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Ecomafia 2012

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Ecomafia 2012, la storia e i numeri della criminalità ambientale.

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ECOMAFIA 2012 le storie e i numeri della criminalità ambientale

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ECOMAFIA 2012LE STORIEE I NUMERIDELLACRIMINALITÀAMBIENTALE

OSSERVATORIOAMBIENTE E LEGALITÀ

ANNUARI

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ecomafia 2012le storie e i numeri della criminalità ambientaleA cura dell’Osservatorio Nazionale Ambiente e Legalità di LegambienteEnrico Fontana, Antonio Pergolizzi, Francesco Dodaro, Laura Biffi, Stefano Ciafani,Peppe Ruggiero

hanno collaborato: Francesco Barbagallo, Nuccio Barillà, Gianni Belloni, Annalisa Bucchieri, Sergio Cannavò, Donato Ceglie, Danilo Chirico, Luigi Colombo, Salvatore Crisafulli, Agostino Cullati, Raffaele Del Giudice, Franco Falcone, Luca Fazzalari, Pietro Fedeli, Diego Florian, Mimmo Fontana, Elisabetta Galgani, Salvatore Granata, Tiziano Granata, Luigi Lazzaro, Francesco Loiacono, Raffaele Lupoli, Mauro Masiero, Toni Mira, Nino Morabito, Roberto Mostacci, Ambra Murè, Gabriele Nanni, Antonio Nicoletti, Marco Omizzolo, Davide Pettenella, Sabrina Pisu, Sandro Ploci, Claudio Rancati, Stefano Raimondi, Cristiano Ripoli, Valentina Romoli, Luca Salici, Daniela Sciarra, Laura Secco, Francesco Tarantini, Giovanni Tizian, Angelo Valenza, Lucia Venturi, Mauro Veronesi, Giorgio Zampetti

Le forze dell’ordine (Arma dei Carabinieri, Corpo forestale dello statoe delle regioni e delle province a statuto speciale, Guardia di finanza, Polizia di stato);le capitanerie di porto; l’Ufficio antifrode, l’Agenzia delle dogane; le polizie provinciali; L’Istituto di ricerche Cresme Consulting, la Direzione investigativa antimafia

coordinamento redazionale: Diego Tavazziprogetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo

© 2012 Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milanotel. 02.45487277, fax 02.45487333

ISBN 978-88-6627-038-6

Finito di stampare nel mese di giugno 2012presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)Stampato in Italia – Printed in Italy

Questo libro è stampato su carta riciclata 100%

Si ringraziano Cobat, Conoe ed Ecopneus per il supporto alla realizzazione di questo volume

1. Ecomafia 2012 riporta vicende, nomi di aziende e di persone che compaiono nelle carte delle inchieste giudiziarie, nei documenti istituzionali, nei rapporti delle forze dell’ordine e nelle cronache degli organi di stampa. Per quanti vengono citati, salvo i condannati in via definitiva, valgono la presunzione di innocenza e i diritti individuali garantiti dalla Costituzione.2. Le notizie raccontate in Ecomafia 2012 sono raccolte da atti giudiziari, articoli di stampa e altre fonti giornalistiche fino alla data del 10 aprile 2012.

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sommario

prefazione 7Roberto Saviano

presentazione 15Vittorio Cogliati Dezza

premessa 19

1. inumeri 412. ilbusiness 673. larifiutispa 714. imercatiglobalidell’ecomafia 895. l’ecomafiaincomune 1156. ilsaccodelnord 1257. icentricommerciali:lemafiefannoshopping 1318. l’analisidelladirezioneinvestigativaantimafia 1459. ilnuovoabusivismo 14910. vittimedell’ecomafia 16511. l’agromafia 17312. affarisporchiedenergiepulite 18713. latrattadeicuccioli 19314. ilciclodelcemento 19915. ilciclodeirifiuti 31716. l’archeomafia 42117. ilracketdeglianimali 43118. iclan 447

fonti 456

ringraziamenti 458

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A Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, insieme agli uomini e alle donne delle loro scorte:

Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro,

Vito Schifani e Claudio Traina.

Nel ventennale del loro sacrificio vogliamo ricordare, innanzitutto a noi stessi, che la memoria è semplicemente impegno.

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prefazioneRoberto Saviano

Sono sempre più convinto che senza questo dossier non sia possibile ca-pire il paese. È un appuntamento annuale che aspetto e non semplice-mente perché mi aggiorna sui reati e sulle profanazioni ambientali. Lo aspetto perché racconta le dinamiche, i vettori, le economie che deriva-no dalla distruzione di ciò che rende l’Italia terra d’elezione nell’imma-ginario delle culture mondiali: l’ambiente, la sua storia, la qualità della vita. Qualcuno queste pagine vorrebbe nasconderle. Qualcuno preferi-rebbe non venissero mai scritte. Qualcuno auspicherebbe che non ve-nisse data loro alcuna visibilità, che fossero bloccate, oscurate. Qualcun altro, persino in buona fede, preferisce ignorarne l’esistenza, non leg-gerle per troppo dolore, per non vedere la radiografia dell’aggressione al territorio. Ma in realtà il dossier di Legambiente è un manuale di azio-ne, è una speranza, è un vademecum su come decrittare il crimine am-bientale. In queste pagine ci sono le ferite, ma riconoscerle e mapparle mostra anche la possibilità non così remota di intervenire, di poter ar-ginare e persino in molti casi di salvare il paese. Ciò che devasta l’Ita-lia è da un lato l’abusivismo edilizio e dall’altro la gestione illegale del ciclo dei rifiuti. Il lavoro del dossier di Legambiente è ogni anno quel-lo di individuare le aree a rischio, di comprendere come cambia la geo-grafia criminale in Italia e farsi strumento per i rappresentanti del Go-verno, per gli amministratori locali, per i privati cittadini che vogliano capire cosa accade loro intorno. Che vogliano prendere consapevolez-za e assolvere alla loro funzione primaria, quella di controllo. Guardan-do i dossier prodotti negli anni, i dati che emergono feriscono. Ferisco-no soprattutto perché il fatturato delle ecomafie rimane una delle eco-nomie europee più floride.

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Nonostante la crisi, l’economia ecomafiosa è in attivo. E in un conte-sto simile, talvolta le uniche risorse che restano a certe aree sono proprio territorio e turismo. Le ecomafie quindi, attraverso abuso edilizio e in-quinamento, compromettono finanche le ultime speranze per risolleva-re dalla crisi economica intere aree geografiche. Nel 2011 il guadagno degli ecomafiosi è stato di 16,6 miliardi di euro. Dal 1992 hanno fattu-rato circa 300 miliardi di euro. Mentre il mercato dell’edilizia legale è in perdita (-20%, fonte Cresme), quello dell’abusivismo è sempre più flori-do: 25.800 gli abusi stimati nel 2011 per un fatturato, secondo Legam-biente, di 1,8 miliardi di euro. Dall’ultimo condono edilizio del 2003, sono state costruite oltre 258.000 case illegali, per un fatturato comples-sivo di 18,3 miliardi di euro. A questo proposito, il dossier si concentra sul fenomeno dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, che è stretta-mente connesso a violazioni che riguardano l’urbanistica, la gestione dei rifiuti e, appunto, la mancata repressione dell’abusivismo edilizio. Già 18 amministrazioni comunali, dall’inizio del 2012, sono state commis-sariate e il fenomeno è in netto aumento. Il primato dei reati ambienta-li, anche quest’anno va alla Campania, e questo lo scrivo con molto ram-marico. Il dato generale ci dice che il numero delle infrazioni riscontra-te cresce. Cresce ovunque. Alla Campania va anche il primato dei reati connessi al ciclo dei rifiuti. Non conforta che il numero delle infrazio-ni sia diminuito dal 2010 al 2011 di circa il 14%, perché il mal funzio-namento dell’intera filiera e l’infiltrazione dei clan restano un’emergen-za irrisolta. Crescono i reati legati alla gestione dei rifiuti anche in Ca-labria e in Puglia. Poi ci sono Lombardia, Lazio e Toscana. A dimostra-zione che il Nord non è immune e che non c’è una predisposizione ter-ritoriale o umana a questo genere di illecito. Che la diffusione dei feno-meni d’illegalità nel ciclo dei rifiuti coinvolge tutto il territorio naziona-le essendo spazio per profitti esponenziali che si ottengono in tempi ra-pidissimi. In questo scenario, tracciare la mappa dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa è fondamentale. Questa mappa ci dà la cifra esatta di come siano mutati l’economia nel nostro paese, gli interessi delle or-ganizzazioni criminali e soprattutto di come negli anni queste abbiano scalato lo stivale. Al Nord i comuni sono infiltrati perlopiù dalla ‘ndran-gheta, organizzazione capace di “interloquire” con i poteri locali meglio di mafia e camorra.Dimenticato, rimosso, cancellato dalla memoria collettiva. Il primo co-

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mune sciolto per mafia nessuno lo ricorda più. È un fantasma disarmato, lontano. Eppure il caso Bardonecchia racchiudeva l’essenza della ‘ndri-ne del Nord. Cemento, appalti, forniture, condizionamento della poli-tica. Era il 1995 e da allora poco o nulla è cambiato. Nel 2011 sono sta-ti sciolti Ventimiglia e Bordighera. Nel 2012 Leinì e Rivarolo Canavese, paesi della cintura torinese. Quattro amministrazioni condizionate dal-la ‘ndrangheta in un solo anno. A nord della Linea Gotica protagonista assoluta è la mafia calabrese. Capaci di relazionarsi come nessun altro, i clan della ‘ndrangheta prediligono la piccole amministrazioni. Consa-pevoli che lì si decide in fretta e dell’immediato futuro delle città. Con-cessioni e autorizzazioni. Piani regolatori e appalti. In altre parole: il de-stino dei territori. “La ‘Cemento Spa’ non risparmia nessun lembo d’I-talia”, si legge nel dossier di Legambiente sul ciclo illegale del cemento. Anche qui il primato spetta alla Campania. Un altro primato in negati-vo per la mia regione, che si aggiunge a quelli “conquistati” nelle stati-stiche del rapporto Ecomafia 2012. La Liguria, con 362 illeciti (+13,5% rispetto al 2010), diventa la prima regione del Nord, scavalcando in ot-tava posizione la Lombardia.Quando c’è di mezzo l’oro grigio, come viene chiamato il cemento, af-faristi, sindaci e amministratori comunali non guardano in faccia a nes-suno. A Buccinasco, nell’hinterland milanese, l’ex sindaco Loris Cere-da avrebbe concesso a un privato un’area verde di proprietà del comu-ne per la realizzazione di un centro commerciale. In cambio avrebbe ri-cevuto 10.000 euro. È tutto da dimostrare, ma questo è quanto si legge negli atti della procura di Milano che per Cereda ha chiesto il rinvio a giudizio. Altro comune sciolto perché condizionato dalle ‘ndrine, questa volta in Piemonte. A deciderlo è stato il Ministero degli interni a mar-zo del 2012. Si tratta del comune di Leinì, retto per anni dalla famiglia Coral, prima dal padre Nevio e poi dal figlio Ivano. Costruire, costrui-re, costruire. È anche l’imperativo di Fabrizio Bertot, sindaco di un al-tro comune della cintura torinese, Rivarolo. Bertot è noto per il discor-so elettorale tenuto in occasione delle europee nel bar Italia, di proprie-tà del boss Peppe Catalano. Quel discorso è agli atti dell’indagine Mino-tauro. “Sono convinto che il Piemonte abbia bisogno come terra di tut-ta una serie di opere grosse, importanti. Pensiamo al collegamento con Genova per il porto. Pensiamo all’Alta velocità”. È solo un passo del di-scorso pronunciato dal sindaco di Rivarolo alla presenza del gotha del-

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la ‘ndrangheta torinese. E forse non è un caso quel riferimento alla Tav, nei cui cantieri, da Napoli a Milano passando per Bologna, hanno lavo-rato in subappalto i clan di cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. “Il feno-meno della collusione-corruzione politica in Piemonte, per quanto emer-ge dalle indagini in corso, è più frequente in realtà territoriali non mol-to grandi”, si legge nell’ultima relazione della Procura nazionale antima-fia. E ancora: “Le infiltrazioni mafiose nel mondo della politica sono fi-nora apparse più evidenti a Leinì, Ciriè, Castellamonte, Borgaro Tori-nese e Rivarolo Canavese”. Piccole realtà dove il controllo avviene con maggiore rapidità, senza creare particolari tensioni. Rapporti dalle fon-damenta di cemento. Una distesa grigia che divora la natura circostante. Cemento in cambio di voti. Così nascono comitati misti, in cui siedono imprenditori, direttori d’azienda, sindaci, tecnici, professionisti e mam-masantissima. Nascono relazioni all’ombra di progetti destinati a cam-biare il volto delle città. Emilia e Lombardia, due regioni legate dal ce-mento, da politiche di espansione residenziale. Imprese che dall’Emilia vanno a costruire nell’hinterland milanese. Come Unieco, una delle più importanti cooperative emiliane, che realizzò le opere di urbanizzazione del quartiere Buccinasco Più, un progetto imponente composto da 500 appartamenti distribuiti su 160.000 metri cubi. In realtà, come si leg-ge in alcune informative, la cooperativa reggiana subappaltò a Maurizio Luraghi, condannato in secondo grado per associazione mafiosa, il mo-vimento terra, che a sua volta fece lavorare i camion della cosca Barbaro-Papalia. Risultato? Quelle palazzine sono state costruite sui rifiuti nocivi. Come denunciò durante la requisitoria del processo Cerberus il pubblico ministero Alessandra Dolci. Furono trovate tracce di idrocarburi, eternit, terra mista a gasolio, cinghie di trasmissione, rifiuti, blocchi di cemen-to. A sversare i veleni sotto il terreno di quei palazzi sono stati, secondo il pubblico ministero, gli uomini della ‘ndrangheta a cui l’imprenditore lombardo aveva affidato il movimento terra. Unieco non è stata sfiorata da quella indagine, che ha portato alla condanna dei capi del clan Bar-baro-Papalia e dell’imprenditore Luraghi. Perdere di vista l’ultimo pas-saggio della filiera non è reato, ma di certo non è un argine alle infiltra-zioni mafiose nel ciclo del cemento. Per quegli sversamenti intanto so-no state chiuse le indagini. Secondo il pubblico ministero Paola Pirot-ta, Loris Cereda, l’ex sindaco di Buccinasco, Mario Pecchia, importan-te immobiliarista milanese, e Renato Pintus, ex funzionario della Fede-

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razione milanese del Pci-Pds, già coinvolto in una vicenda di tangenti negli anni Novanta, avrebbero “realizzato e gestito illecitamente e senza autorizzazione una discarica di rifiuti speciali pericolosi e non pericolo-si”. Oltre 150.000 metri cubi di rifiuti movimentati, dicono gli accerta-menti. Una massa di veleni che ha cambiato il volto di quell’area. È l’I-talia unita sotto l’insegna Ecomafie Spa.Ecco, entrare in questo dossier spesso significa provare paura per il pa-ese in cui viviamo, per ciò che mangiamo, per l’aria che respiriamo, per l’acqua che beviamo. Eppure ci sono pagine che non possono che dar-ci coraggio. Coraggio di denunciare, di parlare, di tracciare tutto ciò che accade sotto i nostri occhi e che è diverso da come dovrebbe essere. In questo dossier, le pagine che riguardano i caduti, gli assassinati per di-fendere il proprio territorio, sono le più toccanti. Un elenco di persone che si sono opposte allo scempio, spesso con un semplice gesto di buon senso, a volte con caparbia resistenza. Persone che hanno sentito sin nel profondo il ruolo che ricoprivano, fosse anche semplicemente quello di privato cittadino. Poi ci sono vittime inconsapevoli, vittime di inciden-ti che non sarebbero mai dovuti avvenire.Se oggi Porto Selvaggio è un’oasi di bellezza mediterranea, lo dobbia-mo all’estremo sacrificio di una giovane donna, Renata Fonte, assessore alla cultura e alla pubblica amministrazione di Nardò, in Puglia. Rena-ta viene uccisa nel 1984 dalla criminalità organizzata per essersi oppo-sta in consiglio comunale a una speculazione edilizia nel cuore del par-co. Aveva 33 anni, due figlie piccole e un amore profondo per la sua ter-ra. Marcello Torre, viene freddato l’11 dicembre 1980 da due killer che lo aspettano fuori casa. Marcello è sindaco di Pagani, comune in pro-vincia di Salerno. A condannarlo a morte, a pochissimi giorni dal sisma che colpì gran parte della Campania, fu la sua opposizione, nel periodo di massima potenza della Nco (Nuova camorra organizzata), all’affida-mento ad aziende vicine a Cutolo di appalti per la rimozione delle ma-cerie. Su ordine di Cutolo nel 1980 viene assassinato anche Mimmo Be-neventano, 32 anni, medico e consigliere comunale del Pci di Ottavia-no, roccaforte della Nco. E prima di lui nel 1978, Pasquale Cappuccio, avvocato iscritto al Psi. Mimmo e Pasquale si opponevano alla devasta-zione di quello che poi sarebbe diventato il parco nazionale del Vesuvio. Si opponevano alle speculazioni edilizie, allo sversamento illegale di ri-fiuti gestito della camorra. Ma in Campania, negli anni Ottanta si mori-

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va anche per vendette trasversali. Famiglie messe a dura prova, distrutte perché si aveva un parente impegnato nell’antimafia. L’11 ottobre 1983 Franco Imposimato, fratello del giudice Ferdinando Imposimato che in quel momento era impegnato contro mafia e organizzazioni criminali, viene ammazzato da undici colpi, all’uscita della fabbrica Face Standard dove lavorava, a Maddaloni. Franco era un operaio sindacalista, partico-larmente sensibile ai temi dell’ambiente e da sempre impegnato contro lo scempio delle cave abusive. Era in macchina con sua moglie e il lo-ro cane, stava tornando a casa dai figli piccoli, quando i killer si avvici-nano e lo ammazzano. Un omicidio che fu prova di un patto criminale tra mafia e camorra. Borgo Montello, tra i comuni di Latina e di Nettu-no, è uno dei posti più fertili della campagna pontina. Dal 1974 in quel borgo funzionava una discarica in cui iniziarono ad arrivare illegalmen-te camion che scaricavano fusti di rifiuti provenienti delle concerie to-scane, ma soprattutto rifiuti tossici provenienti da Livorno. Don Cesa-re Boschin, il parroco di quel piccolo centro, non riusciva a restare im-passibile davanti alla rabbia degli abitanti del paese. Don Cesare usava la sua tonaca per denunciare, ma quelle sue denunce gli costarono la vi-ta: fu brutalmente assassinato il 30 marzo 1995. Resta un mistero, inve-ce, la morte di Vincenzo De Mare: il suo killer non ha ancora un nome, ma soprattutto ancora non si sa per conto di chi abbia agito. Vincenzo è un autotrasportatore di Scanzano in Basilicata e viene ammazzato nel 1993 in località Terzo Cavone, la stessa dove il governo Berlusconi an-ni dopo avrebbe voluto impiantare il sito unico di stoccaggio per i rifiu-ti nucleari. Vincenzo sarebbe stato ucciso per aver rifiutato un carico di rifiuti radioattivi, ma tutto è ancora avvolto nell’ombra perché chi stava facendo indagini viene trasferito. E c’è poi la vicenda Natale De Grazia, capitano di fregata, che si lega a filo doppio alle decine di affondamenti di navi cariche di rifiuti nocivi a largo delle coste del Mediterraneo. La sua morte è un mistero, uno dei tanti nella Calabria dei business illegali su cui l’ufficiale indagava, sotto la guida di Francesco Neri. Natale muo-re improvvisamente il 13 dicembre 1995 poco prima dell’incontro con importanti testimoni in Liguria.I nomi delle vittime dell’ecomafia sono tanti. Un lungo elenco fatto an-che di nomi che mostrano come sia difficile trovare soluzioni, mandan-ti e motivazioni. Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e, ultimo, Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, il sindaco pescatore che per tutti era sinonimo di svi-

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luppo e tutela dell’ambiente. Anche per questo il dossier di Legambiente è uno strumento di analisi e di controllo da cui non possiamo prescinde-re. E lo è tanto più in questo momento di totale incertezza, di mancanza di un nemico giurato. Un momento storico difficilissimo in cui tutti si sentono nemici di tutti. In cui qualsiasi argomento si affronti c’è sempre chi obietta che esiste altro di cui è più necessario occuparsi. Continua-no a scrivermi: “Perché ti occupi di Cina quando in Italia siamo in pie-na crisi economica?”, “perché ti occupi delle condizioni delle donne in Medio Oriente quando qui da noi le donne incinte vengono licenziate?”, “perché non capisci che contro i soprusi dello stato non può esistere altro che la violenza?”. Ecco, sempre più spesso, soprattutto negli ultimi tem-pi, sono queste le mail e i messaggi che ricevo. E mi fanno male, perché vedo un’Italia sempre più chiusa, sempre meno in grado di capire che quel che accade nel mondo ha conseguenze ovunque. Che mancanza di democrazia in Cina significa effetti disastrosi sull’economia anche italia-na. Ecco, il subdolo corrodere la terra delle ecomafie è per me un argo-mento centrale, fondamentale, necessario. Non permetterò mai a nessu-no di dirmi che farei meglio a occuparmi di altro, che la crisi ci impone altri argomenti. Che ora ci sono altre priorità. Questa per me è priorità assoluta: il nostro mondo, la nostra terra e la sua difesa. Questo dossier è un atto d’amore verso la possibilità di continuare a vivere in questo pa-ese non trasformando l’avvelenamento e la distruzione nell’unica forma di business. Questo dossier è la prova che per contrastare sprechi e crisi è necessario smantellare le economie ecomafiose. Prendere i loro capita-li, difendere il paese. Sempre.

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presentazioneVittorio Cogliati Dezza, Presidente nazionale Legambiente

Una volta era il piccolo favore, il piccolo vantaggio personale nel quoti-diano, sul proprio territorio. Oggi è un fattore strutturale che caratteriz-za il funzionamento del sistema paese. Una volta c’era una chiara linea di demarcazione tra legalità e illegalità, tra valori pubblici e vizi priva-ti. Oggi i vizi privati e le relazioni pubbliche formano un tutt’uno indi-stinto, si confondono e si rafforzano reciprocamente in un’unica “zona grigia”. Il cui lievito è la corruzione, dove economia legale ed economia illegale entrano organicamente in contatto, si intrecciano e si sostengo-no a vicenda, quasi sempre con la “mediazione” della pubblica ammini-strazione, il ruolo insostituibile dei “colletti bianchi” e di nuove “facce pulite”. Un ampio spazio che è funzionale non a qualche specifica cosca mafiosa ma a tutto il sistema, perché consente e garantisce l’espansione e la penetrazione dei clan nel sistema politico ed economico nazionale. Questa trasformazione, ovviamente, non è avvenuta dalla mattina alla se-ra, ma è il risultato di una nuova strategia delle mafie (che, potremmo dire con qualche gusto del paradosso, hanno sostituito la lupara con la corru-zione), inesorabilmente avanzata nell’era berlusconiana, senza alcun con-trasto neanche in occasione delle parentesi di governo del centro sinistra. Colpevolmente o meno non si è voluto capire che era ed è nella prospe-rità della zona grigia che si è sviluppato e si sviluppa l’ossigeno per la cri-minalità organizzata. Così, mentre tutti i governi e i parlamenti che si so-no succeduti in questi 15 anni non sono riusciti a inserire i reati ambien-tali nel codice penale (la prima proposta di legge è del 1997), la “libera-lizzazione” del falso in bilancio ha rappresentato solo la punta dell’iceberg della corruzione in irresistibile espansione, accelerata e rinforzata dai rei-terati tentativi di ottenere nuovi condoni edilizi. La lievitazione dei costi delle opere pubbliche, per esempio, tra il 2007 e il 2010 secondo le in-

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dagini della magistratura è stata del 40% tra aggiudicazione e costo fina-le, mentre nell’era di Tangentopoli la tassa della corruzione oscillava tra il 10 e il 20%. A oggi, secondo la fotografia della Corte dei conti, il fe-nomeno vale circa 60 miliardi di euro (il che vuol dire che l’Italia da so-la realizza la metà del giro economico della corruzione dell’intera Unione europea), a cui si aggiungono i circa 100-150 miliardi di evasione fiscale (e spesso i due fenomeni sono intrecciati). È una zona grigia economica-mente e socialmente (e mi verrebbe da aggiungere eticamente) imponen-te, che non è stata minimamente intaccata dai successi ottenuti con l’ar-resto di numerosi latitanti. Anzi, le difficoltà che incontra lo sblocco dei beni confiscati (oggi lo strumento più potente ed efficace nella lotta alle mafie) sono il segnale che qualcosa proprio non va nella lotta all’illegali-tà organizzata. I dati sono sconcertanti: i beni immobili confiscati sono oltre 10.500, ma poco più della metà è stato destinato per finalità istitu-zionali o sociali (esattamente 5.835, secondo i dati dell’Agenzia naziona-le per i beni confiscati, aggiornati al 3 maggio 2012); il resto è bloccato in un limbo, soprattutto a causa delle ipoteche bancarie. Va ancora peggio per le aziende: oltre 1.500, due terzi delle quali senza un futuro davanti, spesso condannate al fallimento. Dati paradossali in un paese che ha fat-to delle deroghe a norme e vincoli uno strumento di governo quotidia-no e ora non sa dare le ali all’Agenzia nazionale, tanto che l’unica idea in campo sembra essere quella della vendita ai privati, che vorrebbe dire far rientrare dalla finestra chi si è cacciato dalla porta. Infine, se ce ne fosse ancora bisogno, l’ultimissima discussione sulla legge contro la corruzione dimostra quanta e quale sia la volontà, almeno di alcune forze politiche, di affrontare seriamente il problema della lotta a ogni forma d’illegalità. La nostra grande preoccupazione per la zona grigia risiede nei segnali che vengono dal sistema paese: la mancanza di consapevolezza, la contigui-tà con la politica, il coinvolgimento delle imprese, anche quelle che no-minalmente fanno parte dell’economia sana (nonostante il neo presiden-te Squinzi nella sua prima relazione all’Assemblea di Confindustria abbia dichiarato che “legalità e imprenditoria sono un binomio inscindibile”: lo prendiamo come un auspicio), la reazione della gente che sta prendendo la strada della disaffezione politica e dell’astensione più che dell’impegno a cambiare. È una crisi estesa dell’etica pubblica, che ha intaccato i fon-damenti della società democratica. Senza porre un argine, senza tagliare i canali di collusione, corruzione, fiancheggiamento tra l’economia sana

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e l’economia illegale sarà impossibile battere le mafie là dove oggi, anche grazie alla crisi economica, si stanno rinforzando: la holding delle mafie, il cui fatturato, secondo un recente studio di SOS Impresa – Confeser-centi, si calcola possa ammontare a circa 140 miliardi, è l’unica ad ave-re disponibilità finanziarie illimitate, senza dover passare per le banche. Secondo la Banca d’Italia l’economia “inosservata” nel 2008 era pari al 31,1% del Pil, una cifra esorbitante, di cui il 12,6% riconducibile alla criminalità e la parte restante (18,5%) all’evasione fiscale, con un aumen-to del 6,5% rispetto al 2006. Secondo lo studio il balzo in avanti “po-trebbe essere dovuto in parte all’arrivo della crisi economica nel 2007 in Italia come nel resto d’Europa [...]. Le aspettative negative di cittadini e imprese potrebbero aver portato a un aumento della parte celata dei gua-dagni tassabili, a un più forte ricorso al lavoro nero e anche a un possi-bile slittamento dentro l’economia illegale”. Di fronte a un preoccupante aggravamento di tutti i dati su corruzione ed economia illegale dobbiamo registrare una “disattenzione” anche da par-te del governo attuale: l’articolo 14 del decreto sulle semplificazioni, che prevede la soppressione dei controlli per le aziende certificate ISO 9001 ne è purtroppo la conferma. Da un lato non si semplifica nulla per quan-to riguarda le aziende con certificazione ambientale (Emas, ISO 14001), dall’altro, prevedendo la “soppressione” dei controlli, si finisce per cancel-lare addirittura quelli previsti dalla direttiva Seveso per le aziende a rischio industriale, con evidente violazione degli obblighi europei. Come spesso è successo in questi anni, attraverso il cavallo di troia della giusta esigen-za di semplificare le procedure e le autorizzazioni, si inseriscono regole e norme che impediscono i controlli: altro ossigeno per la la zona grigia. Per evitare i rischi di una pericolosa deregulation c’è una sola strada: raf-forzare il monitoraggio ambientale pubblico, omogeneizzando al livello qualitativo più alto il sistema delle Agenzie per la protezione dell’ambien-te, e introdurre un nuovo sistema di tutela penale, con un’attenta depe-nalizzazione dei reati esclusivamente formali e il contestuale inasprimen-to delle sanzioni per quelli più gravi. Ancora oggi chi inquina gravemen-te l’ambiente o devasta il paesaggio, realizzando discariche illegali o cave abusive, solo per fare due esempi, viene chiamato a rispondere di reati di natura contravvenzionale (per il reato di discarica abusiva è previsto l’ar-resto da tre mesi a due anni e un’ammenda da 2.600 a 26.000 euro, la stessa comminata a chi inquina suolo, sottosuolo e acque, se non provve-

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de alla bonifica, che costa 200.000 euro a metro quadro; mentre per ca-vazione illegale l’ammenda massima è solo di 1.032 euro). È in questo contesto, inquietante e con gravi segnali di assuefazione, che si inserisce il nostro rapporto Ecomafia 2012. Anche quest’anno i reati am-bientali sono in aumento. Un dato che certo attesta la migliorata capacità investigativa e di intervento delle forze di polizia e della magistratura, ma insieme ci restituisce un quadro d’allarme. Soprattutto perché, a ben ve-dere, aumentano i reati di incendio doloso, quelli contro la fauna, quelli dell’archeomafia e quelli nella filiera agroalimentare, che raggiunge la ci-fra record di 1,2 miliardi di euro. È un vero assalto ai tesori d’Italia, che impoverisce il paese in un momento di grave crisi economica, mentre il fatturato illegale è stabile, nonostante la diminuzione degli investimenti in opere pubbliche nel Sud, normalmente considerati quelli più a rischio. Dati che confermano che il profilo dominante delle mafie oggi è quello di un vero e proprio sistema imprenditoriale, articolato e flessibile, capace di adeguarsi rapidamente alle mutate condizioni del contesto e che “inqui-na” profondamente anche le pubbliche amministrazioni: in questi primi mesi del 2012 sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa ben 18 comuni (erano stati solo 6 in tutto il 2011 e sempre 6 nel 2010). Siamo tornati ai ritmi dei primi anni Novanta. Un segnale ancor più allarmante in previ-sione di Expo 2015, per non parlare dell’ipotetico cantiere in Val di Su-sa. Non c’è davvero più tempo da perdere. Il Parlamento deve approvare un vero ed efficace sistema sanzionatorio contro la corruzione, a comin-ciare dalla ratifica della Convenzione di Strasburgo del 1999, e deve rapi-damente inserire i reati ambientali nel codice penale, come previsto dalla direttiva comunitaria del 2008, che è stata di fatto aggirata. Infine serve un segnale inequivocabile che solo un vero e proprio piano nazionale di lotta all’abusivismo può dare al paese. Legambiente, intanto, si impegna a lanciare la campagna Abbatti l’abuso per attirare l’attenzio-ne dei cittadini e impegnare le amministrazioni responsabili ad abbatte-re i manufatti fuorilegge, senza accettare nessun compromesso, nessuna convivenza con l’illegalità. Un segnale perché nel paese si diffonda una rivoluzione culturale e una reazione etica che condanni i furbi e li consi-deri – quali sono, i primi alleati delle mafie. E che crei le condizioni per tutelare e promuovere quell’economia sana rappresentata da chi rispet-ta scrupolosamente la legge e subisce, ancora oggi, la concorrenza sleale di ecofurbi ed ecomafiosi.

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Un assalto costante e premeditato ai tesori d’Italia, dalla sua biodiversità al patrimonio storico, artistico e archeologico fino alle sue produzioni agricole di qualità. È questa l’istantanea che emerge dalla lettura dei dati contenuti in Ecomafia 2012. Crescono, infatti, i reati relativi agli incendi boschivi, quelli contro la fauna, i furti di opere d’arte. E addirittura si triplicano in un anno quelli commessi lungo la filiera agroalimentare. Sembra un campo di battaglia, il nostro paese. Dove sono in gioco la bellezza dei nostri territori, la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, la stessa possibilità di uscire dalla crisi valorizzando, anche dal punto di vista economico, le risorse di cui disponiamo. Sono stati ben 33.817 i reati ambientali accertati nel corso del 2011 (il 10% in più rispetto al 2010), quasi 93 al giorno, quattro ogni ora. E parliamo solo di quelli di cui si è venuti a conoscenza attraverso le attività delle forze dell’ordine e della magistratura. Cifre impressionanti, risultato di un attacco frontale che non esclude alcun territorio e non accenna a perdere forza.Per conoscere meglio l’Italia che dobbiamo difendere da questo assalto, bisogna partire da qui. Dai numeri che segnano un primato negativo dietro l’altro, di anno in anno. Dalle centinaia di storie che in ogni edizione facciamo fatica a sintetizzare: tonnellate di veleni scaricati in mare o in qualche fosso; interi complessi edilizi sorti completamente fuori legge; autostrade costruite con la monnezza o gallerie tirate su con cemento depotenziato; prodotti alimentari marci, adulterati o contraffatti; animali trafficati e sfruttati senza pietà; opere d’arte saccheggiate o finite appese alle pareti del boss di turno. Lascia sgomenti raccontare questa Italia, senza edulcorazioni e facili

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infingimenti ma non senza speranza. Perché se siamo in grado di conoscerla è grazie al lavoro straordinario di chi ogni giorno prova a contrastare questo fenomeno e che ringraziamo di cuore: il Corpo forestale dello stato, che si conferma come la prima forza di polizia per numero di illeciti accertati; il comando carabinieri per la tutela dell’ambiente (che anche quest’anno ha messo a segno il maggior numero di arresti per traffico illecito di rifiuti) e quello per la tutela del patrimonio culturale, che ha aumentato i sequestri di opere e reperti rubati dai trafficanti di bellezza; le capitanerie di porto, che hanno moltiplicato gli sforzi, e i risultati ottenuti, nella tutela delle nostre coste e del mare; la Guardia di finanza, che ha visto incrementare in maniera molto significativa nel corso del 2011 le proprie attività contro la criminalità ambientale e le sue ripercussioni economiche; la Direzione investigativa antimafia, per il lavoro di analisi e l’attività di contrasto sviluppata verso le organizzazioni mafiose, soprattutto con il sequestro ingente di beni e società; l’Agenzia delle dogane e in particolare l’ufficio antifrode, a cui si devono gli ingenti sequestri di rifiuti trafficati illegalmente su scala globale attraverso i porti del nostro paese; la Polizia di stato, che ha aumentato nello scorso anno i suoi interventi in materia d’illeciti ambientali; i corpi forestali delle regioni a statuto autonomo e quelli delle polizie provinciali, che ci hanno fornito dati preziosi per completare il nostro lavoro di ricerca, analisi e denuncia. Un ringraziamento particolare, per le statistiche con cui hanno arricchito questo nostro lavoro, va infine al comando carabinieri politiche agricole e alimentari e a quello per la tutela della salute. Con tutti condividiamo non solo i numeri elaborati in questo rapporto ma un impegno quotidiano e diffuso sul territorio, in difesa dell’ambiente e della legalità. Come loro ci misuriamo con un’Italia che vorremmo diversa da quella che prende corpo in queste pagine. E che non ci piace, fatta di mafie, certo, ma anche di pseudo-imprenditori e faccendieri, funzionari pubblici e uomini delle istituzioni corrotti che hanno trovato nel business ambientale il terreno ideale per la loro forsennata ricerca di profitto illecito. Così, mentre il paese si deve misurare con la recessione economica e le sue drammatiche conseguenze sociali, ecomafiosi ed ecocriminali hanno accumulato nel 2011, altri 16,6 miliardi di euro. E il fatturato complessivo dal 1992 a oggi sfiora i 300 miliardi di euro. È un dato, quello del business stimato per lo scorso anno, che deve far riflettere: da un lato, infatti, si assiste al crollo degli investimenti in appalti pubblici destinati alle quattro

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regioni a tradizionale presenza mafiosa (che passano da 10 miliardi di euro a 6,2, con una perdita secca di 3,8 miliardi); dall’altro s’incrementa il fatturato illegale, che sale da 8,3 a 9,4 miliardi di euro. Nell’Italia della crisi economica, delle fabbriche che chiudono e della disoccupazione in crescita, l’ecomafia, insomma, è sempre in attivo. Basta guardare a quanto accade con il fenomeno dell’abusivismo edilizio: il mercato legale crolla, con una flessione stimata dal Cresme in circa il 20%, ma quello del mattone illegale subisce solo leggere fluttuazioni. Sono 25.800, tra nuove costruzioni e trasformazioni significative, gli abusi stimati nel 2011 in base alla ricerca condotta, come sempre, da Roberto Mostacci e Sandro Polci di Cresme Consulting. Il fatturato, secondo le elaborazioni fatte di Legambiente sulla base dei valori di riferimento del mercato immobiliare, è stabile, intorno a 1,8 miliardi di euro. Dal 2003, anno dell’ultimo condono edilizio, a oggi, sono state costruite oltre 258.000 case illegali, per un fatturato complessivo di 18,3 miliardi di euro.Non ci sono solo l’ambiente e l’economia nel mirino di ecomafiosi ed ecocriminali. I dati relativi allo scioglimento dei comuni italiani per infiltrazione mafiosa dall’inizio del 2012 parlano chiaro, con 18 amministrazioni comunali già commissariate. Come sottolinea Toni Mira nel suo contributo, siamo tornati ai ritmi dei primi anni Novanta. Basti pensare che in tutto il 2011 erano stati appena sei i comuni sottratti al governo dei clan e altrettanti nel 2010. Quasi sempre, nei decreti di scioglimento, spuntano gli sporchi affari denunciati in questo rapporto: l’urbanistica, gli appalti, la gestione dei rifiuti, la mancata repressione dell’abusivismo edilizio. Oltre l’80% dei comuni sciolti in Campania dal 1992 a oggi è finito nel mirino delle prefetture per questioni legate alla gestione di lavori pubblici e al business del mattone. Non è un caso, allora, se lungo le filiere illegali del ciclo del cemento e del ciclo dei rifiuti i clan continuano a prosperare: sono 296 quelli censiti fino a oggi, sei in più rispetto al 2010. E proprio dalle inchieste sui traffici illeciti di rifiuti, passate dal luglio 2010 nella competenza delle Procure distrettuali antimafia, arrivano le conferme e le novità più significative: dalla sentenza Vivaio, della Corte di assise di Messina, che ha visto la condanna di boss e gregari di Cosa nostra e il risarcimento di Legambiente, che si era costituita parte civile; all’inchiesta Dangerous hole coordinata dalla Dda di Palermo e condotta dal Noe, grazie alla quale, secondo il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, è

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stata individuata “la prima impresa ecomafiosa del sistema criminale di Cosa nostra nel palermitano”.Altri protagonisti dell’assalto criminale al Belpaese sono, finalmente, alla sbarra, come nel caso dell’importante processo in corso di svolgimento alla Corte di assise di Napoli contro boss e complici del clan del Casalesi, impegnati storicamente nei traffici illegali di rifiuti con devastanti conseguenze ambientali tra le province di Napoli e Caserta. Anche in questo caso Legambiente si è affiancata come parte civile ai magistrati che hanno condotto le indagini e che sostengono l’accusa. Non si tratta di fatti ormai lontani nel tempo. L’ecomafia è in continua evoluzione e basta leggere quanto è emerso dai primi esami delle carte e dei pc trovati nel covo di Casapesenna, dopo la cattura del boss dei Casalesi, Michele Zagaria, per averne un’idea. Il mafioso di terza generazione deve essere giovane, di belle speranze, faccia pulita, studi superiori, buona conoscenza delle lingue straniere. E dovendo selezionare i cosiddetti “cavallucci” da far correre in politica, il boss preferisce all’affiliato più facilmente riconoscibile il neo-laureato, magari con vocazione ambientalista.Gli scenari che si è provato a delineare nella passate edizioni di questo rapporto prendono finalmente corpo nella carte giudiziarie, diventando elementi probanti per definire capi d’accusa che reggono, adesso, la prova dei processi, anche grazie al lavoro prezioso di coordinamento e di impulso svolto dalla Procura nazionale antimafia. La situazione, del resto, non consente distrazioni, come si legge in un brano della relazione del 2011, elaborata dalla Procura guidata da Pietro Grasso: “Vanno (...) richiamate all’attenzione le segnalazioni, approfondite dall’UIF (l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, ndA) nel corso degli ultimi anni, in relazione a imprese operanti nel settore dello smaltimento e riciclaggio di rifiuti, specie di quelli pericolosi. L’operatività segnalata riguarda principalmente cospicui giri di fondi attuati mediante bonifici (anche tramite remote banking) che coinvolgono più società attive, oltre che nel settore della raccolta, del trasporto e dello smaltimento di rifiuti, anche nell’attività di movimento terra e nella gestione di cave. Il legame tra il ciclo dei rifiuti e il ciclo del cemento è, infatti, molto stretto e si fonda sull’utilizzo delle cave abusive, che, una volta esaurite, vengono utilizzate come discariche illegali. La ricostruzione dei flussi ha consentito di osservare che, a giustificazione di tali giri di fondi, vengono emesse fatture per operazioni inesistenti di recupero e smaltimento dei rifiuti,

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che permettono di ‘declassificare’ i rifiuti da pericolosi a non pericolosi e di avviarli, così, a procedure di recupero semplificate e, quindi, meno costose. Il sistema delle fatturazioni garantisce, altresì, l’incasso per intero dei proventi dello smaltimento illecito, caricandone i costi sulle strutture pubbliche”.Non è l’unica minaccia sul versante delle politiche ambientali: “L’analisi finanziaria delle segnalazioni ha identificato altre tipologie particolarmente interessanti – prosegue la relazione – tra esse le segnalazioni, di transazioni finanziarie di ingente ammontare, riconducibili a soggetti operanti nella compravendita di quote previste dalla normativa volta alla riduzione delle emissioni inquinanti (Protocollo di Kyoto). È da rilevare che anche nei tempi più recenti non sono mancate diverse segnalazioni di operazioni sospette relative a flussi finanziari di ingente ammontare, scambiati fra imprese e soggetti attivi nel settore dell’energia eolica e società situate in paesi a regime fiscale privilegiato. Si tratta di vicende finanziarie di particolare rilievo, in termini sia di numerosità di soggetti coinvolti sia di consistenza dei flussi movimentati, concentrate soprattutto in Sicilia ed in Calabria. Ed è stato avviato un sistematico monitoraggio delle segnalazioni in questione, anche a seguito di evidenze finanziarie sul coinvolgimento della criminalità organizzata nella fase di costituzione di alcune ‘società veicolo’, alle quali fanno capo gli impianti eolici. Dall’analisi finanziaria del fenomeno si è osservato che tali ‘società veicolo’, talvolta dopo alcuni passaggi di proprietà, finiscono nella titolarità di holding costituite all’estero. Tali compravendite azionarie comportano possibili rischi di alterazione dei valori di mercato dei corrispondenti titoli societari. Inoltre, il settore d’affari in questione, essendo caratterizzato dal rilascio di concessioni e autorizzazioni da parte degli enti pubblici, si presta ampiamente al rischio di pratiche corruttive. Peraltro, le considerevoli risorse finanziarie necessarie all’acquisto degli impianti e la prospettiva di guadagni attesi elevati creano le condizioni per scambi finanziari di significativa entità, sostenuti da ingenti interventi creditizi. L’esistenza di finanziamenti agevolati e il riconoscimento di contributi pubblici relativi all’energia prodotta attirano naturalmente l’attenzione delle organizzazioni criminali, spinte a effettuare ingenti investimenti nel settore, favorite anche dal ‘controllo’ del territorio nelle regioni meridionali”. Una minaccia, quella sul versante delle energie rinnovabili, che anche grazie all’azione giudiziaria sviluppata negli anni scorsi sembra essersi, fortunatamente,

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ridimensionata, perlomeno in base alle inchieste condotte nel corso del 2011 e rese pubbliche.I clan, questo è certo, hanno giocato – e continuano a farlo – un ruolo determinante nel mettere in piedi i peggiori disegni criminali in campo ambientale, saccheggiare e avvelenare il territorio, dentro e fuori i loro consueti confini territoriali, inquinare anche le filiere di economia pulita. Al Sud come al Nord, come dimostrano gli scioglimenti per mafia dei comuni di Bordighera, Ventimiglia, Leinì e Rivarolo o le inchieste condotte dalla procura di Milano e da quella di Torino sugli interessi della ‘ndrangheta, e non solo, nelle regioni più ricche del nostro paese, raccontate in questo rapporto da Giovanni Tizian, che per il suo puntuale e coraggioso lavoro di cronista ha subito gravi minacce ed è costretto a vivere sotto scorta. Non solo mafie: nella “caccia” illegale ai tesori d’Italia giocano un ruolo fondamentale anche altri protagonisti. E uno degli aspetti che più impressiona dalla lettura di questo rapporto è la quantità di soggetti coinvolti, all’apparenza inappuntabili e con la fedina penale pulita: colletti bianchi, uomini delle pubbliche amministrazioni, pronti a usare le loro prerogative, i loro canali burocratici amministrativi, per farne, come dicono i magistrati, “privato mercimonio”. Certo, non dappertutto è la stessa storia. Così capita di raccontare un’indagine per corruzione della procura di Venezia che ha dei risvolti da commedia all’italiana. I finanzieri, mandati dai magistrati a capire cosa succede nel settore urbanistico del comune di Venezia, la scorsa estate arrestano cinque funzionari per presunte tangenti destinate al rilascio delle pratiche edilizie. I cinque impiegati “infedeli”, a febbraio di quest’anno sono stati condannati in primo grado per corruzione e concussione. Mentre i tre “superstiti”, dipendenti dello stesso ufficio comunale, sono stati affidati dal nuovo direttore alle cure degli psicologi, per alleviare lo stress causato da tutta la vicenda. Vista la mole di indagini e di funzionari pubblici coinvolti in tutta Italia in episodi di corruzione e malaffare, usando lo stesso criterio non basterebbero migliaia di psicologi per confortare gli “scampati”.La corruzione, infatti, è il collante ideale di questo assalto impietoso e vale in Italia, secondo la Corte dei conti, ben 60 miliardi di euro l’anno. Secondo il presidente della Corte, Luigi Giampaolino, “illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolmente presenti nel

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paese, le cui dimensioni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono, spesso faticosamente, alla luce”. E tra i settori della spesa pubblica a forte rischio segnalati dal magistrato contabile ci sono anche quelli dei rifiuti e del cemento. Capita spesso, così, che i pochi soldi pubblici ancora disponibili finiscano nelle tasche sbagliate. In Calabria i cantieri della ‘ndrangheta non soffrono nessuna crisi, anzi lavorano sodo e hanno tanta liquidità (da riciclare) che potrebbero lavorare gratis in eterno; qui gli stessi soldi dei comuni per l’ordinaria gestione dell’immondizia sono finiti in alcuni casi nelle casse di società truffaldine, i cui automezzi sono stati sorpresi dalle telecamere degli inquirenti mentre scaricavano in mare il percolato prodotto dalle discariche. In Campania, com’è noto, i finanziamenti dell’emergenza rifiuti hanno arricchito i clan camorristici, i peggiori nel “mercato criminale”. In Puglia, invece, i magistrati baresi stanno passando ai raggi x una marea di appalti vinti, così pare, corrompendo dipendenti pubblici e frodando la pubblica amministrazione nei comuni di Lucera (Fg), Modugno (Ba) e Barletta. In Sicilia, Cosa nostra mantiene alta la capacità di penetrazione “sistemica” negli appalti e sub appalti, allunga le mani fin dentro le amministrazioni locali. Mentre nel campo della spazzatura è lo stesso sistema di gestione a essere definito dalla Commissione di inchiesta sul ciclo del rifiuti come “organizzato per delinquere” e come “la più eclatante manifestazione della legge dell’illegalità, cioè l’illegalità si è fatta norma e permea negli aspetti più minuti e capillari qualsivoglia aspetto afferente al ciclo dei rifiuti”. In tutti questi casi, le risorse pubbliche piuttosto che risolvere problemi e creare le condizioni per incentivare buone pratiche, si sono trasformate in combustibile per l’esercito mafioso e clientelare. Non è una questione che riguarda, come già accennato, soltanto il Mezzogiorno. Tant’è che secondo l’indice di corruzione dell’organizzazione Transparency International, l’Italia si piazza in fondo alla classifica, al 69° posto nel mondo, ex equo con la Macedonia e Samoa, con il voto poco lusinghiero di 3,9 su 10, ultimo fra gli stati dell’Europa Occidentale e del G8. Perfino la Malesia e Cuba hanno fatto meglio. Nelle pagine di questo rapporto vengono riassunte diverse inchieste per truffa ai danni dello stato nel campo della gestione dei rifiuti solidi urbani o nel sistema degli appalti in Lombardia, nell’Emilia Romagna, nel Veneto, in Liguria. Anche qui corruzione, malaffare e mafia si intrecciano e si mischiano in maniera preoccupante, vecchi riti con moderne tecniche

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finanziarie, vecchi settori con nuovissimi. Un quadro generale, altra nota dolente, costretto a misurarsi con una legislazione ambientale ancora oggi inadeguata ad affrontare con efficacia la sfida della lotta a ogni forma di criminalità ambientale. Proprio per ovviare al limite e all’evidente paradosso di chi considera i reati ambientali “reati senza vittime”, almeno apparenti, quest’anno abbiamo dedicato un capitolo che traccia un primo bilancio di vittime direttamente riconducibili ai fenomeni d’illegalità descritti in questi anni nel rapporto ecomafia. Come Renata Fonte, Marcello Torre, Mimmo Beneventano, Pasquale Cappuccio, Franco Imposimato, don Cesare Boschin, Samir Husic, Vincenzo De Mare, Natale De Grazia, Domenico De Nittis, Carmela Maria e Rocco Fasanella, Martin Decu, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E come il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, che ha insegnato a tutti, concretamente, cosa vuol dire la “buona politica”.

inumeri

Come si è accennato, i reati ambientali accertati nel 2011 sono stati ben 33.817: quasi 93 al giorno e 4 ogni ora, il 9,7% in più rispetto al 2010. La crescita si registra principalmente nel settore agroalimentare, con 13.867 reati, più che triplicati rispetto all’anno precedente; nei reati contro il patrimonio faunistico (7.494); negli incendi boschivi, (7.935, quasi 22 al giorno, per un incremento del 63%) e nei furti di opere d’arte e reperti archeologici che salgono a quota 1.112. In due anni gli illeciti contro l’ambiente accertati dalle forze dell’ordine, dalle capitanerie di porto e dalle polizie provinciali sono aumentati del 17,5%. Hanno il segno “più” anche i numeri relativi alle persone denunciate (27.969, con un aumento del 7,8% rispetto al 2010) e soprattutto quelli delle persone arrestate: 305, ben 100 in più rispetto al precedente rapporto Ecomafia, con un incremento del 48,8%. Sostanzialmente stabile, invece, il numero dei sequestri: 8.765 contro gli 8.771 del 2010.L’analisi dei dati disaggregati per aree geografiche conferma la particolare concentrazione dei fenomeni d’illegalità ambientale nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), con 16.116 illeciti accertati, 2.348 in più rispetto al 2010, pari al 47,7% del totale nazionale (anche questo un dato in crescita rispetto al 2010,

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quando l’incidenza era stata del 44,7%). La regione in testa alla classifica per numero di reati è, come ogni anno, la Campania: 5.327 infrazioni accertate, il 15,8% del totale nazionale: 14,5 reati penali scoperti al giorno. Subito dopo vengono, nell’ordine, Calabria (3.892), Sicilia (3.552) e Puglia (3.345), mentre mantiene il quinto posto il Lazio (2.463). La prima regione del Nord è la Lombardia, con 1.607 reati, seguita dalla Liguria (1.464). Passando ai singoli settori, il ciclo illegale del cemento, anche se con una lieve flessione rispetto al 2010, continua a registrare numeri da capogiro: 6.662 reati accertati nel 2011 e, soprattutto, una mole impressionante di persone denunciate, ben 8.745. Ciò significa che quasi 24 persone al giorno sono incappate nelle maglie della legge per infrazioni alle norme edilizie e di tutela del paesaggio. In flessione anche gli illeciti relativi al ciclo illegale dei rifiuti, dai 5.950 del 2010 ai 5.284 del 2011. Numeri ancora alti, c’è da aggiungere, con ben 5.830 persone denunciate per aver violato le norme penali nella gestione della monnezza. Diminuisce il numero di inchieste per traffico organizzato di rifiuti (ex art. 260 Dlgs 152/2006) ma aumenta il numero di società coinvolte e resta su valori molto significativi quello delle persone arrestate. Nel 2011 hanno indagato 13 procure chiudendo 17 inchieste (l’anno prima erano state 29), con 147 ordinanze di custodia cautelare, 228 persone denunciate, 52 aziende coinvolte (erano 24 nel 2010); 14 le regioni interessate dai traffici e cinque gli stati esteri. Dal 2002 (anno della prima applicazione) a oggi sono state 199 le indagini portate avanti da 87 procure, con 1.229 ordinanze di custodia cautelare, 3.654 denunce, 676 aziende coinvolte, 19 regioni interessate (con l’esclusione della sola Valle d’Aosta) e ben 23 paesi esteri. Nei primi mesi del 2012, invece, le inchieste sono state cinque, con 21 arresti, 177 denunce e dieci sequestri.Come dicono le indagini, e come si racconterà meglio nel capitolo I mercati globali dell’ecomafia, i traffici illeciti si stanno spostando sempre di più sullo scacchiere internazionale, dove stanno prendendo il predominio le mafie transnazionali in partnership con imprenditori locali, anche italiani. Per quanto riguarda, invece, i rifiuti gestiti illegalmente, nel 2011 ne sono state sequestrate ben 346.000 tonnellate, secondo i dati relativi a nove delle 16 inchieste in cui è stato contestato il traffico illecito in base all’art. 260 Dlgs 152/2006. Un quantitativo enorme, per trasportare il quale ci sarebbe bisogno di 13.848 tir, che messi in fila uno dietro

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l’altro, formerebbero una colonna lunga più di 188 chilometri di veleni. Sommati a quelli del 2010, allungano “la strada dell’ecomafia” da Reggio Calabria fino in Svizzera: 1.305 km di veleni. Negli ultimi dieci anni, questa “strada dell’ecomafia” ricostruita in base ai dati disponibili delle inchieste sui traffici illeciti, ha superato i 7.300 chilometri, più dell’intera rete autostradale italiana, che ne misura poco più di 6.661.

ilcicloillegaledeirifiuti

Come già evidenziato nella scorsa edizione del rapporto, sono principalmente scarti di materiale plastico e ferroso, Raae, pneumatici fuori uso, a interessare i trafficanti di mestiere. Materiali da riciclare, quindi, ma non in maniera legale, come confermato, solo per fare un esempio, dall’inchiesta Transformer, in provincia di Grosseto: qui a essere trasformati illecitamente erano gli scarti delle demolizioni delle autovetture, che diventavano anche Cdr, spacciato per essere a norma, da incenerire nei termovalorizzatori. Nel 2011 emerge il solito identikit del trafficante di monnezza, essenzialmente imprenditore, capace di intessere relazioni ai più disparati livelli e di mettere in piedi un sistema di vasi comunicanti con cui sposta carichi di pattume da un punto a un altro, facendo figurare trattamenti fittizi e falsificando sistematicamente le carte, con il cosiddetto giro-bolla. Destinazione finale? Vecchie cave, corsi d’acqua, terreni agricoli, cantieri edili, strade, per esempio. Ribattezzati “la melma” nelle intercettazioni telefoniche condotte dagli uomini della Dia di Napoli e Salerno e i carabinieri di Nola, sono finiti sotto piloni e cavalcavia della superstrada a scorrimento veloce destinata a congiungere l’A30 con il Vallo di Lauro. Ma gli stessi rifiuti alimentano anche traffici illeciti oltreconfine, sulle rotte globali, destinati in paesi onnivori di materie prime. Sulle nostre banchine si sta giocando una partita molto importante, non solo nel contrasto all’illegalità, ma anche alla salvaguardia delle aziende di riciclo che subisco le ruberie dei materiali da lavorare. Nel 2011 le dogane, come viene spiegato nel contributo del direttore dell’Ufficio centrale antifrode, Giovanni Bocchi, hanno sequestrato 7.400 tonnellate di rifiuti (principalmente avanzi e cascami di plastica e metalli) diretti all’esportazione, in gran parte verso la Cina, dai porti di Taranto, Venezia,

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Genova, La Spezia, Ravenna, Gioia Tauro, Napoli, Livorno, Catania, Ancona, Civitavecchia. Un’analisi, quella elaborata dell’Ufficio antifrode, di grande interesse per quanto riguarda, in generale, i flussi di merci a rischio in Italia e in Europa e le possibili azioni di contrasto, soprattutto su scala comunitaria. Come ricorda sempre l’Ufficio antifrode, infatti, i cascami di materie plastiche esportati dall’Italia costituiscono soltanto il 6% della quantità esportata dall’Unione europea, che ammonta a circa tre milioni di tonnellate; mentre nel caso dei metalli addirittura solo l’1%. Ed è da escludere che tutto avvenga all’insegna della legalità. Basta scorrere i risultati delle inchieste relative a traffici internazionali di rifiuti in partenza dall’Italia (sempre ex art. 260 Dlgs 152/2006) dal 2001 al 30 aprile 2012: sono state ben 32 e hanno interessato 23 paesi esteri (dieci europei, cinque asiatici, sette africani), dalla Germania alla Cina, dalla Russia al Senegal. Le persone arrestate in queste inchieste sono stata 170, quelle denunciate 525, le società coinvolte 130. Tornado agli scenari nazionali, una delle operazioni più importanti è si-curamente quella chiamata Poison, del 20 luglio 2011, condotta dalla procura di Vibo Valentia. Coordinata da Mario Spagnuolo, l’inchiesta ha riguardato lo smaltimento illegale di oltre 135.000 tonnellate di ri-fiuti pericolosi, composti da fanghi “altamente inquinanti e pericolosi”, di derivazione industriale (risultati essere composti da alte percentuali di nichel e vanadio), compresi quelli provenienti dalle centrali termoelet-triche di Brindisi, Priolo Gargallo (Siracusa) e Termini Imerese (Paler-mo). Tre le regioni coinvolte: Calabria, Sicilia e Puglia. I rifiuti veniva-no prima stoccati e poi seppelliti in un terreno destinato a coltivazioni di agrumi, in località San Calogero. Una spianata di oltre 100.000 me-tri quadrati trasformata in montagna tossica. Il titolare dell’impresa era già stato arrestato nel 2009 per falsa attestazione di recupero di rifiuti. A questi traffici illegali di rifiuti è dedicato, come sempre, l’inteso lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Gaetano Pecorella, sia attraverso le relazioni territoriali sia con approfondimenti su temi specifici. Tra le audizioni più significative, ampiamente citate nel paragrafo relativo al ciclo dei rifiuti in Calabria, vale la pena citare quella del direttore dell’Agenzia informazione e sicurezza interna (Aisi), il prefetto Giorgio Piccirillo, che si è svolta il 12 luglio del 2011. È lo stesso presidente Pecorella, nell’introdurre l’audizione, a sottolineare alcune novità importanti emerse nel lavoro della Commissione su una vicenda

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che sta particolarmente a cuore della nostra associazione: quella relativa alle navi dei veleni e ai presunti smaltimenti di rifiuti, anche radioattivi, in Calabria. Solo grazie a questa attenzione costante e alla collaborazione offerta dall’Aisi è stato possibile conoscere, finalmente, l’esistenza di documenti archiviati con i numeri 488/1 e 488/3, secondo i quali sin dal 1992 il Sisde avrebbe acquisito notizie relative all’interesse di clan della ‘ndrangheta nello smaltimento illegale di rifiuti radioattivi. Veleni “che sarebbero pervenuti sia dal Centro sia dal Nord Italia, ma anche da fonti straniere”, come ha ricordato lo stesso presidente Pecorella nel corso dell’audizione del prefetto Piccirillo. Si tratta di documenti e segnalazioni che, purtroppo, non hanno avuto finora alcun esito giudiziario, ma che rappresentano, comunque, un passo avanti importante nel tentativo di ricostruire quanto è effettivamente accaduto in quegli anni. E Legambiente si augura che possano seguirne altri nella ricerca della verità.Alle inchieste contro la Rifiuti Spa si aggiungono, nel nostro racconto, le miriadi di storie in cui la monnezza finisce nelle cronache nere, in ogni angolo del nostro martoriato Belpaese. Altre bombe ecologiche che si sommano a quelle passate. In un contesto in cui l’Italia continua a fare brutte figure in Europa: il 27 febbraio 2012, infatti, è giunta da Bruxelles una lettera di messa in mora per l’Italia a causa di ben 102 discariche sparse per la penisola, di cui tre di rifiuti pericolosi, non conformi alla direttiva Ue del 1999.È da sottolineare, infine, anche quest’anno il lavoro svolto nella denuncia di fenomeni d’illegalità da parte del Consorzio Polieco, impegnato in un costante monitoraggio dei flussi di rifiuti in polietilene, che invece di alimentare l’industria del riciclo finiscono per arricchire vere e proprie organizzazioni criminali, anche di rilevanza transnazionale (proprio con il Consorzio Polieco, Legambiente ha realizzato, nel novembre dello scorso anno, il primo rapporto sui traffici internazionali di rifiuti). Così come è significativo l’impegno ribadito, anche nel 2011, dalla società consortile Ecopneus nel contrasto ai fenomeni di smaltimento illegale di pneumatici fuori uso. Due esempi di buone pratiche che provengono dal mondo delle imprese e che dovrebbero essere adottati anche da altre filiere imprenditoriali.

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Si fa veramente fatica ogni anno a raccogliere i casi più importanti di abusivismo edilizio che feriscono il nostro territorio, tanto sono numerosi e diffusi. Tra le indiscusse capitali d’Italia del mattone illegale figurano le province di Napoli e Caserta, con interi quartieri abusivi, le forze dell’ordine costrette giornalmente a rincorrere cantieri illegali, i sigilli sistematicamente violati e le ordinanze di demolizione che restano nei cassetti. Una realtà duramente stigmatizzata dal presidente del Tar Campania, Antonio Guida, durante la relazione con cui ha inaugurato l’anno giudiziario 2012: “L’inefficienza e la tolleranza degli enti locali nel controllo e nella gestione del territorio e l’abusivismo dilagante e talora irresponsabile contribuiscono a determinare, oltre che la distruzione di un patrimonio naturale unico al mondo, risorsa essenziale per attività economiche, investimenti e occupazione, le conseguenze disastrose che puntualmente si sono verificate nello scorso anno”. Non va meglio in Calabria: in provincia di Vibo Valentia, a due passi da Tropea, nel luglio del 2011 è stato sequestrato uno dei centri turistici più importanti della Calabria, lo stesso giorno a Lamezia Terme, un intero quartiere, in contrada Lagani, è finito sotto sequestro perché costruito illegalmente. Seppure in maniera meno appariscente, si contano numerosi casi di abusivismo edilizio anche nelle regioni del Centro e del Nord, in particolare in Liguria (non a caso quella di Imperia è stata negli ultimi cinque anni la prima provincia dell’Italia settentrionale per numero di illeciti nel ciclo del cemento). Vale la pena segnalare, per restare ai fatti di cronaca più recenti, quanto è avvenuto il 29 febbraio del 2012 ad Arcola, a due passi da La Spezia: qui il Corpo forestale dello stato ha sequestrato, perché abusivo, un costruendo complesso immobiliare (residenziale e commerciale) in un’area ad alto rischio idrogeologico, nonostante la regione avesse imposto nell’area il divieto assoluto di edificazione dopo i danni arrecati dall’alluvione del 25 ottobre 2011; oppure il blitz scattato a Campolongo Maggiore, in provincia di Venezia, dove è stato sequestrato un complesso di nove appartamenti, due negozi e sei unità direzionali.Il ciclo del cemento, legale e illegale, è storicamente un settore prediletto dalle mafie, che possono contare da sempre su un ben collaudato sistema di connivenze e complicità. Una presenza diffusa nel paese, come segnala anche l’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia, ma che in

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diversi contesti è ormai da tempo “strutturale”, con ditte mafiose talmente forti da fungere sempre e comunque come attori principali nei cantieri. È stato lo stesso procuratore generale di Palermo, Francesco Messineo, a dichiarare recentemente come “il sistema economico siciliano, con particolare riguardo al settore degli appalti pubblici, sia stabilmente sotto il controllo della mafia”.In una recente audizione presso la Commissione finanze della Came-ra, il comandante generale della Guardia di finanza, il generale di corpo d’armata Nino Di Paolo, ha sottolineato come il mercato del calcestruz-zo sia “oggetto di numerose indagini che hanno svelato, in determinate aree, veri e propri monopoli di aziende legate alla criminalità organizza-ta (...). La nostra esperienza operativa – ha aggiunto – testimonia come questi fenomeni illeciti presentino, inoltre, due ulteriori caratteristiche: la convergenza di comportamenti criminali ed il ruolo, quali registi del-le operazioni illecite, di professionisti”.Le betoniere dei clan non lavorano soltanto al Sud. Basta leggere, per esempio, quanto viene scritto nella relazione 2011 del “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica” (che fa capo al Consiglio dei Ministri e coordina il lavoro dei servizi segreti): “I sodalizi mafiosi sono intenzionati a proiettare le loro attività verso le regioni più ricche del Centro Nord, alla ricerca di favorevoli opportunità per la gestione affaristica dei proventi illeciti. È prevedibile che essi, per agevolare le attività economico-imprenditoriali, incrementino la ricerca di contatti e mediazioni per l’inserimento di propri referenti nei circuiti decisionali territoriali”. Un ruolo attivo, quello dei clan, “nei tradizionali ambiti, quali l’edilizia, l’immobiliare, la grande distribuzione, lo smaltimento illecito di rifiuti”. Basta ricordare del resto i risultati delle recenti inchieste della magistratura sulle mire dei clan mafiosi nei ricchi appalti per l’Expo 2015 di Milano (un affare da 25 miliardi di euro) per averne una conferma. Come ha spiegato nella sua ultima relazione la Corte dei conti, sono soprattutto la fasi successive all’aggiudicazione dell’appalto pubblico a presentare le maggiori criticità per il rischio di penetrazione delle mafie: “La criminalità organizzata tende ad assumere un ruolo preponderante non tanto nella fase dell’aggiudicazione, ma nella fase dell’esecuzione, privilegiando il suo inserimento, anche nel circuito economico delle grandi opere, attraverso il sub-appalto o le attività di fornitura di merci e servizi locali, e rappresentando, tra l’altro, una fonte di costo ‘extra’. Del

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resto – si legge nella relazione – la libertà di cui gode il soggetto esecutore [il general contractor deve assicurare l’esecuzione dell’opera con ogni mezzo e non deve scegliere le imprese mediante procedure concorsuali] può trasformarsi in occasione di infiltrazione malavitosa”. Appalti e non solo: uno dei “punti d’incontro” preferiti dai clan e dai loro complici è quello dei centri commerciali, come raccontiamo da diversi anni dalle pagine di questo rapporto. Luoghi dove riciclare denaro, con decine di casse sempre a disposizione, far lavorare le ditte locali punciute, imporre i propri prodotti nella grande distribuzione e creare consenso sociale: insomma consumare territorio, non necessariamente in maniera illegale, e plasmarlo in base ai propri interessi, questa volta decisamente illeciti. Per agevolare gli affari, anche quando si tratta di ottenere concessioni e licenze per aprire uno di questi centri, i clan hanno cinto d’assedio tanti comuni. Attualmente, quelli sciolti per condizionamento mafioso sono 30, dei quali ben 18 commissariati dall’inizio dell’anno. Quattro fanno parte di regioni del Nord: Bordighera, Ventimiglia, Leinì e Rivarolo, finiti nelle “attenzioni” della ‘ndrangheta. Per altri sei comuni sono in corso gli accertamenti delle commissione d’accesso agli atti disposte dal Ministero dell’interno: due in Calabria, tra cui lo stesso comune di Reggio, altri due in Campania, uno in Sicilia e uno in Piemonte. A proposito di quest’ultima regione, dopo il recentissimo scioglimento di Rivarolo (23 maggio 2012), rimane ancora in bilico Chivasso. Per entrambi, la richiesta di scioglimento è nata dopo l’inchiesta Minotauro, condotta dalla procura di Torino, guidata da Giancarlo Caselli: a Rivarolo è finito in manette la scorsa estate il segretario comunale con l’accusa di voto di scambio, mentre nel caso di Chivasso a dare la stura all’invio dei commissari è stato il recente arresto per 416-bis di un ex assessore comunale.Il record di comuni infiltrati dai clan va comunque alla Campania, in particolare alla provincia di Napoli. In alcune di queste amministrazioni, la potenza dei costruttori mafiosi è enorme, tanto da lasciare stupefatti gli stessi inviati prefettizi. A San Giuseppe Vesuviano (che è al secondo scioglimento), per esempio, un ergastolano s’è costruito una villa completamente abusiva in pieno centro storico, a 200 metri dal municipio, senza che nessuno abbia mai controllato. Col tempo l’ha pure allargata, evidentemente per esigenza familiari: da 220 metri quadrati a 520. Nonostante fosse completamente fuori legge, la moglie ha chiesto e ottenuto l’allaccio dell’acqua e dell’energia elettrica.

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Il condizionamento mafioso arriva ovunque, dagli uffici tecnici dei comuni a quelli delle grandi imprese costruttrici: quando vincono gli appalti in regioni come la Calabria non scelgono le ditte a cui affidare parte dei lavori con ricerca di mercato ma con logiche che i magistrati definiscono “anomale”. Dove non paiono servire, alle volte, per evitare rischi, nemmeno le comunicazioni inviate dalla prefettura, che segnalano le imprese sospette. La preoccupazione pare essere quella di non disturbare i mafiosi: meglio convivere con la ‘ndrangheta, tanto a pagare sono i contribuenti. E un modo per giustificare gli aumenti dei costi si trova sempre. A concludere affari nel ciclo illegale del cemento non sono solo i clan, come si è detto. Nelle pratiche edilizie e nei cantieri spesso si celano interessi loschi che alimentano la svendita pianificata e protocollata del territorio. Com’è avvenuto nello splendido contesto dell’isola di Ponza, poco più di 3.300 abitanti in provincia di Latina: secondo le indagini della procura di Latina e dei carabinieri del comando provinciale, l’ex primo cittadino sarebbe stato a capo di un gruppo che gestiva gli appalti affidati dall’amministrazione, facendosi beffa delle gare e di quanto la legge impone, per un giro d’affari complessivo stimato dagli inquirenti intorno ai tre milioni di euro. Un’altra inchiesta, che ha avuto come “epicentro” il comune di Spoltore, in provincia di Pescara, è stata denominata non a caso Cabina di regia: qui il settore degli appalti e la stessa stesura del piano regolatore sarebbero stati concordati tra l’ex sindaco, l’ex presidente del consiglio regionale e un manager dei rifiuti, finiti ai domiciliari con l’accusa di corruzione, falso ideologico, abuso d’ufficio, concussione e turbativa d’asta. L’illegalità nel ciclo del cemento rappresenta solo la mazzata finale al no-stro paese in fatto di aggressione al territorio. Secondo i dati Istat, presen-tati dal presidente Enrico Giovannini alla Commissione territorio, am-biente e beni ambientali del Senato il 25 gennaio 2012, in Italia il con-sumo di suolo è pari al 7,3% della superficie totale, una delle percentuali più alte d’Europa (solo i piccoli paesi del Benelux hanno saputo fare di peggio). Tra il 1995 e il 2009, secondo gli ultimi dati dell’Ispra, sono sta-te costruite in Italia circa quattro milioni di nuove abitazioni, con l’im-piego di circa tre miliardi di metri cubi di calcestruzzo. Un “diluvio” di cemento che fa sparire ogni giorno circa 100 ettari di suolo. Mentre il rapporto Ambiente Italia 2011 di Legambiente denuncia come ogni an-

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no siano circa 500 i chilometri quadrati consumati, con in testa la Lom-bardia (14% di territorio fagocitato dal cemento) e il Veneto, con l’11%. Negli ultimi 15 anni i suoli urbanizzati sono aumentati del 12%, con 4.800 ettari trasformati per sempre a causa di interventi edilizi. Si tratta di numeri impressionanti ma sicuramente in difetto. L’Agenzia del territorio, attraverso la sovrapposizione di foto aeree ad alta risolu-zione con le mappa catastali, ha identificato, infatti, ben 1.081.698 uni-tà immobiliari urbane mai dichiarate al catasto: per circa il 34% dei casi si tratta di vere e proprie abitazioni, ma non mancano magazzini, auto-rimesse, officine, e così via. Immobili ai quali la stessa Agenzia ha attri-buito una rendita pari a oltre 817 milioni di euro. Molti di questi “ma-nufatti fantasma” si presume siano abusivi, del tutto o in parte. Saranno adesso i comuni, per chi lo vorrà o potrà fare, a dover sciogliere questo nodo, individuando gli immobili fuorilegge e quelli non censiti per ra-gioni burocratiche, di mancato aggiornamento dei registri catastali. Le informazioni raccolte finora hanno già fatto emergere, comunque, una mole imponente di illegalità e/o scarsa trasparenza nell’intero settore. Per usare le stesse parole dell’Agenzia, “il recupero dei fabbricati mai dichia-rati, oltre ai risvolti civilistici connessi all’identificazione del patrimonio immobiliare e al miglioramento della trasparenza del mercato, ha un ef-fetto significativo sul recupero dell’evasione nel comparto”.La “pressione” esercitata dal cemento illegale s’inserisce peraltro in un contesto caratterizzato da una forte fragilità dal punto di vista idrogeologico. Secondo le stime elaborate da Legambiente nel rapporto Ecosistema rischio 2011 sono ben 1.121 i comuni in cui sono state costruite abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana e alluvione: nel 31% dei casi sono stati costruiti interi quartieri, nel 56% fabbricati industriali e nel 20% addirittura strutture pubbliche sensibili, come scuole e ospedali. Complessivamente si può stimare che nel nostro paese ci siano oltre cinque milioni di cittadini esposti al pericolo di frane o alluvioni. Un rischio concreto, tutt’altro che ipotetico. Basti ricordare l’alluvione che nell’autunno del 2011 ha colpito mezza Italia, mettendo in ginocchio intere regioni, Liguria e Sicilia su tutte. Una vera e propria catastrofe, costata diverse vite umane, con migliaia di famiglie costrette ad abbandonare case, uffici e attività commerciali, ma che pare sia servita a poco.

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l’assaltoaitesoridelbelpaese

Gli incendi boschivi che nel 2011 hanno devastato oltre 60.000 ettari di boschi, secondo i dati del Corpo forestale dello stato. I reati contro la fauna cresciuti del 28% in un anno. L’assalto al patrimonio artistico, storico e archeologico, con i furti aumentati del 13,1% e i sequestri cresciuti del 50% (da 200 a 300 milioni). Sono numeri impietosi quelli che fotografano, come accennato nelle prime righe di questa premessa, una vera e propria aggressione ai tesori del Belpaese. Che raggiunge livelli assoluti di criticità per quanto riguarda la filiera agroalimentare: nel 2011, sommando i dati messi a disposizione dal comando carabinieri per la tutela della salute, dal comando carabinieri politiche agricole, dal Corpo forestale dello stato e dalle capitanerie di porto, i reati accertati sono stati 13.867, più che triplicati rispetto al 2010, mentre i sequestri sono stati pari a 1,2 miliardi di euro, con un danno erariale di oltre 113 milioni. Si tratta di numeri che meritano un approfondimento, proprio per la particolare gravità di queste attività illegali, che impattano su un settore economico, quello agroalimentare, di grande rilievo per il nostro paese e minacciano la salute dei cittadini. Nel quadro che viene delineato dalla indagini emergono, da una parte, contraffazioni, adulterazioni e truffe alimentari, dall’altra la presenza massiccia delle mafie. La Direzione nazionale antimafia, scrive nella relazione 2011 che “i gruppi criminali sono in grado di gestire tutte le attività relative alla produzione e allo smercio dei prodotti agricoli, lungo tutta la filiera che va dalla produzione, al trasporto e alla distribuzione”. Sono, in particolare, i grandi mercati ortofrutticoli, come quelli di Fondi, Vittoria e Milano, a suscitare gli interessi dei clan. È qui che le varie famiglie mafiose stringono affari, senza pestarsi troppo i piedi. Si dividono i compiti, insomma e accumulano profitti illeciti soprattutto nelle fasi intermedie, a cominciare dai trasporti. Alla faccia di chi coltiva la terra e non riesce a ricavarne un reddito e dei consumatori, che faticano ad arrivare alla fine del mese.

leproposte

Legambiente lancia quest’anno una nuova campagna nazionale, che ha un obiettivo preciso: contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio

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utilizzando, bene, gli strumenti già disponibili. La campagna si chiama Abbatti l’abuso ed è ispirata da un principio molto semplice: basta scuse, le case illegali vanno demolite, come prevede la legge.Fare bene e subito tutto quello che già è possibile a legislazione vigente, perché in attesa di quella riforma di civiltà a lungo invocata, con l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel Codice penale, è urgente e inderogabile contrastare l’assalto al Belpaese, compiendo ognuno il proprio dovere, senza eccezioni. Vengono in aiuto, al riguardo, le riflessioni contenute nel contributo a questo rapporto di Donato Ceglie, magistrato da tempo impegnato contro ecomafiosi ed ecocriminali, oggi alla procura generale di Napoli con una delega specifica sugli abbattimenti previsti da sentenze passate in giudicato: “Non vi è dubbio – scrive Ceglie – che in un tale dissennato uso del territorio, un ruolo (negativo) è stato esercitato da quei sindaci e dai quei pubblici amministratori che hanno consentito con i loro comportamenti omissivi e complici il disastro che è sotto gli occhi di tutti. Ma tardive sono state le risposte anche sul piano giudiziario”. Ed è proprio sulle mancate demolizioni che Legambiente vuole richiamare, da quest’anno, l’attenzione di tutti coloro che hanno il dovere di affermare la sovranità della legge e la supremazia del diritto. Un manuale, il premio nazionale per il comune o l’ufficio giudiziario più solerti ed efficienti nel demolire, il rapporto annuale: sono diversi gli strumenti di questa campagna sulla quale cercheremo di costruire, come sempre, un fronte più ampio possibile di alleanze. Pensiamo alle amministrazioni locali, ovviamente, ma anche alle procure generali chiamate a dare esecuzione a sentenze che altri non ottemperano; alle imprese e alle associazioni che le rappresentano, a cominciare da quella dei costruttori; ai cittadini, non più disponibili a subire in silenzio soprusi, inefficienze e collusioni.L’Italia, in una stagione così difficile dal punto di vista economico-sociale e di fronte alla gravità dei fatti che denunciamo anche quest’anno, ha bisogno di stringere un vero e proprio patto per l’ambiente e la legalità. Che faccia leva sull’effettiva applicazione della leggi e preveda un nuovo sistema di tutela dell’ambiente dai fenomeni d’illegalità. Un patto da sviluppare lungo tre direttrici:a) la semplificazione normativa, che riduca i margini di discrezionalità

e d’incertezza;

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b) la riforma del sistema dei controlli, per evitare duplicazioni e sacche d’inefficienza;

c) l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale, come previsto dalla lettera e dalla sostanza della direttiva comunitaria del 2008, formalmente recepita ma di fatto finora disattesa dal nostro paese.

Perché la risposta sia efficace è necessario agire, contestualmente, su tutti e tre i piani, senza fughe in avanti (che pure si sono tentate per quanto riguarda gli aspetti relativi alle semplificazioni) e scorciatoie. Alcuni esempi concreti possono aiutare a comprendere meglio la gamma di iniziative possibili. Due riguardano in particolare il Corpo forestale dello stato: il protocollo sottoscritto con la Procura nazionale antimafia, che ha portato alla costituzione di nuclei di polizia giudiziaria specializzati presso le procure di Reggio Calabria, Bari, Napoli, Roma e Bologna; la sinergia tecnica e formativa con Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che ha consentito di individuare, nel periodo 2009-2011, decine di discariche abusive di rifiuti, grazie ai rilievi magnetometrici e alle loro elaborazioni.Altre due proposte, che condividiamo e riportiamo integralmente, arrivano, invece, dall’Ufficio antifrode della Dogane: a) tempi di indagine più ampi, per evitare che si chiudano per prescrizione del reato gran parte dei procedimenti penali per delitti con i quali si attenta alla bellezza dei luoghi, dell’ambiente, del patrimonio culturale, della cultura agroalimentare italiana, al rispetto delle regole per la spedizione transfrontaliera di rifiuti; b) l’accesso per l’Agenzia delle dogane alla base dati del Ministero dell’interno prevista dalla legge 121 del 1981, per “qualificare ulteriormente il processo di analisi del rischio utilizzato nelle funzioni di controllo, con la conoscenza dei precedenti delitti eventualmente contestati agli importatori ed esportatori anche dalle forze di polizia”.È necessario fare squadra, sviluppare tutte le collaborazioni possibili, ovviamente nel rispetto dei ruoli e delle competenze di ognuno, mettere a disposizione il bagaglio di conoscenze acquisito per migliorare l’azione di quel “sistema di legalità organizzata” che il nostro paese deve rafforzare, se non vuole subire, più di quanto non accada già oggi, le conseguenze dei fenomeni d’illegalità e criminalità ambientale, moltiplicati dagli interessi delle mafie. Anche perché dovremmo avere tutti ben presente

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l’insegnamento di Giovanni Falcone, che così descrive, nel libro scritto in collaborazione con Marcelle Padovani Cose di Cosa Nostra, il potere dei clan: “Cerchiamo di immaginarlo questo mafioso, divenuto capitano di industria. Ricco, sicuro di potere disporre di una quantità di denaro che non ha dovuto prendere a prestito e che quindi non deve restituire, si adopera per creare, nel suo settore di attività, una situazione di monopolio, basata sull’intimidazione e la violenza. Se fa il costruttore, amplierà il suo raggio d’azione fino a comprendervi le cave di pietra, i depositi di calcestruzzo, i magazzini di materiale sanitario, le forniture in genere e anche gli operai. In una simile situazione perché mai dovrebbe preoccuparsi delle estorsioni? Gli altri proprietari di cave, gli industriali del cemento e del ferro verranno a poco a poco inglobati in una rete monopolistica sulla quale egli eserciterà il controllo”. Parole pubblicate nel 1991 ma di straordinaria attualità che, com’è capitato spesso a lui e al suo amico e collega Paolo Borsellino, sono state a lungo ignorate. Dedicando a loro, a Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina questo rapporto Ecomafia, nel ventennale del loro sacrificio, vogliamo ricordare, innanzitutto a noi stessi, che la memoria è, semplicemente, impegno.

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