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ELLA MOZIONANTE NTICA ARTENOPE GNI UOGO SPIRA OGNI

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ELLA

MOZIONANTE

NTICA

ARTENOPE

GNI

UOGO

SPIRA

OGNI

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VISITA I MONUMENTI

LA TRADIZIONE FRA LEGGENDA E REALTA’

LA CUCINA TRADIZIONALE

LA MUSICA E IL TEATRO DI IERI

“LA SCENEGGIATA NAPOLETANA”

I PROVERBI POPOLARI

I MESTIERI DI UN TEMPO

RIVIVI LA STORIA DI NAPOLI

RINGRAZIAMENTI

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A cominciare dalla contrastata questione di Palepoli e Partenope, per finire ai giorni nostri, Napoli è stata oggetto di una vasta letteratura, tutti i periodi, da oltre 2000 anni ad oggi sono stati ampliamente trattati ma è all’epoca greco-

romana a cui adesso facciamo riferimento, poiché in questa, Napoli ha conosciuto la sua origine, i suoi primi sviluppi ed ha esercitato il fascino il quale, grazie alle

numerosissime testimonianze che questa epoca ha lasciato, attira ancor oggi milioni di turisti in tutto il mondo.

Le originiLe antichissime origini di Napoli affondano nella leggenda, o meglio, in una serie di leggende. Al centro di tutte, c'è la sirena Partenope, che, affranta per l'astuzia

di Ulisse sfuggito al potere del canto delle sirene, si sarebbe suicidata, e il suo corpo sarebbe andato alla deriva fino ad incagliarsi sugli scogli dell'isoletta di

Megaride, dove oggi sorge il Castel dell'Ovo. Secondo una versione meno leggendaria, Partenope sarebbe stata invece una bellissima fanciulla, figlia del

condottiero greco Eumelo Falevo partito alla volta della costa campana, per fondarvi una colonia; ma una tempesta colpì la nave, provocando la morte di

Partenope, in tributo alla quale fu dato il nome alla nascente città.Dalle informazioni storiche, in effetti, si sa che coloni greci si insediarono

dapprima nell'isola di Ischia (IX secolo a.C.), per trasferirsi poi a Cuma e, solo nel VI secolo a.C., fondare la città di Partenope sull'isola di Megaride. Si trattava più che altro di uno scalo commerciale per mantenere i contatti con la madre patria, che, in un secondo momento, si espanse sul vicino Monte Echia (Pizzofalcone),

assumendo la struttura di un piccolo centro urbano.

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Nel 470 a.C., i greci Cumani decisero di fondare una vera e propria città, scegliendo una zona più ad oriente della vecchia Partenope, zona che

corrisponde all'attuale centro storico; il nome prescelto fu quello di Neapolis ("città nuova"), per distinguerla dal precedente nucleo urbano (Palepolis, "città

vecchia"). Probabilmente, in questa fase, la città era una repubblica aristocratica retta da due arconti e da un consiglio di nobili.

Urbanisticamente la città, come nella tradizione delle città greche, era caratterizzata dalla presenza di cardi e decumani, ed era ricca di edifici di culto e di pubblica utilità: templi, curia, teatro, ippodromo; divenne una importante colonia della Magna Grecia, insieme a Taranto e Cuma, e dalle tradizioni, dalla

cultura, dalla mentalità, dall'arte sviluppatesi in questo periodo attinsero i romani nella successiva fase della vita della città.

Neapolis non era una città guerriera, ma dovette presto difendersi da due scomodi vicini: i Sanniti, che nel 423 a.C. conquistarono Cuma scacciandone gli abitanti, e i Romani, determinati ad espandere verso sud il proprio dominio. I

primi rapporti tra Roma e Neapolis furono improntati all'amicizia e al tentativo di stipulare accordi, ma, sotto le pressioni delle altre colonie, Neapolis fu poi spinta a rifiutare collaborazioni coi romani; questo portò nel 326 a.C. ad un

conflitto armato che, nonostante l'alleanza dei partenopei con sanniti e nolani, si concluse con la vittoria del console romano. La pace non fu tuttavia

disonorevole: fu creata una confederazione con Roma, e la città poté mantenere le proprie prerogative e istituzioni, rivelandosi nel seguito una fedele alleata del

sempre più potente vicino. Del resto, Neapolis era per Roma un importante veicolo della cultura e della civiltà greca: la città e i suoi dintorni divennero

meta privilegiata per le residenze estive dei patrizi romani, che costruirono tra Puteoli e Sorrento lussuose ville (Scipione l'Africano, Silla, Tiberio, Caligola,

Claudio, Nerone, Bruto e Lucullo, ad esempio, scelsero queste terre per riposo e diletto; Cicerone, Orazio, Plinio il Vecchio, Virgilio, trovarono qui ispirazione per il proprio genio artistico). Napoli era insomma un centro di raffinata cultura, un lembo di Grecia nella penisola italica, che i romani seppero sempre rispettare e

apprezzare, evitando di inquinarlo e opprimerlo.

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Il Castel dell’Ovo fu fondato sull’isoletta di Megaride. Esso risale, prima ancora che al periodo ducale, a quello dell’antica Roma con il “castrum”

lucullanum.Secondo una leggenda medievale il castello sarebbe stato costruito da

Virgilio. Al poeta latino, infatti, nel medioevo venivano attribuiti dei poteri magici.

Questi avrebbe racchiuso un uovo in una gabbia e a quest’uovo, nascosto nel castello, in un luogo segreto, era legata la sorte del maniero e della

stessa città di Napoli: finche’ l’uovo non si fosse rotto, il castello e la città sarebbero stati

preservati da ogni sorta di sventura e dalla distruzione. Il Nucleo originario del castello, era parte della lussuosa villa del nobile romano Lucullo, nel 476 Odoacre vi rinchiuse Romolo Augustolo ultimo imperatore romano

d’Occidente, per molti secoli furono conventi e dopo l’arrivo dei Normanni vi fu creata una fortezza che, nei successivi suoi rimaneggiamenti, prese

la forma attuale.

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Fu Roberto D’Angiò,che nel 139,ordinò la costruzione del castello sulla sommità del colle di Sant’Erasmo,il castello, costruito da Tino di Camaino, fu

terminato nel 1343. Il suo nome originario fu Belforte, per poi divenire Sant’Erasmo ed infine l’attuale Sant’Elmo, pare per corruzione del vecchio nome di Sant’Erasmo, poiché non sembra esistere un santo di nome Elmo;

alcuni vorrebbero far derivare il nome attuale da Sant’Antelmo, altri da San Telmo: al di là delle ipotesi, non è possibile, comunque, conoscere l’etimologia

del nome. L’attuale costruzione, completamente rifatta rispetto a quella originaria del periodo Angioino, fu voluta dal viceré don Pedro de Toledo nel 1537, su progetto dell’architetto Pirro Louis Esrivà di Valenza. Essa presenta un’originaria forma a stella a sei punte, che permetteva l’impiego di pochi uomini nella difesa del castello,e fu considerata un’ opera di fortificazione unica per quei tempi. Nel 1587 un fulmine colpì la polveriera, distruggendo

molti edifici, che furono , poi , ricostruiti da Domenico Fontana.

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Un altro dei simboli della città di Napoli è il Palazzo Reale e la Piazza del Plebiscito.Il palazzo costruito durante il periodo vicereale,per volere del vicerè

conte di Lemos,in occasione di una visita a Napoli del re Filippo III.Fu progettato dall’architetto Domenico Fontana,al suo interno vi è un teatrino di corte,la cappella reale e unop scalone d’onore,costruito nel1651 da Francesco

Antonio Picchiatti.Nelle nicchie sulla facciata del palazzo,nel 1888 furono collocate le statue dei re di Napoli.

La piazza del Plebiscito incominciò ad assumere l’aspetto attuale nel 1809,quando,con l’abbattimento della chiesa e del convento di S.Spirito,fu

costruito il colonnato ad emiciclo che doveva essere il Foro murattiano.Con il ritorno di Ferdinando, fu decisa la costruzione della chiesa di S.Francesco di

Paola.

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Fu costruita sull’area di un isolato raso al suolo dopo l’epidemia di colera del 1884, nell’ambito di un programma di rinnovamento cittadino e per celebrare

con un grandioso monumento la "modernità" dell’Italia unita.Eretto alla fine del XIX sec., questo imponente passaggio è sovrastato da una copertura in vetro e ferro alta ben 57 metri, che la rende molto luminosa. Nel corso degli anni la Galleria, dagli eleganti pavimenti in marmo policromo , è diventata uno dei luoghi più frequentati di Napoli, crocevia d’artisti, scrittori,

poeti e musicisti.

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La prima notizia certa del miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro risale al 17 agosto del 1389 ; per la festa dell'Assunta il partito filoavignonese indisse grandi

festeggiamenti cittadini per accogliere un'ambasceria proveniente da Avignone nel corso dei quali vi fu anche l'esposizione pubblica della reliquia del sangue di San Gennaro. La

cronaca racconta che il sangue si era liquefatto come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal corpo del santo e se ne ricava l'impressione che il miracolo avvenisse per la prima volta. Da allora il culto si andò intensificando sempre più con frequenti notizie

dell'avvenuto miracolo.Il sangue di San Gennaro è custodito in due balsamari vitrei di piccole dimensioni e di foggia diversa databili ai primi decenni del IV secolo.Tre le date fisse del ricorrente

prodigio: vigilia della prima domenica di maggio (prima traslazione), il 16 dicembre (anniversario dell'eruzione vesuviana del 1631) e il 19 settembre (data del martirio). Il sangue per liquefarsi può metterci pochi secondi come mezz'ora o giorni, allora la gente

prega perché ciò avvenga. A questo proposito conviene spendere due parole sulle cosiddette "parenti di San Gennaro", che fanno parte del patrimonio etnico e culturale scaturito, nel corso dei secoli, dalla pietà popolare; esse usano espressioni semplici e confidenziali "santo nuosto", "guappone", "faccia ngialluta" e via di seguito, preghiere

dialettali da recuperare e assolutamente da non emarginare, sono voce della lingua viva napoletana.

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Il personaggio esoterico più noto e temuto-amato dal popolo napoletano è "'o Munaciello", sorta di spiritello bizzarro che si comporta sempre in modo imprevedibile e

sul quale sono sorte infinite leggende metropolitane e detti popolari. E' così vasta la testimonianza che riguarda questa simpatica "entità" che non vi è posto per nessun dubbio sulle sue "manifestazioni", che spesso sono oggetto di vivaci discussioni - da "basso" a "basso" - su come "onorare" questo spiritello che si mostra sotto forma di

vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi.Scalzo, scheletrico, lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse

ripagare le persone, in genere fanciulle procaci e allegre, dello spavento provato o di inconfessate  (dalle fanciulle) confidenze "palpatorie" che ama a volte concedersi.

Secondo una radicata tradizione "'o Munaciello" era il soprannome dato a un trovatello - molto malato - effettivamente vissuto in un imprecisato periodo tra il primo e il secondo

Rinascimento, morto in giovane età, e noto per la sua dolce vivacità nonostante una debilitante malattia, a sua volta non ben definita. Gli occultisti pensano che questa

versione se la sia inventata il popolo, arricchendola via via di caratteristiche "bonarie", per non accettare la teoria - più esotericamente giusta - di una presenza demoniaca (spesso le forze del Maligno prendono l'aspetto di un frate per meglio ingannare  le

vittime) che tenterebbe ogni volta, con piccoli e grandi doni, di "comprarsi" un'anima. Ma si ha notizia di cospicui ritrovamenti di denaro e di situazioni divenute di colpo favorevoli, attribuiti al Munaciello, che non hanno necessariamente comportato la

prevista "crusca" rendendo molto commestibile e nutriente questa "farina del Diavolo". E allora? Allora il popolino, ancora e nonostante tutto, si augura, con un tantino di sacro timore, la visita del lascivo e dispettoso Munaciello, atteso spesso inutilmente tutta una

vita. 

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Nella centralissima Piazza San Domenico, in cui sorge il celebre palazzo di Sangro dei Principi di Sansevero, si sente ancora l'eco di fantasmi leggendari. Sono i fantasmi appartenuti a Maria

d'Avalos e al principe Raimondo di Sangro. Questi fu uno dei personaggi più discussi e controversi della storia napoletana del XVIII secolo. Intorno alla sua figura sono nati miti e

leggende, che evocano misteri e segreti legati alla sua attività di scienziato, chimico e alchimista. Il principe di Sansevero era noto in modo particolare per l'invenzione delle

macchine belliche e delle macabre macchine anatomiche. Venne accusato di stregoneria e necromanzia per i suoi lavori esoterici e simbolici incentrati sull’ermetismo, sulla cabala,

sull’alchimia e sulle conoscenze templari. La leggenda narra che poco prima di morire si sia fatto tagliare a pezzi da uno schiavo e poi fatto "ricostruire" all'interno di una cassa. Dopo

qualche tempo sarebbe ne sarebbe riuscito vivo e con il corpo intero. Ma purtroppo la famiglia, ignara di tutto, interruppe il decorso prestabilito e aprì la cassa. Da qui saltò fuori il

corpo risvegliato del principe che subito ricadde riverso. Al fantasma di Maria d'Avalos è legata una triste leggenda che narra della sua uccisione e di quella dell'amante don Fabrizio

Carafa da parte di alcuni sicari ingaggiati dal vendicativo e geloso marito Carlo Gesualdo. Questi, ritiratosi nel suo castello di Venosa, pazzo di gelosia avrebbe ucciso anche il figlio. E'

così che oggi il fantasma di Maria d'Avalos vagherebbe tra l'obelisco della Piazza e il portale di Palazzo Sansevero in cerca del suo amato e di suo figlio.

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Viveva, un tempo, sulle coste ioniche della Grecia, una bellissima fanciulla di nome Parthenope, che in greco antico vuol dire vergine.

Per la sua grande bellezza veniva addirittura paragonata alle dee Giunone e Minerva; aveva una bella fronte regolare, grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, carnagione

candida e un corpo dalle forme armoniose.Amava sedersi sugli scogli e guardare il mare, sognando e fantasticando di terre lontane,

sconosciute.Cimone ne era innamorato e lei lo ricambiava, ma suo padre l'aveva promessa ad Eumeo

e ostacolava in ogni modo il loro amore.Un giorno Cimone le chiese di fuggire lontano per potersi amare liberamente ed ella

acconsentì ad abbandonare la sua terra e le amate sorelle.Dopo un viaggio lunghissimo i due innamorati approdarono finalmente sul lido che li

aspetta già da mille anni e con il loro amore nascono i fiori, fioriscono milioni di nuove piccole vite.

La terra nata per l'amore, che senza amore è destinata a perire, bruciata e distrutta dal suo stesso desiderio splende ora rigogliosa.

Dalla Grecia giunsero, per amore di lei, il padre e le sorelle, amici e parenti che vennero a ritrovarla; la voce si sparse dovunque, fino al lontano Egitto, fino alla Fenicia, dovunque si

raccontava di una spiaggia felice dove la vita trascorreva beatissima tra il profumo dei fiori e dei frutti e nella dolcezza profumata dell'aria.

Su fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano con loro i propri figli, le immagini degli dei, gli averi.

Si costruiscono capanne, prima sulle alture e a mano a mano fino in pianura; sorge un'altra colonia su una collina accanto e il secondo villaggio si unisce col primo; si

tracciano le vie, fioriscono le botteghe degli artigiani, si costruiscono le mura.Sorgono due templi dedicati alle protettrici della città : Cerere e Venere.

Parthenope è ormai donna e madre di dodici figli, è la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente, da lei si appella la città, da lei la legge, da lei il

costume, da lei il costante esempio della fede e della pietà.Una pace profonda e costante è nel popolo su cui regna Parthenope, la più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato, il più grande dei sentimenti, quello dell'arte; la

fusione dell'armonia fisica con l'armonia morale è l'ambiente vivificante della nuova città.

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La tombola è un gioco familiar/d'azzardo basato su 90 numeri, che si può praticare con pochi

semplici strumenti:Un grosso cartellone suddiviso in 90 caselle

numerate da 1 a 90; Ventiquattro piccole cartelle, ognuna delle quali con

27 caselle.ogni cartella ha una combinazione di numeri diversa dalle altre;

Un paniere contenente 90 pedine (numerate da 1 a 90

La parola tombola, secondo alcuni verrebbe da tombolare (roteare o far capitombolare i numeri nel paniere), secondo altri verrebbe da tumulo (forse per la forma piramidale del paniere). La tombola è figlia di tante mamme: la cabala, la

smorfia, la lotteria, il lotto e… la fantasia popolare

IL SIGNIFICATO DEI NUMERI DELLA TOMBOLA1 L'Italia2 'A criatura 3 'A jatta4 'O puorco5 'A mano6 Chella che guarda 'nterra e nun piglia 'o sole7 'A scuppetta8 'A Maronna9 'A figliata10 'E fasule11 'E surice12 'E surdate13 Sant'Antonio14 'O 'mbriaco15 'O guaglione16 'O culo17 'A disgrazia18 'O sanghe

19 'A resata20 'A festa21 'A femmena annura22 'O pazzo23 'O scemo24 'E gguardie25 Natale26 Nanninella27 'O cantero28 'E zzizze29 'O pate d' 'e criature30 'E palle d' 'o tenente 31 'O padrone 'e casa32 'O capitone33 Ll'anne 'e Cristo34 'A capa35 L'aucielluzzo36 'E castagnelle37 'O monaco38 'E mmazzate39 'A funa 'nganna40 'A paposcia41 'O curtiello42 'O ccafè43 'A femmena 'ncopp' 'o balcone44 'E ccancelle45 'O vino46 'E denare47 'O muorto

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48 'O muorto che parla49 'O piezzo 'e carne50 'O ppane51 'O ciardino52 'A mamma53 O’ viecchio54 'O cappiello55 'A museca56 'A caruta57 'O scartellato58 'O paccotto59 'E pile60 Se lamenta 61 'O cacciatore62 'O muorto acciso63 'A sposa64 'A sciammeria65 'O chianto66 'E ddoie zetelle67 'O totano int' 'a chitarra68 'A zuppa cotta69 Sott'e 'ncoppo70 'O palazzo71 L'ommo 'e mmerda72 'A meraviglia73 'O spitale74 'A rotta75 Pullecenella

76 'A funtana77 'E diavule78 'A bella figliola79 'O mariuolo80 'A vocca81 'E sciure82 'A tavula 'mbandita83 'O maletiempo84 'A cchiesa85 Ll'aneme 'o priatorio86 'A puteca87 'E perucchie88 'E casecavalle89 'A vecchia90 'A paura

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Nel lontano sedicesimo secolo a Genova si soleva estrarre a sorte da un’urna i nomi dei cinque notabili che avrebbero governato la città nei sei

mesi successivi; i Genovesi attendevano con ansia l’estrazione, che si teneva due volte l’anno, sia per il naturale gradimento personale verso un papabile anziché un altro, per cui si sperava che venisse estratto proprio il nome più gradito, ma anche perché a tutti era consentito scommettere sui candidati

estratti a sorte con premi sempre crescenti secondo la quantità di nomi indovinati. In altre Città-Stato della Penisola si tentò di importare questo

tipo di scommessa senza grande successo, tranne che a Napoli ove il modello Genovese fu trasformato ed adattato, con novanta numeri imbussolati in un’urna da cui ne venivano estratti cinque per ogni estrazione. Nel 1682 nella città partenopea si diede corso ad estrazioni mensili, e fu quello il

primo passo del Lotto nella forma che oggi conosciamo; dal 1817 le estrazioni divennero settimanali.

Il popolo Napoletano mostrò enorme gradimento per questa forma di gioco e, dando sfogo a tutta la propria ridondante fantasia, creò modelli di gioco imperniati su antiche credenze popolari: a ciascun numero fu attribuito un significato e perfino un’anima ponendo le basi del mito della Cabala e della

Smorfia. Subito dopo l’unità d’Italia, nel 1871, dentro il neonato Regno dominato dai Savoia, l’esempio partenopeo fece scuola ed il Gioco fu istituzionalizzato con

la creazione di altre sei Ruote, oltre Napoli, cioè Firenze, Milano, Palermo, Roma, Torino e Venezia; successivamente (1874) fu istituita la Ruota di Bari

ed infine le Ruote di Cagliari e Genova (1939). Il modello di gioco dei Napoletani, basato su Cabala e Smorfia fu, in pratica, esportato ovunque. Solo col nuovo secolo alcuni studiosi iniziarono a riesaminare il tutto dal punto di vista scientifico: occorrerà, però, attendere il 1938 perché l’ing.

Samaritani pubblichi lo stupendo trattato “Teoria dei ritardi” in cui si delinea, per la prima volta e finalmente, una impostazione rigidamente scientifica di questo gioco con formule matematiche che consentono di individuare i limiti teorici dei ritardi delle varie combinazioni possibili.

Da allora i passi compiuti sono stati giganteschi grazie ai tanti studiosi che hanno contribuito a spostare molto più avanti i confini delle cognizioni teoriche e delle applicazioni pratiche nel Lotto; solo un aspetto resta immutato: questo era e resta il Principe dei giochi nonostante i mille

tentativi di altre lotterie, tutti falliti, di scalzarlo dalle simpatie o, meglio, dalla vera e propria passione che ha suscitato e suscita nella moltitudine dei

giocatori!

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Il presepe napoletano "o' Presebbio" , insieme ai zampognari, alla tombola ed al menu del 24 dicembre, è uno dei simboli più intensi della tradizione natalizia a Napoli.

Ad di là dei simboli religiosi che esso richiama, il presepe è amato anche da quelle famiglie napoletane poco osservanti o dichiaratamente laiche, perché il presepe napoletano è il luogo dove

sacro e profano, spiritualità e vita quotidiana, preghiera ed ironia convivono come solo a Napoli, città delle contraddizioni, è possibile.

Anche se oggi il presepe è sempre più spesso accompagnato o addirittura sostituito dall'albero di Natale, la tradizione è quanto mai viva e tramandata in moltissime famiglie.

La costruzione del presepe napoletano inizia tradizionalmente l'otto dicembre: dal ripostiglio si tira fuori la „base“ dell'anno precedente (uno scheletro di sughero e cartone poggiato su una tavola di legno, senza pastori ed addobbi vari) ed insieme ai figli di discute l'eventuale ampliamento. Oggi San Gregorio Armeno è il crocevia della meraviglia natalizia. Anche molti giovani si sono accostati all'antica arte. Le tecniche sono quelle di una volta, ma sono cambiati i sistemi di propaganda. E' vero, il presepe continua ad essere un giudice infallibile dell'affetto dei napoletani: soltanto chi è molto amato, come Totò, Eduardo, Massimo Troisi, ha diritto di comparire accanto a Razzullo e Sarchiapone, a Benino, ai musicanti. Però c'è anche un ammiccamento a sentimenti diffusi ma lontanissimi dalla tradizione. Negli ultimi anni sono apparse nelle vetrine e sulle bancarelle le figurine di Madre Teresa di Calcutta e di Lady Diana, perfino dello stilista Versace; niente da

scandalizzarsi, il presepe tollera tutto.

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Una derivazione molto folcroristica della Cabala ebraica risulta essere la smorfia napoletana, legata all'antico Gioco del Lotto.

Essa associa a cose e persone uno o più numeri( ambi, terni, quaderne e cinquine) da 1 a 90 giocabili su 1 o più Ruote del Lotto.Tali numeri vengono ricavati soprattutto dall'interpretazione di sogni e, in secondo luogo, con

l'interpretazione di fatti straordinari del vissuto quotidiano. L'interpretazione dei sogni è l'attività principe del giocatore del Lotto a Napoli, in quanto l'attività onirica notturna è considerata, secondo una tradizione

popolare ascendente ai tempi della Magna Grecia, premonitrice di eventi futuri. Quando il sogno è stato particolarmente strano, il giocatore, di prima mattina, prende la sua Smorfia da sotto il comodino e dagli elementi del sogno, che più

sono risaltati alla sua memoria, ricava i numeri da giocare.

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Il ragù non è la carne ca' pummarola. come recita la poesia di Eduardo.

Non è di facile realizzazione ed inoltre per essere saporito come quello della mamma del de Filippo richiede una

lunghissima cottura.Attualmente si usa chiamare ragù un sugo di pomodoro nel

quale si è cotta della carne.Il ragù, come recita Eduardo,veniva cotto su di una

fornacella a carbone e doveva cuocere per almeno sei ore!La pentola in cui si dovrebbe cuocere è un tegame di creta largo e basso, e per rimestarlo occorre  la cucchiarella di

legno.Il ragù napoletano è il piatto tipico domenicale e base per

altre pietanze altrettanto saporite, come ad esempio la tipica lasagna che a Napoli viene preparata con il ben di

Dio durante il periodo di Carnevale.

 Ingredienti:

- 1 kg. di spezzatino di vitello,- 2 cipolle medie,

- 2 litri di passata di pomodoro,- un cucchiaio di concentrato di pomodoro,

- 200 gr. di olio d'oliva,- 6 tracchiulelle ( ovverosia le costine di maiale),

- 1/4 di litro di vino rosso preferibilmente di Gragnano,- basilico,- sale q.b.

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Esecuzione:E' consigliabile preparato il giorno prima mettendo la carne nel tegame, unitamente

alle cipolle affettate sottilmente e all'olio. Carne e cipolla dovranno rosolare  insieme: la prima facendo la sua crosta scura, le seconde dovranno man mano  appassire

senza bruciare. Per ottenere questo risultato, bisogna rimanere ai fornelli e sorvegliare la vostra

"creatura",pronti a rimestare con la cucchiarella di legno,e bagnare con il vino, appena il sugo si sara' asciugato: le cipolle si dovranno consumare, fino quasi a dileguarsi. Quando la carne sara' diventata di un bel colore dorato, sciogliete il cucchiaio di conserva nel

tegame e aggiungete la passata di pomodoro.Regolate di  sale e mettete a cuocere a fuoco bassissimo, il ragù dovra', come si dice a Napoli,  pippiare parola onomatopeica che ben descrive il suono del ragu' che cioe' dovra' sobbollire a malapena a quel punto coprirete con   un coperchio sul tegame,

senza chiuderlo del tutto.Il ragù adesso dovra' cuocere per almeno tre ore,  di tanto in tanto rimestatelo

facendo attenzione che non si attacchi sul fondo

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Eduardo De Filippo rende omaggio, con una sua poesia al ragù napoletano nella sua commedia Sabato,

domenica e lunedì

'O 'rraù'O rraù ca me piace a me

m' 'o ffaceva sulo mammà.A che m'aggio spusato a te,ne parlammo pè ne parlà.io nun songo difficultuso;

ma luvàmmel' 'a miezo st'uso

Sì,va buono:cumme vuò tu.Mò ce avéssem' appiccecà?Tu che dice?Chest' 'è rraù?

E io m' 'o   mmagno pè m' 'o mangià...M' ' a faja dicere na parola?...

Chesta è carne c' ' a pummarola

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Ingredienti:1,600 kg di cozze2 spicchi d’aglio

olio d’oliva400 g di pomodori pelati

prezzemolopepesale

Preparazione:spazzolate bene e lavate le cozze. In un tegame con l’olio, soffriggete

l’aglio, aggiungete il pomodoro, il pepe e abbondante prezzemolo tritato. Quando la salsa si sarà un po’ ristretta unite le cozze e

coprite. Al calore vivace le cozze si apriranno liberando l’acqua di mare che insaporirà e allungherà il sugo.Fate insaporire, poi

aggiungete altro prezzemolo tritato. Prima di servire con fette di pane abbrustolito, lasciate riposare la zuppa per qualche minuto

perché possa depositarsi qualche granellino di sabbia che le cozze racchiudono.

Nello stesso modo potete preparare la zuppa di vongole, mescolando se volete anche i due molluschi.

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Ingredienti:PASTA FROLLA PER LA PASTIERA:

> gr.500 di farina > n.2 uova

> n.1,5 tazzine di latte > gr.180 di zucchero

> gr.150 di burro (meglio se sugna) > un pizzico di bicarbonato

PASTIERA: > gr.580 di Grano (un barattolo)

> dl.4 di latte > gr.30 di burro (o sugna)

> gr.500 di ricotta fresca di pecora > gr.450 di zucchero

> n.7 uova (7 tuorli e 4 albumi*) > un pizzico di cannella > n.1 bustina di vaniglia > n.1 fialetta di millefiori

> buccia di limone > canditi (a chi piacciono)

 

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Preparazione:Fare la pasta frolla e farla riposare qualche ora.

In una pentola mettere il grano, la sugna, il latte e qualche buccia di limone. Far cuocere a fuoco lento fino a quando non diventa un composto cremoso, facendo attenzione a non farlo attaccare sul fondo (dopo, ricordarsi di togliere le bucce di limone). In un recipiente passare, col passaverdure, la ricotta; indi aggiungere lo zucchero ad essa e iniziare a lavorare con le fruste elettriche. Intanto, ad uno alla volta, aggiungere i tuorli delle uova (separati precedentemente dagli albumi); poi,

ancora, il grano che avete cotto precedentemente e fatto raffreddare (se si preferisce, prima di aggiungere il grano, passarne col passaverdure la metà). Da parte, montare i 4 albumi a neve (*tre dei sette sono da buttare) e aggiungerli al composto insieme a

cannella, vaniglia e fialetta di millefiori (e canditi a pezzettini, ma c'è chi non li gradisce). Continuare ad amalgamare tutto con le fruste.

Foderare un ruoto con la pasta frolla; versare il composto cercando di non superare i 3/4 dell'altezza del ruoto (prevenendo il gonfiore durante la cottura). Con il resto della pasta frolla fare delle strisce e porle a grata come si usa per la crostata. Cuocere per

circa un'ora (la cottura dipende dal forno, ma il particolare è superabile tenendo d'occhio il tipico colore biondo scuro). Raggiunta la cottura, spegnere e lasciare il

forno leggermente aperto (per l'assestamento del dolce). Far raffreddare ed asciugare la pastiera (qualche giorno dopo sarà più buona).

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Le origini della canzone napoletana sono oscure.Gli storici non hanno trovato gli elementi sicuri per datare la prima melodia del popolo napoletano: ma si può dire che questa oscurità delle date è il significato

di una origine luminosamente mitica del fenomeno del canto di Napoli., il primo canto situato in un'epoca sicura è il famoso Canto delle lavandaie del Vomero, e subito comincia la fioritura di poesie e di musiche, che sulle labbra del popolo, senza che se ne conoscano i nomi degli autori, diedero l'avvio alla

messe lussureggiante della Canzone napoletana. Già fra il '400 e il '500 le canzonette napoletane si contano a centinaia, e si cantano a più voci, con

accompagnamento di liuto e calascioni: la matrice era stata la "Villanella", un tipo di canzone agreste La prima "villanella" a stampa è del 1537, la famosa

"Voccuccia de ' no pierzeco apreturo":l'ultima è del 1652. Poi le villanelle corsero manoscritte,cosi, nasceva la canzone monodica, ad una sola voce con

accompagnamento di strumenti: cioè la moderna canzone napoletana.Nel '600 videro la luce Michelemmà, Cicerenella; nel primo '700, lo Guarracino;

alla fine del '700 già circolavano tante canzoni, Nei primi decenni dell'Ottocento, le canzoni non si contano più: finalmente nel 1835, con la

famosa “Te voglio bbene assaje” si ha la coincidenza delle canzoni con la festa di Piedigrotta, e Piedigrotta da festa esclusivamente religiosa, di pellegrinaggi

alla Chiesa della Madonna della Grotta, diventa sinonimo della Canzone napoletana.

INSOMMA, Napoli dava respiro a centinaia di Melodie che rinnovarono nel mondo i fasti eccezionali delle "villanelle"Ma questo non durò per molto a causa

dell'invasione delle canzoni ritmate - di importazione dagli Stati Uniti, la diffusione dei dischi e la difficoltà di allestire spettacoli nei teatri, contribuiscono

al tramonto della canzone napoletana, che dovrà attendere il dopoguerra per impadronirsi e padroneggiare i nuovi ritmi e il nuovo stile, e dimostrare così la sua vitalità inesauribile, attraverso canzoni moderne. Dopo oltre mezzo secolo di successi, , oggi assistiamo ad un nuovo interesse per le grandi canzoni del

periodo aureo: cantanti stranieri riprendono i vecchi motivi e li "lanciano" con nuove armonizzazioni e ritmi.

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….TARANTELLA….La tarantella, nata nella seconda metà del '600 dalla Sfessania (una sorta di danza

della spada), dalla Ntrezzata e dall'Imperticata), con le sue figurazioni di corteggiamento e conquista, si presenta come una delle danze più attraenti degli ultimi

400 anni. Numerosi scrittori stranieri l'hanno descritta nei loro libri, in diari e corrispondenze, e parecchi musicisti classici si sono ispirati ad essa per comporre

musiche sullo stesso ritmo, quali Chopin, Rossini, Bellini …la tarantella continuò ad interessare popolani, salotti eleganti, forestieri, scrittori,

musicisti.

…TAMMURRIATA….La tammurriata è una canzone allegra in cui il tamburo ("tammurro"), agitato dal

cantante, diventa protagonista fra tutti gli altri strumenti accompagnatori. Il ritmo della tammurriata è quasi sempre regolare per tutta la durata della canzone, anche se,

spesso, è crescente sotto il finale. E.A.Mario e Giuseppe Capaldo sono gli autori più fertili di questo genere musicale.

Ma anche altri poeti napoletani, pur non amando particolarmente questo genere musicale, sono riusciti, in qualche modo, a segnare, nel corso della loro carriera, un

successo di tammurriata.

….DUETTI DI CAFE' CHANTANT….Il Duetto è un genere musicale collegato alla nascita del Cafè Chantant e, quindi, del

Teatro di varietà. Questa forma musicale ha la sua massima manifestazione negli anni a cavallo tra la fine dell'800 e l'inizio del '900. Le tre o quattro strofette del Duetto

costituiscono una brevissima scena teatrale musicata, nello svolgimento della quale un contrasto tra il maschio e la donna innamorati si risolve quasi sempre felicemente..

Agli inizi del '900 i testi dei Duetti sono scritti con una semplicità rudimentale e spesso elaborati dagli stessi comici, o per sfruttare una trovata o per adattarli alle loro risorse interpretative. Poi, man mano che il genere musicale si afferma, subentrano autori di

una certa notorietà. Tra le canzoni più famose, ricordiamo Levate 'a cammesella, Voglio trasì, Oh Rafela Rafela, Tarantì tarantella.

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TARANTELLA BACK

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Nato a Napoli il 24 maggio del 1900,figlio naturale dell’attore Eduardo Scarpetta e di Luisa De Filippo,egli debutta nel 1904 come giapponesino ne “La geisha”.

Nel 1931 insieme ai fratell, Peppino e Titina,forma la compagnia del “Teatro Umoristico I De Filippo”egli licenzia come autore operedel valore di “Natale in casa

Cupiello”e “Chi è cchiu felice ‘e me?”.Nel 1945 scrive “Napoli milionaria” dove dà vita alla Compagnia di Eduardo,che

rappresenta nel 1946 “Questi fantasmi” e di li a poco, con esiti trionfali”Filumena Marturano” ;nel1962è la volta de”Il sindaco del rione Sanità”Nel novembre del 1980

gli viene conferita la laurea in lettere honoris causa dall’Università di Roma,nel 1981 è nominato senatore a vita:nel 1984 ,egli si spegne a Roma.

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Totò nasce il 15 febbraio 1898 nal rione Sanità come Antonio Clemente,figlio di Giuseppe Curtis, viene adottato dal marchese Francesco Gagliardi Foccas ,e nel 1946 il tribunale di Napoli gli riconosce il diritto a fregiarsi dei nomi e dei titoli di

reale.Totò riscuote molto succeso in teatro e nel nel 1956comincia il sodalizio con Peppino De Filippo che avrà i suoi momenti epici in film, tra gli altri, come Totò, Peppino e la Malafemmina, e ne La banda degli onesti. Totò oltre che con

Peppino farà coppia con tutti i più grandi attori della commedia. Arrivano gli anni '60 e con l'inizio della parabola discendente della commedia italiana, anche Totò deve ridefinire il suo personaggio. Nel 1964 interpreta uno dei suoi migliori

film, Il comandante.Da li molti altri film verrano interpretati dal mitico Totò.Antonio de Curtis muore il 15 aprile del 1967. Ai suoi funerali partecipa

circa un milione di persone e tutta Italia assisterà con sorpresa e tristezza. Ma non sarà la fine. Sarà l'inizio della riscoperta del più grande attore italiano.

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Massimo Troisi nasce il 19 febbraio a San Giorgio a Cremano e cresce in una famiglianumerosa.

Ancora studente comincia ad interessarsi teatro,iniziando a recitare in un gruppo teatrale”I Saraceni” con Lello Arena,Enzo Decaro,Valeria Pezza e

Nico Mucci.Nel 1997 nasce la Smorfia: Troisi,Decaro ed ArenaDal 1981 comincia per Massimo l’avventura anche nelle sale

cinematografiche con il primo film in cui è regista e protagonista “Ricomincio da tre.Con questo film Troisi ottiene un grande successo,che si

ripeterà per molti altri suoi film.Muore a Roma il 4 giugno 1994I Film:

1981 – Ricomincio da tre 1982 – Scusate il ritardo

1982 – No grazie,il caffè mi rende nervoso1984 - Non ci resta che piangere

1987 – Le vie del Signore sono finite1987 – Hotel Colonial

1989 – Splendor1989 – Che ora è

1990 – Il viaggio di Capitan Fracassa 1991 – Pensavo fosse amore e invece era un calesse

1994 – Il postino

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La sceneggiata è un genere teatrale e musicale a carattere drammatico,tipico della tradizione partenopea.

Si tratta di una rappresentazione breve,interamente in dialetto.La sceneggiata, inolte,trattava una vicenda molto semplice e diretta,che ruotava attorno una canzone

principale che dava il titolo all’intera rappresentazione,ma prima di quest’ultima ,venivano inserite altre canzoni meno importanti.

Oggi questo tipo di rappresentazione è quasi scomparsa dai teatri.Uno dei maggiori esponenti della sceneggita è Mario Merola; di umili origini,giunge a teatro

quasi per caso con la sua prima canzone”Malu figlio”che entra a far parte di una sceneggiata che lo vede come protagonista,e così comincia la sua carriera rappresentando

la sua sceneggiata anche all’estero.Tra le sue sceneggiate la più importante è stata “O’zappatore”(1980).

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OpereSgarro alla camorra(1973)

L’ultimo guappo(1978)Napoli...serenata calibro9(1978)Da Corleone a Brooklyn(1978)

Sbirro,la tua legge è lenta....la mia no!(1979)Napoli ,la camorra sfida,la città risponde(1979)

I contrabbandieri di Santa Lucia(1979)Il mammasantissima(1979)

La tua vita per mio figlio(1980)Carcerato (1981)

I figli so’ piezz ‘e’ cor’(1981)Napoli,Palermo,New York il triangolo della camorra(1981)

Lacrime napulitane(1981)Tradimento(1982)Giuramento(1982)

Torna (1984)Guapparia(1984)

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Vide Napule e po' muore ( Vedi Napoli e poi muori)

Quann' 'o diavulo t'accarezza, vo' ll' ànema (Quando il diavolo ti accarezza, desidera la tua anima)

'E figlie so' ppiezz' 'e còre ( I figli sono pezzi di cuore)

Ccà nisciuno è fesso ( Qui nessuno è stupido)

Ogne scarrafone è bell' a mamma soja (Ogni scarafaggio sembra bello alla propria madre)

'A raggiona è d' 'e fesse (La ragione è degli stupidi)

Tutt' 'o lassato è perduto (Tutto ciò che è lasciato è perso)

Dicette 'o pappice 'nfacci' a noce: "Dàmme 'o tiempo ca te spertoso" (Disse il tarlo alla noce:" Dammi il tempo per bucarti")

Mentre 'o miedeco sturéa, 'o malato se ne more (Mentre il medico studia, il malato muore)

Nun se fa niente pe' ssenza niente (Non si fa niente gratis)

Chi bella vo' pare', pene e gguaje hadda pate' (Chi vuole apparire bella, deve sopportare pene e guai)

'A mugliera 'e ll'ate è sempe cchiu' bella (La moglie degli altri è sempre più bella)

Parlanno do diavulo, spuntajeno 'e ccorna (Parlando del diavolo, apparvero le corna)

'O peggio surdo è chillo ca nun vo' sèntere (Il peggior sordo è quello che non vuole sentire)

Mazza e panella fanno 'e figlie bell; panella senza mazza fanno 'e figlie pazze (Bastone e pagnotta rendono i figli belli; pagnotta senza bastone rende i figli pazzi)

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'A robba bella se fa avvede' (Le belle cose devono essere mostrate)

Nisciuno è nato 'mparato (Nessuno è nato istruito)

'A gallina fa ll'uovo e o gallo ll'abbruscia 'o culo (La gallina fa l'uovo e al gallo brucia il sedere)

'A gatta pe' gghji' 'e pressa, facette 'e figlie cecate (La gatta per fare presto fece i figli ciechi)

'O geluso more curnuto (Il geloso muore tradito)

Se dice 'o peccato, ma no 'o peccatore (Si dice il peccato, ma non il peccatore)

A ppava' e a mmuri', quanno cchiù tarde è pussìbbele (Pagare e morire, quando più tardi è possibile)

Chi cagna 'a via vecchia p' 'a nova sape chello ca lassa e no chello ca trova (Chi lascia

la strada vecchia per la nuova, sa ciò che lascia ma non ciò che incontra

A' gatta quanne nun pò arrivà o' llardo dice ca' fete (la gatta se non riesce a raggiungere il pezzo di pancetta o lardo dice che puzza ...è avariata)

O' ciuccio chiamma recchia longa o cavallo (è di chi dice ad altri quali sono i suoi difetti senza veder i propri)

Cu n'uocchio guarda a jatta e cu n'ate frje o' pesce (un occhio al gatto e uno al pesce, quando friggi) (grazie a Piero e Sonia Piccolo)

Castagne, noci e nucelle a primma ca truovi bbona, astipatella (conserva la frutta secca mano a mano che la sbucci via via resteranno le peggiori e tu resterai comme nu' strunz)

(grazie a Piero e Sonia Piccolo)

Chi nasce p'a' forca nun more pe' mare (se ti e' destinata una morte non ne puoi fare un altra)

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Quann' 'o mellone jesce russo, ognuno ne vo' 'na fella (Quando il cocomero è rosso, ognuno vuole una fetta)

Tutto po' essere, fore ca ll'ommo priéno (Tutto è possibile tranne che l'uomo incinto)

Chi te vo' bene cchiù de mamma, te 'nganna (Chi ti vuole bene più della mamma, ti inganna)

'A morte nun tene crianza (La morte non ha educazione)

'O sparagno nun è maje guadagno (Il risparmio non è mai guadagno)

Nu' sputa' 'ncielo, ca 'nfaccia te torna (Non sputare in cielo, che ti ricadrà in faccia)

Quanno se magna, se cuntratta cu 'a morte (Quando si mangia si ha a che fare con la morte)

'Ammore verace è quanno s'appicceca e se fa' pace (Il vero amore è quando si litiga e si fa la pace)

'A meglia parola è chella ca nun se dice (La miglior parola è quella che non si dice)

'Vatte 'o fierro quann' è ccavero (Batti il ferro quando è caldo)

Stipa ca truova (Conserva che troverai)

Jette pe se fa' a croce e se cecaje n'uocchio (Voleva farsi il segno della croce e si cecò un occhio)

Acqua ca nun cammin' fa pantane e fete! (L'acqua stagnante, si appantana e puzza)

Facesse na culata e ascesse o sole (Ogni volta che inizio a fare il bucato, il sole scompare)

'O purpo se coce int' a l’acqua soja (Il polpo cuoce nella propria acqua)

S'adda fa 'o pireto pe quanto è gruosso 'o culo (si deve fare il peto per quanto è grande il deretano)

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La capera è una giovinetta popolana, per lo più nubile e aggraziata, giacchè la giovinezza e la bellezza sono pregiudizi a favore del gusto.

E una capèra senza gusto è come un poeta senza estro o un romanziere senza immaginazione.

La capera quasi sempre si chiama Luisella, Giovannina, Carmela, ella veste sempre con molta ricercatezza, ma in particolare il suo capo

deve essere una specie di mostra, di campione, di modello non per le donne popolane ma per quelle di civil condizione.

Il compenso che riceve la capera varia a seconda della qualità e condizione delle sue clienti ella riceve da tre carlini fino a trenta carlini

o tre piastre al mese.Qualche capera si vede già per le vie della città con cappellino, guanti

e ombrellino. Ella si riconosce tra un crocchio di giovani donne.

Eccola, è la più alta, la più svelta, la più elegante, il suo capo è il meglio acconciato, i suoi vestiti i più eleganti i suoi piedi i meglio

calzati. Ella parla sempre, conosce i fatti di tutti, ed è specializzata in materie

amorose.La capera è l'amica più confidente delle donne che hanno varcato i

trent'anni, ed il motivo è chiarissimo. A questa età cominciano ad insinuarsi nelle chiome annunzi

dell'autunno della vita. Ogni anno che la capèra fà sparire dall'atto di nascita (ringiovanire)

delle sue clienti ne guadagna in prestigio. Il suo genio consiste nel saper nascondere i difetti che l'età adduce

sulle loro teste. Qui un gruppetto di fili d'argento che ella fa sparire, o un trucioletto

ribelle che ella deve mettere a posto.La capera provvede a tutto, qua impinza, là toglie, là imbruna, giù allustra, là gonfia, qui sgonfia, le sue mani fanno prodigio; e dieci

quindici anni spariscono sotto le sue dita.

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L'apparenza inganna, e l'abito non fa il monaco, se per caso pensaste che quella macchina dell'arrotino fosse poca cosa, come sembra, quel grido

prolungato, ammola-forbici non fosse che una voce volgare, v'ingannereste. Che studio, che meditazione, che sapienza in quell'uomo con la sua modesta

macchina!Esaminiamo la macchina del nostro arrotino.

Viene su dal centro un legno, a questo è attaccata una secchia di latta, mezza logora e sudicia, di forma circa di una fiaschetta, nel collo si introduce l'acqua, la quale cade giù, goccia a goccia, sull'orlo della ruota di pietra, per via di un

tubicino che parte dal mezzo della secchia, frenata da un fil di ferro. Passa per il centro della ruota di pietra, collocata tra due aste principali

verticali, un asse rotonda di ferro, mossa da una vicina carrucoletta, su cui si avvolge un cordicella, legata alla grande ruota di legno.

Un'assicella sull'estremità dritta della macchina è mossa da una grossa puleggia, che termina ad un ferro, presso a poco a forma di girella, il quale fa

volgere l'asse della ruota. Così l'arrotino, agitando col piede questa assicella, gira la ruota principale, e

con essa, in conseguenza, la carrucoletta e la ruota di pietra.

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La bottega del pizzaiolo si compone di un banco su cui si manipolano le pizze, sormontato da una specie di scaffale ove sono in mostra i commestibili, e

ingombro di vasi contenenti sale, formaggio grattugiato, origano , pezzetti di aglio ecc.

Le pizze più ordinarie, dette con l'aglio e l'oglio, hanno per condimento l'olio, e sopra vi si sparge, oltre al sale, l'origano e spicchi d'aglio trinciati

minutamente, chiamata anche Marenara Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite con strutto, e allora vi si

pone sopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto, a pizza c'alici; alle seconde

delle sottili fette di mozzarella, pizza margherite. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi

calzone. Molte pizzerie hanno dei giovani che vanno girando per i mercati e per gli

artigiani con un recipiente di rame che portano sulla testa. Reclamizzano il loro prodotto con quelle voci che si sentono da quasi tutti i

venditori ambulanti per richiamare gli avventori, una di questa è "A signorina mia pure lle piaceve o pesciolino dint'ha pummarola bella pasta!"

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All'ombra del portico che decora l'ingresso di alcuni dei nostri teatri, la dove la spessezza dei pilastri offre riparo dal vento e dalla pioggia pochi uomini di sparuto aspetto e con abiti gretti e cenciosi siedono davanti un vecchio tavolo, che contiene qualche foglio di carta, uno sporco calamaio ed un piccolo peso che impedisce alle poche carte di volare via al soffiare

del vento.Questi uomini molto pazienti si rendono gli interpreti degli affetti, le ire e

le passioni degli analfabeti. Il suo stile nello scrivere è molto semplice, ama la brevità, non cerca mai modi eleganti per manifestare ciò che pensa il suo vicino, egli è chiaro ed

originale. Lo scrivano ha pure la sua tariffa col prezzo dei suoi lavori, cominciando dalla supplica in carta semplice fino al volume di cento pagine, lo scritto

alla spagnuola è il vero culmine della sua arte.Lo scrivano è l'interprete di tante passioni, è il depositario dei palpiti altrui, delle amarezze delle giovani fanciulle povere e onorate che per

mancanza di istruzione debbono molte volte arrossire raccontando i propri segreti.

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Il pulizza stivali con la sua cassetta che contiene tutti gli attrezzi per il suo mestiere che consistono in vari tipi di spazzole, del lucido, e anelina nera e marrone.

Il suo posto è quasi sempre vicino ad un caffè dove ci sono la maggior parte dei sui clienti, quasi sempre sono in due che con le loro cassette si dividono gli avventori.

Iniziano la loro attività verso le sette del mattino e restano fino alle otto di sera, e quando uno si allontana per potersi mangiare qual cosa l'altro resta sul posto e custodisce la

cassetta dell'altro, molte volte si uniscono e alla sera si dividono il misero guadagno che hanno fatto durante il giorno.

Quando il pulizza stivali si accinge all'opera, egli si impadronisce del vostro piede , lo pone sullo zoccolo di legno rialzato sulla sua cassetta, prima lo accarezza e ne toglie il fango e la

polvere, lo unge con un poco della sua mistura, e poi si pone al lavoro dello strofino. Terminato di pulire un piede, egli da un colpo di spazzola sulla cassetta, e vi comanda così

tacitamente di adagiare sullo zoccolo l'altro piede per procedere alla somigliante operazione.

Lui invita i passanti dicendo pulizzamm pulimm; ma nelle giornate di pioggia egli guarda malinconica le scarpe dei passanti senza dare il suo invito ,rendendosi conto che sarebbe

inutile

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Per trovarli bisogna aguzzare l’orecchio e il naso, tra i vicoli dei quartieri, il nervoso andirivieni delle auto, una voce ancora chiama:”Castagne Cavere”. 

Come orologio biologico la caldaia delle castagne, ci dice che è arrivato l’inverno, natale è alla porte e il freddo, grande nemico, di questo solare popolo, deve essere

arginato. Gli attrezzi del castagnaro non sono tanto cambiati nel tempo; un grosso fornello a tre piedi, un padellone con i buchi, un panno di lana per avvolgere le “verole” nel tepore, una caldaia con l’acqua in ebollizione aromatizzata con alloro, sale e semi

di finocchio per le “allesse”. Le castagne venivano servite in un “cuoppo”, secchiello fatto di carta di giornale, ed erano un sollievo per le mani infreddolite,

ed un frugale pasto per ingannare la fame. Gli ambulanti molto spesso si appostavano davanti alle trattorie e alle cantine dove i clienti abbondavano, fedeli

sostenitori del felice connubio tra verole e vino. Le grida richiamavano un po’ tutti grandi e piccini , alcune recitavano “Che belle

allesse, che palle” con chiare allusoni sessuali. O altre come: “ne dongo ventiquattro e o’ pallone, nu sordo”. Derivato dall’usanza di cuocere insieme alle castagne sbucciate anche alcune con le buccia. Ed ancora: “pe sazia na rossa ncc vo’ na caurara allesse” per sottolineare la presunta fame d’amore delle donne dai

capelli rossi. Ma è soprattutto di sera che o’castagnaro faceva affari, quando le scorte di viveri erano finite la voce recitava: “O ppane e allesse se magnano ‘a sera”, per calmare i borbottii dello stomaco. E bastava entrare in un vicolo e

fingere una piccola voce: “Mammà voglio alless” che tutti i bambini ripetevano e l’eco resta: “curre curre, guaglione ca nu sordo o’ piattone t’o scarfe o

cannarone”. Ancora oggi l’eco delle loro voci, che non ascoltiamo più per la strada, perché troppo distratti, le ritroviamo nelle parole di una canzone di una band

metropolitana come i 99 Posse: “Curre, Curre guaglio…”. Quello che c’era c’è con un nuovo abito

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IL CASTAGNARO:

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CURA DELLA PARTE GRAFICA:

Pepe Debora,Vezza Biancamaria,Raio Valentina,Crescentini Anna Chiara

AIUTANTI PER LA RICERCA DI FOTO E DOCUMENTI:

De Marco Sonya,Amoroso Roberta,Marciano Serena,Abbruzzese Maria,Caruson Corinne,Cuomo Martina,Galletta Federica,Longo Ilaria,Scala Alessandra,PrinnoSusy,Varlotta Stefania,Azzolio Alessia,Ferri Nicoletta,Amirante Nunzia,Tirelli Silvia,Ilaria Falconio,Vitagliano Laura,Campenni Marina,Cuomo Francesca,Martone Erika.

LE SCUGNIZZE DELLA 2° C

MAGGIO 2004