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Data e Ora: 10/02/10 22.55 - Pag: 43 - Pubb: 11/02/2010 - Composite I manoscritti medievali continuano a re- galarci gradite sorprese. L’ultima novi- tà è una sfavillante Messa gregoriana, intitolata ai santi Faustino e Giovita, proveniente dalla Bodleian Library di Oxford, ritrovata e trascritta dalla musico- loga Maria Teresa Rosa Barezzani. Lunedì 15 febbraio, in occasione della festa per i santi patroni di Brescia, la Scuola diocesa- na di musica Santa Cecilia la presenterà in prima esecuzione moderna, nella chiesa di San Faustino. Alle 18,15 questi antichi canti rivivranno nel loro naturale e originario contesto: una celebrazione eucaristica presieduta da don Carlo Bresciani, rettore del Seminario. Alle 21 gli stessi brani si inseriranno invece in una cornice più spettacolare e accattivan- te: un singolare concerto ricco di contrasti e novità. La serata prevede infatti l’esecu- zione di composizioni per organo di Marco Enrico Bossi (il maggiore concertista-orga- nista di tutto il ’900), alternate alla frizzan- te e moderna Little Jazz Mass di Bob Chil- cott (inglese, classe 1955), e all’incanto ar- dente e mistico dei riscoperti pezzi gregoria- ni. Gli esecutori del concerto serale saran- no Fausto Caporali all’organo Serassi, Juri Lanzini al pianoforte, Sandro Massazza al contrabbasso, il Coro di voci bianche della Scuola diocesana di musica diretto da Ma- rio Mora e l’ensemble Palma Choralis diret- to da Marcello Mazzetti (organista Mariella Sala) cui saranno affidate le parti in cantus firmus degli anni intorno al Mille. Una tradizione millenaria «La festa dei Santi Faustino e Giovita è radicata nella nostra storia - spiegano gli or- ganizzatori -. Proprio questa tradizione mil- lenaria ha fissato, nei più diversi modi, la vi- ta delle varie generazioni, i loro ideali esteti- ci, desideri, speranze, convinzioni profon- de: dall’iconografia alla liturgia, dalla musi- ca alla sagra popolare, nulla escludendo». Il concerto è organizzato in collaborazione con il Museo diocesano di Brescia, che fino al 4 aprile ospita la mostra sul barocco e i santi Faustino e Giovita. «Vogliamo riper- correre un millennio di brescianità - precisa la studiosa Rosa Barezzani - attingendo al- le radici più remote dei nostri avi. Il mano- scritto su cui ho lavorato riporta neumi adiastematici, cioè segni che non indicano l’altezza esatta delle note. Era destinato a rimanere muto per altri secoli. Ma fortuna- tamente questa stessa Messa esiste anche in altri due codici più tardi, conservati pres- so la biblioteca "Angelo Mai" di Bergamo, che indicano con precisione le melodie. Dal confronto tra le fonti ho ricostruito la ver- sione che potrete ascoltare in anteprima». Quale è stata lo stupore più grande nel tra- scrivere questa musica? «Il graduale "Glo- riosus Deus" ha rivelato linee impetuose, uno slancio inaspettato, estese e labirinti- che varianti. Il tratto "Sancti et iusti", canta- to al posto dell’Alleluia in tempo di Quaresi- ma, composto da formulari di provenienza diversa sapientemente assemblati, mi ha fatto faticare più del previsto». Da Santa Giulia a Faustino e Giovita Il codice di Oxford è stato probabilmente redatto nel capitolo del Duomo di Brescia. «Appare molto consumato dall’uso, mostra l’intervento di più mani, contiene numero- se messe e uffici liturgici, è notato da princi- pio alla fine con una scrittura minuta: tutti segnali della sua grande importanza. Deve essere ancora studiato a fondo. Al suo inter- no - continua la studiosa - vi sono Uffici in onore di Santa Giulia, un Inno a san Pietro e poi l’Ufficio liturgico dai santi Faustino e Giovita. È un documento davvero corposo e complesso, e meriterebbe l’intervento di un team di ricercatori. Mi aspetto altre sor- prese». Cosa ci faranno ascoltare gli interpreti? «Sulla prassi esecutiva non ci so- no certezze - aggiunge la studiosa -, dal mo- mento che nei documenti antichi mancano indicazioni circa il tempo, le pause, l’allun- gamento o l’accorciamento dei suoni. Il fa- scino della musica antica sta anche in que- sta libertà». Ma per quali oscure strade è giunta fino a Oxford un’antica Messa cantata dedicata ai nostri santi patroni? Quale speciale devo- zione legava la famosa città inglese a Fausti- no e Giovita? E chi trascrisse quella stessa Messa, negli altri due codici bergamaschi? Per quale occasione? Perché ne modificò la struttura generale? Come spesso accade, parlando di Medioevo le domande si molti- plicano. La vecchia fontana del villaggio an- cora versa acqua fresca, e noi non finiamo di abbeverarci. La doppia occasione di lune- dì, liturgica e concertistica, potrà restituirci almeno una parte di quel remoto splendore sonoro. Se non chiarire i molti interrogativi, almeno soddisfare qualche curiosità. Enrico Raggi I Santi Faustino e Giovita nell’affresco di Giandomenico Tiepolo in S. Faustino; a destra, particolarediuncodicedel’500,provenientedaBrescia,nellaBodleianLibrarydiOxford V a’ in Egitto! - era un’esclamazione frequente decenni addietro nei vicoli del Carmine per mandare qualcuno a quel tal paese o per dirgli di andare a farsi be- nedire - così almeno mi riferi- scono amici un po’ più agés del sottoscritto e cultori delle tradizioni locali. Certo, oggi sarebbe un bel calembour (tra i due significati) in bocca ad un vecchio carmelitano (i pochi tenacemente sopravvis- suti nonostante le avverse condizioni ambientali) che ri- volgesse l’esclamazione ad un giovane dalla pelle un poco più scura, che probabilmente proprio dall’Egitto proviene, o al massimo dal Marocco. Ma nessuno corre più il peri- colo di non venire compreso, o di venire rimandato inconsa- pevolmente al suo paese nata- le, dal momento che il detto è caduto in disuso. E per giun- ta a qualcuno il Carmine po- trebbe sembrare davvero un nuovo Egitto, da quando la sua popolazione - in meno di due decenni - è così vistosa- mente mutata. Per uno strano fenomeno che non saprei spiegare, ma che forse attiene ad un qual- che tipo di verifica di una cu- riosa nemesi storica che inve- ra il detto latino che nomina sunt consequentia rerum - mio nonno chiamava il quar- tiere del Carmine normalmen- te «el Cairo», con una deriva- zione toponomastica a me del tutto oscura, ma che cer- to deve essere stata di auspi- cio in qualche modo all’inse- diamento nel cuore di Bre- scia della popolazione prove- niente dalle rive del sacro fiu- me che bagna e divide la terra dei Faraoni. Tuttavia un secolo e mez- zo, o due, or sono i bresciani (anche se rari e magari un po’ visti come avventurieri sprez- zanti del pericolo) che parti- vano per guadagnare la cor- rente placida del Nilo, per visi- tare i templi plurimillenari che sulle sue sponde si affac- ciano, non mancavano, e di al- cuni di essi ci è rimasta so- vrabbondante memoria, so- prattutto grafica. Per dire che se oggi è diven- tato così facile e quasi norma- le salpare direttamente col- l’aereo da Orio al Serio (Val Seriana) per approdare dopo poco più di tre ore di volo a Tebe (Valle del Nilo), anche nel passato i rapporti di Bre- scia con l’Egitto non manca- rono ed anzi - mentre oggi il «mordi e fuggi» dei viaggi or- ganizzati o il «fai da te» di quelli individuali ed un po’ et- nici, produce tutt’al più qual- che rullino di fotografie sovra- esposte o di diapositive dalle inquadrature bizzarre - nel- l’Ottocento i viaggiatori bre- sciano riportarono dall’Egit- to copiosa messe di disegni, di appunti, di dipinti. E tra di essi occorre ricordare Giovan- ni Renica, Flaviano Capretti e Gaetano Valbusa. E senza di- menticare - poi - che i nostri Civici Musei conservano (an- corché non esposti al momen- to in cui scrivo) una cinquan- tina di oggetti egizi, di prove- nienze probabilmente dispa- rate, e che purtroppo sono en- trati nelle collezioni pubbli- che senza un’adeguata docu- mentazione, che invece per- metterebbe di ricostruire - in controluce, ma su dati certi - la storia del collezionismo bre- sciano del secolo XIX, com- preso quello delle «curiosità» egizie. F ra i grandi poeti italiani, Petrarca è sicuramente quello che ha mag- giormente ispirato i compositori di ogni epoca e stile, ma il perio- do aureo in cui le rime del Canzoniere fu- rono ripetutamente poste in musica - con la decisiva complicità delle teorie po- etiche di Pietro Bembo - culminò nel Cin- quecento e nella civiltà del madrigale, di cui il bresciano Luca Marenzio fu straor- dinario protagonista. E proprio il variegato percorso di Ma- renzio sulle rime del Petrarca è stato al centro della conferenza tenuta venerdì scorso dalla musicologa Maria Teresa Ro- sa Barezzani all’Ateneo di Brescia. Alcune liriche petrarchesche trovaro- no la via dell’intonazione musicale quan- do il poeta era ancora in vita. È il caso del madrigale «Non al suo amante più Diana piacque» posto in musica da Jacopo da Bologna in pieno Trecento, all’epoca del- la fioritura dell’«Ars nova». Fu poi il più insigne maestro della prima scuola fran- co-fiamminga, Guillaume Dufay, a into- nare la canzone «Vergine bella che di sol vestita» all’inizio del XV secolo. Ma biso- gna attendere l’inizio del Cinquecento per assistere ad una vera e propria fioritu- ra di versi del Petrarca posti in musica nel caratteristico genere della frottola, tanto in voga nelle corti di Urbino, Ferra- ra e Mantova. Finché, a partire dal quar- to decennio del secolo, il madrigale polifo- nico non divenne - come ha ricordato la prof. Barezzani - quel «giardino meravi- glioso» in cui la poesia del Petrarca trovò il suo luogo d’elezione, rivestita delle no- te dei più ingegnosi e sensibili maestri. Il primo incontro di Marenzio con le ri- me del cantore di Laura risale al «Primo libro di madrigali a sei voci» (1581), una raccolta dedicata al duca di Ferrara Al- fonso d’Este, nella quale si trova il sonet- to CXCVI «L’aura serena che fra verdi fronde». Ben più copiosa la messe di ver- si petrarcheschi nella matura raccolta del «Primo libro a quattro voci» (1585): qui appaiono alcune delle più mirabili in- tonazioni marenziane, come il celebre so- netto «Zefiro torna» o la stanza di ballata «Ahi dispietata morte», splendido esem- pio di «gravitas» musicale. Ma è solo con il «Nono libro a cinque voci», canto del cigno del madrigalista che il cerchio si chiude all’insegna del- l’idea della solitudine e della fine immi- nente. Nella stanza di sestina «Crudele, acerba, inesorabil morte» non c’è alcun richiamo al «viver lieto» o alle immagini primaverili che allietavano l’incipit di «Ze- firo torna», e il discorso musicale, fattosi sempre più aspro e carico di cromatismi (come nell’indimenticabile, quasi wagne- riano, attacco di «Solo e pensoso») con- duce a quell’abisso di espressione che - come ha ben evidenziato Maria Teresa Rosa Barezzani - esalta «la solitudine del- l’uomo di fronte al dolore». Marco Bizzarini Marenzio, «autobiografia» in musica sulle rime del Petrarca Il madrigalista bresciano trovò nei sonetti del poeta ispirazione per la propria opera e consonanza emotiva: se ne è parlato all’Ateneo Emerge da un codice medievale l’antica Messa per i Patroni Flaviano Capretti in Egitto nel 1928 E siste oggi la democrazia in Italia? Con questa domanda Norberto Bobbio aprì la confe- renza «Quale democrazia?» che tenne a Brescia, nel salone Da Cemmo, il 27 maggio 1959, nell’ambito degli «In- contri di cultura» allora promossi da un gruppo di intellettuali bresciani raccolti intorno a Stefano Bazoli. Il testo di quel- l’intervento è ora raccolto in un libro edi- to da Morcelliana, con premessa di Fran- cesca Bazoli e una postfazione di Mario Bussi. E la domanda di Bobbio è stata rilanciata ieri da Salvatore Veca, interve- nuto alla presentazione del volume che la Cooperativa cattolico democratica di cultura ha organizzato presso la libreria dell’università Cattolica, in collaborazio- ne con l’università popolare Lunardi. La qualità della democrazia in Italia si misurava, secondo Bobbio, risponden- do a tre domande: «La classe politica de- riva il suo potere direttamente dal con- senso popolare? È integralmente attua- to il principio della responsabilità di chi detiene il potere di governare? Qual è l’intensità e rapidità della circolazione della classe politica?». Nelle risposte, Bobbio analizza i punti deboli dell’an- cor giovane democrazia italiana: il «pro- cedimento misto di cooptazione ed ele- zione» con cui i partiti designano il grup- po governante; le interferenze dell’appa- rato burocratico che esercita spesso un «potere politico irresponsabile»; il «cen- trismo politico» che rende impossibile l’alternativa tra destra e sinistra, favo- rendo la «staticità» della classe dirigen- te. Veca, che insegna filosofia della politi- ca all’università di Pavia e ha vissuto una lunga amicizia con il filosofo torine- se, ha riproposto e attualizzato le do- mande di Bobbio. Sui limiti, ad esem- pio, del principio elettivo: «Oggi ci sono forti tendenze a una conversione dei re- gimi democratici maturi in post-demo- cratici: si preservano alcune regole del gioco, ma esse convivono con forme di potere neo-oligarchiche e neopatrimo- niali, favorite dal forte aumento dei co- sti della politica». Il problema non ri- guarda solo l’Italia: «L’enorme peso che le ineguaglianze sociali, economiche e culturali hanno sulla regolarità democra- tica è un pericolo per molte democra- zie». Il «dispositivo bobbiano della demo- crazia» - ha chiarito Mario Bussi - preve- de tre fasi: «Stabilire cosa la democrazia non è, ossia cosa la differenzia dall’auto- crazia; capire cosa essa è; infine definir- ne la qualità, esaminare il grado di de- mocrazia raggiunto da un sistema politi- co». Molti studi recenti cercano di co- struire «indicatori di democrazia». Un parametro fondamentale, spiega Veca, è proprio il rapporto tra qualità di vita e forbici di ineguaglianza: «Più la società si frammenta in ghetti e caste, più sem- bra che la democrazia si allontani». L’obiettivo da porsi, per realizzare la «democrazia come ideale di eguaglianza e compito di giustizia» auspicata da Bobbio a Brescia, è «una società che tu- teli la possibilità delle persone di essere se stesse», di determinare liberamente la propria condizione di vita: «Per que- sto è importante accrescere l’accesso al- l’educazione, che aumenta le opzioni di scelta possibili». Da Bobbio viene anche una lezione umana di democrazia: «Il modo in cui egli parla in quella conferenza è lo stes- so che avrebbe utilizzato per qualunque altro uditorio. Non cerca di catturare gli altri, li considera interlocutori e non spettatori. Ciò è parte del costume de- mocratico: l’uguale rispetto dovuto a chiunque. Bobbio è stato un grande ma- estro di scienza politica e di filosofia del diritto. Ma da lui ho imparato soprattut- to l’arte difficile della convivenza nella diversità». Nicola Rocchi L’elzeviro Il compositore bresciano Luca Marenzio Bresciani sul Nilo e «bresciani d’Egitto» Luciano Anelli Ghetti e caste, termometro di crisi democratica Veca ricorda la lezione di Bobbio a Brescia nel ’59 e allerta sul «pericolo delle ineguaglianze» SalvatoreVecanellalibreriadellaCattolica(ph.Reporter/Favretto) Giornale di Brescia Giovedì 11 Febbraio 2010 cultura 43

Emerge da un codice medievale l’antica Messa per i Patroni · 2018. 7. 2. · e poi l’Ufficio liturgico dai santi Faustino e Giovita. È un documento davvero corposo e complesso,

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Page 1: Emerge da un codice medievale l’antica Messa per i Patroni · 2018. 7. 2. · e poi l’Ufficio liturgico dai santi Faustino e Giovita. È un documento davvero corposo e complesso,

Data e Ora: 10/02/10 22.55 - Pag: 43 - Pubb: 11/02/2010 - Composite

Imanoscritti medievali continuano a re-galarci gradite sorprese. L’ultima novi-tà è una sfavillante Messa gregoriana,intitolata ai santi Faustino e Giovita,

proveniente dalla Bodleian Library diOxford, ritrovata e trascritta dalla musico-loga Maria Teresa Rosa Barezzani. Lunedì15 febbraio, in occasione della festa per isanti patroni di Brescia, la Scuola diocesa-na di musica Santa Cecilia la presenterà inprima esecuzione moderna, nella chiesa diSan Faustino.

Alle 18,15 questi antichi canti rivivrannonel loro naturale e originario contesto: unacelebrazione eucaristica presieduta da donCarlo Bresciani, rettore del Seminario. Alle21 gli stessi brani si inseriranno invece inuna cornice più spettacolare e accattivan-te: un singolare concerto ricco di contrastie novità. La serata prevede infatti l’esecu-zione di composizioni per organo di MarcoEnrico Bossi (il maggiore concertista-orga-nista di tutto il ’900), alternate alla frizzan-te e moderna Little Jazz Mass di Bob Chil-cott (inglese, classe 1955), e all’incanto ar-dente e mistico dei riscoperti pezzi gregoria-ni. Gli esecutori del concerto serale saran-no Fausto Caporali all’organo Serassi, Juri

Lanzini al pianoforte, Sandro Massazza alcontrabbasso, il Coro di voci bianche dellaScuola diocesana di musica diretto da Ma-rio Mora e l’ensemble Palma Choralis diret-to da Marcello Mazzetti (organista MariellaSala) cui saranno affidate le parti in cantusfirmus degli anni intorno al Mille.

Una tradizione millenaria«La festa dei Santi Faustino e Giovita è

radicata nella nostra storia - spiegano gli or-ganizzatori -. Proprio questa tradizione mil-lenaria ha fissato, nei più diversi modi, la vi-ta delle varie generazioni, i loro ideali esteti-ci, desideri, speranze, convinzioni profon-de: dall’iconografia alla liturgia, dalla musi-ca alla sagra popolare, nulla escludendo». Ilconcerto è organizzato in collaborazionecon il Museo diocesano di Brescia, che finoal 4 aprile ospita la mostra sul barocco e isanti Faustino e Giovita. «Vogliamo riper-correre un millennio di brescianità - precisala studiosa Rosa Barezzani - attingendo al-le radici più remote dei nostri avi. Il mano-scritto su cui ho lavorato riporta neumiadiastematici, cioè segni che non indicanol’altezza esatta delle note. Era destinato arimanere muto per altri secoli. Ma fortuna-

tamente questa stessa Messa esiste anchein altri due codici più tardi, conservati pres-so la biblioteca "Angelo Mai" di Bergamo,che indicano con precisione le melodie. Dalconfronto tra le fonti ho ricostruito la ver-sione che potrete ascoltare in anteprima».Quale è stata lo stupore più grande nel tra-scrivere questa musica? «Il graduale "Glo-riosus Deus" ha rivelato linee impetuose,uno slancio inaspettato, estese e labirinti-che varianti. Il tratto "Sancti et iusti", canta-to al posto dell’Alleluia in tempo di Quaresi-ma, composto da formulari di provenienzadiversa sapientemente assemblati, mi hafatto faticare più del previsto».

Da Santa Giulia a Faustino e GiovitaIl codice di Oxford è stato probabilmente

redatto nel capitolo del Duomo di Brescia.«Appare molto consumato dall’uso, mostral’intervento di più mani, contiene numero-se messe e uffici liturgici, è notato da princi-pio alla fine con una scrittura minuta: tuttisegnali della sua grande importanza. Deveessere ancora studiato a fondo. Al suo inter-no - continua la studiosa - vi sono Uffici inonore di Santa Giulia, un Inno a san Pietroe poi l’Ufficio liturgico dai santi Faustino e

Giovita. È un documento davvero corposoe complesso, e meriterebbe l’intervento diun team di ricercatori. Mi aspetto altre sor-prese». Cosa ci faranno ascoltare gliinterpreti? «Sulla prassi esecutiva non ci so-no certezze - aggiunge la studiosa -, dal mo-mento che nei documenti antichi mancanoindicazioni circa il tempo, le pause, l’allun-gamento o l’accorciamento dei suoni. Il fa-scino della musica antica sta anche in que-sta libertà».

Ma per quali oscure strade è giunta fino aOxford un’antica Messa cantata dedicataai nostri santi patroni? Quale speciale devo-zione legava la famosa città inglese a Fausti-no e Giovita? E chi trascrisse quella stessaMessa, negli altri due codici bergamaschi?Per quale occasione? Perché ne modificò lastruttura generale? Come spesso accade,parlando di Medioevo le domande si molti-plicano. La vecchia fontana del villaggio an-cora versa acqua fresca, e noi non finiamodi abbeverarci. La doppia occasione di lune-dì, liturgica e concertistica, potrà restituircialmeno una parte di quel remoto splendoresonoro. Se non chiarire i molti interrogativi,almeno soddisfare qualche curiosità.

Enrico Raggi

I Santi Faustino e Giovita nell’affresco di Giandomenico Tiepolo in S. Faustino; a destra,particolaredi un codice del ’500, proveniente da Brescia, nella Bodleian Library di Oxford

Va’ in Egitto! - eraun’esclamazionefrequente decenniaddietro nei vicoli

del Carmine per mandarequalcuno a quel tal paese oper dirgli di andare a farsi be-nedire - così almeno mi riferi-scono amici un po’ più agésdel sottoscritto e cultori delletradizioni locali. Certo, oggisarebbe un bel calembour(tra i due significati) in boccaad un vecchio carmelitano (ipochi tenacemente sopravvis-suti nonostante le avversecondizioni ambientali) che ri-volgesse l’esclamazione ad ungiovane dalla pelle un pocopiù scura, che probabilmenteproprio dall’Egitto proviene,o al massimo dal Marocco.Ma nessuno corre più il peri-colo di non venire compreso,o di venire rimandato inconsa-pevolmente al suo paese nata-le, dal momento che il detto ècaduto in disuso. E per giun-ta a qualcuno il Carmine po-trebbe sembrare davvero unnuovo Egitto, da quando lasua popolazione - in meno didue decenni - è così vistosa-mente mutata.

Per uno strano fenomenoche non saprei spiegare, mache forse attiene ad un qual-che tipo di verifica di una cu-riosa nemesi storica che inve-ra il detto latino che nominasunt consequentia rerum -mio nonno chiamava il quar-tiere del Carmine normalmen-te «el Cairo», con una deriva-zione toponomastica a medel tutto oscura, ma che cer-to deve essere stata di auspi-cio in qualche modo all’inse-diamento nel cuore di Bre-scia della popolazione prove-niente dalle rive del sacro fiu-me che bagna e divide la terradei Faraoni.

Tuttavia un secolo e mez-zo, o due, or sono i bresciani(anche se rari e magari un po’visti come avventurieri sprez-zanti del pericolo) che parti-vano per guadagnare la cor-rente placida del Nilo, per visi-tare i templi plurimillenariche sulle sue sponde si affac-ciano, non mancavano, e di al-cuni di essi ci è rimasta so-vrabbondante memoria, so-prattutto grafica.

Per dire che se oggi è diven-tato così facile e quasi norma-le salpare direttamente col-l’aereo da Orio al Serio (ValSeriana) per approdare dopopoco più di tre ore di volo aTebe (Valle del Nilo), anchenel passato i rapporti di Bre-scia con l’Egitto non manca-rono ed anzi - mentre oggi il«mordi e fuggi» dei viaggi or-ganizzati o il «fai da te» diquelli individuali ed un po’ et-nici, produce tutt’al più qual-che rullino di fotografie sovra-esposte o di diapositive dalleinquadrature bizzarre - nel-l’Ottocento i viaggiatori bre-sciano riportarono dall’Egit-to copiosa messe di disegni,di appunti, di dipinti. E tra diessi occorre ricordare Giovan-ni Renica, Flaviano Capretti eGaetano Valbusa. E senza di-menticare - poi - che i nostriCivici Musei conservano (an-corché non esposti al momen-to in cui scrivo) una cinquan-tina di oggetti egizi, di prove-nienze probabilmente dispa-rate, e che purtroppo sono en-trati nelle collezioni pubbli-che senza un’adeguata docu-mentazione, che invece per-metterebbe di ricostruire - incontroluce, ma su dati certi -la storia del collezionismo bre-sciano del secolo XIX, com-preso quello delle «curiosità»egizie.

Fra i grandi poeti italiani, Petrarcaè sicuramente quello che ha mag-giormente ispirato i compositoridi ogni epoca e stile, ma il perio-

do aureo in cui le rime del Canzoniere fu-rono ripetutamente poste in musica -con la decisiva complicità delle teorie po-etiche di Pietro Bembo - culminò nel Cin-quecento e nella civiltà del madrigale, dicui il bresciano Luca Marenzio fu straor-dinario protagonista.

E proprio il variegato percorso di Ma-renzio sulle rime del Petrarca è stato alcentro della conferenza tenuta venerdìscorso dalla musicologa Maria Teresa Ro-sa Barezzani all’Ateneo di Brescia.

Alcune liriche petrarchesche trovaro-no la via dell’intonazione musicale quan-do il poeta era ancora in vita. È il caso delmadrigale «Non al suo amante più Dianapiacque» posto in musica da Jacopo daBologna in pieno Trecento, all’epoca del-la fioritura dell’«Ars nova». Fu poi il piùinsigne maestro della prima scuola fran-co-fiamminga, Guillaume Dufay, a into-nare la canzone «Vergine bella che di sol

vestita» all’inizio del XV secolo. Ma biso-gna attendere l’inizio del Cinquecentoper assistere ad una vera e propria fioritu-ra di versi del Petrarca posti in musicanel caratteristico genere della frottola,tanto in voga nelle corti di Urbino, Ferra-ra e Mantova. Finché, a partire dal quar-to decennio del secolo, il madrigale polifo-nico non divenne - come ha ricordato laprof. Barezzani - quel «giardino meravi-glioso» in cui la poesia del Petrarca trovòil suo luogo d’elezione, rivestita delle no-te dei più ingegnosi e sensibili maestri.

Il primo incontro di Marenzio con le ri-me del cantore di Laura risale al «Primo

libro di madrigali a sei voci» (1581), unaraccolta dedicata al duca di Ferrara Al-fonso d’Este, nella quale si trova il sonet-to CXCVI «L’aura serena che fra verdifronde». Ben più copiosa la messe di ver-si petrarcheschi nella matura raccoltadel «Primo libro a quattro voci» (1585):qui appaiono alcune delle più mirabili in-tonazioni marenziane, come il celebre so-netto «Zefiro torna» o la stanza di ballata«Ahi dispietata morte», splendido esem-pio di «gravitas» musicale.

Ma è solo con il «Nono libro a cinquevoci», canto del cigno del madrigalistache il cerchio si chiude all’insegna del-

l’idea della solitudine e della fine immi-nente. Nella stanza di sestina «Crudele,acerba, inesorabil morte» non c’è alcunrichiamo al «viver lieto» o alle immaginiprimaverili che allietavano l’incipit di «Ze-firo torna», e il discorso musicale, fattosisempre più aspro e carico di cromatismi(come nell’indimenticabile, quasi wagne-riano, attacco di «Solo e pensoso») con-duce a quell’abisso di espressione che -come ha ben evidenziato Maria TeresaRosa Barezzani - esalta «la solitudine del-l’uomo di fronte al dolore».

Marco Bizzarini

Marenzio, «autobiografia» in musica sulle rime del PetrarcaIl madrigalista bresciano trovò nei sonetti del poeta ispirazione per la propria opera e consonanza emotiva: se ne è parlato all’Ateneo

Emerge da un codice medievalel’antica Messa per i Patroni

Flaviano Caprettiin Egitto nel 1928

Esiste oggi la democrazia inItalia? Con questa domandaNorberto Bobbio aprì la confe-renza «Quale democrazia?» che

tenne a Brescia, nel salone Da Cemmo,il 27 maggio 1959, nell’ambito degli «In-contri di cultura» allora promossi da ungruppo di intellettuali bresciani raccoltiintorno a Stefano Bazoli. Il testo di quel-l’intervento è ora raccolto in un libro edi-to da Morcelliana, con premessa di Fran-cesca Bazoli e una postfazione di MarioBussi. E la domanda di Bobbio è statarilanciata ieri da Salvatore Veca, interve-nuto alla presentazione del volume chela Cooperativa cattolico democratica dicultura ha organizzato presso la libreriadell’università Cattolica, in collaborazio-ne con l’università popolare Lunardi.

La qualità della democrazia in Italia simisurava, secondo Bobbio, risponden-

do a tre domande: «La classe politica de-riva il suo potere direttamente dal con-senso popolare? È integralmente attua-to il principio della responsabilità di chidetiene il potere di governare? Qual èl’intensità e rapidità della circolazionedella classe politica?». Nelle risposte,Bobbio analizza i punti deboli dell’an-cor giovane democrazia italiana: il «pro-cedimento misto di cooptazione ed ele-zione» con cui i partiti designano il grup-po governante; le interferenze dell’appa-rato burocratico che esercita spesso un«potere politico irresponsabile»; il «cen-trismo politico» che rende impossibilel’alternativa tra destra e sinistra, favo-rendo la «staticità» della classe dirigen-te.

Veca, che insegna filosofia della politi-ca all’università di Pavia e ha vissutouna lunga amicizia con il filosofo torine-se, ha riproposto e attualizzato le do-mande di Bobbio. Sui limiti, ad esem-pio, del principio elettivo: «Oggi ci sonoforti tendenze a una conversione dei re-

gimi democratici maturi in post-demo-cratici: si preservano alcune regole delgioco, ma esse convivono con forme dipotere neo-oligarchiche e neopatrimo-niali, favorite dal forte aumento dei co-sti della politica». Il problema non ri-guarda solo l’Italia: «L’enorme peso chele ineguaglianze sociali, economiche eculturali hanno sulla regolarità democra-tica è un pericolo per molte democra-zie».

Il «dispositivo bobbiano della demo-crazia» - ha chiarito Mario Bussi - preve-de tre fasi: «Stabilire cosa la democrazianon è, ossia cosa la differenzia dall’auto-crazia; capire cosa essa è; infine definir-ne la qualità, esaminare il grado di de-mocrazia raggiunto da un sistema politi-co». Molti studi recenti cercano di co-struire «indicatori di democrazia». Unparametro fondamentale, spiega Veca,è proprio il rapporto tra qualità di vita eforbici di ineguaglianza: «Più la societàsi frammenta in ghetti e caste, più sem-bra che la democrazia si allontani».

L’obiettivo da porsi, per realizzare la«democrazia come ideale di eguaglianzae compito di giustizia» auspicata daBobbio a Brescia, è «una società che tu-teli la possibilità delle persone di esserese stesse», di determinare liberamentela propria condizione di vita: «Per que-sto è importante accrescere l’accesso al-l’educazione, che aumenta le opzioni discelta possibili».

Da Bobbio viene anche una lezioneumana di democrazia: «Il modo in cuiegli parla in quella conferenza è lo stes-so che avrebbe utilizzato per qualunquealtro uditorio. Non cerca di catturare glialtri, li considera interlocutori e nonspettatori. Ciò è parte del costume de-mocratico: l’uguale rispetto dovuto achiunque. Bobbio è stato un grande ma-estro di scienza politica e di filosofia deldiritto. Ma da lui ho imparato soprattut-to l’arte difficile della convivenza nelladiversità».

Nicola Rocchi

L’elzeviro

Il compositore bresciano Luca Marenzio

Bresciani sul Niloe «bresciani

d’Egitto»Luciano Anelli

Ghetti e caste, termometro di crisi democraticaVeca ricorda la lezione di Bobbio a Brescia nel ’59 e allerta sul «pericolo delle ineguaglianze»

SalvatoreVecanella libreriadellaCattolica (ph.Reporter/Favretto)

Giornale di Brescia Giovedì 11 Febbraio 2010 cultura 43