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Élisée ReclusL'Ideale e la Gioventù

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TITOLO: L'ideale e la gioventùAUTORE: Reclus, ÉliséeTRADUTTORE: Fumich SergioCURATORE: Fumich SergioNOTE: (CC) 2005. Quest'opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate.

DIRITTI D'AUTORE: sì

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: L' ideale e la gioventu / Elisee Reclus ; a cura di Sergio Fumich. - Brembio : La Gatera, 2005. - 29 p. ; 21 cm. - (Breviari di utopia).

CODICE ISBN: non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 29 aprile 2011

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

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Breviari di Utopia

Titolo originale: L'Idéal et la jeunesse.Traduzione di Sergio Fumich.

(CC) 2005. Quest'opera è stata rilasciata sotto la licenzaCreative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate.

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Ca' "La Gatera"26822 Brembio (LO) - Via Togliatti, 3

Breviari di Utopia

ÉLISÉE RECLUS

L'IDEALE E LA GIOVENTÙ

a cura di Sergio Fumich

Ca' "La Gatera"2005

INTRODUZIONE

"Noi osiamo pensare che la vita d'una persona come Élisée Reclus, i cui meriti nella letteratura e nelle scien­ze sono riconosciuti da tutta la società colta, appartenga non soltanto al suo Paese natale, ma anche alla comunità culturale del mondo intero. Noi siamo persuasi che i la­vori scientifici di Reclus, pubblicati finora, rappresenti­no una garanzia, per il futuro, di nuove opere consisten­ti, ed è perciò che la Francia, condannando un tale indi­viduo ad un silenzio forzato o costringendolo a languire nell'inattività lontano dai centri di cultura, infligge a se stessa una grande perdita e diminuisce la sua influenza morale sul mondo intiero" – così si esprimevano in una petizione del 17 marzo 1872 Darwin, Welles, Carpenter e numerosi altri intellettuali, chiedendo al governo fran­cese la liberazione d'Élisée Reclus condannato alla de­portazione dopo la Comune di Parigi.

Jean Jacques Élisée Reclus nacque in Francia a Sain­te-Foy la Grande (Gironda) il 15 marzo 18301. Fu il se­condogenito di un pastore protestante, che ebbe dodici figli parecchi dei quali acquisirono una certa celebrità come letterati, politici e nelle professioni intellettuali. La sua educazione iniziò nella Prussia renana, continuò nel collegio protestante di Montauban e fu completata

1 Le notizie biografiche sono tratte dall'edizione 1911 dell'En­cyclopedia Britannica, pp. 957-58.

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presso l'università di Berlino, dove Reclus fu allievo del geografo Karl Ritter.

Allontanatosi dalla Francia dopo il colpo di stato di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1851, passò i successi­vi sei anni visitando le Isole Britanniche, gli Stati Uniti, l'America Centrale e la Colombia. Ritornato a Parigi, collaborò con un grande numero di articoli, che delinea­vano i risultati del suo lavoro di geografo, a diversi pe­riodici tra i quali le riviste Revue des deux mondes e Tour du monde. Pubblicò Histoire d'un ruisseau, in cui tracciava lo sviluppo di un grande fiume dalla sorgente alla foce, e nel 1867-68 La Terre; description des phé­nomènes de la vie du globe, in due volumi.

Durante l'assedio di Parigi, partecipò alle azioni con­dotte da Nadar con un pallone aerostatico e prestò servi­zio nella Guardia Nazionale, mentre come membro del­l'Association Nationale des Travailleurs pubblicò in Cri du Peuple un manifesto ostile contro il governo di Ver­sailles in relazione all'insurrezione comunista del 18 marzo 1871. Il 5 aprile fu incarcerato e il 16 novembre fu condannato alla deportazione a vita, sentenza che fu commutata nel gennaio 1872, soprattutto per le pressio­ni provenienti dall'Inghilterra, nell'esilio perpetuo.

Dopo una breve visita in Italia si stabilì a Clarens in Svizzera, dove riprese la sua attività letteraria, realiz­zando, dopo l'Histoire d'une montagne, la sua monu­mentale La Nouvelle Géographie universelle, la terre et les hommes, in 19 volumi.

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Nel 1882 Reclus promosse il "Movimento contro il matrimonio" e in conformità con esso permise che le sue due figlie si sposassero senza alcuna ratifica civile o religiosa. Un passo che creò non poco imbarazzo ai molti suoi sostenitori e che fu seguito dal processo, isti­tuito dal governo presso l'Alta Corte di Lione, contro gli anarchici, membri dell'Associazione Internazionale, di cui Reclus ed il principe Kropotkin furono indicati come i due capi organizzatori. Kropotkin fu arrestato e con­dannato a cinque anni di carcere, Reclus, residente in Svizzera, fuggì.

Dal 1892 occupò la cattedra di geografia comparativa presso l'università di Bruxelles e diede il suo contributo alla scienza con numerose ed importanti memorie pub­blicate da periodici scientifici francesi, tedeschi ed in­glesi. Poco prima della morte, completò L'Homme et la terre. Reclus morì a Thorout, vicino Bruges, il 4 luglio 1905.

L'Idéal et la Jeunesse fu pubblicato nel giugno 1894 sul n° CXIV de La Société Nouvelle. L'anno dopo, 1895, Liberty Press pubblicò a Londra la sua traduzione con il titolo The Ideal and Youth2. Rispetto all'originale, il testo inglese presenta alcune differenze: è meno diret­to, meno implicito ma più didascalico con aggiunte esplicative anche significative. Valga l'esempio seguen­te: là dove il testo francese recita "Nous arrivons à ce

2 Una copia del testo inglese è reperibile sul sito Anarchy Ar­chives.

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moment critique de la vie sociale où le monde va tour­ner sur son axe!", quello inglese traduce sì "Now at last the world is going to revolve on its own axis", ma per spiegare quel "momento critico della vita sociale" espli­cita "and the workers of the world are going to take their affairs into their own hands". Proprio per la caratteristi­ca evidenziata, con una scelta forse criticabile, è stato privilegiato nella traduzione il testo inglese, usando il testo originale là dove la versione londinese rischia di diventare a sua volta oscura per una sorta di eccesso di zelo esplicativo.

Nel libro, Élisée Reclus fustiga nei giovani del suo tempo la mollezza, la mancanza d'entusiasmo e d'ener­gia, d'ideale per dirla in una parola; e critica i metodi d'educazione, in particolare dell'università. La volontà di migliorarsi, di cambiare il mondo sono normalmente sacrificati alla sottomissione ed al gusto del guadagno. Ma Reclus annuncia una nuova era.

Il libro, nonostante l'età, ha ancora, mutatis mutandis, una fresca attualità.

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L'IDEALE E LA GIOVENTÙ

Se la parola "Ideale" ha realmente qualche significa­to, essa significa niente di più di un vago ardente desi­derio per cose migliori, una faticosa ricerca della felici­tà, o un anomalo e triste desiderio per un ambiente meno odioso della società di oggi; eh sì, dobbiamo dare al termine un esatto valore, dobbiamo stabilire risoluta­mente ed in modo intelligente quale sia il preteso fine delle nostre incessanti aspirazioni. Investighiamo dun­que su quell'Ideale.

Per qualcuno non sarebbe altro che un ritorno alle età del passato, all'infanzia dell'umanità; consisterebbe nella negazione della scienza, in una umile prostrazione pari a quella di un vecchio davanti ad un tonante Sinai, e sotto l'occhio di un taumaturgo Mosè, l'autorevole interprete del volere divino. Ad una tale concezione di completa rinuncia e obbedienza gli Anarchici oppongono un'altra, orgogliosamente consistente nella totale libertà indivi­duale e nell'azione volontaria della società – l'azione spontanea resa possibile dalla soppressione di privilegi e di una autorità arbitraria, dall'abolizione della proprietà privata, dal mutuo rispetto, e dall'intelligente coopera­zione con le leggi naturali. Tra questi due ideali non è possibile alcun compromesso: conservatorismo e mode­ratismo, liberalismo, progressismo, e perfino il sociali­smo sono soltanto espedienti politici – ideati per ritarda­

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re un avvenire di libertà, per zittire con poche briciole di libertà le bocche di quanti pretendono l'intera pagnotta. Per nascere dalle doglie dell'evoluzione, l'uomo deve o perdersi in Dio, o, come essere, eretto e libero, divenire il padrone di se stesso.

Prendiamo in considerazione soltanto la seconda al­ternativa, verso la quale in verità dirigono consciamente o inconsciamente il loro pensiero e le loro energie tutti i giovani, nei quali le splendide possibilità di una vita sono latenti. Ahimè, riguardo a questo fine la maggio­ranza opera e ragiona inconsciamente. Vagabondano qua e là, senza uno scopo prestabilito, scettici e pessimi­sti in teoria, sebbene fortunatamente i loro atti siano fre­quentemente contradditori con la loro professione. So­prattutto, sia per loro che per noi stessi, è importante li­berarsi del linguaggio della disperazione. Su quale tipo di futuro potremmo credere se fosse vero che, a dispetto di tutta l'apparenza del contrario, non ci fosse niente di nuovo sotto il sole, e che tutte le lotte umane altro non fossero che conflitti di forze brute, nei quali come con­seguenza naturale, il debole deve essere invariabilmente messo al muro? Di quale utilità in quel caso sarebbe so­gnare e discutere di ambienti sociali migliori dove ci fosse cibo per tutti, libertà e giustizia per tutti? Le nostre parole sarebbero soltanto suoni effimeri, e l'uomo sag­gio, come l'Ecclesiaste disse più di duemila anni fa e come poeti e rimatori da allora spesso e variamente han­no ripetuto, sarebbe soddisfatto di mangiare, bere e far

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baldoria. Prendere la vita come viene sarebbe la vera fi­losofia, e se essa fosse oppressa da troppi guai o da trop­pi dispiaceri, la cosa migliore da fare sarebbe il porvi fine. Una piccola palla di piombo, una minuscola goccia di veleno, e la povera farsa dell'esistenza sarebbe con­clusa.

Sebbene il suicidio sia indiscutibilmente raro tra i giovani, il modo di pensare che lo giustifica è fin troppo comune, e per di più ci sono molti modi di cercare la morte senza il volgare spargimento di sangue. Forse il più conveniente è smettere di vivere in un senso reale, rinunciare ad usare la mente, venire alla conclusione che non c'è più niente da conoscere, lasciarsi trascinare come una pagliuzza nella piena, fare nostre opinioni preconfezionate e ripeterle come pappagalli, considerare sprezzantemente tutti gli sforzi e la ricerca indipenden­te; e benché un ritorno alla superstizione del mondo an­tico sia impossibile, perché non possiamo risuscitare il passato, questi morti viventi fingono di essere parte del quieto gregge dei fedeli, discutono di articoli sul credo, e praticano le buffonate prescritte dai preti. Senza la for­za di carattere o uno sforzo di volontà per scoprire la ve­rità, essi diventano vili ipocriti, e presto raggiungono lo scopo cercato, l'annientamento in loro di ogni nobile qualità umana. Quella è la morte reale; che la cessazione del respiro sia rapida o lenta a seguire, essa causa sol­tanto il collocamento in una bara di una cosa che molto tempo prima era già un cadavere.

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Ma poiché hanno deciso di non vedere, di non ascol­tare, poiché possono essere pessimisti ma uomini portati al piacere – il peggio dei pessimisti – essi si avvedono che un cambiamento incombe sul prossimo futuro: come passeggeri di un bastimento che fa rotta in un mare in tempesta essi sentono il tremolio del fasciame, la vibrazione della nave sulla quale stanno viaggiando, e a dispetto di loro stessi sono spaventati dalla possibilità di un imminente disastro. Il domani proietta la sua om­bra preoccupante sull'oggi: la "questione sociale", o per usare il loro linguaggio, le "questioni sociali" risaltano bene al centro della loro prospettiva, e sanno che ostaco­li e ritardi, in qualunque modo provocati, sono del tutto inutili per impedire una rapida soluzione. La nuova era è alla porta, e il grande problema pretende di essere risol­to e impone che tutte le altre questioni siano poste in se­condo piano.

Tra i detti attribuiti al Cristo della tradizione ce n'è uno che i devoti benestanti fanatici arrotolano sotto la loro lingua con sacro piacere, ed è: "Ci saranno sempre i poveri con voi". Ma dal fondo ora si sente una voce che grida: "Perché sempre?" Anche recentemente qualcuno credeva che la terra non potesse produrre abbastanza ri­sorse di sussistenza per chi la zappava, e che accaparrar­sene una parte fosse necessario per lottare con gli altri uomini nello stesso bisogno, combattendo come porci per la spazzatura gettata nei loro trogoli. Quella è tuttora la dottrina di alcuni economisti politici, e quelli che la

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insegnano la propalano con la più grande ipocrisia dopo un buon pranzo. Ma ora anche i poveri hanno constatato che il mondo produce più che a sufficienza per il sosten­tamento, e che, se gli uomini fossero solo liberi e uguali, i bisogni di tutti potrebbero essere soddisfatti. Credete che, dopo che questa semplice verità sia stata conosciuta a fondo dalla mente umana, la lotta continuerà? No in verità, la società sarà riorganizzata in conformità con i fatti. Non sentiremo più quella voce incessante, triste, compassionevole gridare dal fondo, "Pane! Pane!", fa­cendo del lavoro una punizione, e spogliando la vita di ogni gioia.

Così veniamo al punto di svolta della storia. Tutte le lotte sociali e le rivolte del passato hanno avuto, in mille diversi periodi, una causa fondamentale – il bisogno di cibo, ma quella continua sorgente di egoismo ed odio sta per essere soppressa. Ora finalmente il mondo è sul punto di ruotare sul suo proprio asse, e i lavoratori del mondo sono sul punto di prendere in mano i loro affari. Poiché è breve il tempo della vita umana quando lo si compari con la graduale evoluzione dell'umanità, ci sa­ranno alcuni di loro che saranno presenti, quando la grande totalità di noi potrà aprendo gli occhi salutare l'alba del nuovo giorno. E in questa crisi, veramente, si leggerà di giovani, noncuranti di ciò che il futuro può portare in seguito, che sono sfiniti dalla noia, e che fin­gono di dare il benvenuto alla morte con il detto che "la vita non è degna di essere vissuta"!

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Malgrado tutto sembrerebbe più che naturale che l'in­tera gioventù nel mondo, con la sua caratteristica impe­tuosità, si precipitasse ad aprire le porte alla nuova era, si ergesse sulle punte dei piedi per guardare la venuta del futuro. Ricordiamo come gli studenti tedeschi si pre­parassero per la lotta qualora fosse stata necessaria per abbattere la tirannia napoleonica, come magnificamente i giovani delle università francesi si mettessero dalla parte del diritto contro il potere alla fine della Restaura­zione, e negli anni immediatamente precedenti la Rivo­luzione del 1848. Gli studenti di quel tempo erano molto meno numerosi di quanto lo siano oggi, ma essi recita­rono una parte eccellente nella storia del loro paese. Si buttarono in tutte le lotte, romantiche, repubblicane e socialiste, di quel periodo decisivo, e smentirono il fatto che vi fosse nella nazione una qualunque altra classe al pari di loro ricettiva alle nuove idee. E non fu la pura e semplice licenza di poetici sognatori, l'esuberanza di spiriti animali, o una teatrale esposizione di disprezzo per la borghesia. Quanti di loro affrontarono il carcere e perfino la morte per le loro opinioni! Quanti di loro, ispirati da uno zelo missionario, divennero gli apostoli di un altruismo rivoluzionario, gettando via fortuna, po­sizione e ricchezze! Quando il saint-simonismo e il fou­rierismo alzarono il pensiero umano al punto critico, fu­rono gli studenti che coraggiosamente si arruolarono nei ranghi dei ribelli intellettuali, noncuranti della calunnia, della persecuzione e dell'esilio.

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Sebbene gli studenti dell'Europa moderna ammontino a più di centomila la loro influenza nel mondo delle idée è assai minore di quella dei loro predecessori. Al giorno d'oggi contiamo in centinaia piuttosto che in migliaia i giovani delle università che hanno immolato i loro per­sonali interessi sull'altare del progresso sociale, e che, sotto diverse bandiere, guidano l'entrata nella terra pro­messa. È stato anche detto, e non potrei azzardarmi a chiamarlo una calunnia, che la maggioranza della nostra gioventù istruita è soddisfatta delle cose così come sono, e che la sua grande ambizione è di indottrinare la società col conservatorismo, e sorprendere i loro amici con ciò che chiamano la "moderazione" delle loro vedu­te; a questo riguardo modestamente essi pretendono di essere più saggi dei loro genitori, che non possono nega­re di aver condiviso in gioventù l'entusiasmo dominante. Uno strano fenomeno è la vista di giovani che si vanta­no di sentirsi stanchi di vivere, come se l'incapacità di stupirsi, di gioire e di essere felici fosse un merito piut­tosto che una disgrazia!

Ma è abbastanza vero che in questo modo muoiono i ricchi oziosi. Al di là di ogni dubbio la nostra moderna gioventù universitaria, benché ovviamente orgogliosa di essere stata messa a dura prova da molti esami, sarebbe incapace nonostante le stravaganti pretese di insegnare agli operai molto nel campo degli studi e del pensiero. No, il loro compito è di essere allievi, non di insegnare. Nei grandi movimenti popolari – come quello della Co­

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mune – gli studenti erano sparutamente rappresentati, mentre gli operai fornirono in abbondanza vigore e cer­vello. Non era semplicemente una questione di lavoro e salari; gli interessi in gioco erano quelli dell'intera na­zione, anzi di tutta l'umanità. In quest'ora, quando un nuovo governo sta per essere introdotto, quando i giova­ni cavalieri della riforma si preparano per il loro compi­to, non è nelle strade delle scuole che le questioni pre­dominanti nelle menti degli uomini sono discusse più consapevolmente e con il più appassionato intuito. Il laureato non è necessariamente il filosofo, né una me­moria ben fornita immancabilmente si associa con un intelletto illuminato. Spesso l'insegnante pedante è me­diocre nell'erudizione in confronto all'uomo scaltro di mondo che ha raccolto qua e là gli innumerevoli fatti dai quali sviluppa una grande abbondanza di idee generali. Il vostro uomo di scienza può chiudersi nel suo labora­torio come in una prigione, e non capire il grande mon­do fuori; ma la gente sempre modella una coerente teo­ria dell'universo, sia essa vera o falsa. Solamente poco tempo fa, l'evoluzione fu schernita dai lettori dell'uni­versità, ma nelle strade e dietro l'aratro, tra gli operai e i contadini, la nuova verità trovò un quieto rifugio e un benvenuto entusiasta.

Sarebbe stolto parlare sprezzantemente della scienza. Il dissotterramento di un mattone babilonese, o l'osser­vazione di un semplice stame d'un fiore, possono com­pletamente fare contenti i nostri cuori, quando lo scien­

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ziato mette il fatto apparentemente isolato in relazione con molti altri, e mostra il valore della scoperta. Ancor più nel regno delle idee dovremmo tenere in grande considerazione l'enunciazione di un brillante pensiero o la sistemazione di dati intellettuali secondo la loro giu­sta importanza e i relativi rapporti. A questo riguardo lo studente – è stato spesso rimarcato, – accecato dalla pol­vere della biblioteca, scarsamente percepisce che c'è una "questione sociale" all'aperto, mentre l'operaio, d'altra parte, la considera l'oggetto di studio massimamente ri­levante, e scopre la propria vocazione in largo anticipo, di conseguenza, rispetto al suo fratello studioso. Questa osservazione è esatta per altri paesi più che per quelli di lingue latine, sebbene in questi l'evoluzione o, se prefe­rite la parola, la rivoluzione intellettuale, possa aver fat­to maggior progresso di gran lunga di più che nelle scuole irreggimentate della Germania o tra i giovani al­lievi delle università americane. Si contano milioni di socialisti al di là dei Vosgi, ma nella madrepatria un mi­serabile numero di due o tre osa raggrupparsi lontano dai bevitori di birra, in quelle grandi università timorosi in mezzo a molte migliaia di studenti. A Harvard, la fa­mosa università americana, che vanta 3.200 studenti, i riformatori sono molto numerosi, ma pochi hanno già osato emanciparsi dalla superstizione cristiana; da un re­cente censimento risulta che soltanto due di loro hanno dichiarato di non appartenere a nessuna delle molte sette il cui nome era riportato sul questionario. È nell'aristo­

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cratica Inghilterra, forse, che la mente umana gode della più grande libertà.

Bene, quali allora sono le cause di questa prudente moderazione tra i giovani, piuttosto incoerente con lo spirito dell'età? Addirittura i professori osservano il fe­nomeno, ma tale è la schiavitù sociale della vita univer­sitaria moderna che la situazione perversa persiste con tutte le sue perniciose conseguenze. Generalmente si conviene che dal suo primo giorno di scuola la vita nor­male di un bambino sia contraria alla natura. Cosa si di­rebbe di un'educazione che predisponesse condizioni fa­vorevoli per lo sviluppo di una malattia alla colonna vertebrale, che spesso procurasse un'offesa permanente alla vista, che controllasse i naturali desideri, che inde­bolisse o pervertisse gli istinti umani? Non andrebbe contro i grandi obiettivi dell'educazione come sono stati intesi dal sapiente in ogni tempo: forza, grazia, bellezza? Gli indiani d'America e i nativi australiani, così come i greci dell'antichità, sono unanimi nel pre­scrivere una vita all'aperto come il meglio per i ragazzi; abbondanza di atletica ed esercizio, calcolata per svilup­pare uomini forti, svelti, pieni di salute, adattabili alla vita, raggianti di vigore. Tra noi, ahimè, spesso vediamo la gioventù, che è allevata con massima cura e dispen­diosamente, risultare uno degli esemplari più deplorabili dell'umanità muscolosa. Statistiche mediche ci fanno ca­pire che più della metà dei giovani allievi nelle più alte accademie dell'Europa continentale hanno rovinato la

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loro costituzione con l'indulgenza verso se stessi, con una vita di tedio e monotonia; due su tre sono giovani deboli; e tra quelli che hanno perso la salute ci sono molti che hanno seriamente danneggiato i loro poteri mentali, e che, dall'aver frustato e spronato i loro cervel­li nella prima parte della vita, sono portati a farne un uso limitato nell'età matura. Sinceramente, possiamo citare numerosi casi di uomini che hanno conservato la loro costituzione robusta, i loro arti agili e forti, la loro ragio­ne vivace e pratica; ma questi casi sono eccezioni, non la regola, essi sono da stimare non per quanto dovuto al­l'ordinario curricolo di educazione, ma sempre piuttosto ai vantaggi di un'adolescenza ricca e ben condizionata. I giovani favoriti della fortuna semplicemente si raggrup­pano in due classi: i libertini che si sfiniscono e si ren­dono incapaci con la dissolutezza e il pessimismo, e po­che anime belle che nutrono un alto ideale e cercano di esserne all'altezza.

Se l'ammaestramento della famiglia e dell'università educa il bambino e il giovane in modo pregiudizievole alla sua multiforme natura, escludendo dalla sua visione entrambi gli aspetti di vita urbana e rurale, visti al mas­simo come attraverso il foro di un anello, se lo affama e fisicamente lo indebolisce, cosa fa del suo carattere? Ahimè, finora, le nostre consuetudini non ci hanno per­messo di rispettare la personalità del bambino come quella di un futuro eguale, o magari come quella di uno superiore per cultura intellettuale e morale. Ben pochi in

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verità sono i genitori che vedono nei loro figli un essere le cui idee e l'indole hanno una tendenza propria, e rara­mente ci s'imbatte in un insegnante che non cerchi di impregnare le menti dei suoi scolari con le sue opinioni, la sua moralità accettata, e che non si sforzi di rendere il suo compito facile richiedendo una stretta obbedienza.

Dopo seguono gli esami dai quali dipende la futura carriera, e ogni scolaro, ogni studente è allora fornito del suo libro di testo come il forzato della sua catena. Il libro è lo stesso per tutti, e per tutti il programma di stu­dio è lo stesso. Da qui in poi ogni originalità nella ricer­ca intellettuale è proibita, e il fardello dell'impegno quo­tidiano di memorizzare prende il posto del libero pensie­ro e della ricerca spontanea; proprio come il prete che deve conoscere a memoria il suo breviario, e il mulino del buddismo tibetano che gira incessantemente, graci­dando la sua continua formula "Om mane padme houm". Alcuni almeno di questi manuali sono sorpren­dentemente compendiati, e contengono uno straordina­rio riassunto dell'umana conoscenza. Un fremito di ri­spetto e soggezione ci coglie davanti a queste opere stu­pende, ciascuna linea delle quali è essa stessa un volu­me, conservando il lavoro di una lunga sequela di erudi­ti. Quale ricchezza incalcolabile, quale indescrivibile fonte di gioia veramente avere la padronanza del conte­nuto di queste pagine pregne di sapere! Noi possiamo ben considerare con invidia il fortunato candidato che risponde con confidenza a tutte le questioni basate sul

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libro di testo. Ma egli realmente conosce tutte queste cose? Ha imparato le cause che hanno originato tutti i fatti? Se fosse così, noi dovremmo benevolmente prega­re che egli sia capace di respingere, come facevano gli ospiti di Vitellio, tutto il cibo a lui superfluo di quel pa­sto indigesto. Lasciamolo dimenticare al più presto pos­sibile il suo esame perché conosca se stesso, e si ritrovi nel campo del libero studio, sulla prospettiva di scoperte inattese quale risultato di una ricerca indipendente. Ma se si è occupato di tutte le scienze senza avere la predi­lezione per una, probabilmente egli sarà nient'altro che un inventario vivente, privo di entusiasmo, privo di am­bizione, un esperto verosimilmente senza preparazione per le imprese più difficili. Ipotizzando d'altronde che sia vero che i certificati e i diplomi degli insegnanti non siano implicitamente tali da farci assegnamento, che lo speciale favore dei professori sia spesso concesso agli allievi per i quali una buona parola è stata spesa da un comune amico. "Date prova di voi come uomini", dico­no i maestri, in considerazione della distribuzione dei premi! Ma non prendono quell'invito all'energia troppo seriamente. Quanto spesso, al contrario, viene interpre­tato come "Siate cortesi, fate un profondo inchino, im­parate ad avere un atteggiamento servile". Per di più spesso si è verificato che uomini che sono grandi per l'ingegno possono cadere molto in basso a causa dell'ar­rendevolezza del carattere. Non è ben noto che gli scien­ziati sono talvolta restii ad appoggiare una nuova opi­

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nione perché non è accetta in alto loco: "Hai ragione", dicono, "e noi saremmo felici di parlare bene di te in pubblico, ma l'Imperatore è riluttante".

Certamente, il modo di educare è una cosa orribile per i giovani, con le sue competizioni, i suoi esami, i suoi libri di testo e tutta l'infarinatura scientifica surro­gato della scienza: ma ciò è soltanto una piccola parte del male. Di gran lunga la sua fase più allarmante deve essere ricercata nell'organizzazione economica della so­cietà. Qual è lo scopo finale per cui tutti, giovani e vec­chi, sono trascinati dalla corrente delle circostanze? Qual è l'ideale volgare e comune di quelli che sono por­tati dalla cresta della piena? Il vecchio Guizot lo rende­va noto molto tempo fa, con il suo abituale cinismo: "Diventa ricco! Diventa ricco!". Ora, proprio dalla costi­tuzione della società gli studenti diventano consapevoli come fatto preliminare che accumuleranno denaro gra­zie ai loro diplomi. "Scienza significa denaro" essi pos­sono ben dire tra loro confidenzialmente, o anche pub­blicamente ad alta voce quando disattendono la politica della misura. Dai loro ranghi sono reclutate le classi do­minanti, che sono anche le classi ricche. Nelle conversa­zioni della famiglia la loro carriera di liberi professioni­sti è discussa, pur senza ciò essi sono fin troppo bene in­formati, con una inequivocabile intuizione di adolescen­ti, a quale posizione sociale e a quale futuro il loro lavo­ro li porterà. Più prudenti dei loro padri, che furono scioccamente contaminati dal repubblicanismo e dal ro­

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manticismo, procedono con gli occhi aperti e la mente cosciente di sé sui sentieri che conducono a una brillan­te carriera, alla fama e alla fortuna. Solo di recente il grande professore Dubois-Reymond, accogliendo l'im­peratore tedesco di ritorno dalla incoronazione a Ver­sailles, si sforzava di glorificare le università tedesche come la guardia del corpo degli Hohenzollern! Nello stesso spirito l'esercito di studenti, preti e funzionari po­trebbe più veracemente vantarsi di essere la guardia del corpo del Capitale!

Persino nel santuario intimo della scienza possiamo leggere quelle parole che Lamartine dichiarò ignobili, "Comprare e Vendere". Indubbiamente la formazione della società, costruita sulla proprietà privata come su una pietra angolare, ci obbliga a seguire come gli altri fanno, le inevitabili condizioni del successo nella vita, ma dovremmo capire perfettamente la vergogna dei no­stri comportamenti forzati, e decidere di porre una fine all'infamia, ciascuno secondo le sue capacità lavorando per la realizzazione di un nuovo mondo dove i risultati del lavoro comune appartengano a tutti senza una con­trattazione preliminare. Più alta nella sfera intellettuale e morale è un'azione, più difficile e fastidioso è domanda­re una paga per essa: qui nuovamente si ha la demoraliz­zazione dell'eccellente che diventa spiacevole. Cosa si penserebbe del chirurgo che tiene la vita d'un uomo sul­la punta del suo bisturi e che comincia l'operazione ten­dendo la sua mano per un pezzo d'oro? E del poeta che

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trova diletto in una nuova immagine, o del dotto che una brillante scoperta fa fuori di sé per la gioia, attendere un elenco di prezzi o studiare il tariffario sindacale dei compensi prima di pubblicare i suoi versi o di rivelare la nuova verità? Secondo un tale calcolo quanti miliardi dovrebbero essere dovuti a Bacone e Cartesio per l'aiuto che essi hanno dato al mondo scientifico? L'antichità ci ha donato una storia eloquente, quella di Archimede, che mentre era nella sua vasca da bagno e osservava il livello d'immersione di un galleggiante di legno ed un altro di sughero, fu colpito improvvisamente come da un fulmine dall'idea della sua legge riguardante il peso specifico dei corpi. La scoperta fu fatta. Archimede pen­sò al denaro che avrebbe potuto chiedere al tiranno Ge­rone come ricompensa del suo genio? Egli saltò fuori dal bagno, si precipitò per le strade di Siracusa, gridan­do a tutti quanti incontrava, barcaioli, carrettieri e mano­vali, "Ho trovato, ho trovato". L'eco di quel grido di gio­ia arriva fino ai nostri giorni. Le scoperte della scienza portano con loro una gioia così elevata che i bassi inte­ressi devono svilirla. Il sapere impone a noi il debito verso il maestro. Il carrierista di oggi impara che può vendere al più alto offerente la sua conoscenza di secon­da mano: lo studente vero, meritevole del nome, ricerca le verità che possono essere divulgate largamente.

Inoltre, come potrebbe un uomo tale essere all'altezza di un elevato ideale se alla sua mente fosse permesso di svilupparsi insensibile col proposito di venali interessi?

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Il vecchio credo religioso, che il superstizioso tuttora ci predica, scompare dietro di noi come una nebbia. Tenta come meglio può di riconciliarsi con lo spirito del tem­po beatificando quelli che prima inceneriva, proclaman­dosi l'amico dell'evoluzione, del repubblicanismo, persi­no del socialismo. Non risponde più ai requisiti dell'u­manità; la catena di miracoli e di dogmi che si trascina dietro ritarda la sua avanzata, e la sua moralità che è so­stanzialmente quella della rassegnazione, del pessimi­smo temperato da lontane speranze, non può entrare in concorrenza con l'etica puramente umana, che inculca l'uso e lo sviluppo delle nostre energie in tutta la loro pienezza. Così la religione – e uso la parola nel suo più nobile senso, significando amore ed estasi per un ideale sublime – si volge via, sempre più, dalla regione del mi­stero e dell'ignoto, per dedicarsi alle creature del mondo reale, cioè all'umanità. Credete che possa logorarsi lì in profondità, in intensità, in potere di devozione? Chi si sacrifica, senza speranza di ricompensa, è inferiore a chi macera il suo corpo o dedica la vita alla carità per gua­dagnare la salvezza?

Gli antichi scrittori ci hanno lasciato in eredità ammi­revoli trattati di etica e di filosofia sull'educazione degli esseri umani, i quali possono trovare saggezza e al tem­po stesso felicità nel controllare le loro passioni, nel mo­dellare il loro carattere, nel purificare i loro pensieri, nel ridurre al minimo i loro bisogni. Tali parole su questo soggetto, quelle di Lucrezio, Zenone, Epitteto, Seneca,

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persino, Orazio, sono parole immortali, che riechegge­ranno di età in età, e che aiuteranno continuamente a so­stenere l'ideale umano e ad elevare il valore dell'indivi­duo. Ma non è più di questi tempi una questione pura­mente di miglioramento personale come nei giorni del­l'eroismo stoico, è oggi il dovere di vincere, per mezzo dell'educazione e dell'unione, per l'intera società quanto era in precedenza reclamato dai nostri antenati per il singolo individuo. Dobbiamo studiare l'umanità nella composizione della sua coscienza morale e vedere che ritrovi davanti a sé metodicamente e con energia la pro­pria strada verso la felicità, cioè a dire, che raggiunga la piena realizzazione della sua libertà. Non è questo un compito stupendo grande abbastanza per impiegare tutta la nostra attività, tutte le nostre attenzioni, le capacità intellettuali e morali di ciascuno di noi?

Ma questa felicità? Saremo mai capaci di raggiunger­la? Qui sta il problema sociale che dobbiamo affrontare in tutta la sua complessità, dal momento che per la feli­cità il solo cibo non è sufficiente, si ha bisogno anche del libero sviluppo della propria individualità in condi­zioni di uguaglianza con gli altri uomini, senza vincoli e senza asservimento. Tale è il nostro ideale anarchico, tale è anche l'ideale (sono sicuro di ciò) che è nutrito, in maniera più o meno consapevole, da tutta la gente gene­rosa. Siamo sorpresi, tuttavia, di udire in certi luoghi un'opinione contraria. Alcuni scrittori sono anche noti per aver dichiarato che una tale felicità non è cosa da

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desiderare. A questi strani idealisti la guerra sembra una benedizione; essa accade per destare la nostra energia, il nostro coraggio, per ristabilire il carattere che è diventa­to confuso nelle molli braccia della pace. Mutuo odio tra nazioni, forse tra classi – tale è, se non la loro etica, al­meno la loro speranza.

A quelli di noi che hanno sperimentato l'abominio della guerra una tale idea sembra mostruosa; tuttavia per mezzo di un ingegnoso esercizio di intelligenza possia­mo capire il residuo del sentimento morale che si trova alla base di questo paradosso. La guerra è una condizio­ne di attività, e come tale è meglio, o almeno è una mi­nore calamità, che uno stato di fiacca inerzia; da essa ci possiamo riprendere, mentre l'assoluta inazione conduce inevitabilmente alla morte. Sì, l'attività è indispensabile; ogni forza deve essere testata prima di applicarla ad un ben determinato lavoro, ma questi esperimenti dovreb­bero iniziare per caso, o non dovrebbero piuttosto essere intrapresi alla luce della scienza e con i metodi più ac­cettati? A questo riguardo i popoli che chiamiamo bar­bari, e tuttavia maggiormente degni di nota, i greci, si­curamente la più civilizzata delle antiche nazioni, ci mo­strano la direzione. I giovani non erano ammessi alla cittadinanza e non erano considerati idonei a prendere il loro posto a capo di una famiglia, o a compiere i doveri prescritti dallo stato, prima che essi non avessero dato prove indubitabili della loro destrezza, della loro forza, del loro coraggio e delle loro capacità di resistenza. Essi

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non erano soggetti a obblighi, essi erano perfettamente liberi di evitare la formidabile prova, e malgrado tutto non uno prendeva quel corso che avrebbe implicato il suo disonore. Il rispetto per l'opinione pubblica era tanto profondo che qualcuno desiderava rinunciare alle prove che lo avrebbero posto nella classe sociale degli uomini. Tra le tribù più primitive, ancora, eroi volontari, ragazzi e ragazze, si sottoponevano serenamente alle più terribi­li sofferenze, ai reali dolori della tortura; essi sopporta­vano la fame e la sete per parecchi giorni, si dedicavano ai brucianti morsi delle formiche, si frustavano l'un l'al­tro senza pietà, sopportavano terribili mutilazioni, senza un grido, senza un sussurro. Con imperturbabili fattezze, sempre con un volto sorridente, si presentavano davanti ai loro giudici: avevano pagato il prezzo del loro futuro.

Non è in questa maniera barbara che noi immaginia­mo le prove di valore che saranno applicate in futuro ai giovani per il loro ingresso nella vita di uomini maturi, ma ci sembra in armonia con l'umana natura che nel pe­riodo dell'adolescenza in fiore, del vigore ben sviluppa­to e dell'amore non calcolatore, i giovani possano dimo­strare nella maniera più brillante di quale stoffa siano fatti attraverso atti di coraggio, sacrificio e devozione. Se soltanto la pubblica opinione li incoraggia nessuna azione apparirà troppo difficoltosa per la loro audacia. Appelliamoci unicamente alla loro più alta natura ed essi risponderanno pienamente. Durante la guerra ame­ricana le ragazzine dell'Oberlin College dissero ai gio­

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vani: "Andate, unitevi all'esercito", e cento undici stu­denti andarono alla guerra, non uno rimase. Che cosa non potremmo realizzare con queste fonti prodigiose di forza sostenuta dall'entusiasmo? Quando i giovani non avranno più a lungo lo schifoso guadagno nel corrompe­re alla fonte stessa le loro ambizioni di muoversi libera­mente incontro al loro ideale, senza il disgusto di dover disprezzare se stessi e la loro opera, quando un applauso generale li incoraggerà alla devozione, quale sarà l'auda­ce impresa davanti alla quale si tireranno indietro? Do­manderemo loro di andare al polo antartico? Ci andran­no. Di esplorare il mare nei sottomarini e di disegnare una carta delle profondità? Lo faranno. Di trasformare il Sahara in un giardino? Quello sarà per loro un lavoro fa­ticoso fatto per passione. Di fare il loro tirocinio in viag­gi, esplorazioni, studio delle scoperte? Il loro duro lavo­ro sarà immerso nel piacere. Di trascorrere gli anni tra la giovinezza e il matrimonio nell'educazione dei bambini, nella cura dei malati? Avremo milioni di maestri e infer­mieri che prenderanno magnificamente il posto di mi­gliaia di soldati ora attivamente impegnati ad affilare le loro armi per lo scopo di uccidersi l'un l'altro.

Tale è l'ideale che noi proponiamo ai giovani. Nell'in­dicare loro un futuro di solidarietà e altruismo diamo loro la nostra parola che in quel futuro ogni traccia di pessimismo sarà sparita dalle loro menti. "Donatevi". Ma "per donarvi, dovete appartenere a voi stessi".

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Notizia

Sergio Fumich è nato a Trieste nel 1947. Dal 1970 si è trasferito a Brembio, piccolo comune del Lodigiano. Ha svolto attività pub­blicistica dal 1978 al 1995 come collaboratore del quotidiano di Lodi Il Cittadino, come direttore responsabile di alcuni fogli loca­li e della rivista di poesia Keraunia.

Ha pubblicato libri di poesia, tra i quali La terra del vento, Fran­tumi, Oltre il punto di non ritorno, e di racconti, L'orologio del vecchio mercante, La città oltre la montagna. Alcune sue poesie sono state tradotte e pubblicate su riviste spagnole e brasiliane. Poesie e racconti compaiono in molte raccolte antologiche tra le quali l'Antologia dei poeti de "Il Cittadino" (Prometheus, Milano 1992) e Il Salotto Letterario. Lodi 1980 – 1990 (Prometheus, Mi­lano 1991).

Le principali opere di poesia ed il libro di racconti La città oltre la montagna sono catalogati dalla Electronic Literature Organiza­tion (ELO) nella sua Electronic Literature Directory che racco­glie un migliaio di autori di e-Literature di tutto il mondo.

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Ca' "La Gatera"Edizione fuori commercio

Finito di stampare a Brembio (LO) con tecniche elettroniche nell'agosto 2005Di questo opuscolo sono stati tirati 200 esemplari.

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