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PREFAZIONE di Marco Travaglio Diciotto anni fa Aldo Ricci ha perso un amico. Non era soltanto amico suo. Era amico di tanti. Ma tanti, troppi, si sono dimenticati di lui. Si chiamava Mauro Rostagno, era stato tra i fondatori di Lotta Continua. Negli ultimi tempi lavorava a Trapani, dava una mano alla comunità antidroga “Saman” ma soprattutto anima- va una battagliera tv locale antimafia, Rtc. Fu assassina- to la sera del 26 settembre 1988, mentre rientrava in comunità. Si pensò a un’esecuzione mafiosa, ma nessun pentito di Cosa Nostra ha mai parlato del suo omicidio né sentito parlare di lui. Si puntò allora alla pista “inter- na” a Saman, con arresti clamorosi fra le persone più vicine a Mauro, compresa la moglie Chicca Roveri, e un avviso di garanzia al guru miliardario e craxiano della comunità, il fantasmagorico Francesco Cardella, ma furono poi tutti scagionati. Si ripiegò su una matrice “mista”, metà mafiosa metà legata al traffico d’armi e rifiuti tossici con la Somalia, lo stesso che probabilmen- te ha stritolato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e che pare avesse a Trapani una della sue centrali su cui stava lavo- rando Rostagno. Ma alla fine i giudici di Palermo han dovuto per ora arrendersi e archiviare: troppo scarsi gli elementi per trascinare qualcuno in tribunale. Due sole persone non vogliono saperne di arrender- si. Una è Carla, la sorella di Mauro. L’altra è Aldo Ricci, strana razza di fiorentino anarchico e inquieto che nella vita ha fatto un po’ di tutto, dal sociologo al 7

e cosí diverse. - robinedizioni.it filefotografo, dallo sceneggiatore al romanziere al randa-gio, soprattutto il randagio, fra l’Italia, il Brasile e gli Stati Uniti. Era strano

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PREFAZIONE

di Marco Travaglio

Diciotto anni fa Aldo Ricci ha perso un amico. Nonera soltanto amico suo. Era amico di tanti. Ma tanti,troppi, si sono dimenticati di lui. Si chiamava MauroRostagno, era stato tra i fondatori di Lotta Continua.Negli ultimi tempi lavorava a Trapani, dava una manoalla comunità antidroga “Saman” ma soprattutto anima-va una battagliera tv locale antimafia, Rtc. Fu assassina-to la sera del 26 settembre 1988, mentre rientrava incomunità. Si pensò a un’esecuzione mafiosa, ma nessunpentito di Cosa Nostra ha mai parlato del suo omicidioné sentito parlare di lui. Si puntò allora alla pista “inter-na” a Saman, con arresti clamorosi fra le persone piùvicine a Mauro, compresa la moglie Chicca Roveri, e unavviso di garanzia al guru miliardario e craxiano dellacomunità, il fantasmagorico Francesco Cardella, mafurono poi tutti scagionati. Si ripiegò su una matrice“mista”, metà mafiosa metà legata al traffico d’armi erifiuti tossici con la Somalia, lo stesso che probabilmen-te ha stritolato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e che pareavesse a Trapani una della sue centrali su cui stava lavo-rando Rostagno. Ma alla fine i giudici di Palermo handovuto per ora arrendersi e archiviare: troppo scarsi glielementi per trascinare qualcuno in tribunale.

Due sole persone non vogliono saperne di arrender-si. Una è Carla, la sorella di Mauro. L’altra è AldoRicci, strana razza di fiorentino anarchico e inquietoche nella vita ha fatto un po’ di tutto, dal sociologo al

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fotografo, dallo sceneggiatore al romanziere al randa-gio, soprattutto il randagio, fra l’Italia, il Brasile e gliStati Uniti. Era strano già nel Sessantotto, quando par-tecipò alla contestazione studentesca a Trento, facoltàdi Sociologia, insieme ai Rostagno, ai Curcio, ai Boato,ma da posizioni liberal. Si erano conosciuti nel 1966,Aldo e Mauro, quarant’anni fa. Ed erano rimasti amiciper 32 anni pur senza condividere quasi nulla, senzaincrociare quasi per niente le loro vite cosí tumultuosee cosí diverse.

Nel 1988 Ricci è in Brasile, “a fare l’avventuriero”dice lui. È lí che lo raggiunge la notizia della morte vio-lenta di Rostagno. E quella notizia gli cambia la vita.Torna in Italia, vola a Trapani, accetta di prendere ilposto di Mauro alla direzione di Rtc con la speranzanemmeno poi tanto nascosta di scoprire chi ha ammaz-zato il suo amico. Litiga con Cardella e la Roveri e, assi-stendo alla trasmissione televisiva dei funerali, assisteanche alla sfilata un po’ ipocrita di tanti lottatori conti-nui (quelli che lui chiama “gli indefessi”) e dei maggio-renti del Psi, da Claudio Martelli in giù, che gli paionotutti troppo ansiosi di accreditare la pista mafiosa. Alloragli ritorna in mente una frase che gli aveva sussurratoall’orecchio Mauro, quando aveva rotto definitivamentecon Lotta continua, nel 1976: “Guarda, Aldo, se questimi rompono ancora i coglioni, io dico chi ha ammazza-to il commissario Calabresi”. La collega a una straordi-naria coincidenza: pochi giorni prima di morire ammaz-zato, Rostagno era stato convocato dai giudici di Milanoper deporre sul delitto Calabresi, per il quale erano statida poco arrestati Leonardo Marino, Giorgio Pietroste-fani, Ovidio Bompressi e Adriano Sofri. Poi scoprí chenegli ultimi mesi Mauro era rimasto solo anche aSaman: Ciccio Cardella l’aveva cacciato dal suo allog-gio, relegandolo in una dependance ribattezzata profeti-

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camente “il mattatoio”. In seguito venne a sapere cheanche Renato Curcio, in carcere, aveva condotto una suaindagine sulla morte di Mauro, arrivando ad avvicinarenell’ora d’aria il boss trapanese Mariano Agate, il qualegli aveva giurato che “quella non è cosa nostra, quellacosa vostra è”.

Cosí, mettendo insieme tutte le tessere del mosaico,si fece l’idea che Rostagno, da vivo come da morto, eradivenuto imbarazzante e incontrollabile per molti, trop-pi. Compresa la tentacolare lobby lottacontinuista che inquesti anni s’è battuta meritoriamente per liberare l’a-mico Sofri, ma non altrettanto per scoprire la verità suquei colpi di arma da fuoco alle porte di Saman. Unalobby che non dev’essere estranea, come afferma Ricci,all’incredibile ostracismo subíto da questo libro nelmondo editoriale italiano.

Cominciò subito a scrivere, Aldo, mentre indagavaintorno a quel delitto eccellente e misterioso. Cominciòa scrivere questo “romanzo storico-generazionale-didenuncia”, praticamente unico nel suo genere, che rac-conta una vicenda collettiva iniziata nel ’66 e finita bru-scamente a Trapani nel 1988. Una vicenda tragica eappassionante, sul crinale fra la cronaca, la fiction e l’in-tuizione, fra la cronaca e la metafora, che mescola insie-me contestazione, droga, criminalità, armi, tangenti,intrighi, traffici e intelligence. Un romanzo intitolato “IlTonto” (anche se ora è diventato “Brasile d’inferno”)perché è proprio con l’aria del tonto che Ricci cominciòa investigare a spese proprie, fingendosi un po’ ingenuo,un po’ sprovveduto: una sorta di Forrest Gump volonta-rio, per riuscire ad aprire meglio certe porte, valicarecerte barriere, addentrarsi in certi ambienti e carpireinformazioni scottanti.

Io, essendo giornalista, sono irresistibilmente attrat-to soprattutto dalle implicazioni politiche che attraver-

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Aldo Ricci con l’arma estrema dell’intellettuale. Quellache fece scrivere a Pier Paolo Pasolini, nel 1974, a pro-posito di Piazza Fontana: “Io so. Ma non ho le prove.Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellet-tuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò chesuccede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, diimmaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; checoordina fatti anche lontani, che mette insieme i fattidisorganizzati e frammentari di un intero coerente qua-dro politico, che ristabilisce la logica là dove sembranoregnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero...”.

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sano questo romanzo. Non sono in grado di dire se Ricciabbia ragione o torto, quando seguita a battere la “pistainterna” a Saman e addirittura a quel che nel 1988 resta-va di Lotta Continua a dieci anni dallo scioglimento.Certo alcune coincidenze, molte coincidenze sono dav-vero inquietanti. E sembrano portare, almeno logica-mente, nella direzione che lui (ma anche Carla, la sorel-la di Mauro) continua a indicare: quella di un delittomolto simile a quelli di Giacomo Matteotti e di JohnFitzgerald Kennedy, personaggi che come Rostagnoerano diventati scomodi e ingombranti per molti poteriforti, distinti ma in qualche modo in contatto fra loro.Questa convergenza di interessi divergenti è spessol’humus ideale per un delitto eccellente. Soprattutto interra di Sicilia dove – come diceva Giovanni Falcone –“prima ti ammazzano con l’isolamento e poi con la lupa-ra”. Una volta isolato il bersaglio, trovare un killer,un’arma e un pugno di pallottole a poco prezzo è la cosapiù facile del mondo.

L’altro aspetto che mi affascina, sia pure sinistra-mente, è l’incredibile storia di questo libro maledetto,tante volte giunto alle soglie della pubblicazione fra glielogi degli editori, e altrettante respinto dal muro digomma della censura, del non detto, del sussurrato.Onore dunque all’attuale editore, il quale, dopo l’imba-razzante passo indietro di Bollati-Boringhieri e dopo ilfallimento del primo editore, Germano di Padova, hadeciso di ripubblicare cinque anni dopo quest’opera cosíricca e cosí proibita. Comunque la si pensi sul casoRostagno, è un contributo al “vizio della memoria” dicui parla Gherardo Colombo nel suo libro più bello. Edè anche un fascio di luce puntato sul più clandestino deicadaveri eccellenti. Là dove non sono arrivate la poliziagiudiziaria e la magistratura, perché forse in questolimbo di omertà non ci potevano arrivare, è arrivato

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PROLOGO

Mi svegliai di soprassalto madido di sudore, conancora negli occhi scene di violenza inaudita. Controllaiil digitale, erano le nove di sera. Avevo dormito per tren-tasei ore consecutive, dall’alba del giorno prima, daquando ero rientrato dal set di “Rio Babilonia”. Mi alzaie andai ad affacciarmi alla finestra. L’avenida Atlanticaera un caleidoscopio di colori & samba, l’intera cittàvibrava. Il caldo spazzato via dalla brezzolina notturna.L’oceano calmissimo, una linea quasi immobile sgoratadi schiuma. E il cielo terso e stellato faceva presagireuna notte eccellente e un domani ancor più radioso.

Brenn... brenn... Due squilli di telefono, a due span-ne dal mio giaciglio.

“Alò...”“Ma stavi dormendo?”“Stavo.”“A quest’ora?”“E allora?”“Quando hai intenzione di tornare?”“Mai!” – urlai.“Mai – sottolineai isterico – non mi passa per la con-

trocamera del cervello.”“Mai!” – conclusi riagganciando.Andai a buttarmi sotto i getti freddi dell’idromassag-

gio. Dunque avevo sognato e poi il sogno s’era trasfor-mato in un incubo. Mi rivenne in mente “La Belle e laBête”, una messa in scena di Jean Cocteau sull’impossi-bilità di distinguere tra realtà e sogno.

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scaffali, armadi a muro e parquet – il tutto in un legnotropicale durissimo.

Con Marise ero rimasto che mi avrebbe dato uncolpo di telefono, prima di uscire da casa sua sullaPrincesa Isabel, il cuore di Copacabana by night, a untiro di schioppo dal quartiere di Leme, a due passi dacasa mia.

Indossai dei jeans e t-shirt bianchi, con foro diproiettile all’altezza del cuore e una goccia di sanguevinilico iperreale, con la scritta made in Italy, poi miinfilai una collana rosso vermiglio, e mi sentii pervasoda una sottile ebbrezza.

Nell’umbanda bahiana la collana rossa simboleggiail guerriero. La donna che me l’aveva venduta, m’avevachiesto se mi rendevo conto di quanto sarebbe stataimpegnativa la scelta di quel colore. Rientrai in sala eschiacciai il play sulle Quattro stagioni, quel vecchioprete rosso ci aveva saputo fare, e mi lasciai andare sul-l’ammucchiata di cuscini, accesi una paglia e chiusi gliocchi, in una specie di rilassatezza morale.

Brennn... brennn... Due squilli e alzai la cornetta.“Ehi se tu... Gianni” – dissi.“Cosa stavi facendo?” – confermò lui.“Mi stavo preparando...”“...per una festa.”“Sí.”“Una al giorno.”“Sí.”Lui non disse nulla, si limitò a sospirare.

Dissimulava uno stato di percettibile prostrazione.“Come stai?”Quasi rantolò.“Boulevard Giscard D’Estaing, boulevard de la

mort” – canticchiai questo motivetto degli AlphaBlondy.

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Brenn... brenn... mi precipitai al telefono.“Oi André, sí, va tutto bene grazie... no, mi sveglio

adesso ho dormito dall’altro ieri... ma dimmi com’è poiandata sul set di Rio Bab.”

“Ah ah... sacanagem, il solito casino... ah sí la festada John... m’ero dimenticato... sí l’indirizzo... grazie,arriverò in taxi... ci vediamo là... boa tarde, ciao.”

“Che mi metto?” – ragionai ripensando a John.L’australiano era corrispondente di un’agenzia di

stampa internazionale. Certi giornalisti non mi vanno agenio e di solito li mando a quel paese, come avevo fattocon John, ma poi André aveva tanto insistito, che allafine ero pur giunto alla festa d’inaugurazione della casadel corrispondente australiano. Arrivai alla festa conMarisa, Rita e Marise – due bianche e una nera rispetti-vamente.

Pensai che Rita sarebbe arrivata alla festa con l’auti-sta. Il dettaglio me lo avevano fornito i portieri, non lei.Segni inequivocabili denotavano la sua ricchezza. Delresto a Rio, quando non si è poveri – la stragrande mag-gioranza – si è ricchi. Semplice no? Comunque per partemia, continuavo a fare lo gnorri. Non volevo che Ritacapisse quanto mi giovasse una dama altolocata, munitaanche di un discreto sex appeal. L’avevo conosciutaseguendola nella toilette di Cervantes e da quella voltalei aveva preso l’abitudine di venire da me un paio d’oretutti i santi giorni, il tempo di fottere e di tornare da suomarito e da una creatura, a venticinque anni, neanchegliel’avesse prescritto il dottore.

Cominciai a radermi. Marisa sarebbe passata a prele-varmi in macchina a mezzanotte. Spuntai le basette, ipeli nasali e, manovrando lo specchietto, riuscii ad eli-minare la peluria sul collo, poi mi inondai di acqua dicolonia della farmacia di Santa Maria Novella,Florence, Italy. Lo studio era pregno di salmastro –

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“Ormai è uscita dalla mia vita – mentii e cambiandoargomento – e di Mauro cosa sai?”

“Ha fondato una comunità arancione in Sicilia colpornografo che tu sai.”

Cadde la linea e Gianni non mi richiamò.Ricominciai a pensare a Marise. Pagarle un taxi che laportasse alla festa non era il caso, si sarebbe insospet-tita, le bahiane sono passionali e, d’altra parte, conquei chiari di luna, era meglio risparmiare. Non mirimaneva che mettere le due Marise, la nera e la bian-ca, di fronte al fatto compiuto. Dovevo solo agire rapi-damente, senza dare loro il tempo di reagire. Certevolte la mia vita sembra un film, specialmente se ildestino mi cambia le carte in tavola quando la partita èancora aperta.

Arrivai alla festa. Una villetta nella parte alta delquartiere di Laranjeiras, una zona tranquilla e borghesecome la festa. Vi giunsi con Marisa e Marise, una matro-na famosa e una bellissima puta. Rita mi accolse freddain mezzo a una piccola folla di giornalisti, coi loro pro-gressismi vieti e le loro donnette radical cheap. Unaesposizione di pesce, arrosti, vini cileni, frutta, erba avolontà. Una sola bottiglia di whisky importato, carissi-mo. Mi versai una dose e me ne andai in perlustrazione.Attraverso un disimpegno e una scala a chiocciola scesial piano di sotto. Un tizio con la barba stava battendo suuna macchina da scrivere.

“Pardon” – feci urbano.“Non c’è problema” – rispose lo sconosciuto.“Scrittore?” – azzardai.“Giornalista” – fece deferente.“Inglese?” – imperversai.“Irlandese” – disse smettendo di scrivere. “Scrivi per chi?” – non mi davo per vinto.“Per un giornale di Baires” – rispose cortese.

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“Che tempo fa?”“Lo sai com’è qui l’estate!”“E qui siamo sotto la neve.”“Li senti i cavalloni?” – dissi avvicinando la cornet-

ta alla finestra spalancata sull’Oceano Atlantico.“Dai... dimmi che li senti...”“...li sento... li sento...”Gli avevo ripetuto fino alla nausea di fuggire da

quella dannata città. Cominciavo a esser stufo della miaincapacità di aiutarlo a uscire dalla situazione.

“E a soldi come stai?” – disse cambiando discorso. “No problems” – mentii.“Se posso...” – insistette lui.“Lo so, lo so – glissai – ma lí, nel Bel Paese, cosa

succede?”“La solita merda, la solita gerontocrazia al potere, il

resto lo saprai dai giornali.”“E gli indefessi, che fanno gli ex lottatori continui?”“Vuoi dire i camaleonti?”“Oh yez!” – rifeci il verso a Mauro Ros.“Un tripudio di carriere & riconoscimenti ufficiali.”“Per aver mandato una generazione al massacro...”“...e via discorrendo – fece lui, e cambiando discor-

so – da chi è la festa?”“Da un cazzone.”“M15 o M16?” – ironizzò.“No... non è del giro che tu sai.” Cadde la linea e riagganciai.Brenn... “Sei sempre tu?”“Sí – fece lui cambiando ancora discorso – e lei?”Claudia s’era rifatta viva la sera precedente. M’era

parsa tranquilla e l’avevo portata in una specie di bor-dello di Praça Maua, tra putas & marinai. E poi all’al-ba l’avevo riaccompagnata a casa sua e lei in cambioaveva ricominciato con le telefonate mute.

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“BRASILE d’INFERNO!” – esclamai.“Ahhh... s e n s a t i o n a l questa t-shirt – glissò lui

e proseguendo – e come ti donaaa...”Il sangue continuava a martellarmi nelle vene, e

intanto mi avvidi di Marise con John, completamenterapito dalla clamorosa bellezza della nera. InveceMarisa si stava annoiando e mi precipitai da lei.

“Qualcosa da bere?”“No grazie.”“Allora balliamo.”“No, obrigado, grazie – declinò – brutte vibrazioni,

gente che non mi piace, penso che andrò.”La riaccompagnai alla macchina, le baciai la mano e

me ne tornai indietro. Rientrai, tutti mi sorridevano maio continuavo scostante. Sempre quell’intercalare –fica/soldi, soldi/fica... Il mix whisky-erba-whisky mistava esplodendo dentro. Per riequilibrare ripassai daAndré per un tiretto ma poi mi feci solo mezza striscia.Come registrò l’amico carioca, era la prima volta chemi vedeva tirare cosí.

Mi fece un brutto effetto. Mi vidi annaspare in unmare di merda. Non riuscivo più a emergere. Il brancodi gaglioffi & gaglioffe continuava a ganasce & mandi-bole spalancate. Far finta di non sentire la fame, di nonvedere la violenza, di ignorare l’ingiustizia... In quelgioco dello gnorri non ci rientravo, non ci sarei più rien-trato.

“Che diavolo sto facendo della mia vita?”“Ma cosa stai combinando?” – avrebbe detto Mauro

Ros.Mi si aprí una voragine nello stomaco e corsi a farmi

un altro scotch che tracannai mettendo a fuoco la bunda,il posteriore di una carioca avvinghiata a uno mai vistoprima.

“Dov’è la boccia?” – chiesi perentorio a John.

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Abbandonai l’irlandese al suo articolo argentino eme ne tornai nell’ennesimo circolo della stampa anglo-carioca. Le due Marise si stavano ancora studiando,nelle stesse due poltrone dove le avevo parcheggiateentrando. Dopo un’altra dose di scotch, intravidi Andréin una camera alle prese con la solita neve.

André, scozzese d’origine e carioca d’adozione,aveva penetrato i meandri più reconditi dell’inferno-paradiso carioca, la cosiddetta cidade maravilhosa. Conun piglio da bucaniere, il fisico da scozzese, un’esisten-za da bohêmio e una copertura da reporter, era la quintaessenza di quello che avevo sempre immaginato fosseun avventuriero romantico. Tra me e lui s’era stabilitoun rapporto empatico, condividevamo molti punti divista e nutrivamo lo stesso disprezzo nei confronti degliaddetti alla dis/informazione. Tenendo conto delle moleeccezioni, specialmente tra le file dei giornalisti brasi-liani, talvolta assai coraggiosi e gliene va dato atto.

André raffinato bon vivant & dandy come solo a Rioce ne sono ancora, era un profondo estimatore di pó eme la offriva sempre, pur sapendo che non era cosa perme e che comunque non ne andavo matto.

“Un tiro” – mi fece lui.“Non ora, grazie” – dissi accendendomi una paglia

d’erba paraguaiana già pronta.Mi avvicinai a Rita. Continuava sprezzante nei con-

fronti miei e di Marise, ma feci finta di niente accoglien-do Denis che arrivò in compagnia di Mirko, uno stilista.

“Ooooooooooo ma quanto tempooo che non tivedoooo” – mi si rivolse la signora.

Io feci lo gnorri ma non ci fu verso.“Ooooooo stupidoneee... lo so perché fai cosí – con-

tinuò Mirko in caduta libera – Denis mi ha detto tutto...ma sí, ma sí lo so che stai scrivendo un romanzo, saràbellissimo, e l’argomento?”

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“Vai tomá no cú, fan culo” – mi si rivolse lui.Dissi che il mio era stato solo un gesto d’ammirazio-

ne, nessuna malintenzione, ne ero sicuro, ma lui ripete-va che la cosa non gli era piaciuta, che proprio nonriusciva a mandarla giù e allora per cercare di aiutarlogli mollai uno sganassone e me lo sfilarono subito dallemani. Cercai di allungargli un calcio nei denti e in quat-tro mi sospinsero lontano dal mucchio danzante e lacosa sembrò finire lí. Non ci furono altre reazioni. Ilcinismo, la tolleranza, l’arroganza e persino la codardiasono meccanismi di sopravvivenza come altri. Insommala parentesi poteva considerarsi chiusa. Avrei potutocominciare a godermi la serata.

“Bastardo!” – urlai catapultandomi contro il malca-pitato.

Mi si attaccarono addosso due per gamba e quattroper braccio ma riuscii a divincolarmi, senza riuscire asfondare la barriera umana, frapposta tra me e quelpovero disgraziato.

“Stronzi, razzisti, fascisti” – sbraitai, iniziando a lan-ciare tutto quel che trovavo a portata di mano.

Riuscirono a bloccarmi mentre stavo mettendo afuoco l’avvicinamento di un barbuto punteggiato da duefredde pupille blu, che i tre hooligan – perché di questosi trattava, come mi avrebbero riferito poi – mi eranoaddosso. Due di loro mi tennero fermo, il barbuto inseríla sua zampa estranea tra le mie, seguí una leggera tor-sione, mentre i due, dopo avermi sollevato, mi rilascia-rono ricadere a terra. Riaprii gli occhi con la faccia acontatto del pavimento, in sincrono con uno scrocco allabase della gamba destra e un formicolio freddo alla stes-sa estremità: un dolore acuto. Alzai lo sguardo in tempoper scorgere lo stesso figuro in procinto di infierire sulmio io steso, che però riuscí ad afferragli la scarpa, unattimo prima di ricevere il suo calcio nello stomaco.

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“Questa è la bottiglia” – disse lui chinandosi a rac-cattare la boccia da dietro un divano.

“Ma ti rendi conto di come ti sei ridotto? – avevaripetuto Claudia qualche ora prima – se vai avanticosí...”

“In tempo di pace il guerriero va contro se stesso” –avevo detto ripetendo il solito refrain.

“ G u e r r i e r o?” – aveva scandito Claudia, primadi lasciarsi andare alla sua solita risata.

Che ne sapeva lei di quel che veramente avevo inmente. Ma forse “non era veramente intelligente, maaveva l’astuzia dell’animale selvaggio in gabbia” comela Justine di Durrell – la gabbia del presunto amore incui l’avevo rinchiusa e di cui lei non era ancora riuscitaa liberarsi. Mi guardai attorno mettendo a fuoco la stes-sa creatura con il medesimo cavaliere. Continuava adimenare la bunda in modo impressionante. Mi distras-si rimettendo a fuoco i mangiatori. Andavano forte iragazzi, specialmente con la carne, Marise per mangia-re vendeva la sua meravigliosa, la cercai con lo sguardo,ma non vidi né lei né John.

“Hai capito l’amico australiano?” – ragionai trame&me mentre venivo abbagliato da un flash: stavosparando nel mucchio, il crepitio del mitra s’andavamissando alle urla degli astanti. Il sangue sprizzavaframmisto a brandelli di carne e cibo, spappolati sullepareti e sul pavimento. I corpi passavano dalla vita allamorte ridendo e scherzando, come se niente fosse.Anche le donne.

Mi accasciai sul divano e chiusi gli occhi. Li riaprii,sembrava passata, mi rimisi in piedi. Ora dovevo soloattraversare un mattatoio lercio di frattaglie, e uscireall’aria aperta. Cercai di farlo avvedendomi che ormai labunda mi stava a un palmo di mano e io gliela toccai.

“Oh!” – esclamò inviperita.

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“V a i a f a r e i n c u l o” – articolai in lingua ori-ginale.

“Sta arrivando l’ambulanza” – annunciò qualcuno.“E adesso cosa racconti” – mi fece John nell’orecchio.“Che sono caduto dalla scala a chiocciola.”“Io ti ringrazio, sai?”“Ringrazia iddio che non sono armato” – dissi men-

tre il medico mi palpeggiava l’osso esposto, facendomicacciare un urlo talmente alto, che spensero lo stereo el’ambiente piombò nel silenzio.

“Com’è successo?” – mi chiese il dottore.“Sono caduto da quella scala a chiocciola” – risposi

tosto.“Fa molto male?”“Da impazzire.”“Cerchi di non farlo mentre la carichiamo.”La barella era affiancata al divano.Mi iniettarono qualcosa, mi adagiarono sulla lettiga,

la sollevarono all’altezza del branco ammutolito e mitrasportarono verso l’uscita.

Li guardai in faccia uno ad uno.“Porcos & escrotas, porci & scrofe” – sussurrai.Brusio.“Porcos & escrotas” – alzai il tono.Brusio.“P o r c o s & e s c r o t a s” –sbraitai con tutta l’e-

nergia che ancora avevo in corpo.Silenzio.Gli infermieri mi stavano infilando nel furgone e dal

branco si levò un lungo, scrosciante applauso interrottodalla voce di una troia.

“Cosí impari a fare lo stronzo!” – disse lei.“Ehi, porcos & escrotas – sbottai stavolta a squar-

ciagola – sono un terroristaaaa e vi scoveròòòò uno perunooooo...”

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“S t o p!” – scandii con l’autorità del regista sul set.L’hooligan si bloccò di colpo.

“È rotta” – feci indicando la gamba destra.Risero.Eppure avevo riconosciuto lo scrocco caratteristico.

Del resto il piede era girato a destra, fuori linea rispettoall’asse della gamba.

Anche un bambino l’avrebbe capito.Ma quelli erano solo un branco di pennivendoli &

pennivendole.Julio, un fondista del Jornal do Brasil, si chinò su di

me, tirò su la stoffa e scoprí l’osso che si affacciavadalla carne tumefatta, mentre un cronista di O Povo, unquotidiano sanguinolento, mi scattò una foto.

“È meglio stenderti sul divano” – constatò Julio,chiedendo di abbassare la musica, qualcuno del brancoeseguí.

Il dolore s’era attenuato in una specie di sordo for-micolio ma riuscivo a controllarlo. L’unica cosa che nondovevo fare era dar loro soddisfazione.

Arrivò Marise e John si chinò su di me, proprio men-tre gli stavo sferrando un cazzotto sotto la cintura, chelui riuscí a schivare per un pelo, mentre il barbuto siriavvicinava minaccioso.

“Ma perché, perché? – piagnucolò John – io chec’entro?”

“Stai tranquillo stronzo che non ti denuncio – lo ras-sicurai – all’illegalità ci sono abituato.”

“Anch’io” – intervenne l’hooligan, che continuava acontrollarmi da vicino.

Marise mi teneva la testa sollevata. Rita, un’espres-sione scolpita nel disprezzo, venne a riprendersi la bor-setta sul bracciolo del divano.

“Me ne vado” – disse con sommo disgusto sparendonello sfondo.

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interminabile di corridoi come tubi quadrangolari, illumina-ti da fluorescenti, altrettante lame nelle mie pupille dilatate,filava regolare al ritmo delle scannellature nel pavimento dicemento. Chissà quante mignotte s’era pagato quel genera-le che aveva suffragato quei lavori di merda. Quando ilpenultimo architetto si sarà impiccato con le budelle del-l’ultimo politico, avremo ancora dei problemi? Dopo unaltro ascensore, finalmente il pronto soccorso.

Mi scaraventarono dalla barella su un lettino con leruote e, per non farmi maledire dalla fila degli altriinfortunati in lista d’attesa, soffocai un urlo.

“Dov’è il dottore?” – chiesi all’infermiere.Non era ancora arrivato. Difatti a Rio il carnevale

dura tutto l’anno. Arrivò un altro infermiere che mi rica-ricò su un altro carrello, risospingendomi per altri chilo-metri di corridoi fino a radiologia.

“Dottore, dottore” – supplicai.Non c’era e le lastre me le fece l’infermiere. Poi mi

rimisero su una lettiga stavolta d’acciaio, con il pianod’appoggio inclinato per facilitare il deflusso dei liqui-di, m’ero pisciato addosso, mentre il mio corpo rimane-va sospeso sulla canalina di scorrimento, in cerca di unaposizione che non trovavo.

Poi mi parcheggiarono al pronto soccorso per ore eore assieme ad altri sventurati.

All’alba sopraggiunsero due barelle con due crivel-lati di proiettili, lordi di sangue, ed esilarati dalla coca.

“Come va?” – mi chiese un giovane dottore.“Qualcosa per il dolore” – tagliai corto.Scomparve e ricomparve con una siringa.“Funzionerà?” – mi chiesi e difatti funzionò.Intanto lo sbarbato controllava le lastre.“Brutta frattura a tibia e perone – disse scuotendo la

testa e poi – se la gamba fosse mia non rimarrei qui unminuto di più.”

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Era la prima volta che mi assumevo questa respon-sabilità e tutti zittirono come d’incanto.

Marise si sedette sul sedile riservato mentre dai por-telli aperti giungeva la voce trafelata di André.

“Aspetta vengo anch’io” – profferí l’anglosassone.“Fuori dal culo te e tutti quelli come te, occhi azzur-

ri e palle bionde” – continuai a imprecare mentre i por-telli si chiudevano.

“Qui gatta ci cova – osservò il medico – se ha qual-cosa da aggiungere me lo dica che faccio rapporto.”

“Mi creda la verità gliel’ho già detta” – confermai.“Le credo, le credo” – fece ancora lui, mentre inizia-

vo a constatare il comfort di un’ambulanza che sembra-va nuova di zecca.

L’ironia della sorte aveva voluto che un paio di gior-ni prima, sul set di Rio Bab, avessi conosciuto l’impor-tatore di ambulanze acquistate come rottami negli StatiUniti e rivendute come nuove sulla piazza carioca congli ammortizzatori rotti.

“Soddisfatti & rimborsati” – aveva commentato ilbroker esilarato dal big deal appena concluso, corrobo-rato da una colombiana al novanta per cento, e difattidurante tutto il tragitto ebbi modo di verificare tutte lebuche che costellavano il percorso.

Marise mi informò che eravamo arrivati al MiguelCouto, “l’ortopedico di Rio de Janeiro” – come precisòlei, arrapando la “r” come solo le carioca.

Mi scaricarono e dissero alla mia accompagnatriceche poteva tornarsene a casa.

Generalità, motivi del trauma e via discorrendo.Curioso il mondo visto da sottosopra. Difatti Marcel

Proust scriveva disteso. Mi infilarono in un ascensore pro-gettato da un pazzo, talmente corto che la barella schiaccia-va l’infermiere contro la parete d’acciaio inossidabile, comequella testa di cazzo che l’aveva realizzata. Quindi una serie

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retta, senza contare le assicurazioni, i diritti, le tasse e lepercentuali. Mance a parte.

L’amministratore cercò di convincermi, spiegandomiche le petit baron impiegava nuove tecnologie, che nonprevedevano l’ingessatura.

“Tra due settimane – concluse giulivo – lei sarà dinuovo sulla praia di Copacabana.”

Detto & fatto.Gli mollai un assegno corrispondente alla metà del-

l’importo richiestomi, dicendogli chiaro e tondo chequella era l’ultima cifra di cui disponevo. Lui mi squa-drò dicendomi che doveva consultarsi con il capo e lochiamò al telefono. Il professore accettava di esserepagato anche dopo l’intervento, salvo parere contrariodel console italiano.

Non mi preoccupai per il console, con il quale avevoun buon rapporto. Mandai Marise a informarsi perun’altra soluzione. Difatti c’era un ospedale italianomolto meno caro.

Pensai e ripensai all’affidabilità di medici scappatichissà da dove e riparati in America Latina chissà per-ché. Riflettei anche sul fatto che mi stavo ritrovando belbello nel cul-de-sac che mi aveva predetto Edoardo, l’a-mico argentino.

C’era solo una persona capace di tirarmi fuori daquella situazione e composi il suo numero.

Claudia arrivò mezz’ora dopo con l’aria della debut-tante snob.

“Se sapevo che eri con un’altra non venivo” – fula prima cosa che disse, poi decise di trasportarmi inquella clinica sull’Atlantica, da quei due aggiustaos-sa che avevo avuto modo di conoscere in un altrofrangente.

“Te ricordi di quando mi hai rotto il naso?” – midisse in italiano, per non farsi intercettare da Marise.

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“Dove andresti?”“Ha soldi?”“Ho soldi.”“Allora andrei nella clinica del capo.”“Il capo?”“Il capo di quest’ospedale è titolare della São

Miguel, una clinica che dispone dell’attrezzatura adattaper questo tipo d’intervento.”

“Okey ci vado.”Stavolta rifacevo veloce il percorso inverso.In portineria ritrovai Marise che mi fece venire una

canna incontenibile.“In queste condizioni” – pensai tra me&me.L’ambulanza partí a tutta velocità.“Piano, pianooo! altrimenti non pago” – sbraitai e

l’autista smorzò l’andatura.Alla São Miguel il sole era già alto.Staccai un assegno per il trasporto e mi ritrovai in

una linda stanzetta, mi fecero una morfina e mi infilaro-no una bella flebo nella coscia.

“Sta arrivando il professore” – annunciarono.Entrò un vecchietto azzimato.“Adesso facciamo le lastre” – ordinò le petit baron.“Non ce n’è bisogno – dissi paventando il conto –

queste lastre me l’hanno appena fatte al Miguel Couto.”Il professore le agguantò scettico.“Ah, ah – fece sbirciandole in controluce – una bella

frattura a tibia e perone.”“Uh.”“La opero alle due” – decise e se ne andò.L’amministratore mi chiese di versare un importo

equivalente al salario minimo di un operaio brasileiro,moltiplicato per venticinque volte.

Duecento e cinquantamila per l’intervento di SuaEminenza, altrettanto per la casa, settantamila per la

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issarla fino a una finestra del mezzanino, farcela passa-re, e di qui al piano terra nell’ambulatorio dei due striz-zaossa che mi accolsero all’unisono:

“Possiamo tentar una recomposiçao con il cinquantaper cento di probabilità di riuscir” – sembrava un’operalirica.

“Procedete con attenzione, sono molto sensibile.”“Tutti lo siamo.”Questa storia che saremmo tutti qualsiasi cosa non

l’ho mai potuta mandar giù.“Ci sono persone più sensibili” – sottolineai allarma-

to.“Le nostre tecniche – ripresero sempre all’unisono –

non contemplano l’anestesia.”“Nemmeno parziale?”“No!”“Te ricordi quella volta” – ricominciò Claudia.“Va bene, va bene” – tagliai corto paventando il peggio.Mi fecero firmare un foglio in cui mi assumevo ogni

responsabilità e loro le declinavano tutte.Le lampade erano accese sul tavolo e mi ci assicura-

rono con le cinghie.“Tenetelo fermo – dissero alle due ragazze mentre

cominciavano a tirare e io a urlare – tenetelo duro.”Quanto urlai, urlai tanto, urlai come non avevo mai

urlato, al di là di ogni limite consentito e mi rividi da bam-bino mentre mi strappavano le tonsille senza anestesia.

I due ossessi continuavano a darci dentro.In base a quale etica alternativa del cazzo non usa-

vano l’anestesia, nessun tipo di anestesia? Quandoanche solo per alleviarmi il dolore sarebbe bastato unostereo con Vivaldi in cuffia. Pensai all’idiozia della cul-tura cosiddetta alternativa, ai cosiddetti alternativi e allaloro paranoia di sentirsi sempre e comunque dall’altraparte.

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“Ricordo sí” – feci tagliando corto e chiamando lasegretaria del professore, per comunicarle la mia inten-zione di tagliar l’angolo.

“E perché?” – chiese la bunda stupita.“Perché sono povero” – ribattei secco.“Ahhh capisco” – fece la bunda scettica, osservando

Claudia che tutto poteva sembrare, ma non certo unapovera creatura.

La gente pensa sempre che io sia ricco. Un giudiziofavorevole o sfavorevole, a seconda delle situazioni.

Mi portarono il conto, una cifra da hotel a cinquestelle per un paio d’ore di permanenza. L’ambulanza erapronta. Mi sollevarono ma ordinai di rimettermi subito aterra.

Eseguirono.Chiesi la restituzione della cartella clinica del Miguel

Couto e le relative lastre. L’amministratore spiegò,cavillò e tergiversò, senza sapere con chi aveva a chefare. E concluse dicendo che non poteva darmi niente,visto e considerato che era illegale.

A Rio? Figurarsi.Gli rifeci, stavolta a squarciagola, la precedente

minaccia.Accorsero infermieri, sanitari trafelati e pazienti spa-

ventati. Era il momento di rincarare la dose.“Questo è un covo di ladri e tirate fuori l’incarta-

mento, altrimenti qui ci torno con gli amici dellaRocinha” – dichiarai in slang malandro.

La parola Rocinha, che rimanda all’omonima favela,li fece vacillare. Mi riconsegnarono tutto & subito eripartii con i portantini paghi di trasportare un duro.

Claudia e Marise si guardavano in cagnesco mentreio non la smettevo di pensare al mio conto in rosso.

Sull’Atlantica la barella era troppo larga per passareattraverso la porta dell’ambulatorio e allora dovettero

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quelle condizioni. Decisi di sbarazzarmi dei mobili.Steve s’era invaghito dei pochi pezzi di mobilio chip-pendale, lo chiamai e concordammo il prezzo.

Quindi telefonai all’agenzia immobiliare, disdissiquei centocinquanta metri quadri sull’Atlantico, fissan-done la restituzione per il giorno dopo. Infine chiamai lacompagnia aerea, prenotai il primo volo disponibile,esattamente per il primo giorno dell’anno dopo. Dissialle due donne di prepararmi le valige e consultai il digi-tale: era mezzanotte. Dopo ventiquattr’ore esatte, lafesta era proprio finita. La brezzolina notturna alitavadai finestroni spalancati e mi assopii; mi riebbi cheMarise era sparita. Sapevo dove.

Mandai Claudia a nanna a casa sua.Finalmente solo, mi rivolsi alla samambaia e le parlai.Le parole e le carezze cui l’avevo fatta segno da

quando era entrata nella mia vita, avevano contribuito afar estendere la felce almeno cinque volte rispetto aquando l’avevo scelta, timida e spaurita, sul marciapie-de sotto casa e João, il mio guardaspalle, me l’avevaappesa al soffitto, proprio al di sopra della scrivania.

L’alba mi sorprese ancora intento a parlare con lapianta lussureggiante, con le sue braccia tremule finquasi sul pavimento salmastro di maresia, ma la felcenon aveva letto I ricordi del sottosuolo di FëdorDostoevskij e forse non aveva capito un’acca di tuttoquel che le avevo raccontato. All’alba sentii la chiavegirare nella toppa della serratura e Marise entrò con lattee brioches, quindi mi cavalcò e ci addormentammocome due angioletti.

Ci svegliò Claudia verso le due del pomeriggio e perprima cosa mise Marise alla porta, dopodiché mi siavventò contro coprendomi di pugni, e facendomi senti-re un vecchio bambino alla mercé di un’Alice nel Paesedell’Assurdo.

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Ma quale parte poi se siamo tutti nella stessa merda,ricchi & poveri, sudisti e nordisti, eroi e vigliacchi, inquesto siamo davvero tutti uguali.

Pensai alla stupidità associata alla crudeltà umana.Ma ero stato io a ridurmi cosí.Ma perché, per che cosa? Per la voluttà dell’impatto

a cui m’ero votato? Pensai che mi sarei fatto fuori.“Ormai la vita non ha più senso” – pensai al male-

detto ’68 e al dannato contro ’68 degli stramaledettiindefessi al potere.

Pensai a Mauro Ros, a questo alternativo per eccel-lenza e lo maledissi come maledissi il momento in cuiero nato e quello in cui l’avevo conosciuto.

Pensai a mia madre che ancora continuava a romper-mi i coglioni.

“Mai! Mai! Mai! – sbraitai nella mia lingua conquanta forza avevo nei polmoni, il volto inondato dilacrime & sudore – non tornerò mai più!”

È veramente troppo il bagaglio di orrore che ognunodi noi deve sopportare. Che importa poi se sono stati glialtri o siamo stati noi. Pensai a tutti i brasiliani e le bra-siliane morti sui tavoli di tortura di quei maiali dei gene-rali comprati e coperti dalla CIA. Di fronte al doloresiamo veramente tutti uguali.

Ormai era il delirio.Poi smisero di martoriarmi e di lí a poco anche la

stecca di gesso era finita. Ripercorsi con un’altra ambu-lanza i cinquecento metri che mi separavano dal mioedificio. I portieri si fecero in quattro per collocare lalettiga nell’ascensore di servizio, mentre Claudia eMarise continuavano a non rivolgersi la parola.

Mi adagiarono sui cuscini della sala di fronte al fine-strone sempre spalancato. Cominciai a ragionare sull’e-missione dei due assegni a vuoto. Le banche aprivanol’indomani. Non dovevano trovarmi, almeno non in

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incassata nella parete alla destra del letto. Alla scenaaveva assistito atterrita la coppia di domestici, legaticome salami.

“Apri la cassaforte o ti apriamo le budelle” – gli ave-vano intimato.

Steve aveva ubbidito ma i magnifici quattro, nonpaghi di denaro e macchine fotografiche, avevano prete-so anche l’apertura dell’altra cassaforte, posta sullaparte di sinistra del letto. Ma Steve, non avendola maiusata, ne ignorava la combinazione.

“Ehi babaca, scemo – gli aveva fatto il capobandafacendo scattare la molla del serramanico – con questoti taglio le palle e te le ficco nel culo.”

“Proprio un bel lavoretto” – aveva profferito il compare.Mentre il satanasso era sul punto di mettere in atto la

minaccia, il capobanda aveva detto che si sarebbe potu-to utilizzare l’auto del corrispondente per andare a sva-ligiare una banca nei pressi. E Steve aveva immediata-mente trovato e consegnato le chiavi e poi mi aveva tele-fonato, pregandomi di accompagnarlo al commissariatoper l’adempimento delle formalità di rito. Abitavo a Rioda più tempo di lui e mi sembrò doveroso comportarmida gentleman e l’accompagnai.

M’ero cosí ritrovato di fronte al fior fiore del margi-nalismo carioca, al cospetto di migliaia di foto segnale-tiche, con facce in maggioranza nere e occhi pesti. Sucento facce esaminate, almeno cinquanta erano tumefat-te, gli occhi chiusi o semiaperti ed evidenti ecchimosi dipugni subiti a torto e a/traverso. Più bassa la percentua-le di coloro con entrambe le orbite peste, segno eviden-te che qualche riguardo c’era pur stato. Avevo continua-to a fissare quei ritratti di poveri e sporchi, pensando cheprima o poi si sarebbero rivoltati.

“Con segnaletiche come queste – osservò il britanni-co – non riconoscerei mio fratello.”

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Il telefono stranamente taceva.Dov’erano finiti quelli & quelle che fino al giorno

prima non mi davano tregua?Suonarono alla porta. La squadra dei traslocatori

sgombrò tutto in meno di un quarto d’ora e quella deiportieri al completo ricevette l’ultima mancia. L’uomodell’immobiliare riprese in consegna l’appartamento. Iportantini mi sistemarono sulla barella e uscimmo tuttisul pianerottolo. Il portiere capo Napoleon chiuse laporta con fare talmente solenne, che mi fece sentirecome una salma ancora calda. In strada c’erano tutti, ilmacellaio, il verduraio, persino il fioraio, che non miaveva mai perdonato di avergli sottratto il suo João.Stavano chiudendo i portelli e Napoleon mi allungò unamano affettuosa.

“Oh senhor muito obrigado por tudo, grazie pertutto” – mi sussurrò stringendomi affettuoso il braccio.

L’ambulanza arrivò con l’intermittente acceso alladimora del corrispondente del quotidiano più prestigio-so di Sua Maestà Britannica e Steve, in compagnia dellasua fidanzata arrivata fresca da Londra, mi accolse consussiego stiff all’ingresso della sua sontuosa villa holly-woodiana, parco & piscina, ma circondata da unaimmensa favela.

Ero stato il primo per non dire l’unico a correre insuo aiuto, subito dopo il suo sequestro per mano di quat-tro banditi i quali, dopo averlo ripulito di tutto, avevanoanche rischiato di farlo secco. Quand’ero arrivato a soc-correrlo, Steve, più pallido del solito, dopo essersi scu-sato per il disturbo che mi stava arrecando, per la primavolta da quando lo conoscevo m’aveva abbracciato e poim’aveva raccontato i dettagli della disavventura appenapatita. Erano le sei di mattina e i quattro banditi, dopoessersi introdotti nella villa, lo avevano sorpreso, legato,imbavagliato e costretto ad aprire la piccola cassaforte,

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lo convinsi, data l’insicurezza da lui manifestata, che erameglio non arrivare ad alcun riconoscimento. E Stevemi era ancora riconoscente per avergli fatto evitare unabbaglio con le relative grane, e accettando con dissi-mulata riluttanza la mia indiretta richiesta di ospitalitàaveva finito per accogliermi in quella sua magione ster-minata dove, nonostante la recente avvisaglia, si ostina-va a vivere senz’ombra di guardia del corpo.

Mi trasferirono dall’ambulanza su un materasso acontatto di pavimento, in una stanza da cui potevo per-cepire l’inconfondibile pulsare della favela circostante.Per prima cosa, mi feci passare da Claudia il pugnale dasubacqueo, che sistemai sotto il materasso.

I due o tre giorni che mi separavano dalla partenzapassarono cronologici. Breakfast, spuntino di mezzodí,tè delle cinque, tramezzino serale, tè delle dieci e camo-milla notturna. Queste le uniche occasioni in cui ebbimodo di intravedere il viso pallido di Steve oppure, aseconda dei turni, quello sempre sbigottito della suafidanzata Mary, fredda come l’inverno che mi si stavariapprossimando. Se gli inglesi sono in genere parchi eavveduti, ma costretti a recitare il ruolo dei ricchi chefurono ma che non sono più, Denis – scozzese di nasci-ta, americano d’adozione e carioca d’elezione – non eracosí. Costui fu l’unico amico – l’edonismo carioca rendeimprobabile un autentico sentimento d’amicizia – chevenne a rendermi visita nella magione del comuneamico. Arrivò il 31 mattina facendosi annunciare dallasua caratteristica, fragorosa risata.

Denis, astuzia e intelligenza associate ad ogni sorta dirispettabile espediente, era un raro esemplare di forestie-ro in grado di fottere i carioca, che in fatto di scaltrezzason peggio dei napoletani. L’amico scozzese faceva partedel ristretto gruppo di aficionados che mi stavano attor-no e non appena piombò nella mia stanza, mi infagottò la

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L’irriconoscibilità dei soggetti era anche dovutaall’abominevole stato delle segnaletiche, sovra o sottoe-sposte, con i piani di fronte talmente diversi dai profili,che c’era da dubitare si trattasse della stessa persona.

“Ma non avevi detto che erano mascherati” – loavevo incalzato.

“Avevano bende sotto gli occhi – aveva dettagliatoSteve – ma uno di loro a un certo punto rimase a voltoscoperto.”

“Era bianco o nero?”“Non saprei... forse mulatto, davvero non saprei.”“Ma non avevi detto che ti avevano tolto gli occhiali?”“Sí, ma me li ridiedero per aprire la cassaforte.”“Ah, ah! – esclamai supponente – a volte certi detta-

gli sono più importanti dell’insieme.”Quindi di almeno uno dei quattro era incerta persino

l’appartenenza razziale.Grazie a Dio in Brasile i confini tra bianco & nero

sono incerti.“Lo troverò, sono sicuro” – aveva detto Steve a que-

sto punto, continuando a scrutare le foto.“Speriamo di no” – m’ero augurato in cuor mio.“Molto interessante sotto il profilo criminologico –

aveva ripreso l’anglosaxonico – conosci il Lombroso?”“Certo che sí!” – avevo esclamato facendo sobbalza-

re il corrispondente, che non poteva immaginare quelche avevo scritto & fatto contro i cosiddetti criminologicome il professor Lombroso, autore di una teoria crimi-nal-razzista, in base alla quale a determinati tratti soma-tici corrisponderebbero altrettanti comportamenti crimi-nali. Infatti basta guardare le facce di politici & malfat-tori, per non parlar degli indefessi, per rendersi conto deidanni che possono provocare certe facce per bene.Comunque sia una battuta cosí il giornalista non avreb-be dovuto permettersela, di certo non con me e alla fine

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ra dalla sicurezza e dopo alcuni istanti un urlo provennedal giardino e poi un altro urlo seguito da uno scalpiccionel corridoio.

“Segurança, segurança” – sbraitai a un inesistenteservizio di sicurezza, estraendo la lama del pugnalequasi abbagliato dal suo luccicore.

Claudia rientrò in scena con l’abito strappato e ansi-mante disse: “Erano in due e mi volevano iscopare.”

L’avevano sorpresa appena fuori dal cancello, l’ave-vano costretta a tornare sui propri passi e mentre l’unoperlustrava il giardino, l’altro aveva tentato di usarleviolenza, e Claudia, fingendo di concedersi, aveva sus-surrato al malcapitato:

“In casa c’è molta pó, coca” – e l’idiota c’era cadu-to, lei s’era messa a urlare, provocando il mio gesto cheaveva messo in fuga i due.

“Guarda che potrebbero essere ancora in giardino –mi avvertí lei – potrebbero tornare sui loro passi.”

Spensi la luce e mi attaccai al telefono. Il centralinodella polizia civile era occupato. A quello dei pompierimi risero in faccia augurandomi “Feliz Ano Novo”. Leauto della Polizia Militare erano tutte nell’inferno delcarnevale carioca, occasione propizia per regolare i cari-chi pendenti con morti & feriti, come accade tutti glianni, anche se la cosa non riguarda turisti & stranieriresidenti.

“Beato lei che può starsene al sicuro in una bellacasa, con tanti begli amici e...” – si interruppe il PM dal-l’altra parte del filo.

Gli raccontai che la ragazza era ferita, che ero disar-mato perché il mio guardaspalle m’aveva mandato aldiavolo proprio la sera dell’ultimo dell’anno e che, sic-come ero l’inviato del quotidiano britannico più presti-gioso, qualunque inadempienza nei miei riveriti con-fronti avrebbe innescato uno scandalo diplomatico. Mi

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stecca di gesso con della carta stagnola dorata e, ficcan-domi in mano un mitra giocattolo, cominciò a spararepolaroid a raffica. Ma nei secondi che precedevano laricarica del flash, riuscii ad assumere una espressione tal-mente spavalda, da vanificare il suo intento di immorta-larmi con l’aria demente del tramortito.

L’ultima giornata era stata preannunciata sin dal mat-tino dal caravanserraglio percussionista del samba, pro-veniente dalla favela limitrofa, che si apprestava a salu-tare l’ultimo giorno dell’anno. Con il passare delle ore ilritmo delle batterie s’era fatto frenetico e febbrile comeil mio corpo raffermo. Faceva un caldo tremendo, appe-na lenito da Claudia, che mi inumidiva la fronte con unpanno bagnato. Del resto lei non aveva mai parlatomolto. L’istinto si nutre d’azione, non di parole astratte.Alcuni mesi prima la sua preda, cioè io, le era sfuggitae ora che m’aveva riagguantato si sentiva paga.

Quando il suono dei tamburi e dei físchietti si impa-droní della sera, Steve uscí con Mary e cosí fece la cop-pia di domestici, mentre Claudia mi teneva una mestacompagnia, sullo sfondo di un samba inquietante comela favela oltre il muro di cinta, a venti metri in linea d’a-ria dal mio materasso fradicio di sudore. Mi chiesi checosa aspettassero a scavalcare quel muretto che li sepa-rava dai ricchi estrangeiros a portata di mano. A mezza-notte, dopo il brindisi, Claudia mi annunciò che sarebbetornata a casa sua sull’Atlantica, per godersi al sicuro,cioè dall’alto delle finestre del suo lussuoso apparta-mento, lo spettacolo dei neri sulla spiaggia diCopacabana, vestiti di bianco con decine di migliaia dicandeline accese. Cercai di scoraggiarla dall’uscire aquell’ora da sola. Ma Claudia uscí e io rimasi con leantenne tese, senza riuscire a percepire l’accensione delmotore della sua vecchia VW con lo scappamento rotto.Infilai la mano sotto il materasso e liberai l’impugnatu-

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“Con il signore?”“Non esattamente – dettagliò lei – è solo il mio ex

marito.”Mentre scendevamo rapidi ai check-in, mi avvidi che

uno dei commessi ci stava seguendo.“Se quello stronzo chiama la banca – le mormorai –

l’Interpol mi becca a Casablanca.”“Oggi le banche sono chiuse” – tagliò corto Claudia.Dall’altra parte dei metal detector mi ricordai del-

l’acqua marina che avrei voluto regalarle, ma ormai nonpotevo più tornare sui miei passi.

“Claudinha, Claudinha, meu amor – le dissi ancoramentre lei agitava la manina – vedrai tornerò.”

Attorno a me erano tutti gentili e premurosi, com-presi gli agenti federali. La compagnia m’aveva fattoriservare nove posti su tre ordini di sedili e mi ci siste-marono come un sultano in gita. Quando accesero imotori sperai che fosse solo un incubo, che difatti duròtutta la nottata.

Rientrare in patria dopo tanto tempo è una cosa dapazzi.

A Casablanca la compagnia araba aveva predispostotutto con precisione per il mio trasbordo sull’aereo dellacompagnia di bandiera. Dove mi scaricarono su un sedi-le del corridoio, un attimo prima dell’arrembaggio diuna turba italiota di mamme, babbi, zie e bambini, que-sto piccolo mondo antico, assemblaggio paranoide eculto sadomaso di infanti & parenti, vicini & lontani.

“Un amalgama di sangue assassino e mestruale dipallottole & pannolini” – scriveva Mario Puzo.

Nella retina portariviste c’era una copia sgualcita delsettimanale italiota più venduto e mi ci rifugiai, passan-do d’acchito dal culto degli infanti a quello dei geronto-crati & carampane, come le ideologie, le piattaforme, icontesti, i dibattiti, i partiti, le correnti, i mezzibusti, le

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dissero che sarebbero arrivati da un momento all’altro einiziò la snervante attesa.

Dopo una buona mezz’ora suonarono il campanello,ma Claudia si rifiutò di andare alla porta e cacciò un taleurlo che la PM scavalcò il muro di cinta e due splendidimulatti irruppero nella stanza e se ne andarono riaccom-pagnando Claudia fin dentro al suo garage di casa.

Il giorno dopo l’ambulanza arrivò in anticipo sul pre-visto.

“Goodbye.”“Goodbye.”“By by Steve, thanks a lot.”Claudia sembrava una crocerossina e io il suo redu-

ce svizzero. La sedia a rotelle era pronta sul marciapie-de dell’International Airport do Rio de Janeiro.

Mi ci collocarono con la gamba in avanti, appoggia-ta sulla valigetta metallica posta sul predellino. Alcheck-in mancavano due ore e salimmo al ristorante.

Pagai il conto con un altro cheque a vuoto e poiClaudia sospinse la carrozzina fino a una boutique dipreziosi.

“Perché non ne approfitti?” – mi disse lei, inducen-domi ad un ragionamento.

Infatti potevo sempre emettere un altro assegno,rivendere subito la merce e poi con calma riempire ilbuco. Un paio di commessi uscirono fuori cominciandoad agitarsi attorno a un tizio che, per via della classe diClaudia, non poteva che essere un miliardario impedito.Mi proposero subito delle pietre che esaminai attenta-mente su un plateau di smeraldi, tormaline e acque mari-ne. Scelsi una mezza dozzina di pietre badando alle gros-se carature. Mostrai le credenziali richieste e firmai ilcorrispettivo per una cinquantina di migliaia di dollari.

“Dona Claudia, anche lei abita sull’Atlantica?”“Sí” – ammise lei.

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mendo, scesi dal taxi e mi ritrovai in un androne strettoe buio, dove Derno, per nulla sorpreso di vedermi inquello stato, era già in attesa. Anche se nessuno loaveva informato, l’amico maremmano sapeva già inanticipo quel che mi era successo. Derno dischiuseguardingo la porta della sua stamberga e sgusciammodentro un’atmosfera romantica da ultimo bohémien –una cucina col lavello intasato di piatti sporchi, la cor-tina verde delle pianticelle sulla finestra del cortile, ledita gialle di nicotina e lo stesso cappotto sdrucito,mentre lui si sfregava le mani perché si brillava di fred-do. Ci osservammo un attimo nel più assoluto, recipro-co rispetto.

Sempre identico a se stesso, Derno non era cambiatonemmeno con l’età: quel suo sogghigno perpetuo, ves-sillo di austerità e orgoglio, ostentazione di un non benidentificato pedigree, mi ricordava Luis-FerdinadCéline da vecchio, con il copriletto addosso. L’amicomaremmano si muoveva rapido, con movimenti delcorpo protesi in avanti, sghembi, lenti, goffi e tuttaviaaggraziati. Un incedere elegante e un po’ maniacale, tra-guardando in tralice con l’occhio strabico sinistro lapunta lucida della sua scarpa destra. Occhi scuri, vivi escaltri su una faccia etrusca, afflitta da un’inconfessatanostalgia per la sua terra ingrata e durissima, laMaremma o Maremma puttana, come dicono inToscana.

Quando qualche lustro prima lo avevo conosciuto,avevo avuto la sensazione d’essermi imbattuto nell’uni-co più che nell’eccentrico. Il padre di Derno faceva ilminatore, troppo povero per dare all’unico figlio un’i-struzione adeguata alla sua particolarissima intelligenza;lo aveva spedito in seminario, da dove l’amico marem-mano era fuggito, pur conservando, di quella breveparentesi, un eticismo ferreo e anacronistico.

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mezzefiche, i tritacazzi, le crisi, i compromessi, piduisti& monarchisti, coalizioni & scissioni, servizi & gabi-netti, mafie & consorterie, pentiti & dissociati, irriduci-bili & cuorcoglioni, rievocazioni & commemorazioni,biennali & trentennali, resistenze & fascismi, emergenti& paraculi, stati nascenti & sociologi deficienti, semio-logi à la page & prime puttane, claustrofobia & agora-fobia, cattocomunisti & democristi, liberalsociali &socialfascisti, senatori verdi & manigoldi indefessi, con-flitti religiosi & conflitti d’interessi, frattali & frattaglienazi-fasciste, cinismi machiavellici & perdoni cattolici,Craxi e Martelli/Felci & Mirtilli...

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” – cantava il poeta– e se poi fossero i miei? – intercalai tra me&me.

Nel cielo di Roma, il comandante mi chiese se vole-vo la carrozzina o la lettiga.

Volevo l’elicottero e la mamma. Arrivarono due por-tantini.

Chissà se per caso c’era un posto dove attenderequalcuno che non sapevo se e quando sarebbe arrivato.Mi guardarono come si guarda un pazzo. Sí, un’astante-ria c’era ma a pagamento e mi ci feci portare. Vennisistemato in una linda cameretta con telefono & bidè.Telefonai per un’ambulanza da Fiorenza, che attesi sco-landomi mezza boccia di whisky e quando finalmentemi trasbordarono in una cameretta dell’ortopedico fio-rentino, la boccia era praticamente finita. E subito litigaicon l’anestesista il quale, registrando i miei eccessi, siscandalizzò e mi ritrovai in corsia. Tanfo ospedalizio,parenti non miei in libera entrata e uscita a tutte le oredel giorno. Intervento chirurgico e dolori postoperatoriaffogati nel pianto invece che nella morfina – è cosí chesi impara ragazzi!

Mi rilasciarono venti giorni dopo con due stampellee venti chili di gesso. Imbruniva, faceva un freddo tre-

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“Se ti crei problemi di vecchiaia ti prepari una vec-chiaia umida – esordí l’amico maremmano – senza con-tare che oggi la felicità non è più una cosa che si perseguee l’unica cosa che uno può chiedere è cosa c’è nel menù.”

“À la carte” – sbottai isterico.“E infatti, quando a uno come te gli piace il tutto,

come può scegliere il meglio!”“Metti un uomo di fronte alle sue responsabilità –

proseguí tirando in ballo un suo concetto – lo smembri,è il principio della fine.”

Continuavo ad ascoltarlo attento a non perdermi unsoffio di quel che mi stava dicendo, ben sapendo che sel’amico maremmano era consapevole di avere ascen-dente su di me, non per questo s’era mai sognato diapprofittarsi di questo suo agio presunto.

“L’uomo è inadeguato alla sua intelligenza – proseguísicuro di quel che andava dicendo – tutto quel che di nega-tivo si poteva fare è stato fatto, tutte le esperienze negati-ve sono state sperimentate e le bombe sono già scoppiate,indipendentemente dalla rivolta per la loro soppressione.”

“Rivolta o rivoluzione?” – chiesi estenuato.“Il ribelle si ribella comunque, il rivoluzionario solo

in caso di necessità effettiva, mangiare ad esempio.Invece il ribelle è un professionista della trasgressione.L’uno parte dalla testa, l’altro dalla pancia. Il primo ècauto, il secondo spregiudicato. Il rivoluzionario perse-gue il suo fine finché non lo raggiunge, invece il ribelleconserva il suo istinto e non vuol farsi fottere – continuòspedito – almeno fino a quando non gli riempiono labocca e la testa.”

Rimasi senza fiato anche perché Derno stava sinte-tizzando quel che avevo sempre pensato.

“L’uomo di oggi non si vuol salvare perché non èadeguato alla propria intelligenza – riprese accendendo-si l’ennesima Alfa col filtro – ma tu devi sopravvivere.”

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Quindi solo di passaggio a Fiorenza, ma diretto aRapallo dove Derno avrebbe dovuto incontrare EzraPound ma purtroppo il poeta maledetto era morto pocoprima dell’incontro. E cosí Derno s’era fermato nelcapoluogo toscano, divenendo mio confidente & amico.Precocemente sposato e poi separato con tre figli a cari-co, l’amico maremmano s’era costretto a lavori di tutti itipi – stagnino, sverniciatore, infilatore di perle finte,bigiottiere, derattizzatore, sterminatore di termiti e infi-ne posatore di sostanze tossiche & nocive, unico lavoroper il quale fosse stato ben retribuito.

Lo scrutai attento: né grasso né magro, né bello nébrutto, né giovane né vecchio, né povero né ricco, nes-sun segno d’appartenenza a un ceto, nessun segno parti-colare. Quindi non identificabile ma riconoscibilissimo:istrionico, sibillino, ieratico e quindi dogmatico. Eter-namente coinvolto in una inquietudine senza sbocchi eprospettive, ma anche senza incubi. Ritenendo di essereil mio nume tutelare, Derno era da me considerato comeuna sorta di istruttore, al quale ricorrere nei momenti diparticolare tensione emotiva, come quello che stavoattraversando in quel momento.

Continuai a osservare quella faccia singolare afflittada un travaglio malinconico ma sotto controllo, renden-domi conto che era vigile, attento, pronto a cogliere ognibagliore anche impercettibile del mio io diviso.

Derno mi fissò con quel suo sguardo timido e altez-zoso a un tempo, come “cogliendo la vertigine d’ango-scia in cui stavo precipitando” – come avrebbe dettoDjuna Barnes se solo lo avesse conosciuto.

Io gli dissi che mi sentivo vecchio, infelice, schiac-ciato dal senso di colpa, moralmente devastato, divel-to dalle mie stesse responsabilità. Al posto del cuoreun buco e ancora non sapevo che cazzo fare della miavita.

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riempire un modulo degno della West Coast. Mi guardaiattorno tra casette in costruzione, baracche prefabbricatee personale ocra come il fango che sembrava sommerge-re tutto, mentre una Bentley fiammante era parcheggiatasotto una specie di stendardo da processione.

“È l’auto di Cesco” – mi chiarí il mio accompagna-tore riferendosi con deferenza a Prem Cesco, il rappre-sentante locale del Bhagwan come mi spiegarono,notando lo stupore allargarsi a vista d’occhio sul mioviso intontolito.

Sartàno mi venne incontro strabuzzando gli occhi difronte al voluminoso gesso, che mi saliva sulla gambaoltre il ginocchio, ma dall’affettazione con cui miabbracciò intuii che non mi sarei più potuto fidare del-l’ex Mauro. Non che Ros fosse infido, tutt’altro, machissà in quali ambiti aveva nel frattempo sospinto ilsuo turbinoso cervello. Come lo stesso pomografoavrebbe detto qualche tempo dopo, quando dopo lamorte di Mauro avrebbe ammesso che “era una fucina diprocessi mentali”. L’ex Ros, più magro e ieratico dicome me l’ero raffigurato tutte le volte in cui l’avevoripensato, mi invitò a fare una ricognizione di quel chelui chiamò “il campo”, un costruendo agglomerato colo-nico in espansione attorno a una torre denominata ilGabbiano.

L’atmosfera che vi emanava mi sembrò una via dimezzo tra una corte dei miracoli e un tempio abborrac-ciato e periferico di un remoto e improbabile culto paga-no. Ma era ora di cena e Sartàno, dopo avermi fattoattraversare il refettorio all’aperto, situato sotto un ten-done da luna park, dove i commensali mangiavanoall’addiaccio, e dopo aver percorso un grazioso giardi-netto interno assai ben tenuto, mi fece varcare la sogliadel Gabbiano, cioè della torre riattata dallo stesso archi-tetto dell’onorevole Tino Felci, intimo di Don Cesco.

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“Perché?”“Perché sei un individuo solo e indeciso, drammati-

camente moderno.”Cosí parlò Derno, genio di professione e corniciaio

per l’occasione.Mi rimaneva il problema di dove andare a sbattere la

mia testa di cazzo.Nei pressi di mia madre non era proprio il caso e

smammai dopo un rapido e familiare amplesso. Andaida mio padre in bassa montagna, mobilio di famiglia,una bassotta isterica e la moglie asburgica. Aria e acquasalubri, un posto isolato, non un bar, nessuno in giro,salvo qualche rado toscano ingrugnito. Mi buttai a scri-vere. Dopo tre giorni mi dissero di mettere un panno trala portatile e la scrivania del Cinquecento.

“Sennò si sciupa” – precisarò l’asburgica.Esplosi e me ne tornai da mia madre a ritirare le pie-

tre che le avevo affidato. Ma nel frattempo il direttoredella gioielleria dell’aeroporto di Rio aveva individuatola casa di Claudia, riuscendo a estorcere al personale diservizio il mio indirizzo. E cosí un’emissaria s’era pre-sentata a casa di mia madre, la quale, apprendendo chele pietre non erano state pagate, le aveva restituite e lacosa era finita lí. Oramai al verde, senza sapere dovesbattere la testa, mi ricordai di Mauro Ros, ribattezzatoSartàno dal suo solito santone indiano. Il quale avevaabbandonato Poona per andare a fondare l’ashram inOregon, mentre invece Sartàno & Prem Cesco, aliasDon Cesco Patella, avevano preferito andare ad aprireuna succursale degli arancioni in Sicilia. Telefonai aSartàno che mi invitò a raggiungerlo senz’altro indugio.

All’aeroporto di Trapani trovai ad attendermi un lindoarancione, che mi aiutò a prender posto su un fuoristradanuovo di trinca. Arrivammo all’ashram al tramonto estava piovendo a dirotto. Una yuppy arancione mi fece

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ra ancor più ambigua e per cosí dire sinistra, corrobora-ta dall’esser l’unico in abiti civili, nonché privo di qua-lunque sigillo di riconoscimento d’appartenenza all’al-legra compagnia. E finalmente Sartàno mi rivolse laparola chiedendomi innanzitutto che fine avesse poifatto Claudia.

“Nel tentativo di sfuggire alla sua caccia spietata, inun paese che non conosce la pietas, dopo averle prova-te tutte e senza sapere più a che santo votarmi, avevoveduto di rivolgermi alla succursale carioca dellaRajneesh Foundation, sul punto di diventare un sannya-sin, cioè un adepto con il prefisso di Anand” – dissi tuttodi un fiato.

“E non hai preso il sannyas?!” – sbottò all’unisono laplatea disillusa.

Risposi che, come spesso mi accade, all’ultimomomento m’ero tirato indietro e Sartàno, che di questecose se ne intendeva ancor più di me, non poté trattene-re un mezzo sorrisetto. Ma la reazione alle mia battutadovette essere sconfortante, perché tutti reinfilarono gliocchi nei rispettivi piatti, salvo Sartàno che mi chiesecosa avessi intenzione di fare io a quel punto.

“S C R I V E R E” – scandii, tradendo l’ansia tratte-nuta a stento.

Perché era stato quello l’unico movente che m’avevasospinto in quella sperduta contrada di Lenzi. Cercai dicapire le loro reazioni scrutandoli in volto uno per uno.Ma tutti meno uno, io, se ne stavano imbambolati pen-dendo dalle labbrone satolle di Don Cesco, che si limitòa dispensare a ognuno il suo indefesso sorrisetto. Eranoin dodici e io ero il tredicesimo, mentre la cena, annaf-fiata da un corposo vinello bianco, continuava a essereben servita da quattro donzelle piuttosto ben messe. Inparticolare una sannyasin australiana dal posteriore bentornito e dalle ragguardevoli tette.

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Qui l’atmosfera risultava assai diversa da quella esterna.Quadri d’autore, candele, incensi, musica ambientale eun caminetto acceso, tra gli svolazzi delle tuniche aran-cioni di donzelle intente a imbandire una tavola, a capodella quale ghignava la faccia sorniona e invereconda diDon Cesco, alias Cesco Patella, nel ruolo di PremCesco, come l’aveva ribattezzato il Bhagwan, cheammiccava da un ritratto hollywoodiano sulla parete,cogli occhi ridenti e l’espressione anfosa. Al pari di que-st’ultimo, anche Don Cesco era avvolto in una lungapalandrana, e dal suo volto incorniciato da un barboneincolto, attraverso occhiali sottili come il suo indelebilesorrisetto, strizzavano sornioni occhietti birboni, inca-stonati nel suo faccione mellifluo da gangster levantino.

“Ma che t’è successo?” – mi fece il Don con unapunta di sarcasmo, mentre probabilmente diceva a sestesso: hai visto coglione cosa succede a fare il gua-scone?

“Ho fatto il passo più lungo della gamba” – risposilaconico e vagamente blasé, mandando in visibilio l’in-tera compagnia.

Don Cesco accolse battuta e relativa risata con un’e-spressione malandrina, tipica di un’epoca in cui talunimembri del Partito Sociale, prima che la magistraturatentasse, riuscendovi solo in parte, di porvi sacrosantorimedio, facevano il bello e il cattivo tempo, in ognicontrada, anche la più sperduta, di questo Bel Paese delcazzo ai margini dell’Occidente sviluppato.

Ma la cena era in procinto d’esser servita, tutti s’era-no seduti al tavolo basso e due donzelle arancioni miaiutarono ad adagiarmi sui cuscini di seta traslucidadello stesso colore. Non potendo piegarmi nella posizio-ne del loto, mi accoccolai obliquamente rispetto aldesco, sotto il quale infilai il catafalco di gesso. Questostare un po’ in tralice conferiva al mio ristare una postu-

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tomesso. E se lo sventurato aveva trovato un equilibrioprecario standosene sui talloni, ora in ginocchio cercavadi farfugliare qualcosa circa un suo spontaneo autoal-lontanamento dalla comunità. Tutti gli altri e le altre,con le orecchie vigili a quel che Don Cesco andava sal-modiando, avevano mantenuto un silenzio religioso,lasciando al Don la risoluzione dell’evidente contraddi-zione. Ma visto che quest’ultimo traccheggiava, dallasua destra si erse sinistra un’altra vecchia conoscenza,l’ennesimo ultrarosso riconvertito all’arancio, il quale,puntando il dito contro lo sventurato, si lanciò precipi-toso nella seguente e aspra concione.

“Salti o non salti? salti o non salti?” – ripeteva l’inde-moniato, alzando progressivamente il tono minaccioso,continuando a tenere puntato il dito contro lo sventurato.

“S A L T I O N O N S A L T I I I.”Dove per saltare si intendeva andare oltre il proprio

ego e confidare nella grandezza del Maestro, del qualeDon Cesco, in quel luogo e in quel momento supremo,era l’emanazione più vicina e diretta. Avendo notato ilmio raccapriccio, venni invitato a dire la mia. Ed io,andando rapido con il pensiero a una linda cameretta checertamente mi stava aspettando al piano di sopra, con lelenzuola immacolate e magari rimboccate dall’australia-na, dalla quale non avevo tolto gli occhi di dosso, guar-dai il disgraziato e nonostante mi ispirasse tanta com-passione, mi lanciai in una diatriba situazionista sull’av-vento del nuovo Medioevo e sull’emergere di un cetonuovo ricco e sull’altrettanto inevitabile corollario deineoservi della gleba.

“Ragazzo – conclusi tosto – non basta star dentro aun castello, crogiolandosi nella convinzione d’averlafatta franca, perché una volta che sei al di qua di questemura, se non ti sei fatto sgherro del padrone, vuol direche ti devi accontentare di fargli da servo.”

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Oramai alla frutta, Don Cesco intercomunicò con lareception, chiedendo che il sannyasin addetto alla con-servazione delle cassette registrate gli recapitasse quel-la corrispondente al tal discorso del Maestro. Dopoalcuni minuti richiamarono per informare il Don che ilsannyasin in questione si era già ritirato e non aveva laminima intenzione di eseguire l’incombenza. AlloraDon Cesco, pur mantenendosi fermo e compassato,ordinò che si andasse a convincere in qualche modol’ingrato e ingannò l’attesa, ragguagliandomi sullastruttura piramidale dell’ashram, basata sull’accetta-zione delle regole imposte dai vertici, tra i quali in quelpreciso momento m’era stato concesso il privilegiod’esser assiso. A questo punto osservai Sartàno, e nonavendolo visto batter ciglio ripensai alle schiere dipoveracci che seguendo i vari trip dell’ex leader cari-smatico, negli anni caldi prima, in quelli di piombo poie in quelli arancioni del momento, lo avevano emulatoin tutto e per tutto, persino fino alla galera e alla perdi-zione, mentre l’attuale Sartàno, vuoi per un motivo oper l’altro, aveva continuamente mutato indirizzo, inmodo talmente repentino da rendere arduo il relativoritiro o conversione in tempo utile degli sciagurati chel’avevano voluto seguire, magari portando alle estremeconseguenze gli ultimi dettami, in ordine di tempo, del-l’ex carismatico convertito.

Ma bussarono alla porta e il sannyasin in questioneentrò con gli occhi stralunati dal sonno e andò ad accuc-ciarsi ai piedi del Don. Il processo che ne seguí, rapidoe conciso, si svolse in un gergo settario, infarcito di rife-rimenti non comprensibili ai non adepti, inutile quindiriferirli per filo e per segno. Sta di fatto che di lí a poco,sotto le domande incalzanti che gli venivano rivolte intono calmo ma fermo dal Don, l’iniziale atteggiamentodel ribaldo si stemperò al punto da divenire umile & sot-

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messo a disposizione dei fedeli. Insomma mi potevoritener fortunato se s’era riusciti ad arrangiarmi quellasistemazione.

“La storia che sto scrivendo necessita di privacy e dicomfort” – dissi chiaro e tondo a Sartàno.

“Ma perché vuoi scrivere?”“Forse per cambiare le cose.”“Se veramente vuoi cambiare – disse col tono di dire

in verità io ti dico – scrivere è l’ultima cosa che serve.”Invece, tra i molti lavori in corso, compatibilmente

con la mia zampa impedita, avrei avuto solo l’imbaraz-zo della scelta. Tutt’attorno era un alacre sciamare dicarriole e laterizi, di bimbi inzaccherati e donne affac-cendate, che tutto parevano meno che femmine. Pensaidi andare in cucina e Sartàno mi accontentò abbando-nandomi tra i fornelli, dove le donne stavano preparan-do la merenda per i lavoratori.

“Dalle bundas di Copacabana in un convento disuore assatanate” – stavo dicendo in cuor mio, quandouna sorella mi strappò lo spalmino di mano, spiegando-mi che con tutto quel burro avrei mandato alla maloral’intera opera pia.

E mi fece vedere lei come fare.“Un velo di burro e uno striscio di confettura, caro

mio.”“Caro un cazzo!”“Oh!” – strabuzzò lei.“Vai un po’ a prendertelo in culo” – le feci io.Mi ripresentai alla reception pretendendo d’essere

immediatamente riaccompagnato all’aeroporto.Mi rilasciarono un conto di centocinquantamila lire

– cento per la quota giornaliera, il lavoro che avevo purfatto faceva parte della “terapia”, e cinquanta per labenzina del Toyota che mi avrebbe ricondotto all’aero-porto.

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E lui, l’infelice sannyasin, in un riverbero di consa-pevolezza, mi indirizzò tutto il suo sgomento, ma a que-sto punto il Don lo congedò, disponendo affinché siprovvedesse a riaccompagnarlo nel suo giaciglio. Esempre Don Cesco mi annunciò che i miei alloggiamen-ti erano pronti ad accogliermi per una notte, che mi siaugurava ristoratrice e portatrice di consiglio. Mi aiuta-rono a rimettermi in piedi, mi riaccompagnarono all’a-perto e, attraverso il refettorio ormai deserto, giunsi difronte a una porticina di lamiera ondulata che il miocustode aprí, infilando dentro la mia valigia e dopo aver-la incastrata tra i due letti, tanto la stanzuccia era stretta,mi augurò sogni all’arancio. Su uno dei due giaciglic’era un giovane vecchio dall’età indefinibile, il qualenotando la mia intenzione di rifugiarmi in bagno, m’av-vertí che era occupato.

“E da chi di grazia? – mi informai incredulo – chialtri dorme qua dentro?”

Il giovane vecchio mi spiegò che il cesso intercomu-nicava con una stanza sull’altro versante del prefabbri-cato, che in quel momento era appunto occupato. Il tam-bureggío della pioggia sulla lamiera mi tenne svegliotutta la notte, durante la quale mi tornarono alla mentele tappe fondamentali della mia venturata vita.

Al mattino mi precipitai alla reception, chiedendo laconvocazione immediata di Sartàno.

“Il mio arto ferito non può stare a bagnomaria” –comunicai tra il serio e il faceto all’ex Mauro.

Sartàno mi spiegò che il Gabbiano era anche il lorotempio e che potevano accedervi solo quelli & quelle ingrande intimità col Don, in quanto capo spirituale diSaman. D’altra parte il campo era stipato. C’era genteche, pur di star lí a prender la conoscenza, s’adattava avivere sotto le tende piantate e impantanate, persino aimargini della proprietà che il Don aveva generosamente

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1La tana

L’Alpen Express si fermò nella stazione livida dineve. Si spalancarono tre sportelli e uscirono tre perso-ne. Calai lento e inesorabile sul binario semideserto, benattento a posare bene le grucce sul marciapiede fradiciodi neve. Un facchino caricò le valige sul carrello, men-tre all’altezza della pensilina un uomo biondo e min-gherlino, con gli occhiali cerchiati d’oro, in un comple-to grigio e cappotto di montone chiaro, agitava senzaenfasi una mano rimanendo a fissare la mia figura trim-pellante, in un trench di velluto marrone.

“Finalmente ti sei deciso” – mi disse l’amico trenti-no abbracciandomi.

La lenta marcia preceduta dal facchino si concluse difronte a una cabrio decappottata, nonostante il freddopolare. Gianni mi aiutò a salire e a sistemare la zampaimpedita, quindi entrò a sua volta inserendo nello stereola Cavalcata delle Valchirie. Poco dopo l’auto si fermònel cuore del centro storico della cittadina, quieta esilenziosa come sempre. Mentre estraevo la zampa dal-l’abitacolo, lui afferrò i due bagagli e ci inerpicammofino alla mansarda di un antico palazzo, con gli scalinisdruccioli per via dell’usura.

“E cento” – fece Gianni aprendo la porta d’ingresso euna seconda porta chiusa con il lucchetto, che si schiuselasciando cadere una densa striscia di polvere rappresa.

Sembrava una soffitta, tante erano le ragnatele cheottundevano quel mausoleo impolverato di silenzio.

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Staccai l’assegno calcolando che mi rimanevanoaltre trecentomila. A Sartàno feci notare che quelloscherzetto da prete m’era costato davvero troppo.

“Non sono io che stabilisco le regole del gioco” – midisse l’ex carismatico.

Era la prima volta che lo sentivo esprimersi in que-sto modo. Presi atto che l’ex numero uno era ormai unnumero due. Incredibile ma vero. Sempreché il tutto nonrappresentasse l’ennesimo suo giochetto.

“Mi pare giusto, quasi ovvio – lo avvertii, e prose-guendo – sai sempre dove trovarmi.”

“E dove?” – domandò lui.“Dall’altra parte.”“Dall’altra parte? – ripeté l’ex Mauro stupito – di che

parte stai parlando?”“Da una parte che non sia la tua, da quella opposta

alla tua – gli dissi guardandolo diritto negli occhi e pen-sando tra me&me – a questo gli rompo il culo ma pro-prio glielo rompo, quanto è vero Iddio.”

La misura era ormai colma e io ero davvero pronto adisarticolare, come diceva René, quella banda di mente-catti fottuti.

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“Ehiiii” – fece stupitissima una donna bruna, scar-migliata, dall’età indefinibile, certo non bella.

“Erita!” – esclamai, simulando una gioia che nonc’era.

“Mamma mia che casino, sono anni che non rimettopiede qua dentro – commentò lei – ma venite, venitenella mia stanza.”

Erita ci precedette in ciabatte nel breve corridoietto,alla fine del quale, proprio di fronte al bagno, c’era lasua stanza. Il letto a una piazza e mezza ingombrava trequarti dello spazio, il resto era occupato da due sedie, daun tavolo stretto che trovava sostegno nella parete, men-tre dall’unica mensola debordava uno stereo obsoleto,come il gigantesco televisore posto sul pavimento.

“Ma quanti anni sono passati?” – continuò Erita cer-cando di darsi un contegno, forse volendo giustificare diritrovarsi ancora in quel vittoriale di reliquie imputridite.

In effetti il piccolo appartamento era rimasto tale equale a come George, il comune compagno di studi,glielo aveva lasciato quasi vent’anni prima, e lei erarimasta pietrificata nel ricordo. Ci scusammo, ritornam-mo nella mia ex stanza e Gianni si accomiatò, lascian-domi alle prese con i fantasmi del mio passato. Mi rifu-giai in bagno, uno sgabuzzino ingombro di ciabatte,scarpe sgorate di pioggia, vecchi barattoli di vernice,uno scolapiatti carico di stoviglie, indumenti sporchiappesi ai minuscoli attaccapanni d’ottone, resi verdo-gnoli dal salnitro. Nella piccola vasca a seduta troneg-giava una pila di piatti sporchi, con tracce recenti dicibo, che erano stati rimossi per metterli sul pavimentobisunto. Lavorai un quarto d’ora per scrostare la tracciagiallastra di sporco rappreso nella tinozza. Finalmente,facendo perno sulla gamba sana e tenendo la gambaingessata fuori dal bordo, entrai nella tinozza, riuscendoin qualche modo a spruzzarmi con la cornetta della doc-

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Alle pareti giallastre campeggiavano i manifesti sbiadi-ti dell’era della contestazione. Un poster di James Dean,un altro di Sigmund Freud, la locandina di Easy Rider edue immagini decrepite di Che Guevara, la star in bian-co & nero e l’eroe a colori. Gianni aprí le persiane delledue finestre, lasciando entrare una folata di aria gelata,assieme ai pallidi bagliori di una giornata cupa. Miguardai attorno eseguendo una lenta carrellata. Sullaparete di destra, una mensola sbilenca carica di libriaccartocciati dall’umidità e una vecchia radio militareposta su una mensola al di sopra di un giaciglio, chesegnalava ancora le tracce del suo ultimo abitatore. Sulpavimento di legno giallastro, con tracce di fango rap-preso impastato di sporcizia, un portacenere ricolmo dicicche, un’ipodermica usata e una bottiglia di plastica diacqua minerale priva di etichetta. Scostai con la stam-pella le lenzuola ingiallite, verificando l’esistenza delvecchio materasso di crine, ridotto a un impasto di pol-vere & sperma. Sulla parete di sinistra, il vecchio arma-dio turchese provvisto di specchio, di quelli che neiCinquanta concedevano alle cameriere. Nel centro dellastanza una poltrona di legno impagliato verde pisello,una sedia di legno dello stesso colore, accostata a untavolo costituito da un’asse di compensato, posta su duecavalletti di metallo arrugginito.

“Altro che garçonnière – mi fece Gianni – non ci hopiù rimesso piede.”

“Davvero?”“Sí, perché la pazza dava ospitalità a chiunque,

anche a chi veniva a bucarsi e allora ci ho messo il luc-chetto – spiegò Gianni e poi – ti ricordi quando diceviche ci avresti girato un film?”

“Ah già... e invece...” – dissi interrompendomi, men-tre qualcuno nel corridoietto stava segnalando la suaposizione.

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2.I camaleonti

Quarant’anni suonati, un volto segnato attraversatodal fascio di luce della lampada da tavolo, seduto a unascrivania ingombra di fogli dattiloscritti e di portacene-re zeppi di cicche, batte furiosamente sulla tastiera delcomputer, neanche fosse una Lettera 22.

Drinn... Drinn... Due squilli di telefono prima chel’uomo afferri la cornetta.

“Alò?” – dall’altra parte solo un clic. Alex riattac-ca e ributta lo sguardo sullo schermo luminoso, fino aquando il cursore si blocca su questo titolo:

I CAMALEONTIComplotto per un assasinio infame

Mauro Ros si è trovato da solo in mezzo a uncampo con i riflettori accesi, poi qualcuno nel buio hasparato.

Chi?Perché?Alex aspira una boccata di fumo, fissa per un altro

istante il video e poi si alza, va verso la parete, staccaun dardo piumato dal bersaglio di sughero e lo rimandaa conficcarsi nel centro del target, su cui è appiccicatal’immagine ritagliata dell’arcinota faccia da cinghiale.Ora ritorna al tavolo, schiaccia il tasto d’invio e il sibi-lo della stampante si missa con l’Autunno di Vivaldimentre la luce dell’alba si sta facendo strada dalle due

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cia. Rientrai in camera che ormai era sera. Mi affacciaialla finestra buttando lo sguardo sui tetti imbiancati dineve e lo riabbassai sul cinema sottostante, davano “Unlupo mannaro americano a Londra”. Richiusi le persia-ne lasciando aperti i vetri, e continuando a saltellare sulpiede sano iniziai la complessa manovra per andare aletto. Afferrai le lenzuola pulite che Gianni mi avevalasciato e preparai il letto. Quindi mi tolsi l’accappatoiodi spugna rossa, indossai un pigiama di seta, mi inondaid’acqua di lavanda, mi lasciai andare sul letto, che emiseun sinistro cigolio di molle arrugginite, e mi ci adagiai,subito sopraffatto da un sonno denso di incubi colorati.

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3.L’inizio

Niente televisione né telefono. Il gesso fino all’in-guine mi impediva i movimenti. Di uscire da quellasituazione neanche a pensarci, anche se potevo sempre“uscire” da una delle due finestre, dato che l’altra, quel-la con le persiane sempre accostate, mi serviva da frigoper l’acqua minerale. Passavo le giornate ad ascoltare ilrumorio dal marciapiede dell’isola pedonale sottostante,ricordandomi quel che diceva il vecchio Cinasky:

“Dacci dentro, dacci dentro forte, come un combatti-mento di pesi massimi, e ricordati le vecchie pellacceche si son battute cosí bene: Hemingway, Céline,Dostoevskij, Hamsun. Se pensi che loro non impazziro-no nelle loro camerette, proprio come ti capita adesso,senza donne, senza mangiare, senza speranza, allora nonsei ancora pronto.”

Difatti non lo ero. Innanzitutto mi mancava una mac-china da scrivere.

“Mi raccomando che sia elettrica” – avevo detto eGianni aveva provveduto, procurandomi una monumen-tale IBM a testina rotante, con la quale avevo comincia-to a giocare divertendomi a battere lettere senza senso,cosí come mi sembrava essere stata la mia vita. Il mioproblema era sempre stato quello di farla franca e, nono-stante quel che mi era successo, rimanevo un ottimistaincallito. Per ridursi a scrivere non bisogna disporred’altre alternative. E cosí, chiuso in quella stanza, segre-gato in quei diciotto metri quadri ingombri di quel che

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finestre aperte. L’uomo si alza, va a chiudere le persia-ne e si lascia cadere esausto sul divano.

Drinn... drinn... drinn... Tre squilli di telefono,prima che l’uomo si giri verso l’apparecchio e afferrila cornetta.

“Alò?” – dall’altra parte si sente solo un clic!Alex si infila un giubbetto di pelle nera, apre la porta

ed esce. È l’alba e piazza Farnese si mostra in tutta lasua suprema bellezza.

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4.Milady

Una Porsche grigia di polvere accosta lentamentesotto la pensilina dell’Hotel Hassler, nel punto in cui viaSistina converge con Trinità dei Monti. Al volante unquarantenne biondo, mingherlino e occhialuto. Al suofianco siede un Alex elegante, che apre lentamente laportiera, salta fuori dall’abitacolo, richiude lo sportel-lo e si abbassa sul finestrino, rivolgendosi all’amico.

“Ciao bello.”“Ciao amore.”La Porsche viene trattenuta dalla paletta di uno dei

portieri e Alex si infila nella porta girevole, mentre unasignora sulla sessantina è in procinto di uscire da un’al-tra porta a vetri, che un boy le dischiude. Alex se nerende conto e compie un intero giro nella porta, ritro-vandosi con la signora sotto la pensilina e riscuotendoun sorrisetto di plauso da quella che d’ora in poi saràMilady. In quel mentre il portiere dà via libera all’autodi Gianni, che abbassandosi nell’abitacolo invia unsaluto in direzione dell’amico. Il gesto non sfugge aMilady, che lancia un’occhiata stupita ad Alex.

“Non ti preoccupare, è il mio miglior amico” – sigiustifica l’italiano.

Milady non ha il tempo di rispondere, perché Alex leha già preso la mano e accennando un inchino reclinaleggermente il capo e se la porta con garbo alle labbra.

“Sono arrivata da Washington alle sette, sono corsain ambasciata e adesso devo andare a Fiumicino, se ti

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era il mio presente, ma soprattutto di quello che era statauna parte considerevole del mio passato, mi mettevo allamacchina dove restavo incollato per ore e ore senzaavanzare di una riga, e il foglio rimaneva bianco.Cominciai a bere. Di buon mattino mi calavo con lestampelle per quelle rampe sdrucciole e rientravo quasisubito con una boccia di whisky sotto l’ascella. Dopointere giornate trascorse ai margini del deserto, mi but-tavo ubriaco sul letto fino al giorno dopo. Poi una sera,improvvisamente, cominciai a battere, battere, batteresenza riuscire a tener dietro alla velocità del pensiero,proseguendo come un treno nella notte e oltre.

ALDO RICCI

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Finalmente l’auto ha imboccato il ponte e Miladyconsulta l’orologio.

“E allora?” – chiede ancora lei, con l’aria di volerarrivare a una prima conclusione.

“E allora c’è stato un complotto all’italiana – insi-ste Alex – che si è concluso con l’uccisione del mio gurupersonale.”

“Ma chi è?” – chiede lei in tono sbrigativo.“Ti dice qualcosa il nome di Mauro Ros?” – le

domanda lui, scrutandola bene in volto.Milady rimane qualche attimo sovrappensiero.“Aspetta un po’ – fa lei inseguendo i ricordi – ma

non era il leader...”“...del famoso movimento” – la interrompe Alex.“Ma sí... ora ho capito chi è – dice Milady con enfa-

si – non è quello fatto fuori dalla mafia?”“Sbagli! – esclama Alex e riprendendo – che sia stata

la mafia è quello che hanno accreditato i media, con-trollati dagli ex amici & compagni dello scomparso...”

“...i media... – ripete Milady mentre ora la berlinaprocede più spedita su viale delle Milizie – e invece?”

“Invece la mafia non c’entra proprio niente.”“Ah!” – intercala Milady fingendo stupore.“Invece tra i coinvolti a vario titolo ci sono questi ex

amici & compagni della vittima, i cosiddetti indefessi,alcuni dei quali già imputati in un processo clamorosoma non ancora concluso, che nonostante diverse sen-tenze di colpevolezza, li lascia ancora a piede libero,forse proprio grazie all’assassinio di Mauro” – conclu-de Alex, con la percettibile stanchezza di chi sta rac-contando la stessa storia per l’ennesima volta.

BRASILE D’INFERNO

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va di accompagnarmi è l’unico tempo che ti possodare” – taglia corto lei, avvicinandosi a una limousinenon appariscente, mentre il portiere le apre la portieraposteriore. Milady sale seguita da Alex.

“Dove sei diretta?” – le chiede lui, accomodandosinella parte destra del sedile posteriore.

“A Pechino” – risponde Milady, facendo cennoall’autista di partire.

La berlina procede lenta nel traffico caotico dei lun-gotevere e in prossimità del ponte Regina Margherita,Alex estrae un manoscritto dalla borsa e lo porge aMilady.

“Complotto per una morte misteriosa” – finisce dileggere lei, volgendosi verso il volto imperturbato diAlex.

“Complotto di chi?” – vuol sapere Milady, appog-giando il manoscritto sul bracciolo che la separa dalsuo interlocutore.

“È la classica porcata all’italiana – spiega Alex – uncomplotto o meglio un connubio tra insospettabili dimatrici opposte.”

“Ah! – esclama Milady e dopo una pausa – e cioè?”Ora lo sguardo di Alex è nuovamente rivolto all’in-

gorgo in cui l’auto è intrappolata, lo smog rende l’ariairrespirabile, Milady fa cenno di chiudere il finestrino el’autista esegue inserendo l’aria condizionata.

“Ci son tutti dentro fino al collo, – prosegue Alex gla-ciale, mentre la signora scuote affermativamente la testa– politici & giornalisti, nonché qualche direttore di testa-ta o di emittente e tu sai benissimo a chi mi sto riferendo.”

Milady tace come chi acconsente.“Alcuni di questi signori vent’anni fa volevano la

rivoluzione e invece oggi sono culo e camicia con l’at-tuale governo, grazie anche al vostro appoggio – conti-nua e conclude Alex – o forse mi sbaglio?”

ALDO RICCI

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