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Energia e Materia, Visione occidentale e orientale
Rosalia Stellacci gen.17, 2014
Siamo ormai abituati a considerare la formula di Einstein E= mc2 come parte della nostra conoscenza
acquisita, dimenticando spesso che fino al 1905, anno in cui Einstein scoprì questa formula, per il mondo
occidentale l’energia e la materia erano due realtà fisiche completamente separate.
Questa famosa formula ci dice alcune cose molto importanti: prima di tutto che qualsiasi corpo possiede
energia per il solo fatto di possedere una massa e questa energia è posseduta sia dalle particelle atomiche e
subatomiche che dai corpi macroscopici. In secondo luogo la massa non si conserva ma può trasformarsi in
energia e viceversa l’energia può convertirsi in massa, da cui consegue che la massa non è altro che una
forma di energia.
Nelle filosofie orientali questi concetti sono presenti e ben chiari da diversi millenni prima della nascita di
Cristo e in particolare nel linguaggio dello yoga, ripreso dal Sāṃkhya, uno dei sistemi filosofici ortodossi
della filosofia indiana, si fa riferimento a due principi base della realtà: purusa e prakṛti traducibili come
spirito e materia. Nel sistema yogico, tuttavia, questi due principi non sono separati, come nella filosofia
occidentale da Cartesio in poi, ma spirito e materia sono strettamente correlati e la materia è una
manifestazione dello spirito. Essi sono presenti insieme in ogni manifestazione dell’universo. In sanscrito, il
termine che si impiega per indicare tutto l’esistente è Brahman, cioè l’Uno, la Realtà Assoluta. Brahman non
è un dio ma un principio da cui trae origine tutto l’universo manifesto, una energia, una vibrazione dalla
quale tutta la materia e la non materia è originata. Gli antichi testi sacri vedici sottolineavano che,
ontologicamente parlando, “ogni cosa nell’universo è Brahman”. Questa osservazione riguardava
soprattutto l’uomo, giacché la sua essenza era considerata identica a Brahman.
L’essenza dell’uomo è energia, l’anima dell’uomo è connessa all’anima del Tutto e tutti gli aspetti che lo
caratterizzano, compreso il corpo fisico, sono emanazione della sua energia.
Il corpo fisico risulta quindi una manifestazione dell’anima e cambia la sua forma a seconda dello stato di
coscienza in cui l’uomo vive. Possiamo verificare intuitivamente questo concetto, pensando a come il nostro
viso, i nostri tratti e la nostra salute generale si modificano a seconda del nostro stato d’animo. Per lo yoga
tutto l’insieme dei nostri pensieri, delle nostre immagini mentali, delle nostre emozioni costituiscono la
nostra energia e pertanto si trasformano, in un processo continuo, in materia che costituisce il nostro corpo.
L’individuo è così concepito come un essere biopsicospirituale completo ed equilibrato , che si sforza di
ottenere una alta qualità di vita rispettando sane abitudini quotidiane: la dieta, l’attività fisica, l’allenamento
mentale.
Per mezzo di un tale stile di vita lo Yoga cura le propensioni allo squilibrio sottili, quasi impercettibili che
generano a lungo andare la malattia e ritiene che l’uomo abbia una innata capacità di correggersi e curarsi da
solo. Lo Yoga vede la malattia come un processo che il corpo mette in atto per liberare verso l’esterno uno
squilibrio dell’energia interiore. In questo senso la malattia è vista già come una guarigione.
L’autoindagine, l’autocomprensione e l’autorealizzazione sono temi centrali di questa disciplina. Che
l’individuo sia il solo responsabile delle proprie azioni e della propria salute è di grande importanza: egli
deve assumersi la responsabilità del proprio benessere. Il cambiamento e la trasformazione personale sono
tra le preoccupazioni centrali dello Yoga, il che significa un cambiamento sia fisico che psicologico.
Entrambi gli aspetti sono di gran peso dato che, come abbiamo visto, il corpo fisico è strettamente collegato
all’anima e allo stato della nostra energia interna. Ogni cambiamento è concepito come un cambiamento di
se stessi, prima attraverso il riconoscimento di una disarmonia personale e successivamente attraverso gli
sforzi integrati dell’individuo volti alla risoluzione della stessa.
Riferimenti Bibliografici:
1. ĀYURVEDA – Una medicina con una tradizione antica di seimila anni – F.J. Ninivaggi – Ubaldini
Editore – Roma
2. Il segreto dell’universo – Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio – Fabrizio Coppola –
Edizioni Età dell’Acquario
Cos'è l'energia vitale?
Perché nella medicina cinese si parla di riequilibrio energetico?
Abbiamo parlato di riequilibrio energetico ma forse è meglio fare un salto indietro prima di andare oltre e
riprendere il concetto di “ENERGIA”. Vi propongo quindi una breve lettura su come il mondo moderno ha
cercato di spiegare cos’è “l’energia vitale” , la stessa energia che già conoscevano gli antichi e che
chiamavano “qi” o “prana” o “pneuma”, a seconda della cultura di provenienza.
Per comprendere come agiscano le diverse terapie alternative è innanzitutto necessario assimilare il concetto
secondo il quale ogni cosa vivente è infusa di energia, o forza vitale.
Non è possibile vedere né toccare tale energia ma, come l’aria che si respira, è indispensabile per la vita. Se
per molti occidentali è difficile accettare l’idea che esista qualcosa al di là della materialità, per le
popolazioni orientali si tratta di una nozione scontata. Più di tremila anni fa, i Yoghin indiani parlavano già
di un’energia universale, il “prana”, intesa come costituente basilare e fonte di ogni forma di vita. Il prana, o
soffio vitale, è in ogni cosa e porta con sé la vita.
Il taoismo, l’antica filosofia cinese sorta verso il terzo millennio a.C., si fonda sullo stesso concetto, secondo
il quale l’universo è un organismo vivente infuso e permeato di un’energia ritmica e vibrazionale, chiamata
“chi” o “qi”. Il concetto di un’energia che pervade ogni cosa non è poi così mistico come può sembrare. La
fisica moderna comincia a dare credito a ciò che i saggi dell’antichità già supponevano migliaia di secoli fa.
Agli inizi del XVIII secolo, Newton e colleghi si resero conto di quanto fosse superato pensare alle cose
come semplici oggetti solidi. Con la scoperta dell’atomo, i fisici capirono di avere trovato la struttura
portante dell’universo. Indagando più a fondo, scoprirono che gli atomi sono a loro volta composti da
minuscole particelle in costante movimento e che il loro comporta mento è diverso da quello che si
supponeva. Nel 1905, con la pubblicazione della Teoria della Relatività, Albert Einstein distrusse i principi
della visione del mondo dei newtoniani e ipotizzò la possibilità che materia ed energia fossero
intercambiabili. Le particelle possono essere create dall’energia e la materia non è nient’altro che energia
rallentata o “cristallizzata”.
Qualche anno dopo, Max Planck scoprì che la luce e le altre forme di radiazioni elettromagnetiche sono
emesse sotto forma di pacchetti di energia, da lui battezzati Quanti. Tali Quanti di luce, o pacchetti di
energia, sono stati accettati come particelle sebbene, stranamente, si comportino anche come onde piuttosto
che particelle individuali.
Stando alle ultime teorie “super-string” (le prime delle quali videro la luce negli anni sessanta), tali particelle
fondamentali, in realtà non sono affatto particelle, ma assomigliano più a frammenti di corde infinitamente
sottili. Secondo la “teoria delle corde”, quelli che in precedenza venivano immaginati come puntini di luce
vengono ora raffigurati come onde che si muovono lungo la corda (come onde su una corda in vibrazione di
un aquilone). Ciò significa che a livello basilare ogni cosa sembrerebbe scintillare, o muoversi
continuamente in onde di luce.
Il mondo di oggetti apparentemente solidi è quindi in realtà composto da strutture a onde e da campi di
energia che interagiscono costantemente. Alcuni scienziati concepiscono oggi l’universo come una sorta di
immensa ragnatela di strutture inseparabili di energia.
Nel 1964 il fisico John S. Bell propose quello che è ora conosciuto come il teorema di Bell, secondo il quale
le particelle subatomiche sono collegate le une alle altre, per cui ciò che accade a una particella accade
anche a tutte le altre.
Il defunto David Bohm, professore di fisica teoretica al Birkbeck College di Londra, dopo aver dedicato
quarant’anni allo studio della fisica e della filosofia, giunse alla conclusione che l’universo è una totalità
interconnessa. Se non fosse morto improvvisamente nel 1993, avrebbe ricevuto il premio Nobel per le
ricerche condotte. Nel libro Wholeness and the Implicate Order, Bohm afferma che è la mente umana a
vedere le cose separate e indipendenti le une dalle altre, perché nella realtà è esattamente il contrario.
L’uomo divide e dispone le cose in diversi cassetti mentali per rendere più gestibile il mondo che lo
circonda. Vedere ogni cosa separata dalle altre è una pura illusione che conduce a un’infinita confusione
interiore.
Non rendendosi conto che questa frammentazione è esclusivamente opera dell’uomo, l’umanità è sempre
stata alla ricerca della totalità.
Quanto affermato dona credibilità alle filosofie antiche, secondo le quali non è possibile godere di un senso
di benessere generale se i diversi aspetti della personalità (mente, corpo e spirito) non sono in equilibrio fra
loro. E' possibile trovare tale equilibrio vivendo in armonia con la natura e, nel caso in cui l’individuo
dovesse perdere tale stato di equilibrio, la natura gli fornirà i rimedi per ritrovare la propria interezza.
Per secoli i mistici hanno parlato dell’aura, un corpo etereo che circonda quello fisico. Per i pitagorici
(intorno al 500 a.C.) si trattava di un corpo luminoso, la cui luce era in grado di produrre svariati effetti
sull’organismo umano, inclusa la cura delle malattie.
Agli inizi del XII secolo, due famosi studiosi, Boirac e Liebeault, affermarono che gli esseri umani
possiedono un’energia in grado di provocare un’interazione fra due individui, anche quando questi ultimi
non si trovano vicini l’uno all’altro.
Nel XIX secolo, il Barone Karl von Reichenbach dedicò trent’anni della propria vita a fare esperimenti su di
un campo da lui battezzato forza “odica”; ma fu soltanto nel 1911 che cominciò a farsi strada la nozione di
campo di energia umana.
Utilizzando schermi e filtri colorati, il medico William Kilner descrisse l’aura come una nebbia luminosa
che circonda il corpo e che è caratterizzata da tre zone distinte. Le sue ricerche lo condussero ad affermare
che l’aura varia da individuo a individuo, dipendendo da variabili quali l’età, il sesso, la capacità intellettiva
e lo stato di salute. Poiché alcune malattie si evidenziano come irregolarità nell’ aura, Kilner sviluppò un
sistema di diagnosi basato sul colore, la struttura, il volume e l’aspetto generale di questo corpo etereo. Nello
stesso periodo, il dottor Wilhelm Reich , psicologo umanista e discepolo di Sigmund Freud, si interessò a
un’energia universale, da lui chiamata “orgone”. Studiò il rapporto esistente fra i disturbi nel flusso
dell’orgone all’interno del corpo umano e la malattia psicologica e fisica e giunse alla conclusione che
quando forti stati d’animo, come la rabbia, la frustrazione, la tristezza e persino il piacere, non vengono
espressi, l’energia che avrebbe dovuto essere liberata si ritrova intrappolata nel corpo, provocando così una
diminuzione del livello di vitalità. Verso la metà del XX secolo, il dottor George De La Warr e il dottor Ruth
Drown inventarono nuovi strumenti per rilevare le sottili vibrazioni emesse dai tessuti del corpo umano. Il
dottor De La Warr creò inoltre il Radionics, un sistema di rilevazione, diagnosi e cura a distanza che
utilizzava il campo di energia biologica umano.
La scienza medica oggi riconosce, nel corpo, l’esistenza di un debole campo elettromagnetico generato
dall’attività delle onde cerebrali e dagli impulsi nervosi e dai diversi organi vitali all'interno del corpo.
Recentemente, un gruppo di scienziati sovietici dell’A.S. Popov’s Bioinformatic Institute ha scoperto che gli
organismi viventi emettono vibrazioni di energia ad una frequenza che varia dai trecento ai duemila
nanometri (nms). Tale energia è stata battezzata bio-campo o bioplasma.
Attualmente, nessuno sa se l’aura, il campo elettromagnetico e le altre forme di radiazioni emesse dal corpo
siano in realtà la stessa cosa. Ma appare più probabile che il campo di energia umana sia composto da
vibrazioni differenti.
Il Maestro [Confucio] disse:
"La teoria senza la pratica è inutile, la pratica senza la teoria è pericolosa".
(Lunyu, I dialoghi di Confucio, II 15)
Il concetto di «persona» nella cultura orientale
Massimo Ciccotti 13/06/2011
Secondo l’uso corrente «persona» designa la realtà umana, il singolo individuo, nella sua interezza e
concretezza: è tutto l’essere dell’uomo nella sua individualità che si vuol esprimere con questo nome. Come
spiega lo stesso S. Tommaso il termine proviene da personare, che significa "far risonare", "proclamare ad
alta voce":
"Sumptum est nomen personae a personando eo quod in tragoediis et comediis recitatores sibi ponebant
quandam larvam ad repraesentandum illum, cuius gesta narrabant decantando”
(il nome persona è stato tratto da personare perché nelle tragedie e nelle commedie gli attori si mettevano
una maschera per rappresentare colui del quale, cantando, narravano le gesta)
Storicamente la parola «persona» segna la linea di demarcazione tra la cultura pagana e la cultura cristiana.
Fino all’avvento del cristianesimo non esisteva né in greco né in latino una parola per esprimere il concetto
di persona, perché nella cultura classica tale concetto non esisteva: essa non riconosceva valore assoluto
all’individuo in quanto tale, e faceva dipendere il suo valore essenzialmente dal ceto, dal censo, dalla razza.
La singolarità della persona, unica e irripetibile e, di conseguenza, la sostanziale eguaglianza in dignità e
nobiltà di ogni esponente della specie umana, il suo valore assoluto, è una verità portata, affermata e diffusa
dal cristianesimo, e fu una verità carica di un "potere sovversivo" come poche altre nella storia: man mano
che essa riuscì a farsi strada e a penetrare nella cultura pagana, la trasformò profondamente, sostanzialmente,
dando origine a una nuova cultura e a una nuova società: la cultura e la società che prenderanno forma nella
respublica christiana del medioevo.
Nel cristianesimo il concetto di persona è diventato argomento di profonda meditazione filosofica e
teologica. L’occasione di tale approfondimento la fornirono le dispute teologiche intorno ai grandi misteri
della Trinità e della Incarnazione, alla cui soluzione contribuì in maniera decisiva la formulazione precisa
del concetto di persona. Il primo esame approfondito di tale concetto fu compiuto da Agostino nel De
Trinitate. L’obiettivo che egli persegue è quello di reperire un termine che si possa applicare distintamente al
Padre, al Figlio e allo Spirito, senza incorrere da una parte nel pericolo di far di loro tre divinità e, dall’altra,
nel pericolo di dissolvere la loro individualità. Agostino fa vedere che i termini "essenza e "sostanza" non
possiedono questa duplice virtù, in quanto si riferiscono ad aspetti comuni a tutt’e tre i membri della Trinità.
Essa compete invece al termine greco “hypostasis” e al suo equivalente latino "persona", il quale non
significa una specie, ma qualcosa di singolare e di individuale. Analogicamente, oltre che a Dio, questo
termine si applica anche all’uomo: "Singulus quisque homo... una persona est" (ibid. XV, q. 7, a. 11).
Pertanto, per Agostino persona significa il singolo, l’individuo. Ciò attesta che nel secolo IV d. C. la parola
persona aveva già acquisito un significato profondamente diverso da quello che aveva avuto nella latinità
classica: non designa più una maschera ma un uomo, un individuo della specie umana.
Il merito di avere elaborato una definizione adeguata del concetto di persona spetta a Severino Boezio. In
uno dei suoi opuscoli teologici egli scrive: “La persona è una sostanza individuale di natura ragionevole”.
Dalla definizione boeziana risulta che persona non dice semplicemente individualità singola, né
semplicemente natura, né semplicemente sostanza. Ma neppure l’unione di individualità, natura e sostanza
fa ancora la persona; questi elementi appartengono anche a un sasso o a un gatto, che non sono persone. Per
definire adeguatamente la persona occorre aggiungere ai tre elementi precedenti la differenza specifica che
distingue gli uomini dagli animali, la quale consiste nella razionalità. Così si ottiene esattamente quanto ha
scritto Boezio: rationalis naturae individua substantia.
Dopo questa doverosa introduzione al concetto di «persona» nel mondo occidentale, proviamo a vedere
come questo concetto si è sviluppato nel mondo orientale. Lungi dal pensare che il pensiero orientale sia
migliore del nostro, va tuttavia riconosciuto che nel pensiero cinese ed indiano è possibile riscontrare
elementi che indicano possibilità umane non compiute dall’Occidente e che quindi possono fornire elementi
di integrazione ed ampliamento del nostro modo di pensare.
Nell'induismo non esiste il concetto di Dio, cioè di un’entità personale, soprannaturale, onnipotente, sempre
esistita, creatrice, etc. Per l’induismo, al posto di Dio esiste una sorta di “energia” cosmica, impersonale,
inconoscibile (Brahman), dalla quale si forma (per emanazione) tutto l’universo e gli uomini. Per questo non
esiste, in questa concezione, il concetto di «persona», come noi lo intendiamo. Per l’induismo ognuno di noi
è un’apparenza, solo un'emanazione dell’ «energia» primordiale… esistono numerosi dei, ma anche i più
importanti e potenti sono emanazioni, per cui destinati a morire o meglio a fondersi nel primordiale
Brahman, l'unica vera realtà. Il paradiso induista è quindi un tornare in questa «energia», non è un vivere da
persona umana in una felice dimensione (come pensano le religioni monoteiste). Per l’induismo il paradiso è
uno sciogliersi, come fa il fiume nel mare, in questa realtà impersonale, incosciente, sconosciuta,
primordiale; non esiste quindi un rapporto vero di amore e gioia fra l'uomo e la divinità, e fra gli uomini...
tutti i principi vitali, cioè gli atman (da non intendersi però come “anime”, dotate cioè di piena ed evidente
autocoscienza e sentimento) confluiscono nel Brahman, perché erano di esso emanazione, da esso
provenivano, esso erano.
Se guardiamo al buddhismo, vediamo che esso non si pone proprio il problema dell’esistenza di Dio: da
alcuni studiosi è considerato - più che una religione - una filosofia di vita per raggiungere il Nirvana. Il
Nirvana, però, non è una sorta di dimensione di estrema felicità, dove si vive con le persone care per sempre
etc., ma anche qui è una dimensione dove l’entità umana viene annullata, una dimensione di estrema quiete,
o meglio di azzeramento, di estinzione, dove non esiste più il dolore, ma anche dove non esiste più l'amore,
la gioia, l'autocoscienza, i ricordi, la conoscenza... in sostanza dove non esiste più l'essere umano. Il
buddhismo puro insegna che sentirsi «persone» (dotate cioè di propria volontà, autocoscienza, individualità
ecc.) è in realtà solamente un inganno, un inganno che conduce, insieme alle varie dimensioni umane, al
desiderio... quindi alla sofferenza. Lo stesso amore, anche nei casi dove viene (anzi sembrerebbe venire)
elevato o sottolineato come elemento d'estremo valore, in realtà è sempre strumentale, cioè solamente utile a
raggiungere quella dimensione di estinzione dove non esiste l'individualità umana, né l'amore.
Ed ora passiamo alla Cina: Il posto occupato dalla filosofia nella civiltà cinese è paragonabile a quello
tenuto dalla religione nelle altre civiltà: si è soliti dire che in Cina esistono tre religioni: confucianesimo,
taoismo e buddhismo. E’ vero che in tutte e tre le direzioni si sono sviluppate degli indirizzi di carattere più
propriamente religioso (in senso formale ed organizzato), tuttavia bisogna tenere presente che la civiltà
cinese ha il suo fondamento spirituale nell’etica e non nella religione. I cinesi non si occuparono tanto di
religione perché si dedicarono alla filosofia. Secondo la tradizione cinese, la funzione della filosofia non è di
aumentare la conoscenza positiva ma di elevare lo spirito, cioè tensione verso quanto sta oltre il mondo
presente e attuale.
Il tema centrale della speculazione cinese è il seguente: esistono uomini di vari tipi e condizioni (politici,
artisti, scienziati) e per ciascuno esiste la più alta forma di sviluppo della quale il tipo è capace. Ma quale è
la più alta forma di sviluppo di cui un uomo «come uomo» (cioè come persona) è capace? Secondo i filosofi
cinesi è nientemeno che quella del «saggio» e l’ideale di un saggio è l’identificazione dell’individuo con
l’universo.
Ma per raggiungere questo ideale si deve necessariamente abbandonare la società e persino negare la vita?
Secondo alcuni filosofi ciò è necessario: il Buddha disse che la vita stessa è la radice e la sorgente della
miseria della vita; alcuni taoisti sostennero che la vita è una escrescenza, un tumore, da cui solo la morte ci
libera. Queste concezioni implicano l’idea dell’abbandono del mondo (filosofie dell’altro mondo). Le varie
scuole del misticismo orientale, sebbene differiscano tra loro in molti punti particolari, sottolineano tutte
l’unità fondamentale dell’universo che è la caratteristica principale del loro insegnamento: l’aspirazione più
elevata dei loro seguaci – siano essi indù, buddhisti, o taoisti – è quella di diventare pienamente consapevoli
dell’unità e della interconnessione reciproca di tutte le cose, di trascendere la nozione di sé come individuo
singolo e di identificarsi con la realtà ultima. Il raggiungimento di questa consapevolezza, chiamata
«illuminazione», non solo è un atto intellettuale ma una esperienza che coinvolge l’intera persona ed è
fondamentalmente di natura religiosa.
Il confucianesimo, invece, è la giustificazione razionale e l’espressione teorica del sistema sociale cinese
dell’epoca. Il confucianesimo, in quanto filosofia della organizzazione sociale e quindi della vita quotidiana,
pone l’accento sulle responsabilità sociali dell’uomo. La loro filosofia parla solo di valori morali e non vuole
entrare nella sfera del meta-morale (filosofie di questo mondo).
Queste due correnti della filosofia cinese corrispondono più o meno al classicismo ed al romanticismo della
tradizione occidentale. Il confucianesimo poiché si muove «entro i limiti della società» appare più di questo
mondo del taoismo. Il taoismo, poiché si muove «al di là dei limiti della società» appare più ultramondano;
negli aspetti religiosi e magici del taoismo si può infatti riscontrare la diretta influenza delle pratiche
sciamaniche.
In realtà questa distinzione è solo strumentale: la filosofia cinese è di questo mondo ed insieme
ultramondana. Le due correnti di pensiero, benché rivali, si completavano reciprocamente: è difficile, di
fatto, fare una separazione netta tra loro: in ogni pensatore infatti, si realizza una certa compenetrazione dei
due modi di vedere la realtà.
Una delle differenze più grandi tra oriente e occidente è la visione morale: la filosofia greca e la religione
giudaico-cristiana sono stati i due capisaldi della tradizione occidentale: la prima ha operato inaugurando
una logica disgiuntiva che ha separato il mondo del Cielo, sede d'ogni valore, da quello della Terra, dove la
materia è causa d'ogni involuzione e impedimento; la seconda si è inserita con i propri dogmi creando un
dualismo cosmico che ha contrapposto "la vita alla morte", lo "spirito alla carne", il "peccato alla
redenzione". Il pensiero giudaico-cristiano è impostato sul concetto del «peccato» come distacco,
separazione dal Bene. A partire dal peccato originale, tutto il senso del percorso umano è la lotta contro il
Male, per l’affermazione finale del Bene.
Niente di tutto questo in Oriente: per il pensiero cinese, «bene» e «male» sono inseparabili componenti
dell’esistenza (yin/yang): sarebbe quindi inconcepibile un’azione volta alla «eliminazione» di uno dei due
principi. Il Santo per i cinesi non è tanto colui che lotta contro il male per il bene, quanto quello che «si
astiene dagli eccessi», che vive nel «giusto mezzo», mantenendo un grande equilibrio tra le pulsioni. Un
«eccesso di bene» è altrettanto dannoso di un «eccesso di male». Per Zhuang Zi, San Francesco è da evitare
come di Al Capone!
«Uccidete i santi e liberate i banditi, il mondo intero ritroverà l’ordine: morti i santi, i banditi non sorgono
più».
Ma proviamo ad approfondire le idee chiave di confucianesimo e taoismo.
Nei Dialoghi per la prima volta nella storia cinese si fa sentire la voce di qualcuno che parla «in prima
persona»: la parola di Confucio è, da subito incentrata sull'uomo e sua realizzazione. Tre cose risultano
essenziali nel suo insegnamento: l'apprendimento, il senso di umanità e lo spirito rituale. Per lui innanzitutto
c'è l'apprendimento (xue) e il ruolo centrale che Confucio vi attribuisce corrisponde alla sua intima
convinzione che la natura umana sia perfettibile. Per la prima volta in una cultura aristocratica fortemente
strutturata in caste e in clan si ha una integrale considerazione dell'individuo: tale atteggiamento rappresenta
una sostanziale scommessa sull'uomo ispirata ad un sostanziale ottimismo. L'apprendimento, dunque, non
come un procedimento intellettuale ma come esperienza di vita: l'apprendimento è una esperienza che si
pratica, che si condivide con altri, che è fonte di gioia, che trova in se stessa al propria giustificazione.
L'apprendimento deve condurre non tanto alla acquisizione di contenuti intellettuali «sapere cosa», quanto
allo sviluppo di nuove attitudini di carattere concreto e pratico, cioè «sapere come» (oggi diremmo «know-
how»)
La finalità pratica della educazione consiste nella formazione di un uomo capace di servire la comunità sul
piano politico e di diventare un «uomo di valore» sul piano morale: la responsabilità dunque dei membri
della élite colta è precisamente quella di governare gli altri per il loro maggior bene. In tal modo si delinea
da subito il destino «politico» dell'uomo colto che, invece di tenersi in disparte per meglio assolvere ad un
ruolo di coscienza critica, avverte invece la responsabilità di impegnarsi nel processo volto ad armonizzare
la società.
Per Confucio l'uomo ha una sacra missione: quella di affermare e di elevare sempre più la propria umanità.
Questa missione primeggia su tutti gli altri sacri doveri, compresi quelli che si riferiscono alle potenze
divine o dell'aldilà.
Poiché la famiglia è percepita come una estensione dell'individuo, lo stato come una estensione della
famiglia, e poiché il principe è rispetto ai suoi sudditi ciò che un padre è rispetto ai suoi figli, non vi è
soluzione di continuità tra etica e politica.
Mentre Confucio si è sempre rifiutato di affrontare il tema metafisico (un po’ come Buddha) I taoisti erano
convinti che esistesse una realtà ultima, soggiacente alla molteplicità delle cose e degli eventi che
osserviamo: anche se ineffabile, essi chiamarono questa realtà Dao, che significa Via. Il Dao è la via, il
procedere dell’universo, l’ordine della natura. Nel suo originario significato cosmico, il Dao è la realtà
ultima, indefinibile, un processo dinamico in cui tutte le cose sono immerse, che produce il flusso
ininterrotto dei mutamenti delle cose.
Ma il concetto di Entità Suprema nel taoismo non si identifica con un'entità «personale», un Dio giudice,
padre, padrone, che osserva il mondo dall'alto e gestisce le sorti degli uomini. Al contrario l'entità suprema
taoista è «energia» pura, che pervade l'intero universo (in questo troviamo qualche analogia con l’induismo).
Il «Dio» del Taoismo è il Dao, la natura stessa di cui l'uomo fa parte, il ciclo perpetuo che provoca il mutare
e il divenire di tutte le cose. Secondo la tipica circolarità del pensiero orientale, tutto ciò che “esiste”
(l’universo) ha origine da ciò che “non-esiste”: il “manifesto” presuppone e trova origine nel “non-
manifesto”. La forma è generata dal senza forma, così come la forma porterà al senza forma. Questa
“esistenza prima dell’esistenza”, questa potenzialità non ancora espressa, è indicata col termine Dao. Dao è
l’inesprimibile, l’inspiegabile, è il “caos” originario, l’unità indifferenziata ma feconda, dal cui ventre nasce
la vita.
Quali sono gli schemi della Via cosmica che l’uomo deve riconoscere? La principale caratteristica del Dao è
la natura ciclica del suo movimento: l’idea è che nella natura tutti gli sviluppi, sia quelli del mondo fisico sia
quelli delle situazioni umane, presentano configurazioni cicliche di andata e ritorno di espansione e
contrazione.
Il ritorno è il movimento del Dao
La debolezza è l’efficacia del Dao
I diecimila esseri sotto il Cielo nascono dal «c’è»
E il «c’è» nasce dal «non-c’è»
(Lao Zi,40)
Questa idea fu certamente desunta dalla secolare esperienza della vita contadina, l’alternarsi del giorno e
della notte, l’alternarsi delle stagioni, l’alternarsi dei cicli produttivi, ma in seguito fu assunta come regola di
vita. I cinesi credono che ogni volta che una situazione si sviluppa fino alle estreme conseguenze essa sia
costretta a trasformarsi nel suo opposto; «gli esseri, giunti al culmine, non possono che fare ritorno».
Secondo la legge ciclica del Dao, tutto ciò che è forte, duro, superiore, è stato all’inizio debole, molle,
inferiore ed è destinato a ridiventarlo.
Il procedimento di comprensione del Dao è a ritroso, «controcorrente» rispetto ad ogni procedura consueta:
Praticare lo studio è sempre più accrescersi
Praticare il Dao è sempre più decrescere
Decrescere al di là del decrescere, fino ad attingere al non-agire
Non agendo, non v’è nulla che non si faccia.
(Lao Zi,48)
E’ qui l’esplicita opposizione alla via confuciana, fondata sull’apprendere che è cammini in avanti. Per il
Lao Zi praticare il Dao è procedere su un cammino senza cammino per imparare a disimparare.
E’ impossibile parlare del mare ad una rana che abita in un pozzo;
Vive in uno spazio troppo limitato.
E’ impossibile parlare del ghiaccio all’insetto che vive solo d’estate;
Vive in un tempo troppo limitato.
E’ impossibile parlare del Dao ad un letterato;
è limitato dalla ristrettezza dell’insegnamento ricevuto.
(Zhuang Zi , XVII)
Secondo questa legge, non esiste crescita infinita, non esiste sviluppo illimitato, ogni cosa prima o poi
ritorna da dove era venuta. In virtù di questa logica naturale, per cui ogni cosa che sale dovrà
necessariamente ridiscendere, il fatto di rafforzare un nemico può al limite servire ad affrettane la caduta.
Ciò che si deve chiudere, bisogna prima aprirlo
Prima consolidare ciò che è da indebolire
Prima favorire ciò che è da distruggere
Prima dare ciò che è da prendere
Questa si chiama «visione sottile»
Il molle vince il duro, il debole vince il forte.
(Lao Zi,36)
Questa «visione sottile» è alla base della «tolleranza» taoista, che non ha niente a che vedere con l’amore
cristiano né con la compassione buddhista.
Coloro che accumulano sempre più denaro per aumentare la loro ricchezza finiranno con l’essere poveri. La
moderna società industriale che cerca continuamente di alzare il livello di vita e così facendo abbassa la
qualità della vita per tutti i suoi membri è un esempio eloquente di questa antica saggezza cinese.
Se il Santo del Lao Zi fa il contrario di ciò che si fa abitualmente, non è per calcolo né per desiderio di
distinguersi: non è allo scopo di diventare il più forte che si fa umile, ma semplicemente perché la legge
naturale di tutte le cose è di andare dal basso in alto e quindi tornare alla fonte. Invece di affaticarsi a nuotare
contro corrente, il Lao Zi propone di rientrare nella corrente, di lasciarsi trasportare dall’onda.
Di fatto, ogni volta che la mia azione è volontaria, ogni volta che cerca di «imporre il mio io» andando
controcorrente rispetto al corso naturale delle cose, essa dipende dall’Uomo o da ciò che i taoisti chiamano
wei (l’agire che forza la natura). Quando l’azione va nel senso delle cose, quando si lascia portare dalla
corrente, come il nuotatore che segue il dao dell’acqua senza cercare di imporvi il suo io, essa dipende da
ciò che è naturale (ossia dal Cielo o dal Dao) ed è quello che i taoisti chiamano 无为 wu wei (letteralmente
il «non-agire», ma meglio «l’agire che aderisce alla natura»). Tutto ciò che nell’uomo è volizione,
costruzione, istituzione di distinzioni, non rappresenta che la parte periferica del suo essere: soltanto quando
la lascia cadere, l’uomo ritrova il suo proprio centro. Per esemplificare il paradosso il Lao Zi fa ricorso alla
metafora dell’acqua.
L’uomo del bene supremo è come l’acqua: l’acqua, benefica a tutti, di nulla è rivale.
Essa ha dimora nei bassifondi, da tutti disdegnati, ed alla Via è assai vicina.
Niente al mondo è più cedevole e più debole dell’acqua
Ma per intaccare ciò che è duro e forte, niente la supera
Niente potrebbe prenderne il posto
Che la debolezza vince la forza
E la mollezza vince la durezza
Non vi è nessuno sotto il Cielo a non saperlo
Benché nessuno lo sappia mettere in pratica.
(Lao Zi,78)
Quindi il «non-agire» non consiste nel «non far nulla» nel senso di incrociare passivamente le braccia, ma
nell’astenersi da ogni azione aggressiva, diretta, intenzionale, interventista, al fine di lasciare agire
l’efficacia assoluta, la potenza invisibile (de) del Dao. Il Santo è colui che «aiuta i diecimila esseri a vivere
secondo la loro natura, guardandosi dall’intervenire»
Per questo, il Santo:
Non si esibisce, e perciò risplende
Non si afferma, e perciò di manifesta
Non si vanta, e perciò riesce
Non si gloria, e perciò diventa il capo
Infatti, appunto perché non lotta,
non c’è nessuno nell’impero che possa lottare contro di lui.
(Lao Zi, 22)
Mentre i confuciani esortano l’uomo ad esaltare la propria umanità, Zhuang Zi lo esorta invece a fonderla
con il Dao. Il tema centrale del non-agire conduce così a quello del ritorno alla natura originaria, ritorno
all’Origine, al Dao.
L’uomo vero 真人 (zhenren), il Santo, è secondo Zhuang Zi, esente da qualunque preoccupazione morale,
politica, o sociale, da qualsiasi inquietudine metafisica, da qualsiasi ricerca di efficienza, da qualsiasi
conflitto interno o esterno, egli ha lo spirito libero e vive in perfetta unità con se stesso e con ogni cosa. La
potenza del Santo è descritta più volte come invincibile, inalterabile, perché è la potenza stessa, o «virtù»
(de) del Dao.
L’utopia taoista spinge, sul piano collettivo, a tornare ad uno stato originario, anteriore alla formazione della
società organizzata, esente da ogni forma di aggressione o di costrizione della società sugli individui; un
mondo in cui l’assenza di morale, di leggi, di punizioni non indice gli individui ad essere a loro volta
aggressivi, e in cui non vi è dunque guerra o conflitto, né spirito di competizione o volontà di dominio.
I taoisti non negano il rapporto dell’uomo con il mondo. Il Santo è colui che semplicemente riesce ad
intrattenere tale rapporto senza lasciarsi «reificare dalle cose»: per Zhuang Zi si tratta di liberarsi, di
svuotarsi del mondo, ma non per negarlo in nome della sua impermanenza, che è tematica squisitamente
buddista. Fondendosi con il Dao, l’uomo ritrova invece il suo centro e non è più ferito da ciò che lo spirito
umano considera abitualmente come sofferenza; declino, malattia, morte.
Bisogna accettare le cose, anche se sono senza valore.
Bisogna tenere conto del popolo, per vile che sia.
Bisogna eseguire il proprio compito, anche se non si è sorvegliati.
Bisogna formulare le leggi, nonostante la loro imprecisione.
Bisogna compiere i propri doveri anche se non hanno in sé nessuna attrattiva.
Amare e dispensare il proprio amore, ecco la bontà.
Vivere secondo le prescrizioni senza esserne prigionieri.
Dosare la giusta misura secondo il punto di vista elevato, ecco la virtù.
L’unità che si adatta incessantemente alle mutevoli variazioni,
ecco il Dao.