nel primo caso il ruolo dell'amianto sembra preminente nelle fasi più tardive e comunque intermedie (l'aumento del rischio si incrementa con l'età alla prima esposizione e si ha una diminuzione del rischio dopo la cessazione dell'esposizione), nel mesotelioma,

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viceversa, sarebbe prevalente l'indicazione del ruolo dell'amianto nelle fasi precoci (l'eccesso di rischio è, infatti, indipendente dall'età a cui inizia l'esposizione ed è in funzione principalmente dal tempo trascorso dall'inizio di essa). Con riferimento alle esposizioni recenti, tema su cui si è manifestato un vivace dibattito scientifico, con divergenti conclusioni tra gli esperti, il giudice di appello, condividendo integralmente le valutazioni del primo giudice, in conformità alle conclusioni del consulente del PM, ritenute dotate di maggiore credibilità scientifica rispetto a quelle rassegnate dal collegio peritale, ha affermato la rilevanza delle esposizioni recenti, nel senso che la dose successiva (a quella di innesco) comporta un più rapido tasso di sviluppo della malattia in misura proporzionale all'entità dell'esposizione stessa. Ed è stato compiutamente criticata la conclusione dei periti secondo la quale " il tempo dall'inizio dell'esposizione è l'elemento chiave nel tempo di manifestazione del rischio di mesotelioma da asbesto", essendo stata ritenuta maggiormente affidabile, in quanto sostenuta da copiosa letteratura scientifica da dati tratti da studi epidemiologici, la tesi sostenuta dal perito del PM,secondo la quale sussiste una relazione di proporzionalità tra la dose cumulativa e la mortalità e/o incidenza del mesotelioma, e sul fatto che non vi sono elementi di contraddittorietà in grado di invalidare tali rilevazioni. E proprio facendo applicazione dei principi sopra esposti in tema di valutazione della prova scientifica da parte del giudice di merito che è immediatamente apprezzabile la logicità e la congruità della sentenza in esame, che ha proceduto ad un'attenta disamina della perizia il cui esito si andava a disattendere, esprimendo il proprio convincimento in modo logico ed argomentato, riscontrato da argomentazioni fattuali compatibili logicamente con la soluzione adottata. Il giudicante, pertanto, attenendosi ai principi sopra indicati, ben lungi dall'appiattirsi in maniera acritica di fronte al contrapposto scenario del sapere scientifico, ha mostrato di aver valutato dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità, ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti, così correttamente facendo uso della legge scientifica e giustificando logicamente la propria scelta decisoria. I ricorsi vanno, pertanto, rigettati.

Cass. Pen., Sez. VI, 10.3.2015 (dep. 28.5.2015), n. 22526, secondo cui "L'art. 602 quater, introdotto dalla l. n.

172/2012, incide sull'elemento soggettivo delle figure di reato in esso richiamate (compresa in particolare la prostituzione minorile)

riducendo l'area dell'errore di fatto scusabile (art. 47 comma 1 c.p.). Ne consegue che, in relazione ai fatti di reato commessi prima

della sua introduzione, rappresenta una modifica in senso sfavorevole all'autore del reato, che non può essere applicata

retroattivamente".

Cass., sez. IV, sent. 19 novembre 2015, dep. 24 marzo 2016, n. 12478, sul terremoto di L’Aquila, che ha

enunciato – tra l’altro – i seguenti principi in tema di omicidio colposo: "La regola cautelare, fondata sulla prevedibilità

ed evitabilità dell'evento, ha riguardo ai casi in cui la verificazione di questo, in presenza della condotta colposa, può ritenersi, se non

certa, quantomeno possibile sulla base di elementi d'indagine dotati di adeguata concretezza e affidabilità, sia pure di solo di

consistenza empirica e non scientifica. Essa, invece, non può essere individuata sulla scorta del principio di precauzione, che ha

riguardo ai casi in cui si è rimasti al livello del 'sospetto' che, in presenza di certi presupposti, possano verificarsi effetti negativi (in

particolare sulla salute dell'uomo) - e dunque quando manchi in senso assoluto una possibile spiegazione dei meccanismi causali o non

si disponga di concreti elementi di indagine (sia pure di consistenza empirica e non scientifica) idonei a formulare attendibili e concrete

previsioni circa il ricorso di eventuali connessioni causali tra la condotta sospetta e gli eventi lesivi" (p. 46).

"La c.d. causalità psichica, pur ponendosi in termini del tutto peculiari, rispetto alle forme tradizionali della causalità relativa ai

fenomeni d'indole fisico-naturalistica (trattandosi di vicende che si combinano e risolvono integralmente nel chiuso della dimensione

spirituale della persona, fuori da ogni possibile e concreta opportunità di osservazione o di verifica), non sfugge, ai fini del giudizio

penale, alla necessità della preventiva ricerca di possibili generalizzazioni esplicative delle azioni individuali, sulla base di consolidate

e riscontrabili massime di esperienza, capaci di selezionare ex ante le condotte condizionanti (socialmente o culturalmente

tipizzabili), da sottoporre successivamente all'accertamento causale ex post. Le massime di esperienza - al pari delle leggi scientifiche

di tipo probabilistico (e dunque di ogni forma di 'sapere incerto') - possono essere utilizzate allo scopo di alimentare la concretezza di

un'ipotesi causale, secondo il procedimento logico dell'abduzione. Alla posizione (in termini congetturali) di tale ipotesi deve peraltro

necessariamente far seguito, ai fini dell'affermazione concreta della relazione causale, il rigoroso e puntuale riscontro critico fornito

dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto (secondo il procedimento logico dell'induzione), suscettibili di convalidare

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o falsificare l'ipotesi originaria e, contestualmente, di escludere o meno la plausibilità di ogni altro decorso causale alternativo, al di là

di ogni ragionevole dubbio" (p. 86).

All. 3