34

Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

  • Upload
    439

  • View
    124

  • Download
    4

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo
Page 2: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

IndiceFrontespizioColophonDOBBIAMO DISOBBEDIRE

I lettori che scrivonoIl rimedio è la povertàLa democrazia è rumorosaLa carriera politicaScuola e TvLe facce dei politiciVivere la vita dell’Italia dei piùL’Italia dei «lotti»Ragione intima e ragione pubblica

«Postfazione» di Silvio Perrella

Page 3: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

Goffredo Parise

Dobbiamodisobbedire

A cura di Silvio Perrella

Adelphi eBook

Page 4: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

Quest’opera è protettadalla legge sul diritto d’autore

È vietata ogni duplicazione,anche parziale, non autorizzata

In copertina: Domenico Gnoli, Computers(da un reportage per Cape Canaveral, Industry’s

Trial by Fire, in « Fortune », giugno 1962)Collezione privata, Roma

© DOMENICO GNOLI by SIAE 2013

Prima edizione digitale 2013

© 2013 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANOwww.adelphi.it

ISBN 978-88-459-7369-7

Page 5: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

DOBBIAMO DISOBBEDIRE

Page 6: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

I LETTORI CHE SCRIVONO

Molti mi chiedono: che cosa scrivono i lettori? Che tipo di lettere? E che cosa chiedono a unoscrittore? E perché uno scrittore decide di corrispondere con i lettori?

«Imprudente suggerimento il suo» mi scrive la signora Franca Leosini di Napoli «di proporre ailettori argomenti anche personali... l’italiano, come lei ben sa, è per temperamento individualista,portato a ricondurre ogni argomento di carattere generale a problema personale. Mi diverte quindiimmaginare l’Italia delle donne abbandonate, dei mariti traditi, rivolgersi a lei per consiglio e aiuto,a rischio di trasformare la sua intelligente rubrica in una equivalente a quelle già note sottol’occhiello di Donna Letizia o di Contessa Clara. La mia è solo la provocazione di una suaestimatrice...».

Gianluigi Corsini, insegnante di lettere di Firenze, anche lui mi rimprovera, un po’: «... lei non èmai stato uno scrittore facile, nemmeno quando fa di proposito il facile, come nel Sillabario N. 1, cheè un esercizio di stile. E nemmeno ora in queste rubriche, che leggo sempre ma che non so quantosiano utili alla letteratura...».

Giangiorgio Galante di Schio (Vicenza) dice in una lunghissima lettera: «Uno scrittore, nelmomento in cui la sua parola si diffonde, grazie ai mezzi di comunicazione di massa, e penetra nelcervello di migliaia di individui, diventa automaticamente, lo voglia o no, un “maestro” con tutte leresponsabilità che ne derivano. Ma allora gli incombe il dovere di essere “ un buon maestro” perchéaltrimenti si macchia di una gravissima colpa: quella di aver contribuito a dissestare le struttureetiche della società senza aver saputo crearne di nuove e migliori...».

A proposito di un mio articolo (punto di vista) sull’aborto, Stefano Bessio di Gorizia scrive: «...che ne direbbe, signor Parise, se la sua mamma avesse abortito senza farla nascere?...». Direi poco,signor Bessio, credo nulla.

Puntualmente mi scrive il signor Lo Iacono di Vercelli, un mio personale Hellzapopping, che vuolerisposte che non so dare perché le sue lettere sono come quest’ultima: «Dottore, come volevasidimostrare, Lei non risponde: è un reazionario. Si fa scrivere da anonimi: è clericale. Le due cose lapromuovono democristiano di sinistra. È scoperto. Se un giorno vincerà il comunismo non lavorranno perché sarà ritenuto borghese, un cattivo borghese ricco». Che cosa le posso rispondere,signor Lo Iacono, se lei ha già dimostrato tutto con la sua brillantissima equazione di logica? Non loso proprio.

Sono alcuni «campioni» di lettere, scelti tra le molte, troppo spesso lunghe, che affrontanoproblemi così generali da coprire l’intero arco dell’essere e del divenire, l’alfa e l’omega delmondo. Risponderò alle domande dirette, della signora Leosini, del signor Corsini e di molti altri:che mi riguardano o che riguardano il mio a volte definito «utopico rapporto» con i lettori chescrivono.

Mi sono proposto questa rubrica innanzitutto per curiosità umana: la stessa che ho viaggiando,incontrando molta gente di molti paesi e parlando, nei luoghi più disparati, in pace e in guerra. ASaigon stavo spesso sulla terrazza dell’hotel Continental, ogni sera quando non ero fuori, per mesi, echiacchieravo con tutti: avevo un solo concorrente che su quella terrazza passava molto più tempo dime, un enorme bicchiere di scotch sul tavolo: Graham Greene. In treno, come tutti, tendo a guardarmiintorno e a fare due chiacchiere. In generale, nella vita, vivendola giorno per giorno, tendo percuriosità umana a guardarmi intorno, a conoscere, a sentir parlare, a far parlare. Non soltanto di

Page 7: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

problemi generali ma, se posso, proprio di problemi personali, se non addirittura di pettegolezzi.Quasi sempre, signora Leosini, un bel problema personale, anche quello di un marito tradito o di unavedova inconsolabile è infinitamente più interessante di un problema così detto generale di cuiparlano tutti per un po’ e poi non se ne parla mai più. Il particolare, che poi non è tanto diverso dalparticulare di Machiavelli, cioè come era la moglie del marito tradito, se bionda o bruna, di qualeetà e colore degli occhi e carattere, è fondamentale. Il particolare personale, anzi, una serie diparticolari personali messi insieme, sono la vita di una persona, di una piccola società, di una grandesocietà, di un mondo. Io non ho scelto di fare questa rubrica per parlare soltanto di problemi generalima per stabilire una conoscenza diretta, o quasi, con i lettori, appunto come si fa in treno o in paesiche non si conoscono. Il professor Corsini mi dice che non sono uno scrittore facile e che la miafacilità è un esercizio di stile: io non credo di scrivere in modo molto complicato e in ogni casol’esercizio di stile è invece lo stile, cioè il carattere di una persona. Anche i lettori che mi scrivonohanno un carattere comunicativo ed espressivo, cioè uno stile. Le lettere che mi arrivano, io le leggosempre attraverso lo stile ancora prima del contenuto, perché lo stile previene, annuncia il contenuto.Da questa prima lettura puramente grafica viene fuori molto di chi scrive, poi è il mio mestierescrivere, e faccio presto a tirar fuori lo stile (cioè la scelta delle parole, la composizione della frase,i «tempi» espositivi) della persona. Certe volte faccio un po’ il grafologo dilettante e mi diverto aimmaginare una persona dalla sua calligrafia. Perché tutti questi sono dati, «campioni» di realtàmolto importanti per uno scrittore. Un giovane operaio mi ha scritto una lettera a stampatello, senzaun errore di ortografia e di sintassi. Prima di leggerla mi sono chiesto il perché dello stampatello. Lalettera me l’ha confermato: quel giovane operaio era analfabeta e piano piano ha imparato a scrivereda solo, ma soltanto in stampatello. Non era anche questo un esercizio di stile?

Il signor Galante di Schio, come molti, dice che uno scrittore, dal momento che la sua parola sidiffonde, diventa un «maestro», e che il «maestro» ha delle responsabilità civili, pubbliche. Me nerendo conto perfettamente, ma rispondo al signor Galante che esse non sono minori, per uno scrittore,anche quando scrive un romanzo o un racconto, non soltanto quando tiene una rubrica di lettere. Ionon mi sento molto maestro, anche se è fortissima la tentazione pedagogica ed è stata proprio questache mi ha fatto scrivere questa rubrica. Un po’ maestro è anche l’operaio che scrive a stampatello lasua lettera, o quelli che scrivono lettere vere, libere, intelligenti e sofferte. Ci sono anche gli stupidi,certo, i moralisti, gli svitati, i maniaci e i prolissi. Ma la vita è fatta di persone libere, intelligenti evere, ma anche di moralisti, di maniaci e di noiosi. Quelle lettere annoieranno, irriteranno, siscarteranno: esattamente come nella vita si scartano le persone. I peggiori sono gli antipatici, quelliche vogliono fare, loro, i «maestri».

Tutti questi uomini e donne che sono i lettori che scrivono, anziché diminuire (persovraffollamento) la curiosità, la aumentano. Tra poco mi occorrerà una segretaria per star dietroalle lettere. E il signor Corsini troverà che è tempo sprecato per la letteratura, da buon professoreche vede la cultura, l’intelligenza, l’arte, come una pallida signora molto aristocratica ed elegante,noiosissima vieux jeu, che non se la fa con tutti ma con gli eletti. Non sono di questo parere.

Questa rubrica non vuole rimanere un «classico» della letteratura italiana, signor Corsini e gentilesignora di Napoli, questa rubrica è una serie di chiacchiere che hanno l’aria di non essere importanti,d i verba volant. Da questi scambi di informazione, anche personali, ripeto, nascono spesso ideegenerali. E quelle sono e non sono verba volant. A chi mi accusa di voler fare il maestro, dirò chequalche volta mi piace fare il maestro proprio nel senso dato dal signor Galante: perché desidero esento di avere responsabilità civili e pubbliche che nascono dalla mia parola. Altre volte sonofelicissimo di raccontare a chi me le chiede molte cose che ho appreso vivendo, senza voler fare il

Page 8: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

maestro, ma pensando che quelle cose che mi sono tanto piaciute vivendo, possano piacere e dunqueessere utili alla vita di tutti quanti i miei simili che non le hanno vissute.

Page 9: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

IL RIMEDIO È LA POVERTÀ

Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mihanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesifa, e quest’altra: «Il rimedio (di tutto) è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nelmio ultimo articolo.

Per la prima hanno scritto che sono «un comunista», per la seconda alcuni lettori di sinistra miaccusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Diconoche anche le classi meno abbienti hanno il diritto di «consumare».

Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione,senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragionidemagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e iorispondo loro con il titolo di questo articolo.

Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livellisociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il sensopiù profondo e storico di «classe». Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi cicomportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lospettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo èenorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra «ideologia» nazionale, specialmente nel Nord, è fattadi capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe distracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebberougualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembranoconcentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti.Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.

Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è «comunismo»,come credono i miei rozzi obiettori di destra.

Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, qualiil cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertàe necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle propriegambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime«barche».

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che sicompra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che sicompra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari.Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non devedurare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere oaumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo:il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando aconoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare.Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevolialla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitellodal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è

Page 10: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostropaese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazioneelementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai aletto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato,delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostro paese è un solo grande mercato di nevrotici tuttiuguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poiricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere coseutili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e direligioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, comesono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dallebanche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che dannol’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta dicontrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno dimoda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli«etichettati» che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lostesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza diazione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumosuperfluo.

I giovani «comprano» ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeansal mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conosconopiù niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno volutadisprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighisociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro «qualità»,la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovofascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico epolitico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come ladifferenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali algoverno e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, igruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux pucesideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati,poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresiaper la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressionedi se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità dellasua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.

Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più«corretta», come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta egiusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzkynel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto apunta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) erivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica.Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivoinfinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i

Page 11: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale,una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, nesono profondamente convinto, salverà il nostro paese.

Page 12: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

LA DEMOCRAZIA È RUMOROSA

«... il cittadino non ne può più ed io sono uno di questi cittadini. Inflazione, rapine, sequestri,bombe, assassini, come quelli di Padova, servizi pubblici paralizzati, scandali, corruzione edinefficienza governativa, mafia politica... Perché uno dovrebbe comprare i giornali, come leisuggerisce, perché dovrebbe partecipare alla vita pubblica che non sta più in piedi, alla democraziache non c’è? Personalmente, ma sono molti che la pensano come me, ho bisogno solo di silenzio, dinon venire bombardato ogni mattina di notizie nere, di disgrazie, insomma voglio incominciare la miagiornata di lavoro con un minimo di tranquillità. Questo dovrebbe fare un giornale come il“Corriere”...».

Non lo può fare, signor Bandelli (Milano), perché, bene o male, molto più male che bene oggi,siamo in un paese democratico che non censura la stampa. Inoltre non lo può fare perché è ungiornale serio, e un giornale serio non può omettere i fatti, quali che siano. Se lo fa non è più ungiornale serio e libero, ma un giornale che ha come fine quello di nascondere la realtà ai suoi lettori.

Un giornale serio e libero pensa che i suoi lettori siano uomini liberi e ragionevoli, che voglionoconoscere i fatti, anche le disgrazie, tutte le magagne in cui vivono per potersi indignare, ribellare,denunciare, giudicare la classe dirigente del proprio paese sino a destituirla, se ritiene di doverlofare. La democrazia, signor Bandelli, è rumorosa. È molto faticosa. È un lavoro in più per ognicittadino, oltre il suo lavoro giornaliero. Il silenzio che lei desidera, cioè quei giornali che evitanoqualunque notizia allarmante, vagamente ottimistici quando non trionfalistici: oppure quei giornalibianchi, vuoti di notizie e di pensiero, corredati d’articoletti esornativi, cronaca rosa, di culturavagamente accademica e generica, quei giornali li può trovare in Spagna; oppure, i giornalitotalmente silenziosi li può trovare in tutti i paesi socialisti. Lì non ci sono inflazioni, delitti,sequestri, lì c’è il silenzio e l’obbedienza. Insomma, il silenzio che lei tanto ama prima di mettersi allavoro al mattino è, in una sola parola, la dittatura. Oppure quei particolari momenti storici chepreludono la dittatura. Se lei, come dice più avanti nella sua lettera, sente di poter faretranquillamente a meno della democrazia, anzi, la trova addirittura anacronistica e troppo rumorosa(gli italiani non hanno uniforme cultura nazionale per amministrare la democrazia, lei dice) alloraagisca in favore di una dittatura. Sappia però che non è cosa tranquilla, non è un affare silenzioso.Perché altri la combatteranno, perché saranno molti di più i delitti (quelli che lei chiama disgrazie)davanti ai quali non potrà chiudere gli occhi.

Lei è commercialista: come li fa i bilanci? Ignorando i debiti? Bei bilanci verrebbero fuori. Ungiornale serio, come qualunque ditta seria, deve dire crediti e debiti, e fare il bilancio. Se lei inveceè uno di quei commercialisti che vogliono leggere solo i crediti ignorando i debiti, padrone lei difallire «in tutta tranquillità».

«Evidentemente lei non è marxista...» scrive Federico Baldi, studente di sociologia. E mi fermoqui perché quell’«evidentemente» è fin troppo chiaro. Come dire: «lei non è marxista? Si vergogni!».

Potrei risponderle che non sono e non desidero essere marxista in toto, ma sono marxista ognivolta che, per giudicare un particolare fenomeno, il marxismo diventa uno strumento di conoscenza«utile». Le risponderò però come Carlo Emilio Gadda, grande scrittore italiano di questo secolo (miauguro che lei lo conosca), quando fu intervistato da Dacia Maraini.

Domanda: «Non le interessa Marx?».Risposta: «Ho letto una prima parte del Capitale. E mi ha interessato. Ma io ho un controveleno

Page 13: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

per Marx, se Marx si può chiamare veleno, nei libri di Vilfredo Pareto. Lei può scrivere che il miodesiderio di conoscere i vari punti di vista, mi ha condotto a una specie di enciclopedismo, forseriprovevole, ma nato dal desiderio sincero di sentire le varie campane».

Anch’io amo sentire le varie campane e non amo essere etichettato, e lei invece etichetta, come siusa oggi: lei è un intellettuale? Dunque è marxista. Se non lo è, scandalo. Perché scandalo? Perchéusa il proprio cervello o l’altrui a seconda delle necessità? Eresia? Perché non si ficca dentro in unsistema di pensiero che, come molti sistemi di pensiero nella storia dell’uomo, ha i suoi torti e le sueragioni? Perché, insomma, non obbedisce? Lei fa sociologia a Trento, facoltà che scotta e che forse«obbliga» al marxismo come la sola chiave interpretativa del mondo. Se vuol disobbedire, come leidice nella sua lettera, non si faccia prendere in trappola e disobbedisca: anche al marxismo quando èil caso, ma soprattutto ai marxisti in toto, ai noiosissimi e di solito stupidi eccessi di zelo. Peresempio: avendo io citato Gadda, che cita Pareto, zelanti marxisti in toto direbbero subito: fascista,secondo l’obbligo e l’obbedienza dei più, di quelli, appunto, che stabiliscono la seguente equazione:intellettuale uguale marxista. Che è equazione di merito o di demerito a seconda dell’ottica, ma chepare debba essere un obbligo. E non è, finché dura.

Il mio articolo intitolato Il rimedio è la povertà, che riprendeva il concetto di risparmio, diumanistica ribellione all’eccesso dei consumi, mi ha fatto arrivare molte lettere. Impossibilerispondere a tutti, in particolare a Giuseppe Conte di San Remo, che propone un’alternativa esotico-catastrofica della società capitalistica (citando Lao Tze), molto affascinante ma poco pratica. La sualettera meriterebbe una risposta altrettanto lunga ma non forse in questa sede. Così Silvio Pecetti diPerugia, Luigi Sovran di Milano e Michele Capoa di San Marino. Risponderò alla signorina EricaArosio di Milano, primo anno di filosofia, perché ritengo questa risposta la più urgente.

«... se lei considera la società capitalistica così come è strutturata oggi» scrive «allora sonoaccettabili le considerazioni con cui lei conclude e cioè il rimedio è la povertà. Ma la proposta di unlimite di sviluppo ci obbliga a considerare un’alternativa comunista, che è, secondo me, l’unica einevitabile conseguenza per una risoluzione del problema. Mi domando dunque per quale motivo nonabbia avuto il coraggio di condurre fino in fondo il suo discorso...».

Per una semplicissima ragione, signorina, qui il coraggio non c’entra nulla. Perché non credoaffatto che l’alternativa comunista sia «l’unica». Anche lei, come Federico Baldi, pensa in terminiassoluti (bianco e nero), cioè secondo uno schema che potremmo chiamare «pigro» (non si offenda),cioè uno schema che preclude una pluralità di alternative teoriche e pratiche. Il mio suggerimento allapovertà non intendeva presentarsi come un’alternativa assoluta ma, nella realtà in cui si trova ilnostro paese oggi, come un rimedio ideologico e politico ed economico, dunque pratico. Se tutte lefamiglie italiane dicessero: «Da domani si compra solo il minimo indispensabile per vivere. Dadomani si va a piedi o in filobus. Da domani si tira la cinghia»; e se domani questo veramenteavvenisse, questa sarebbe una piccola rivoluzione ideologica, politica e pratica, che muterebbe moltecose in Italia.

Lei pensa e scrive che un simile domani è offerto solo da una alternativa comunista, in opposizionea quella capitalistica in cui viviamo. Non lo credo: prima di tutto perché le società socialistepremono all’interno proprio in direzione opposta, cioè verso sempre maggiori consumi. E poi perchésoltanto chi ha può ridurre: chi non ha, aspira ad avere. Infine, ed è il senso più intimo del miodiscorso sul risparmio, la scelta alla povertà deve essere libera e non coatta. Utopia, mi scrivono inmolti, a cui rispondo: vedremo.

Page 14: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

LA CARRIERA POLITICA

Ricevo una lettera molto strana per il suo umile pragmatismo, al tempo stesso candido e cinico, dauno studente di liceo classico a Urbino, Mario Vertecchi. Mi chiede come si fa carriera politica. Chegli piacerebbe, per ragioni di sicurezza professionale (sic) , fare carriera politica, non sapendoquale facoltà scegliere dopo la maturità, essendo incerto, ed essendo incerte tutte le professioni, coitempi che corrono. Secondo lui, l’unica professione certa, in Italia, è la carriera politica. Nonessendo un politico, mi sono tornati in mente, di colpo, come il ricordo di un film, certi mieicompagni di scuola che hanno fatto carriera politica e che oggi, a 45 anni, avranno il potere pernaturale ricambio. Cercherò di ricostruire la loro carriera politica come esempio, una carriera, sibadi bene, che è cominciata nel dopoguerra, dunque senza pericoli.

Prima di tutto mi pare indispensabile voler fare carriera politica fin da giovanissimi. MarioVertecchi è quasi ai limiti d’età, ha ragione di preoccuparsi, o comincia subito o sarà troppo tardi. Aimiei tempi, essendo nato in Veneto, il luogo politico da scegliere per i giovanissimi era laparrocchia. Anche la San Vincenzo de’ Paoli, società benefica para-cattolica, era un buon inizio.Vedevo ragazzi della mia età (quindici anni nel 1945) trafficare con dei fagotti di roba vecchia o concerti buonipasta che andavano a dispensare nelle famiglie povere. Si frequentavano, frequentavanoparrocchie e cappellani, o certi laici, simili a cappellani vestiti in borghese. Confabulavano,sorridevano, avevano (già allora!) sempre una borsa di scuola in mano, con delle carte. Erano ideputati in nuce.

Subito dopo la Liberazione, ebbe grande successo un giornale che si chiamava «L’uomoqualunque», i figli dei vecchi gerarchi fascisti en retraite lo leggevano molto e dicevano che era unbel giornale. Anche loro si riunivano, erano pieni di vergogna e di rabbia per aver perduto la partitae facevano molto fracasso. Mi pare manifestassero per Trieste italiana, proclamavano scioperi ascuola. Erano i missini. Alcuni, di qualche anno più vecchi, erano stati nelle brigate nere. Ne ricordouno che, verso la fine della guerra, entrava in classe nella sua divisa di brigata nera e, all’appello,depositava la rivoltella sul banco, guardando serio il professore di greco. Lo fece andare anche ingalera. Ricordo il partito d’azione, fatto, in generale, di giovani piccolo-borghesi che erano i primidella classe, un po’ più vecchi di noi. Alcuni erano stati in montagna, partigiani, alcuni vi morirono.Subito dopo la guerra avevano molto prestigio, ma non possedevano né la faccia, né le borse con lecarte, e ricordo che sospettai subito, senza dirlo, che non avrebbero fatto molta carriera politica.Infatti, cogli anni, alcuni diventarono industriali, impiegati di banca, insegnanti. Poi c’erano icomunisti, non molti. Un mio amico si iscrisse al partito comunista e voleva che anch’io miiscrivessi. Non ne avevo voglia: questo mio non iscrivermi a nessun partito mi procurava rampogneda tutte le parti, rampogne che seguitarono negli anni, e a cui mi sono abituato con pazienza.

Il ricordo delle carriere politiche di quei tempi è soprattutto legato alle sere: alla sera, nelleparrocchie, o in certe stanzette vicino alle parrocchie, o in sedi minime di partito, o in qualcheangolo di caffè, o nelle case di avvocati, molti si riunivano e parlavano e organizzavano come farecarriera politica. Io, allora, avevo la sensazione di essere cicala in mezzo alle formiche; s’iocantavo, le formiche badavano all’inverno. Era una sensazione giusta, perché quelli che si riunivanoiniziavano così la loro carriera politica.

Passò qualche anno, il liceo. Quelli che alla sera si riunivano e avevano iniziato così la lorocarriera, continuavano a riunirsi. Non erano affatto amici, anzi, ma si riunivano, trafficavano, e in

Page 15: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

quei pochi anni qualcosa mutò. Non mi invitarono più alle loro riunioni, erano diventati misteriosi,evasivi, come chi sa nei confronti di chi non sa; allora, infatti, non lo sapevo, ma quelle evasioni,quel cessare gli inviti, significava che i giochi erano fatti e le porte sbarrate. Il potere di domani eragià suddiviso, e non erano graditi estranei ai lavori.

Io frequentavo un anziano anarchico, con due bellissime figlie dai capelli di fuoco, che sichiamavano Neva e Nevòska. Era una bella famiglia, e lì non si faceva nessuna carriera politica. Incosa consisteva il lavoro politico di quelli che si riunivano e avevano già chiuse le porte? Mah!,facevano lavoretti, non so, ciclostile, imbucavano lettere, dattilografavano ai primi deputati, eranospesso a matrimoni e battesimi, qualche volta si vedevano in giro con i deputati (allora poveri):bevevano insieme dei cappuccini con una pasta, poco più, ma in modo giulivo e caritatevole,infarinandosi il mento dalla contentezza. I comunisti erano cupi e minacciosi, ma per questosimpatici. Nel 1948 ebbi la sensazione che non avrebbero mai preso il potere, ma non lo dissi. Eranostati uomini di azione (allora) e non di amministrazione. I missini camminavano per la strada a testaalta, vergognandosi un po’. Dei socialisti, che stavo quasi per dimenticare, ricordo il «dipendente»di un orologiaio, più vecchio di noi. Aveva sempre la lente all’occhio, perché riparava orologi.Ricordo che diceva «reazionario» e, subito dopo questa parola, rideva e diventava tutto rosso, non sisa bene se in modo cordiale o minaccioso. Quello ha fatto molta carriera politica, mi pare sia uncapo dei sindacati. Un altro, d’estrema sinistra (però veniva dalla San Vincenzo de’ Paoli), eraconsiderato da tutti (destra e sinistra) un genio politico. Parlava incessantemente, con una dialetticanevralgica, in qualunque momento del giorno o della notte. Io gli volevo molto bene, perché sentivola sua fragilità, molti lo temevano. Non ha fatto nessuna carriera politica.

Gli altri, invece, quelli che facevano i factotum, i fattorini, i portabagagli dei deputati, che ascuola erano degli asini incredibili, e non per distrazione, ma per nascita, quelli hanno fatto moltacarriera politica. Alcuni non sono né deputati, né senatori, forse nessuno sa con esattezza cosa sono,ma so di certo che sono più potenti di un deputato o di un senatore, e anche di un ministro. Girano aRoma intorno alla Democrazia Cristiana, non so in quali uffici. Ne ho visto qualcuno, mi saluta inmodo giulivo e caritatevole. Franco Franchi, mio compagno di scuola, oggi è un pezzo grosso delMSI. Mi pare fosse toscano, o fiorentino, dicevano di lui, allora, al liceo, che aveva «parlantina».L’ho rivisto a Roma anche lui, ha «parlantina», ma meno. Chissà perché era ed è missino, forseaveva uno zio fascista, ma non ne sono sicuro. Quello ha fatto carriera politica, ma ha cambiatohobby, ha un occhio pio, va a piedi, d’estate, a Roma, ed è tutto imperlato di sudore.

Quelli che volevano fare carriera politica e poi non l’hanno fatta sono diventati acidi. Alcuni, acausa di questa acidità, sono addirittura morti.

Tutti quelli che hanno fatto carriera politica venivano giudicati da noi ragazzi «falsi». Cioè nonerano sinceri, nemmeno da ragazzi, né impetuosi, né disordinati e nemmeno sportivi. Erano evasivi,non passavano il compito, o lo passavano ad altri che poi hanno fatto carriera politica minore. Sisono sposati tutti molto presto, e abitavano in case grige, con mogli grige e figli grigi. In questogrigiore, le mogli li guardavano come dei geni, e lo erano, perché, infatti, hanno fatto carrierapolitica. Quelli che hanno fatto carriera politica, non si arrabbiavano mai, se si arrabbiavano nonfacevano a pugni, ma diventavano soltanto pallidi, pallidissimi, e basta. Nessuno di loro era quelloche si dice: simpatico. Con gli anni, tutti quelli che hanno fatto carriera politica, e non sono morti peracidità, o non sono rimasti consiglieri comunali o regionali, sono andati avanti per mezzo di scatti,come in un qualunque ufficio statale. Hanno cominciato giovanissimi, dai mestieri più umili, poi sonodiventati impiegati di gruppo C, poi B, poi A, poi capi-ufficio, poi finalmente deputati o senatori, osegretari di ministri o ministri.

Page 16: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

Nessuno di loro ha delle facce che si possano ricordare, né dice cose che si possano ricordare:non le dicevano allora, non le dicono oggi. Che io sappia, non hanno fatto mai altro mestiere checarriera politica. In nessuno di loro ho mai visto fantasia, idee, sentimenti particolarmente nobili,salvo la passione. Ma era una strana passione: era la passione per il posto di lavoro, non per illavoro. Ora sono diventati potenti, dicono. Io, in quegli anni, avevo molta ammirazione per uominicome Einaudi, De Gasperi, Togliatti, li trovavo avventurosi e coraggiosi, tra Vaticano, Svizzera eMosca. Avevano vissuto una vita politica. Questi qui, che ho descritto, hanno vissuto e vivono solouna carriera politica: stanno bene di salute, vanno in aereo, hanno facce lucide e certe cravatte ecalzini, hanno la stessa borsa con «le carte».

Ecco tutto quello che so, giovane aspirante Mario Vertecchi, della carriera politica.

Page 17: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

SCUOLA E TV

«... Quale è oggi la vera fonte di cultura per la maggioranza dei ragazzi italiani? La scuola o laTv?...». Riassumo in questo breve interrogativo la lettera della signora Marcella Morucchio T.,insegnante di lettere a Venezia. Sullo stesso argomento l’avvocato Nicola Russo di Salerno miscrive: «... Lei fa bene a condannare Carosello, ma esagera quando condanna in toto la televisione.Essa ha ed ha avuto in questi ultimi anni un grande valore pedagogico. Anzi, in certe zone di questopovero e disprezzato Sud, la televisione è l’unico strumento informativo e culturale di massa, perricchi e poveri intendo dire. Per moltissimi prima non c’era nulla. La televisione, in più, è stata unpotente strumento di unificazione, anche psicologica, tra Nord e Sud. Se lei mi permette vorrei direche essa mette in atto, per la prima volta, l’unità nazionale. Ciò che non sono riusciti a fareGaribaldi, i Savoia e la nuova repubblica, lo fa ora, in bene o in male non sta a me dirlo, il video.Senza sbarchi e senza guerre, un’invasione pacifica insomma...».

Queste due lettere, che ho riunito di proposito, sono la domanda e la risposta. Ma, credo, c’è daaggiungere qualche cosa.

Dunque: la signora Morucchio parla anche di «cultura umanistica», e che cosa intende per culturaumanistica? Non tanto, credo, la cultura a misura dell’uomo, che è andata perduta da un bel po’,quanto quella particolare cultura «di base» come si diceva un tempo, da cui uno scolaro italianodovrebbe partire, per specializzarsi in seguito, ma senza mai dimenticarla come punto di partenza.Cioè una disciplina razionale, storica e linguistica, della realtà. Il signor Russo invece, che ha avutosott’occhio il Sud e l’analfabetismo (che è, a suo modo anche quello, «cultura umanistica»),considera «di base» e magari anche «umanistica» la cultura nata dall’avvento della televisione inItalia. Va anzi più in là e giudica la cultura televisiva (tutta) una «invasione» benefica, un rullocompressore rigenerativo, solo reale viatico dell’unità d’Italia. Giudica Rischiatutto «istruttivocomunque», e Canzonissima una specie di sagra nazionale a puntate in cui la lotteria, il denaro inpalio, serva da «pungolo culturale» dato il carattere «pratico degli italiani».

La signora Morucchio mi chiede quali libri deve far leggere ai suoi figli, restii alla lettura.Rispondo: nulla. Vede, signora, se i suoi figli hanno tanta ripugnanza per la lettura (la culturaumanistica non si forma anche con la lettura?), non c’è niente da fare. Non basta l’autorità deigenitori, né quella scolastica, né quella politica. Occorre una autorità reale e attuale, che li affascinie li faccia sentire dentro il loro tempo. Forse più tardi, quando saranno già uomini, capiterà loro, percaso, di leggere qualche libro che li interesserà e forse li emozionerà. Per il momento essi sonoimprigionati fra due scuole: una ancora umanistica ma estemporanea (il liceo) che li annoia con i suoiprogrammi decrepiti e soprattutto con la sua inattualità: e un’altra non umanistica (la televisione) cheli affascina con i suoi programmi-fantasma, tutti attuali, Carosello compreso. La prima scuola sioccupa dell’uomo e pure nella sua decrepitudine insegna un lavoro difficile: quello della ragione edella fantasia. La seconda si occupa dell’immagine dell’uomo e, nel suo attualismo, insegna unamateria di tutto riposo: l’obbedienza e l’imitazione.

Le due scuole non si integrano affatto. La scuola per così dire classica, tradizionale, nasce lontanoe si sviluppa in società che non avevano previsto il consumo di tutto, la televisione nasce inveceproprio come scuola di consumo di tutto. Aggiunga che, proprio come scuola, la televisione insegna aguardare (non a vedere), mentre la scuola di Stato insegna a leggere e a scrivere (cioè a pensare, ascegliere), esercizio lento, molto più lento e faticoso che guardare. Si figuri con quale animo

Page 18: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

oppresso di noia e di irrealtà i ragazzi (che, come dice lei, stanno tutto il giorno davanti al video) siapprestano a leggere la Divina Commedia o Parini, o Alfieri, o Manzoni, o Carducci, o Pascoli, ochiunque altro che sia esclusivamente da leggere. Come si possono «guardare» questi autori? Anchese i ragazzi impiegassero tutta la loro buona volontà (essendo già dei televisivi cronici), che cosapossono dire loro questi poeti e scrittori del passato, tra l’altro di lettura ogni anno più difficile e,occorre dirlo, inattuale?

I ragazzi hanno imparato a parlare davanti al video, usando quella lingua (didascalica, cioè insott’ordine rispetto all’immagine); la scrittura la usano poco ed esclusivamente a scuola, dunquedevono decifrare, non semplicemente leggere. Nel frattempo la seconda scuola agisce e crea neiragazzi una profonda dissociazione. La dissociazione tra cronaca e storia, tra ciò che appare e ciòche è. In altre parole, per essere meno filosofici, i ragazzi sentono che la scuola di Stato nel suocomplesso «umanistico» parla una lingua che non si parla più. Automaticamente questo sentimento fasì che l’autorità che fu della scuola di Stato passi nelle mani della televisione. Non è colpa dellatelevisione come mezzo se essa emana un’attrazione irresistibile per i ragazzi (e per i grandi, pertutti). Il mezzo non è mai colpevole: è semplicemente fatale, si sviluppa e si modifica seguendo glisviluppi (fatali) della storia dell’uomo. I bambini di oggi formano la loro prima cultura di basedavanti al televisore. Praticamente hanno già guardato tutto il mondo (senza vederlo) a pochi anni.Poi vanno a scuola, alle medie, al liceo. Qui cominciano i guai: a mano a mano che la culturacosiddetta umanistica si sovrappone a quella di base (televisiva) comincia la dissociazione e ilfastidio.

Lo scolaro ha la sensazione di precipitare in un mare di irrealtà, di personaggi, luoghi, situazioniche non riconosce nel mondo che guarda alla televisione e che, di contro, non visualizza attraverso laparola scritta per mancanza di allenamento. Sono due lingue diverse. Lo scolaro è costretto a fare unsalto indietro nel tempo, quando il nostro paese aveva come strumenti informativi ed espressiviesclusivamente la lingua parlata o la lingua scritta. Già lo scolaro di allora, quando andava a scuola,doveva lasciar fuori dalla porta la lingua parlata (il dialetto della sua regione) per adattarsi a parlare«in italiano». Figuriamoci oggi che deve lasciar fuori dalla porta la sua cultura di base (i dialetti nonsi parlano più), quella che gli ha fatto aprire gli occhi sul mondo.

Del resto questa dissociazione, questa frattura così sentita dai ragazzi a scuola è la frattura stessadell’Italia. Da una parte le testimonianze e le immagini di un vecchissimo passato (l’Italiamonumentale, storica e agricola), dall’altra un no man’s land senza storia: l’Italia della speculazioneedilizia, delle piccole e grandi industrie, delle autostrade all’americana, dei motels, dei snacks. Checosa ha a che fare tutto questo con la «cultura umanistica» che si insegna a scuola? Non siamo inAmerica, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtàgiornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana. Questa frattura italiana è per ilmomento insanabile nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso. Fino a quando lavecchia Italia, museificata, mummificata (o distrutta, che è lo stesso) avrà cessato di esistere comecorpo vivo. Asettici e convenzionalmente italiani e mediterranei, i nuovi scolari del futuro potranno,ma solo allora e facoltativamente, come si fa nei tours, scegliere brevi «diramazioni interessanti» inquella che lei, signora Morucchio, chiama la cultura umanistica. Che sarà affidata a degli chaperons,a degli ex mandarini nelle cui mani, del resto, è sempre stata.

I figli dei suoi figli, cara signora, che non saranno obbligati a leggere più nessun libro, tireranno unsospiro di sollievo; e forse, da quel momento e per curiosità turistica, cominceranno a leggerli.

Page 19: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

LE FACCE DEI POLITICI

Il signor Alberto Melli di Modena mi scrive, in risposta al mio ultimo articolo (Scuola e Tv, 28luglio 1974) lodando, anche lui, la funzione pedagogica della televisione «... salvo per una cosa: perla vanità dei politici che vi vogliono apparire a tutti i costi. Gli uomini politici non dovrebberoapparire in televisione, essi rappresentano o dovrebbero rappresentare delle idee, dei programmi equesti non hanno un volto...».

Come non hanno un volto? Hanno proprio il volto dei loro rappresentanti: anzi, per meglio diresono i loro rappresentanti e se la televisione svolge un compito pedagogico (involontario) è proprioquello di esporre all’esame di tutti i volti degli uomini politici.

Nel mio articolo precedente dicevo che, essendo il nostro paese molto vecchio permangono inmolti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende ugualeogni apparenza, alcuni frammenti di «cultura umanistica»: cioè autoctona, locale. Questi frantumi nonsi trovano né si apprendono nelle scuole classiche bensì stanno nascosti in una specie di saccaculturale, pre-storica e pre-politica, che ci portiamo dietro dal nostro passato agricolo, popolare,paesano e cattolico. Questi frammenti si trovano nei contadini, quelli che ancora ci sono, negli operai(che furono contadini), in certa aristocrazia decaduta e in certa media borghesia del Sud, che la salunga. Per fare un brevissimo esempio, anche la mafia è, a suo modo, uno di questi frammenti. Essisono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande,specialmente nel Nord, che ha «fuso» le sue origini nella fornace produttiva e si è culturalmente«rasa al suolo» per sua stessa volontà. E va scomparendo molto rapidamente nella nuova societàitaliana, tutta, malata di una malattia americana: il pragmatismo.

Ma nei contadini o negli ex contadini di tutta Italia questi «frammenti» esistono ancora. Tra di essiagisce, come stimolo culturale primario, la lettura delle facce. La prima fonte di informazioni per uncontadino di fronte a un estraneo (straniero alla famiglia, al paese, alla regione) è la faccia. Quandosi diceva «diffidenza contadina» nei confronti di estranei, in realtà si diceva «cultura contadina». E,pure in questi anni di dittatura culturale televisiva, molta parte degli italiani guardando allatelevisione la faccia di un politico non dice: quello è potente, dunque ha una bella faccia, comevorrebbe il pragmatismo in atto, dice invece: di quella faccia mi fido o non mi fido. E questo, carosignor Melli, è importantissimo giudizio e culturale e politico.

La sera del 10 maggio 1974, a quarantott’ore dal referendum, sul video sono sfilati i volti di alcuniuomini politici. È stato, per chi l’ha visto, uno spettacolo notevole. In quell’ora di trasmissione moltiitaliani sono stati spinti a decidere più che da settimane di propaganda.

Chi li ha spinti? Li ha spinti quel poco che rimaneva loro di «cultura contadina». Le parole noncontavano molto, né gli argomenti, già noti, e poi le parole volano specialmente quelle politiche male facce restano. La faccia seria, borghese, massiccia di Tanassi, la sua calma sicurezza borghesed’altri tempi, da medico di famiglia, ha detto molto alla cultura contadina. E così la sincera foga deldeputato liberale.

Gabrio Lombardi con l’esposizione della sua faccia ha voluto la sua sconfitta: la faccia era tropposevera e troppo straniera. E Andreotti (apparso poco prima al Telegiornale, in un comizio) hacollaborato moltissimo non con la sua faccia ma con le sue parole violente così avulse da quellafaccia, alla sconfitta (altrui).

Ma i tre veri protagonisti di quel défilé di eccezione sono stati Fanfani, Almirante e Berlinguer.

Page 20: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

Fanfani, in quell’occasione, attenuava la sua faccia. Forse attenuava di proposito per far appariresaggi e riflessivi gli argomenti del «sì». E anche le parole, il timbro della voce erano attenuati, saggie riflessivi.

Senonché argomenti e timbro della voce parevano non udirsi e si vedeva solo la sua facciaattenuata. Anziché apparire saggi e riflessivi, per così dire garantiti dalla faccia anziana diprofessore e di nonno buono e un po’ severo, i «suoni» sono risultati alla cultura contadina di moltispettatori semplicemente deboli, irreali, infidi e perdenti. Fanfani non poteva attenuare anche il suosguardo duro, niente affatto anziano e prepotente. Quello sguardo non era saggio e riflessivo, quellosguardo diceva: «Voi dovete votare “sì”, avete capito?». Le parole pacate, il tono e certe sibilantivagamente ecclesiastiche, l’attitudine seria, in riposo, dei muscoli facciali, dicevano invece:«Abbiate fiducia nel mio consiglio, è il consiglio di un vecchio papà: votate “sì”». Questa breveanalisi fisiognomica l’ha fatta molta cultura contadina. E la cultura contadina ha detto a se stessa:«C’è qualcosa che non va, fai attenzione». Evidentemente qualcosa non andava e non è andato.

Almirante: ha compiuto due imperdonabili gaffes politiche per troppa vanità e troppo zelodemagogico. Il tono, tutto il tono del suo discorso era volutamente neutro e «signorile» come chidice: «Ormai tutto è perduto per l’Italia, questa è l’ultima carta, votate “sì”». Ma chi deve dire questecose non può e non le deve dire in tono neutro e «signorile» perché con il tono neutro e «signorile» siottengono risultati neutri e «signorili», cioè nessuna passione e nessun convincimento, solo unapresunta constatazione di negatività totale, che non esisteva nel nostro paese a causa della legge suldivorzio, e che è risultata negativa solo per lui.

La seconda gaffe è stata quella di «nobilitare» il tono neutro e «signorile» con l’apostrofe, piùvolte ripetuta, a refrain, di «italiane e italiani», che avrebbe dovuto ottenere il richiamo alla patria ealla famiglia. Non l’ha ottenuto, in primo luogo perché una simile apostrofe non si addice a tonineutri e negativi, bensì a toni caldi e positivi, e poi perché non si sposava con una faccia, anche lasua, senza muscoli.

La cultura contadina che conosce i muscoli facciali nel bene e nel male, nella bontà e nellamalvagità, lo ha giudicato fiacco, non convincente, in una parola uno che perde.

La faccia di Berlinguer, e soprattutto una sua vera, sincera, infantile e straordinaria gag, bisognapur dirlo, ha impressionato. In questi ultimi tempi, dopo il referendum (anche qui sarebbe utileun’analisi facciale del perché), la faccia di Berlinguer è mutata, si è fatta più languida, pallida, unpo’ cadente e come incipriata sotto le lunghe ciglia nere: i tratti aristocratici hanno prevalso su quellipopolari e regionali e in certe sue ultimissime fotografie ha delle stanchezze di dama in nero. Maquella sera del 10 di maggio la faccia di Berlinguer era quella di un conte-pastore sardo (qualemaggiore impasto di cultura contadina?) giovane, timido, pieno di lenta e contratta ma inesorabilepassione civile, non soltanto politica: insomma, in una parola, di onestà.

La grande gag è stata quella, alla fine del discorso, di alzare una mano, mostrare agli spettatori unfacsimile di scheda e di tracciare, timidamente, stando bene attento che lo spettatore vedesse, checosa doveva votare. Semplice gesto popolare, che insegnava, che suggeriva senza imporre, digiovane e umile maestrino di scuola. Strappava l’applauso. E la cultura contadina del nostro paese,tra cui molta cattolica, si è fidata. Di lui, della sua faccia, non del PCI.

La trasmissione che ho descritto è stato il caso di una lettura pubblica di facce pubbliche, enemmeno in una grande occasione politica. Ma tutta la nostra vita è seminata di facce, politiche e nonpolitiche, che dobbiamo leggere. E di altre facce pubblicitarie, con cui hanno a che fare i nostri conti.Sono le facce di Carosello, le facce inesistenti che insidiano la nostra ultima cultura contadina con laloro simmetrica, sorridente e felice inespressività. Le facce, appunto, del pragmatismo che dice:

Page 21: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

«Quella bella ragazza sorride? Vuol dire che è felice grazie al suo shampoo. Anch’io voglio esserefelice».

La vecchia cultura contadina italiana direbbe invece: «Io non la conosco, e se mi imbroglia?»mettendo in moto le antiche, peninsulari difese. Ma ormai non lo dice più, si fida, è cascata nellatrappola, ed è così che il borgo diventa colonia.

Page 22: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

VIVERE LA VITA DELL’ITALIA DEI PIÙ

Alcuni lettori snob, alcuni lettori «politici» (cioè gente che fiuta le arie), alcuni lettori furbi cheritengono, chissà perché, di far parte di una élite di lettori (come se il «Corriere della Sera» nonfosse di «tutti» i lettori) mi rimproverano sotto sotto, senza dirlo direttamente, questa mia rubrica.Non è la prima volta. Mi rimproverano, senza dirlo (eppure essi si credono democratici, e«progressisti»), che con gli altri lettori, con la massa anonima, non si dialoga. I discorsi si fanno tradi noi, dell’élite, e gli altri devono star fuori dalla porta come è giusto.

Dicono, senza dirlo: tu, scrittore aristocratico, per pochi, fatto per la poesia, non devi mischiartialla realtà, così limacciosa, fino al punto di stabilire un tu per tu con i lettori anonimi, quelli chesalgono e scendono dagli autobus: devi cadere dall’alto, da un’alta cattedra poetica, da una specie diOlimpo dove, naturalmente, anche noi siamo di casa e andiamo e veniamo. C’è chi comanda e chiobbedisce, la democrazia è bene averla sempre sulle labbra, ma mai applicarla, riserva cattivesorprese. Naturalmente noi e tu siamo tra coloro che comandano (perché poi?) e gli altri, i più,obbediscono. Così deve essere. Infatti siamo noi ad innalzare e precipitare le mode, siamo noi chedecidiamo cosa è bello, cosa è importante, cosa «bisogna fare». A distanza di tempo quel bello,quell’importante, quello che «bisogna fare» sarà imitato dalla massa: proprio nel momento in cui noil’avremo abbandonato e fatto scendere nel cheap, nell’ordinario, cioè in roba di massa che va beneper la massa.

Questo, in sostanza, quello che sotto sotto e senza dirlo mi rimproverano gli snob. Essi nonscrivono lettere, ma «fanno sapere», e non desiderano risposta e dialogo in un giornale, bensì in unterreno apartheid, quello dell’élite a cui credono di appartenere. Io invece risponderò loro sulgiornale perché non li ritengo affatto élite, cioè diversi da tutti gli altri lettori, e dunque non mi pareil caso di far tante preferenze. Risponderò loro, ma in modo che sentano tutti gli altri lettori, quelliche non sono snob, non sono furbi, non sono «politici», che ritengo questa rubrica utile a me stesso eagli altri per le seguenti ragioni:

1. Perché credo profondamente e dolorosamente nella democrazia in Italia, cioè nel grado dimaturazione di tutti i cittadini italiani per un discorso pubblico (come pubblico è un giornale). Ecredo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non è possibile l’una senza l’altra. Allademocrazia in Italia credo con la ragione, per carattere e per nascita. Alla pedagogia credo con ilcuore. Quando, come piace agli snob, scrivo un romanzo o un racconto e, secondo il loro modo diesprimersi «faccio della poesia», io non penso mai soltanto a loro. Non penso nemmeno agli altri, aipiù. Penso semplicemente a tutti, a cui, teoricamente, mi rivolgo. Quei tutti li penso simili a me(anche se non sono) o tali da provare simpatia per loro o loro simpatia per quello che scrivo. Non miè mai passato per la testa di avere un pubblico preciso, individuabile, da cui qualcuno sia escluso.

Teoricamente ogni persona che sappia leggere deve capire quello che scrivo. Lo deve capireperché ritengo di scrivere in modo semplice e chiaro, anche quando devo esprimere qualcosa chenella sua essenza è oscuro. Il mio lavoro quando mi trovo di fronte a qualcosa di complesso e dioscuro è questo: spiegare e descrivere in modo semplice e chiaro qualcosa che (non c’è niente dafare) spesso è complesso e oscuro. Evito sempre le parole «difficili» o di uso ristretto, o transeunti,come quelle che durano soltanto una breve stagione e poi c’è da vergognarsi di averle pronunciate.Le evito sia perché mi sono antipatiche sia perché, essendo difficili, non sono parole democratiche edunque sono contrarie a ciò in cui credo.

Page 23: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

I lettori stiano in guardia da coloro che usano parole «difficili», perché sono persone che voglionofar credere di sapere cose che gli altri non possono sapere: chiunque siano, da qualunque partestiano, la loro natura è infida. L’interminabile pas de châle che i nostri governanti ballano datrent’anni con le parole mi è odioso. Esso è un segno stilistico tipicamente antidemocratico, ha lostesso stile del loro potere, un altro pas de châle che essi danzano ininterrottamente da trent’anniscambiandosi le maggiori responsabilità verso il paese come le dame. E tuttavia questa loro danza difantasmi non ha alcuna importanza perché la democrazia cammina per la sua strada.

Gli uomini di potere che danzano sono ormai vecchi e i loro polpacci sono stanchi del ballo ma lademocrazia italiana per se stessa è giovane e non tiene conto del ballo dei vecchi. È per questo cheio continuo a scrivere la mia rubrica, a ricevere e a rispondere alle lettere dei lettori. Quelli snob mirimproverano perché essi fanno parte di un’altra società, quella oligarchica del pas de châle. Ce nesono molti di sinistra, tra gli snob, perché anche la sinistra italiana, quella oligarchica eantidemocratica, ha i suoi pas de châle, le sue parole difficili, i suoi comportamenti apartheid:basterebbe guardare la nuova Biennale. Vuol dire che è una sinistra molto vecchia, stanca dei suoiballi. Stranamente però, e questo lo so dalle lettere che ricevo, l’Italia che appare come un paesedecrepito dominato da opposte schiere di don Abbondi che si esprimono al latinorum, è al tempostesso un paese giovanissimo e perfino esotico, da illuministi. Ecco perché è tanto necessaria lapedagogia, che non si chiama demagogia. I giovanissimi sono tutti coloro (giovani e vecchi) chestanno fuori dalle danze, cioè dal potere. La mia rubrica è per quelli, non per i «politici», i furbi e glisnob.

2. Ritengo utile questa rubrica agli altri. Quando dico «altri», intendo, teoricamente si capisce, tuttigli italiani che leggono giornali. Alcuni di questi italiani mi scrivono lettere a cui, molto spesso, sonofelice di rispondere perché essi pensano che io debba rispondere e così si stabilisce un dialogodemocratico. Il momento storico che noi viviamo, il trapasso cioè da un’Italia sottoposta a un potereoligarchico a un’Italia democratica (ma non è ancora avvenuto) ha bisogno non di uomini (e dilettori) «politici», furbi, snob, ma di persone semplici, che scrivono semplicemente stabilendo cosìcon molta semplicità un piccolo esercizio di democrazia. Queste persone semplici (e nonsempliciotte) sono coloro che credono nella democrazia. I lettori che scrivono desiderano parlare dicose pubbliche anche con uno scrittore (che non ha nessun potere) perché sanno che il potere èantidemocratico, si esprime con parole difficilissime e non ha con loro nessun dialogo. Insomma trail potere e gli italiani non c’è oggi nessuna simpatia.

Così i «politici», i furbi, gli snob, non pensino, come pensano e dicono, senza dirlo, che io sonodei loro, e devo parlare soltanto con loro e con il loro linguaggio. Perché io non sono dei loro, nonparlo affatto il loro linguaggio e anzi mi irrito e mi annoio e so, proprio per queste ragioni dilinguaggio, cioè per ragioni stilistiche, che essi sono alla fine. Io invece amo stare con l’altra parte diitaliani che parlano e scrivono un linguaggio intriso dell’habitat stilistico della loro regione.

3. Ritengo utile questa rubrica a me stesso perché uno scrittore deve scrivere; e quando non scrive«poesia» ufficiale, deve scrivere lo stesso. E deve essere a contatto e vivere la vita del suo paese edei suoi abitanti. Anche ricevendo lettere e rispondendo a queste lettere in un giornale nazionale.Infine, essendo uno scrittore italiano amo il mio paese e anche la mia lingua che non è nata per essere«difficile», ma «volgare», come si chiamò in quel tempo, quando nacque. Questo mio paese è l’Italiamolto bella dei più, non il meschinissimo paese dei meno: quello dei meno è un paese dove non sinasce, non si mangia, non si ama, non si vive e non si fa nessuna cultura. Dove non si respiranemmeno l’aria, perché prima bisogna «fiutare le arie che tirano» e solo dopo si respira. Questo nonè il mio paese: il mio paese è l’Italia piena di calore animale, quella ignorata dai poveri snob, dove

Page 24: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

mi piace vivere e scrivere.

Page 25: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

L’ITALIA DEI «LOTTI»

La difesa dell’ambiente è un tema sul quale, da un anno a questa parte, ho ricevuto un certo numerodi lettere: non ho mai risposto perché mi è parso corretto (e come si vedrà, non soltanto corretto)lasciare la risposta ad altri, per così dire agli specialisti. Prima fra tutti Italia Nostra, poi AlfredoTodisco e Antonio Cederna che dalle colonne di questo giornale si battono con non minore passionedi Giorgio Bassani. Inoltre non ho mai risposto perché sono profondamente convinto che la difesadell’ambiente è, nel nostro paese, causa persa. Non nego, anzi so, che qualche risultato è statoottenuto; ma solo provvisoriamente. E la difesa dell’ambiente non è questione provvisoria, maappartiene soprattutto al futuro. E nel futuro (immediato) quel provvisoriamente scomparirà el’azione devastatrice continuerà per una ragione importantissima: che gli interessi politici legati alprestigio dell’ecologia sono troppo deboli rispetto agli interessi politici che, a fatti, sono contrariall’ecologia. La causa dunque, a mio avviso, rimane persa e il paesaggio italiano continuerà amutare, a corrompersi, a degradare inesorabilmente sotto la spinta più forte che esista al mondo e chenon so come chiamare se non «la forza delle cose».

Questa volta però rispondo. Al signor Franco Framarin, soprintendente del parco nazionale delGran Paradiso, che mi scrive da Torino. Il signor Framarin mi scrive soprattutto come concittadino(entrambi siamo nati a Vicenza) in difesa delle prealpi vicentine (Altopiano di Asiago, Pasubio,Verena, Cima Dodici, Ortigara...) che stanno anch’esse crollando sotto «la forza delle cose» dellaspeculazione edilizia. La sua lettera è piena di dati italianamente credibilissimi, come questo: «...Dopo aver facilmente convinto gli amministratori di Roana, uno dei sette Comuni – paese che perònon trarrà dalla operazione alcun vantaggio, perché il nuovo insediamento turistico sorgerà a 8 km –dopo aver ottenuto le necessarie protezioni politiche, questo gruppo di. stimati professionistivicentini e padovani, unicamente alla ricerca di un investimento dei loro sudati guadagni, ha deciso eottenuto di costruire nel cuore del Verena-Campolongo – la più ricca ed integra ecologicamente ditutte le montagne che ho nominato sopra – un hotel con piscina coperta e shopping center di 10.000metri cubi...».

Il signor Framarin così conclude la sua lettera: «... spenda per favore qualche sua parola perqueste montagne. I dati che ho scritto sono certissimi. È bene che voi intellettuali dibattiate problemigenerali e difendiate i grandi princìpi. Ma il mondo è fatto anche, meglio anzitutto, di rocce, diboschi, di animali selvatici. Di queste rocce, di questi boschi, di questi animali. Finiti questi non cene saranno altri».

Perché rispondo proprio al signor Framarin e non ad altri che mi hanno scritto sullo stessoargomento? Perché egli scrive a me come concittadino, e dunque particolarmente affezionato a queipaesaggi, a quelle montagne. Ecco la mia risposta.

Io non ricordo più quei paesaggi e quelle montagne, signor Framarin, io se potessi difendereil’intera Italia perché spero sempre nella sua unità, ma non posso andare contro la «forza delle cose».Né ricordo più la città dove sono nato, se non a vaghe luci, come in un sogno. Se ci torno fatico aritrovare le vie. Né ricordo più l’Italia di venti-trent’anni fa. E la colpa non è mia, ma della «forzadelle cose» (la storia) che ha mutato profondamente il volto del nostro paese. Non ricordo e nonvoglio ricordare, per molte ragioni, conscie e subconscie. Prima fra tutte perché l’Italia di trent’annifa è lontana, lontanissima, in tutti i suoi aspetti, politici, culturali, linguistici, fonici, agricoli, nonsoltanto paesaggistici; poi non la ricordo più perché non voglio ricordare la mia giovinezza, perché

Page 26: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

essa non c’è più, scomparsa insieme a tutti quegli aspetti detti or ora; poi non la voglio ricordare (senon in letteratura, per testimonianza) perché, la realtà del nostro paese essendo profondamentemutata, sento la necessità di vivere oggi e non ieri; ancora non la voglio ricordare perché laconservazione del ricordo (come la conservazione delle cose) è un dato al tempo stesso statico eregressivo che, in modo assolutamente certo, viene travolto dalla realtà contingente di oggi, quella incui, lo vogliamo o no, siamo ancora impegnati a vivere. Infine non la voglio ricordare, non voglioricordare quei monti e quei boschi nella loro integrità, perché essi, nella realtà di oggi, l’hannoperduta.

Le speculazioni edilizie avvengono e così la degradazione dell’Italia di ieri. Ho dettodegradazione che implica un giudizio di ieri, avrei dovuto dire mutamento che è un giudizio di oggi.Le cose mutano, per «la forza delle cose», e non soltanto degli uomini, non c’è niente da fare. Lasplendente villa palladiana La Malcontenta, ai bordi della laguna, tornata gloriosamente di proprietàdel mio amico conte Antonio Foscari, è un bizzarro fantasma circondato dai fumi e nebbie esbarramenti di ciminiere e depositi di carburante di Marghera. Potrebbe tranquillamente scomparire,perché la sua alta essenza è andata perduta; al contrario, l’essenza dei depositi di carburante, i fumi ele nebbie tossiche, vivono e si espandono.

Inoltre, e questo è il concetto fondamentale della mia risposta, l’Italia non vuole più essere l’Italia.Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano deimonumenti, dei musei, di San Pietro, della Chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano iloro figli con la scuola, ma se ne fregano e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gliitaliani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali (chetempismo regressivo le regioni!), vogliono essere «paesani», «paisà», perché l’unità d’Italia, che delresto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai. Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in «lotti»,in piccole, piccolissime proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro poverocorpo privi di Stato, tengono in modo fanatico. Per gli italiani di oggi, non di ieri, signor Framarin,l’Italia è il «lotto», il proprio terreno, la propria villetta, il proprio «bicamere e servizi», costruiti dageometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come ilcemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l’illusione diaverne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprioesercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare in questa rubrica,fondamentalmente va ricercato nell’assenza non soltanto dello Stato ma dell’idea dello Stato (che falo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e alloro cuore, e in cui non credono.

I fanti del ’15-’18 sono quasi tutti morti o sono molto vecchi, signor Framarin, e sono stati gliultimi a credere di amare l’idea di uno Stato italiano. Non so cosa succederà dei figli degli italiani dioggi, quelli del «lotto». Probabilmente una parte tenderà a difendere coi denti il «lotto», per il qualedarebbe cento Palazzi Pitti e l’intera flora del paese.

Negli Stati Uniti, paese senza Colossei, tutto ciò è fragile e affascinante: città si formano neideserti di pietra da assembramenti di carovane nell’Arizona, nel Nevada: appaiono e scompaiono nelgiro di pochi anni. Eppure in queste città che vanno e vengono come fantasmi su un pianeta, c’è l’ideadello Stato americano che si consuma, si rinnova, si consuma. Da noi si parla tanto di consumo(anch’io ne parlo) ma quelle villette, quei bunker, sono destinati a durare più di qualunque villapalladiana, tenuto conto di come è gestito il patrimonio artistico nazionale. E il fatto che sia gestitocosì non è soltanto colpa degli uomini, dei responsabili, di quegli ometti vestiti di cartone grigio ocartone blu, con villetta, con bunker, con cani, che vengono chiamati chissà perché «i governanti». La

Page 27: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

colpa non è soltanto di questi ometti italiani di oggi, che stanno alla pari col loro tempo e devono purtirare avanti, ma la colpa, se si può parlare di colpa, è della «forza delle cose» che emana, tuttaintera e potente, da un intero paese, dal suo paesaggio interiore che è lo specchio di quello esteriore,che lei deplora. Come posso io a questo punto, signor Framarin, «spendere qualche parola per questemontagne»?

Page 28: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

RAGIONE INTIMA E RAGIONE PUBBLICA

Dedico questo articolo (e non questa puntata di rubrica) agli «ipotetici lettori» perché sonocostretto ancora una volta a chiedere ai lettori quella collaborazione che fino ad oggi non danno e checostituisce, o meglio ha costituito, più di un anno fa, la ragione di questa rubrica. Ragione intima, peruno scrittore, e ragione pubblica per una «idea» di democrazia in cui lo stesso scrittore crede.

Purtroppo, devo confessare con candore che i lettori che mi scrivono, se sono molti ogni settimana,di collaborazione non ne danno alcuna, o molto poca. Le lettere fin qui pubblicate da me sono statescelte tra centinaia di cui mi è stato impossibile fare uso. La ragione è semplice: la grandemaggioranza dei lettori che mi scrivono o lodano il già scritto (cosa gentile, gentilissima, ma inutile)e per ragioni di discrezione non si possono pubblicare le lodi, o polemizzano sul già scritto conlettere di solito lunghissime, altrettanto impubblicabili. Primo, perché non si può ripetere unargomento se non in casi eccezionali; secondo, perché le confutazioni assumono l’aspetto di un litigiosu punti di vista viscerali e inconciliabili, insomma quei litigi che potrebbero andare avantiall’infinito. Candidamente confesso che, spesso, mi trovo con molte lettere in mano ma senza nessunargomento. Allora qualche domenica salto questa rubrica perché il mio sentimento e la mia ragionenon sono stati sollecitati in nessun modo dai lettori, come a una cena con molti invitati dove ci siannoia a morte. Ogni volta ne sono profondamente dispiaciuto. Sono dispiaciuto che questa rubrica,anziché essere e risultare una conversazione a più voci, che sono le voci nate dal diritto e dall’usodella democrazia, sia costretta a diventare un monologo, cioè lo specchio non del sentimento e dellaragione dei lettori, una sorta di agorà ideale, bensì lo specchio del sentimento e della ragione mieipersonali in una agorà deserta.

Forse ha ragione il mio amico Cesare Garboli quando mi dice: «Tu rincorri il sogno di una societàitaliana che non c’è, e allora la inventi»; forse sono veramente così candido, così «socialmente»ingenuo, da continuare a sperare, insieme al sogno inattuato di uno Stato italiano, la formazione inprogress di una nuova società che lo formi e lo plasmi o che, una volta formato e plasmato, lo viva.Forse la mia natura pedagogica e fantastica è così forte da immaginare interlocutori che non esistono,appunto ipotetici. O forse, semplicemente e disperatamente, una società italiana non c’è: avendoperduto la borghesia ogni forza e cultura e pensiero, e non avendoli ancora acquistati, nella lorotimida ascesa, le masse. Mi si obietterà: c’è la politica, che è tutto. Rispondo: ci sono gli uomini, «lepersone» che fanno la politica. Ma se entrambe, e borghesia e masse, per ragioni opposte hannoperduto o voluto perdere la voce della loro persona (cioè della loro forza, cultura e pensiero), allora,semplicemente, vincerà una voce ancora più forte. Qualche volta, tuttavia, accade il miracolo.Allora, se lo spazio lo consente, pubblico anche per intero una lettera, molto contento di pubblicarlaal posto di quanto dovrei scrivere io in risposta.

La natura al tempo stesso pedagogica e fantastica che ha immaginato questa rubrica tendeva,sempre a partire da una «idea dello Stato» e da una «idea della società italiana», a mettere in motonei lettori un sentimento ed una ragione autonomi, autonomi dai miei, che portassero notizie a me: insostanza avrei dovuto fare (sempre secondo l’idea di una società) lo «smistatore» di tali sentimenti edi tale ragione per così dire pubblici, cioè, in qualche modo statali. Invece niente sentimento e nienteragione autonomi, se non sollecitati da quanto già scritto, quindi niente società, quindi nessun avallodell’idea dello Stato. Le lettere sono sempre quelle, di lode o di polemica, la polemica è sempretroppo lunga, confusa e faziosa, insomma il solito tirare l’acqua al mulino della propria familiare e

Page 29: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

personale e meschina economia.Non dico che questi argomenti non siano importanti, dico che questi argomenti (difesa od attacco

di privilegi economici, e basta) non sono la totalità degli argomenti, insomma non sono la vita toutcourt. Se il mio candore è grande, non sono però così candido da non vedere chiaramente in questelettere un perfetto esempio di «lotta di classe». Ma lo sono, purtroppo, soltanto in superficie, e sipotrebbero riassumere in una frase: i ricchi ce l’hanno coi poveri, i poveri ce l’hanno coi ricchi. Nonbasta per far assumere a questo sentimento (l’avercela coi ricchi o coi poveri) la grandezza dell’odiodi classe. C’è in questo tipo di lettere, dispiace molto dirlo, una venatura di piccolezza, dimeschinità, e certe volte di bassezza, ben lontane dalla grandezza dell’odio di classe. C’è, mi toccadirlo ancora una volta, l’invidia di classe. Tanto più bassa in chi gode di privilegi e ritieneprivilegiato chi non ne gode perché «ha meno responsabilità». Insomma un pantano di più soldi-menosoldi, in cui questa rubrica non avrebbe voluto (idealmente) affondare, ma in cui realmente affonda,se i campioni di realtà sono le lettere che ricevo.

Tuttavia la mia ragione e il mio sentimento non sono condotti soltanto dall’immaginazione, comedice il mio amico Cesare Garboli, né dai campioni di realtà che mi giungono sottomano, con il loroconfuso tafferuglio ogni settimana: sono condotti invece da un’idea altrettanto reale ed estremamenteelementare che è la seguente: l’enorme difficoltà di molti italiani (e dunque di molti lettori) aconcepire non soltanto l’idea dello Stato ma soprattutto l’idea della democrazia. Ora io vorrei dire atutti i miei lettori, una volta di più se ce ne fosse bisogno, e a tutti i miei amici, che la democrazia (enon soltanto la sua «idea») è un lavoro continuo giornaliero ed orario. Che la democrazia è, per cosìdire, l’espressione più alta della personalità di ognuno di noi, cioè di ogni cittadino, non in difesasoltanto dei propri interessi personali (della propria economia familiare, per essere più esatti) ma indifesa dell’idea di uno Stato italiano, il nostro, che è in realtà la difesa dello Stato. Lo vadoripetendo da molto tempo, nel mio immenso candore, ma le lettere che arrivano sono sempre quelle etendono soltanto ad una cosa: alla obbedienza e alla servitù. L’idea dello Stato non c’è, la realtàdello Stato nemmeno, ci sono proteste, anzi «lagne» personali, paesane, regionali, o sdegniapparentemente nazionali, in realtà illusioni ancora più irreali dei miei candidi sogni su una societàitaliana.

Do un esempio dei migliori: in risposta ad un mio articolo intitolato L’Italia dei «lotti» il signorVittorio Pigazzini di Monza mi scrive: «Scrivendo quell’articolo lei doveva essere in preda ad unpessimismo nerissimo e lo dimostra quando parla della villa palladiana La Malcontenta e dice chepotrebbe tranquillamente sparire, perché oggi contano molto di più le raffinerie che stanno tutteintorno. Ma chi le dice che fra cinquant’anni o anche molto meno, non siano le raffinerie ascomparire e La Malcontenta a restare?».

Vede, Pigazzini, io credo in questo caso di essere stato semplicemente realista. Per il momento(come faccio a diventare profeta?) le raffinerie ci sono e tenendo conto che il nostro paese, privodell’idea dello Stato, procede per accumulo e non per selezione, tendo a credere non tanto che LaMalcontenta sparirà, quanto che continuerà ad essere sepolta e da raffinerie e da villette già descritte.In quanto anch’essa fa parte di un territorio che non è uno Stato, bensì semplicemente un territorioprivo di quella armonia per così dire «geopolitica» che forma appunto uno Stato. Per il resto dovreiripetermi. Tornando a tutti i lettori, a quegli ipotetici lettori che credono nell’ipotesi di uno Stato, sece ne sono, vorrei che collaborassero con me a svilupparne la realtà, non le profezie. Parlando, nonfacendo; come dei cittadini di un ipotetico Stato «da farsi», non come sudditi di un territorio dasfruttare. Raramente ho intravisto la loro fisionomia nel pantano delle proteste, o delle «lagne», maquando è accaduto questa fisionomia è stata resa pubblica. Perché la democrazia è pubblica. E il

Page 30: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

senso, la ragione di una rubrica, è proprio questo.

Page 31: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

POSTFAZIONEDI SILVIO PERRELLA

Page 32: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

Per quasi due anni – tra il 1974 e il 1975 – Parise tiene una rubrica sulla seconda pagina

domenicale del «Corriere della Sera». S’intitola «Parise risponde» e non si tratta di una rubricaletteraria, ma di una serie di dialoghi con i lettori.

Il tema principale? L’Italia, gli italiani e i problemi all’ordine del giorno: divorzio, aborto, sesso,pornografia, tra gli altri. Parise li affronta con essenziale rapidità, con forza icastica e spesso conoriginalità spiazzante, usando un italiano il più possibile chiaro, cristallino e ‘democratico’:«Teoricamente ogni persona che sappia leggere deve capire quello che scrivo» afferma con fareorwelliano (qui in Vivere la vita dell’Italia dei più).

Rispondendo a molti lettori, Parise esplicita una delle ragioni che l’hanno spinto a dialogareattraverso le pagine di un quotidiano: «Mi sono proposto questa rubrica innanzitutto per curiositàumana: la stessa che ho viaggiando, incontrando molta gente di molti paesi e parlando, nei luoghi piùdisparati, in pace e in guerra» (qui in I lettori che scrivono).

Ed è proprio la sua vitalissima curiosità che a volte lo fa presto entrare in conflitto con gliinterlocutori, soprattutto quando trova nei loro scritti mancanza di logica o di coraggio. Spessoriceve lettere anonime: a esse in genere non risponde. Fa però eccezione per una lettera che parla delsuicidio; un’eccezione che in pochissime righe ci rivela il sentimento comunicativo di Parise: «Midispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avreicercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abitae per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, glianni e la vita che ci è dato di vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibilecome il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo».

Già all’inizio degli anni Settanta, da quando aveva cominciato a pubblicare le ‘poesie in prosa’

dei Sillabari, Parise aveva accentuato il suo costante interesse per la cultura primaria. In un mondoin preda al consumismo degli oggetti e a quello speculare delle ideologie, il solo modo per nonsoccombere fisicamente e intellettualmente è per lui quello di una strenua selettività. Ecco che, conrigorosa consequenzialità, egli suggerisce ai suoi interlocutori il rimedio generale della povertà:«Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevolialla vita»; povertà, ancora, «è conoscere le cose per necessità» (qui in Il rimedio è la povertà).

Sembrerebbe un rimedio a dir poco paradossale e utopico, e a molti lettori apparve davvero tale;figuriamoci come possa essere recepito oggi che la miseria dilaga. Eppure fa venire in mente quelJean Giono che, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, in una Lettera ai contadini sulla povertàe sulla pace, afferma che «la povertà è lo stato della misura». E si sposa bene alle parole cheAntonio Delfini scrive nel Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia, dove silegge che «la povertà è educazione, decoro: è il presupposto di ogni riscatto dalle abiezioni dellamiseria: e serba alla nostra opera e al nostro destino un senso di precarietà che distoglie dalcamuffare provvedimenti e rimedi anche profondi con le illusorie etichette della felicità e dellagiustizia».

È dunque alla tradizione di scrittori paradossali e individualisti, spesso impolitici ma civilissimi,che Parise si richiama quando, discutendo con i suoi lettori, afferma di non «volere a tutti i costiapplicare una analisi marxista, metodologia non amata ma reale», perché gli «basta il buon senso, la

Page 33: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

logica, lasciando stare la morale».A differenza di Pasolini, Parise non ha nostalgia per il passato dell’Italia, vuol capire l’oggi

e soprattutto prefigurare il possibile domani: «preferisco essere artista, cioè sperare e anche spiegarecome dovremmo essere, anziché limitarmi a guardare quello che siamo».

È per questa ragione che, rispondendo a un concittadino che lo informa sulla imminentecostruzione di un albergo con piscina di diecimila metri cubi nel cuore della montagna venetaVerena-Campolongo, e gli chiede un aiuto come uomo pubblico, ha un poeticissimo scatto d’ira tuttoda citare: «Io non ricordo più quei paesaggi e quelle montagne, signor Framarin, io se potessidifenderei l’intera Italia perché spero sempre nella sua unità, ma non posso andare contro la “forzadelle cose”. Né ricordo più la città dove sono nato, se non a vaghe luci, come in un sogno. Se ci tornofatico a ritrovare le vie. Né ricordo più l’Italia di venti-trent’anni fa. E la colpa non è mia, ma della“forza delle cose” (la storia) che ha mutato profondamente il volto del nostro paese. Non ricordo enon voglio ricordare, per molte ragioni, conscie e subconscie. Prima fra tutte perché l’Italia ditrent’anni fa è lontana, lontanissima, in tutti i suoi aspetti, politici, culturali, linguistici, fonici,agricoli, non soltanto paesaggistici; poi non la ricordo più perché non voglio ricordare la miagiovinezza, perché essa non c’è più, scomparsa insieme a tutti quegli aspetti detti or ora; poi non lavoglio ricordare (se non in letteratura, per testimonianza) perché, la realtà del nostro paese essendoprofondamente mutata, sento la necessità di vivere oggi e non ieri; ancora non la voglio ricordareperché la conservazione del ricordo (come la conservazione delle cose) è un dato al tempo stessostatico e regressivo che, in modo assolutamente certo, viene travolto dalla realtà contingente di oggi,quella in cui, lo vogliamo o no, siamo ancora impegnati a vivere. Infine non la voglio ricordare, nonvoglio ricordare quei monti e quei boschi nella loro integrità, perché essi, nella realtà di oggi,l’hanno perduta» (qui in L’Italia dei «lotti»).

E si capisce benissimo che, proprio mentre afferma di non ricordare, egli ricorda benissimo, ma,per l’appunto, non vuole ricordare. Non vuole ricordare sia per partito preso sia, soprattutto, perchél’oggi e il domani lo attirano come un magnete e sa che se vuole tener loro testa è a volteindispensabile disinfestarsi dalla polvere della Storia, come scriverà quasi in punto di morte in unapoesia.

Qualche riga più giù, in quello che è il passaggio più rabbioso di questi dialoghi, continuando lasua risposta al signor Framarin, quasi grida: «Inoltre, e questo è il concetto fondamentale della miarisposta, l’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) nonvogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro, della Chiesacattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano e se nefregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perchévogliono essere ancora meno che regionali (che tempismo regressivo le regioni!), vogliono essere“paesani”, “paisà”, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai.Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in “lotti”, in piccole, piccolissime proprietà private a cuigli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato, tengono in modo fanatico.Per gli italiani di oggi, non di ieri, signor Framarin, l’Italia è il “lotto”, il proprio terreno, la propriavilletta, il proprio “bicamere e servizi”, costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gustie soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e aquelle povere anime senza Stato l’illusione di averne uno, indistruttibile» (qui in L’Italia dei«lotti»).

Così come era stata aperta, la rubrica improvvisamente viene chiusa. In un certo senso, Parise

Page 34: Dobbiamo Disobbedire (Bibliotec - Parise, Goffredo

s’era già accomiatato dai suoi lettori quando aveva ammesso di far sempre più fatica a trovare letterestimolanti: «Le lettere fin qui pubblicate da me sono state scelte tra centinaia di cui mi è statoimpossibile fare uso» (qui in Ragione intima e ragione pubblica). E lui, l’ha sempre detto, nonvuole fare dei monologhi o scrivere degli articoli, perché per far questo ha altri spazi. Non trovandopiù spunti per il dialogo, passa apparentemente ad altro.

Dico apparentemente perché L’odore del sangue, il suo libro postumo, cos’altro è se non unacontinuazione con altri strumenti e altre forme della stessa sete di curiosità conoscitiva che l’avevaspinto a tenere la rubrica? Cos’altro è se non l’interrogazione ossessiva e scarnificante della«contemporaneità senza storia», intravista nella vita dei giovani, fatta da un uomo anziano?

La vita, «nelle sue infinite forme di espressione», è per Parise «imprevedibile, irrazionale,illogica e per nulla “scientifica”»; la vita per lui «è, prima di tutto, spreco» e l’uomo che la abita è«un animale sommamente difettibile».

Questa dolorosa consapevolezza potrebbe farlo apparire come un pessimista atrabiliare, unmisantropo irrecuperabile e ‘immedicabile’. Egli, invece, come dimostra questa rubrica, èsemplicemente un artista che scruta il reale senza infingimenti. Non credo di sbagliarmi affermandoche il suo esempio può oggi tornarci più utile anche di certe pur geniali intuizioni ‘luterane’ diPasolini.

«Non c’è nessuna intesa più fra lo scrittore e la vita della gente» scrive Anna Maria Ortese inCorpo celeste, un’altra scrittrice della paradossalità civile italiana che mi sento d’accostare aParise. Parise quella intesa l’ha cercata disperatamente, anche se solo oggi cominciamo adaccorgercene pienamente.

Una prima edizione delle lettere di Parise ai lettori è apparsa nel 1998 col titolo Verba volant (a

cura di Silvio Perrella, Liberal Libri, Firenze). Se ne offre qui una scelta che ha privilegiato queipezzi in cui lo scrittore, scrollandosi di dosso la cenere dell’‘attualità’, rende visibile il fuocosottostante. In certi casi, si tratta di un fuoco che non si è mai spento, e che brucia ancora oggi neldiscorso pubblico italiano.

I numeri del «Corriere della Sera» in cui sono apparsi i pezzi sono elencati di seguito. Al 1974appartengono: I lettori che scrivono, 28 aprile; Il rimedio è la povertà, 30 giugno; La democrazia èrumorosa, 8 luglio; La carriera politica, 22 luglio; Scuola e Tv, 28 luglio; Le facce dei politici, 11agosto; Vivere la vita dell’Italia dei più, 6 ottobre; al 1975: L’Italia dei «lotti», 16 febbraio;Ragione intima e ragione pubblica, 23 marzo.