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Due saggi - come recita il titolo - su uno dei personaggi che hanno fatto la storia del cinema. Attraverso ricordi, aneddoti, autobiografie e ritagli di giornale, viaggio attraverso la vita di chi - prim'ancora che essere artista - è stato innanzitutto bambino, adulto e padre. Due saggi che guardano alla figura di Chaplin fuori dal set per cercare di descrivere la poetica di un'intera e intensa produzione.
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
EMILIANO BIAGGIO
- Due saggi su Chaplin -
Finito di stampare il 17 marzo 2010
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Cronologia chapliniana
1889: il 16 aprile nasce a Londra Charles Spencer Chaplin, da Hannah Harriet Pedlingham Hill
e Charles Chaplin senior.
1892: si separano i genitori di Chaplin. Nello stesso anno nasce Wheeler Dryden (fratellastro di
CC) dopo la relazione di Hannah con Leo Dryden.
1895: il 29 giugno Hannah Chaplin è ricoverata all’ospedale di Lambeth, dove resta fino al 30
luglio. L’1 luglio il fratellastro di CC, Sydney, entra nell’ospizio di mendicità di Lambeth, per
essere poi affidato (il 17 settembre) alla tutela del padre. A ottobre CC viene iscritto alla
Addington street school di Lambeth.
1896: il 30 maggio CC e Sydney entrano nell’ospizio di mendicità di Newington, per poi essere
trasferiti, il 18 giugno, alla Hanwell schools, istituto per bambini indigenti. Sempre a giugno
Hannah è ricoverata all’ospedale di Champion hill. Charles senior l’1 luglio acconsente a pagare
le spese di sostegno dei figli, che però non pagherà. Il debito di Charles senior con le autorità
(44 sterline e 8 scellini) lo salderà l’anno successivo Spencer Chaplin, zio di CC.
1897: il 23 dicembre viene emesso un mandato di cattura per Charles senior per negligenza nel
mantenimento dei figli. CC è ancora alle Hanwell schools.
1898: CC il 18 gennaio viene congedato dall’istituto per indigenti, mentre lo stesso giorno il
padre viene arrestato per non aver provveduto al mantenimento dei figli. Il 22 luglio Hannah –
dimessa - e i figli CC e Sidney finiscono nell’ospizio di mendicità di Lambeth. Il 15 settembre
Hannah viene ricoverata nel manicomio di Cane Hill, i figli restano in ospizio. Il 26 dicembre
CC viene ingaggiato dalla compagnia degli Eight Lancashire Lads.
1899: il 9 gennaio CC è iscritto alla Armitage school di Ardwick (Manchester).
1900: CC è iscritto, il 23 aprile, alla St. Mary the less school di Newington, dove resta fino al 3
maggio. Il 12 novembre è iscritto alla St. Francis Xavier school di Liverpool.
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
1901: all’ospedale di St. Thomas, muore il 9 maggio Charles senior, padre di CC. Aveva 37
anni.
1903: l’11 maggio Hannah viene ricoverata al manicomio di Cane Hill, dove resterà fino al 2
gennaio 1904. CC prima lavora in Jim, a romance of cockayne (luglio) e poi a Sherlock Holmes
(agosto).
1903-1906: in tourneè in tutta l’Inghilterra con Sherlock Holmes.
1906: a marzo CC si unisce alla compagnia che mette in scena Repairs di Wal Pink. A maggio si
unisce alla compagnia del Casey’s court circus.
1907: in tourneè con Casey’s court circus.
1908: il 21 febbraio CC firma un contratto con la compagnia comica di Fred Karno: tre sterline
e dieci scellini a settimana per il primo anno, Quattro sterline e settimana per il secondo anno.
1908-1909: CC in tourneè con Fred Karno.
1910: CC in tourneè con Fred Karno. Il 19 settembre firma di un secondo contratto (tre anni a
sei, otto e dieci sterline a settimane più un’opzione per altri tre anni). Partenza per gli Stati
Uniti.
1910-1912: CC in due tourneè negli Stati Uniti. Il 9 settembre 1912 Hannah viene trasferita dal
manicomio di Cane Hill a Peckham house.
1913: il 25 settembre CC firma un contratto per entrare nella Keystone film a 150 dollari a
settimana per un anno, e l’8 ottobre acquista 200 azioni della Vancouver Island oil company. Il
29 novembre CC fa l’ultima apparizione con la compagnia di Fred Karno.
1914: inizia a lavorare per la Keystone film. E’ qui che dà vita al suo Charlot, con corto e
medio-metraggi quali Charlot si distingue, Charlot e il parapioggia, Charlot ballerino, Charlot
garzone del caffè. Il 2 febbraio la prima apparizione di CC su pellicola con Per guadagnarsi la
vita. Il 14 novembre firma un contratto con la Essanay per 1.250 dollari a settimana, per 14 film
da fare nel 1915.
1915: dirige e recita in 14 cortometraggi per la Essanay. Tra questi, Charlor boxeur e Charlot
vagabondo. Nel frattempo crea la Chaplin Film Co.
1916: insieme a Sidney e Herbert Clark, CC fonda la Charles Chaplin Music Co. Il 25 febbraio
apre una lista di compartecipazione azionaria per la Lone Star Film Co., il giorno dopo firma per
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
la Mutual Film (per 10.000 dollari a settimana, con un premio di 150.000 dollari). Una clausola
del contratto gli impedisce di tornare in patria e andare in guerra nell’esercito britannico.
1916-1917: produce, dirige e recita in 12 cortometraggi distribuiti dalla Mutual. Il 17 giugno
1917 firma il contratto “da un milione di dollari” con il First National exhibitors’ circuit, per
1.075.000 dollari l’anno. Il 4 agosto dello stesso anno, a seguito di polemiche sollevate dal
Daily mail per la sua clausola contrattuale con la Mutual, dirama un comunicato in cui si dice
«pronto e determinato a rispondere alla chiamata della patria». In questi due anni ha una
relazione con Edna Purviance.
1918: CC inaugura un proprio studio cinematografico a La Brea Avenue, Los Angeles. Il 23
ottobre sposa Mildred Harris.
1919: insieme a D.W. Griffith, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, il 5 febbraio CC crea la
United Artist.
1920: CC divorzia da Mildred Harris: il 4 aprile ella avvia le pratiche, il 13 novembre le viene
accordato.
1921: il 6 febbraio esce Il monello (The kid). Il 29 marzo Hannah Chaplin ottiene
l’autorizzazione ad entrare negli Stati Uniti. A settembre CC è in Europa, dove è acclamato.
1923: il 28 gennaio CC e Pola Negri annunciano il fidanzamento, rotto da lei l’1 marzo. Il
giorno successivo l’annuncio del nuovo fidanzamento, rotto definitivamente il 28 giugno. L’1
ottobre esce il primo film di CC per la United Artists: La donna di Parigi (A woman of Paris -
The public opinion).
1924: CC sposa Lita Grey a Guaymas, in Messino, il 26 novembre.
1925: nasce il 5 maggio Charles Spencer jr., primo figlio di CC. Il 26 giugno esce La febbre
dell’oro (Gold rush). L’1 ottobre viene rinnovato il permesso di soggiorno ad Hanna Chaplin.
1926: l’11 gennaio iniziano le riprese de Il Circo; il 30 marzo nasce Sydney Earle Chaplin. Il 7
settembre partecipa al funerale di Rodolfo Valentino: CC è tra quelli che reggono la bara. Il 30
novembre Lita Grey se ne va di casa portando via i figli.
1927: Il 10 gennaio Lita Grey chiede il divorzio, che ottiene con l’udienza del 12 agosto.
Sempre a gennaio si interrompono i lavori de Il Circo, che saranno ripresi il 6 settembre.
1928: Il 6 gennaio esce Il Circo (The circus); il 25 agosto Lita Grey ottiene la sentenza di
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
divorzio, tre giorni più tardi muore Hannah Chaplin all’ospedale di Glendale, California.
1929: CC riceve un Oscar alla carriera per la sua versatilità dimostrata con Il Circo (The circus).
La statuetta è un riconoscimento alla sua capacità nella recitazione, sceneggiatura, regia e
produzione.
1931: a gennaio esce Luci della città (Citylights). Il 31 gennaio CC parte per un viaggio intorno
al mondo, torna negli Usa il 3 giugno 1932
1932: a luglio il suo primo incontro con Paulette Goddard e inizio della loro relazione. Nel 1934
ella firma un contratto per CC, col quale lavora in Tempi moderni.
1936: il 5 febbraio esce Tempi moderni (Modern times).
1939: il 9 settembre il Comitato per le attività anti-americane (Huac) inizia le proprie indagini
nei confronti di Chaplin, alla prese con Il dittatore. Il 15 novembre l’ultimo incontro tra CC e
Douglas Fairbanks, che morirà il mese successivo.
1940: il 15 ottobre esce nelle sale Il grande dittatore (The great dictator).
1941: è l'anno della sua storia con Joan Barry, che mette sotto contratto il 26 giugno
1942: il 19 maggio esce la nuova versione, in una riedizione sonora, di La febbre dell’oro (Gold
rush). il 4 giugno ottiene il divorzio da Paulette Goddard, con la quale si era segretamente
sposato in Estremo Oriente nel 1936. Il 30 ottobre incontra per la prima volta Oona O’Neill.
1943: il 4 giugno Joan Barry, incinta, accusa CC di essere il padre del bambino; il 16 giugno CC
sposa a Santa Barbara Oona O’Neill.
1944: il 15 febbraio le analisi del sangue dimostrano che CC non è il padre del bambino di Joan
Barry, ma si avvia ugualmente il processo. A seguito del matrimonio con Oona O’Neill, CC è in
tribunale per rispondere della violazione del “Mann act”, legge federale che vieta
favoreggiamento della prostituzione, tratta di esseri umani e comportamenti immorali.
Prosciolto da ogni accusa il 4 aprile. L’1 agosto nasce Geraldine Chaplin, prima degli otto figli
di CC e Oona.
1945: nel processo di paternità, il 17 aprile la giuria si esprime a favore della Barry. Il 6 giugno
viene bocciata la richiesta di CC di riapertura del processo.
1946: il 7 marzo nasce Michael Chaplin, secondo figlio della coppia.
1947: l’11 aprile esce Monsieur Verdoux. Il 12 giugno il deputato John Rankin chiede
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
l’espulsione di CC dagli Stati Uniti. Il 23 settembre CC risponde all’ordine di comparizione per
le indagini del Comitato per le attività anti-americane (Huac). A dicembre anche l’associazione
dei veterani di guerra cattolici fa pressioni per l’espulsione di CC.
1949: il 28 marzo nasce a Santa Monica Josephine Chaplin, terzo figlio di CC e Oona.
1951: a Santa Monica il 19 maggio nasce Victoria, quarto figlio di CC e Oona.
1952: il 2 agosto anteprima di Luci della ribalta (Limelight) allo studio Paramount. Il 17
settembre la famiglia Chaplin si imbarca a New York sul Queen Elizabeth e lasciano gli Stati
Uniti, due giorni dopo viene annullato a CC il permesso di rientro negli Usa. Il 23 ottobre prima
mondiale, a Londra, di Luci della ribalta (Limelight).
1953: dal primo gennaio molte sale americane annullano la proiezione di Luci della ribalta
(Limelight). Il 5 dello stesso mese i Chaplin si stabiliscono a Manor de Ban, Corsier sur Vevey,
in Svizzera. Il 23 agosto nasce il quinto figlio di CC e Oona, Eugene. Il 18 settembre CC vende
il proprio studio negli Stati Uniti.
1954: il 10 febbraio Oona rinuncia alla cittadinanza statunitense, mentre CC il 22 maggio
annuncia di voler lavorare a Un re a New York.
1955: il primo marzo CC cede il resto delle azioni della United Artists.
1956: il fisco statunitense reclama tasse arretrate
1957: il 23 maggio nasce Jane, sesto figlio di CC e Oona. Il 12 settembre esce a Londra Un re a
New York (A king in New York).
1958: 21 febbraio, il nome di CC viene eliminato dalla Walk of Fame di Los Angeles, CC il 30
dicembre salda le richieste del fisco americano.
1959: il 16 aprile, in occasione del suo settantesimo compleanno, CC dichiara che farà rivivere
l’omino coi baffi. Il 24 settembre esce Chaplin revue, raccolta di tre film muti di CC: Vita da
cani, Charlot soldato e Il pellegrino. Il 3 dicembre nasce Annette, il settimo figlio di CC e
Oona.
1962: CC riceve prima la laurea ad honorem dall’università di Oxford (27 giugno), poi
dall’università di Durham (6 luglio). Nasce, l’8 luglio, l’ottavo e ultimo figlio di CC e Oona:
Christopher.
1964: a settembre viene pubblicata La mia autobiografia.
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
1965: il 16 aprile muore il fratellastro Sydney. CC il 2 giugno riceve il premio Erasmo con
Ingmar Bergman, mentre il primo novembre annuncia La contessa di Hong Kong.
1967: il 5 gennaio esce La contessa di Hong Kong (A countess from Hong Kong).
1968: muore a 43 anni Charles Spencer jr, primo figlio di CC.
1970: la Black Inc. acquista la distribuzione dei film di CC.
1972: il nome di CC viene aggiunto alla Walk of Fame di Los Angeles. Invitato negli Stati
Uniti, il 16 aprile riceve l'Oscar alla carriera «per l'incalcolabile effetto che ha ottenuto
rendendo la cinematografia la forma di arte di questo secolo». Per l'occasione riceve la più
lunga standing-ovation della storia della premiazione. Il 3 settembre riceve il Leone d’oro al
festival di Venezia.
1974: a ottobre viene pubblicato My life in pictures, biografia illustrata di CC.
1975: il 4 marzo viene nominato cavaliere dalla regine Elisabetta II.
1977: muore nel sonno a Manoir de Ban, Corsier sur Vevey, il 25 dicembre.
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Un uomo di nome Charles Chaplin
Charlie Chaplin, un nome che richiama alla mente tante cose. Perché Chaplin è stato tante
cose: mimo, attore, regista, scrittore, sceneggiatore, compositore, produttore. E poi artista
comico, commediografo e autore di pellicole drammatiche. Ma soprattutto, è stato – e lo è
ancora oggi - un pezzo della storia del cinema, un modo d’intendere e interpretare il cinema. Per
questo risulta non semplice riassumere e sintetizzare una figura di un simile calibro. Così come
non facile e immediato è comprenderla. Cosa fare, quindi, per conoscere Chaplin? Basta vedere
un suo film, o magari anche più di qualcuno. In fin dei conti abbiamo detto che Chaplin ha fatto
film e impresso in modo indelebile il proprio nome nella storia del cinema. Vero, ma la risposta
che si potrebbe dare – per quanto istintiva e scontata – non è del tutto propria. Visionare le
pellicole di Chaplin, infatti, non basta. Non si può pretendere di capire l’artista e quindi l’arte, se
prima non si ha una visione della storia dell’uomo. In tal senso è utile - e lasciateci dire
doveroso - quantomeno sfogliare due libri, prim’ancora di inserire il videotape nel proiettore: si
tratta di La mia autobiografia di Charlie Chaplin (Mondadori, Milano, 1964) e di Chaplin, la
vita e l’arte di David Robinson (Marsilio, Venezia, 1987). Perché diciamo questo? Perché se ci
si limita a vedere i film realizzati da Chaplin, risulta semplice e avventato dare dei giudizi:
ascoltando il monologo finale de Il grande dittatore o guardando solo Tempi moderni, non si
esita a definire Chaplin “di sinistra” o addirittura “comunista”. Il che, per quanto possa sembrare
effettivamente così, non è vero. Come scrive lo stesso Chaplin nella sua autobiografia, «il mio
più grande peccato fu, e lo è ancora, quello di essere un anticonformista. Pur non essendo
comunista, mi rifiutai di allinearmi con coloro che li odiavano. Questo atteggiamento, si
capisce, ha offeso molta gente». Chaplin, dunque, smentisce le sue simpatie per “i rossi”, e ci
svela quello che è un suo modo di essere: un anticonformista. Ciò non deve sorprendere: in fin
dei conti, quando Chaplin descrive il personaggio che l’ha reso celebre, il vagabondo Charlot,
non esita ad ammettere che «i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta contro
le convenzioni». E’ questo suo voler rimettere in discussione che alla fine permetterà di innovare
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
e rivoluzionare, ma in un’America bigotta di metà Novecento questo suo modo di essere e di
fare Chaplin lo pagherà.
Ma torniamo per un attimo a quell’affermazione in cui Chaplin scandisce a chiare lettere il suo
non essere comunista: se davvero non è un comunista, allora perché realizza Tempi moderni?
Perché mette tanta e costante attenzione al messaggio sociale, di critica nei confronti di un
modello di sviluppo che genera disuguaglianze, povertà, indigenza e sfruttamento? Temi, questi,
che Chaplin mette praticamente in ogni sua opera: li mette in risalto ne Il monello (The kid,
1921), in La febbre dell’oro (Gold rush, 1925), ne Il circo (The circus, 1928), in Luci della città
(Citylights, 1931), in Tempi moderni (Modern times, 1936), e in Monsieur Verdoux (Monsieur
Verdoux, 1947), solo per citarne alcuni. Come fa Chaplin a dichiararsi non comunista quando
mette costantemente in evidenza le disfunzioni del sistema capitalista post-industriale, che di
fatto critica in ogni suo fotogramma? Perché Chaplin, prima di essere il noto e glorioso nome di
Hollywood, si trova dall’altra parte del progresso e del benessere: si trova nella Londra povera,
usata e al tempo stesso rifiutata da quella società che guarda solo al profitto e non all’uomo. Una
realtà fatta di stenti, di continue e incessanti ricerche di lavori e lavoretti, di umilissime e
angustissime dimore e di pasti arrangiati. Una realtà che il piccolo Charles vive in prima
persona per tutta la sua infanzia, e che quindi può dire di conoscere molto bene. Oltretutto
Charles è orfano di padre (o meglio, questi va via di casa quando Chaplin è appena nato), e la
madre soffre di salute, entra ed esce dagli ospedali, e il piccolo Charles molte volte si ritrova per
diverso tempo col fratello più grande, Sydney. In più di un'occasione, inoltre, Charles e suo
fratello finiscono in orfanotrofio. Ecco allora che si delinea bene ciò che Chaplin è nella sua
infanzia: un bimbo solo, preso in custodia, in una Londra povera, a combattere ogni giorno con
la vita. Quanto si discosta questa situazione dalla trama de Il monello? Poco, molto poco. Nella
misura in cui le analogie sono tante, e viene da pensare che Chaplin racconti di sé, che in quella
pellicola ci parli della sua vita. Non è per nulla azzardato procedere con simili parallelismi: in
tutti film che fa, Chaplin ci mette del suo. In ogni senso. Ci mette impegno, attenzione, talento,
colpi di genio e la sua esperienza umana, oltre che quella artistica maturata nel tempo. E in
questo la madre, Hannah, gioca un ruolo fondamentale. David Robinson, l’unico ad aver avuto
accesso agli archivi personali di Chaplin, ha potuto visionare ritagli di giornali dell’epoca,
interviste e filmati che Chaplin ha via via messo da parte e conservato. In questa sua opera di
studio e ricerca, Robinson trova un’intervista rilasciata da Chaplin all’American Magazine nel
1918. Ecco quello che dice Chaplin: «Se non fosse stato per mia madre, dubito davvero che
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
avrei mai avuto successo con la pantomima. Era uno dei mimi più grandi che abbia mai visto.
Sedeva per ore alla finestra, osservando la gente giù nella strada e descrivendo con le mani, gli
occhi e l’espressione del viso esattamente quello che accadeva dabbasso. Intanto lanciava un
fuoco di fila di commenti. Ed è stato osservando e ascoltando lei che ho imparato non solo ad
esprimere le mie emozioni con le mani e la faccia, osservare e studiare la gente». Osservare e
studiare la gente. Chaplin apprende dalla madre ad osservare la realtà che lo circonda, a imitarla,
scimmiottarla e riproporla nel suo lato più buffo. Procedimenti questi che, ci dice Chaplin,
richiedevano ore, e quindi tempo. Per questo quando Chaplin nel 1917 romperà il contratto con
la Mutual – casa di produzione sotto la quale era scritturato – si concederà tutti i tempi necessari
perché il suo studio della realtà circostante e la conseguente trasposizione su pellicola potessero
essere come egli stesso voleva. Non è un caso se i film “celebri” arrivino dopo quella data. In
un’intervista rilasciata da Sydney Chaplin all’Exhibitor’s Trade Review il 28 aprile 1917, il
fratello maggiore di Chaplin chiarisce che «d’ora in avanti in tutti i contratti di Charlie che
verranno stipulati sarà aggiunta una clausola determinante, e cioè che gli sia concesso tutto il
tempo e il denaro che riterrà opportuni per realizzare i suoi film come vuole lui. D’ora in poi i
film di Chaplin avranno tempi di lavorazione due o tre volte più lunghi. E’ la qualità, non la
quantità che vogliamo ottenere». Chaplin vuole quindi prodotti di qualità, e una volta che sarà
diventato una celebrità o quantomeno un nome affermato inizierà a lavorare secondo i ritmi a lui
più congeniali per quelle che sono le sue idee di fare cinema e le sue voglie creative. E questo
non per un semplice vezzo da prima donna, quanto perché per riproporre la realtà attuale, i
comportamenti e le dinamiche della società occorre studio. Non a caso la madre di Chaplin
passava ore alla finestra: solo così era possibile arrivare a catturare i comportamenti umani e
mimarli. E se servivano ore per mimare, quanto serviva in termini di lavorazione di
sceneggiatura, di scenografia e di cinematografia? Non sono cose da poco queste: infatti,
sembra che proprio in una di queste sue “osservazioni” londinesi, Chaplin abbia visto un
bambino rompere il vetro di una finestra di una casa con un sasso e scappare, e arrivare poco
dopo il padre, vetraio, a sostituire il vetro. Una scena riproposta dallo stesso Chaplin ne Il
monello (1921), con lui nella parte del vetraio.
Un altro esempio di come Chaplin trasponga su celluloide quanto gli accade, lo abbiamo con
un episodio della sua vita personale, avvenuto nel 1898. Quell’anno, con Chaplin che ha appena
nove anni, Hannah viene ricoverata all’ospedale psichiatrico di Cane Hill, e le autorità decidono
per l’affidamento temporaneo di Charles e Sydney al padre di Charles, Charles senior. Questi
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
all’epoca beveva moltissimo, e raramente rincasava sobrio. Charles senior alternava quindi
momenti di premurosità e cordialità e molti altri in cui era scontroso, irascibile e pronto a
litigare per niente. In uno di questi momenti Chaplin venne addirittura chiuso fuori di casa dal
padre. Una situazione verrebbe da dire da dottor Jekyll e Mr. Hide, che ci viene riproposta in
Luci della città, con il ricco signore che tutte le sere si ubriaca, fa dello spiantato Charlot il suo
migliore amico, salvo scacciarlo in malo modo da casa una volta esaurita la sbornia. Qui,
rispetto alla realtà, il fenomeno è all’opposto, con l’alcool che rende l’uomo più socievole, ma
non c’è dubbio che Chaplin trova dalla vita vissuta un ulteriore spunto per i suoi film. Perché,
alla luce di quanto detto finora, si evince chiaramente come Chaplin racconti la propria storia
nei suoi film. Del resto è lo stesso Chaplin a dirlo: «Molti mi chiedono in che modo ho inventato
il mio genere. L’unica risposta ch’io posso dare è che esso rappresenta la sintesi di quel che ho
osservato durante la mia permanenza a Londra». Chaplin, dunque, ogni volta confeziona una
sorta di storia nella storia, fatta di ricordi ed emozioni personali. Perché prima ancora che attore,
regista, sceneggiatore e artista poliedrico, è innanzitutto un uomo. Un uomo che, come tutti gli
uomini, ama, soffre, spera, si arrabbia. E, soprattutto, piange e ride. Precisazioni, queste,
doverose. Perché tutte le opere chapliane rispondono a quello che è il suo modo di vivere quella
società che tanto critica: «Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al
terrore», ci dice Chaplin che, in fin dei conti, fa sorridere su avvenimenti che – se ci
soffermiamo a riflettere – sono tutt’altro che divertenti. Un esempio? Ne Il Monello Charlot a un
certo punto si chiede come sistemare il bebè che ha trovato, e quasi senza pensarci solleva un
tombino: poi si rende conto che quello che ha fatto è insensato e lo richiude. Ecco, con questa
“gag”, Chaplin sdrammatizza un problema rilevante. Oppure ne Il Circo Charlot per sfuggire
all’arresto di un poliziotto, scappa e se lo tira dietro fino dentro il tendone, dove finisce col
ridicolizzarlo davanti a un pubblico che se la ride di gusto. Chaplin sa infatti che l’unico modo
con cui il debole, l’emarginato, l’oppresso può ribellarsi all’autorità e mettendola alla berlina,
deridendola e facendola deridere. L’unica arma che si ha per combattere l’ordine costituito è
ridere di esso. E Chaplin lo dice chiaramente nell’intervista all’American Magazine del 1918.
«Una delle prima cose che impari facendo teatro è che il pubblico si diverte a vedere il ricco
sbeffeggiato in ogni modo. La ragione, ovviamente, sta nel fatto che al mondo nove su dieci
sono poveri e segretamente provano rancore per la ricchezza del decimo». Ecco allora il
personaggio del vagabondo, figura che racchiude e sintetizza tutto questo, la natura umana –
buona e cattiva -, le differenze sociali e il volerle cancellare. Se vogliamo, l’opprimere
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
compiacendosi mentre l’oppresso tenta di sottrarsi a tutto questo. Per quanto riguarda la figura
del vagabondo, «nella mia mente, i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta
contro le convenzioni, i suoi baffi la vanità dell'uomo, il cappello e il bastone erano tentativi di
dignità, e i suoi scarponi gli impedimenti che lo intralciavano sempre», ci dice Chaplin. Ma
essere umani vuol dire anche provare dolore, soffrire, sentirsi persi e disperati. E in quei
frangenti, quando ridere diventa impossibile, la "via d'uscita" diventa quella delle lacrime.
Ne Il Circo, Chaplin ci dimostra come i suoi film sappiano avere retrogusti amari: rispetto ad
altre pellicole, dove pur nel finale non proprio lieto c’è comunque spazio per speranze, qui
invece non c’è appello: Charlot perde il sostegno del pubblico, perde il lavoro, perde in amore, e
una volta che il circo smonta le tende resta da solo in uno spazio vuoto. Ciò perché anche qui
Chaplin traspone le proprie esperienze di vita personale. La lavorazione del film è infatti
"disturbata" dal precipitare degli eventi famigliari dell'attore-registra: le riprese iniziano nel
1925 e finiranno solo nel 1928, con un’interruzione di quasi un anno, dal 5 dicembre 1926 al 6
settembre 1927. «Durante la lavorazione mi informarono che [mia madre] stava male», scrive
Chaplin nella sua autobiografia. Chaplin è preoccupato per le condizioni di salute di Hannah, il
solo genitore che di fatto avesse mai avuto, e oltretutto insegnante di tutto ciò - o almeno una
buona e importante parte di esso - che aveva reso Chaplin celebre. Come se non bastasse,
Chaplin deve pagare circa due milioni di dollari dell’epoca come indennizzo alla ex moglie Lita
Grey, dopo un divorzio divenuto di dominio pubblico e che aveva portato Chaplin ad essere
argomento dell’intera cronaca rosa e scandalistica degli Stati Uniti. Chaplin si ritrova quindi nel
bel mezzo di una gogna mediatica e sociale, con una madre in gravi condizioni e senza più un
soldo.
Alla fine Il circo finisce per contenere gli umori del suo produttore: il film si chiude con
l’amore non corrisposto per la ballerina, la perdita del lavoro, il circo che parte per la tourneè
senza Charlot. Ben altro epilogo rispetto a quello, ad esempio, di Tempi moderni, dove
nonostante Charlot e la sua amata perdano tutto, si avviano insieme, sorridenti e mano nella
mano, verso il destino che li aspetta. Ne Il Circo si ride poco e amaro, perché Chaplin non ha
niente da ridere. E in questa pellicola ci viene anche svelato il “segreto” della comicità di
Chaplin. «Non vi sono segreti nella comicità cinematografica», scrive lo stesso Chaplin nella
sua autobiografia. «L’elemento su cui io mi baso, più che su ogni altro, per esempio, è di
mettere il pubblico dinanzi a qualcuno che si trovi in una situazione ridicola o imbarazzante.
Un cappello portato via dal vento non è ridicolo di per sé. Ma è ridicolo invece vedere il
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
proprietario del cappello che gli corre dietro, coi capelli al vento e le falde della giacca che gli
svolazzano dietro. Un uomo che passeggia per la strada non fa ridere. Ma mettetelo in una
condizione ridicola e imbarazzante, ed ecco che l’essere umano suscita il riso dei suoi simili.
Ogni situazione comica è basata su questo fatto». Ecco il “semplice” segreto della fonte
d’ilarità delle trovate chapliniane: azioni ridicole e inaspettate. Ne Il circo Chaplin mostra cosa
succede quanto l’evento ridicolo non è più spontaneo ma “a comando”: la gente non ride più e
la comicità sparisce. Charlot viene assunto perché la sua fuga e l’inseguimento del poliziotto
maldestro sono reali per lui ma non per il pubblico, che pensa ad un numero dei clown e che non
si aspetta di assistere ad una simile scena. Ma quando il direttore del circo fa ripetere lo sketch,
alla fine la gente resta impassibile, perché non è più sorpresa. E cosa c’è di peggiore per un
clown che non riuscire a far ridere gli altri? Chaplin mette Charlot nella condizione dell’uomo
cui vanno tutte storte: perde nel lavoro, in amore, nella vita. Ma perché quello era lo stato
interiore di Chaplin all’epoca. Uno stato che, di lì a poco, sarebbe anche peggiorato: pochi mesi
più tardi, nell’agosto del 1928, mentre Chaplin sta lavorando a Luci della città, Hannah muore.
«Aveva già subito un attacco alla cistifellea e si era rimessa», ricorda Chaplin nella
autobiografia. «Questa volta i medici mi avvertirono che la ricaduta era grave. L’avevano
ricoverata all’ospedale di Glendale, ma i medici sconsigliavano l’intervento operatorio per le
cattive condizioni del suo cuore. Quando giunsi all’ospedale era in uno stato di semi-
incoscienza… Il giorno seguente, durante le riprese, mi informarono che era morta». E i
problemi non finivano lì, per Charles: l’innovazione tecnologica e il progresso avevano investito
anche il mondo della celluloide, che da muta e “grigia” che era, iniziava a viaggiare verso un
modo fatto di suoni e colori. Nel 1927 – mentre Chaplin era ancora in fase di lavorazione de Il
circo – Il cantante di jazz di Alan Crosland inaugura il cinema sonoro.
Per Chaplin l’avvento del film “parlato” rappresenta un problema: tra le tante cose che
Chaplin ha saputo essere, abbiamo detto che è stato – e lo è tuttora – un pezzo della storia del
cinema, e un modo di intendere e fare cinema. Chaplin si trova a recitare e dirigere ai tempi in
cui Hollywood era ancora Hollywoodland, quando il cinema era cioè agli albori e tutto era
ancora da scrivere. Ed era ovvio che Chaplin potesse essere una figura di spicco di quel cinema,
quello muto e in bianco e nero. E Chaplin figura di spicco lo era diventato: come ci fa notare lo
stesso Chaplin in Opinioni di un vagabondo, (a cura di Kevin Hayes, minimum fax, 2007) dopo
appena sei anni dal suo arrivo negli Stati Uniti (era arrivato nel 1910 in tourneè con la
compagnia teatrale di Fred Karno), egli era già un attore che percepiva oltre 600.000 dollari
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
l’anno, e appena tre anni più tardi, nel 1919, era arrivato a fondare la United Artists, con
personaggi celebri dell’epoca – ancora oggi pietre miliari della storia del cinema – quali Mary
Pickford, Douglas Fairbanks e David Wark Griffith (quest'ultimo regista di La nascita di una
nazione e Intolleranza, due pietre miliari della storia del cinema). Quindi nel 1921 aveva
realizzato Il monello, secondo film per incassi di quell’anno. La febbre dell’oro (1925), l’aveva
confermato come uno dei più grandi personaggi cinematografici del periodo, ma era chiaro che
il sonoro avrebbe cambiato il modo di intendere il cinema. Fino a quel momento, Chaplin aveva
saputo fare delle sue esperienze di teatro e di mimo – e quindi di recitazione forse nel senso più
ampio del termine – i suoi punti di forza. Nella comunicazione non verbale era stato
indubbiamente un maestro, e non a caso: l’attore-regista era convinto che nella gestualità e
nell’espressione risiedeva il vero comunicare. Come ebbe modo di dire in un’intervista del 1931
al New York Times, Chaplin spiegò che «il significato di un gesto è in genere più comprensibile
di quello delle parole. L’inarcarsi di un sopracciglio, anche appena accennato, può comunicare
più di cento parole».
Chaplin, che aveva costruito la propria fortuna sul cinema muto, aveva in questo fare cinema
schemi ben rodati, e non avrebbe mai fatto nulla per rimetterli in discussione. Almeno finchè
avrebbe potuto. Per un altro decennio Chaplin continua quindi a lavorare come ha sempre fatto
(nel 1931 esce Luci della città e nel 1936 Tempi moderni), e non basta un Oscar alla carriera nel
1929, quando ha appena quarant’anni, per farlo desistere. Tuttavia alla fine si rende conto che la
produzione cinematografica ha scelto per il cinema “nuovo”, quello fatto in technicolor e con il
suono. E deve cedere, non senza qualche rimpianto. Perché passare al cinema nuovo significa
per lui mettere la parola “fine” sul suo cinema. Il che vuol dire rinunciare al personaggio di
Charlot. «Non poteva parlare, non avrei saputo che voce usare», dice Chaplin a pagina 206 di
Opinioni di un vagabondo. Chaplin si chiede: «Come riuscirebbe a mettere insieme una frase?
Per questo motivo Charlot ha dovuto darsela a gambe». Secondo alcuni critici l’ultimo film in
cui appare Charlot è Tempi moderni, in quanto ultimo film muto della produzione chapliniana.
Eppure Richard Attenborough – regista di Charlot, film biografico basato sull’autobiografia di
Chaplin e Chaplin, la vita e l’arte di Robinson - mette in risalto come Chaplin, nonostante con
le spalle al muro, decida di dar voce al suo personaggio. «Se proprio Charlot deve sparire,
voglio che se ne vada lasciando un messaggio, il suo messaggio al mondo», dice Chaplin nella
pellicola di Attenborough. Il messaggio con cui Charlot si congeda altro non è che il monologo
finale de Il grande dittatore, il discorso all’umanità che il barbiere ebreo rivolge dopo essere
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
finito, per equivoco, nei panni del dittatore di Tomania, Adenoid Hynkel. Chaplin vince la sua
scommessa: Charlot non esce in silenzio, non scompare senza lasciare traccia. Tutt’altro, esce di
scena come vuole il suo creatore: in modo indimenticabile. Con queste parole:
«Mi dispiace, ma io non voglio fare l'imperatore. Non è il mio mestiere. Non voglio
governare nè conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti se è possibile; ebrei, ariani,
uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo
godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l'un l'altro. In
questo mondo c'è posto per tutti: la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi. La vita può
essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L'avidità ha avvelenato i
nostri cuori, ha precipitato il mondo nell'odio, ci ha condotti a passo d'oca fra le cose
più abbiette. Abbiamo i mezzi per spaziare ma ci siamo chiusi in noi stessi, la macchina
dell'abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici, l'abilità ci ha
resi duri e cattivi. Pensiamo troppo, e sentiamo troppo poco. Più che macchinari, ci
serve umanità; più che abilità, ci serve bontà e gentilezza: senza queste qualità la vita è
violenza e tutto è perduto.
L'aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti. La natura stesse di queste
invenzioni reclama la bontà nell'uomo, reclama la fratellanza universale, l'unione
dell'umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni
di uomini donne e bambini… Disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini
di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odiano io dico: "Non
disperate”. L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero, l'amarezza di
uomini che temono le vie del progresso umano. L'odio degli uomini scompare insieme
ai dittatori, e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo. E qualsiasi mezzo
usino, la libertà non può essere soppressa.
Soldati, non cedete a dei bruti! Uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi
dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare. Che vi irreggimentano, vi
condizionano, vi trattano come bestie. Non vi consegnate a questa gente senza
un’anima, uomini-macchina con macchine al posto del cervello e del cuore! Voi non
siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi avete l’amore dell’umanità nel
cuore, voi non odiate. Coloro che odiano sono quelli che non ricevono l’amore altrui.
Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà!
Ricordate: nel Vangelo di San Luca è scritto: "il regno di Dio è nel cuore dell'uomo".
Non in un solo uomo o in un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini! Voi! Voi, il
popolo, avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità. Voi, il popolo,
avete la forza di fare che la vita sia bella e libera, di fare di questa vita una magnifica
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
avventura. Quindi nel nome della democrazia, usiamo questa forza. Uniamoci tutti!
Combattiamo per un mondo nuovo, che sia migliore; che dia a tutti gli uomini un
lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti
sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto queste promesse, né mai lo
faranno. I dittatori forse sono liberi, perché rendono schiavo il popolo. Allora,
combattiamo per mantenere quelle promesse. Combattiamo per liberare il mondo,
eliminando confini e barriere, eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza.
Combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso
diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia, siate tutti
uniti!
Hannah, puoi sentirmi? Ovunque tu sia, abbi fiducia. Guarda in alto, Hannah. Le
nuvole si diradano, comincia a splendere il sole. Prima o poi usciremo dall’oscurità
verso la luce e vivremo in un mondo nuovo, un mondo più buono, in cui gli uomini si
solleveranno al di sopra della loro avidità, del loro odio, della loro brutalità. Guarda in
alto, Hannah. L’animo umano troverà le sue ali, e finalmente comincerà a volare, a
volare sull’arcobaleno, verso la luce della speranza. Verso il futuro. Il glorioso futuro
che appartiene a te, a me, a tutti noi. Guarda in alto, Hannah. Lassù».
Il monologo finale de Il grande dittatore, se da una parte è la fine gloriosa di Charlot che
Chaplin ha immaginato e voluto, dall’altro segna l’inizio di tutti i problemi di Chaplin con il
sistema americano. Il grande dittatore esce nel 1940, con una parte del mondo in guerra e con
gli Stati Uniti che iniziano a essere spaventati a morte dal comunismo. L’Fbi, una volta uscito il
film, lo analizza e giunge alla conclusione che con la pellicola Chaplin critica non solo i regimi
europei, ma tutti i regimi, compreso quello statunitense. Quelle che fino ad allora erano state
soltanto impressioni, iniziavano a diventare convinzioni e certezze. Del resto finchè Chaplin
aveva criticato la società attraverso le immagini, nessuno aveva avuto nulla da ridire. Ma
adesso, con Chaplin che inizia a dare voce alle sue opinioni, il discorso cambia. L’America che
fino ad allora aveva fatto finta di non vedere, adesso non può non prestare ascolto a quello che
si configura come un nemico potenziale per il paese, le sue regole e le sue convenzioni. Viene
rivisto Tempi moderni che, insieme al monologo finale de Il grande dittatore, è considerato un
inaccettabile attacco al modello capitalista. In Tempi moderni Chaplin mostra, tra le altre cose,
un’invenzione, una macchina pensata per far mangiare l’uomo senza che questi perda tempo
prezioso per l’azienda. Un macchinario che viene testato su Charlot, dipinto come cavia. Adesso
tutti, nel rivedere quelle sequenze, non hanno dubbi: Chaplin si schiera con la classe operaia,
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
attaccando e criticando il sistema capitalista.
Chaplin, però, non sembra preoccuparsi troppo di questo clima, e nel 1947 produce Monsieur
Verdoux. La storia ricalca quella del pluriomicida francese Henry Landru, che per sue necessità
familiari si faceva passare per vedovo, adescava ricche signore, le spogliava di ogni ricchezza
per poi strangolarle. Il tema non era certo dei più educativi, ma quello che forse indispettì le
autorità e la censura erano gli interrogativi che il personaggio chaplinano poneva allo spettatore:
si può condannare un uomo che uccide per ottenere denaro utile a sostenere la famiglia quando
le stesse persone chiamate a giudicare rappresentano un ordine che permette l’uccisione sempre
maggiore attraverso l’industria delle armi? Esistono omicidi giusti o comunque meno sbagliati
di altri? E ancora, si può condannare chi uccide per amore della propria famiglia quando c’è chi
stermina in nome del potere e del comando? Si, Charlot è sparito, e Verdoux è l’anti-Charlot:
sicuro, cattivo, spietato, abile con le donne, ladro e assassino. Ma soprattutto, uomo che rimette
in discussione le regole e chi le ha scritte. E per questo pericoloso per l’ordine costituito. Anche
se Chaplin non la pensava affatto così. Poco prima dell’uscita del film, rilascia un’intervista nel
corso della quale spiega e presenta il lavoro, per lui del tutto nella norma. «La storia è insieme
un’aspra satira e una critica sociale, e il film ha un valore spiccatamente morale. Per von
Clausewitz, la guerra era la logica continuazione della diplomazia; per Verdoux, il delitto è la
logica continuazione degli affari. Verdoux esprime il sentimento del nostro tempo; è dalla
catastrofe che emergono uomini come lui. Emblema del disagio civile e della depressione
economica, è frustrato, amaro, alla fine pessimista; ma non è mai morboso. Visto nella maniera
giusta, anche il delitto può essere comico…». Già prima della proiezione, il film fa discutere per
le parole che Chaplin rilascia. Come trovata pubblicitaria – se di trovata pubblicitaria si tratta -
di certo non è sbagliata, perché adesso tutti hanno gli occhi puntati sul suo lavoro e, soprattutto,
sulla sua persona. Per la società statunitense quella di Chaplin è una vera e propria
provocazione, ed è anche un rimettere in discussione un modello che è quello che anima
l’America stessa. Verdoux, a sentire Chaplin, non è un colpevole ma una vittima. E, a suo dire,
alla fine il vero colpevole è la società, che non produce benessere ma malessere. E poi, quel
valore spiccatamente morale di cui parla Chaplin di morale ha forse ben poco. Almeno secondo
chi è chiamato ad esprimersi in merito. E la pellicola non lascia affatto indifferenti.
Come per Il grande dittatore, anche per Monsieur Verdoux è il monologo finale il momento
che rende indimenticabile il film, e che porta – è proprio il caso di dire – sul banco degli
imputati. Perché alla fine, Verdoux è in tribunale, ed è lì, dopo aver sentito leggere la sua
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
condanna, che pronuncia il suo discorso che porta Chaplin ad essere accusato di “filo
comunismo”. Ecco le parole di Verdoux:
«Si', vostro onore... Anche se il pubblico ministero non è stato prodigo di complimenti
con me, ha ammesso comunque che ho un cervello. Grazie, signore, è vero. E per
trent'anni l'ho usato onestamente, ma in seguito nessuno l'ha più voluto, così sono stato
costretto a mettermi in proprio. Ma le assicuro che non è stata una vita facile. Ho
lavorato duro per quello che ho guadagnato, e molto ho dato per avere in cambio ben
poco... Quanto a essere un assassino all'ingrosso, non è proprio questa la professione
che il mondo incoraggia di più? Non si stanno forse costruendo armi sempre più
perfezionate per sterminare i popoli su scala sempre più vasta? Non si sono già fatti a
pezzi donne e bambini, e in modo altamente scientifico? Come assassino, in confronto
io non sono che un dilettante... Scandalizzarsi per la natura dei miei crimini e' vera e
propria ipocrisia. Voi vi compiacete del delitto, lo legalizzate e lo adornate con
ghirlande d'oro; voi lo celebrate con trionfi e fanfare! L'assassinio è l'attività
imprenditoriale su cui prospera il vostro sistema e si afferma rigogliosa la vostra
industria. In ogni caso, perchè dovrei perdere la calma se fra poco dovrò perdere la
testa? Prima di lasciare questa scintilla residua di vita terrena, volevo comunque dirvi
questo: avrò presto il piacere di rivedervi».
Chaplin ha superato ogni limite: accusa la società di ipocrisia, il sistema di
sterminio e di affamare la popolazione. Con ogni probabilità critica anche la
politica della armi non convenzionali inaugurata da Henry Truman, schierandosi
contro gli Stati Uniti. Chaplin finisce nel mirino del senatore McCarthy e della
censura: all’America non interessa la storia personale di Chaplin, la sua infanzia,
i suoi dolori, il suo lato umano ferito e disilluso. All’America interessa solo
l’America. Il film viene censurato, come ricorda anche lo stesso Chaplin nella
sua autobiografia. «I censori mi spedirono una lettera piuttosto lunga per
spiegarmi le ragioni che li avevano indotti a proibire il film nella sua totalità»,
scrive. Ecco un brano della lettera cui fa riferimento Chaplin:
[…] Sorvoliamo quegli elementi che ci sembrano anti-sociali nella concezione e
nel significato. Sono le parti della storia in cui Verdoux accusa il “sistema” e
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
impugna la struttura sociale esistente al giorni d’oggi. Piuttosto, vorremo
richiamare la sua attenzione su ciò che presenta un aspetto ancor più critico, ed
è propriamente materia di giudizio per il codice penale[…]
L’aspetto più critico è il reato di filo comunismo, quello per cui Chaplin viene
accusato da McCharty e indagato dagli uomini di Edgar Hoover (gli agenti
dell’Fbi). Ma a Chaplin non vengono contestate solo le sue simpatie politiche e
le sue opinioni, vengono anche contestati i suoi valori morali, poco consoni alla
società statunitense dell’epoca. Nel 1947, Chaplin vanta quattro matrimoni: il
primo con Mildred Harris, nel 1918, che aveva fatto scandalo poiché ella era
appena sedicenne; il secondo con Lita Grey, nel 1924, anch’ella sedicenne e per
di più incinta, con una differenza d’età tra i due di 19 anni e con un matrimonio
segreto celebrato in Messico per via della gravidanza di lei; il terzo con Paulette
Goddard, nel 1936. Chaplin aveva fatto sapere che le nozze erano avvenute
segretamente in Cina, e la loro relazione era rimasta sempre al centro di
pettegolezzi. Il quarto matrimonio, infine, era quello che aveva destato più
scalpore di tutti: nel 1943 aveva preso per moglie Oona O’Neill, figlia del
drammaturgo e premio Nobel per la letteratura Eugene O’Neill. All’epoca delle
nozze, lei aveva 16 anni, lui 54. Agli occhi dell’opinione pubblica, praticamente
un nonno che sposava sua nipote.
Chaplin inizia a essere visto come un depratavato, una persona da non seguire per via dei suoi
messaggi ed esempi fuorvianti e devianti che aveva offerto e stava offrendo. Inoltre, nonostante
fosse arrivato negli Stati Uniti nel 1911 e grazie agli Stati Uniti fosse diventato quello che era
diventato, Chaplin aveva mantenuto la sua cittadinanza britannica, e non aveva mai chiesto di
diventare cittadino degli Stati Uniti. Agli occhi di tutti divenne addirittura un ingrato, un
irriconoscente. L’America che aveva saputo accoglierlo e farne un divo, gli aveva voltato le
spalle mostrando quanto potesse essere inospitale per lo straniero. Chaplin lo percepisce, e non è
un caso se il suo ultimo film statunitense è Luci della ribalta, il film “dell’addio” dall’amaro
sapore autobiografico. La storia è quella di Calvero, una volta affermato cabarettista ma ormai
artista che ha fatto il suo tempo, che vive solo di ricordi e tristezza ma che ritrova la voglia di
vivere e di lottare dopo aver conosciuto Terry, giovane ballerina che ha salvato dal suicidio e
della quale si innamora. Insieme sfidano tutte le avversità di un mondo dello spettacolo pronto
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
ad accogliere una giovane Terry ma poco incline a dare fiducia ad un Calvero ormai vecchio e
dedito all’alcool. Proprio quando Calvero perde nuovamente la fiducia in sé stesso, egli ottiene
una parte in uno spettacolo nello stesso teatro che ha ingaggiato Terry. Ma nel momento in cui
Calvero dà il meglio di sè per ritornare alla ribalta, dopo un numero che strappa applausi a scena
aperta e riconsegna il vecchio cabarettista alla celebrità, questi accusa un malore e si spegne sul
palcoscenico, alle spalle dell’amata che ignara dell’accaduto esegue il proprio balletto. Uno dei
film più amari di Chaplin, ma forse al tempo stesso uno dei più intensi. Insieme a Il Circo, Luci
della ribalta è il film dove si ride di meno, perché come Il circo, anche Luci della ribalta
assorbe gli stati d’animo e gli umori meno gioiosi che contraddistinguono la vita di Chaplin al
di fuori del suo mondo fatto di immagini in movimento. L’umanità di Chaplin è facilmente
visibile in Luci della ribalta. Le vicende di Calvero hanno molto in comune con quelle di
Charlie Chaplin: da una parte un clown che ormai non riesce a far più ridere, dall’altra un artista
orfano del suo vagabondo ma pur sempre geniale; da una parte un artista innamorato di un
ballerina più giovane di lui, dall’altra un uomo di 63 anni sposato ad una Oona O’Neill ora
venticinquenne (siamo nel 1952); da una parte un Calvero che muore malinconicamente sul
palcoscenico, dall’altra un Chaplin che a causa dei problemi col Maccartismo si vede espulso
dagli Usa con la conseguente preclusione alla vita di Hollywood. Appena finite le riprese del
film, infatti, Chaplin si imbarca con la famiglia per un viaggio in Gran Bretagna e alle autorità
statunitensi si presenta l’occasione che tanto avevano cercato per sbarazzarsi una volta per tutte
di un Chaplin ormai scomodo e poco gradito: non essendo cittadino americano, una volta partito
per il suo viaggio e lasciato il territorio americano, Chaplin si vede negato il visto dalle autorità
federali. Il 19 settembre 1952 il procuratore generale federale degli Stati uniti, James
McGranery, annuncia che in caso di rientro negli Stati Uniti Chaplin verrà trattenuto dall’ufficio
immigrazione. Chaplin non può più mettere piede nel Paese. Come se non bastasse, la censura
cancella la proiezione del film, che tornerà nelle sale solo vent’anni dopo, nel 1972.
Alla fine Chaplin paga a caro prezzo quello che lui stesso anni più tardi, nel suo esilio
svizzero, riconoscerà come «il più grande peccato» che abbia mai avuto, «quello di essere un
anticonformista». Chaplin trova la conferma di quello che ha sempre mostrato con i suoi film,
vale a dire che il mondo che lo circonda non ha umanità, e che sa essere tremendamente
ingiusto. E ipocrita, come denunciato con Verdoux. La Gran Bretagna avrebbe voluto insignire
Chaplin di titoli onorifici o riconoscimenti per i suoi meriti artistici, ma la guerra fredda e le
accuse di filo-comunismo non lo permisero per via dei non pochi imbarazzi che un simile gesto
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
avrebbe suscitato in quel momento. Era stato proposto di nominarlo Cavaliere di Sua Maestà nel
1956, ma il Foreign Office disse di no. Diventerà Cavaliere Comandante dell'Ordine dell'Impero
Britannico per meriti artistici solo vent’anni più tardi, nel 1975, due anni prima della sua morte.
Alla fine, il mondo sa riconoscere a Chaplin gli onori che merita: prima di essere nominato
Cavaliere, Chaplin viene invitato negli Stati Uniti per ritirare il secondo premio Oscar alla
carriera che Hollywood gli riconosce, nel 1972, e che per l’occasione tributa all’attore/regista la
più lunga ovazione che si ricordi nelle cerimonie di assegnazione dell’Oscar. L’anno successivo
si vede assegnare una terza statuetta: è quella per Luci della ribalta, premiato la migliore
colonna sonora. Un precedente per la storia di Hollywood e dell’Academy award, poiché si
trattò del primo caso di Oscar retroattivo. Avvenimenti unici per un personaggio unico, che non
ha mai smesso di farsi ricordare. Dopo la sua morte, il comune elvetico di Corsier-sur-Vevey -
dove Chaplin visse dal 1957 al 1977 - decide di dedicargli una statua sul lungolago di Vevey,
così come la sua città natale - Londra - gli dedica una scultura bronzea a Leicester square.
Persino gli irlandesi, "rivali" della protestante Gran Bretagna, innalzano una statua - sempre in
bronzo - raffigurante Chaplin: ancora oggi si può ammirare a Waterville, nella contea del Kerry.
Nel 1988, gli Alan Parson’s Project – ironia della sorte, gruppo britannico fondato nello stesso
anno in cui Sua Maestà insignisce Chaplin del titolo di “sir” (1975) - dedicano a Chaplin un
brano inedito che inseriscono nel volume II della raccolta “The best of the Alan Parsons
Project”: la canzone si chiama Limelight (titolo inglese di Luci della ribalta), dedicata – insieme
al video che la accompagna – al film forse più commovente di Chaplin, ma soprattutto, alla sua
incredibile parabola. La parabola di un uomo che, come tutti gli uomini, vive, soffre, ama, spera,
ride e piange. Un aspetto che con il solo ausilio dei film non è possibile cogliere fino in fondo.
Non che leggere i libri che parlano della sua vita aiutino a svelare chi è veramente Charles
Chaplin, ci mancherebbe. Del resto, come fa notare il saggista Thomas Burke nel 1933 nel suo
libro City of encounters, Chaplin «è un uomo dall’aria querula, egocentrico, malinconico, e
vagamente scontento della vita. Ecco il tipo d’uomo che è Charlie. O almeno dovrebbe, perché
non è facile capirlo. E’ impossibile cogliere nettamente la sua personalità. Può abbagliare
chiunque: l’intellettuale, il semplice, l’astuto, e perfino quelli che lo vedono ogni giorno. A
nessuno stadio d’intimità con lui ci si può sentire tanto sicuri da designare un profilo preciso e
dire “questo è Charlie Chaplin”. Si può solo dire “questo era Charlie Chaplin, no?”». In fin
dei conti Chaplin è prima di tutto un uomo, e come tale imprevedibile e mutevole, nel bene e nel
male. Ha le mille facce che può avere un essere umano, con tutto quello che un uomo può
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
essere. E Chaplin, l’abbiamo detto, è stato tante cose. Insomma, per dirlo alla Burke, «è quasi
impossibile incasellarlo in una categoria. Dubito che egli stesso possa dare di sé una
definizione: raramente il genio lo può…».
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Fonti bibliografiche:
Charles Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Milano, 1964;
David Robinson, Chaplin, la vita e l’arte, Marsilio editore, Venezia, 1987;
Charlie Chaplin, Opinioni di un vagabondo. Mezzo secolo di interviste, a cura di Kevin Hayes,
minimum fax, 2007;
Sydney Chaplin, intervista all’Exhibitor’s Trade Review del 28 aprile 1917;
Thomas Burke, City of encounters, Hardback London, Constable & Co Ltd., 1932;
Charles Chaplin, Il grande dittatore, United Artist, 1940;
Charles Chaplin, Monsieur Verdoux, United Artist, 1947;
Richard Attenborough, Charlot, TriStar Picture, 1992;
The Daily mirror del 20 settembre 1952.
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Chaplin, genio bambino tra prodigio e solitudine
Regista, attore, compositore. Artista e genio, certo. Ma Charles Chaplin, che tipo di persone
era? Domanda che può sembrare forse fuori luogo, ma non del tutto priva di senso. Su Chaplin è
stato detto e scritto tanto: si è parlato dei suoi film e della sua eredità artistica e cinematografica,
e quel poco che di lui si sa è perché egli stesso ha provveduto a farcelo sapere. Con La mia
autobiografia, certo, e anche con quel film – Charlot (Chaplin, 1992) – che su di essa è stato
costruito. Ma qual è il ricordo che gli altri hanno di lui? Non che con questo si voglia mettere in
discussione quanto lo stesso Chaplin ha raccontato su di sé, ma una “versione” diversa da quella
da lui resa può contribuire a far capire meglio che tipo di persone fosse Chaplin fuori dal set.
Chi fosse, in sostanza, l’uomo dietro la macchina da presa e l’individuo privato, fuori dal suo
habitat più naturale – quello del cinema – e all’interno di ambienti domestici. Questo perché non
sempre gli altri sono in privato ciò che sono in pubblico e viceversa, e a volte nel privato
“scontano” ciò che sono in pubblico. In tal senso un esempio pratico di ciò lo abbiamo da Jane
Chaplin, sesta degli otto figli che Chaplin ebbe con Oona O’Neill. Nel suo libro 17 minuti con
mio padre (Giulio Perrone Editore, Roma, 2009), Jane offre un resoconto di Chaplin ben diverso
da come uno se lo potrebbe immaginare. O meglio, di come uno può immaginarlo dopo aver
conosciuto Chaplin attraverso i suoi film. Infatti se Chaplin, per il lavoro che ha scelto di fare, è
sempre stata una persona a contatto con una moltitudine continua e diversa di persone, a casa
propria Chaplin è solitario e schivo. «La mia vita con lui non è stata che silenzio», scrive Jane.
La figlia di Chaplin non fa che ripetere continuamente come il padre «non doveva essere
disturbato», come tra lei – e gli altri fratelli – e il padre fosse del tutto impossibile avere dei
momenti per poterlo vedere e per poterci trascorrere del tempo. Il lavoro, anche dopo l’esilio in
Svizzera, assorbiva Chaplin in ogni suo istante: la sua vita è stata il cinema, questo è indubbio.
Realizzare film, per Chaplin è sempre stato tuttoi. Perché, come ebbe modo di spiegare egli
stesso, «girare film mi dà un’enorme emozione. Più come regista e produttore che come attore.
E’ un sentimento naturale, la soddisfazione di creare qualcosa, plasmare qualcosa che prende
forma e vive». Ma è mai possibile che, nonostante tanti matrimoni e ancor più paternità, non
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
abbia saputo fare della sua numerosa famiglia la sua seconda vita? A sentire Jane, pare proprio
di no. A lei e ai suoi fratelli, veniva continuamente ripetuto: «Non disturbate vostro padre, sta
lavorando», «Non disturbate vostro padre, è stanco». Anche se, riconosce Jane con un velo di
critica, in questo un ruolo importante l'aveva la madre, Oona, che proteggeva la vera e unica star
di casa. Unica e vera star, ebbene sì. In un’intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica del 4
dicembre 2009, Jane afferma che «mia madre lo proteggeva perchè lui potesse fare tutto quello
che voleva. Certo, era anziano, ma era anche un uomo che esigeva di stare al centro
dell'attenzione. Voleva essere il bambino numero uno». Affermazione singolare, che conferma, a
distanza di oltre mezzo secolo, quanto ebbe a dire di Chaplin Mary Pickford, co-fondatrice della
United Artists insieme allo stesso Chaplin, D.W. Griffith e Douglas Fairbanks, del quale
diventerà moglie. Nel 1953 Pickford descrive Chaplin con queste parole: «Quel testardo,
malfidato, egocentrico, esasperante e adorabile genio di un bambino difficile, Charlie
Chaplin». Dunque questo era Chaplin? Sì, proprio questo. Che fosse testardo ed esasperante lo
si era capito già da molto tempo, da quando cioè lo stesso artista confidò che «mi è accaduto
spesso di girare ventimila metri di pellicola per dare al pubblico un film lungo appena la
trentesima parte. E bisogna tener presente che, per esaminare sullo schermo ventimila metri di
pellicola, ci vogliono circa venti ore». Ma Chaplin perseguiva tutto quello che gli suggeriva la
testa, nella vita privata come sul set. Non è un caso se ebbe quattro matrimoni, e non è un caso
se studiasse con meticolosa e puntigliosa attenzione ogni suo film e lo rivedesse poi con
maniacale controllo: Chaplin, tutto ciò che voleva, lo otteneva. Era sempre stato così. Come fa
notare Thomas Burke in In City of encounters, Chaplin «fa solo quello che gli va di fare. Se un
impegno qualsiasi contrasta con il suo umore del momento non lo rispetta, e se gliene
chiederete la ragione vi risponderà semplicemente e tranquillamente che non ne aveva voglia».
Dunque Chaplin tutto quello che aveva voluto, egli l’aveva sempre fatto e ottenuto: era lui e
solo lui quello che decideva. Alla fine, questo suo modo di fare sul set non lo aveva reso
immune dal suo uguale comportarsi a casa. Del resto, quando si prende un'abitudine è difficile
perderla, e per Chaplin, che era sempre stato “il genio”, “la prima donna”, sarebbe stato assai
arduo ritrovarsi improvvisamente privo del proprio ruolo. Come ebbe modo di dire David
Raksin, compositore e assistente di Chaplin alla colonna sonora di Tempi moderni, «come molti
autocrati che si sono fatti da soli, Chaplin pretendeva obbedienza assoluta dai suoi
collaboratori; anni di incondizionata deferenza in tal senso lo hanno persuaso che l’unica cosa
che importava era lui stesso».
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Insomma, per Chaplin contava la propria persona e veniva prima di tutto la propria persona.
Con questo non si vuole dire che lui non amasse la propria famiglia e non provasse affetto per i
propri figlio, anzi. Soltanto, Chaplin era Chaplin. Del resto, come ha sottolineato Maria Camilla
Brunetti, traduttrice di 17 minuti con mio padre, «il lato privato di Charlie Chaplin non è mai
così facile e tenero. L'immagine che Jane dà di Chaplin è quella di un padre lontano, protetto
dalla madre, inarrivabile per i figli e molto temuto». Proprio come sul set, anche al di fuori
Chaplin era persona temuta, che incuteva timore, esattamente come detto da Raksin. «Era un
padre a cui chiedere sempre permesso», direbbe Jane Chaplin. Chaplin era quello che decideva,
del resto. Ed era anche quello che tutto ciò che voleva, otteneva. Per questo, quando non
riusciva in ciò che si era prefissato, arrivava anche a compiere atti che difficilmente da lui ci si
aspetterebbe. «Lui mi picchiava», scrive nel suo libro Jane Chaplin, sottolineando come il padre
non si tirasse affatto indietro quando si trattava di “riprendere” i figli. Come scrive, «non
bisognava deluderlo, anche quando era lui - con le sue durezze, le sue ostinazioni, le sue
pretese di formalità - a deludere e a ferire».
Pretese di formalità, delusioni date, ferite: dalla figlia di Chaplin parole dure e severe che si
vanno ad aggiungere a quelle già dispensate da Mary Pickford e David Raksin, che hanno
dipinto Chaplin come egocentrico, egoista e persona piena di sé. Il padre di Charlot, lo era
sempre stato, e non ebbe difficoltà a dimostrarlo neppure con un “grande” del cinema, suo
collega, quale Orson Welles, in un episodio che serve a mettere in luce il modo di fare e di
essere di Chaplin. Siamo negli anni Quaranta, e la storia racconta che fu Orson Welles a dare a
Chaplin lo spunto per quello che poi, di lì a poco, sarebbe diventato Monsieur Verdoux. Uno
stesso episodio ricordato però in due modi diversi. Ecco il ricordo di Chaplin, così come lo
riporta nella Autobiografia:
“Orson Welles venne a trovarmi con una proposta. Pensava di realizzare una serie
di documentari, storie di vita vissuta, uno dei quali avrebbe dovuto essere sul
celebre assassino francese Landru: secondo lui, sarebbe stato un eccellente ruolo
drammatico per me. La proposta suscitò il mio interesse, perché avrebbe
rappresentato un cambiamento rispetto ai film comici e ai miei sistemi di lavoro:
per una volta non avrei dovuto scrivere il soggetto, recitare e dirigermi come
facevo da anni. Gli chiesi di vedere il soggetto. ‘Oh, non l’ho ancora scritto’, disse
lui. ‘Ma basterà prendere i verbali del processo Landru: è tutto lì’. E poi aggiunge:
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
‘Pensavo che forse lei ci tenesse a collaborare alla sceneggiatura’. Rimasi deluso.
Se devo collaborare alla sceneggiatura la cosa non m’interessa. E non ne parlammo
più. Ma un paio di giorni dopo mi venne un’idea: quel Landru sarebbe stato il
protagonista ideale di un film comico. Allora telefonai a Welles e gli dissi: senta, la
sua proposta di fare un documentario su Landru mi ha dato lo spunto per un film
comico. Non ha nulla a che fare con Landru, ma per sgomberare il campo da
eventuali compensazioni, sono disposto a versarle 5.000 dollari. Welles comincio a
tergiversare […]. Wells accettò, ma a una condizione: che gli fosse riservata la
facoltà di far inserire nei titoli di testa la didascalia “da un’idea di Orson Welles”.
[…] Se avessi saputo quante arie avrebbe finito per darsi, mi sarei ben guardato
dall’accettare”.
Dal ricordo di Chaplin emerge dunque una figura – la propria – che non accetta di essere in
secondo piano, che sarebbe disposto anche a lasciare il suo ruolo di factotum per fare
unicamente il personaggio principale, ma per nulla incline a essere collaboratore o aiutante. Allo
stesso tempo, proprio perchè non voleva finire in secondo piano, non vuole che ciò che fa possa
essere sottratto al proprio genio: per questo mal digerisce quella didascalia che Orson Wells
ottiene di poter inserire sulla pellicola (a cui Chaplin inizia a lavorare nel 1946 per finirlo l’anno
successivo). Ma questo non è il solo caso in cui Chaplin mal digerisce il fatto che gli vengano
negati dei meriti: già nel 1914, solo per citare un altro esempio, aveva avuto da ridire con Henry
Lehrman, regista di Making a living, cortometraggio nel quale – secondo Chaplin – erano state
tagliate molte delle gag da lui ideate. C’è poco da fare: Chaplin è e resta il personaggio di
prim’ordine: non vuole essere “la spalla” e allo stesso tempo non vuole averne, perché tutti
possano apprezzarne genialità e genio. Del resto, è opinione e convinzione diffusa che in Luci
della ribalta (Limelight, 1952), Chaplin abbia tagliato delle scene del suo “numero” con Buster
Keaton per evitare che il rivale potesse ricevere maggior apprezzamento, più applausi e una
migliore critica. Tagli, per dirla in altro modo, che sarebbero serviti per non venire offuscato
dalla performance di Keaton.
Ma vediamo come invece, nel libro-intervista Io, Orson Welles, Welles ricorda di quella
proposta fatta a Chaplin e di quel loro incontro:
“Avevo pensato a Chaplin come Landru: l’avevo già conosciuto a quel
tempo […] e così andai parlargliene. ‘Fantastico’, disse lui. Io uscii, scrissi
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
un copione e glielo mostrai. ‘Fantastico’, disse lui. ’Lo reciterò per te’. Ma
poi, all’ultimo momento, fa: ‘No. Non posso. Non mi sono mai fatto
dirigere da un altro. Fammelo comprare’. Io gliel’ho venduto, e lui ne ha
fatto Monsieur Verdoux. Il mio titolo era The ladykiller. Sarebbe stato il suo
primo film non ha “omino”. […] Chaplin dice che [la sceneggiatura] non
l’ho scritta , ma io ne ho ancora una copia. […]”.
Non solo: nei ricordi di Welles, la scritta nei titoli “da un’idea di Orson Wells” comparve solo
dopo che il film era stato fatto a pezzi dalla critica, quasi a voler scaricare su di lui ogni
responsabilità. Insomma, da quello che scrive Welles, Chaplin non appare neanche disposto –
come invece egli ha affermato di essere – a rinunciare a quel ruolo di factotum che sempre
aveva avuto. Ecco allora, quelli che potremmo definire i “capricci” proprio di un «bambino
difficile» quale Chaplin era, almeno secondo Mary Pickford. E non solo secondo lei: a essere
onesti, per quanto molto bene e assai sinteticamente ella seppe descrivere Chaplin, ancor prima
di lei nel 1931 – ventidue anni prima – a usare il termine “bambino” fu Thomas Burke, anche
se, come vedremo, fu lo stesso Chaplin a definirsi tale. In City of encounters, Burke scrive:
Chaplin «è sostanzialmente e intensamente un bambino dei nostri giorni, e la sua mente non si
misura con nulla che sia avvenuto prima della sua infanzia. “Mi sento sempre- mi ha confidato
una volta – come un bambino in mezzo a degli adulti…». Ecco allora delinearsi – anche per sua
stessa ammissione – quello che Chaplin era realmente e ciò che avrebbe, per questo, influito per
sempre nella sua vita: una persona alla costante ricerche di attenzioni e di affetti. Non solo: da
queste parole, emerge come Chaplin fosse sempre stata una persone mai a suo agio in società, e
come – per un motivo o per l’altro – avesse sempre finito con il sentirsi solo. Lui, bambino in un
mondo di adulti e per questo soggetti diversi in mondi diversi che non avrebbero mai finito con
l'avere relazioni. Ma ciò per esclusiva impossibilità di Chaplin, almeno a sentire Burke. «E’
realmente e sinceramente modesto, ma perfettamente consapevole che non c’è nessuno come
Charlie Chaplin. […] Chiede troppo alla vita e alla gente, e poiché quello che chiede non
sempre trova una risposta soddisfacente, ne rimane sbigottito e irritato». In fin dei conti ciò
l’ha ribadito anche la figlia Jane, nel nuovo secolo: «non bisognava deluderlo».
Verrebbe dire, quasi a voler liquidare l’intera faccenda in maniera repentina, che tutto finisce
con l’essere colpa di Chaplin: troppo genio in un mondo di persone non sufficientemente
all’altezza della sua persona e della sua personalità, o forse solo in un mondo troppo normale
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
per lui “sopra le righe” che, per sua stessa ammissione, aveva fatto della propria esistenza un
continuo vivere nello straordinario e nell’eccezionale. Può essere un lettura, sintetica, certo, ma
pur certo non priva di fondamenti. Del resto i geni sono singolarità in un oceano di moltitudini:
probabilmente Chaplin finì col pagare il suo essere diventato Charlie Chaplin. Ma c’è un altro
aspetto da tenere a mente e in considerazione, e cioè il fatto che «la sua mente non si misura
con nulla che sia avvenuto prima della sua infanzia». Un elemento di non poco conto, per una
persona che di fatto ha avuto un’infanzia difficile, travagliata, privata degli affetti famigliari. E’
come se, per certi aspetti, Chaplin avesse passato tutta la sua vita giocando e divertendosi,
prendendosi così una rivincita personale nei confronti di quello che gli era stato negato, e
riprendendosi quella fanciullezze – affetti compresi – che di fatto non aveva mai vissuto. Anche
Sigmund Freud lesse quest’aspetto di Chaplin, giungendo a questa sua conclusione vedendo Il
monello (The kid, 1921).
“E’ certamente un grande artista. Ed è fuori di dubbio che ritrae sempre e
solo la stessa figura: il ragazzo debole, povero, disgraziato e maldestro a
cui, alla fine, va sempre bene. Pensate forse che per interpretare questo
ruolo si sia dimenticato del suo io? Al contrario, non fa che recitare sé
stesso com’era nella sua prima, sfortunata giovinezza. Sono impressioni cui
non può sfuggire e, così facendo, ancora oggi ottiene un risarcimento per le
frustrazioni e le umiliazioni patite in quel periodo della sua vita”.
Chaplin racconta di sé stesso, ma questo appare ben chiaro per chi conosce la sua storia. Ma se
è vero che Chaplin parla di sé in ogni cosa che fa, è anche vero che per la critica Chaplin, grazie
al suo genio, ha creato una maschera che vagherà per l’eternità: un vagabondo burbero dal cuore
d’oro. Era burbero e dal cuore d’oro anche quando non si trovava negli studios o dietro la
macchina da presa? O forse, la domanda più corretta è: chi è Chaplin quando non è l’artista,
l’attore, il regista, il comico, quando non è insomma l’uomo di cinema? La risposta è semplice,
e l'abbiamo già data: è Chaplin. Se è vero che egli è «consapevole che non c’è nessuno come
Charlie Chaplin», lo è ancor di più tra le mura domestiche. Infatti, se realizzando film può
prendersi le sue rivincite e si può misurare con i suoi colleghi e le nuove tecniche di un cinema
in continua evoluzione, fuori da questo contesto – e quindi confinato a quello domestico – non
trova stimoli. Nessuno che possa – ammesso ci sia qualcuno che possa - tenergli testa, niente
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
che possa suggerirgli alcunché: a quale scene può assistere dentro casa, tali da ricevere
ispirazione per scketch, gag o personaggi? Come potrebbe la vita privata arricchirlo quanto ciò
che ha visto a Londra? Non potrebbe. Per dirla alla Thomas Burke, «la sua vita privata non è
affatto l’affascinante e allegra avventura che molti si immaginano». Ma questo Burke lo scrive
nel 1931. Figuriamoci come doveva essere la vita privata di Chaplin dai primi anni Cinquanta in
poi, quando l’esilio lo portò a isolarsi in una villa a Vevey, in Svizzera. Maria Camilla Brunetti
lo ha ribadito: «Il lato privato di Charlie Chaplin non è mai così facile e tenero». Eppure,
nonostante tutto, «Jane [Chaplin] descrive il padre con molta generosità, un padre di
straordinaria dolcezza e con cura nei confronti dei figli». Perché Chaplin era così, e non era
persona facile. «Per due ore può essere la persona più dolce che abbiate mai incontrato, poi,
senza ragione apparente, diventa la più aspra e petulante», scrive Burke. «Il suo interesse,
come quello dei bambini, si conquista molto facilmente, ma altrettanto facilmente lo si perde».
Ecco che ancora una volta ricorre la parola “bambino”. Chaplin aveva voluto essere padre forse
anche per via dell’assenza di una figura paterna nella sua vita, ma ciò a cui non aveva mai
smesso di pensare e a cui non aveva mai rinunciato era essere quel fanciullo che non ebbe modo
di essere quando avrebbe dovuto. E a casa entrò automaticamente in competizione con i figli.
Che non l’odiavano, anzi addirittura lo rispettavano perché impararono a conoscere chi era in
realtà loro padre: magari un bambino con voglia di attenzioni, ma pur sempre Charlie Chaplin.
Per questo inarrivabile. Prima di Jane Chaplin, un altro dei figli del grande artista, Micheal (il
secondogenito di Charlie e Oona), scrive un proprio libro: I couldn't smoke the grass on my
father's lawn (Leslie Frewin, London, 1966). Tra queste pagine si legge:
“Essere il figlio di un grande uomo può presentare degli svantaggi; è
come vivere nell’ombra di un grande monumento. Uno spende una vita
intera girandogli intorno sia per rimanere nella sua ombra sia per
evitarla”.
Chaplin aveva lasciato a sé stesso e a tutto il mondo la propria eredità – importante quanto
ingombrante – e questo anche in ambito familiare. Per questo c’erano suoi figli che non avevano
mai parlato col padre. Un padre ammirato ma al tempo stesso temuto. Perché non doveva essere
facile parlare a una leggenda vivente con tanta semplicità. E questo Jane Chaplin lo mette nero
su bianco in modo inequivocabile:
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
“Vorrei allungare il braccio e sfiorargli la mano, dirgli quanto sia fiera di
avere un padre come lui... Ma sono sicura che le parole uscirebbero di
traverso e ho paura di parlare. Ho paura di quello che le sue braccia
intorno a me potrebbero risvegliare. L’amore, quando non si ha l’abitudine
di riceverne o provarne, può far sentire veramente fragili”.
Ma “il mito” Chaplin, a casa, è meno rimarcato. Più ovattato, per certi versi. Forse per non
dare ai bambini un’impressione del padre come una sorta di mostro sacro ed evitare di metterli
in ulteriore soggezione, o forse per non dover spiegare per quale motivo si trovassero in
Svizzera e non ad Hollywood. Sta di fatto che i figli di Chaplin «il genio paterno lo conobbero
quando erano già grandi», evidenzia Brunetti. «In casa erano rari i momenti in cui si parlava
del lavoro del padre. In rare occasioni, per le cene di Natale o nei compleanni, venivano
riproiettati i film di Charlie Chaplin, ma erano momenti rari». In tutti gli altri momenti della
vita famigliare, Chaplin «non doveva essere disturbato, e i figli capivano che era una
personalità importante». Ma per loro, o una parte di loro, Chaplin era uno sconosciuto. Perché?
Perché da una parte, come evidenziato da Burke, stiamo parlando di un uomo che «è poco
interessato alla gente», e che quindi non trova motivo per condividere tempo con questi
individui, e poi dall’altra – se è vero come è stato più volte detto che è sempre stato alla ricerca
di attenzioni – perché mai avrebbe dovuto darne? Come ebbe modo di raccontare in
un’intervista al The National enquirer Eugene Chaplin, il quinto degli otto figli nati dal
matrimonio tra Charlie e Oona, Chaplin «quando gli altri ridevano lui se ne stava seduto tutto
impettito con un’espressione felice, e un sorriso capriccioso». Chaplin, insomma, non aveva
mai smesso di guardare il mondo dal piedistallo sul quale era finito, o forse aveva solamente
continuato a vivere distaccato dal resto della società per quella sua condizione che – per dirla in
termini burkeiani – lo rendeva bambino in un mondo di adulti. Quegli stessi adulti che avevano
contribuito a costruire quella società in grado di generare miseria, povertà, cupidigia, e
sfruttamento. E sistemi tali da impedire a bambini di vivere come bambini dovrebbero. Era
difficile da capire e da prendere Chaplin: testardo, maniacale, fugace, altezzoso e pienamente
consapevole di sé. Almeno, stando a quello che ci è pervenuto attraverso i ricordi di altri. E chi
meglio dei figli e conoscenti stretti potevano tracciare un quadro più intimo e personale del
grande Charlie Chaplin? Certo, loro hanno finito con goderselo meno del pubblico. Alla fine
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
solo lo spettatore, forse, può dire di aver avuto un rapporto privilegiato con un Chaplin che pur
essendosi circondato di persone e affetti, non ha mai saputo essere pienamente a suo agio. Anzi,
no: in un solo caso ha saputo essere quello che con gli altri non è mai riuscito, solo in una unica
circostanza ha saputo svestirsi di quella sua malinconica tristezza e di quel suo spirito solitario.
Vivendo con Oona O’Neill. Prima, e soprattutto dopo. Nel suo esilio svizzero, ci dice Eugene
Chaplin, Charlie sedeva per ore accanto a Oona, tenendole le mani e senza dire quasi mai
niente. Ma «lei è capace di condividere la sua strana solitudine».
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Fonti bibliografiche
Thomas Burke, City of encounters, Hardback London, Constable & Co Ltd., 1932;
Charles Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Milano, 1964;
Jane Chaplin, 17 minuti con mio padre, Giulio Perrone editore, Roma, 2009;
Jane Chaplin, intervista al Venerdì di Repubblica del 4 dicembre 2009;
Michael Chaplin, I couldn't smoke the grass on my father's lawn, Leslie Frewin, London, 1966;
Paul Duncan – David Robinson, Chaplin, Taschen, Colonia, 2006;
David Robinson, Chaplin, la vita e l’arte, Marsilio editore, Venezia, 1987;
Orson Welles, Io, Orson Welles, a cura di Peter Bogdanovich, Baldini&Castoldi, 1993;
Chassis del 27 dicembre 2009, su Radio Popolare.
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Emiliano Biaggio – Due saggi su Chaplin
Indice
Cronologia chapliniana.................................................................................................3
Un uomo di nome Charles Chaplin...............................................................................9
Chaplin, genio bambino tra prodigio e solitudine.......................................................25
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