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Elisa Paganini Dispense per il corso di filosofia del linguaggio Russell e le descrizioni Il filosofo gallese Bertrand Russell (1872-1970) ha messo seriamente in discussione molte delle idee di Frege e nello stesso tempo ha condiviso con Frege molti dei suoi progetti filosofici. Per esempio ha condiviso con Frege il progetto logicista (ovvero il progetto di mostrare che la matematica è derivabile dalla logica) e tuttavia ha messo profondamente in crisi l’apparato teorico introdotto da Frege a tal fine. Noi non prenderemo in considerazione questo aspetto della filosofia di Russell. Un altro progetto filosofico che Russell ha condiviso con Frege è il progetto di fornire un’analisi logica del linguaggio. Tuttavia egli si differenzia da Frege perché non sempre condivide l’analisi logica che Frege propone. Il testo che prendiamo in considerazione, intitolato “Le descrizioni”, propone un modo alternativo di intendere l’analisi logica degli enunciati che contengono alcune espressioni linguistiche, le cosiddette “descrizioni definite”. Anche se Russell non è sempre esplicito, con la sua analisi logica delle descrizioni definite si propone di mostrare che è superfluo introdurre la distinzione freghiana fra “senso” e “significato” per tali espressioni. Queste dispense sono così suddivise. Nel capitolo 1 si ricostruiscono le ragioni che hanno spinto Frege a distinguere fra “senso” e “significato” e nel capitolo 2 si ricostruisce brevemente l’analisi logica e semantica degli enunciati proposta da Frege. Nel capitolo 3 si presenta la strategia argomentativa di Russell nel testo in considerazione; la strategia può essere così sintetizzata: egli mette a confronto gli enunciati che contengono descrizioni indefinite con gli enunciati che contengono descrizioni definite. Nel capitolo 4 si presenta l’analisi degli enunciati che

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Elisa Paganini

Dispense per il corso di filosofia del linguaggio

Russell e le descrizioni

Il filosofo gallese Bertrand Russell (1872-1970) ha messo seriamente in

discussione molte delle idee di Frege e nello stesso tempo ha condiviso con Frege

molti dei suoi progetti filosofici.

Per esempio ha condiviso con Frege il progetto logicista (ovvero il progetto di

mostrare che la matematica è derivabile dalla logica) e tuttavia ha messo

profondamente in crisi l’apparato teorico introdotto da Frege a tal fine. Noi non

prenderemo in considerazione questo aspetto della filosofia di Russell.

Un altro progetto filosofico che Russell ha condiviso con Frege è il progetto di

fornire un’analisi logica del linguaggio. Tuttavia egli si differenzia da Frege perché

non sempre condivide l’analisi logica che Frege propone.

Il testo che prendiamo in considerazione, intitolato “Le descrizioni”, propone

un modo alternativo di intendere l’analisi logica degli enunciati che contengono

alcune espressioni linguistiche, le cosiddette “descrizioni definite”. Anche se Russell

non è sempre esplicito, con la sua analisi logica delle descrizioni definite si propone

di mostrare che è superfluo introdurre la distinzione freghiana fra “senso” e

“significato” per tali espressioni.

Queste dispense sono così suddivise. Nel capitolo 1 si ricostruiscono le ragioni

che hanno spinto Frege a distinguere fra “senso” e “significato” e nel capitolo 2 si

ricostruisce brevemente l’analisi logica e semantica degli enunciati proposta da

Frege.

Nel capitolo 3 si presenta la strategia argomentativa di Russell nel testo in

considerazione; la strategia può essere così sintetizzata: egli mette a confronto gli

enunciati che contengono descrizioni indefinite con gli enunciati che contengono

descrizioni definite. Nel capitolo 4 si presenta l’analisi degli enunciati che

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contengono descrizioni indefinite e nel capitolo 5 si mettono a confronto le analisi di

Frege e Russell degli enunciati che contengono le descrizioni definite. Nel capitolo 6

si presentano le ragioni che hanno spinto Frege a non adottare l’analisi logica di

Russell e la replica di Russell a Frege. Nel capitolo 7 infine si prende in

considerazione perché l’analisi logica di Russell rende inutile la distinzione fra senso

e significato per le cosiddette descrizioni definite: in particolare risulta superfluo

introdurre un “senso” per tali espressioni.

1. Frege: la distinzione fra senso e significato

Prima di prendere in considerazione l’analisi di Russell, è opportuno

considerare come Frege analizza quelle che Russell chiama descrizioni definite.

Frege le considera nomi propri. E’ opportuno innanzitutto tener presente qual è la

definizione di “nome proprio” proposta da Frege; egli scrive (“Senso e significato”,

p.19): “L’espressione che designa un oggetto individuale può constare anche di più

parole e di segni d’altro genere: per brevità la chiamerò “nome proprio””. Quindi per

Frege sotto la denominazione nome proprio rientrano sia le espressioni che

comunemente sono considerate tali come “Aristotele”, “Bucefalo”, “Platone”,

“Odisseo”, ecc., ma anche espressioni come “il punto di intersezione del segmento a

e del segmento b” (p.19).

Tutte le espressioni che Frege chiama “nomi propri”, Russell le chiama “termini

singolari”. Fra i termini singolari Russell distingue i nomi propri come “Aristotele”,

“Platone”, “Giorgio Napolitano”, “Ulisse”, ecc. e le “descrizioni definite” ovvero

tutte quelle espressioni che, oltre a poter fungere da soggetto grammaticale, sono

precedute da un articolo determinativo singolare. Esempi di descrizioni definite sono:

“il maestro di Alessandro Magno”, “la montagna più alta del mondo”, “l’Oceano che

separa l’Europa dall’America”, “l’uomo che ha scoperto la penicillina”, ecc.

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Attenzione! Non bisogna confondere le descrizioni definite con gli enunciati che le

contengono. Talvolta, quando si chiede agli studenti di fornire un esempio di descrizione definita, si

ricevono risposte del tipo di "Il fratello di Ada è biondo". Una risposta del genere è sbagliata: "Il

fratello di Ada è biondo" non è una descrizione definita, bensì un enunciato che contiene al suo

interno una descrizione definita, cioè "il fratello di Ada".

In certi casi la confusione tra descrizioni definite e enunciati contenenti descrizioni definite è

indotta dal fatto che in una descrizione definita possono comparire uno o più verbi: ad esempio, "il

fratello di Ada che è biondo" è una descrizione definita in cui compare il verbo "è". Perché "il

fratello di Ada che è biondo" è una descrizione definita mentre "Il fratello di Ada è biondo" non lo

è? Perché, per definizione, una descrizione definita può fungere da soggetto grammaticale di un

enunciato. Ora, tra le due espressioni "il fratello di Ada che è biondo" e "Il fratello di Ada è

biondo", l’unica che può fungere da soggetto grammaticale è la prima, la seconda è un vero e

proprio enunciato. Infatti a una descrizione definita può essere applicato un predicato per formare

un enunciato, mentre ciò non accade nel caso di un enunciato: "Il fratello di Ada che è biondo gioca

a scacchi" è conforme alle regole della sintassi al pari di "Piero gioca a scacchi", mentre "Il fratello

di Ada è biondo gioca a scacchi" è un'ovvia sgrammaticatura.

Nel testo “Senso e significato”, Frege si propone di definire il senso e il

significato (1) di quelli che egli considera nomi propri e (2) degli enunciati.

E’ opportuno intanto tener presente qual è il senso e il significato di quelli che

Frege considera nomi propri. E, in secondo luogo, le ragioni di una tale distinzione.

Consideriamo la distinzione fra senso e significato di un nome proprio proposta da

Frege. Frege ritiene che il significato di un nome proprio sia un oggetto, l’oggetto che

il nome designa, cioè il riferimento del nome (ad esempio il significato di “Giorgio

Napolitano” è la persona Giorgio Napolitano in carne ed ossa, così come il

riferimento di “la montagna più alta del mondo” è il monte Everest). Mentre il senso

di un nome proprio è “il modo di darsi dell’oggetto” (“Senso e significato”, p. 19).

Perché è opportuna questa distinzione riguardo ai nomi propri?

Sempre in “Senso e significato” si possono individuare due ragioni:

1) la distinzione fra senso e significato serve per rendere conto dell’informatività

di alcuni enunciati di identità

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2) la distinzione fra senso e significato serve per rendere conto dei nomi propri

senza significato

Consideriamo innanzitutto il punto 1). Supponiamo che i nomi propri (nel senso di

Frege) abbiano un significato, senza avere un senso. Consideriamo due enunciati di

identità come:

1. La Stella del Mattino = la Stella del Mattino

2. La Stella del Mattino = la Stella della Sera

Poiché i nomi propri “la Stella del Mattino” e “la Stella della Sera” hanno lo stesso

significato (designano entrambi il pianeta Venere), allora i due enunciati di identità

hanno lo stesso significato (infatti hanno lo stesso valore di verità, sono entrambi

veri) e non si riesce a spiegare perché il secondo enunciato è informativo, mentre il

primo non lo è.

Se invece si riconosce che i due nomi propri “la Stella del Mattino” e “la Stella

della Sera” hanno sensi diversi, allora si può spiegare perché il secondo enunciato è

informativo mentre il primo non lo è. Infatti nel secondo enunciato lo stesso oggetto

(il pianeta Venere) “ci è dato” in due modi diversi, mentre nel primo enunciato

l’oggetto ci è dato in un unico modo. Quindi l’informatività del secondo enunciato

dipende dai diversi sensi che sono associati ai due nomi propri “la Stella del Mattino”

e “la Stella della Sera”. E il pensiero espresso dal secondo enunciato è diverso dal

pensiero espresso dal primo enunciato.

Consideriamo ora il punto 2). Succede talvolta che un nome proprio non abbia

significato. Non c’è un oggetto che il nome designa. Frege in “Senso e significato”

considera due esempi. Uno è “la serie meno convergente” e l’altro è il nome

“Odisseo”.

Frege prende in considerazione un enunciato che contiene il nome proprio

“Odisseo”, ovvero “Odisseo approdò ad Itaca immerso in un sonno profondo” (p. 24).

Frege scrive che è dubbio se il nome proprio “Odisseo” abbia un significato e quindi

un riferimento e tuttavia noi possiamo comunque capire l’enunciato che contiene il

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nome “Odisseo”. Noi capiamo questo enunciato anche se il nome “Odisseo” non

avesse significato perché il nome ha un senso.

Altri esempi (diversi da quelli proposti da Frege) di nomi propri che hanno un

senso ma non hanno un significato sono: “il più grande numero naturale”, “la villa

con piscina in cima al Cervino”, “l’ippopotamo che vola”, “Madame Bovary”, ecc.

Ma cosa succede a un enunciato quando in esso compare un nome proprio che

ha un senso ma non ha un significato? Per Frege, il significato di un enunciato è il

suo valore di verità. E, per il noto principio di composizionalità, il significato di un

enunciato si ottiene componendo il significato delle parti che lo compongono. Ora, se

una delle parti dell’enunciato non ha significato, allora l’intero enunciato non ha

significato. Quindi un enunciato in cui compare un nome che non ha significato non

ha esso stesso significato, non ha quindi un valore di verità, non è cioè né vero né

falso. Ma tuttavia esprime un pensiero e questo ci permette di comprenderlo.

2. Frege: forma logica e significato

Consideriamo ora qual è la forma logica di un enunciato che contiene un nome

proprio. La notazione usata da Frege non è più utilizzata. Come fa Kenny, utilizziamo

la notazione introdotta da Peano, poi adottata da Russell e Whitehead, e ora di uso

corrente.

Prendiamo, ad esempio, gli enunciati "Luisa è alta", "Michele è biondo" e

"Michele diverte Luisa". Anzitutto dobbiamo scegliere due simboli che

corrispondano ai nomi propri "Luisa" e "Michele". Simboli del genere, la cui

funzione è, come nel caso dei nomi propri, quella di designare un individuo o una

singola entità di altro tipo, sono detti costanti individuali. Come costanti individuali

si usano di solito lettere minuscole che non siano tra le ultime dell'alfabeto. Per

tradurre rispettivamente i nomi propri "Luisa" e "Michele" possiamo scegliere le

lettere l e m (ma qualsiasi altra scelta sarebbe stata egualmente legittima). In secondo

luogo dobbiamo decidere come tradurre "è alta", "è biondo" e "diverte". A tale scopo

introduciamo i simboli A, B e D. Simboli del genere si chiamano costanti

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predicative. Nel ruolo di costanti predicative si usano di solito, come facciamo in

questo caso, lettere maiuscole (peraltro, non c'è nessun vincolo su quale lettera usare

per esprimere un certo significato; se qui, come traduzioni di "è alta", "è biondo" e di

"diverte" avessimo scelto lettere diverse da A, B e D, sarebbe andato bene lo stesso).

A questo punto, la traduzione simbolica dell'enunciato "Luisa è alta" si ottiene

combinando la costante predicativa A e la costante individuale l nel modo seguente:

A(l)

Analogamente, la traduzione di "Michele è biondo" sarà

B(m)

Per ottenere invece la traduzione simbolica di "Michele diverte Luisa",

dobbiamo combinare la costante predicativa D e le costanti individuali l e m così:

D(m, l)

Combinando diversamente i simboli appena introdotti, possiamo tradurre anche

"Michele è alto", "Luisa è bionda" e "Luisa diverte Michele". Le traduzioni di questi

tre enunciati saranno rispettivamente A(m), B(l) e D(l, m). Si noti che, una volta che

abbiamo scelto il simbolo A per tradurre "è alta", possiamo usarlo anche per tradurre

"è alto" e che analogamente, una volta che abbiamo scelto il simbolo B per tradurre

"è biondo", possiamo usarlo anche per tradurre "è bionda": il motivo è che un

linguaggio formale come quello che stiamo descrivendo non tiene conto delle

distinzioni di genere. Si noti inoltre che l'ordine delle due costanti individuali che, in

un enunciato, seguono la costante predicativa D è rilevante: infatti, D(m, l) significa

una cosa diversa da D(l, m).

Noi sappiamo inoltre che “Michele diverte Luisa” può essere tradotto non solo

nel modo seguente D(m,l), ma può anche essere tradotto con la costate predicativa L

che traduce “diverte Luisa” nel modo seguente L(m) oppure può essere tradotto con

la costante predicativa M che traduce “Michele diverte” nel modo seguente M(l).

Ciò che possiamo osservare è che quando in un enunciato compaiono uno o più

nomi propri connessi da un predicato, allora la traduzione sarà costituita da una

costante predicativa che si applica a una costante individuale (in questo caso si tratta

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di una costante predicativa unaria) o a più costanti individuali (in questo caso si tratta

di una costante predicativa binaria, ternaria, ecc.).

Nell’Ideografia Frege chiama funzione la parte insatura dell’enunciato che

traduciamo con una costante predicativa. In “Funzione e concetto” egli chiama

funzione o concetto il significato (o denotazione) della parte insatura dell’enunciato.

Una funzione, proprio per la sua natura insatura, ha bisogno di un argomento

per essere saturata. Qual è l’argomento della funzione? Se la funzione è considerata

una parte insatura dell’enunciato (come nell’Ideografia) allora il suo argomento sarà

un nome proprio (ad esempio nel caso dell’enunciato “Cesare conquistò la Gallia”, la

funzione linguistica “conquistò la Gallia” si applica al nome proprio o argomento

linguistico “Cesare”). Se invece, come in “Funzione e concetto” o in “Concetto e

oggetto”, la funzione è considerata il significato della parte insatura dell’enunciato,

allora l’argomento della funzione non è il nome proprio “Cesare”, ma è ciò che il

nome significa, cioè l’oggetto denotato, nel caso specifico la persona Cesare.

Una funzione mette in relazione argomenti con valori: per ogni argomento a

cui si applica la funzione, c’è un valore che la funzione assume. Consideriamo ad

esempio la funzione che è la denotazione (o il significato) di “conquistò la Gallia”: se

applicata alla persona a cui si riferisce il nome proprio “Cesare” assume il seguente

valore di verità: il Vero; se applicata alla persona a cui si riferisce il nome proprio

“Caligola” assume il seguente valore di verità: il Falso.

Emerge così che per Frege all’analisi logica degli enunciati corrisponde

un’analisi semantica. Ogniqualvolta traduciamo una parte di un enunciato con una

costante predicativa, allora consideriamo il significato di quella parte di enunciato un

concetto, cioè una funzione che ha come argomenti, oggetti, e come valori, valori di

verità.

Tuttavia le funzioni che assumono come argomenti, oggetti, e come valori,

valori di verità, non sono i soli concetti. Per Frege sono concetti tutte le funzioni che

assumono come valori, valori di verità. Ci sono però funzioni che non hanno come

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argomenti oggetti: si tratta delle funzioni di secondo livello. Per intendere tali

funzioni occorre introdurre i quantificatori.

Occorre innanzitutto considerare come tradurre in forma logica gli enunciati

della lingua italiana in cui figurano le parole "qualche" e "ogni". Di enunciati del

genere i logici si sono occupati da quando esiste la logica: basti ricordare che il cuore

della logica aristotelica è costituito dalla teoria del sillogismo, e i sillogismi sono

forme di ragionamento la cui validità dipende in modo essenziale proprio dal

significato di parole come "qualche" e "ogni" ("Ogni uomo è mortale; ogni greco è

uomo; dunque, ogni greco è mortale"; "Ogni ladro merita la prigione; qualche uomo

politico è ladro; dunque, qualche uomo politico merita la prigione"). Fino

all'Ottocento, tuttavia, i logici non sono riusciti a spiegare in modo davvero

soddisfacente come queste parole funzionino. Li fuorviava la grammatica delle lingue

naturali. Sintagmi come "qualche cosa", "ogni cosa", "qualche studente", "ogni

studente", ecc. possono occupare più o meno le stesse posizioni sintattiche dei nomi

propri e appartengono perciò alla medesima categoria grammaticale. Questo fatto ha

indotto per secoli i logici a ritenere che gli enunciati contenenti le parole "qualche" e

"ogni" dovessero essere analizzati in modo simile agli enunciati contenenti nomi

propri. Frege fu il primo a rendersi conto che questo era un errore e la differenza da

lui ravvisata tra gli enunciati dell'uno e dell'altro tipo si riflette nel diverso modo in

cui li traduce nella sua Ideografia.

Spieghiamo anzitutto come il nostro simbolismo debba essere arricchito per

poter tradurre enunciati dell’italiano che contengono le espressioni “qualche cosa” e

“ogni cosa”. A tale scopo, ci servono i simboli ∃ e ∀, chiamati rispettivamente

quantificatore esistenziale e quantificatore universale. Questi due simboli si usano

insieme con le cosiddette variabili. Come variabili si adoperano di solito lettere

minuscole prese dal fondo dell’alfabeto: u, v, w, x, y, z (se queste lettere non bastano,

si possono aggiungere indici numerici: u0, u1, u2, …, v0, v1, v2, …, ecc.). Le variabili

possono comparire nelle posizioni in cui compaiono le costanti individuali, ma non

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devono essere confuse con esse. A differenza delle costanti individuali, le variabili

non designano individui o oggetti determinati: il loro ruolo assomiglia piuttosto a

quello che, in certi contesi, hanno i pronomi.

In che modo i quantificatori e le variabili possano essere usati per tradurre le

frasi dell’italiano contenenti le espressioni “qualche cosa” e “ogni cosa”, può essere

illustrato per mezzo di esempi. Prendiamo le frasi “Qualche cosa è eterna” e “Ogni

cosa è fatta di materia”. Decidiamo di tradurre i predicati “è eterno” e “è fatto di

materia” rispettivamente con E e M. La prima delle due frasi può allora essere

tradotta come

∃vE(v)

e la seconda come

∀zM(z)

Per alleviare lo sconcerto che può suscitare questa notazione la prima volta che

la si incontra, ragioniamo nel modo seguente. Ciò che esprimiamo con l'enunciato

"Qualche cosa è eterna", possiamo riesprimerlo dicendo "Qualche cosa è tale che essa

è eterna": questo secondo enunciato è meno naturale e meno elegante del primo, ma

ha esattamente lo stesso significato. Una volta stabilito ciò, possiamo immaginare che

l'enunciato simbolico ∃vE(v) sia costituito da due parti che corrispondono

rispettivamente a "qualche cosa è tale che" e a "essa è eterna":

∃v E(v)

qualche cosa è tale che essa è eterna

Il fatto che qui E(v) sia concepito come corrispondente a "essa è eterna"

chiarisce l'affermazione fatta sopra secondo cui il ruolo delle variabili è paragonabile

a quello svolto in certi casi dai pronomi.

Un discorso analogo vale per ∀zM(z). L'enunciato "Ogni cosa è fatta di materia"

è parafrasabile come "Ogni cosa è tale che essa è fatta di materia", e noi possiamo

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immaginare che ∀zM(z) sia costituito da due parti, una che corrisponde a "ogni cosa

è tale che" e una che corrisponde a "essa è fatta di materia":

∀z M(z)

ogni cosa è tale che essa è fatta di materia

Nel gergo un po’ sgrammaticato dei logici, ∃vE(v) si può leggere anche

“Qualche v è tale che v è eterno”, mentre ∀zM(z) si può leggere “Ogni z è tale che z

è fatto di materia”.

Un’osservazione importante: negli esempi appena fatti, abbiamo usato in un

caso la variabile v e nell’altro la variabile z. Ma in entrambi i casi si sarebbe potuta

usare qualsiasi altra variabile (invece di ∃vE(v) avremmo benissimo potuto scrivere

∃yE(y), o ∃zE(z), ecc.; analogamente, invece di ∀zM(z), avremmo potuto scrivere

∀vM(v), o ∀wM(w), ecc.). L’unica regola è che, in un enunciato, a ogni occorrenza

di un quantificatore deve corrispondere una e una sola variabile, e inoltre non deve

esserci nessuna confusione circa le variabili che corrispondono alle diverse

occorrenze di quantificatori quando di occorrenze di quantificatori ce ne sono più

d’una. E' opportuno aggiungere qualche altro esempio che aiuti il lettore ad acquistare

familiarità con la nuova notazione. Usiamo s come costante individuale denotante il

Sole e F come costante predicativa binaria avente il significato di “fa muovere”.

Allora le frasi “Il Sole fa muovere ogni cosa”, “Qualche cosa fa muovere il Sole” e

"Qualche cosa fa muovere se stessa" possono essere tradotte rispettivamente così:

∀vF(s, v) (“Ogni v è tale che il Sole fa muovere v”),

∃yF(y, s) (“Qualche y è tale che y fa muovere il Sole"),

∃yF(y, y) ("Qualche y è tale che y fa muovere y").

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Se usiamo = per indicare la relazione di identità, possiamo tradurre l'enunciato

"Ogni cosa è identica a se stessa" scrivendo

∀v v = v (“Ogni v è tale che v è identico a v"). I quantificatori possono essere usati in combinazione con i connettivi enunciativi

(i connettivi sono la negazione ∼ che si legge “non si dà il caso che”, ∧ che si legge

“e”, ∨ che si legge “o”, → che si legge “se…allora”). Ecco qualche esempio:

∀v(M(v) ∨ E(v)) (“Ogni v è tale che v è fatto di materia oppure v è eterno”, cioè

“Ogni cosa è fatta di materia oppure è eterna”), (∃vM(v) ∧ ∃wE(w)) (“Qualche v è

tale che v è fatto di materia e qualche w è tale che w è eterno”, cioè “Qualche cosa è

fatta di materia e qualche cosa è eterna”), ∼∃vE(v) (“Non si dà il caso che qualche v

è tale che v è eterno”, cioè “Non si dà il caso che qualche cosa è eterna”). Quando in

un enunciato compaiono insieme un quantificatore e il simbolo della negazione, è

importante fare attenzione all’ordine in cui sono disposti. Ad esempio, ∼∃vE(v) dice

una cosa molto diversa da ∃v∼E(v). Supponiamo che nel mondo ci siano tanto cose

eterne quanto cose non eterne: allora ∼∃vE(v) (“Non si dà il caso che qualche cosa è

eterna”) è falso, mentre ∃v∼E(v) (“Qualche v è tale che v non è eterno”, cioè

“Qualche cosa non è eterna”) è vero. Bisogna fare attenzione, inoltre, alla differenza

che c’è tra due enunciati come “(∃vM(v) ∧ ∃wE(w))” e “∃v(M(v) ∧ E(v))”.

Supponiamo che al mondo ci siano tanto cose fatte di materia quanto cose

immateriali, e che inoltre solo le cose immateriali siano eterne: allora (∃vM(v)

∧ ∃wE(w)) (“Qualche cosa è fatta di materia e qualche cosa è eterna”) è vero, mentre

∃v(M(v) ∧ E(v)) (“Qualche v è tale che v è fatto di materia e v è eterno”, cioè

“Qualche cosa è fatta di materia ed eterna”) è falso.

I due quantificatori sono interdefinibili: quello esistenziale è definibile a partire

da quello universale e viceversa. Invece di ‘∃x’ potremmo scrivere ‘∼∀x∼’, e invece

di ‘∀x’ potremmo scrivere ‘∼∃x∼’. Ad esempio, invece di ∃vE(v) potremmo scrivere

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∼∀v∼E(v) (perché “Qualche cosa è eterna” ha lo stesso significato di “Non è vero

che ogni cosa non è eterna”), e invece di ∀vE(v) potremmo scrivere ∼∃v∼E(v)

(perché “Ogni cosa è eterna” ha lo stesso significato di “Non si dà il caso che qualche

cosa non è eterna”). Volendo risparmiare sul numero dei simboli, potremmo perciò

scegliere uno dei due quantificatori e servirci solo di quello. Ma, in pratica, è più

comodo disporre di entrambi.

Fin qui ci siamo occupati di come si possano tradurre in notazione simbolica le

frasi contenenti le espressioni “qualche cosa” e “ogni cosa”. In italiano, però, le

parole “qualche” e “ogni” sono usate spesso in combinazione non con “cosa”, bensì

con altri nomi comuni o anche con espressioni complesse (“qualche studente”, “ogni

numero”, “qualche numero dispari”, “ogni studente che ha superato l’esame”, ecc.).

Vediamo dunque come si possano tradurre in simboli le frasi contenenti espressioni

siffatte.

Prendiamo la frase (1) “Qualche tigre è feroce”. Un altro modo di esprimere ciò

che è espresso da (1) è (2) “Qualche cosa è una tigre ed è feroce”: (2) è una frase un

po’ insolita, ma ha esattamente lo stesso significato di (1). Usando T e F come

controparti simboliche rispettivamente di “è una tigre” e di “è feroce”, (2) può essere

tradotta scrivendo

∃v(T(v) ∧ F(v))

Ma siccome (1) e (2) hanno lo stesso significato, questa è anche una traduzione

adeguata di (1).

Consideriamo adesso l’enunciato (3) “Ogni tigre è feroce”. Frege considera (3)

come equivalente dal punto di vista logico a (4) “Ogni cosa, se è una tigre, allora è

feroce”. (3) e (4) sono tradotti così:

∀v(T(v) → F(v)). In generale, la ricetta è la seguente. Supponendo che X e Y siano le traduzioni

simboliche di “essere P” e “essere Q”, “Qualche P è Q” si traduce come ∃v(X(v)

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∧ Y(v)), e “Ogni P è Q” si traduce come ∀v(X(v) → Y(v)) (naturalmente qui come

altrove la scelta della variabile è arbitraria,e invece di v se ne può usare un'altra).

Talvolta, gli studenti che cercano di imparare le cose a memoria senza sforzarsi

di capirle si confondono e scrivono ∧ invece di → o viceversa: ad esempio, dovendo

tradurre in simboli “Ogni tigre è feroce”, scrivono ∀v(T(v) ∧ F(v)). Ma basta

riflettere un attimo per rendersi conto che questa è una traduzione sbagliata: ∀v(T(v)

∧ F(v)) vuole dire non che ogni tigre è feroce, bensì che ogni cosa è una tigre ed è

feroce, il che è molto diverso (forse è vero che ogni tigre è feroce, ma è certamente

falso che ogni cosa è una tigre ed è feroce: il computer su cui scrivo, ad esempio, non

è una tigre e non è feroce). Pensandoci su un po’, si vede facilmente che sarebbe

sbagliato anche tradurre “Qualche tigre è feroce” come ∃v(T(v) → F(v)). La ricetta che abbiamo illustrato può servire per tradurre anche frasi di forma

diversa da “Qualche P è Q” e “Ogni P è Q”. In italiano “Almeno una tigre è feroce”,

“C’è una tigre feroce”, “C’è almeno una tigre che è feroce” e “Una tigre è feroce”

sono tutte frasi che dal punto di vista logico sono equivalenti a “Qualche tigre è

feroce”: perciò, possiamo tradurle tutte come ∃v(T(v) ∧ F(v)). Analogamente, “Tutte

le tigri sono feroci”, “Le tigri sono feroci”, “Qualunque tigre è feroce”, ecc. sono

tutte frasi equivalenti dal punto di vista logico a “Ogni tigre è feroce”: dunque,

possono tutte essere tradotte scrivendo ∀v(X(v) → Y(v)).

Ora che abbiamo considerato la forma logica di enunciati che contengono

espressioni come “tutti”, “ogni”, “qualche”, “un”, “una”, “uno” occorre considerare

come questa analisi logica sia utile per comprendere il significato delle espressioni

linguistiche coinvolte.

Riconsideriamo ad esempio l’enunciato “Qualcosa è eterno”. La sua forma

logica è:

∃x (Ex)

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Nella forma logica è riconoscibile la costante predicativa E. E traduce in forma

logica la parte dell’enunciato “è eterno” il cui significato è un concetto, cioè una

funzione di primo livello.

Ma come dobbiamo interpretare la parte restante della forma logica

dell’enunciato, cioè “∃x (…x)”? Questa è la forma logica che corrisponde alla parola

“qualcosa”. Qual è il significato del termine che viene tradotto con questa forma

logica? Frege direbbe che si tratta di una funzione di secondo livello: una funzione

che assume come argomenti, funzioni (cioè funzioni di primo livello), e come valori,

valori di verità. In particolare se applichiamo la funzione di secondo livello denotata

da “qualcosa” alla funzione di primo livello denotata da “è eterno” si ottiene come

valore il Vero se c’è almeno una cosa eterna nell’universo e il Falso altrimenti. Per

dirlo altrimenti, se il concetto denotato da “è eterno” cade nel concetto di secondo

livello denotato da “essere posseduto da almeno una cosa”, allora l’enunciato

“qualcosa è eterno” ottiene come valore il Vero, ottiene come valore il Falso

altrimenti.

Riassumiamo. La parola “qualcosa” è tradotta in simboli logici con ∃x(…x) e

ha come significato un concetto (cioè una funzione di secondo livello). E’ molto

importante notare che la parola “qualcosa” non denota un oggetto, ma un concetto.

Consideriamo ora l’enunciato “Una tigre è feroce”. La sua forma logica è la

seguente: ∃x (Tx∧Fx). Qual è la forma logica della descrizione indefinita “una tigre”?

La sua forma logica è la seguente: ∃x (Tx∧…x). E qual è il significato della

descrizione indefinita? Frege direbbe che il suo significato è un concetto, cioè una

funzione di secondo livello (quella denotata da “essere posseduto da almeno una

tigre” che può essere applicata alla funzione di primo livello denotato da “è feroce”).

Ripetiamolo ancora: una funzione di secondo livello è una funzione che assume come

argomenti, funzioni (cioè funzioni di primo livello), e come valori, valori di verità.

Quindi la descrizione indefinita “una tigre” non ha come significato un oggetto, bensì

un concetto.

15

Frege, in “Funzione e concetto”, fornisce un criterio generale per distinguere

fra espressioni che denotano oggetti e espressioni che denotano concetti (si veda

Kenny p. 125): l’articolo determinativo singolare indica sempre un oggetto, mentre

l’articolo indeterminativo accompagna i termini concettuali (i termini cioè che hanno

come significato un concetto).

Esercizio 1- Tenendo presente la teoria di Frege, lo studente è invitato a tradurre in

forma logica e a definire il significato delle espressioni coinvolte nei seguenti

enunciati: “Un uomo con la giacca verde è simpatico”, “L’uomo con la giacca verde è

simpatico”, “Un coniglio viola vola nel cielo”, “Il coniglio viola vola nel cielo”, “Ho

incontrato un unicorno”, “Ho incontrato l’unicorno”.

3. Russell: le descrizioni definite e le descrizioni indefinite

Come si è visto, per Frege le descrizioni definite sono considerate nomi propri.

Bertrand Russell chiama termini singolari quelle espressioni che Frege chiama nomi

propri. Russell inoltre distingue, all’interno dei termini singolari, nomi propri e

descrizioni definite. L’obiettivo di Russell è dimostrare che la forma logica che

assumono le descrizioni definite è diversa da quella dei nomi propri.

Bertrand Russell, nel testo “Le descrizioni”, paragona le descrizioni definite

alle descrizioni indefinite. Le descrizioni indefinite sono tutte quelle espressioni che

sono precedute da un articolo indeterminativo singolare (un, una, uno) e che possono

fungere da soggetto grammaticale.

Esempi di descrizioni indefinite sono: “un uomo”, “un cappello con le piume”, “un libro

interessante”, “una scatola che contiene gioielli”. E’ bene tener presente la distinzione fra

descrizioni indefinite e enunciati che contengono descrizioni indefinite: ad esempio “un uomo sta

leggendo il giornale in piazza Duomo a Milano” non è una descrizione indefinita, ma un enunciato

che contiene una descrizione indefinita (la descrizione definita è “un uomo”). Invece “un uomo che

sta leggendo il giornale in piazza Duomo a Milano” è una descrizione indefinita (infatti può

formare un enunciato insieme a un predicato come ad esempio “un uomo che sta leggendo il

giornale in piazza Duomo a Milano è ricercato dalla polizia”).

16

La strategia argomentativa di Russell è la seguente: così come Frege sarebbe

disposto ad ammettere che la forma logica di una descrizione indefinita non è una

costante individuale e il suo significato non è un oggetto, si deve riconoscere che

(contrariamente a quanto sosteneva Frege) anche la forma logica di una descrizione

definita non è una costante individuale e il suo significato non è un oggetto.

4. La forma logica degli enunciati che contengono descrizioni indefinite

Consideriamo il seguente enunciato “Una tigre di Mario è feroce”. Qual è la

forma logica di tale enunciato? Se introduciamo M come costante predicativa per

“essere tigre di Mario” e F come costante predicativa per “essere feroce”, abbiamo la

seguente traduzione:

(A) ∃x (M(x) ∧ F(x))

Ora qual è la forma logica della descrizione indefinita “una tigre di Mario”?

La forma logica è la seguente:

∃x (M(x) ∧ …(x))

Qual è il significato di un’espressione di questo tipo per Frege?

Frege direbbe che il suo significato è un concetto, cioè una funzione di secondo

livello.

Ora, come è evidente, se un’espressione linguistica ha come significato una

funzione, non ha come significato un oggetto. Una descrizione indefinita, per Frege

come per Russell, non ha come significato un oggetto, bensì un concetto.

La forma logica di un enunciato come “una tigre di Mario è feroce”, come

abbiamo visto, è la seguente: ∃x (M(x) ∧ F(x))

Un tale enunciato è quindi falsificato dalla seguente condizione:

- Non esiste qualcosa che è tigre di Mario ed è feroce

La forma logica che corrisponde tale condizione è la seguente (si noti che (B) è

la contraddittoria di (A)):

(B) ∼ ∃x (M(x) ∧ F(x))

17

Fin qui Frege e Russell sarebbero fondamentalmente d’accordo. Sarebbero cioè

d’accordo che non è necessario che Mario abbia una tigre affinché l’enunciato “una

tigre di Mario è feroce” abbia significato. Se Mario è un tranquillo professore

universitario che non possiede una tigre, l’enunciato è semplicemente falso, sarebbe

vero cioè (B).

5. La forma logica degli enunciati che contengono descrizioni definite

La differenza fra Frege e Russell emerge quando si considera un enunciato che

contiene una descrizione definita come ad esempio “La tigre di Mario è feroce”. In

questo caso per Frege la forma logica dell’enunciato è la seguente:

F(a)

“a” è una costante individuale e traduce la descrizione definita “la tigre di

Mario”. Per Frege, una descrizione definita è un nome proprio e il suo significato è

un oggetto: l’oggetto che la descrizione descrive. Se Mario non ha tigri o se Mario

possiede più di una tigre, allora la descrizione definita non ha significato e quindi

l’intero enunciato è privo di valore di verità: non è né vero né falso.

Russell invece pone l’accento sull’analogia fra descrizioni indefinite e

descrizioni definite. Così come accettiamo che l’enunciato “Una tigre di Mario è

feroce” abbia un valore di verità anche se Mario non possiede alcuna tigre, allo stesso

modo dobbiamo accettare che l’enunciato “La tigre di Mario è feroce” abbia un

valore di verità anche se Mario non ha alcuna tigre.

Tuttavia Russell riconosce che c’è una differenza fra descrizioni indefinite e

descrizioni definite; in particolare c’è una differenza fra “una tigre di Mario” e “la

tigre di Mario”. Ogniqualvolta utilizziamo la descrizione definita “la tigre di Mario”

ci aspettiamo che Mario non abbia più di una tigre (mentre non lo esigiamo quando

utilizziamo la descrizione indefinita “una tigre di Mario”).

Ricordiamolo, la traduzione logica di “una tigre di Mario è feroce” è la

seguente:

∃x (M(x) ∧ F(x))

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Per Russell, “la tigre di Mario è feroce” è la congiunzione delle tre clausole

seguenti:

1*) esiste almeno una cosa che è tigre di Mario

2*) al massimo una cosa è tigre di Mario

3*) qualunque cosa sia tigre di Mario è feroce

Ciascuna di esse può essere tradotta nel modo seguente:

1*) ∃x M(x)

2*) ∃x ∀y (M(y) → x=y)

3*) ∀x (M(x) → F(x))

La forma logica di (o la proposizione espressa da) “La tigre di Mario è feroce” è

quindi la seguente (che corrisponde alla congiunzione delle tre clausole precedenti):

∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y) ∧ F(x))

La descrizione definita richiede una clausola di unicità (che non è invece

richiesta dalla descrizione indefinita); la clausola di unicità è la seguente:

∃x ∀y (M(y) → x=y)

che si legge “esiste un x tale che per ogni y, se y è tigre di Mario, allora y è

uguale a x” e che traduce proprio 2*).

E qual è la forma logica della descrizione definita “la tigre di Mario”? La

traduzione è la seguente:

∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y) ∧ …(x))

Per utilizzare la terminologia di Frege, se questa è la forma logica della

descrizione definita, il suo significato è un concetto, cioè una funzione di secondo

livello.

Ricapitoliamo in modo schematico:

Per Russell sono corrette le seguenti traduzioni in forma logica

[dove R è una costante predicativa che traduce “essere P” e S è una costante

predicativa che traduce “essere Q”]

Un P è Q = ∃x (R(x) ∧ S(x))

Il P è Q = ∃x (R(x) ∧ ∀y (R(y) → x=y) ∧ S(x))

19

Per Frege sono corrette le seguenti traduzioni in forma logica

Un P è Q = ∃x (R(x) ∧ S(x))

Il P è Q = S(a)

La differenza non riguarda la traduzione degli enunciati che contengono una

descrizione indefinita, ma la traduzione degli enunciati che contengono una

descrizione definita.

6. Perché Frege non adotta la traduzione di Russell e come Russell difende la sua

traduzione delle descrizioni definite

Sebbene Russell elabori le sue idee dopo Frege, è chiaro che Frege aveva preso

in considerazione la traduzione che Russell propone per le “descrizioni definite”, ma

la rifiuta. Perché la rifiuta?

Se la strategia argomentativa di Russell a sostegno della traduzione logica che

propone è quella di stabilire un parallelo fra descrizioni indefinite e descrizioni

definite, la strategia argomentativa di Frege è quella di stabilire un parallelo fra nomi

propri e quelle che Russell chiamerà descrizioni definite (e che Frege invece chiama

“enunciati subordinati nominali”). In effetti c’è una differenza fra descrizioni definite e enunciati subordinati nominali. Le descrizioni

definite, come si è visto, sono introdotte da un articolo determinativo singolare. Gli enunciati

subordinati nominali sono introdotti da espressioni come “colui che”, “ciò che”, ecc. C’è quindi

una differenza grammaticale fra descrizioni definite e enunciati subordinati nominali. Tuttavia la

differenza grammaticale non sembra rilevante ai fini del contenuto espresso da descrizioni definite

e enunciati subordinati nominali corrispondenti. Ad esempio nell’enunciato “lo scopritore

dell’orbita ellittica dei pianeti morì in miseria” la descrizione definita (“lo scopritore dell’orbita

ellittica dei pianeti”) esprime lo stesso contenuto dell’enunciato subordinato nominale (“colui che

scoprì l’orbita ellittica dei pianeti”) in “colui che scoprì l’orbita ellittica dei pianeti morì in

miseria”.

6.1 Traduzione logica di Russell

Riconsideriamo per un attimo la traduzione logica che Russell fornisce

dell’enunciato “La tigre di Mario è feroce”. La traduzione è la seguente:

20

(*) ∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y) ∧ F(x))

Che cosa rende questo enunciato falso ?

Ci sono almeno due diverse condizioni che possono rendere falso questo enunciato:

1] non esiste una e una sola tigre di Mario

2] Mario possiede una sola tigre ma non è feroce

Se viene soddisfatta la prima delle due condizioni, allora sarà vero ciò che segue:

[1] ∼∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y))

Tuttavia se viene soddisfatta la seconda delle due condizioni, allora sarà vero ciò che

segue:

[2] ∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y) ∧ ∼F(x))

Russell menziona esplicitamente queste due possibilità nell’ultimo paragrafo

del testo in esame. Egli ritiene quindi che la negazione dell’enunciato “la tigre di

Mario è feroce” sia ambigua fra due diverse interpretazioni. Si può ritenere che la

negazione di (*) sia la sua contraddittoria:

α) ∼∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y) ∧ F(x))

In tal caso, per Russell, la descrizione definita ha occorrenza secondaria.

Oppure si può pensare che la negazione di (*) sia una contraria, cioè:

β) ∃x (M(x) ∧ ∀y (M(y) → x=y) ∧ ∼F(x))

In tal caso la descrizione definita ha occorrenza primaria secondo Russell.

E’ interessante notare che nel caso Mario non abbia alcuna tigre α) è vera e β) è falsa.

Esercizio 2 - Russell utilizza l’enunciato “L’attuale re di Francia è calvo”. Lascio

agli studenti il compito di ricostruire la traduzione logica dell’enunciato e

l’argomentazione di Russell al riguardo.

6.2 Parallelo di Frege fra descrizioni definite e nomi propri

Frege rifiuta l’analisi che verrà successivamente proposta da Russell perché

ritiene che sia inaccettabile che un enunciato che contiene una descrizione definita

21

possa essere falsificato dalle due condizioni proposte da Russell (in particolare ritiene

inaccettabile la prima condizione).

Egli propone un parallelo fra un enunciato che contiene un nome proprio e un

enunciato che contiene quello che egli chiama “enunciato subordinato nominale” e

che noi chiameremo con Russell “descrizione definita”.

Per Frege, quando noi usiamo un nome proprio, non è parte del senso

dell’enunciato contenente il nome che il nome designi qualcosa. In effetti, se

consideriamo che, per Frege, un enunciato può avere un senso (cioè esprimere un

pensiero) anche se il nome in esso contenuto non designa alcunché, ci sarà chiaro

perché, dal punto di vista di Frege, non può essere parte del senso di un enunciato

contenente un nome che il nome in esso contenuto abbia significato. Consideriamo ad

esempio l’enunciato

(A)“Keplero morì in miseria”.

Qual è la sua negazione? La risposta immediata è che la sua negazione è

(B)“Keplero non morì in miseria”

Se invece accettiamo che è parte del senso dell’enunciato (di cui il nome è un

costituente) che il nome designi qualcosa, allora siamo costretti ad accettare che la

negazione di (A) non sia (B), ma sia piuttosto:

(C) “Keplero non morì in miseria o il nome “Keplero” è privo di significato”

Frege afferma che

(D) il nome “Keplero” ha significato

è una presupposizione tanto di (A) quanto di (B). Occorre che (D) sia vero affinché

sia vero o (A) o (B); se invece (D) è falso, allora né (A) né (B) avranno un valore di

verità.

Allo stesso modo, sostiene Frege, quando usiamo la descrizione definita “lo

scopritore dell’orbita ellittica dei pianeti” in un enunciato come

(E) Lo scopritore dell’orbita ellittica dei pianeti morì in miseria

saremo disposti ad asserire che la sua negazione è

(F) Lo scopritore dell’orbita ellittica dei pianeti non morì in miseria

22

e non saremmo invece disposti a sostenere che la negazione di (E) è

(G) Lo scopritore dell’orbita ellittica dei pianeti non morì in miseria o non vi fu uno

che scoprì l’orbita ellittica dei pianeti

La ragione per cui Frege non adotta la traduzione che invece adotterà Russell

dipende quindi da un parallelo fra nomi propri e descrizioni definite. Se siamo

disposti a riconoscere che non fa parte del senso degli enunciati di cui i nomi propri

sono costituenti che il nome designi qualcosa (che non fa parte, ad esempio, del senso

dell’enunciato che contiene il nome proprio “Keplero” che esista qualcuno che si

chiama Keplero), allo stesso modo, sostiene Frege, non è parte del senso

dell’enunciato che contiene la descrizione definita “lo scopritore dell’orbita ellittica

dei pianeti” che ci sia qualcuno che ha scoperto l’orbita ellittica dei pianeti.

6.3 Russell: nomi propri usati come abbreviazioni di descrizioni definite

Russell prende molto seriamente l’osservazione di Frege che le descrizioni

definite devono essere trattate come nomi propri. E tuttavia Russell ritiene che il

significato di un nome proprio sia un oggetto, mentre una descrizione definita

esprime una funzione proposizionale. Russell riconosce che in molte occasioni non

sembra giustificata una tale distinzione. Perché? Russell scrive più volte in “Le

descrizioni” che noi utilizziamo i nomi propri come abbreviazioni di descrizioni

definite. Quindi l’apparente somiglianza fra nomi propri e descrizioni definite è

proprio spiegata dal fatto che non usiamo i nomi propri come nomi ma usiamo i nomi

propri come se fossero descrizioni definite.

Se Russell ha ragione di sostenere che noi utilizziamo i nomi propri come

abbreviazioni di descrizioni definite ed ha ragione di affermare che è parte della

proposizione espressa dall’enunciato che contiene una descrizione definita che la

descrizione definita designi qualcosa, allora ha ragione di concludere che è parte della

proposizione espressa da un enunciato che contiene un nome proprio utilizzato come

abbreviazione di una descrizione definita che il nome designi qualcosa. Russell

direbbe che l’enunciato “Keplero morì in miseria” è utilizzata come se fosse

23

equivalente a “La persona chiamata “Keplero” morì in miseria” ed esprime la

congiunzione delle tre proposizioni seguenti:

1*) esiste almeno una persona chiamata “Keplero”

2*) al massimo una persona è chiamata “Keplero”

3*) chiunque sia chiamato “Keplero” morì in miseria

La prima delle tre, 1*), asserisce proprio l’esistenza di qualcosa che soddisfa la

descrizione (la descrizione definita è “La persona chiamata “Keplero””), la clausola

di esistenza è quindi parte della proposizione espressa dall’enunciato “La persona

chiamata “Keplero” morì in miseria”. Si tratta a questo punto di chiedersi quali sono i

vantaggi di una tale teoria delle descrizioni definite.

7. Quali sono i pregi della traduzione logica di Russell

Perché dobbiamo accettare che una descrizione definita non designi

direttamente un oggetto e vada tradotta come propone Russell? Per Russell, come

abbiamo visto, un primo argomento è fornito dall’analogia fra descrizioni indefinite e

descrizioni definite. Russell scrive (p. 54): “le proposizioni riguardanti “il così e così”

implicano sempre le proposizioni corrispondenti riguardanti “un così e così” con

l’aggiunta che non esiste più di un così e così”.

Ma c’è un’altra ragione che, anche se non è mai esplicitamente dichiarata, è

riconoscibile nel testo di Russell. La traduzione che propone Russell rende superfluo

introdurre un “senso” per le descrizioni definite (mentre Frege aveva distinto fra

senso e significato). Cerchiamo di scoprire perché. Frege aveva distinto fra senso e

significato riguardo ai nomi propri per due ragioni:

1) la distinzione fra senso e significato serve per rendere conto dell’informatività

di alcuni enunciati di identità

2) la distinzione fra senso e significato serve per rendere conto dei nomi propri

senza significato

Russell intende dimostrare che se accettiamo la traduzione logica che egli

propone, allora la dimensione del “senso” freghiano diventa superflua.

24

Iniziamo dal punto 2). Consideriamo un enunciato come “Il re di Francia è calvo”.

Come è noto, la Francia è una repubblica, pertanto la descrizione definita “il re di

Francia” non ha denotazione. Frege direbbe che la descrizione definita non ha

significato e che l’enunciato che la contiene non ha significato, non ha cioè un valore

di verità.

E tuttavia possiamo comprendere sia la descrizione definita sia l’enunciato che

la contiene. E, per Frege, la ragione è che la descrizione definita ha un senso e

l’enunciato che la contiene esprime un pensiero. Quindi noi possiamo afferrare il

pensiero espresso dall’enunciato anche se l’enunciato non ha significato, anche se

non ha un valore di verità.

Russell sostiene invece che l’enunciato “il re di Francia è calvo” esprime una

proposizione e ha un valore di verità (il falso) anche se non esiste un re di Francia. La

proposizione rende conto del significato dell’enunciato e quindi diventa irrilevante la

dimensione del “senso” freghiana.

E lo stesso succede quando utilizziamo nomi propri privi di denotazione come

se fossero descrizioni definite. Si consideri ad esempio il nome proprio “Omero” di

cui è sensato domandarsi se sia mai esistito. Russell scrive che utilizziamo “Omero”

come l’abbreviazione di una descrizione definita come “l’autore dell’Iliade e

dell’Odissea”. E se non abbiamo bisogno di postulare un senso per gli enunciati che

contengono descrizioni definite non ne abbiamo bisogno neanche per gli enunciati

che contengono nomi propri usati come abbreviazioni di descrizioni definite.

Consideriamo ora il punto 1). Frege, per rendere conto dell’informatività di

alcuni enunciati di identità, introduce la distinzione fra senso e significato.

Consideriamo i due enunciati di identità seguenti:

1. Scott = Scott

2. Scott = l’autore di Waverley

Per Frege, “Scott” e “L’autore di Waverley” designano lo stesso individuo e hanno

pertanto lo stesso significato. Per il principio di sostitutività, dato un qualsiasi

enunciato, è possibile sostituire un’espressione con un’altra avente lo stesso

25

significato senza cambiare il significato dell’enunciato. Ad esempio abbiamo detto

che, per Frege, “Scott” e “L’autore di Waverley” hanno lo stesso significato e quindi

2 può essere ottenuto da 1 per sostituzione di equivalenti. Quindi 1 e 2, per Frege,

hanno lo stesso significato.

Per Russell non è così. “L’autore di Waverley” è una descrizione definita e non

designa direttamente un oggetto. Mentre il nome proprio “Scott” designa direttamente

una persona. Quindi per Russell “Scott” e “l’autore di Waverley” non hanno lo stesso

significato e 2 non è quindi ottenibile a partire da 1 per sostituzione di equivalenti. 1 e

2 non hanno pertanto lo stesso significato per Russell. Egli dirà che 1 è un banale

truismo, mentre 2 è un fatto della storia della letteratura.

Tuttavia, si potrebbe obiettare che “Sir Walter” è un nome proprio che ha lo

stesso significato di “Scott”, sono infatti nomi che designano lo stesso individuo, lo

scrittore Walter Scott. Allora che cosa dire dei due enunciati seguenti?

1. Scott = Scott

3. Scott = Sir Walter

Russell sostiene che i due enunciati esprimono la stessa proposizione se “Scott” e

“Sir Walter” sono usati come nomi propri. Ma come rendere conto dell’apparente

informatività del secondo enunciato? Russell scrive che noi utilizziamo spesso i nomi

propri come abbreviazioni di descrizioni definite; utilizziamo cioè il nome proprio

“Scott” come abbreviazione della descrizione definita “La persona chiamata ‘Scott’”

e “Sir Walter” come abbreviazione della descrizione “La persona chiamata ‘Sir

Walter’”. Se facciamo così, allora utilizziamo 1 e 3 come se fossero:

1. La persona chiamata ‘Scott’ = La persona chiamata ‘Scott’

3. La persona chiamata ‘Scott’= La persona chiamata ‘Sir Walter’

In questo caso, poiché la descrizione definita “La persona chiamata ‘Scott’” è diversa

dalla descrizione definita “La persona chiamata ‘Sir Walter’”, 1 e 3 non esprimono la

stessa proposizione e non hanno neanche la stessa forma logica. Non si pone quindi il

problema posto da Frege: non si pone quindi il problema di rendere conto

dell’informatività di 3.

26

Russell afferma inoltre che quando introduciamo una descrizione definita in un

enunciato di identità non abbiamo mai un banale truismo, al contrario di quello che

succede con i nomi propri. Sono banali truismi i seguenti enunciati di identità,

ottenuti a partire dalla legge di identità “x = x”:

Scott = Scott

Socrate = Socrate

Giorgio Napolitano = Giorgio Napolitano

Ma tutto cambia quando utilizziamo descrizioni definite per gli enunciati di

identità. Consideriamo ad esempio:

L’autore di Waverley = L’autore di Waverley

Il re di Francia = Il re di Francia

Il quadrato rotondo = Il quadrato rotondo

Qual è la forma logica di (o la proposizione espressa da) “Il quadrato rotondo = Il

quadrato rotondo”? Introduciamo la costante predicativa Q che esprime “essere

quadrato rotondo”, allora la traduzione logica sarà la seguente:

∃x (Q(x) ∧ ∀y (Q(y)→x=y) ∧ x=x)

E’ evidente quindi che, poiché non esiste un quadrato rotondo, l’enunciato di identità

è falso e non è pertanto un banale truismo. E per lo stesso motivo ogni enunciato di

identità che contiene una descrizione definita non è mai, per Russell, un banale

truismo.

Riassumiamo. Per Russell le descrizioni definite devono assumere un

trattamento diverso dai nomi propri; in questo modo si può rendere conto della

somiglianza fra descrizioni definite e descrizioni indefinite, inoltre il trattamento

russelliano delle descrizioni definite rende superfluo distinguere fra “senso” e

“significato” per tali espressioni.