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Elena Rosci - Madre e figlia adolescente

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Elena Rosci Madre e figlia adolescente

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La psicoanalisi ci narra la storia di genitori e figli che vivono nella cosiddetta famiglia nucleare e sono quindi legati da intensi e vischiosi legami affettivi. Se fino agli anni sessanta è il bambino l’oggetto elettivo dell’indagine, dagli anni settanta la letteratura sull’adolescente si moltiplica sino a diventare un ambito di studi vasto e sofisticato. A fianco del passaggio dall’infanzia all’adolescenza assistiamo a un cambiamento d’accento dal padre, in quanto regista della vicenda edipica, alla madre in quanto prima attrice delle passioni preedipiche. La madre psicoanalitica è la custode dell’infanzia, sul ruolo della madre dell’adolescente si è scritto poco. Una vasta letteratura, anche molto recente, che salda la cultura psicoanalitica all’esperienza femminista recupera e rivaluta la relazione madre-figlia, ma i riferimenti al periodo adolescenziale, anche in quest’ambito, sono modesti e la prima infanzia in quanto fase fondativa della struttura psichica è assolutamente centrale. La mia relazione è quindi frutto di una sintesi di materiali diversi ed eterogenei: saggi, testi letterari, esperienza di consultazione psicoanalitica con madri di ragazze, le parole delle adolescenti stesse che, quando si sono sedute di fronte a me, mi hanno sempre parlato della loro madre, e poi la mia stessa esperienza di figlia, il ricordo di mia madre e delle madri dei miei compagni di liceo che non mi hanno mai svelato nulla della loro interiorità, ma che io scrutavo avidamente, alla ricerca del segreto della femminilità. Per scrivere questa relazione mi sono trovata a dover pensare pensieri difficili, in quanto nulla mi è apparso ovvio o assodato, ho creduto quindi utile partire da ciò che appare condiviso. La madre d’oggi vive nella famiglia nucleare della quale Freud ha mirabilmente descritto lo statuto affettivo, denso di enigmi e di insidie. Ma la situazione attuale vede una famiglia ancor più stretta, più piccola per la caduta verticale del numero dei figli e, in particolare in Italia, i dati più recenti ci dicono che il figlio tende ad essere uno solo. Se una madre ha una figlia quindi quest’ultima sarà molto frequentemente l’unica donna con la quale convive. Lo spopolamento della famiglia porta a una accentuazione della densità affettiva e, con essa, le difficoltà a mantenere precisi confini fra le identità e i ruoli dei diversi componenti, a separarsi gli uni dagli altri come testimonia il fenomeno delle adolescenze lunghe. La distanza generazionale si attenua forse anche perché la seconda generazione è troppo poco rappresentata per fare gruppo. Nella famiglia dei tempi di Freud la moglie desiderava offrire al marito e a se stessa un figlio maschio quale dono pregiato in una società patriarcale. La maternità come destino trova la sua elaborazione nella cultura ottocentesca ove la madre è la custode della casa e dei figli piccoli dei quali si occupa secondo un etica del sacrificio, e colei che tutto dona e nulla chiede mentre il ruolo educativo in senso normativo è assegnato al padre. In quella che è stata chiamata la cultura del narcisismo, in modo significativo dagli anni ’80, la donna si sente invece al centro di un progetto di autorealizzazione e la maternità, da evento biologico, scontato nella vita di una donna, diviene piuttosto l’oggetto di una decisione personale e rappresenta quindi uno degli elementi della realizzazione di sé. In questo quadro a mio avviso il sogno della madre diviene piuttosto quello di avere una figlia femmina e tale tendenza credo sia direttamente proporzionale al grado di emancipazione della donna da un immagine di sé passiva e subalterna. Lo statuto della maternità cambia quindi radicalmente quando da destino da accogliere diviene l’oggetto di una scelta personale, una possibilità di realizzazione fra le altre. Le recenti scoperte dell’ingegneria genetica ampliano fino all’abisso e rafforzano la possibilità di controllare e dirigere la maternità già annunciata dalla diffusione su vasta scala dei contraccettivi. In questo mutato clima socioculturale, nel quale la donna sceglie e non subisce il suo destino la figlia può divenire un potenziale prolungamento della madre, il suo alter ego ideale, e fra gli altri da sé il più simile a sé.

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Con la figlia la madre può riscrivere la storia della sua vita, rivisitarla, sanare antiche ferite o fantasticare un futuro in cui diviene realizzabile ciò che la madre stessa non ha compiuto. Questa opportunità di fondere destini e identità non è offerta con la stessa intensità alla madre dal figlio maschio in quanto la differenza di genere impedisce la stessa specularità, l’aderire punto a punto, il poter dire “tu sei come me”. A fronte di una relazione fra madre e figlia che, per le sue caratteristiche estatiche, si può chiudere come una valva al mondo esterno, emerge lapidario il parere della Dolto che dopo aver ascoltato il racconto entusiasta di una madre che ricorda gli indimenticabili pomeriggi, perfetti nella loro pienezza, trascorsi con la figlia a cucire il vestito di Cenerentola per il carnevale, ricorda che Cenerentola aveva una vita dura, lavorava tutto il giorno, spazzava e cucinava, non aveva tempo per bearsi del rapporto con la madre che, d’altro canto, la maltrattava, ma proprio per questo si è salvata, si è costruita un futuro, ha trovato il principe. La Dolto, in un’insolita presa di posizione dura e categorica mostra di temere i rischi di una relazione fortemente idealizzata e quindi immobile nella sua perfezione in quanto sufficiente a se stessa e quindi chiusa all’altro. La relazione narcisistica fra la figlia e la madre oggi è a mio avviso da ascrivere alla fisiologia pur fondando a un tempo gli aspetti originari e quindi più vitali dell’esistenza da un lato, lambendo l’orlo dell’immobilità e quindi della morte psichica dall’altro. L’ascrivere l’investimento narcisistico alla patologia tout court ne impedisce la comprensione delle potenzialità profonde, ne annulla il significato evolutivo. Credo piuttosto che le naturali richieste narcisistiche che la madre rivolge alla figlia possano essere assai diverse in quanto a qualità e intensità. Una madre che ha collocato parte delle sue istanze infantili al loro posto, ovvero nel passato, che riesce a comporre con grazia il suo presente, a pensare con fiducia al suo futuro e a darvi un senso, metterà sulle spalle della figlia un peso più lieve. Non avrà bisogno di mandare la figlia nel mondo a realizzare i suoi desideri delusi in quanto lei stessa ne ha soddisfatti una parte. Viceversa una madre solitaria e depressa, provata dal rancore, incapace di riconoscenza e di affetti faticherà maggiormente a dare dei limiti al suo potere, al suo desiderio in quanto ella stessa manca di tutto e quindi tutto vuole e chiede. La letteratura femminile ci offre una galleria di ritratti di madri e figlie tanto vasta ed entusiasmante che ogni esclusione appare ingiustificata. Il tema dell’investimento affettivo straordinario insito in questo rapporto è sempre presente, ma la sua declinazione sempre diversa perché l’alchimia di ogni storia è irripetibile. Voglio iniziare con una dichiarazione di misura e di saggezza, quella di Rita Levi Montalcini, che ricorda con gratitudine la madre proprio per essere stata poco al centro della scena, per aver lasciato fare alla figlia adolescente ciò che credeva, per non essersi intromessa, aver lasciato vivere. Doris Lessing ricorda invece le continue e imperiose richieste della madre soprattutto quando Doris adolescente sceglierà un destino sentimentale e un modello di maternità che la madre giudica assurdo e immorale. La Lessing non seguirà i consigli materni, vi si opporrà con determinazione, la sconfermerà punto su punto in un processo controidentificatorio che segnala l’importanza strutturante della relazione con la madre. Carla Cerati nel suo romanzo “La figlia cattiva”, propone un racconto autobiografico nel quale la madre con le sue continue pretese di controllo sulla sua vita diviene un insopportabile peso, una fonte di continuo dolore, ma l’intreccio relazionale fra le due procede stretto in un continuo desiderio della figlia di staccarsi dalla madre da un lato, di non deludere le sue aspettative dall’altro. Ma l’esempio più toccante viene dal carteggio fra Silvia Plath e la madre Aurelia. Dopo la separazione dalla madre, Silvia le scrive quasi ogni giorno, porgendole le sue realizzazioni personali come un dono, le invia dall’Europa attraverso l’atlantico i trofei delle sue vittorie. Aurelia è l’Altro al quale si inviano tesori, si tacciono le sconfitte e si nega il dolore che si esprime tragicamente nelle condotte autodistruttive e in modo sublime nella produzione poetica che Silvia

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descriverà alla madre come puro esercizio letterario negando così gli abissi del suo dolore e mostrando solo il suo falso sé allo scopo di gratificare narcisisticamente la madre. L’importanza della madre che giganteggia nella saggistica psicoanalitica e nella produzione letteraria è assai ridimensionata dalla letteratura sociologica, dove la madre interna lascia il posto alla madre fenomenica con tutte le sue pochezze. E’ la madre frutto degli studi statistici. Se una figlia ha sedici anni più o meno sua madre ne avrà quarantacinque più o meno. E’ una donna che media con difficoltà fra i ruoli diversi di moglie, madre, professionista, figlia di genitori ormai anziani. Ciò che le manca è il tempo. Eppure ne deve trovare un poco per fare un bilancio della sua vita, è vicina alla menopausa, non ha più grandi prospettive di carriera, si occupa dei genitori anziani, cerca un poco di tempo libero per le amiche, ne trova poco, fa quadrare il bilancio familiare. E’ una madre fuori dal mito ma collocata piuttosto in un punto indefinito dell’accadere sociale. Ecco io credo che la figlia proprio nell’adolescenza si confronti per la prima volta con due madri, quella gigantesca della sua infanzia e quella vista con gli occhi deldisincanto, ridimensionata dalla sociologia. Il salto fra le due immagini è abissale, una sintesi forse impossibile anche per la collocazione diversa di queste due figure nella psiche essendo la madre infantile un oggetto dell’inconscio e la madre che chiameremo per brevità sociologica collocata fra il preconscio e la coscienza. La seconda madre non è ben stagliata nella mente della figlia, è appena tratteggiata, ma la figlia la utilizza per iniziare il faticoso e lungo lavoro di depotenziamento della madre interna dell’infanzia che pure continuerà a essere presente in lei per tutta la vita e di passaggio alla madre così come la vedrà nella vita adulta. Ma quando i venti dell’adolescenza cominciano a soffiare tutto si fa impetuoso, le energie coinvolte nel mantenere il legame fra la figlia e la madre vengono rivolte ora ad allentarlo, attaccarlo, cambiarlo. La cultura psicologica fa della figlia l’attrice dei processi di separazione e la madre quella che gioca di rimessa, che para i colpi, che cerca di mantenere il legame. A mio avviso le cose non stanno così, sia la madre sia la figlia possono avere una forte motivazione a elaborare la separazione o a mantenere il legame che si è strutturato nell’infanzia. Naturalmente se guardiamo le cose dal punto di vista della patologia troviamo madri espulsive, o vischiosamente abbarbicate alla figlia, quelle che si chiamano con un disprezzo, che rivela la nostra ignoranza, madri intrusive. Ma la realtà è un’altra. Il distacco fra madre e figlia può assumere un aspetto graduale, piacevole, la nostalgia per la perdita del legame infantile può essere elaborata in modo dolce e gratificante per entrambe. La madre può essere orgogliosa di avere una figlia grande, con amiche simpatiche, progetti propri, impegnata nel lavoro della seduzione, con la quale ci si può confrontare alla pari, in grado, a tratti, di accudire la sua stessa madre. Certo questo è difficile o impossibile quando la madre a ragione o a torto decide che la figlia è riuscita male. Se ha senso dare un consiglio di tipo pedagogico alle madri direi loro di pensarci non una, ma cento volte prima di mettersi in testa che la loro figlia sia riuscita male o peggio che non se la caverà, meglio pensare piuttosto di non capirla, di essere diverse. Non è infatti l’investimento narcisistico che necessariamente blocca la crescita della figlia quanto piuttosto la mancanza di orgoglio materno che fa dire: “non vali nulla, non te la caverai”. Anche la relazione narcisistica fra le due può creare difficoltà, ma a mio avviso minori. Certo la madre vive l’allontanamento della figlia come può. Se quest’ultima è la sua protesi, la sua stampella cercherà di non lasciarla andare, ma di solito, fortunatamente, non ci riuscirà o almeno non del tutto. Se la madre ha già avviato il processo di separazione dalla figlia, come dovrebbe essere se ha compreso il senso delle avvisaglie puberali, se da valore al cambiamento, alla possibilità per lei

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stessa di divenire più libera, il processo di autonomizzazione reciproca sarà graduale, con qualche scossa magari, ma anche piacevole. Non credo che la condizione sociale della madre, la sua realizzazione nel matrimonio e nel lavoro possano assicurare di per sè una separazione più felice, ma certo aiutano. La diversificazione degli investimenti affettivi che la madre sapientemente ha realizzato nel corso di tutta la sua vita possono fare da supporto quando la separazione dalla figlia diviene d’attualità. Se la figlia trova un aiuto alla crescita nell’amica del cuore, nel gruppo e nella relazione amorosa anche la madre a mio avviso è facilitata se si dota di supporti adatti all’impresa. Nel corso della gravidanza, del parto, nei primi anni di vita della bambina la madre aveva cercato interlocutrici femminili con cui condividere pensieri, speranze, paure. Figure femminili con una funzione di contenimento dell’ansia materna, di confronto, di rispecchiamento. Ora che la figlia si avvia alla sua seconda nascita di nuovo la madre ha bisogno di far parte di un coro di voci femminili. Il gruppo femminile attivato dalla madre da un lato riempie il vuoto che la figlia progressivamente lascia, dall’altro offre il supporto necessario per navigare nelle acque difficili della separazione. Navigare in acque adolescenziali può essere infatti appassionante ma non è sempre facile. La calma dell’infanzia era accompagnata da brezze brevi. Da spostamenti d’accento che non colpivano al cuore la relazione madre figlia, la sua centralità. In verità la madre scruta con interesse in suoi sostituti fin da quando affida per la prima volta generosamente la figlia alla scuola, alla vita sociale. Le educatrici, le insegnanti vengono osservate con sguardo critico. Ma la relazione fra la bimba e gli altri adulti non ha mai l’aspetto passionale della relazione con la madre. A volte è il padre ad essere vissuto come rivale in amore quando, occupandosi precocemente della figlia in modo competente si installa nel suo cuore creando un legame forte e appassionato. Ma la madre in questo caso ripone male la sua gelosia in quanto il padre non essendo oggetto di identificazione sessuale si pone comunque su un altro piano, crea un legame diverso, forse più seduttivo e giocoso ma meno rispecchiante e fusionale. Più comprensibile in tal senso la gelosia della madre verso le nonne, la tata. Con la pubertà il clima relazionale infantile cambia e compaiono figure esterne alla famiglia investite di affetti densi e significativi. L’amica del cuore quale sostituto materno da un lato, ponte verso l’esterno dall’altro è infatti spesso criticata dalla madre in quanto troppo spregiudicata, troppo grande, troppo indipendente. L’amica del cuore è la prima figura dalla quale la madre può, a ragion veduta, sentirsi detronizzata. Quando la rivale si profila all’orizzonte la madre può reagire in modo diversi: il tentativo di espellerla non è la reazione prevalente più spesso non la criticherà, non la attaccherà ma la acquisirà come seconda figlia, si metterà al centro della relazione fra le due depotenziandola, oppure la madre osserverà con piacere e gratitudine l’avvento di una nuova amica, guarderà le due da una certa distanza, coglierà l’occasione per coltivare ella stessa nuove amicizie femminili, per ricordare la sua amica del cuore o rimpiangere di non averla avuta. Questa madre sa che il futuro della figlia la riguarda ma non le appartiene. Quando si parla della pubertà spesso si sottolineano i processi di separazione dei figli dai genitori e le relative vicissitudini depressive. Meno si parla dei genitori, e ancor meno specificatamente del padre e della madre. In generale ci si appella alla necessità che la coppia coniugale trovi nuovi spazi per sé, che i coniugi rivedano il loro rapporto alla luce della crescita dei figli e del loro progressivo distacco. Tutto ciò è vero, auspicabile, magari difficile ma in certo senso scontato. Se guardo le cose dal punto di vista della madre il riavvicinamento al marito affronta solo una parte della questione infatti non vi è simmetria fra la relazione fra un uomo e una donna e la relazione fra due donne. Mentre una donna può incarnare per il marito il ruolo di sostituto del suo primo oggetto

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d’amore, la madre, un uomo non lo può fare con la moglie se non parzialmente in quanto è in causa la sua stessa identità sessuale. Una relazione fra due donne per i suoi aspetti identificatori e speculari, ricalca il clima della relazione primaria, non può essere sostituita se non in parte da un uomo e quindi a fronte della separazione dalla figlia la madre riallaccia saggiamente rapporti con altre donne. Paradossalmente del tam tam femminile, fatto di confidenze e sostegno reciproco sembrano essere più avveduti i tabulati delle società telefoniche che non i testi di psicologia. E’ vero che le donne su questi temi sono riservate e un velo di segretezza copre le relazioni fra le amiche. “Di che cosa avete parlato?”, chiede il marito alla moglie che è stata al telefono un’ora con l’amica, “di niente, di come stavamo”, “Per un’ora?” chiede il marito stupito e a volte seccato. Effettivamente la comunicazione femminile ha una efficacia decisionale assai bassa, si potrebbe dire che sia anche improduttiva in quanto il suo obiettivo primario è il rispecchiamento e la condivisione, dove prevalgono aspetti identificatori ed empatici, c’è un clima che chiamerei più onirico e associativo che referenziale. “Sai, dice la madre all’amica, ho parlato con mio marito di questa cosa di mia figlia e sai lui che cosa mi ha risposto?” “Che cosa facciamo?” “Non ha capito che io volevo solo parlarne”. E con l’amica comincia a parlarne. Freud quando accenna a questo clima che si crea fra le donne parla acutamente di “infezione psichica”, una forma di contagio che sfugge alla razionalità di un discorso forte, controllabile, finalizzato. A mio avviso molte relazioni coniugali naufragano proprio in quanto l’amore romantico, nella sua versione idealizzata, fa promesse che non può mantenere. Allora il marito prenderà il posto, nel sogno estatico della moglie innamorata, di tutto ciò che c’era prima, il padre, la madre, le sorelle e le amiche. Ma attendendosi tutto la moglie rischia una delusione cocente, quando calato il velo dell’innamoramento dei primi tempi, la relazione si evidenzia nella sua forza che è insita nei suoi stessi limiti. La figlia infatti non interroga il padre sul significato della femminilità ma fin dall’inizio della sua vita si rivolge alla madre per porgere poi le sue conquiste al padre e trovare il suo apprezzamento. Nell’adolescenza il quesito che la figlia rivolge alla madre diviene più urgente, in quanto la costruzione della sua identità femminile e materna non può più essere procrastinata sine die. Si rivolge quindi alla madre con i suoi quesiti urgenti e irrisolti a un tempo. Ma la madre non sa che dire. I temi della femminilità e della maternità infatti non sono stati oggetto di una rivisitazione culturale forte, capace di tenere conto degli effetti della modernità. Che ne è dell’amore romantico e del suo galateo in una società che tende a proporre a maschi e femmine almeno in teoria, destini simili? Che ne è dell’amore passionale in relazioni di coppia che tendono a divenire paritetiche? E come presentare un modello materno oblativo, accudente, sacrificale in una situazione sociale nella quale le giovani donne sembrano destinate a ricoprire ruoli tanto diversi e a dover quindi declinare in modo nuovo affetti e risorse? I modelli del passato non appaiono più praticabili e sembriamo oggi di fronte alla necessità di imparare a comporre e ricomporre la nostra vita molte volte utilizzando, come fantasiste dello spettacolo, soluzioni sempre diverse a problemi in divenire. La mancanza di una cultura forte della nuova maternità e femminilità è segnata da una carenza di elaborazione di una nuova etica del vivere femminile a mio avviso resa improcrastinabile dalle opportunità vertiginose che l’ingegneria genetica mette al servizio della specie accendendo l’immaginario in direzioni che non rassicurano. E’ necessario avere un compagno o i figli si possono fare da sole e anche in età non fertile? Gli interrogativi sono infiniti e senza risposte certe e pure ogni giovane donna dovrà prendere le sue decisioni oggi. La madre guarderà allora alla figlia con benevolenza, sa che il suo compito non sarà facile in quanto non sorretto dalla tradizione da un lato, mancando una nuova etica capace di indicare limiti e opportunità dall’altro.

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La figlia adolescente a fronte della babele dei codici nei quali è inserita può cercare allora difensivamente di bloccare la sua crescita. E più grande sarà il suo attaccamento all’infanzia più vorrà strapparsene di dosso gli emblemi. Via i cerchietti, le mollette, le camicette con il colletto rotondo. Cambiando il suo look una ragazza intende cambiare anche il suo equilibrio affettivo e sentimentale. Troppe ragazze pensano di poter essere attraenti solo se sono sottili come giunchi ma i ragazzi non condividono questo punto di vista in quanto descrivono come poco interessanti le ragazze-figlie-bambine e come più attraenti quelle che si sono lasciate un poco della loro infanzia alle spalle, che parlano in proprio, che non fanno eco alle voci familiari, che si sentono sole e quindi sono pronte ad accogliere come una salvezza le loro attenzioni amorose. Quando le pratiche emancipatorie falliscono, quando il percorso di separazione si inceppa la figlia si deprime chiudendosi in se stessa in quanto bambina impresentabile sulla scena adolescenziale o si arrabbia e parte all’attacco. L’oggetto dell’attacco sono di solito i genitori, più spesso la madre. E’ la madre infatti il principale ostacolo in quanto oggetto di quella passione, di quel corpo a corpo che non si riesce a sciogliere. La madre a fronte delle reazioni depressive della figlia non sempre si preoccupa soprattutto quando queste ultime non sono appariscenti mentre è sconvolta dall’attacco frontale soprattutto quando esso assume connotati violenti e distruttivi. La madre è attonita, spesso la sua mente si blocca, il pensiero materno è debole nel fronteggiare l’aggressività della figlia, lei stessa potrebbe reagire depressivamente o con rabbia in una spirale di dolore causata dalla difficoltà di elaborare costrutti esplicativi efficaci e consolanti, che consentano uno sblocco evolutivo. Allora la madre si rivolge al padre. Quando il clima si fa rovente l’intervento paterno è decisivo. A mio avviso il padre può comparire sulla scena adolescenziale per aiutare la madre e la figlia a separarsi senza morirne solo se è da sempre al centro della vita familiare, se ama la moglie e la figlia, le conosce profondamente e quindi può farsi venire una idea sul da farsi. Un padre che compare sulla scena adolescenziale solo dopo una lunga latitanza è disarmato e disarmante. Non sa che fare. E allora la madre e la figlia lo lasceranno parlare sapendo che ciò che dirà non conterà nulla. Ma la madre si accorgerà di quanto sia triste e meschina la sua vita, le sue amiche stesse le appariranno pallide e insufficienti e la figlia avrà deboli speranze di salvarsi in quanto si sentirà risucchiata in una relazione tanto passionale, avvincente e totalizzante da divenire sterile e nemica in quanto chiusa al mondo e al futuro. Ma dopo un poco, come avviene nei romanzi di formazione, la figlia partirà per un viaggio e conoscerà un giovane uomo del quale si innamorerà, l’amore le darà il coraggio di rimettersi in movimento e sarà fortunata se sceglierà un ragazzo che essendo stato oggetto di cure affettuose da parte del padre, saprà usare egli stesso in modo fine i sentimenti, in quanto avrà integrato nella sua identità virile anche aspetti del prendersi cura, saprà scaldarle il cuore sostituendo, almeno un poco, l’affetto della madre la cui imago rimpicciolirà senza scomparire e diverrà una figura crepuscolare della quale si può sempre scorgere, sulla linea dell’orizzonte, la silhouette. Bibliografia Buzzati G., Salvo A. (1995), Corpo a corpo, a cura di, Laterza, Bari. Cerati C. (1984), La figlia cattiva, Frassinelli, Como. Chodorow N. (1978), La funzione materna, La Tartaruga, Milano. Freud S. (1931), Sessualità femminile, in Opere Complete, Boringhieri, Torino. Lessing D. (1988), Mia madre, Boringhieri, Torino. Mori A. M.(1992), Nel segno della madre, Frassinelli, Como. Pietropolli Charmet G. (1992), Paternità e maternità: nuovo contratto, in Maschio-Femmina, Edizioni Paoline, Milano.

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Plath S. (1975), Lettere alla madre, Feltrinelli, Milano. Rosci E. (1995), La madre: una figura della modernità?, in Marginalità e Società, n. 30, Franco Angeli, Milano. Ruddick S. (1993), Il pensiero materno, Red, Como.