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ACHILLE DELLA RAGIONE ERRORI E BUGIE SULLA STORIA DI NAPOLI EDIZIONI NAPOLI ARTE 1

ERRORI E BUGIE SULLA STORIA DI NAPOLI · senza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio, Marino Niola ed a molti altri, arrivando alla conclusione che trattasi di una leggenda me -

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ACHILLE DELLA RAGIONE

ERRORI E BUGIE SULLA STORIA DI NAPOLI

EDIZIONI NAPOLI ARTE

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Prefazione

Ho cominciato a scrivere questo libro nel 2015, proseguendo a rilento perchépreso continuamente da altre idee da trasfondere sulla carta stampata. Alcuni pas-saggi hanno cominciato a comparire sui giornali, soprattutto su Il Mattino ed hannosviluppato grande interesse, non solo tra i lettori, ma anche e soprattutto tra gli spe-cialisti, che mi hanno sollecitato a raccogliere in un volume tutto il materiale che ne-gli anni avevo faticosamente raccolto, frequentando gli archivi e molto spesso attin-gendo al lavoro poco divulgato di colleghi napoletanisti.

Infine non sono riuscito più a resistere alle pressioni dell’editore, che si dice cer-to che il volume quando uscirà creerà una sorta di linea di demarcazione tra la storiadi Napoli, prima e dopo la caduta di tanti falsi idoli, ai quali si è creduto per secoli efinalmente la nostra amata città potrà entrare nella modernità.

Conoscere la vera storia della sfogliatella e della pizza margherita, correggere in-finite date ed attribuzioni nella pittura del secolo d’oro, sapere con certezza che lemacchine anatomiche della Cappella Sansevero sono artefatti, che il “miracolo” delloscioglimento del sangue di San Gennaro sotto la minaccia dei fucili del generaleChampionnet non è mai avvenuto, che la fondazione della prima università laica delmondo nel 1224 ad opera di Federico II è una bufala; conoscere in ogni dettaglio lavera storia del brigantaggio, del sacco edilizio,del Risanamento, della terra dei fuochiè quanto mai sconvolgente, come scoprire con orgoglio la nascita a Napoli del futuri-smo, del cinema, della televisione e di tante altre cose che tutti credono nate altrove.

La storia di Napoli è piena di errori madornali, tramandati anche da studiosi cele-bri come Benedetto Croce e Matilde Serao. Metterli in risalto non può essere imputatocome un reato di lesa maestà, ma unicamente come una faticosa ricerca della verità.

Non resta che cominciare la lettura ed ai posteri l’ardua sentenza

Achille della Ragione

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Capitolo 1

Libri sulla storia di Napoli e sulla napoletanità ne esistono a migliaia e se necontinuano a stampare senza sosta. Molti, innamorati della città, si improvvisanoscrittori, copiando da precedenti pubblicazioni ed aumentando oltre misura il nume-ro dei volumi dedicato all’argomento. Tanti illustri sconosciuti che cercano di ag-giungersi a nomi famosi ed autorevoli quali Vittorio Paliotti, Aurelio De Rose e Pie-tro Gargano (fig. 1-2-3). Ma anche questi ultimi non sono immuni da errori e scopodi questo articolo e di altri che se-guiranno è quello di mettere in lu-ce una serie di inesattezze, se nonvere e proprie castronerie, che siraccontano sulla storia di Napoli edei Napoletani.

Un terreno particolarmentefertile di imprecisioni è costituitodal capitolo: Napoli capitale dellereliquie, che si trova in qualunquelibro che tratta di storia della città,oltre che di tradizioni e supersti-zioni. Dovunque leggiamo chenelle chiese, oltre a quello cele-berrimo di San Gennaro, si con-servano decine e decine di ampol-le di altri santi, che contengono sangue che si coagula in particolari giorni dell’anno.Fatta eccezione per quello di S. Patrizia (fig. 4), venerata in San Gregorio armeno, ilquale ogni tanto… di martedì compie il prodigio, invano cerchereste altrove altreampolle miracolose. Sono da tempo irreperibili nei luoghi ove viene riferito si trovi-no, come nel caso del sangue di S. Alfonso Maria dei Liguori, che dovrebbe trovarsinella chiesa della Redenzione dei captivi a Port’Alba, ma dove manca all’appello datempo immemorabile. E se pure altrove riuscite a trovare in altre chiese delle reli-quie, esse non producono alcun fenomeno a memoria di uomo.

La situazione si fa più comica se vi mettete alla ricerca delle famigerate ampolle(circa cento) contenenti coaguli di sangue di santi e beati, di proprietà di antiche fami-glie napoletane. La notizia viene riferita in tutti i libri che trattano dell’argomento, al-

Fig. 1 - Vittorio Paliotti

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cuni addirittura dal titolo la Città dei sangui,ignorando che in italiano la parola sanguenon possiede il plurale. Alcuni mesi fa mi so-no personalmente messo alla ricerca di unadi queste ampolle, per cui ho cominciato achiedere a tutti coloro che ne avevano parlatonei loro scritti, il nome di almeno una fami-glia che le possedesse. Oltre ai tre famosi na-poletanisti citati all’inizio mi sono rivoltosenza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio,Marino Niola ed a molti altri, arrivando allaconclusione che trattasi di una leggenda me-tropolitana, priva di alcun fondamento stori-co. Tutti hanno candidamente dichiarato cheavevano riportato la notizia semplicementeperché altri la avevano riferita.

E rimanendo in campo ematologico segnaliamo che nella cappella destra dellanavata della chiesa dedicata a San Gennaro (fig. 5), posta sulla Domiziana nel comu-ne di Pozzuoli, si venera la pietra sulla quale, secondo la tradizione, è stato decapita-to il santo, la quale attira numerosi fedeli da ogni dove e in qualsiasi periodo dell’an-no, poiché nei giorni che precedono l’anniversario della sua decapitazione le presun-te tracce di sangue appartenenti al santo assumono ogni giorno di più un colore rossorubino, mentre durante tutto il resto dell’anno la pietra è nera. Secondo studi recentisi è però dimostrato in maniera incontrovertibile che la pietra è in realtà il frammen-to di un altare pa-leocristiano didue secoli poste-riore alla mortedel martire sulquale si sono de-positate tracce divernice rossa e dicera e che il tuttoè solo frutto diuna suggestionecollettiva.

Se ci portiamoora in ambito arti-stico le boiate au-mentano conside-revolmente, per-

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Fig. 2 - Aurelio De Rose

Fig. 3 - Pietro Gargano

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ché la fonte di tutti i napo-letanisti, professionisti e di-lettanti, è il De Dominici,biografo settecentesco, do-tato di un acuto occhio conil quale sa discernere unpittore dall’altro, ma nellostesso tempo dotato di unafervida fantasia, con la qua-le condisce di particolaridel tutto inventati la vita

dei protagonisti del suo libro: Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, pub-blicato in tre tomi tra il 1742 ed il 1745. Il caso più eclatante è senza dubbio quellodi Diana De Rosa (fig. 6), la famigerata Annella di Massimo, moglie del pittore Ago-stino Beltrano e pittrice anch’ella, nell’ambito della scuola stanzionesca. Diana erala sorella maggiore di Pacecco De Rosa (non la nipote come spesso riferito) e, se-condo il celebre biografo, allieva dello Stanzione «cara al maestro come collabora-trice in pittura e, per la sua bellezza, come modella». Anche le sue sorelle Lucrezia eMaria Grazia, la quale sposò Juan Do, un altro artista, erano molto belle e con Dianafurono soprannominate le «tre Grazie napoletane», vezzeggiativo che fu poi eredita-to dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse bellissime. Pur se citata dalle fonti e re-sa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pit-trice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto idati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo. 1\Il De Dominici ciarlava cheAnnella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si reca-va spesso da lei, anche inassenza del marito per con-trollare i suoi lavori e perelogiarla. Una serva dellapittrice, che più volte erastata redarguita dalla pa-drona per la sua impudici-zia, incollerita da ciò,avrebbe riferito, ingigan-tendone i dettagli, della be-nevolenza dimostrata dal«Cavaliere» verso la disce-pola, scatenando la gelosiadi Agostino, il marito, ilquale accecato dall’ira,sguainata la spada, spieta-

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Fig. 5 - Chiesa di San Gennaro alla Solfatara

Fig. 4 - Culto di S. Patrizia

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tamente le avrebbe trafitto il seno. A seguito di que-sto episodio il Beltrano, pentito dell’enormità del suogesto ed inseguito dall’ira dei parenti di Annella, sirifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove vissemolti anni prima di ritornare a Napoli. Oggi la criti-ca, confortata da dati inoppugnabili, tra cui la docu-mentazione che morì nel suo letto dopo avere ricevu-to l’estrema unzione, non crede più a tale favoletta,anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» chedal Croce al Prota Giurleo, dal Causa a FerdinandoBologna unanimemente si credeva fosse stato inven-tato in pieno Settecento dal De Dominici, è viceversadell’«epoca», essendo stato rinvenuto in alcuni anti-

chi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni nel 1648 ed inquello del principe Capece Zurlo del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti asse-gnati alla mano di «Annella di Massimo». Questa nuova constatazione fa giustiziadella vecchia diatriba tra il comune di Napoli ed il Prota Giurleo, indispettito cheuna strada della città fosse dedicata ad un nome inesistente e convinto che dovesse

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Fig. 6 - Annella De Rosa

Fig. 7 - Mattia Preti

Fig. 8 - Bozzetto del Preti per un affresco

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ritornare all’antico toponimo di via Vo-mero Vecchio. Nonostante questa realtàdi dati non vi è scrittore di storia napole-tana che non ci racconti la sua fine vio-lenta, un vero e proprio femminicidio an-te litteram, oggi tanto di moda.

Passiamo a Mattia Preti (fig. 7), il fa-moso cavaliere calabrese, uno dei gigantidella pittura italiana ed ascoltiamo il rac-conto del De Dominici, ripreso in tutti ilibri su Napoli:” Siamo nel 1656, nel pie-

no infuriare della peste, il pittore si presenta ad una delle porte di accesso della cittàe, qualificatosi come sommo artista, chiede di poter entrare, ma riceve un diniego daparte del comandante del picchetto di guardia. Senza scomporsi il Preti estrae lo sti-letto e trafigge l’interlocutore, al che, i soldati spaventati da tanto ardire, gli cedonoil passo e l’ingresso entro le mura. Scatta in breve una condanna a morte con la pos-sibilità di commutare la pena nell’esecuzione di una importante committenza: affre-scare le sette porte della città con dei giganteschi ex voto di ringraziamento (fig. 8)per la cessazione della peste, che saranno eseguiti in maniera magistrale, ma noncerto dopo aver patteggiato la pena, perché il Preti, come ha dimostrato in manierainconfutabile Spike, uno studioso americano, massimo esperto dell’artista, che hareperito alcuni documenti che attestano che il Preti risiedeva a Napoli già nel 1653,tre anni prima che infuriasse la peste!!! E passiamo ora a raccontare la vera storiadella sfogliatella (fig. 9), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli. Lacucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spa-ghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italia-na all’estero. Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcu-ni dolci sono molto conosciuti edapprezzati come il sanguinaccio, lapastiera, gli struffoli, le zeppole diSan Giuseppe e la sfogliatella. Me-no noti, ma non meno saporiti: ilcasatiello, i taralli, il babà, i mo-staccioli, i biscotti all’amarena, lapasta reale, la coviglia al caffè, icroccanti, la pizza di amarena ecrema. Nel Seicento andavano dimoda tanti piccoli dolcetti, comequelli puntigliosamente descrittinei quadri di natura morta da Giu-seppe Recco (fig. 10) o da Tomma-

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Fig. 9 - Sfogliatella riccia napoletana

Fig. 10 - Giuseppe Recco

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so Realfonso (fig. 11), infarciti dimiele e di marmellate, da mangiareletteralmente con gli occhi primache con la bocca, tanta era la curanel prepararli e la gentilezza nell’of-frirli. I pittori napoletani erano abiliquando rappresentavano fiori o frut-ta nel renderla talmente somiglianteall’originale che, senza esagerazio-ne, si poteva percepire l’odore ed ilsapore, per cui raffigurando dolci edolcetti ed avvicinandosi alla tela al-

l’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca. Erano la gioia dei salottidella nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page dellacittà, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della nobiltà, chealternavano la preghiera ed il raccoglimento alle delizie del palato, gustando dolci,senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. lo testimonia-no i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperitonell’archivio del Banco di Napoli (fig. 12). Tra i dolci partenopei il più famoso è cer-tamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la santa rosa. Tuttehanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchi-glia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed ar-ricchite di crema e confettura di amarene le S. rosa. Molti credono che la sfogliatellanasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di conca dei Marini sul-la costiera amalfitana, in torno al XV-XV secolo, frutto dell’abilità culinaria di unasconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napole-tani, da Santa Chiara (fig. 13) alla Croce di Lucca (fig. 14), scopriremmo che tutti ri-tengono che il famoso dolcesia nato nelle proprie cucine edirimere la verità è impresa ar-dua. la scoperta recentissimadi alcuni documenti in lingualatina ci permette di retrodata-re l’invenzione del prelibatodolce ad oltre duemila anni fa.Pare infatti che già durante lefeste priapiche (fig. 15), che sisvolgevano nell’antica grottadi Piedigrotta (fig. 16), venis-se distribuito ai contendentiper rifocillarsi un dolce ener-

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Fig. 11 - Tommaso Realfonso

Fig. 12 - Interno dell’archivio

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getico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggettodel contendere: il pube femminile. Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovaniimpegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti diun poderoso zabaione. nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, pra-ticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità. il rito si svolgevadurante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. alcunivolenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i qualiprobabilmente anchel’iperglicemica antenatadella sfogliatella, si atti-vavano in maniera biblicaper ingravidare quante piùdonne possibile. Petronio,Seneca e Strabone ci rac-contano che, mentre al-l’interno ci si impegnavaper la riproduzione dellaspecie,all’esterno, tra an-fratti e cespugli, la plebesi abbandonava, al ritmicosuono di rudimentali stru-menti musicali, a multipli

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Fig. 13 - Napoli-Monastero - Santa Chiara

Fig. 14 - Croce di Lucca

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amplessi, in un’atmosferadelirante di eccitazione.dagli espliciti riti orgiasti-ci al segreto del claustro èdifficile ipotizzare il tor-tuoso cammino della ri-cetta, divenuta segreta evanto di sacerdotesse del-la castità. Ma intorno alSeicento qualcuna di que-ste monachelle, ansiosa diliberarsi del fardello di

una noiosa verginità, fa amicizia conqualche baldo pasticciere, dispostoin cambio della ricetta a compiere ilpasticcio… ed ecco che della sfoglia-tella possono godere tutti. con unpizzico di fantasia questa dovrebbeessere la nuova storia della sfoglia-tella, vanto indiscusso della gastro-nomia campana e da oggi in poiquando una fanciulla offrirà il preli-bato dolce ad un astante le sue inten-zioni saranno ben chiare.

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Fig. 16 - Cripta neapolitana

Fig. 15 - Riti priapici

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Capitolo 2

Una invenzione, creata dalla fertile fantasia del De Dominici, attribuisce al Fal-cone (fig. 1) ed ai pittori della sua bottega una partecipazione attiva nei rivolgimentipopolari del 1647. Il biografo, oltre a sbagliare la data di nascita e di morte del pitto-re, racconta che “armati di tutto punto, di giorno giravano uccidendo quanti più spa-gnoli avessero incontrati, e di notte attendevano a dipingere alacremente, e special-mente a ritrarre le sembianze di Masaniello”. Que-sta favola, a parte i dettagli inverosimili, come laprotezione accordata dal Ribera, che, viceversa, sivantò sempre della sua hispanidad e nonostante ilsilenzio delle numerosissime e particolareggiatecronache di quella rivoluzione, è tra quelle inven-zioni che hanno avuto maggior fortuna. Per amordel vero, come accertato dal Faraglia, una Compa-gnia della morte agì in città, ma alcuni anni dopo,nel 1650, e ne fecero parte malandrini e non pittori.

Passiamo ora ad un errore linguistico nella di-zione della dinastia che ha regnato a Napoli dal1734 al 1861 commesso anche da illustri studiosi,in primis il venerato Benedetto Croce. Anche Al-fonso Scirocco, celebre storico specialista di alcuniprotagonisti del nostro Risorgimento, era di questoparere, che espresse anche quando partecipò, alcunianni orsono, in veste di relatore, al salotto culturale di mia moglie Elvira, nel quale,nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui ritenesse più corretta la dizioneBorbone o Borboni ed il professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma alplurale. Un parere in linea con quello del professor Galasso (fig. 2), come ebbi mododi constatare nel corso di una presentazione di un libro alla mitica Saletta rossa (fig.3) Guida a Port’Alba, mentre Paolo Mieli sposava la tesi del singolare. Ne seguì uncolto articolo sul Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto equili-brato, che aveva una conclusione equidistante tra le due ipotesi. In seguito ebbi ilprivilegio di accompagnare Umberto Eco (fig. 4) in una visita guidata al museo diCapodimonte e così approfittai per chiedere il suo parere, che fu decisamente per ilsingolare. Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine di

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Fig. 1 - Ritratto di Aniello Falcone

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questa confusione, perchéaveva scritto sull’argomentopiù volte adoperando il plu-rale. Spesso viene citata unalettera di Ferdinando II (fig.5) con la firma Borboni. Na-turalmente non fa testo, benconoscendo il livello cultu-rale del sovrano, come purela lunga disquisizione sullefamiglie europee che acqui-siscono la dizione Bourbonal plurale, essendo nozioneelementare che alcune lin-gue, ad esempio inglese o

francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore gravissimo per l’italiano. Aconferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere all’ancora attiva ed autore-volissima Accademia della Crusca, la quale si espresse senza esitazioni per la formasingolare, conclusioni che comunicai alla stampa attraverso una lettera, pubblicatada numerosi giornali, anche non napoletani. Nonostante questa autorevole dichiara-zione, che dovrebbe chiudere definitivamente la questione, sono certo che la lungadiatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo sulle opposte spondeautorevoli personaggi, da un lato i professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli edEco e troverà una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo la nostra una linguaviva, che macina lentamente le parole.

Su Achille Lauro (fig. 6)esistono infinite leggende,ma soprattutto falsità stori-che, che solo da poco ed afatica, anche gli studiosi piùautorevoli cominciano a ri-conoscere e finalmente sipotrà scrivere la vera storiadel sacco edilizio. La cele-bre Tavola Strozzi (fig. 7)conservata nel museo di Ca-podimonte ed ancor più laVeduta di Napoli a volod’uccello (fig. 8) di DidierBarra del museo di San Mar-tino ci mostrano una città

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Fig. 2 - Giuseppe Galasso

Fig. 3 - Saletta rossa

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densamente urbanizza-ta già nei secoli scor-si. Un gigantesco ma-rasma architettonico,un prodigioso spetta-colo di entropia edifi-catoria, che ha lasciatostupefatti ingegneri esociologi, antropologie forestieri, principal-mente questi ultimiche, quando venivanoa visitare la nostra cit-tà, soprattutto negli an-

ni del Grand Tour, rimanevanomeravigliati alla vista di palazzia più piani, da loro giudicati ve-ri e propri grattacieli. Questiantichi dipinti sono la testimo-nianza visiva di un’edificazioneselvaggia che comincia in epo-ca remota e la cui storia è igno-ta agli stessi studiosi. Condoni,sanatorie, demolizioni, leggistralcio, ricorsi al Tar, la querel-le infinita sull’emergenza abu-sivismo in Campania e non solonella nostra regione ha una sto-ria antica, che pochi conosco-no, perché per anni si è volutofar coincidere, da parte di unastoriografia sinistrorsa il saccodella città con gli anni del re-gno di Lauro. E per diffonderequesto dogma ci si è serviti im-punemente di tutti i mass mediadisponibili, dal cinema alla te-levisione, dai giornali ai libri edalla fine addirittura anche dellatradizione orale. Un film cult,

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Fig. 4 - Umberto Eco

Fig. 5 - Ferdinando II di Borbone

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come “Le mani sulla città”(fig. 9) di Francesco Rosi,girato nel 1963, un platealefalso storico, è stato per de-cenni adoperato dalle sini-stre per propagandare il mi-to di Lauro speculatore edi-lizio. La storia è diversa enasce nel lontano Cinque-cento da una Prammatica didon Pedro da Toledo, checoncedeva entro le mura dicostruire palazzi di moltipiani e non si è mai interrot-ta fino ai nostri giorni. Vo-gliamo provare a raccontar-la, soprattutto ai giovani,questa veritiera storia delsacco edilizio, rinviando,per chi volesse approfondir-la, ai capitoli ad essa dedi-cati del mio libro (fig. 10)Achille Lauro Superstar(consultabile su Internet).

Partiamo dall’esame del-la legislazione urbanistica eda alcune considerazioni.

Napoli in questo secolo ha avuto due soli piani regolatori, quello “fascista” del1939, un vero monumento di armonia tra interessi pubblici e privati, com’è ricono-

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Fig. 7 - Tavola Strozzi

Fig. 6 - Lauro e le sue donne

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sciuto oggi da autorevoli specialisti, di idee non certo nostalgiche, come il preside diarchitettura Benedetto Gravagnuolo o il professor Massimo Rosi (opinioni raccoltedalla viva voce degli interessati nel corso di riunioni svolte nel salotto culturale dimia moglie Elvira Brunetti) e quello “democratico” del 1972, entrambi mai operati-vi per la mancata approvazione dei regolamenti di attuazione. Bisogna precisareche, quando Lauro venne eletto nel 1952 e volle utilizzare a piene mani il “petroliodei meridionali”, costituito dall’espansione edilizia, la giunta non possedeva un veroe proprio strumento urbanistico, ma un ben più modesto regolamento edilizio, risa-lente al 1935, stilatoda un organo comu-nale fascista dotatodei più ampi poteri.Napoli da oltre 50anni vive in assenzadi un qualsivogliastrumento proget-tuale ed i risultati so-no stati, e certamen-te non solo durantegli anni del lauri-smo, il disordineedilizio più incon-trollato, il cui caoti-co sviluppo ha tenuto conto solo delle esigenze dei singoli, trascurando, com’è no-stra scellerata abitudine, quelli della collettività.

Non si è mai smesso di costruire, basta, per convincersene, recarsi nei quartieriperiferici (Soccavo, Pianura, Secondigliano) cresciuti a dismisura o nell’immensohinterland partenopeo, da Quarto Flegreo ai comuni della penisola sorrentina, che

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Fig. 8 - Didier Barra

Fig. 9 - Le mani sulla citta

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stringe oramai in una morsa impla-cabile la città, costretta a sopravvi-vere con densità di popolazione su-periore a tutte le più affollate metro-poli asiatiche e con un traffico im-pazzito, con inestricabili ingorghi acroce uncinata, da fare impallidire aconfronto qualunque altro concor-rente. Si sono costruite le case leune vicino alle altre, spinti certa-mente dal profitto, ma anche perchéil napoletano, geneticamente abitua-to al “gomito a gomito”, provaun’intollerabile vertigine quandopuò allargare lo sguardo su un pano-rama senza trovare la casa dirimpet-taia, senza poter contare su un’eco-nomia da vicolo, una socializzazio-ne da cortile, tutto sommato unacultura da casbah. Solo così possia-mo cercare di spiegarci l’esistenzadi mostri serpentinosi come via Jan-

nelli o via San Giacomo dei Capri ed altri ag-glomerati sorti nel Vomero alto, dove i suolicostavano poco o niente e si poteva tranquil-lamente speculare anche costruendo a distan-za più civile gli edifici. Nonostante il cambiodi padrone, l’atmosfera di Palazzo San Gia-como non cambia, perché Correra, commis-sario prefettizio inviato dal governo per pre-parare le elezioni, comincia a tessere una tra-ma sottile con l’entourage di costruttori especulatori che gravitavano intorno al Co-mandante. Una vera e propria corte dei mira-coli, abituata a feroci contrattazioni sottoban-co che cercava di disciplinare attraverso il ru-binetto dei fidi e delle fidejussioni bancarie,concesse da istituti di credito, in primis il

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Fig. 10 - Libro

Fig. 11 - Grattacielo cattolica

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Banco di Napoli, saldamente in pugno alla Democrazia Cristiana. Correra dovevagestire per pochi mesi l’ordinaria amministrazione e preparare la nuova consultazio-ne elettorale, regnò viceversa incontrastato per quasi tre anni, divenendo il vero pa-drone della città. La febbre edilizia raggiunse temperature da cavallo e ben si espres-se nell’erezione delgrattacielo della “Cat-tolica” (fig. 11), in pie-no centro cittadino sa-lutata dall’onorevoledemocristiano MarioRiccio, il medesimoche aveva attaccato inParlamento Lauro per ilsuo eccessivo impegnoedificatorio, con frasitalmente toccanti dacommuovere l’uditoriopresente all’inaugura-zione. Tra il numeroso

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Fig. 12 - Muraglia cinese

Fig. 13 - Pizza Margherita

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pubblico, impettiti in prima fila i colonnelli del nuovo potere, sordi alle civili prote-ste, che Francesco Compagna manifestava nei suoi articoli sulla rivista “Nord eSud”. Mentre si progettava lo sventramento dei Quartieri Spagnoli per creare unnuovo Rione Carità, le nuove edificazioni cominciano a coprire ogni spazio libero.Sono questi i veri anni delle “Mani sulla città”, quando costruttori senza scrupoli,trasferitisi in massa dalla corte laurina al nuovo potere, come Mario Ottieri, scarica-no sul territorio urbano volumi edificati mai visti in precedenza; per essere più preci-si: oltre diecimila vani in meno di due anni per una massa di duecentomila quintalidi cemento e quasi cinquantamila di ferro (dati riguardanti il solo Ottieri). Le sue im-

prese distruggono l’armonia del centro più antico, come nella storica piazza Mercatodove l’orrendo palazzaccio, sorto in pochi mesi, fa tuttora rivoltare nella tomba itanti napoletani illustri, alle cui gloriose gesta è legata la sacralità dei luoghi. Anchenella città nuova, al Vomero, si pongono saldamente le basi della perpetua invivibili-tà, erigendo monumenti alla vergogna, come la stupefacente “muraglia cinese” divia Aniello Falcone (fig. 12), che ancora oggi molti si ostinano a collegarne la co-struzione agli anni delle amministrazioni laurine. (citiamo ad esempio tra i tanti: la“Storia fotografica di Napoli” a cura di Attilio Wanderlingh con testi di ErmannoCorsi oppure il “Vomero” di Giancarlo Alisio, nei quali placidamente si addossa a

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Fig. 14 - Emanuele Filiberto di Savoia nella pizzeria Brandi

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Lauro la realizzazione del-la “muraglia cinese”). Ilkafkiano episodio di ma-nomissione fisica del pia-no regolatore avviene ne-gli anni della gestioneCorrera. L’accaduto è no-to, ma vale la pena ricor-darlo per perpetuarne lamemoria. Le tavole delpiano regolatore del 1939,all’epoca vigente, eranoconservate in tre esempla-ri, al Comune, all’Archi-vio di Stato ed al Ministe-ro dei Lavori Pubblici. Isoliti ignoti, non essendo aconoscenza della terza co-pia, depositata a Roma,agiscono in più tempi im-punemente sulle primedue, cambiando a più ri-prese i colori che identifi-cano la destinazione dellevarie aree della città. Ilverde delle zone agricolediventa così il giallo dellezone edificatorie. Un casoemblematico è costituitodai terreni dove sorgerà ilSecondo Policlinico, che,

comprati per tre soldi, frutteranno cifre iperboliche agli speculatori. I mandanti diqueste continue manomissioni, ai limiti dell’incredulità, si procacciano preventiva-mente a prezzo vile i terreni agricoli e poi, dopo il colpo di bacchetta magica, anzi dipastello, scaricano milioni di metri cubi di palazzi sui suoli rigenerati, guadagnandocifre da capogiro. L’intrallazzo andò avanti a lungo, fino a quando, fortuitamente,venne scoperta l’esistenza della terza copia. Fu quindi aperto un procedimento pena-le, ma naturalmente i colpevoli non furono mai identificati, rimanendo perciò impu-niti, anche se tutti sapevano chi fossero. Una vicenda assolutamente irripetibile nellastoria urbanistica di qualunque città. Don Alfredo (Correra) creò allora un’arma an-cora più micidiale, che dava tra l’altro un’etichetta di legalità al comportamento de-

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Fig. 15 - Volume secondo Francesco De Bourcard

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gli speculatori edilizi. Diede infatti luogo ad un numero imprecisato di deroghe alpiano regolatore da lui stesso proposto. Erano le famigerate e troppo presto dimenti-cate “varianti Correra” che legalizzeranno ogni tipo di scempio perpetrato dai co-struttori. Il commissario prefettizio si serviva infatti di un escamotage che è stato ri-velato dall’urbanista Antonio Guizzi, il quale, per inciso, fu consulente per la sce-neggiatura del film “Le mani sulla città” e per anni si è battuto, inascoltato dai mass

media, per ripristinare la verità storica su quegli anni difficili per la nostra città. Lelicenze venivano concesse in variazione al piano regolatore cittadino e cominciava-no tutte in tal guisa: “Visto il voto espresso il 26 luglio1958 dal consiglio superioredei lavori pubblici, si rilascia…”. A pagare un perpetuo tributo a questo scelleratocomportamento sarà tutta la città, che ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, soffreper quei lontani abusi. In particolare ne uscirono devastati i quartieri più moderni:Posillipo, Vomero, Arenella e Fuorigrotta. Mentre nelle fertili campagne di Soccavosi mette mano ai primi lavori per la nascita del rione Traiano, nel 1960 il prefettoCorrera, rinnova una convenzione con la Speme, una società nata per urbanizzare la

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Fig. 16 - IL MATTINO 28 settembre 2017

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collina di Posillipo, non senza averla dotata preliminarmente della quarta funicola-re. Il sodalizio doveva costruire palazzine popolari per dare una casa ai pescatori e aicontadini e a tale scopo godeva anche di esenzioni fiscali e di sovvenzioni pubbli-che, ma, strada facendo, realizzò parchi residenziali con rifiniture di lusso e prezzi divendita che raggiungevano i dieci milioni a vano, fuori dalla portata dei ceti menoabbienti. La Speme riesce anche ad ottenere il permesso di raddoppiare quasi l’altez-za degli edifici e in pochi anni completa sulla collina, cara agli ozi degli antichi ro-mani, oltre quindicimila vani. Finalmente si riesce a definire la data delle nuoveconsultazioni elettorali: il 6 novembre, dopo quasi tre anni di commissariamento. Unvero scandalo! Ma la speculazione continuerà imperterrita fino ai nostri giorni, ve-dendo criminalità organizzata e politici collusi. Ma non è più storia, ma cronaca…ed i risultati sono sotto i nostri occhi. Trattiamo ora di un argomento gastronomico eparliamo della celebre (in tutto il mondo) pizza margherita (fig. 13). La pizza Mar-gherita deve il suo nome alla regina Margherita di Savoia. Infatti fu Raffaele Esposi-to, pizzaiolo della pizzeria Brandi (fig. 14), tutt’ora in attività, a creare questa pizzanel 1889 in onore della regina, in visita nella città di Napoli. Condita con pomodoro,mozzarella e basilico che rappresentavano la bandiera italiana, delle tre pizze createdal pizzaiolo napoletano per l’evento, la Margherita fu la più apprezzata dalla regi-na. La leggenda, perché di questo si tratta, come ha di recente dimostrato un giovanequanto valente napoletanista: Angelo Forgione, la troviamo in tutti i libri, oltre chenelle pubblicità della pizzeria interessata alla notorietà, a tal punto che la stessa Col-diretti, tempo fa ne festeggiò il 125 anniversario dalla creazione, ricordando una let-tera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel giugno del1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro… e basta così” al Pa-lazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse persua Maestà la regina Margherita le sue famose tre pizze. Ma, come attestato da or-mai noti testi ottocenteschi, Raffaele Esposito, in quell’occasione non inventò la piz-za con pomodoro, basilico e mozzarella ma la fece semplicemente conoscere alla so-vrana piemontese. Già nel 1849, infatti, il filologo Emmanuele Rocco, nel curare ilcapitolo “Il pizzaiolo” del libro (fig. 15) Usi e costumi di Napoli e contorni descrittie dipinti, coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di combinazioni di condimen-to con ingredienti vari, tra i quali basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarel-la”. E le fette, distribuite con disposizione radiale, disegnavano verosimilmente ilcelebre fiore di campo caro agli innamorati su una pizza che Raffaele Espositoavrebbe proposto 40 anni dopo alla regina sabauda. Un’altra conferma a questa tesici viene dal libro Napoli, contorni e dintorni del Riccio, pubblicato nel 1830, nelquale viene descritta accuratamente una pizza con pomodoro, mozzarella e basili-co. Del resto la produzione della mozzarella fu stimolata nei laboratori della RealeIndustria della Pagliata delle Bufale di Carditello, un innovativo laboratorio avviatogià nel 1780, mentre il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in do-no al Regno di Napoli dal vicereame del Perù, e ne fu subito radicata la coltura nelle

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terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una gusto-sa varietà. Questa realtà storica la troviamo recepita nel Regolamento UE n. 97/2010della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialitàtradizionali garantite, che al punto 3.8 dell’Allegato II, riporta testualmente: “Lepizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “mar-gherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico)che ricordano i colori della bandiera italiana. Dobbiamo concludere immaginandoche la propaganda sabauda non volle lasciarsi sfuggire l’opportunità di apporre ilsuo marchio sul simbolo culinario della grande capitale conquistata ed annessa, co-me confermato da una mia lettera (fig. 16) pubblicata da Il Mattino.

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Capitolo 3

Brigantaggio

Una pagina poco nota della nostra storia è costituita dal brigantaggio, raccontatacon prospettiva piemontese sui libri di scuola, proviamo finalmente a raccontare laverità:

«Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei poemetti in cui sono ri-cordate le circostanze notevoli della vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi èin quella di eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione assai vicina alsentimento che, nell’antichità, i Greci provavano per alcuni loro semidei.»

Così Stendhal, di passaggio per l’Italia, annotò nel suo breve saggio I briganti inItalia, confluito nell’opera Passeggiate romane pubblicata nel 1829. Non fu immune,il francese, che pure dai briganti fu rapinato sulla via Appia, dal fascino che costoroesercitavano sui letterati del Grand Tour: nelle loro memorie si cristallizzava il mitoromantico del fuorilegge, diventato un topos letterario negli scritti di Irving, Byron eScott che definirono l’immagine eroica del brigante: uomo di indomata indole chedifende i ceti più deboli contro i soprusi dei potenti. La genìa dei Robin Hood, degliZorro, la Primula Rossa, Fra Diavolo è tutta riconducibile a questo prototipo di di-fensore delle povere genti: un uomo che un tempo viveva nel consesso civile mache, per un torto subito, si rifugia nei monti, nel fitto delle boscaglie, da dove sferraattacchi sanguinari ai suoi nemici, mosso, il più delle volte, da personalissimi motivipiù che da un progetto politico.

La costruzione romantica del mito del brigante obbedisce in realtà a una cornicenarrativa in cui si ripetono i medesimi schemi. Così le gesta banditesche diventanomiti astorici, la cui suggestione dura tutt’oggi.

Un capitolo a parte costituiscono le storie di donne che si diedero alla macchiaper seguire i loro uomini. Fra costoro, di straordinaria bellezza, c’è la casertana Mi-chelina di Cesare (fig. 1) che nel 1863 sposò il bandito Francesco Guerra, diventan-do così, da meschina ladra di capre, leggendaria regina di briganti. Si rifugiarono, idue sposi malandrini, sulle colline di Vallemarina; di qui piombavano a valle, depre-davano le abitazioni dei “galantuomini” di San Castrese o del celebre possidenteCordecchia, finché il ministero dell’Interno sguinzagliò sulle loro orme il generalePallavicini, il più noto cacciatore di briganti. Ne scaturì battaglia ferocissima, contanto di dispiegata artiglieria, nei pressi di Roccamonfina. I disperati si rifugiarono

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nelle cavità degli alberi secolari, furono scovati e uccisi. Il cadavere di Michelina,con una messinscena di raffinata ferocia, venne esposto sotto il sole su un carrellonella piazza di Mignano: era domenica, e quel cadavere penzolante servì da monitoalle genti che andavano a messa, tracui molti simpatizzavano per i brigan-ti che catalizzavano la rabbia antipie-montese e le nostalgie borboniche de-gli uomini del Meridione.

L’ostensione del cadavere di Mi-chelina fu in realtà l’ordinaria espres-sione della repressione delle autorità,la cui ferocia non era minore di quellabrigantesca. Ruffiani e cacciatori ditaglie (celebri quelli al soldo dei Dogiveneziani) praticavano facilmente iltaglio della testa. Un vile manutengo-lo, per scampare la galera, promise latesta dei briganti Giacomo Purra eGiuseppina Gizzi al sindaco di Braci-gliano: spiccò la testa dei due amanticon un coltello da macellaio e le con-segnò al sindaco che, dopo averle fat-te imbalsamare, le collocò in un’urnanel suo ufficio. Al riguardo, divenneleggenda narrata l’epigrafe che il bri-gante Carmine Oddo gli ritorse con-tro: memento mori, sindaco.

Uomini violenti, banditi o eroi po-polari? A tutt’oggi il fenomeno stori-co del brigantaggio meridionale atten-de una risposta chiara ed esaustiva.

Una storia dei briganti nel Regnodi Napoli deve partire dalla domina-zione aragonese e dipanarsi fino alle vicende collegate all’unità d’Italia.

Visti nel rapporto con le masse popolari, i proprietari terrieri e le autorità, i bri-ganti napoletani si presentano ora come il frutto della miseria e dell’ansia di riscattodei contadini, ora come strumento nelle mani dei Borbone.

Di sicuro Marco Sciarra Angiolillo, Fra Diavolo, Carmine Crocco (fig. 2), NincoNanco (fig. 3) e persino brigantesse come Nicolina Licciardi (che non furono infe-riori ai loro compagni per efferatezza e crudeltà) sono stati sempre aiutati ed amatidai contadini, che li hanno resi immortali nella fantasia e nelle leggende popolari.

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Fig. 1 - Michelina Di Cesare - Brigantessa per amore- Castello Orsini

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Sin dalla prima metà del Quattrocento,durante il Regno degli Aragonesi, vi furo-no ribellioni spontanee da parte dei conta-dini verso i proprietari terrieri.

Una delle prime fu organizzata da An-tonio Centelles, che costituì una sorta diesercito, a cui si opposero le truppe di Fer-rante d’Aragona, figlio naturale di Alfon-so. I contadini si rifiutavano di pagare i tri-buti regi, ma vennero massacrati nel 1459nella piana di Santa Eufemia.

Il fenomeno non si spense ed un altrocapopopolo, Marco Berardi, nel 1599, riu-scì a sconfiggere le truppe regie a Crotone,nonostante da alcuni anni il conte di Oli-vares avesse emanato un editto con il qua-le si condannavano a morte i rivoltosi e siistituivano delle taglie di 100 ducati sulleteste dei contumaci. Seguirono altre ordi-nanze ancora più severe, come la Pramma-tica del duca d’Alba nel 1622.

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Fig. 2 - Crocco e brigantessa

Fig. 3 - Giuseppe Nicola Summa detto NicoNanco - Pinacoteca-Brera

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Anche durante il dominio degli austriaci, che succedettero al vicereame spagno-lo, le rivolte non si fermarono e numerose erano le bande che incutevano timore, traruberie e razzie.

Nel 1734 salì al potere la dinastia dei Borbone con Carlo III, che nulla riuscìcontro il dilagare del banditismo, il quale si accentuò durante il regno del figlio Fer-dinando, nonostante l’opera meritoria del Ministro Tanucci. Anzi, durante gli anni incui fu sovrano, si sviluppò la leggenda di Angiolillo, le cui gesta ispirarono dei cantipopolari in auge per tutto l’Ottocento.

Sul finire del Settecento vi fu la temporanea caduta di Re Ferdinando, l’avventodelle truppe francesi ed il sorgere della Repubblica Partenopea il 23 gennaio del1799.

Ci pensò il Cardinale Ruffo a riconquistare il trono, muovendo dalla Calabria acapo di un esercito, composto da briganti, contadini e delinquenti comuni che, inomaggio alla Santa Fede, furono chiamati Sanfedisti. Da questa guerra, efferata etruculenta uscirono i primi nomi di briganti “politici”. Tra questi spicca la figura diFra Diavolo, alias Don Michele Pezza, come si firmava (fig.4) negli editti che ema-nava nella veste di comandante della regia truppa.

Era il re delle montagne, dove dettava legge. Si unì alle truppe del CardinaleRuffo e dopo la Restaurazione il sovrano lo nominò duca di Cassano, elargendogliun vitalizio annuo di 3000 ducati.

Anche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat il brigantaggio divampò efu duramente represso. Nel 1806 venne catturato e condannato alla forca Fra Diavo-lo, impiccagione avvenuta a Piazza Mercato e gli fu permesso per l’occasione di in-dossare l’uniforme dell’esercito borbonico ed il titolo di duca di Cassano al collo.

Durante l’opera di repressione furono catturati anche Taccone, che rientrò a Po-tenza in groppa ad un asino con un cartello infamante al collo e Quagliarella, che,tradito dai compagni, venne ucciso dai contadini, desiderosi di intascare la taglia.

E giungiamo così alla grande stagione del brigantaggio postunitario sulla qualeil giudizio degli storici è ancora controverso.

Fino ad ora si trattava di rivolte di contadini e di bande dedite al saccheggio, losmembramento dell’esercito volontario garibaldino, la mancata concessione delleterre demaniali a chi vi lavorava ed un governo centrale a Torino sordo alle rivendi-cazioni, diedero luogo ad un brigantaggio politico, incoraggiato da una deriva neo-borbonica e favorito dalla conformazione geografica del Meridione, tutto boschi emonti, difficile da controllare.

A partire dall’inverno del 1861 cominciarono ad organizzarsi bande di brigantiche agivano colpendo i grossi proprietari terrieri, collusi col governo e le scarneguarnigioni, che non riuscivano a tenere sotto controllo il territorio.

Uno dei nomi di spicco fu Carmine Crocco, già caporale dell’esercito borbonico,dal quale aveva disertato. Uomo astuto, molto amato dalle donne, diede filo da tor-cere all’esercito sabaudo, fregiandosi del titolo di generale della reazione borbonica.

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Alla sua banda si affiancò Ninco Nanco, proveniente dal disciolto esercito gari-baldino, dal quale portò molti fucili. Il suo regno era la cittadina di Melfi, da doveiniziò la sua marcia, occupando città, aprendo carceri e saccheggiando le casse co-munali. Giunse fino all’avellinese, conquistando sempre nuovi adepti.

Il brigantaggio dilagava anche nel casertano e nel beneventano ed in tutta la Ca-labria, per cui a Napoli arrivò con molta truppa il generale Cialdini (fig. 5), che co-minciò ad intensificare l’opera di repressione, con rappresaglie verso le popolazioniche si erano schierate con i rivoltosi. Una tra lepagine più sanguinose fu scritta a Pontelandolfo(fig. 6-7), dove essendo stati uccisi 45 soldati,un battaglione dei Bersaglieri mise a ferro e fuo-co l’intero paese.

Se il cuore del brigantaggio fu la Basilicata,anche Napoli ebbe un suo condottiero, un certoPilone, così sopranominato perché molto peloso.Agiva alle porte della città nel Vesuviano e fuautore di combattimenti ed imprese sensaziona-li, che lo portarono a rifugiarsi nello Stato Ponti-ficio, dove conobbe le galere papaline, da cuiscappò e fu ospitato per alcuni mesi dall’esuleFrancesco II, che abitava a Palazzo Farnese.Chiuse le sue avventure ucciso in un’imboscataa Via Foria.

La storia ricorda anche un fenomeno di bri-gantaggio “nobilitato”, i cosiddetti Cavalieri diFrancesco II, i quali si proponevano di restaura-

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Fig. 4 - Editto di Fra diavolo

Fig. 5 - Generale Cialdini

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re il deposto Regno Borboni-co. Furono organizzati da duegenerali, Vial e Clary e finan-ziati dal Principe di Scilla. Fula stessa intrepida ex reginaMaria Sofia, che, indossandoabiti maschili, riunì a Roma icapibanda più famosi, con-vincendoli a partecipare alfolle progetto.

Lo Stato Pontificio vede-va con occhio benevolol’operazione, obbligando al-

cuni conventi ad ospitare e proteggere personaggi come Chiavone, Crocco e NincoNanco.

Nell’estate del 1861 il comando fu assunto da uno spagnolo, Josè Borjes, il qua-le, dopo essersi incontrato con Crocco, con 1200 uomini, discese dal Vulture, ini-ziando una delle più memorabili imprese di brigantaggio postunitario, ma sorpresoda un drappello di Bersaglieri, venne fucilato a Tagliacozzo.

Altri cavalieri stranieri meno noti subirono la stessa sorte, dimostrando eroismonel momento fatale, come il marchese belga De Trazegnies, che rifiutò la benda da-vanti al plotone di esecuzione o il conte di Kalckreuth, che chiese, accontentato, dipoter comandare lui stesso i soldati impegnati a fucilarlo. (Una scena tra comico eromantico che ci rammenta Totò in uno dei suoi celebri film).

Il brigantaggio diven-ne una spina nel fianco delGoverno Ricasoli, che die-de precise direttive permettere fine al fenomeno.Cominciò una severa ope-ra di repressione,accentua-tasi quando, nel 1863, ilgoverno aprì una commis-sione d’inchiesta, da cuiscaturì la relazione Massa-ri, la quale fornì una preci-sa carta geografica delladisposizione delle bande.

Come atto legislativonell’agosto del 1863 fu va-rata la legge Pica, che spo-

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Fig. 6 - Strage massacro di Pontelandolfo e Casalduni

Fig. 7 - Brigantaggio

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stò ai tribunali militari la competenza e considerò colpevoli anche parenti e manu-tengoli dei banditi. Furono stabiliti anche cospicui premi per i delatori.

Intorno al 1870 l’opera di sterminio poteva dirsi conclusa (fig. 8). Uno dei colpipiù significativi venne inferto grazie al tradimento di Giuseppe Caruso, già luogote-nente di Crocco, al quale il generale Pallavicini offrì l’immunità. Egli conosceva be-ne i nascondigli. Lo stesso Crocco, vedendosi braccato, si rifugiò a Roma dove peròvenne arrestato e trovato dalle autorità italiane nel carcere di Paliano. Fu processatoa Potenza e condannato all’ergastolo che scontò a Portoferraio, dove morì nel 1905.

Pallavicini riconobbe non poche doti militari ad alcuni dei più famosi capibandae la loro generosità verso i contadini, i quali li onorarono rendendoli immortali neiloro canti (fig. 9).

Le storie dei briganti più famosi, affidate alla tradizione orale nei secoli, ha tra-sformato la realtà in fantasia, la ferocia in leggenda. A Napoli, per tutto il Novecen-

to, cantastorie girovaghi ne narravano le eroiche gesta, alla pari dei paladini di Ri-naldo. Una letteratura popolare invisa alle classi dominanti. In anni successivi poetie scrittori hanno rivisitato il mito, tra questi Rocco Scotellaro nei suoi libri fa emer-gere le misere condizioni dei contadini ed il sogno infranto di uno stato che si pren-desse cura delle masse rurali.

E Carlo Levi nel suo celebre Cristo si è fermato a Eboli, descrivendo le terre delsilenzio e della solitudine, negò a queste anche il conforto di un Dio pietoso, ferma-tosi ai confini di un mondo dimenticato.

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Fig. 8 - Briganti e Carabinieri

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De Roberto ne I Viceré (fig. 10) traccia un grandioso affresco storico in cui si di-panano le speranze deluse dall’impresa garibaldina.

Un mondo contadino, nel quale “tutto cambia affinché nulla cambi” è il filo con-duttore del romanzo di Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo.

E possiamo concludere con I Terroni di Pino Aprile (fig. 11) e siamo oramai ainostri giorni.

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Fig. 11 - Pino Aprile, TerroniFig. 10 - De Roberto, I Vicerè

Fig. 9 - Mito del brigante

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L’agricoltura napoletana trionfa all’Expo di MilanoFinalmente la verità sulla Terra dei fuochi

Nessuno conosce meglio di me la Terra dei fuochi, di cui ho parlato più di 10 an-ni fa in una serie di articoli, pubblicati su alcuni quotidiani napoletani, corredati dafoto inedite quanto raccapriccianti, come i roghi appiccati alle discariche, per au-mentarne la capacità, da bambini rom prezzolati, i quali bruciavano con fiamme al-tissime per giorni e giorni, diffondendo nell’aria la micidiale diossina; oppure l’im-magine della pecora a due teste, che troneggiava nel salotto di un noto camorrista,segno evidente degli effetti devastanti sul patrimonio genetico, provocati dalle sco-rie radioattive provenienti dalle centrali nucleari di mezza Europa.

Questi scritti vennero raccolti poi in unlibro: Monnezza viaggio nella spazzaturacampana (fig. 12), consultabile in rete digi-tandone il titolo, http://www.guidecampa-nia.com/dellaragione/articolo23/articolo.htm

tradotto in inglese e dal quale hanno poiattinto a piene mani tutti coloro che si sonointeressati in seguito dell’argomento, in pri-mis Roberto Saviano, che ha preso spunto….per un capitolo del suo celebre best seller.

Ma una cosa sono le discariche, che co-prono un’area esigua del territorio, altro sonoi campi agricoli (fig. 13-14), che oltre a darelavoro a decine di migliaia di famiglie, sonorisultati ad indagini scrupolose assolutamen-te sicuri, come giustamente ha annunciato ilgovernatore De Luca (fig. 15) approfittandodella platea mondiale dell’Expo di Milano. Ilgovernatore ha parlato con voce solenne edha annunciato a tutti gli Stati del pianeta chemozzarella ed ortaggi campani sono un van-

to di una regione la quale, nonostante tutto, non vuole arrendersi.La Terra dei fuochi o il famigerato Triangolo della morte, complici il successo

planetario di Gomorra e la criminale assenza secolare dello Stato, hanno trasformatonell’immaginario popolare un luogo geografico in un incubo, una Chernobyl all’om-bra del Vesuvio, un inquinamento morale più che ambientale, una sorta di gigante-sco buco nero in grado di inghiottire un’antica civiltà.

Questa è la situazione presentata dai mass media, ma giornali e televisioni igno-rano che da tempo sono disponibili dati inoppugnabili, i quali dimostrano che la pro-duzione alimentare proveniente dalla zona è assolutamente sicura e può essere con-

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Fig. 12 - Copertina libro Monnezza

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sumata tranquillamente. I terreni agricoli inquinati interessano soltanto 920 ettari, lo0,9% della superficie dei 57 comuni delle province di Napoli e Caserta interessatidal decreto governativo “Terra dei fuochi”, che si estende per 108.000 ettari.

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Fig. 13 - Campo agricolo

Fig. 14 - Campo agricolo

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Le istituzioni interessa-te alla ricerca sono assolu-tamente affidabili, dal-l’Università all’Istitutozooprofilattico, dal Mini-stero dell’agricoltura al-l’Istituto superiore di sani-tà, purtroppo questi dati so-no ignorati dai mass media,che continuano a conside-rare la Campania una terramaledetta da Dio e dagliuomini.

Una percentuale insi-gnificante difficile da ri-scontrare in altre regioniitaliane ed europee e chespazza via una retorica

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Fig. 15 - De Luca Vincenzo, governatore della Campania

Fig. 16 - Il Mattino - Venerdì 9 ottobre 2015

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noir, composta di aggettivi ad effetto, declinati in forma superlativa, con i quali per-vicacemente per anni si è voluto rappresentare un territorio abitato da 6 milioni dipersone, inducendo l’opinione pubblica a confondere una parte, che ora sappiamomolto piccola, per il tutto, facendo credere che tutta la Campania fosse un’area insa-lubre ed inquinata, le cui coltivazioni fossero da scansare, i cui prodotti fossero dabandire dai mercati nazionali ed internazionali, per la gioia di molte imprese concor-renti del Nord.

Dopo La Repubblica, Il Corriere e tanti altri quotidiani anche Il Mattino riprendein una mia lettera l’argomento (fig. 16) che avevo trattato in uno degli incontri delmio cenacolo culturale che si riunisce ogni venerdì nella mia villa di Posillipo

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Capitolo 4

Partiamo da una mia lettera (fig. 1) pubblicata su Il Mattino il 5 settembre intito-lata: Le tante bufale su Napoli, dall’università alla pizza, di cui riportiamo il testo ela risposta di Pietro Gargano.

Tra tanti primato negativi Napoli ne annovera anche uno positivo; infatti su tuttii libri di storia leggiamo che nel lontano1224, l’imperatore Federico II (fig. 2), nonavendo di meglio da fare, fondò all’ombra del: Vesuvio la prima università laica delmondo (fig. 3). Un recordmai messo in discussione euna data precisa: 5 giugno.

Peccato che se provia-mo a chiedere ai massimistorici del periodo, da Fe-niello a Galasso, non tanto ilnome dei primi professori,me dove avesse sede la pre-stigiosa istituzione, nessunoè in grado di rispondere, adimostrazione evidente chesi tratta di una bufala, allapari di tante altre che circo-lano sulla nostra storia, dal-la presenza di decine di am-polle di santi, che fannoconcorrenza al prodigio diSan Gennaro, alla nascita della pizza margherita in epoca post unitaria in onore diuna regina sabauda, quando la prelibata specialità è descritta accuratamente in famo-si libri settecenteschi.

Achille della Ragione

Sull’argomento nulla so di preciso e quindi non intendo confutare le certezze deldottor della Ragione, però aggiungo qualche elemento di ricerca.

Federico fondò lo Studium con una lettera circolare (generalis lictera) inviata daSiracusa, lo dice perfino wikipedia. Napoli fu scelta pure perché accessibile via ma-

Fig. 1

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re, per il clima dolce e per la posizione bari-centrica nel Regno.

Di almeno due intellettuali che affianca-rono l’imperatore i nomi si conoscono, quel-li di Pier delle Vigne reso immortale da Dan-te e di Taddeo da Sessa.

A proposito della mia città sono fazioso,ho fede in San Gennaro e mi piace la leggen-da della regina Margherita.

Pietro GarganoPer un primato messo seriamente in dub-

bio, Napoli ne può vantare due poco noti: lanascita del futurismo e la scoperta della pe-nicillina.

Pochi sanno, neanche tra gli specialisti,che il battesimo del movimento futurista(fig. 4) avvenne a Napoli, dove il Manifesto

di Marinetti venne pubblicato sul periodico La Tavola rotonda il 14 febbraio del1909 dell’editore Bideri, famoso per le sue copie delle canzoni di Piedigrotta, 6 gior-ni prima della sua comparsa sulle pagine del Figaro di Parigi (fig. 5).

E dopo pochi mesi, il 29 aprile 1910, vi fu il battesimo del fuoco al teatro Merca-dante davanti ad un pubblico battagliero ed interessato con poltrone e palchi presi-diate dalla intellighenzia partenopea, da Croce a Scarpetta, da Scarfoglio a MatildeSerao, oltre a politici, professionisti ed un plotone di giornalisti, i quali variamentecommentarono l’evento sui loro giornali.

Tra i paladini del nuovo movimento Marinetti, Palazzeschi, Boccioni e Carrà(fig. 6), i quali erano andati nell’antica capitale, inebriati da quella atmosfera av-volgente dellaBelle Epoque, ac-coppiata ad unmomento esaltan-te di creativitàculturale ed arti-stica, testimonia-ta da un numerosenza eguali diTeatri e giornali,in stridente con-trasto con una fa-se di severa crisieconomica e di

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Fig. 2

Fig. 3

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degrado morale del ceto diri-gente.

Durante la presentazioneal Mercadante, come ci rac-conta Generoso Picone dalpalco dove sedeva donna Ma-tilde giunse sulla scena, al po-sto del fatidico pomodoro,un’arancia che Marinetti, im-passibile, prese al volo, sbuc-ciò e mentre continuava a par-lare cominciò a mangiarla.

Il pubblico da un lato ap-plaudì per il gesto coraggioso,

ma continuò a far piovere di tutto su quei personaggi originali che apparivano comedegli alieni e nello stesso tempo a manifestazioni di approvazione si alternavano fi-schi e pernacchie.

Un posto particolare se lo ritagliò Vincenzo Gemito(fig. 7) con la sua barba lun-ga, i capelli scompigliati, il volto spiritato, si affacciava dal suo palco inneggiando ai

futuristi, al punto che Marinetti inter-ruppe la sua lettura per andargli a bacia-re la mano. Lo scultore rimase talmentecolpito dal nuovo verbo, che volle invi-tare Boccioni e Marinetti a casa sua evolle apporre una corposa dedica al loroManifesto tecnico della pittura futurista:“Ai cari amici un augurio per la loro no-bile missione di promozione di un nuo-vo ideale di arte in Italia, da parte di un

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Fig. 5 Fig. 6

Fig. 4

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Fig. 7 Fig. 8

Fig. 9

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amico che ha avuto la fortuna di applau-dirli”.

Da quella sera memorabile per setti-mane nei circoli intellettuali e nei cenaco-li letterari si parlò solo di Futurismo (fig.8), alternandosi adesioni incondizionate ecritiche feroci, sguardi perplessi a sorrisiammiccanti “I terribili provocatori futuri-sti, gli strambi apostoli di nuove dottrine,gli avanguardisti irriverenti che volevanouccidere il chiaro di luna, potevano anchetrascorrere l’intera giornata a dettare i lo-ro programmi d’intenti belligeranti: poiperò la sera non rinunciavano alla passeg-giata sul lungomare di Posillipo, conti-nuando a discutere, gustando del buonpesce nei migliori ristoranti.

La prima adesione napoletana algruppo futurista fu quella di FrancescoCangiullo (fig. 9), fino ad allora autore dicanzonette e musiche, tra cui “Mastrotto-

re”, una cantilena composta nel 1904 molto apprezzata da Igor Straviskiy, che la in-serì nel suo Pulcinella e da Tzara Ball che la introdussero nel cabaret Voltaire del1916, con cui lanciarono il movimento Dadaista.

Nel 1912 Cangiullo dedicò a Marinetti “La cocotta Futurista”, un divertismentda leggere nei cafè chantant, che ricevette un premio durante la Piedigrotta. Compo-se anche una canzone pirotecnica (fig. 10) si sole lettere e note ed a Roma fu autoredi un gesto eclatante quanto irrive-rente, portando in processione la te-sta di Croce scolpita a colpi schiaf-fi. Il sommo filosofo godeva vice-versa dell’ammirazione di Carrà, ilquale, si recò più volte a casa diDon Benedetto, discorrendo ama-bilmente di estetica e di impressio-nismo, timorosi che i quadri allepareti, rigorosamente figurativi,stessero ad ascoltare.

Nel 1914, sempre Cangiullo,nel nobile Palazzo Spinelli in viadei Mille interpretò con Marinetti,

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Fig. 10

Fig. 11

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Balla e Depero un poema cheparodiava la Piedigrotta, alfrastuono assordante di puti-pù, scetavajasse e triccaballac-che e davanti ad un pubblicopartecipe che non si fermò unattimo dallo scompisciarsi dal-le risate.

Non contento Cangiullocondusse Marinetti in trasfertaa conoscere Capri, l’impareg-giabile isola delle sirene ed aripercorrere gli ectoplasmi diDiefenbach, Cerio, Gorkij,Lenin, Cocteau e tanti altri

spiriti eletti che lì avevano soggiornato. Il padre del futurismo rimase talmente col-pito dalla bellezza di albe e tramonti da comporre un dimenticato romanzo: “L’isoladei baci”.

I futuristi, impegnati nella loro missione dirompente verso il solenne, il sacro, ilsublime e tutto ciò che fino ad allora era stato l’obiettivo dell’arte si accorsero chesabotaggio, presa in giro e parodia irriverente costituivano da tempo la miscelaesplosiva del teatro di varietà che da anni furoreggiava a Napoli e sbalorditi appro-fondirono le più antiche tradizioni popolari, soprattutto la Piedigrotta, che in queglianni assunse aspetti scoppiettanti con l’utilizzo di artifici pirotecnici (fig. 11).

Al carattere trasgressivo le edizioni della festa affiancarono ascensioni aerostati-che e sorprendenti giochi di luce, culminati nell’edizione del 1895 con un corteo didue chilometri che mise assie-me orologi e fiori, telefoni edanimali, telescopi e macchinefotografiche, In un turbinio dieffetti di luce, che rappresentòuno dei momenti più alti delfuturismo.

Passiamo ora a diffondereun altro primato napoletanomisconosciuto, facendo tesorodi un articolo del celebre stu-dioso Antonio Piedimontepubblicato tempo fa sulle pa-gine del Corriere e che ripor-tiamo parzialmente.

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Fig. 12

Fig. 13

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Uno scienziato incompreso, un amore sofferto, una morte precoce. Si può forseriassumere così l’incredibile storia dell’uomo che scoprì il potere delle sostanze an-tibiotiche trent’anni prima di Fleming, la vicenda di un geniale studioso finito nel di-menticatoio della storia. Lui si chiamava Vincenzo Tiberio (fig. 12) ed è ancora sco-nosciuto ai più, persino all’interno della comunità medico-scientifica, e solo da qual-che anno a questa parte si sta cercando di restituirgli il posto che è suo.

Arzano 1895: il segreto del pozzoUn anno speciale per la storia della medicina il 1895: Roentgen scopre i raggi X,

Freud apre il vaso di Pandora della psicanalisi e ad Arzano, paese alle porte di Napo-li, Vincenzo Tiberio individua il primo antibiotico. Dunque con decenni di anticiposul famoso Fleming (fig. 13), che per la stessa scoperta (nel suo caso fortuita) vince-rà nel 1945 il Nobel insieme ai duestudiosi di Oxford: Ernst B. Chain eHoward W. Florey (fig. 14). Gliscienziati anglosassoni, va ricordato,furono aiutati anche dalle autoritàmilitari Usa, che dichiareranno la pe-nicillina “Top secret”. Molti anni pri-ma, invece, il neo laureato Tiberioaveva fatto tutto da solo, partendodall’osservazione delle muffe nelpozzo della casa dove viveva ad Ar-zano (in via Zanardelli), dove si eratrasferito dalla natìa Sepino (Campo-basso) per studiare all’università diNapoli. Il giovane infatti fece caso auna strana coincidenza: tutte le volte che si ripuliva il pozzo dalle muffe l’intero nu-cleo familiare era colpito da enteriti e altri disturbi; intuì dunque che doveva esserciun nesso tra la scomparsa dei miceti e l’improvvisa esplosione dei batteri patogeni,così cominciò a studiare le muffe in laboratorio e, soprattutto, a sperimentare.

È il 1895 quando su una prestigiosa rivista scientifica italiana, gli “Annalid’Igiene Sperimentale”, diretta dal professor Angelo Celli ed edita a Roma dalla ca-sa editrice Loescher, il giovane medico pubblica - con la supervisione dell’Istitutod’Igiene della Regia Università di Napoli, diretto da Vincenzo De Giaxa – gli esitidei suoi studi con il titolo “Sugli estratti di alcune muffe”. E nell’articolo si legge tral’altro: “… nella sostanza cellulare delle muffe esaminate sono contenuti dei princi-pi solubili nell’acqua forniti di potere battericida… per queste proprietà le muffe sa-rebbero di forte ostacolo alla vita e alla propagazione dei batteri patogeni”. Insom-ma, il ricercatore mostrando di essere anche un ottimo microbiologo ha isolato eclassificato i ceppi delle muffe, quindi ha studiato la loro azione battericida e che-miotattica sperimentandone gli effetti benefici, sia in vitro sia in vivo, su cavie e co-

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Fig. 14

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nigli, sino ad arrivare alla preparazione di una sostanza con effetti antibiotici. Quellache sarebbe stata chiamata penicillina e avrebbe cambiato la storia dell’umanità.L’articolo però finì tra la polvere delle biblioteche e fino agli anni Quaranta del No-vecento si continuerà a morire per banali infezioni.

Il cuore infranto e l’arruolamento in marina

La geniale intuizione del Tiberio non fu compresa né dalla comunità medico-scientifica italiana né da quella internazionale. Tutto si arenò, anche perché il medicoabbandonò i suoi studi per arruolarsi nella Marina militare. Una scelta radicale che sipuò spiegare solo in parte con il patriottismo (oggi pressoché sconosciuto ma all’epo-ca molto diffuso), c’era infatti anche un altro buon motivo per imbarcarsi: il giovanevoleva mettere la massima distanza possibile tra se e l’oggetto del suo impossibileamore: la cugina Amalia Teresa Graniero (che aveva conosciuto ad Arzano). In realtàla signorina contraccambiava pienamente ma il problema, apparentemente insormon-tabile, era proprio la consanguineità (per le temute conseguenze sulla prole). Come èfacile intuire, però, la soluzione scelta – la forzata lontananza – produrrà esattamentel’effetto contrario: il legame divenne ancora più forte e la sofferenza più grande.

La prestigiosa carriera militare

La carriera militare porterà il brillante medico campano in giro per il mondo e lovedrà sempre in prima linea: per placare la conflittualità greco-turca, per fronteggia-re epidemie (come a Zanzibar) o per portare soccorso agli abitanti di Messina dopoil micidiale terremoto del 1908. Tiberio, poi, imporrà le vaccinazioni nella RegiaMarina salvando tanti marinai. Nel 1912 gli affidano il laboratorio biochimico del-l’ospedale militare alla Maddalena. Infine, il rientro a Napoli, con l’incarico di diri-gere il Gabinetto di Igiene e Batterio-logia dell’ospedale della Marina (aPiedigrotta). Il 45enne scienziatopuò riprendere i suoi studi sugli anti-biotici, ma gli Dei hanno deciso altri-menti: il 7 gennaio del 1915 è stron-cato da un infarto. Dietro una fotodell’adorata moglie lascerà scritto:«Lunga e difficile è la via della ricer-ca, ma alla base di tutto c’è semprel’amore».La lenta riscoperta

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Fig. 15

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Bisognerà aspettare il 1946perché qualcuno si accorga dellagrandezza dello studioso. Sulla ri-vista “Minerva Medica” il farma-cologo Pietro Benigno scrive che“le sue ricerche sono condotte contale accuratezza di indagine dameritare un posto fondamentalenella ricerca dei fattori antibioti-ci”. Un anno dopo l’ufficiale me-dico Giuseppe Pezzi ritrova l’arti-colo del 1895 e rende pubblica lavicenda. Non sarà sufficiente a re-stituire a Tiberio il suo posto nellastoria ma almeno la sua figura co-mincerà lentamente a uscire dal-l’oblio. Nel corso del tempo gli sa-rà intitolata qualche strada (a Fuorigrotta), a Sepino una lapida ricorda (fig. 15) chefu «Primo nella scienza, postumo nella fama», l’università del Molise darà il suo no-me a un Dipartimento, e nel 2006 i nipoti Vincenzo Martines e Anna Zuppa Covellipubblicheranno il libro “La vita e i diari di Vincenzo Tiberio”; infine il 9 febbraio del2011 sul “Corriere della Sera” esce un articolo intitolato “La penicillina? Una sco-perta italiana”. Un po’ di luce in fondo al pozzo (fig. 16).

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Fig. 16

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Capitolo 5

Correggiamo ora i dati anagrafici di alcuni pittori del Seicento, partendo dal ce-lebre Massimo Stanzione, autore di splendidi dipinti che ritraggono “nature” polpo-se fanciulle dall’epidermide porcellanata (fig. 1). I dati biografici del pittore sonoancora avvolti dal mistero e si basano unicamentesu quanto asserito dal De Dominici, il quale riferi-sce che egli nacque ad Orta di Atella nel 1585 (maprobabilmente la data va spostata in avanti di qual-che anno) e muore durante la peste del 1656, a talpunto che più di uno studioso ha voluto identificarenel famoso quadro (fig. 2) di Micco Spadaro raffi-gurante la piazza del Mercatello, in basso a destra,l’artista mentre esala l’ultimo respiro dopo aver ri-cevuto l’estrema unzione. Tale data è in contrastocon quanto segnalato da numerose guide ottocente-sche (Catalani, Nobile) che parlano di una tela delpittore siglata e datata 1658, ancora oggi presentenella chiesa di S. Pietro in Vinculis, anche se pur-troppo mutila nella parte inferiore.

Avendo accennato al Gargiulo, autore di impor-tanti rappresentazioni di cronaca cittadina e di scenedi martirio (fig. 3) vogliamo cogliere l’occasione percorreggere l’anno della morte dell’artista, prendendoin esame: Sullo stato delle arti a Napoli, uno scrittofatto conoscere dal Ceci, che Pietro Andreini inviò alcardinale Leopoldo De Medici, in cui dichiarava che“Micco Spadaro, pittore di figurine e di paesi, morìche sono tre anni”. Il Ceci riteneva che tale nota fos-se stata inviata nel 1678, ma grazie alle diligenti ricerche del Ruotolo, pubblicate nel1982, si è identificato il giorno esatto nel 20 dicembre 1675, per cui la data della morteè lapalissiano che debba retrocedere al 1672, come da noi già suggerito da alcuni annia pagina 100 della nostra opera “Il secolo d’oro della pittura napoletana”.

Di Agostino Beltrano, marito di Annella De Rosa e di cui presentiamo un ineditoautoritratto (fig. 4) abbiamo già parlato, quando abbiamo riportato la favola dell’uc-

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Tav. 1 - Massimo Stanzione, Morte di Cleopatra,

1640 ca. San Pietroburgo, Hermitage Museum

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cisione della moglie partoritadalla fertile fantasia del DeDominici.

Esaminiamo ora una «Im-macolata Concezione» (fig. 5)allogata in S. Maria la Novasulla destra della parete del co-ro, la quale per evidenti motivirappresentativi è databile anon prima del 1662. Essa in-fatti raffigura il papa Alessan-dro VII e l’imperatore FilippoV, che si incontrarono l’otto di-cembre del 1661 e sancironoufficialmente l’iconografiadell’Immacolata Concezione.

Questa attribuzione sposterebbe di molto in avanti la data della morte del Beltra-no, forse fino al 1665 indicato dal De Dominici, in forte contrasto con il 1656 comu-nemente accettato dagli studiosi.

Tra i luoghi misteriosi di Napoli, intrisi di antiche leggende e stupefacenti miste-ri, la Cappella Sansevero (tav. 6), situata nel centro antico della città, occupa un po-sto di rilievo, perché legata indisso-lubilmente alla figura del proprieta-rio, il celebre principe (tav. 7), rite-nuto da sempre un incrocio tra scien-ziato pazzo e mago stregone e che re-centi ricerche stanno ampiamente ri-valutando, riproponendone la figuracome quella di un profondo conosci-tore di segreti alchemici, uomo digrande cultura ed ai vertici della po-tente massoneria partenopea.

Da sempre la fantasia popolare èstata eccitata dalla presenza, nei sot-terranei della Cappella, di due sche-letri (tav. 8) con un sistema cardiocircolatorio in stupefacente stato diconservazione e si è vociferato chefossero stati creati dallo stesso prin-cipe, iniettando una segreta mistura nelle vene di due suoi servitori, ancora vivi, pie-trificati in tal modo per l’eternità. Alcune recenti ricerche di medici napoletani ten-

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Tav. 2 - Domenico Gargiulo - Piazza Mercatello durante la peste del 1656,

Napoli, museo di San Martino

Tav. 3 - Domenico Gargiulo - Decapitazione SanGennaro nella Solfatara di Pozzuoli,Napoli, collezione della Ragione

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dono a considerare i due scheletri, almeno parzial-mente, semplici macchine anatomiche, degli artefattiper quanto mirabili, ma non vogliamo parlare di que-sto argomento, che tratteremo in seguito, bensì delfamosissimo Cristo velato, opera di Giuseppe San-martino.

Lo scultore è pre-sente con molte sueopere in molte chiesenapoletane, realizza-zioni di buona, a volteottima fattura, ma solouna volta egli raggiun-ge livelli sovraumanidi abilità e perfezioneassoluta: nel Cristo ve-

lato (tav. 9-10), un vero e proprio prodigio tecnico,che permette di vedere chiaramente sotto un velo dimarmo le fattezze di nostro Signore.

Questo unicum, oltre a far giungere a Napoli folledi visitatori da tutto il mondo aveva incuriosito appas-sionati d’arte e cultori di segreti alchemici. Si mormo-rava di un intervento diretto del principe nella realiz-zazione dello straordinario lenzuolo trasparente…, fi-no a quando, tempo fa, una studiosa napoletana, Clara

Miccinelli (tav. 11), avevapubblicato alcuni documentinotarili comprovanti l’anticaleggenda, ma la serietà dellacomunicazione si perse neimeandri di una troppo pervi-cace disamina esoterica del-l’argomento, per cui l’impor-tante notizia non è stata valu-tata e recepita dagli studiosidi storia dell’arte.

Abbiamo personalmentecontrollato il documento, con-servato nell’archivio napoleta-no e stilato dal notaio LiborioScala il 25 novembre 1752, tra

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Tav. 5 -Agostino Beltrano,Immacolata Concezione conAlessandro VII e Filippo VNapoli, S. Maria la Nova

Tav. 6 - Immagine d’insieme Cappella Sansevero

Tav. 4 - Autoritratto di AgostinoBeltrano

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Raimondo di Sangro ed il Sanmartino, nelquale i due contraenti si accordano sulla rea-lizzazione della scultura e sul segreto damantenere. Trascriviamo alcuni passi ine-quivocabili:” ad apprestare una Sindone ditela tessuta, la quale doverà essere depositatasovra la scultura acciò dipoichè esso Princi-pe l’haverà lavorata secondo sua propriacreazione; e cioè una deposizione di stratominuzioso di marmo composito in grana fi-nissima sovrapposto al velo. Il quale stratodi marmo dell’idea del signor Principe faràapparire per sua finezza il sembiante di no-stro Signore dinotante come fosse scolpito ditutto con la statua. Viceversa il sig. Joseph S.Martino si obbliga alla pulitura ed allustratu-ra della Sindone e a non svelare al compi-mento di essa statua la maniera escogitatadal Principe per ricovrire la statua”.

Un altro documento reperito dalla stu-diosa ci rende nota la formula segreta delprincipe per la sua stupefacente creazione:”

Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata del-la fornace co’ carboni accesi a fiamma di brace con l’ausilio di mantici a basso ven-to. Cala il modello da covrire in una vascaammattonata, indi covrilo con velo sottilissi-mo di spezial tessuto bagnato con acqua ecalcina…. Sarà il velo come di marmo dive-nuto al naturale e il sembiante del modellotrasparire”.

I due documenti dimostrano oramai inmaniera inequivocabile, nonostante non sia-no noti a gran parte degli studiosi, i limitidell’abilità del Sanmartino ed aumentano adismisura la fama del principe. Probabil-mente, anche se al momento mancano i ri-scontri cartacei, pure le altre due sculture ve-late della Cappella: la Pudicizia (tav.12) delCorradini ed il Disinganno(tav. 13) del Quei-rolo sono state eseguite con la collaborazio-ne del principe, anche se va segnalato che il

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Tav. 7 - Principe Sansevero

Tav. 8 - Macchine anatomiche

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Corradini, giunto a Napoli in tarda età, aveva già eseguito statue dotate di velaturemolto abili, come l’omonima Pudicizia conservata al Louvre.

In tempi più recenti, un documento nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, adetta di alcuni studiosi, ha testimoniato che il velo della scultura è esclusivamente daattribuire al genio scultoreo del Sanmartino.

Passiamo ora alla culinaria affermando che uno dei luoghi comuni più diffusi,ma anche meno precisi, è quello che riguarda la radice povera e popolare della cuci-na napoletana. In realtà, a partire dalla seconda metà del ’700, in città si è avuta unavera e propria rivoluzione gastronomica segnata dalla crescente influenza dellaFrancia e dall’incrocio delle tecniche parigine con le materie prime del territorio ol-tre che della pasta. Sono stati i monzu, cuochi di corte e delle cucine aristocratiche, iprotagonisti di questa ondata, perché se l’Italia ha conosciuto la nouvelle cuisine ne-gli anni ’70, le tecniche francesi sono arrivate a Napoli e in Sicilia quasi due secoli

prima.Ma in cosa consiste

l’influenza della Fran-cia nella cucina napole-tana a cavallo tra ’700 e’800?

In due aspetti fon-damentali: il primo co-stituito dalla tecnica diutilizzo dei prodotti chepunta agli accostamentie all’arricchimento pro-gressivo del piatto, una

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Tav. 9 - Cristo velato

Tav. 10 - Cristo velato (particolare del volto)

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costruzione sempre barocca, ricca di sapori. Il secondo è l’introduzione di alcunesalse di base, che ancora oggi distinguono l’impostazione della cucina classica tran-salpina da quella del resto del mondo.

Ma questi due elementi vengono tradottia Napoli in primo luogo con la voglia di col-pire la fantasia e la cura della scena, che an-cora oggi è un elemento predominante nelcomportamento psicologico partenopeo. Epoi con le materie prime: verdure di grandis-sima qualità, frutta dal sapore inimitabile e,soprattutto, la pasta, nata in Sicilia ma adotta-ta a tal punto da trasformare i napoletani damangiafoglie a mangia maccheroni(tav. 14)in un solo secolo.

Non manca il riso, altro prodotto del Suddi cui si sono perse tracce, i peperoni imbotti-ti di peperoni, le palle di maccheroni, ripresida Rosanna Marziale (tav.15) la cui cupolaperò in questo caso è la mozzarella, ricettache ha sbancato nella finale di Masterchef(tav.16). Anche materie prime moderne, co-me tonno e fagiolini, diventavano complesse

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Tav. 11 - Clara Miccinelli

Tav. 13 - Francesco Queirolo - Disinganno

Tav. 12 - Antonio Corradini - Pudicizia

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ricette come la mousse di tonno aifagiolini nella quale entrano, pen-sate, ben 200 grammi di maionesee 70 grammi di panna montata.Resta un quesito antropologiconon di poco conto: come mai aNapoli in cucina i poveri hanno«vinto» sui ricchi? In una parola,perché la gastronomia campana siispira alle preparazioni di strada oa quelle vegetali elaborate ai tem-pi della fame atavica del popolonapoletano e non a queste sontuo-

se preparazioni presentate nelle tavole deinobili? Forse la prima risposta che si può da-re è nella perdita progressiva di importanzadel ruolo sociale dell’aristocrazia napoleta-na, passata in poco meno di un secolo da unruolo di assoluta preminenza europea aquello di consumo della rendita fondiaria edi difesa dei privilegi senza avere più la ca-pacità di governo.

Al tempo stesso la cucina della classeborghese, peraltro in città mai egemone cul-turalmente e socialmente, è per antonomasiafiglia dell’omologazione oltre che dell’inap-petenza salutista. Inoltre, dobbiamo dirlo,questa cucina ricca di grassi e di salse è as-solutamente difficile da sostenere con i ritmi attuali di vita, i tempi ristretti per cuci-nare, e le preoccupazioni dietetiche. Insomma, si presenta come una cucina poco at-

tuale in un momento in cui i ricchi mangianoquello che mangiavano i poveri (verdure) e ipoveri quello che mangiavano i ricchi (lacarne). Così questa cucina al momento vienecoltivata quasi come una lingua morta, riccadi fascino per chi la conosce, ma assoluta-mente ininfluente nella vita quotidiana ditutti i giorni. Eppure, ne siamo sicuri, i gio-vani cuochi potrebbero trarre più di una ispi-razione da queste costruzioni gastronomi-che, piatti pensati per stupire le tavolate.

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Tav. 14 - Trionfo di Maccheroni

Tav. 15 - Rosanna Marziale

Tav. 16 - Masterchef logo

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Capitolo 6

“I fischi del San Carlo a Caruso? Una bufala” ce lo conferma Francesco Canessa(fig. 1), ex sovrintendente del teatro, appassionato melomane e ricercatore, nel suolibro Ridi pagliaccio (fig. 2) dove ristabili-sce la verità e sfata le leggende metropolita-ne diventate storia col passare degli anni, apartire dal rapporto che Caruso ebbe con lasua città e il suo teatro.

“Questa storia dei fischi – dice Canessa– non è affatto vera, è stata tramandata senzache nessuno si prendesse cura di verificare”.Detto fatto è partita la ricerca sui giornalidell’epoca, ma anche su archivi americani eitaliani. “Mi sono divertito e ho trovato

quello checercavo”. Ecco così riportati già nel capitolod’apertura i commenti dei giornali napoletani al de-butto di Don Enrico nell’”Elisir d’amore” (dicem-bre 1901), compreso quello su “Il Pungolo” di Sa-verio Procida dove sono enumerate le perplessitàsulla scelta di Caruso di cantare quell’opera, peral-tro applaudita in sala con tanto di bis dell’aria piùcelebre, “Una furtiva lacrima”.

In realtà le cronache del 31 Dicembre 1901 edel 5 Gennaio 1902 su “Il Pungolo” (disponibiliall’Emeroteca Tucci di Napoli), il quotidiano chemonitorava attentamente la vita teatrale di Napoli,riportano dell’emozione che irretì il tenore nel pri-mo atto, rotta dagli applausi sempre crescenti finoalla richiesta del bis.

“Quello che più mi dispiace – insiste Canessa –è che quell’equivoco di fondo ha prodotto una va-stissima letteratura sul rapporto di Caruso (fig. 3)

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Fig. 1 - Francesco Canessa

Fig. 2 - Libro

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con Napoli, il fatto che egli abbia giurato dinon cantare più al San Carlo (fig. 4), l’addiopolemico del figlio incompreso, un episodiofalso finito anche in tv nella fiction dedicataalla sua vita”. La verità, secondo lo studioso,è che Caruso s’era trasferito negli Stati Unitidove era diventato una star e poco tempoaveva per cantare non solo a Napoli, ma intutti i teatri italiani. Tra l’altro, in America,Caruso era diventato un simbolo dell’italia-nità (fig. 5) e soprattutto un ambasciatoredella cultura italiana attraverso l’opera liricain un’epoca in cui l’Italia stava diventandooltreoceano sinonimo di mafia.

Ciò non impedisce all’autore, critio mu-sicale ed ex sovrintendente del San Carlo, ditrasferire nel suo libro anche la sua compe-tenza musicale, e di spiegare bene la sostan-za, la qualità, la novità della voce di Caruso,

il perché della sua fama e il mistero di una perfezione attinta a prezzo di ferrea vo-lontà da lui che, figlio della Napoli più povera, non aveva potuto giovarsi di un’edu-cazione regolare. Il segreto di Caruso potrebbe stare proprio “in questa formazioneatipica e sostanzialmente anarchica”. Ecco, per dire, la leggendaria esibizione del1908 al Met, doveCaruso-Radames do-mina i tre si bemolledell’aria “Celeste Ai-da” che “sono e sa-ranno per qualsiasitenore un ostacolodifficile da supera-re”. Ed ecco i suoirapporti coi direttorid’orchestra, in pri-mis Toscanini, cogliimpresari e con glialtri cantanti, dai na-poletani d’AmericaScotti e Amato, aScialiapin, alla bel-lissima Lina Cava-

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Fig. 3 - Enrico Caruso

Fig. 4 - San Carlo

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lieri (fig. 6), che nel 1906, duet-tando con lui nella “Fedora” diGiordano, allorché Enrico pro-nunciò la frase “Fedora iot’amo!” gli cade tra le braccia edavvero gli scoccò un bacio ap-passionato mentre calava il sipa-rio e gli altri molti di cui qui siracconta.

Canessa, con puntiglio eacribia, demolisce alcuni luoghicomuni duri a morire. Come ilsupposto “anatema” del tenorenei confronti della sua città dopoi fischi al debutto del 1901 con“Elisir d’amore” (fig. 7). Perl’autore è una “degenerazionemassima in stile Gomorra di unautentico falso storico”, e per

spiegare come andarono le cose rilegge a uno a uno i giornali dell’epoca, “unichefonti certe, evidentemente trascurate per colpa o dolo da chi non ha inteso rinunciarea un pretesto narrativo tanto accattivante”.

A New York Caruso visse per 18 anni, vi celebrò i maggiori trionfi e vi conobbei momenti più difficili. L’Italia era la sua villa a Lastra a Signa, fuori Firenze, e ov-viamente il golfo di Napoli, dove ven-ne a morire. “Napoletano”, però, fu ilmodo che scelse per sposare, a 45 anni,la ventenne Dorothy Benjamin malgra-do la fiera contrarietà del padre di lei:una “fujuta” che precedette le nozze ri-paratrici del 1918. E napoletane furonole parole dette al fratello prima di spira-re al Grand Hotel Vesuvio: “Giovà, af-facciate ‘o balcone e salutame ’a mun-tagna!”.

Vent’anni dopo, alla sua morte, fuproprio il barone Saverio Procida ascrivere un’epigrafe su “Il Mattino”,sottolineando il suo ruolo nella più spinosa vicenda artistica del tenore: “Dotato diuna voce di stupenda robustezza (e per averne tecnicamente fissato il carattere,vent’anni fa, il grande artista mi votò un inestinguibile rancore, fino a non voler più

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Fig. 5 - Enrico Caruso

Fig. 6 - Lina Cavalieri

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cantare in Napoli e anon voler comprendereche nel mio rilievoc’era il maggiore elogioalla intensità della suaespressione drammati-ca), guidato da un senti-mento che amplificavasempre il contenuto liri-co del personaggio, si-curo dell’elasticità in-comparabile dei suoni,che vibravano nella go-la, perché erano tem-prati sulla sensibilitàquasi morbosa del suotemperamento artistico,scevro di pregiudizi sti-

listici, che non arrestavano mai la fiamma di cui il napoletano autentico a dispettodella vernice transatlantica aspersa più sulle sue scarpe che sulla sua fantasia brucia-va, tutto istinto e intuito, tutto estemporaneità di sensazione, il tenore che non ebbeemuli nel suo tempo e poté per antonomasia accettare per lui soltanto la lettera maiu-scola della chiave in cui cantò, fu il prototipo del tenore moderno. Egli incarnò ilrealismo musicale, fu il vocabolario della nuova lingua».

Rimanendo in campo musicale trattiamo ora de La canzone del Piave (fig. 8),conosciuta anche come La leggenda del Piave, una delle più celebri canzoni patriot-tiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (fig. 9)(noto con lo pseudonimo di E.A. Mario).

Durante la seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ilgoverno italiano l’adottò provvisoriamen-te come inno nazionale, poiché si pensòfosse giusto sostituire la Marcia Reale conun canto che ricordasse la vittoria dell’Ita-lia nel primo conflitto mondiale. La mo-narchia italiana era infatti stata messa indiscussione per aver consentito l’instau-rarsi della dittatura fascista. La canzonedel Piave ebbe la funzione di inno nazio-nale italiano fino al 12 ottobre 1946,quando fu sostituita da Il Canto degli Ita-liani di Goffredo Mameli e Michele No-

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Fig. 8 - Lo spartito de La leggenda del Piave

Fig. 7 - Elisir d’amore

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varo. L’inno nazionale definitivo in sosti-tuzione del provvisorio Inno di Mameliavrebbe dovuto essere proprio La Canzo-ne del Piave, ma il Presidente del Consi-glio Alcide De Gasperi non avrebbe cal-deggiato la candidatura della canzone per-ché offeso da Gaeta che si rifiutò di com-porre l’inno ufficiale della DemocraziaCristiana.

I fatti storici che ispirarono l’autorerisalgono nell’ambito della 1° guerramondiale (fig. 10) al giugno del 1918,quando l’Impero austro-ungarico decisedi sferrare un grande attacco, ricordatocon il nome di “Battaglia del solstizio” sul

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Fig. 9 - E. A. Mario - Ermete Giovanni Gaeta

Fig. 10 - Prima guerra mondiale - Corriere della sera

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fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l’esercito italiano, già reduce dal-la sconfitta di Caporetto (fig. 11-12-13). La Landwehr (l’esercito imperiale austria-co) si avvicinò pertanto alle località venete delle Grave di Papadopoli e del Montel-lo, ma fu costretta ad arrestarsi acausa della piena del fiume. Ebbecosì inizio la resistenza delle For-ze armate del Regno d’Italia, checostrinse gli austro-ungarici a ri-piegare.

Il 4 luglio del 1918, la 3ª Ar-mata del Regio Esercito Italianooccupò le zone tra il Piave vecchioed il Piave nuovo. Durante lo svol-gersi della battaglia morirono84.600 militari italiani e 149.000militari austro-ungarici. In occa-sione dell’offensiva finale italiana dopo la battaglia di Vittorio Veneto, avvenuta nel-l’ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri tra l’Austria-Ungheria e l’Italia. Dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfal-damento politico in corso nell’Impero, l’esercito austro-ungarico si disgregò rapida-mente, consentendo alle truppe italiane di sfondare le linee nemiche (fig. 14).

La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918 subito dopo la battaglia delsolstizio, da Ermete Alessandro Mario, pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta, unprolifico autore di canzoni napoletane che spaziava dalle canzonette alle canzoni

militari. Ben prestovenne fatta cono-scere ai soldati dalcantante EnricoDemma (RaffaeleGattordo). L’innocontribuì a ridaremorale alle truppeitaliane, al puntoche il generale Ar-mando Diaz inviòun telegramma al-l’autore nel qualesosteneva che avevagiovato alla riscossanazionale più diquanto avesse potu-

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Fig. 12 - Piave trincea

Fig. 11 - Piave

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to fare lui stesso: «La vostraleggenda del Piave al fronte èpiù di un generale!». Vennepoi pubblicata da GiovanniGaeta con lo pseudonimo di E.A. Mario il 20 settembre del1918, circa quaranta giorniprima della fine delle ostilità.

Il testo e la musica, chefanno pensare ad una canzonepatriottica con la funzione diincitare alla battaglia, hannol’andamento colto e ricercatodi altre canzoni che già aveva-no fatto conoscere GiovanniGaeta nell’ambiente del caba-ret; sue sono anche Vipera, Lerose rosse, Santa Lucia luntana(fig. 15), Balocchi e profumi.La funzione che ebbe La leg-genda del Piave nel primo do-poguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, lesofferenze e i lutti che l’avevano caratterizzata.

Grazie a Pietro Gargano, critico musicale e penna storica de Il Mattino, possia-mo ora sfatare alcuni luoghi comuni duri a resistere.

Il primo è che l’autore non scrisse la leggenda del Piave (fig.16) per celebrareuna vittoria bensì per auspicare una riscossa dopo l’onta di Caporetto. Egli volevarecarsi personalmente al fronte, ma gli fu impedito, affidò allora all’amico bersaglie-re Raffaele Gottardo, in arte Enrico Demma, la missione di divulgare il testo tra i

combattenti. L’effetto fu straordi-nario al punto che Armando Diazdichiarò:”al fronte la Leggenda va-le più di un generale”.

Il secondo luogo comune dacancellare è legato al nome di chilanciò la canzone in teatro, che tuttiindicano quello di Anna Fougez,mentre l’autore ha sempre ricorda-to che fu Gina De Chamery a pro-porlo a Piedigrotta il 13 agosto del1918 nel minuscolo teatro Rossini.

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Fig. 13 - L’incitazione patriottica Tutti Eroi! O il Piave o tutti accoppati!,

opera del generale dei Bersaglieri Ignazio Pisciotta

Fig. 14 - Bollettino di guerra

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Infine l’ultima cosa da sottolineare è l’assenza di spirito bellicoso dell’autore,patriottico, ma non guerrafondaio, come dimostra una sua canzone coeva alla Leg-genda del Piave: Rose rosse, percorsa da un’ombra di pacifismo:

“Son d’un giardino che fu devastatopoiché la guerra feroce vi entrò: tutto il terreno di sangue arrossatosangue che tutte le rose macchiò”.

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Fig. 15 - Santa Lucia luntana

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Capitolo 7

La perdita del ruolo di capitale dopo l’unità d’Italia è stato per Napoli l’inizio diuna decadenza che ancora non si è fermata dopo 150 anni. Dai primati positivi ederano tantissimi, la città è passata a quelli negativi, mentre una sistematica opera difalsificazione della realtà è stata portata avanti da storici collusi col potere, il cui ver-bo distorto è stato propagandato in tutti i libri, divenendo programma di insegna-mento nelle scuole.

I conquistatori piemontesi cambiarono i nomi a strade e piazze per cancellareogni traccia del passato, imponendo toponimi legati alla loro dinastia ed al nuovocorso degli avvenimenti.

L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legatoalla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.

Interminabili furono irecord del Regno delledue Sicilie al cospetto diquelli negativi di oggi, dacapitale della monnezza aterritorio incontrastatodella criminalità organiz-zata.

Un segno tangibile diinversione di tendenzasarebbe quello di cambia-re il nome di alcune stra-de, per cancellare le trac-ce della colonizzazionepiemontese avvenuta conla truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo diLargo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile o me-glio ancora Achille Lauro, piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi,origine di tutti i nostri guai, va decisamente intitolata al 3 ottobre 1839, giorno del-

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fig. 1 - Fergola Salvatore - Inaugurazione della Napoli Portici

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l’inaugurazione della prima linea ferrovia-ria italiana (fig. 1-2), la Napoli Portici,mentre il corso Vittorio Emanuele, la pri-ma tangenziale del mondo, aspetta ancoragiustizia e la dedica al nome del suo idea-tore, Ferdinando II (fig. 3), che la realizzòin poco più di un anno.

Infatti nel 1853 il re borbone Ferdinan-do II realizzava in pochi mesi un’arteria dicinque chilometri (fig. 4-5), che, superan-do delicati problemi orografici, metteva incollegamento la parte occidentale dellacittà con la parte orientale, permettendol’urbanizzazione di vaste aree.

L’opera fu apprezzata in tutta Europa per le soluzioni tecniche e la velocità diesecuzione. I napoletani cavallerescamente vollero dedicarla alla regina Maria Tere-sa, ma il toponimo ebbe breve durata, perché subito dopo l’unità d’Italia, i Savoiadecisero che un nuovo nome: corso Vittorio Emanuele, dovesse ricordare il loro reconquistatore dell’antico regno, an-che se la strada era stata realizzatada un altro sovrano.

Questa appropriazione indebita èpassata sotto silenzio per 150 anni,ma è giunto il momento per fare giu-stizia di questi soprusi del passato,grazie al certosino lavoro di corag-giosi storici che, lentamente, ci stan-no insegnando a rivalutare la nostrastoria gloriosa.

Un invito perentorio va avanzatoperciò al sindaco di voler dedicarequesta strada a chi l’ha ideata e rea-lizzata nell’interesse della sua amatacittà: Ferdinando II.

Identico discorso va fatto per ilbiglietto da visita che la città offre aiforestieri, la quale si è sempre chia-mata della Ferrovia, anche se i napo-letani preferivano chiamarla da’ sta-zione (fig. 6). Poi giunse Garibaldicon i piemontesi è la musica cambiò,

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Fig. 2 - Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici - Caserta Palazzo Reale, quadreria

Fig. 3 - Statua Ferdinando II

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ma soprattutto cominciò l’opera di falsi-ficazione sistematica della nostra storia;infatti il luogo così caro ai napoletani as-sunse prima, nel 1891, la denominazionedi piazza dell’Unità d’Italia, per divenirepoi, nel 1914, in coincidenza con l’inau-gurazione della statua dell’eroe dei duemondi, piazza Garibaldi.

Ricordo ancora con commozionequando alla testa di un gruppo di cittadi-ni, esasperati dalle lentezze burocratiche,fisicamente sovrapposi a quelle del co-mune targhe nuove di zecca con l’indica-zione di piazza 3 ottobre 1839, una data

fatidica della storia napoletana, che i nostri colonizzatori hanno fatto di tutto per farcidimenticare. In quel lontano giorno, primain Italia e seconda al mondo, sfrecciò laprima ferrovia italiana: la Napoli-Portici.

Avevo informato stampa e televisionidelle nostre intenzioni e scelsi come giornoil 4 luglio, bicentenario della nascita di Ga-ribaldi. Presa in prestito una scaletta da unnegoziante di tessuti, applicai la nuovascritta ed improvvisai un discorso alla folla,immortalato da 12 emittenti private, chetrasmisero in differita l’episodio agli spetta-tori di diverse regioni, mentre i giornali neparlarono il giorno dopo entusiasti. La noti-zia della burla giunse fino in Francia sullepagine di Le Monde. Due vigili urbani, unuomo ed una donna, incuriositi dall’assem-bramento, chiesero timidamente alla follacosa stesse succedendo. Qualcuno rispose:“Quel signore ha cambiato il nome allapiazza”; “Allora va bene, tutto a posto”. Lenuove targhe sono rimaste in loco per mesi,senza che nessuna autorità intervenisse esolo la pioggia le ha portato via.

L’anno scorso l’impresa è stata ripetu-ta da un’organizzazione neo borbonica,sempre senza riuscire a smuovere l’ammi-

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Fig. 4 - Attilio PratellaCorso Vittorio Emaneuele

Fig. 5 - Attilio PratellaCorso Vittorio Emaneuele

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nistrazione comunale dal suotorpore criminale.

L’unica possibilità di ri-scatto e di ripresa per Napoli edi napoletani è oggi legato allavolontà di riappropriarsi delsuo passato glorioso e della lo-ro identità perduta.

Attendere che a ciò provve-dano le istituzioni è pura uto-pia, per cui solo dei liberi citta-dini possono sanare una paleseingiustizia.

Tutto il mondo deve sapere che i napoletani sono gente antica e paziente, ma chein passato la città ha rifiutato l’Inquisizione e dato i natali a Masaniello; essa nonvuole recidere le radici col passato e vuole un futuro migliore.

Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sullestrade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appog-giandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antichemelodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo anco-ra distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo edil frangersi del mare sulla scogliera sottostante.

Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e laforza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vi-vere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente, del quale ci siamo scoc-ciati e da oggi vogliamo dive-nire attivi artefici del nostrodestino.

Palazzo Donn’Anna (fig.7-8), una delle dimore più fa-mose della città, è la locationdove, complice la fertile fan-tasia di Matilde Serao, sonoambientate una serie di leg-gende erotiche, che hanno co-me protagoniste le due regineGiovanna I (fig. 9-10) e Gio-vanna II (fig. 11), vissutel’una nel Trecento e l’altranel Quattrocento, alcune cen-tinaia di anni prima della co-

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Fig. 6 - Vecchia stazione di Napoli

Fig. 7 - Palazzo Donn’Anna

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struzione dell’edificio, che risalealla fine del XVII secolo.

Nella memoria popolare ed an-che tra gli studiosi più accreditati siconfondono le figure delle due so-vrane, che in comune avevano unacondotta sessuale quanto mai disi-nibita, ma ciò che si racconta deveessere ambientato nei sotterraneidel Maschio angioino, complice unfamelico coccodrillo, che facevapiazza pulita dei numerosi amantidelle regine, dopo aver espletato lepulsioni sessuali più sfrenate.

Le origini del palazzo risalgono alla fine degli anni trenta del 1600, quando ven-ne innalzato per la volontà di donna Anna Carafa (fig. 12), consorte del viceré Rami-ro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres (fig. 13). Il progetto per la realiz-zazione fu commissionato al più importante architetto della città di quel periodo,Cosimo Fanzago, che nel 1642 approntò un disegno secondo i canoni del barocconapoletano che prevedesse tra le altre cose anche la realizzazione di un doppio puntod’ingresso, uno sul mare ed uno da una via carrozzabile che si estendeva lungo la co-sta di Posillipo. Per la costruzione del palazzo, fu necessario demolire una preesi-stente abitazione cinquecentesca (villa Bonifacio). Il Fanzago, però, non riuscì acompletare l’opera per via della prematura morte di donn’Anna, avvenuta in un con-testo di insorgenza popolare a causa della temporanea caduta del viceregno spagno-lo, con la conseguente fuga del marito della stessa verso Madrid (1648).

L’edificio rimasto incompiuto assunse lo spettacolare fascino di una rovina anticaconfusa fra i resti delle ville romane, che caratterizzano il litorale di Posillipo e fra gli

anfratti delle grotte. Il palazzo subì alcu-

ni danni durante la rivol-ta di Masaniello del1647 e durante il terre-moto del 1688.

Il palazzo è lo scena-rio di una delle più cele-bri leggende napoletanescritte da Matilde Serao.Nel libro Leggende na-poletane la scrittrice cosìlo dipingeva:

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Fig. 8 - Palazzo Donn’Anna

Fig. 9 - Giovanna I

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«Il bigio palazzo si erge nelmare. Non è diroccato, ma non fumai finito; non cade, non cadrà,poiché la forte brezza marina soli-difica ed imbruna le muraglie,poiché l’onda del mare non è per-fida come quella dei laghi e deifiumi, assalta ma non corrode. Lefinestre alte, larghe, senza vetri,rassomigliano ad occhi senza pen-siero; nei portoni dove sonoscomparsi gli scalini della soglia,entra scherzando e ridendo il flut-to azzurro, incrosta sulla pietra lesue conchiglie, mette l’arena neicortili, lasciandovi la verde e luci-da piantagione delle alghe. Dinotte il palazzo diventa nero, in-

tensamente nero; si serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle,fosforeggia il mare di Posillipo, dalle ville perdute nei boschetti escono canti malin-conici d’amore e le malinconiche note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sottole sue volte fragoreggia l’onda marina…».

Nelle credenze popolari Donn’Anna viene confusa con la famosa e discussa reginaGiovanna d’Angiò che qui avrebbe incontrato i suoi giovani amanti, scelti fra prestantipescatori e con i quali trascorreva appassionate notti di amore, per poi ammazzarli al-l’alba facendoli precipitare dal palazzo; la leggendavuole che le anime di questi sventurati giovanotti tutto-ra si aggirino nei sotterranei dell’antica dimora, affac-ciandosi al mare ed emettendo lamenti. Altri inveceraccontano che la regina facesse uscire il suo amantecon una barca a remi dall’entrata che dà sul mare, quel-la che oggi è possibile vedere dalla spiaggia, tuttorausata dagli inquilini per accedere alle imbarcazioni.

Un’altra leggenda metropolitana, riportata dallastessa Matilde Serao, narra di un fantasma della gio-vane e bellissima Mercedes de las Torres che in unascena teatrale baciò il nobile Gaetano di Casapenna,amante della viceregina Anna Carafa. La giovane, ni-pote della nobildonna Carafa, scomparve misteriosa-mente. Così conclude la Serao in merito alla leggen-da di “Palazzo Donn’Anna”:

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Fig. 10 - Giovanna I

Fig. 11 - Giovanna II

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«Quei fantasmi sono quelli degliamanti? O divini, divini fantasmi!Perché non possiamo anche noi, co-me voi, spasimare d’amore anchedopo la morte?».

Per Raffaele La Capria, che nefece uno dei luoghi del suo “Ferito amorte, si tratta di una «maestosamole cadente e quasi una rovina, mabellissima, al cospetto del mare».

Vogliamo concludere proponen-do la soluzione di un mistero, che ap-passiona decine di migliaia di lettori,anche se è di una stupidità assoluta:scoprire l’identità di Elena Ferrante(fig.14), lo pseudonimo dietro al qua-le si nasconde la scrittrice (o lo scrit-tore) più venduto degli ultimi anni so-prattutto sul mercato anglo sassone.

Elena Ferrante, scrittrice italia-na pubblicata in tutto il mondo, consigliata perfinoda Michelle Obama, è stata identificata, dopo scru-polose indagini fiscali con Anita Raja (fig. 15). Machi è Anita Raja? Nella realtà è una traduttrice daltedesco – già collaboratrice della casa editrice e/o –, moglie di un altro protagonista delle lettere, loscrittore Domenico Starnone (fig. 16), anch’egli in-dicato in passato come possibile “penna” di questofenomeno letterario.

Tutto inizia con lo scoop di Claudio Gatti, usci-to sul Domenicale del Sole 24 Ore e in contempo-ranea sul New York Review of Books, il Frankfur-ter Allgemeine Zeitung e Mediapart.

Il giornalista ha utilizzato quelle che chiama“evidenze finanziarie” ovvero ha fatto i conti in ta-sca alla traduttrice e a suo marito, incrociando i lo-ro introiti con i bilanci della casa editrice, che pub-blica i libri della scrittrice fantasma. Man mano chequesti ultimi salivano, arrivando a circa 7 milionidi euro, anche i compensi della Raja sarebbero lie-vitati, aumentando del 150%, con acquisti di case

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Fig. 12 - Anna Carafa

Fig. 13 - Vicerè Ramiro Ramiro Núñez de Guzmán

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da parte della traduttrice e diStarnone a Roma e in Toscana.

La parte più interessantedella vicenda è quello che è ac-caduto in rete, dove la reazionedei lettori è stata clamorosaquanto la notizia che l’ha gene-rata. I fan di Elena Ferrante sisono ribellati contro quella chehanno percepito come un’invasione della privacy di tutti i soggetti coinvolti. Il senso deiloro messaggi è che nessuna rivelazione potrà mai rovinare la magia dei suoi romanzi,che conquistano tutti a prescindere da chi si celi dietro lo pseudonimo dell’autrice.

Sembrava tutto finito ed invece non è così. Almeno stando ai risultati del lavorodi un gruppo di professori universitari provenienti da tutto il mondo che hanno fattoun’opera investigativa collettiva basata sulla comparazione di 150 romanzi e 40 auto-ri contemporanei attraverso il metodo dell’analisi quantitativa degli elementi lessicalie stilistici ricorrenti. Il gruppo di ricercatori si sono incontrati giovedì all’università diPadova nel workshop Drawing Elena Ferrante’s profile per discutere insieme i risul-tati del loro lavoro di ricerca. E l’esito è stato clamoroso quanto imprevedibile: ElenaFerrante non è la moglie di Domenico Starnone. È proprio Domenico Starnone.

Ora basta, stiamo parlando di facezie, urge tornare a tematiche serie.

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Fig. 14 - L’amica geniale

Fig. 15 - Anita Raja

Fig. 16 - Domenico-Starnone

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Capitolo 8

Tra le attrazioni di Napoli, destano sicura-mente grande interesse le Macchine anatomi-che (fig. 1), conservate all’interno della Cap-pella detta ‘La Pietatella’.

Esse rappresentano due corpi umani, fem-minile e maschile, con lo scheletro e tutta lafitta rete del sistema arterioso e venoso (fig.2), fino ai capillari.

I dettagli sono estremamente accurati eprecisi, tanto da aver dato spazio tra i popola-ni, ma anche tra gli eruditi, che il principe al-chimista (fig. 3) fosse riuscito a creare unasorta di liquido metallizzante, in grado di ren-dere solido il sangue. Iniettandolo su due mal-capitati, una cameriera ed un servo della suareggia, dopo la decomposizione accelerata dei corpi ottenne le due prodigiose ‘Mac-chine’.

Tale versione ci viene rac-contata anche da BenedettoCroce: «Per lieve fallo, feceuccidere due suoi servi, un uo-mo e una donna, e imbalsamar-ne stranamente i corpi in modoche mostrassero nel loro inter-no tutti i visceri, le arterie e levene, e li serbò in un arma-dio…».

Una vicenda macabra, per-fettamente aderente alla mito-logia destinata all’illustrescienziato che, dopo averlecreate, le fece portare nell’ap-

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Fig. 1 - Macchine anatomiche

Fig. 2 - Macchine anatomiche, sistema vascolare

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partamento detto ‘della fenice’(come indicato nelle note diuna guida del ’700 e come rife-rito da alcuni viaggiatori), perpoi essere trasportate successi-vamente nella cappella.

Guardandole con attenzio-ne, si rimane stupiti dalla per-fezione e accuratezza degli in-trecci, come se davvero fosseil risultato di un orrendo sacri-ficio.

A completare il sinistro al-lestimento, fino al secolo scor-so era presente il corpo di unfeto, poi trafugato, che sem-brava aver subito lo stesso pro-cedimento alchemico.

Si racconta che la realizza-zione delle stesse fu attuata an-che con l’aiuto dell’anatomistapalermitano Giuseppe Salerno,nella seconda metà del ’700.

E qui l’arcano e l’insolitocominciano a sfilacciarsi, datoche un contratto depositatopresso l’Archivio Notarile diNapoli sottolineerebbe un ac-

cordo tra il principe e il medico, col primo che si sarebbe impegnato unicamente afornire filo di ferro e cera per realizzare leopere.

Nel 2008 alcuni ricercatori dell’Uni-versity College London (UCL) hannoeseguito alcune analisi sulle ‘Macchine’,dichiarando che gli scheletri (fig. 4-5) so-no genuini mentre i sistemi circolatori so-no realizzati artificialmente appunto confilo metallico e cera colorata.

Anche un’analisi del 2014 effettuatada medici dell’ospedale San Gennaro hariportato i medesimi risultati. Infatti, un

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Fig. 3 - Principe Sansevero

Fig. 4 - Macchine anatomiche, particolare

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gruppo di cardiologi, capitanato dalprof. Galzerano, peraltro sulla base diuna semplice ricognizione visiva, harilevato un errore nella ricostruzionedell’apparato circolatorio (fig. 6), undifetto piccolo ma decisivo: nessunuomo avrebbe potuto vivere con quel-la «malformazione».

Oggi sappiamo con certezza che ilprincipe li avrebbe solo comprati, gra-zie ad un libro di Sergio Attanasio,che fa luce anche sulle due macchineanatomiche.

L’autore, tra l’altro, ricorda comefurono descritte nella «Breve Nota»del 1766: «… si veggono due mac-chine anatomiche, o, per meglio dire,due scheletri, d’un maschio, e d’unafemmina, ne’ quali si osservano tuttele vene e tutte le arterie de’ Corpiumani, fatte per injezione, che; peressere tutti intieri, e, per diligenza,con cui sono stati lavorati, si possono

dire singolari in Europa…». E proprio l’indi-cazione dell’anonimo estensore settecentesco– «fatte per injezione» – fece accendere lafantasia dei cultori del paranormale, che pertre secoli hanno immaginato che una qualcheparticolare sostanza (ovviamente alchemicaed inventata dal Principe) fosse stata iniettatanei corpi dei due sventurati. In realtà è possi-bile che qualcosa sia stata iniettata ma soloper evidenziare vene ed arterie in modo da po-terle ricostruire fedelmente. Di certo, pur es-sendo nota la partecipazione di un medico si-ciliano alla creazione delle «statue», la leg-genda ha sempre messo in primo piano l’ope-ra del Sansevero. Ora però, grazie alle ricer-che di Sergio Attanasio, la leggenda nera vie-ne definitivamente spazzata via.

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Fig. 5 - Macchine anatomiche (testa)

Fig. 6 - Sistema cardiaco

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Tutto ha inizio in Sicilia, scrive Russo De Gregorio nel 1762: «Il 5 maggio del1756... Giuseppe Salerno palermitano mostrò uno scheletro elaboratissimo da ogniparte. Questo, costruito con impegno e con arte di opere meccaniche mostraval’osteografia dell’uomo e insieme l’angiologia, per un numero complessivo di 261ossa».

Attanasio, inoltre, ricorda che la Real Accademia Medica Palermitana «non eracomunque nuova a sperimentazioni in questo campo, difatti, nel 1753 un altro ana-tomista, Paolo Graffeo, aveva costruito “un uomo e una donna con il feto (...) cheerano conservati e posti in bella mostra nei locali dell’Università in teche decorateda pietre preziose». Dunque, nella Palermo di metà ’700 si realizzavano delle per-fette riproduzioni del corpo umano. E quando la notizia giungerà al re Carlo, il so-vrano chiederà di organizzare «una lezione ad un pubblico consesso di nobili e let-terati» a Napoli. E, spiega ancora lo studioso napoletano, al convegno fu invitatoanche Sansevero (che era amico personale del re), il quale «dopo aver visto la me-ravigliosa macchina del Salerno non si fece sfuggire la ghiotta occasione di cono-scere questa opera meccanica e il suo creatore». Non solo. Quando seppe che vole-

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Fig. 7 - Jusepe de Ribera - San Gennaroesce illeso dalla fornace

1646, Napoli, Cappella del tesoro di San Gennaro

Fig. 8 - Artemisia GentileschiSan Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli,

1636 - Pozzuoli, cattedrale

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va portare a Bologna lamacchina, «ne proposesubito l’acquisto peresporlo nella galleriadel suo palazzo, appe-na passato il giornodello spettacolo, ilprincipe di San Severomecenate dei letterati,stabilì di conservarequesto mirabile schele-tro nella sua ammire-vole pinacoteca ed at-tribuì all’autore del-l’opera una pensionesplendida, vita natural durante».

Va ricordato che dopo l’acquisto, i due scheletri non furono collocati nella chie-sa (dove si vedono oggi), ma nell’appartamento del Principe. Dove, nel 1775, li ve-drà il marchese De Sade: «… Questi appartamenti – scrisse – sono in verità ornati daaffreschi di Beltisar (Belisario Corenzio) pieni di freschezza e di piacevolezza: ma ètutto. In una di queste sale si vedono due scheletri piuttosto curiosi».

Un modello dunque di straordinaria precisione per lo studio dell’anatomia, maanche lo «spettacolo» del corpo umano come non si era mai visto prima. Inevitabileche il Principe ne rimanesse conquistato e decidesse di acquistare prima l’uomo epoi la donna con il feto (che poi andrà perduto). Leggiamo da una lettera del 1762:

«L’autore di queste sta-tue fu Giuseppe Saler-no nato in Palermo nel1728 (…) Conoscendoperò la tendenza, che ilprincipe... mostravaverso simili cose, glieloportò in Napoli, e n’eb-be la pensione annua dionze cinquanta; sebbe-ne fu rimproverato pernon averlo lasciato allasua patria…». Ironiadella sorte, infatti, alSalerno «non fu ricono-sciuta giusta fama de-

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Fig. 9 - Sventolio

Fig. 10 - Sventolio

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gna della sua opera». Nonsolo. L’anatomista paler-mitano – che morirà pro-prio per le conseguenze diuna depressione – sarebbestato oscurato dalle pre-ponderante fama del San-severo. In attesa che si re-stituisca allo studioso sici-liano quel che merita, c’èda accogliere con soddi-sfazione la ricerca del pro-fessor Attanasio, un lavoroche apre nuovi spiragli di

luce su uno dei tanti mi-steri napoletani, senzaintaccare né il mito né ilfascino esoterico delSansevero.

Napoli si conquistaattraverso San Gennaro(fig. 7-8). Anche attra-verso san Gennaro. At-traverso il mito, attra-verso l’emozione, attra-verso sentimenti forti einspiegabili. Questa ne-cessità seduttiva fa partedella mitologia (vaga-mente stereotipata) dellacittà e forse anche dellasua natura femminea, disirena. Questione dicanti più che di conti, difascino più che di ragio-ne. E il potere, nella suaimmensa intelligenza,nella sua complessità hasempre cercato il con-senso nel miracolo (fig.

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Fig. 11 - Papa Francesco con il cardinale Sepe

Fig. 12 - Championnet

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9-10-11) l’ha cercato, l’ha vo-luto e a volte l’ha preteso comeun imprimatur che risalissedalle viscere della Fede.

Tutti in cerca del sostegno,dell’occhiolino, della paccasulle spalle da parte del santodelle ampolle. L’hanno invoca-to i re di diverse dinastie, affin-ché la loro sovranità fosse san-cita da un’incoronazione popo-

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Fig. 13 - Championnet

Fig. 14 - Piazza dei Martiri - Napoli

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lare e sovrannaturale nello stesso tempo. Unti del Signore, ma pure da san Gennaro.In un’occasione ben precisa, fuori dalle tre date canoniche e significative, lo sciogli-mento è stato imposto con la forza delle armi. È il celebre episodio del 1799, quandoil generale Championnet (fig. 12-13) per dare la legittimazione più all’occupazionefrancese che alla Repubblica Napoletana, visto che il sangue ritardava a compiere ilprodigio, minacciò i religiosi. Secondo il racconto molto romanzato di quel geniac-cio di Alexandre Dumas, il liquido nella teca prontamente si squagliò. Al primo pa-trono fu immediatamente appiccicata, dai lazzari e dai sanfedisti, l’etichetta di gia-cobino. Ma a ben leggere, con il senno di poi, probabilmente fu un segnale per gli in-genui rivoluzionari. Da martire a martiri in pectore. Volete la consacrazione del san-gue? E prendetevela, ma poi non venite a lamentarvi che finite sul patibolo e alla fi-ne, al massimo, vi dedicano una piazza, sebbene salottiera, con una colonna e quat-tro leoni (fig. 14).

Fino ad ora abbiamo riportato testualmente uno scritto di Pietro Treccagnoli, unadelle penne più sofisticate de Il Mattino e soprattutto valente napoletanista, il qualeaccetta senza riserve la favola del generale francese che induce sotto la minaccia deifucili San Gennaro ha manifestare il suo prodigio (fig. 15). La cosa grave è che aquesta falsità crede anche Giuseppe Galasso, uno dei più celebri storici italiani, co-me ha di recente manifestato in pubblico nel teatro Bellini nel corso di un’affollataconferenza.

Dobbiamo essere grati a Maurizio Ponticello che, nel suo recente libro dedicatoal patrono napoletano ha dedicato un corposo capitolo all’episodio, sottolineandoche tra le carte ufficiali della Deputazione del Tesoro, dove puntigliosamente sono

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Fig. 15 - San Gennaro minacciato dai Francesi

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annotati tutti gli scioglimentidal 1389 ad oggi, non vi è al-cuna traccia del prodigiosoevento “a comando” citato vi-ceversa su tutti i libri di storia.

Quando si parla di SanGennaro a Napoli e si mettonoin luce falsità ed errori, biso-gna stare attenti, perché il pa-trono gode della stima svisce-rata non solo del popolo, maanche di molti intellettuali.

Per scoprire uno degli erro-ri più abusati: Napoli città deisangui, basta aver frequentatocon profitto le elementari, ap-prendendo che la parola sanguenon possiede il plurale; per ac-

certarsi che la decapitazione del santo(fig. 16), avvenuta secondo la leggenda il 19 set-tembre del 305, regnante l’imperatore Diocleziano, bisogna aver frequentato le scuolemedie ed appreso durante le ore dedicate alla storia che a quella data l’imperatore eradiverso; infine per intendere l’errore di liquefazione del grumo di sangue, bisogna averfrequentato le lezioni di fisica al liceo, acquisendo la nozione precisa di liquefazione,che consta nel passaggio di un corpo dallo stato gassoso allo stato liquido.

Vorrei concludere questa breve carrellata sul presunto prodigio, non parliamomai di miracolo, perché la stessa Chiesa non lo riconosce come tale, proponendo allettore una mia missiva sull’argomento, pubblicata nel 2015 su numerosi giornali, inprimis il settimanale L’espresso, nella quale mettevo in risalto(e da allora il fenome-no si è ripetuto costantemente ad ogni scadenza canonica o fuori programma) che ilsangue prelevato dalla cassaforte è già sciolto, cosa che probabilmente avviene du-rante l’anno decine di volte e basterebbe posizionare una micro telecamera a raggiinfrarossi nella cassaforte per accorgersi del ripetersi a catena dell’evento. Per il pre-stigio di San Gennaro sarebbe un brutto colpo, ma finalmente la nostra città potreb-be entrare a testa alta nel mondo contemporaneo.

L’Espresso 20 giugno 2015

San Gennaro, ora basta!Anche durante la visita di Lech Walesa, pochi mesi dopo la liquefazione avvenu-

ta in occasione della venuta a Napoli di papa Francesco, le ampolle di san Gennaro

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Fig. 16 - Domenico GargiuloDecapitazione di San Gennaro nella Solfatara di Pozzuoli

Napoli, collezione della Ragione

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hanno ripetuto il prodigio (non chiamiamolo miracolo, perché anche la Chiesa nonlo riconosce) divenuto oramai molto, troppo frequente.

Lo stesso pontefice a marzo era stato molto riservato sul fenomeno e pare che fi-nalmente, grazie al suo coraggio, si è prossimi ad una pronuncia ufficiale sui mira-coli… in serie che si producono a Medjugorie, dove hanno dato luogo ad un turismoreligioso ed un giro di affari da far impallidire la stessa Lourdes.

In attesa che indagini serie, eseguite da una commissione internazionale discienziati, sulle tante ampolle di sangue, appartenenti a santi meno famosi, ma so-prattutto di proprietà di nobili famiglie napoletane, possa chiarire definitivamente lanatura del fenomeno, sarebbe troppo indiscreto collocare una micro telecamera nellacassaforte dove sono conservate le ampolle del patrono di Napoli ed osservare se percaso durante i mesi trascorsi tra un prodigio e l’altro, la liquefazione non si ripetacontinuamente e non unicamente nelle occasioni canoniche?

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Capitolo 9

I primati di Napoli ed il dramma dell’emigrazione

Negli ultimi decenni i mass media, tutti di proprietà monopolistica del Nord,hanno non solo falsificato i libri di storia, ma hanno cercato di diffondere lo stereoti-po di un Meridione costituito da fannulloni e parassiti, alle cui esigenze debbonoprovvedere le regioni settentrionali, prospere e laboriose.

Solo di recente alcuni seri ricercatori,come Gennaro De Crescenzo (fig. 1), assi-duo frequentatore di archivi ed alcuniscrittori come Pino Aprile, autore di unpamphlet di successo, che coniuga datistorici inoppugnabili ad una travolgentevena polemica (fig. 2), hanno cercato di ri-leggere con onestà gli avvenimenti delpassato, soprattutto il fenomeno del bri-gantaggio, che vide un tacito accordo tra inotabili latifondisti e la borghesia impren-ditoriale del Nord.

Le campagne erano in rivolta ed il brigantaggio faceva del Sud un vero e proprioFar West.

Furono i soliti gattopardi, padroni dei voti delle masse popolari, ad aderire allescelte politico-economiche post-unitarie, privilegiando finanziariamente lo sviluppodelle industrie padane a costo di penalizzare per sempre ogni possibilità di sviluppodel Meridione, i cui abitanti si videro costretti, a decine di milioni, ad abbracciare lascelta dell’emigrazione.

Fu una diaspora di dimensioni bibliche, un vero e proprio genocidio del qualevanamente troverete anche un accenno nella storiografia ufficiale.

Il dato più importante da cui bisogna partire è che all’indomani del plebiscito,quando il nuovo regime cominciò ad assumere i primi provvedimenti finanziari, sirese conto che il Regno delle due Sicilie aveva in cassa 443 milioni, più del doppiodei bilanci di tutti gli altri Stati della penisola che, tutti assieme, raggranellavano 220milioni.

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Fig. 1 - Gennaro De Crescenzo

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Tutto ciò a dimo-strazione lampanteche l’economia era piùche florida, esportan-do legname, grano,frutta, olio, primizie,vini pregiati, carne,uova, pasta, latte edagrumi, garantendo uncostante flusso di va-luta estera.

E se passiamo dal-l’agricoltura all’indu-stria il divario era an-cora più accentuato,dalla produzione di

pelletteria agli strumenti di precisione, mentre la grandiosa fabbrica di Pietrarsa sfor-nava a getto continuo colossali macchinari, dalle locomotive alle macchine a vapore,dalle gru ai ponti di ferro alle rotaie, a parte pezzi di artiglieria, bombe e granate.

Nel frattempo i cantieri di Castellammare producevano centinaia di navi che fa-cevano della flotta borbonica una delle più importanti del Mediterraneo, oltre a mol-te altre commissionate dall’ estero.

Nella zona di Amalfi era tutto un susseguirsi di cartiere e di opifici tessili e nonpoche erano le risorse minerarie; a parte lo zolfo in Sicilia, si estraeva ferro, piombo,antracite e talco.

Ma i veri primati di Na-poli indiscussi sono nel cam-po della cultura, dell’ediliziae della scienza. Accenniamoai principali:

Nel 1738 si diede inizioai lavori per la Reggia di Ca-podimonte.

Nel 1751 Ferdinando Fu-ga ebbe l’incarico per la co-struzione dell’Albergo deiPoveri (fig. 3), una strutturagigantesca destinata ad acco-gliere tutti i poveri del Regno.

Nel 1737, in soli sei me-si, quarant’anni prima della

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Fig. 2 - Nostalgia e orgoglio

Fig. 3 - Napoli, Albergo dei poveri

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Scala di Milano, si completòil Teatro San Carlo (fig. 4),che divenne l’indiscussotempio della lirica europea.

Nel 1738 vennero allaluce i parchi archeologici diErcolano e di Pompei, cheattirarono per decenni gli en-tusiasti visitatori del GrandTour.

Nel 1743 fu fondata laceleberrima Fabbrica di por-cellane di Capodimonte.

Nel 1771 fu affidato ilcompito a Luigi Vanvitelli dicostruire a Caserta una reggia (fig. 5) più bella e sfarzosa di quella di Versailles.

Nel 1778 cominciò a funzionare a Palazzo Reale la celebre Fabbrica degli araz-zi. L’anno successivo nacque la manifattura di San Leucio, una singolare fabbricagovernata da rivoluzionarie regole socializzatrici.

Nel 1798 la spiaggia di Chiaia si trasformò in una splendida Villa Reale. L’annosuccessivo sorsero i colossali Granili.

Nel 1818 prese il mare il primo battello a vapore e l’anno successivo fu edificatoa Capodimonte il primo Osservatorio astronomico (fig. 6) d’Europa.

Nel 1837 Napoli fu la prima città italiana ad avere l’illuminazione a gas. Ma lagrande impresa fu il 3 ottobre 1839 l’inaugurazione della linea ferroviaria Napoli-Portici, la seconda al mondo, alla quale in breve si aggiunsero altri tratti che miseroin comunicazione la capitale con Caserta, Capua, Cancello, Nola e Sarno. La rete

stradale nel 1855 eradi ben 4587 miglia.

Nel 1841 sorse adErcolano l’Osservato-rio Vesuviano. Nel1852 nacque la primalinea telegrafica Na-poli-Gaeta ed in brevefurono in contatto tut-te le principali città,comprese Reggio Ca-labria e Messina attra-verso una linea sotto-marina.

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Fig. 4 - Teatro San Carlo

Fig. 5 - Reggia di Caserta

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Nel 1845 si tenne il VII Con-gresso degli Scienziati. I presidi sa-nitari erano all’avanguardia in Eu-ropa ed importante fu anche la fun-zione dei Monti di Pietà che contra-starono attivamente il fenomenodello strozzinaggio.

In campo culturale ricordiamol’Accademia delle Belle Arti, il fa-moso Conservatorio di Musica euna prestigiosa Università.

Molteplici furono le attività ar-tigianali, dalla coniazione di mone-te alla legatoria di lusso, dalla lavo-razione del corallo e della maiolica

all’intaglio dell’avorio e all’elaborazione di gioielli d’oro e argento.Potremmo continuare a lungo, ma vogliamo concludere con i tanti teatri, più di

Parigi, che erano sempre stracolmi e testimoniavano la gioia di vivere di un popoloche scaricava così i suoi timori e le sue insoddisfazioni ed i quotidiani stampati ognigiorno, più di Londra.

Vogliamo ora proporre al lettore delle riflessioni sul fenomeno dell’emigrazione,intrecciate a ricordi sulla storia italiana ed a considerazioni sui nuovi flussi che inte-ressano il nostro paese.

Dopo la repressione del brigantaggio l’economia meridionale subì un vistosotracollo e per molti, quasi tutti, l’unico modo per sopravvivere fu quello di lasciarela propria terra per procacciarsi il pane quotidiano e dare un futuro ai propri figli. Lostato sabaudo, dopo aver combattuto la rivolta con metodi militari, rendendosi re-sponsabile di eccidi spaventosi, incoraggiava questo silenzioso genocidio del qualeinvano cercheremo notizie nei libri di storia.

La meta preferita era l’America e nel corso di pochi decenni oltre 25 milioni diItaliani sono stati costretti all’emi-grazione oltre oceano e soltanto po-chissimi sono ritornati; la maggiorparte di questi disperati provenivadalle regioni meridionali salvo unasparuta pattuglia di veneti. Il puntodi partenza era il porto di Napoli(fig. 7) da dove partivano i famosi“bastimenti” carichi fino all’invero-simile di un’umanità lacera e spa-ventata.

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Fig. 6 - Osservatorio astronomico

Fig. 7 - Palazzo della Immacolatella nel porto di Napoli

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“Ah, ce ne costa lacrime st’America a nui napuli-tane… “ è il primo verso di una celebre canzonetta:“Lacrime napulitane” (fig. 8), composta nel 1925 daLibero Bovio (fig. 9), in cui l’autore cercò di sintetiz-zare il dolore e la paura di un giovane emigrantesperduto nell’immensa solitudine di New York. Ilprotagonista, bisogna precisarlo, si era deciso ad at-traversare l’oceano per un tradimento della donnaamata, un motivo futile rispetto a quello che avevaspinto al grande passo milioni di connazionali.

Un’altra celebre canzonetta del 1919 “Santa Lu-cia lontana” (fig. 10) parte proprio con: “Partono ibastimenti”. L’autore è E. A. Mario, celebre per averscritto “La leggenda del Piave”.

L’abbondanza di composizioni canore sull’argo-mento non deve sorprendere perché l’emigrante,scorrendogli la melodia nelle vene, reggeva una vali-gia di cartone ma quasi sempre portava a tracolla una fisarmonica.

Continuavano a celebrare le proprie feste come la processione di San Gennaroed organizzavano la festa di Piedigrotta, nella quale fu lanciata “Core ingrato” com-posta nel 1911 da Cordiferro e Cardillo.

Straordinaria è poi la vicenda di Gilda Mignonette (fig. 11) che, nel 1926, si tra-sferì dalla natia Duchesca alla rumorosa Little Italy e venne eletta a furor di popolo“La regina degli emigranti” grazie al successo planetario della sua “’A cartulina ’eNapule” (fig. 12).

I nostri connazionali, dopo un interminabile navigazione vissuta nel degrado, ve-nivano muniti di cosiddetto “Passaporto rosso” e venivano sbarcati nell’isolotto di

Ellis Island (fig.13), posto davanti a New York, dovela polizia li sottoponeva ad un controllo simile a quelloche si riserva al bestiame. Chi superava la selezione,lentamente con l’aiuto di parenti o amici già da temposul posto, riusciva ad arrangiare una sistemazione ed atrovare un lavoro, sempre faticoso e sfibrante.

A qualcuno la fortuna arrideva ed ecco alcuni di-ventare magnati, artisti, persino santi, ma anche gan-gster e mafiosi. Ma a fronte di un’organizzazione cri-minale come la Mano nera, di origine siciliana, acombatterla vi era un super poliziotto, Joe Petrosino(fig. 14), figlio di emigranti originari di Padula.

E se Al Capone (fig. 15) era figlio di emigranticampani egualmente erano di origine italiana Fiorello

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Fig. 8 - Lacrime napulitane

Fig. 9 - Libero Bovio

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La Guardia, che diventerà sindaco di NewYork, o Frank Sinatra, celebre cantante, oFrank Capra, uno dei più celebri registi,oltre a tanti altri scrittori, poeti e saggistidi altissimo livello. Generazioni di italianiche, inclusi coloro che avevano scelto co-me meta Argentina e Brasile, sono statiuna notevole fonte di ricchezza per il no-stro paese. Valga un solo esempio: tra il1900 e il 1922 i soli meridionali, tramite ilBanco di Napoli e quello di Sicilia, spedi-rono ai loro parenti rimasti in patria ben 20miliardi di lire oro e si calcola che unaeguale quantità di denaro sia stata speditaper posta o consegnata a mano. Un fiumedi soldi che ha permesso di sopravvivere amilioni di diseredati.

Con il fascismo il fenomeno rallentòvistosamente per riprendere negli anni ’60

e ’70 nel periodo del boom economico,questa volta verso il Nord e le ricche re-gioni europee: Germania, Belgio, Svizze-ra, dove la manodopera meridionale veni-va maltrattata non solo all’estero ma anchenella civile Padania, dove abbondavano icartelli “Non si affitta ai meridionali”, de-finiti sprezzantemente terroni.

Oggi esportiamo cervelli e sono i mi-gliori ad andarsene, regalando conoscenzeed energie vitali ad altri paesi, dopo averspeso cifre ingenti per farli studiare e spe-cializzare.

A fronte di questa emigrazione di lus-so da alcuni decenni l’Italia è divenuta laterra promessa per milioni di disperati infuga dalla fame, dalla siccità e dalle guer-re. Un fiume in piena che fra poco saràdifficile da arginare, fino a quando l’Eu-ropa, nel suo miope egoismo, non decide-

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Fig. 10 - Santa Lucia luntana

Fig. 11 - Copertina Gilda Mignonette

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rà di varare un gigante-sco piano Marshall percreare, soprattutto inAfrica, condizioni di so-pravvivenza investendonell’irrigazione, nellasanità e nell’istruzione.Sono disperati che ri-schiano la vita tra le on-de, dopo aver percorso apiedi centinaia se nonmigliaia di chilometrinel deserto per raggiun-gere la costa libica dove

vengono taglieggiati da autentici negrieri che li spogliano di ogni oggetto prezio-so, oltre a pretendere cifre vergognose per fargli rischiare la vita su barconi rattop-pati, pronti ad affondare alla prima onda più alta del solito. Nessuno saprà mai ledimensioni di quel gigantesco cimitero sottomarino che raccoglie pietosamente iresti di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che sognavano la terra pro-messa.

Per i fortunati che toccano il territorio italiano sono pronte strutture simili più adun lager che a centri di accoglienza dove, stipati fino all’inverosimile, attendono permesi sotto al sole e se non sono profughi lo Stato tenta in tutti i modi di rimpatriarli.

Un’altra porta d’ingresso è quella orientale, preferita dalle popolazioni slave edagli ucraini. Moltivengono con visti tu-ristici e poi scompaio-no nel nulla, cercandoa qualsiasi prezzo unlavoro per sopravvi-vere: badante, mano-vale, contadino.

Una serie di leggiscriteriate ha cercatonegli anni di reprime-re unicamente il feno-meno invece di tenta-re di regolarlo, attra-verso quote annualisecondo le richiestedel mercato, come si

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Fig. 12 - Celebre canzone

Fig. 13 - Ellis island

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comportano molti paesi dagli StatiUniti all’Australia.

Questo stolto comportamento, oggiche la storia si ripete all’incontrariocon legioni di disperati che vedono nel-le nostre città e nelle nostre campagneuna sorta di paradiso terrestre, dipendedall’aver rimosso gli anni in cui l’Italiaera terra di migranti e di non aver av-viato un serio programma di integra-zione, addirittura nemmeno per i figlidegli stranieri in regola nati in Italia aiquali non viene riconosciuta la cittadi-nanza.

Il problema dell’integrazione tra italiani ed il fiume di stranieri che, anno dopoanno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un solo luogo ha trovato piena ap-plicazione: nei penitenziari, soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano, neiquali ormai gli “alieni” (ma sono nostri fratelli) costituiscono la maggioranza.

Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel mondo esternocosiddetto civile; tutti si considerano membri di una grande famiglia e chi non cono-

sce la nostra lingua la impara in fretta acquisendo anche la cadenza dialettale locale.Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire perché non si può anda-

re contro il corso della storia.Noi abbiamo bisogno della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è

una fortuna non una calamità che molti scelgano l’Italia, antica terra di emigrazione,divenuta oggi la terra promessa.

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Fig. 14 - Joe Petrosino, francobollo

Fig. 15 - Al Capone

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Il nostro passato è dimenticato, seppellito nel più profondo inconscio complici leistituzioni che non hanno realizzato un museo che ci rammenti gli anni in cui erava-mo carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro, anche il più umile e pericoloso. Unmuseo dell’emigrazione per ricordare il passato e per spegnere in noi qualsiasi semedi razzismo e di becero leghismo. E quale sede più degna del porto di Napoli doveper un’eternità sono partiti i bastimenti carichi di disperazione e di nostalgia, di an-sia di riscatto e di antica dignità.

Vorrei concludere riproponendo una mia lettera (fig. 16), intitolata Favoletta perbambini, che nel 2006 venne pubblicata dai principali giornali italiani.

Prima che a scuola i nostri figli imparino la storia risorgimentale sui libri scritti daivincitori, vogliamo provare a raccontare loro una favola, la sera prima di addormentar-si, quando finalmente si sono spenti televisione, computer e videogiochi?

Un giorno un piccolo re valdostano piemontese, che non parlava italiano mafrancese, che portava il nome di una regione della Francia, la Savoia e le cui cassestatali erano poco menoche disastrate decise divoler diventare il re ditutti gli italiani, dalle Al-pi alla Sicilia, in un mo-mento storico che il con-cetto di Italia era notosolo a Mazzini ed a po-chi altri intellettuali.

Avrebbe volentieriusufruito di un’investitu-ra divina, ma gli unti dalSignore erano di là da ve-nire e nelle alte sfere, al-meno ad ovest del monteArarat, da secoli non sicondividevano menzogne così sfacciate. Si decise ad adoperare metodi sbrigativi edefficaci e si rivolse ad un guerrafondaio di professione, nativo di Nizza e dal carismaindiscutibile. Lo armò, gli fornì denaro e protezione e lo inviò a liberare… ed a civiliz-zare il Regno delle due Sicilie ed a cacciare i Borbone. Fu necessaria qualche strage,alcuni massacri, numerose violenze: Bronte, l’Aspromonte, ecc., ma ne valse la pena.

Il nuovo re non era mai stato a sud di Roma, non conosceva Amalfi o Barletta, astento sapeva che la Sicilia era un’isola, ma ne ignorava la lunga storia, certo avevasentito parlare di Napoli, che, a differenza di Torino, piccola città provinciale, erauna grande capitale europea dell’arte e della cultura. Ma tutte queste considerazionisono trascurabili quando, non richiesti, si devono liberare (ma da cosa?) intere popo-lazioni.

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Fig. 16 - Incontro di Teano

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Terminata l’opera di civilizzazione, si provvide a trasferire nelle casse piemon-tesi il Tesoro napoletano e a distruggere in poco tempo l’industria locale e ad impo-verire le risorse naturali ed il territorio. Si convinsero, nell’arco di alcuni decenni, al-cune decine di milioni di meridionali che in America si viveva meglio ed era il casodi trasferirsi nel nuovo mondo. Un genocidio in piena regola di cui invano troveretetraccia nei libri di storia.

La favoletta è terminata, il bambino dorme, ma speriamo che quando si sveglieràricorderà qualcosa del racconto.

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Capitolo 10

La nascita del cinema e della televisione ed il trionfo del cafè chantant

La nascita del cinema italiano è avvenuta all’ombra del Vesuvio, anzi, ad esserepiù precisi, sulla verde (allora) collina del Vomero, quando un secolo fa sorgeva laprima casa discografica made in Italy.

Si tratta di un altro dei tanti primati della città di cui si è perso il ricordo, perchénon basta certo una piccola targa per imprimere nella mente del distratto viandantequella straordinaria avventura rappresentata per anni da studios all’avanguardia e ge-nerazioni di tecnici ed artisti alternatisi nella produzione di molteplici pellicole proiet-tate nei cinematografi di tutta la penisola.

Siamo ai primi del Novecento, in unmomento di grandi cambiamenti a Napoli,che cerca di digerire la perdita del ruolo dicapitale, attivandosi nel cambiare il voltodella città attraverso il piccone del Risana-mento, cercando di liberarsi dalla morsa delmalaffare con l’inchiesta Saredo, che met-terà in luce un perverso intreccio di interes-si tra politica e camorra, purtroppo perpe-tuatosi fino ai nostri giorni. Sono i giornidella nascita dell’Ilva, che fornirà lavoro amigliaia di addetti, collaborando alla cre-scita di una coscienza operaia, ma che pri-verà per sempre i cittadini di una spiaggiaformidabile, sono gli anni della Belle Epo-que, dei divertimenti folli, del pullulare difermenti artistici e letterari in perfetta sinto-nia con i circoli culturali europei.

In questo fervore creativo si colloca la figura di Gustavo Lombardo (fig. 1), ungiovane studente universitario, che dopo un’esperienza nel campo del noleggio deifilm, una novità assoluta perché allora gli esercenti dovevano acquistarli, rilevò glistabilimenti della Poli film, ed ampliandoli pose le fondamenta per la nascita di unaCinecittà partenopea.

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Fig. 1 - Lapide Gustavo Lombardo

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In poco tempo sigireranno oltre cin-quanta pellicole, carat-terizzate non solo daun’ambientazione lo-cale, ma anche da unrespiro nazionale, lequali vedranno tra leprincipali interpretiLeda Gys (fig. 2), de-stinata a divenire unadelle più celebri attricidel cinema italiano, al-l’epoca rigorosamentemuto e la moglie delsuo produttore.

Alcuni film erano delle traduzioni per lo schermo di celebri sceneggiate e losfondo per il racconto è rappresentato dal lungomare, dai vicoli, dalle feste popolari,dal porto, che in quei tristi anni significava emigrazione verso l’America, la metapreferita anche di tanti film accolti con un entusiasmo delirante dalle comunità ol-treoceano, non solo dai napoletani, ma da tutti i meridionali, i quali riconoscevanoancora in Napoli la loro capitale morale.Spesso famosi tenori seguivano la tourneeoffrendo la loro voce per la colonna sonora,ma gli spettatori si accontentavano di poco enonostante il muto, le immagini avevano unatale forza da sfociare nel sonoro…

In pochi anni in città si moltiplicano lecase di produzione più o meno piccole, quasitutte a livello artigianale, a volte addirittura aconduzione familiare, tra queste ricordiamola Vesuvio film di Roberto Troncone sortanel 1908 in una ridente villetta del Vomero,con i suoi attrezzati teatri di posa e le sue di-ve come la mitica Francesca Bertini (fig. 3).All’inizio degli anni Venti, la Dora Film (fig.4) dei Notari (Nicola nelle vesti di produtto-re, regista e operatore, sua moglie Elvira (fig.5) in quelle di soggettista e regista ed il figlioEduardo, col soprannome di Gennariello, inquelle di attore) sopravvisse alla crisi del-

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Fig. 2 - Leda Gys

Fig. 3 - Locandina cinematografica

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l’epoca conquistando le folle de-gli emigrati in America. Le se-quenze dei celebri A santa notte oÈ piccerella si sincronizzavanosull’accompagnamento del piano-forte, mentre le didascalie espri-mevano con un lessico che imita-va la forma spezzata del dialetto.Il bianco e nero stilizzava una Na-poli insieme arcadica e tragica,mentre gli attori recitano con sen-timentale impeto. Si gira quasitutto all’esterno, perché negli in-terni vi è un insormontabile pro-blema di illuminazione.

In contemporanea alla produzione di film sorgono come funghi i luoghi dellafruizione: i cinematografi. La prima a nascere è la Sala Recanati, sorta nel 1897, acui seguirono la Sala Roma in Galleria, il Salon Parisien in piazza Municipio, il Vit-toria in via Roma e l’Olympia in via Chiaia.

Tra le altre merita un cenno la Sala Cattaneo, nata dalla trasformazione di unosquallido baraccone dove si esibivano donne barbute ed uomini nerboruti. Il proprie-tario si arricchì rapidamente, aprì un nuovo locale in via Poerio: la Sala Iride e si co-struì a Posillipo una splendida dimora, divenuta oggi l’ospedale Fatebenefratelli.

Egli fu anche l’artefice del primo tentativo di dare voce al muto collocando dueattori ai lati dello schermo con degli altoparlanti al posto delle orchestrine, che ag-giungevano un tocco di musica ad alcune scene.

Poi nel 1928 la casa cinematografica di Lombardo si trasferisce a Roma dovesorgono con investimenti dello Stato grandi stabilimenti ed il sogno della Hollywo-od del Vesuvio tramonta tristemente, ma il cinema continuerà a nutrirsi della napole-tanità come di una linfa vitale e vizi e difetti dei napoletani faranno da musa ispira-trice ad infiniti film di grande successo, da Le quattro giornate di Napoli a Il camor-rista, da Carosello napoletano a La Sfida, da L’oro di Napoli a Le Mani sulla città epotremmo continuare a lungo, anche escludendo i più di cento film di Totò, un epife-nomeno, un marziano, che va considerato come un pianeta a parte. Il cinema napole-tano è stato un infinito palcoscenico di situazioni e sentimenti ed ha rispecchiato fi-no in fondo la sua innata carica di pathos. Fantasia ed ironia, antica saggezza e gran-de euforia, ma anche solidarietà e sofferenza si amalgamarono sapientemente con lapoeticità delle sceneggiature, la varietà dei temi, la genialità artigianale, l’arte innatae versatile dei grandi interpreti e l’indiscutibile spettacolarità dei panorami. Dal feli-ce connubio tra la musica, le arti, la poesia, il teatro ed il cinema è risultato un affa-scinante prorompente messaggio culturale che subito si è diffuso fuori dal contesto

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Fig. 4 - Dora film

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partenopeo, per dive-nire universale e sim-bolico dell’essere Ita-liani. La contradditto-ria energia sprigiona-ta dalla città, tantevolte deprecata, è sta-ta infatti capace diprodurre per il cine-ma un patrimonioinestimabile di imma-gini, che narrano storie indissolubilmente impregnate di cruda realtà, capricciosafantasia e sferzante ironia, antica saggezza e facile euforia.

Nel dopoguerra vi sarà un curioso rigurgito con la velleitaria rinascita della Par-tenope film ad opera di Achille Lauro, l’ineffabile Comandante, che produrrà unfilm studiato apposta per Eliana Merolla (fig. 6), una bonazza della quale il vecchioarmatore si era infatuato e che sposerà una volta divenuto vedovo.

Rossellini in Paisà dipinge il senso dell’abbandono morale, del degrado, ma an-che del desiderio di rinascere, suscitati dalla guerra fascista. Stessi temi sviluppati daEduardo nella poetica Napoli milionaria. Vittorio De Sica gira L’oro di Napoli, trattodai racconti dello scrittore Giuseppe Marotta. Ettore Giannini confeziona il capola-voro di Carosello napoletano (1953), che riesce a fondere lo spirito “alto” e quello“basso” dell’anima popolare napoletana: uno spettacolo totale, in cui canto, danza erecitazione s’intrecciano finemente in uno sfavillante caleidoscopio di storia e natu-ra, sogno e realtà. Con La sfida, premiato alla Mostra di Venezia del 1958, France-sco Rosi coniuga denuncia e suspense con un rigore ed una tensione degni del noiramericano e cinque anni dopo, con Le mani sulla città, accentua l’indignazione civi-le puntando il dito contro l’intreccio politico che favorisce il malaffare.

Accanto ai film d’autore, esplode un nuovo boom di film popolari: un gran nu-mero di film a basso costo, facile presa e grande guadagno, sprezzantemente definitidalla critica “lacrimevoli”, che però venivano incontro al desiderio del pubblico diritrovarsi con il proprio dialetto, le proprie canzoni, i propri volti e di appassionarsi astorie verosimili quanto improbabili, prevedibili quanto commoventi. I MaIaspina diRoberto Amoroso, costato due milioni di lire, ne incasserà trecentottanta, di cui qua-rantacinque provenienti da due sale di New York.

Segnato dalle critiche, il cinema napoletano si avviava intanto al tramonto. Il pa-norama produttivo diventa man mano desolato. Si distingue ancora Salvatore Pisci-celli con Immacolata e Concetta (1979) e Le occasioni di Rosa (1981) o Antonio Ca-puano con le sue desolanti denunce sociali.

Il film napoletano ha perso la battaglia contro una critica che non voleva più “so-le, pizza e mandolino” (ma cosa voleva?) e si è rifugiato nel piccolo schermo dove

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Fig. 5 - Elvira Notari

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ogni giorno, c’è spazio per Totò, Peppino De Filippo, Tina Pica e tanti altri eroi dellanapoletanità: I due orfanelli, Totò al giro d’Italia, Fifa e arena, Totò cerca casa, L’im-peratore di Capri, Totò cerca moglie... in questi vilipesi capolavori di massa il fuocodella vita e della recita si bruciano nel trionfo della vitalità sottoproletaria, che non sipiega alla speranze, né apre verso un lieto fine. L’arte d’arrangiarsi, la fame, l’im-broglio, la beffa, l’avidità sessuale perenne dichiarano guerra a tutte le istituzioni:Totò resta così per sempre il grande ambasciatore della napoletanità non addomesti-cata, il portabandiera irredimibile dell’indiavolata vitalità del sottosviluppo parteno-peo, che è cinema e dramma nello stesso tempo.

La radio non ha primati da vantare, perché le prime trasmissioni ufficiali italianepartirono da Roma il 6 ottobre 1924, mentre Radio Napoli nacque, dopo alcuni mesidi esperimenti, il 28 ottobre 1926, prima in un appartamento di via Cesario Consolee poi in una sede più adeguata in via Egiziaca a Pizzofalcone, dove dispose di un’or-chestra stabile per la canzone napoletana.

Anche la prima televisione privata nasce a Napoli, nonostante le pretese avanza-te da Tele Biella. Il merito di questo altro primato che può vantare la città è del vul-canico ingegnere ed inventore partenopeo Pietrangelo Gregorio (fig. 7), il quale, il23 dicembre del 1966, attivò il segnale via cavo di Telediffusione italiana – Telena-poli, il cui marchio venne ufficialmente registrato 4 anni dopo, il 17 dicembre 1970;per trasformarsi poi nel 1976 in Napoli Canale 21, grazie al sostegno economicodell’editore Andrea Torino.

L’ingegnere fu un rivoluzionario del tubo catodico, in un momento in cui impe-rava solitario il monopolio della televisione di Stato. Egli trasformò un cantinato inuno studio televisivo e sperimentò una televisione alternativa di quartiere, realizzatada un cittadino per i cittadini, dando a tutti la possibilità di esprimersi.

Gregorio, ancora attivo nel settore della web tv, come ci rievoca in un’intervistaesclusiva, collegò ad un amplificatore le antenne del palazzo di piazza Cavour doveabitava e poi fece degli accordi congli esercizi commerciali della zona,molti dei quali allestirono delle saleper assistere alle trasmissioni, che oc-cupavano alcune ore serali e si basa-vano su notizie locali, canzoni, bar-zellette, cabaret e piccoli messaggipubblicitari. Erano periodi eroici, nonsi poteva registrare e tutto avvenivain diretta. In contemporanea debutta-vano sull’emittente gruppi comici de-stinati a divenire famosi come i Cara-binieri di Lucia Cassini, Renato Ruti-gliano ed Aldo De Martino.

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Fig. 6 - Eliana Merolla

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Poi venne Filo diretto una trasmissioneinnovativa durante la quale si telefonava alpubblico che diveniva il vero protagonista,lamentandosi di ciò che non funzionava incittà ed a volte chiedendo aiuto. Le istituzio-ni, prima guardinghe, in seguito erano attenteai contenuti del programma ed a volte esaudi-vano le richieste pubbliche degli spettatori.

Gregorio è anche l’autore della prima tra-smissione a colori, avvenuta il 24 maggio1971 ed è titolare di oltre 300 invenzioni dicui ha depositato il brevetto.

Nel 1973 Telenapoli poteva vantarsi diessere la più importante televisione via cavod’Europa, contando su 380 chilometri di ca-vo, 6 studi televisivi e 150 dipendenti, tra cui15 giornalisti.

Poi con la liberalizzazione dell’etere el’abolizione della diffusione via cavo tuttocambiò. Le televisioni libere divennero com-merciali, entrò in campo Berlusconi ed il mer-

cato cambiò per sempre per divenire ciò che, nel bene e nel male, è ai nostri giorni. Sul finire del XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e

della vita spensierata, i caffè chantant valicarono le Alpi per essere importati anchein Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè concerto coincisecon quella della canzone napoletana. Nel 1890 per merito dei fratelli Marino, che ca-pirono l’importanza di un’attività commerciale redditizia da unire al fascino dellarappresentazione dal vivo, venne infatti inaugurato l’elegante Salone Margherita(fig. 8), incastonato nella Galleria Umberto I.

L’idea fu vincente e ricalcò totalmenteil modello francese, persino nella linguautilizzata: non solo i cartelloni erano scrittiin francese, ma anche i contratti degli arti-sti e il menu. I camerieri in livrea parlava-no sempre in francese, così come gli spet-tatori: gli artisti, poi, fintamente d’oltralpe,ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi ealle vedettes parigine. È chiaro come laclientela che affollasse il Salone Margheri-ta non fosse gente del popolino: in ogni ca-so, per i più disparati gusti, sorsero altri ca-

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Fig. 7 - L’ingegner Gregorio nello studio di Telenapoli

con Pasquale Squitieri e Claudia Cardinale

Fig. 8 - Salone Margherita in una stampa dello ’800

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fè concert come l’elegante Gambrinus, l’Eden, il Rossini, l’Alambra, l’Eldorado, ilPartenope, la Sala Napoli ed altri ancora che ricalcavano spesso, anche nel nome, icafè chantant (fig. 9) parigini. Anche altri bar di Napoli, che in passato non presenta-vano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando numeri di varietàmisti a canzoni.

Solitamente gli spettacoli proposti erano presentati in successione, con un inter-vallo tra primo e secondo tempo del susseguirsi di rappresentazioni. Solo verso la fi-ne del primo tempo qualche perso-naggio noto appariva in scena ma ilclou veniva raggiunto al termine,quando il divo eseguiva il suo nume-ro. Importanti e famosi artisti cheiniziarono la loro carriera proprionei caffè concerto furono Anna Fou-gez (fig. 10), Lina Cavalieri, LydiaJohnson, Leopoldo Fregoli, EttorePetrolini, Raffaele Viviani.

Il cafè-chantant divenne in Italianon solo un luogo ed un genere tea-trale, ma anche qui, come in Francia,il simbolo della bella vita e dellaspensieratezza, nel pieno della coin-cidenza con la Belle èpoque (fig. 11).

Al successo della canzone napo-letana si accompagna la nascita delcafè chantant con l’inaugurazionedel Salone Margherita, una settima-na dopo l’apertura della GalleriaUmberto I, che in breve diverrà ilcuore pulsante della cultura e dellamondanità cittadina. Il nuovo localeoccuperà gli spazi sotterranei ed ot-tenne in breve lasso di tempo un successo internazionale, grazie al coraggio impren-ditoriale dei fratelli Marino, che sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri ve-dettes internazionali, come la Bella Otero (fig. 12) o Cleo de Mérode, alle quali si af-fiancarono non meno brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur sfoggian-do modelli e pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato quel tipo di spet-tacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto.

Assursero a grande notorietà anche molti comici come Gill, Pasquariello e Mal-dacea o magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira Donnarumma, laprediletta di Libero Bovio.

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Fig. 9 - Cafè chantant in un disegno di Galante

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Sciantosa (fig. 13) deriva dal francesechanteuse che vuol dire cantante, ma ancheprimadonna, attrazione, fantasia: quella cheoggi si definirebbe una star.

Sull’esempio del cafè chantant di Parigi,negli anni che precedettero la prima guerramondiale, a Napoli furoreggiò il caffè con-certo, con protagonista, appunto, le scianto-se. Per essere il più possibile simili alle colle-ghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomid’arte francesizzanti e gli autori di canzoniironizzavano volentieri su questa moda. Nac-quero così “A frangesa” di Mario Costa nel1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchiettadi successo di Nicola Maldacea) e infine lafamosa “Ninì Tirabusciò” (fig. 14), un nomeed un cognome certo più eleganti di Nina Ca-vatappi. Questa leggendaria figura fu creatanel 1911 da Califano e Gambardella e negli

anni Sessanta il ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello,venne rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. Inepoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate daMirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia e dal gustosopiglio popolaresco.

Il successo del cinema fu tale che anche il mitico Salone Margherita fu costrettoad inserire, all’interno della programmazione serale, alcuni minuti di proiezione diun film. Una consuetudine che si ripeterà dopo circa 50 anni con l’avvento della te-levisione: infatti, a dimostrazione che ogni nuovo mezzo espressivo cerca di scalza-re il precedente, il giovedì se-ra tutti i cinematografi inter-rompevano la pellicola incorso per permettere al pub-blico di seguire la puntata di“Lascia o raddoppia” con unallora giovanissimo, ma giàirresistibile, Mike Bongiorno.

Poco tempo dopo l’inau-gurazione della Galleria Um-berto I, al suo interno fu aper-to il Caffè Calzona. Ben pre-sto i napoletani impararono a

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Fig. 10 -Anna Fougez

Fig. 11 - Bella epoque

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conoscerlo per le serate di gala e i lucullianibanchetti ufficiali che vi si tenevano.

Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeg-giata Matilde Serao per il successo raccoltoin terra francese e fu al Calzona che, per laprima volta sul palcoscenico di un Cafèchantant napoletano, ancor prima che al Sa-lone Margherita, si esibirono le girls. Era lamezzanotte del 31dicembre 1899, quando 12bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’osè per quei tempi, salutarono l’Ottocentocome il secolo d’oro appena concluso e die-dero il benvenuto al neonato Novecento.

Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè del-la Galleria non costituivano un avvenimentoeccezionale: erano in programma ogni sera.Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa Brigida, fucalcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in particolare dalla coppiaScarano Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli spettacoli del Calzo-na avevano tale successo di pubblico che anche i giornali dell’epoca, spesso, ne pub-blicavano le recensioni. Di solito, i critici dei quotidiani seguivano solo le prime deilavori in scena nei numerosissimi teatri napoletani.

Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che praticava eper gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un punto d’incontro tra leclassi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il

caffè seduto al tavolino e sipoteva trascorrere l’intera se-rata a godersi lo spettacolo.

C’era chi, più fortunato,poteva assistere dalle finestredel suo ufficio al primo pia-no. Era il caso di Matilde Se-rao che, dalla redazione del IlGiorno, tra uno scritto e l’al-tro, volgeva volentieri losguardo verso il piccolo pal-coscenico del Calzona.

Il Caffè, con la sua attivi-tà di spettacoli e con il suopubblico eterogeneo, fornì lospunto ad una macchietta, in-

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Fig. 12 - Bella Otero

Fig. 13 - Sciantosa

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ventata dal cronista mondano delMattino Ugo Ricci. La interpretò l’at-tore Nicola Maldacea (fig. 15) nel vi-cinissimo Salone Margherita. Nel dia-logo si magnificavano le caratteristi-che del locale: <In fatto di cafè, pre-sentemente, non v’è di meglio d’ ‘oCafè Calzona…/ Questa è la mia mo-desta opinione: sempre secondo ilmio modo ‘e vedè>.

In realtà qualcosa di meglio dove-va esserci se è vero che pian piano ilCalzona perse la parte più consistentedella sua clientela in favore di altri lo-

cali, in particolare, a beneficio dei soliti Gambrinus e Salone Margherita.In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna prolifica di Aniello Califa-

no, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della Piedigrotta e, grazie alla casa di-scografica Polyphon, annunzia l’ambizioso progetto di esportare la canzone napole-tana in tutto il mondo.

Giungeranno così per i siti piùlontani la poetica del nostro animo so-gnante, l’idea di un mare divino, di unsole ammaliante, della nostre armoniegentili ed accattivanti.

Il fenomeno dei cafè chantant na-poletani fu tale che in breve tempo co-minciò ad espandersi nelle altre grandicittà italiane. La prima città ad intro-durli a sua volta fu Roma. Il perché ditale diffusione non deve stupire: cosìcome a Napoli, anche a Roma, a Cata-nia, a Milano, a Torino ed in molte altrecittà letterate d’Italia si riunivano spes-so, nei bar e nelle trattorie, cantanti epoeti che, nel corso di riunioni semipri-vate, si dedicavano al canto ed alla de-clamazione di poesie. Questa forma ar-tigianale di spettacolo fu il fertile terre-no su cui si basò il successo dei caffè-concerto, che negli ultimi anni del 1800aprirono anche nella Capitale.

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Fig. 14 - Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa

Fig. 15 - Nicola Maldacea

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Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita di Napoli,inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone Margherita e, suc-cessivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono numerosi altri cafèchantant dai nomi altisonanti ed esotici (non proprio tutti: il primo caffè concer-to della città, aperto in Via Nazionale, portava il poco allegro nome di “Cassa damorto”).

Vorremmo concludere delineando la figuradi Ersilia Sampieri (fig. 16), al secolo ErsiliaAmorosi, la prima diva del cafè chantant. Tori-nese di nascita e napoletana di adozione, usò lasua fama e la sua ricchezza per aiutare i biso-gnosi. Era orfana dei genitori, che le lasciaronoun solo capitale: una prorompente bellezza eduna bella voce. Dopo aver lavorato in una com-pagnia di bambini, la Lillipuziana, in breve sitrovò ad esibire nei locali del lungomare diMarsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, conil nome di Piccola Andalusa, si esibiva alla Bir-reria dell’Incoronata, cantando in napoletano,francese e spagnolo. Divideva il palco con gio-vani di grande talento come Elvira Donnarum-ma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Allafine girava col piattino per le offerte, facendointravedere il seno. Passò poi al Caffè ScottoJonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei loca-li italiani più rinomati con puntate anche al-l’estero.

Nel 1901, quando i fratelli Marino la scrittu-rarono al Salone Margherita, era già una diva. Virimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi eLondra, dove venne definita la “Sarah Bernharddel caffè concerto”, mentre Edoardo Scarfogliopreferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.

Gli impresari le misero a disposizione unsecondo camerino, dove procurava lavoro, tro-vava un letto in ospedale, facilitava permessi edesoneri ai militari: tutto solo per umanità.

Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un rampollo di casa Savoia omembro della massoneria.

Di lei si innamorò perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggentepoesia.

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Fig. 16 - Ersilia Sampieri

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Nel 1907 sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le vietòle attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla solitudine.

A Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio Oriente,conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem.

Resse la scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per sopravvivere siimprovvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni, poi finì all’ospiziodove si spense a 78 anni nel 1955.

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Capitolo 11

“Bisogna sventrare Napoli!”. La vera storia del Risanamento

La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più elementari re-gole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie del diffondersi nella città diNapoli di disastrose epidemie, che talune volte hanno falciato quote cospicue dellapopolazione.

Tra queste il colera è il più diffuso, esplode sempre d’estate tra luglio ed agosto,quando le temperature raggiungono iloro picchi annuali e colpisce per pri-mi gli abitanti dei bassi, dove le pre-carie condizioni di vita favoriscono ladiffusione del contagio.

L’ultimo capitolo di questo dram-ma infinito si è avuto nel 1973, quan-do il vibrione del colera, complice lascellerata abitudine di consumare mi-tili non cotti, prelevati dal mare citta-dino, ridotto da tempo ad una penosacloaca a cielo aperto, ha di nuovo di-lagato in città e provincia chiedendo ilsuo implacabile pedaggio di vittime.

E purtroppo in questa occasione imass media hanno dilatato per tutto il globo l’immagine di una città perduta, con-dannata ed irrecuperabile, per via anche dei suoi abitanti più rozzi, immortalati dalletelecamere mentre si pascevano scriteriatamente di cozze appena prelevate dagliscogli puteolenti di via Caracciolo.

Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e proprio tumulto scoppiatonel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per accaparrarsi il vaccino dal quale fuitravolto assieme ai colleghi medici e mi salvai unicamente perché iniettammo solu-zione fisiologica una volta finite le dosi o la delusione patita di vedere al mio matri-monio, celebrato a settembre col morbo da poco terminato, disertato dalla totalitàdegli invitati non napoletani spaventati e perfino da un mio zio residente a Roma,che doveva fungere da compare d’anello.

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Fig. 1 - Prima del risanamento

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Le colpe di queste infiniteepidemie, che fanno somiglia-re Napoli ad una città del terzomondo, vanno equamente di-vise tra amministratori ed am-ministrati, presenti e passati.Nei secoli nessuno è riuscito aregolare la crescita tumultuosadella città, cercando di limita-re la sproporzione tra numerodegli abitanti e superficie a di-sposizione, per cui una quotasignificativa della popolazioneè costretta a sopravvivere incondizioni precarie, sia cheoccupi degli squallidi bassi neivicoli senza luce del centro

antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a Secondigliano.Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a privilegia-

re le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione del Risanamento, che seguì al-l’ennesima epidemia del 1884, la quale provocò nel solo capoluogo 7000 vittime delcolera. Anche allora, come si è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori diogni risma, politici corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamen-to per sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha addi-rittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile, autorizzata adagire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.

Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione del Risana-mento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi di piccone an-che 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi (fig. 1). Prese forma il Rettifilo lungo quasidue chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli (fig. 2), ma non sicostruirono come promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fucostretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto,dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare entrò infibrillazione con aumenti vertiginosi dei prezzi e guadagni stratosferici per i solitispeculatori, tra i quali si distinsero i piemontesi, che realizzarono una fortuna tra ap-palti e subappalti.

Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione, che mise in lu-ce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non si riuscì a condannare nessuno.

La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi risultati, per cui non ciresta che attendere la prossima epidemia, nel frattempo ci dobbiamo contentare diuna diffusione di epatite virale che non ha eguali nel mondo occidentale.

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Fig. 2 - Pianta della zona del Rettifilo

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Lasciamo da parte i ricordi perso-nali e parliamo ora della gigantescaoperazione di speculazione finanziariache interessò la città di Napoli dopo il1884.

Il dibattito sull’ urbanistica conti-nua a essere problematicamente vivonella città. Tuttavia restano stranamentepoco conosciute o non approfondite al-cune vicende come quella del “Risana-mento” nella Napoli della seconda metàdell’Ottocento. Essa presenta agganci eriflessi con il grande piano di ristruttu-razione di Parigi (1852-1869), realizza-to dal barone urbanista Haussmann sucommissione di Napoleone III . Sembraquindi interessante riportare alla memo-ria le caratteristiche dell’operazione“Risanamento”, che seguì al colerascoppiato a Napoli nel 1884 e si concre-tizzò nel primo programma di sventra-mento del centro storico di Napoli.

Si può denominare il “quartiere angioino” l’area costituita dai cosiddetti “quar-tieri bassi”, oggetto dell’ operazione “Risana-mento”: Porto, Pendino, Mercato e Vicaria.«Bisogna sventrare Napoli» fu lo slogan chesupportò la richiesta al governo del sindaco Ni-cola Amore (fig. 3) della Legge speciale perNapoli, approvata nel 1885. E lo slogan ripete-va l’ esclamazione del presidente del Consigliodei ministri, Agostino Depretis (fig. 4), venutoa Napoli assieme a re Umberto I (fig. 5) nell’anno del colera. Essa richiamava il titolo del ro-manzo della Serao (fig. 6): “Il ventre di Napoli”(fig. 7) (1884), che sollecitava a gran voce ilsalvifico intervento nel ventre infetto della cit-tà. Il programma urbanistico rifletteva la cultu-ra dell’Ottocento, in cui non era ancora sorto ilproblema dei valori ambientali e della tutela deicentri storici. Pertanto i predetti quartieri mal-sani e da bonificare - non vi erano né acqua né

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Fig. 3 - Statua di Nicola Amore a piazza Vittoria

Fig. 4 - Agostino Depretis

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fogne, quindi le condizioni igienico sa-nitarie erano pessime - furono risanaticon lo “sventramento” senza alcuna re-mora etico sociale circa la sorte degliabitanti. Questa la classe politica “in-telligente e aperta”. In sostanza, la clas-se dirigente borghese identificava solonella rendita fondiaria la più concretaforma di reddito rifiutando la conver-sione industriale e commerciale dellarendita che avrebbe potuto determinareanche l’evoluzione sociale. Perciò ladistruzione dei quartieri “bassi” assicu-rava l’acquisizione dei suoli per lucrarenuove rendite immobiliari. Del restoanche gli intellettuali sostennero l’in-tervento (persino Benedetto Croce, chepoi a cose fatte si ricredette). Ma senti-te cosa esclama Raffaele D’ Ambra(“Napoli antica”, 1889, con funeree il-lustrazioni “a ricordo” di squarci deiquartieri da sventrare). Egli esorta a

espellere la plebe dal centro storico «perché le evoluzioni sociali e sanitarie lo esigo-no irreparabilmente». La sezione di Architettura degli “Scienziati Artisti e Letterati”giudicò Castel dell’ Ovo letteralmente «un rudere che non ha più ragione di essere inpiedi». Per fortuna il Comune non mise in atto tale ridicolo giudizio. La commissio-ne comunale per la conserva-zione dei monumenti si accon-tentò che venissero trasferitinel Museo di Donnaregina di-pinti, statue e sepolcri delle 63chiese e cappelle destinate allademolizione (fig. 8) sorvolan-do che erano per lo più di etàmedievale. Nel 1886 fu appro-vato il progetto dell’ ingegnerecapo del comune Giambarba,che prevedeva una grande elarga strada, il Rettifilo (fig.9): l’ asse attorno a cui ruotaval’ intera operazione di sventra-

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Fig. 5 - Umberto I

Fig. 6 - Matilde Serao

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mento. Era la riproposta del modello ur-banistico parigino realizzato a Parigi daHaussmann, dopo il tremendo incendioche distrusse quella città. Già l’architettoAlvino aveva proposto un analogo pro-getto, ma si levò la voce isolata di LuigiSettembrini (1868), il quale opponendosidichiarò che il modello parigino risponde-va al programma del dispotismo di Napo-leone III, che aveva bisogno di strade lar-ghe per sedare i moti di rivolta popolare e«per caricare il popolo con la cavalleria ela mitraglia». Proponeva invece «di boni-ficare i quartieri popolari gradatamente ediradando man mano quelle affollate abi-tazioni ». Ma tornando al “Risanamento”lo stesso Giambarba nel 1887 scrive allar-mato: «La febbre dell’acquisto dei terreniha invaso gli speculatori, si sono compratifondi duplicandone il valore e ciò ha me-nato a un aumento sensibile nei prezzi dirivendita delle aree edificabili». Insommal’operazione si convertì da un intervento di pubblica utilità a una colossale specula-zione edilizia privata. E il Comune, per evitare di farsi carico della tutela degli abi-tanti non abbienti, favorì la nascita della “Società per il Risanamento” che provvidesubito a “gettare sul lastrico” migliaia di famiglie: 87.500 abitanti circa vennero“sradicati”. I più fortunati si trasferirono in periferia, gli altri si ammassarono nei vi-coli limitrofi e persino nelle grotte sul pendio di monte Echia. Con sgomento la Se-

rao pubblicò, dieci anni dopo, un se-condo libro, il “Paravento”, e così defi-nì la cortina dei grandi palazzi borghesiche servivano a nascondere l’accre-sciuta miseria e l’abbandono del popo-lo napoletano. Infine tale tragedia so-ciale non ha ispirato alcun romanzo, nédramma teatrale, né opera lirica, chesarebbe potuta essere rappresentata alSan Carlo, a proposito del quale si at-tende da tempo un rilancio.

Approfondiamo ulteriormente l’ar-gomento.

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Fig. 7 - Il ventre di Napoli

Fig. 8 - Fontana di Mezzocannone

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Con il nome di Risana-mento ci si riferisce al grandeintervento urbanistico che mu-tò radicalmente e definitiva-mente il volto della maggiorparte dei quartieri storici, in al-cuni casi (Chiaia, Pendino,Porto, Mercato, Vicaria) sosti-tuendo quasi totalmente lepreesistenze, talvolta anche digran valore storico o artistico,con nuovi edifici, nuove piaz-ze, nuove strade.

L’intervento, ipotizzato sindalla metà dell’Ottocento, fuportato a compimento a segui-

to di una gravissima epidemia di colera, avvenuta nel 1884. Sotto la spinta del sinda-co di allora, Nicola Amore, nel 1885 fu approvata la Legge per il risanamento dellacittà di Napoli e il 15 dicembre 1888 venne fondata la Società pel Risanamento diNapoli (confluita dopo varie vicissitudini nella Risanamento S.p.a.): allo scopo di ri-solvere il problema del degrado di alcune zone della città che era stato, secondo ilsindaco Amore, la principale causa del diffondersi del colera.

Si decise l’abbattimento di numerosi edifici per fare posto al corso Umberto, allepiazze Nicola Amore e Giovanni Bovio, alias piazza Borsa (fig. 10), via A. Depretise alla Galleria Umberto I (fig. 11). In realtà alle spalle dei grandi palazzi umbertini lasituazione rimase immutata: essi infatti servirono a nascondere il degrado e la pover-tà di quei rioni piuttosto che a risolverne i problemi.

Nonostante gli studi e i progetti per una risistemazione urbanistica della città,e nonostante il colera fos-se scoppiato ben tre voltein meno di un ventennio(nel 1855, nel 1866 e nel1873) una nuova epidemiasi diffuse nel settembre1884 con estrema violen-za nei quartieri bassi epropagandosi in misuraminore anche nel restodella città. Per la primavolta, sulla scorta del-l’emozione provocata nel-

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Fig. 9 - Il Rettifilo, corso Umberto I

Fig. 10 - Piazza della Borsa

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l’opinione pubblica nazionaledalla tragedia, si delineò quin-di un intervento governativoche risolvesse definitivamentegli annosi mali della città.Agostino Depretis, presidentedel Consiglio, dichiarò allorasolennemente che era neces-sario “Sventrare Napoli” (fig.12), coniando così il neologi-smo sventramento (ispiratodalla lettura della prima edi-zione de “Il Ventre di Napoli”di Matilde Serao) che si appli-cò da quel momento alla principale operazione di bonifica da effettuare; termineche poi fu esteso a tutte gli interventi urbanistici simili compiuti in Italia in queglistessi anni.

In occasione della visita di Umberto I ai cittadini colpiti dal morbo, si parlò dellabonifica dei quartieri bassi. Fu allora che si delinearono i principali interventi da rea-lizzare, tra cui la creazione di un’efficace rete fognaria per eliminare il pericolodell’inquinamento del suolo per le infiltrazioni delle acque infette. Era inoltre neces-sario ottenere un’abbondante erogazione d’acqua attraverso l’esecuzione dell’ac-quedotto del Serino e pianificare lo sventramento e la bonifica dei quartieri bassi, daottenersi mediante una strada principale dalla stazione centrale al centro cittadino euna rete viaria minore ad essa afferente che favorisse la circolazione verso l’internodella brezza marina; inoltre si auspicava la creazione di un quartiere di espansione anord della città.

Si trattava, come si è visto, delrilancio di temi ricorrenti da decenni,questa volta imposti dalla gravità cuiera pervenuta la situazione igienica.La necessità inderogabile di una bo-nifica della città e in particolare deiquartieri bassi era avvertita dallaclasse dirigente, ma, purtroppo, ognisoluzione al problema era rimasta,per tutte le amministrazioni che sierano susseguite, allo stato di enun-ciato programmatico, essendone lafase esecutiva perennemente impedi-ta da difficoltà di carattere politico

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Fig. 11 - Galleria Umberto I

Fig. 12 - Piazza della Selleria

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ed economico. La situazione economica era d’altra parte gravissima, dato che il Co-mune era stato costretto, dopo l’Unità d’Italia, a farsi carico di tutte le spese prece-denti al 1860, compreso il passaggio dall’illuminazione ad olio a quella a gas e lespese di esproprio dei terreni di Corso Vittorio Emanuele e Corso Garibaldi. Il pro-blema della sistemazione della rete fognaria non era mai stato adeguatamente af-frontato.

Il 19 ottobre 1884 Adolfo Giambarba (futuro responsabile dell’elaborazione deiprogetti) presentò al sindaco un progetto accompagnato da relazione e computi me-trici, nonché da dati statistici circa lo stato dei fabbricati, la destinazione del suolo edelle abitazioni, per il risanamento dei quartieri bassi e l’ampliamento ad orientedella città. Il progetto di Giambarba polarizzò l’attenzione del Consiglio comunalee dell’opinione pubblica: in esso, la bonifica era perseguita attraverso una strada ret-tilinea – che sventrava i quartieri Porto, Pendino e Mercato – con inizio in via Medi-na, al suo incrocio con via San Bartolomeo, ove si creava una piazza ottagonale dacui partiva una strada verso via Toledo. Lungo il suo percorso erano previste sedicistrade ortogonali ed altre parallele ad esse, dando luogo ad una trama viaria che inci-deva su buona parte del tessuto urbano preesistente; si prevedeva, inoltre, un amplia-mento della zona portuale tramite colmate.

Per le strade afferenti a Piazza Garibaldi era prevista un’ampiezza di 30 metri e unafascia di esproprio di 50 metri mentre per le traverse del Rettifilo una larghezza di 12metri; il livello del piano stradale era innalzato di 3 metri e mezzo, adoperando il mate-riale delle demolizioni, onde costruire una nuova rete fognaria. A completare il disegnodel nuovo piano, il Corso Garibaldi era prolungato sino all’Albergo dei Poveri.

Altre polemiche nacquero poi circa la ristrutturazione del sistema fognario, mafinalmente, nel giugno del 1884, la proposta di Giambarba fu approvata e, il 17 feb-braio 1885, confermata. Il 10 maggio dello stesso anno si ottenne un altro importan-te risultato ai fini del risanamento cittadino, con l’inaugurazione dell’acquedotto delSerino.

Il 27 novembre 1884 il presidente del consiglio Agostino Depretis presentò allaCamera dei deputati un disegno di legge in quindici articoli costituenti i “Provvedi-menti per Napoli”, che fu promulgata il 15 gennaio 1885.

Fu quindi denunciato, per la prima volta e già prima dell’inizio dei lavori, l’ef-fetto della legge 1885: essa aveva provocato a Napoli una speculazione sui suoli finoad allora sconosciuta. Il consigliere Enrico Arlotta enfaticamente dichiarò: “Dopol’invasione colerica e l’iniziativa del Municipio per combattere le cause di tantasciagura, la speculazione di tutta Italia si è riversata sulla Città di Napoli. La specu-lazione che a volte ha colpito i valori dello Stato, altre il debito pubblico, oggi hapreso di mira i suoli edificatori”. E il Giambarba confermando, aggiunse: “La febbredell’acquisto dei terreni su larga scala ha invaso gli speculatori, si sono compratifondi decuplicandone il valore e ciò doveva menare ad un aumento sensibile neiprezzi di rivendita delle aree edificabili”.

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La speculazione e la possibilità di imponenti lavori avevano del tutto trasforma-to il mercato edilizio napoletano: grosse società immobiliari avevano, infatti, intuitola possibilità di proficui investimenti, generando negli amministratori cittadini il ti-more di superare le spese previste, dal momento che gli espropri costituivano la vo-ce passiva di maggiore entità.

Essendo stati i cento milioni previsti dalla legge dilazionati in dodici rate annua-li, sarebbe stato logico considerare il valore delle espropriazioni al momento del-l’erogazione delle rate: ciò era però improponibile, a causa del continuo aumento divalore dei suoli. Era impossibile avere elementi certi di valutazione, né d’altra parte,si poteva contrarre un nuovo prestito che anticipasse la sovvenzione da parte delloStato, poiché una simile situazione avrebbe comportato il pagamento di interessi cheavrebbero gravato con nuove tasse sui contribuenti napoletani.

Era dunque necessario un solo concessionario che si assumesse i tre punti essen-ziali dell’opera (espropriazioni, proprietà dei suoli, nuove costruzioni) con tutti i ri-schi che comportavano: le espropriazioni potevano superare i cento milioni (senzacontare i lavori per le fognature); era richiesto un rapido svolgimento, poiché il rim-borso era previsto in 10 anni; era necessario, evidentemente, cedere al concessiona-rio i suoli di risulta per le nuove costruzioni, al fine di consentirgli di ricavare un uti-le dai lavori.

Il concessionario prescelto doveva inoltre coincidere con una società anonima“potente e vigorosa”, di cui si sperava facessero parte finanziatori locali, che posse-desse il capitale iniziale di 30 milioni necessario per cominciare le espropriazioni.Un rigoroso capitolato avrebbe cautelato i rapporti tra il Comune e la società, al finedi salvaguardare gli interessi dei proprietari dei fabbricati da espropriare.

Per evitare che il concessionario costruisse prima nei nuovi quartieri, dove ilguadagno era certo e non vi erano fabbricati da espropriare (nella realtà si verifiche-rà proprio l’opposto, costruendo nelle zone centrali e trascurando le aree di amplia-mento), il Comune si impegnava a controllare che fossero edificate abitazioni eco-nomiche nel quartiere orientale, secondo quanto già previsto da Ferdinando II.

Si giunse così al capitolato in 40 articoli approvato dalla giunta comunale il 2marzo 1887, sindaco era ancora Nicola Amore.

Vediamo ora come interpreta la vicenda Angelo Forgione, un giovane quantopreparato napoletanista, a cui diamo la parola. Egli parte da lontano.

LA SPECULAZIONE EDILIZIA

Il passaggio di consegne del 1860 cambiò l’ottica urbanistica di Napoli, dandoinizio a un modo di costruire che valutava i metri cubi unicamente in funzione dellosfruttamento dei suoli edificabili e di ciò che essi rappresentavano in termini di ren-dita fondiaria.

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Paradigmatica la questione dellungomare di Chiaja che, subito do-po l’Unità, perse la sua spiaggia etutto l’ambiente naturale fin lì cele-brato, per far posto, tra feroci pole-miche, a una colmata su cui fu co-struita l’ampia e pur elegante stradadi via Caracciolo e gli edifici sullariviera. Le spese dell’opera se le ac-collò l’imprenditore privato belgaErmanno Du Mesnil, in cambio di

suoli edificabili e di un consistente sussidio. Corse il rischio di essere demolito per-sino il Castel dell’Ovo, lasciato all’abbandono (fino al 1975) e minacciato dal deli-rio della Sezione di Architettura degli Scienziati, Letterati ed Artisti di Napoli, ope-rante in consiglio comunale, che indicò le linee guida dell’intervento generale sen-za alcun rispetto per le testimonianze del passato. Il maniero sul mare fu definito“brutto e ormai inutile…, un rudere che non ha più ragione di essere in piedi”. Cosìscrissero i tecnici nel progetto generale del 1873 con cui proposero anche la cancel-lazione di un simbolo storico identitario, il luogo dove la città ebbe origine, per farspazio a un nuovo rione. Fortunatamente, al proposito non fu dato seguito, pur re-stando emblematico della nuova “sensibilità” in materia di tutela dei beni culturali.I nuovi palazzi sorsero dirimpetto, su un’ulteriore colmata che annientò anche laspiaggia di Santa Lucia (fig. 13). La naturale morfologia costiera della città cheaveva affascinato l’Europa fu completamente cancellata, senza alcuna valutazionedi impatto ambientale.

L’identità andò via con i controversi lavori sul lungomare e quelli più ampi delRisanamento di Napoli, un’operazione gover nativa per la soluzione dei problemiigienico-sanitari che avevano causato una violenta epidemia di colera di provenien-za francese nel 1884; un complesso intervento urbanistico che donò alla città un piùsicuro sistema fognario, il completamento dell’acquedotto del Serino, nuovi quartie-ri, eleganti e più agevoli strade e palazzi signorili, ma dietro il quale, in realtà, si na-scondeva il pretesto per una colossale speculazione edilizia privata d’epoca umberti-na. Da spartire c’era una torta di denaro pubblico da più di centotrenta milioni diquell’epoca, tutti e subito. E allora, al grido di «bisogna sventrare Napoli», si trovò ilmodo per allontanare circa novantamila persone meno abbienti dai suoli pregiati. Ilpiano iniziale di “pubblica utilità”, che prevedeva la bonifica dei quartieri bassi a ri-dosso dell’area portuale con la realizzazione di nuove costruzioni popolari, fu indi-rizzato verso abitazioni più costose, stravolto in corso d’opera con una variante diprogetto senza alcun vantaggio per il Municipio, approvata su forte pressione dellesocietà im mobiliari e finanziarie piemontesi e romane: la Società Generale di Credi-to Mobiliare Italiano, la Banca Subalpina e la Società Fratelli Marsiglia di Torino; la

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Fig. 13 - S. Lucia, colmata

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Banca Generale e l’Immobiliare dei Lavori di Utilità Pubblica ed Agricola di Roma.Senza dimenticare la Banca Tiberina, di Torino (fig. 14), che si era assicurata i terre-ni e la costruzione del nuovo rione residenziale del Vomero, nell’ambito della stessalegge. Il capitale, completamente esterno alla città, prima fece da parte il Municipio,strappandogli il controllo della città, e poi attuò solo in parte la bonifica. Tutto si

rivelò come occasione per una pura operazione di sfruttamento dei suoli, chenon si fermò neanche di fronte al preventivo obbligo scritto di denunciare il ritrova-mento di reperti di interesse storico-artistico che avrebbe causato la sospensione deilavori. Tutte le testimonianze del passato presenti nelle aree dei lavori ne fecero lespese, tra cui una sessantina di chiese anche d’epoca medievale e il notissimo teatroSan Carlino a largodel Castello (fig. 15).I vecchi inquilini fu-rono costretti a so-vraffollare i rioni de-gradati a ridosso dellenuove abitazioni, ele-ganti e inaccessibili,allargando un’atavicacaratteristica del tes-suto sociale cittadinoe creando una diversacriticità in quei luo-ghi: ricchi e poverinegli stessi quartierima separati da stradedi demarcazione so-ciale, a Santa Luciacome al nuovo “Rettifilo”. Le polemiche sugli appalti portarono alle dimissioni delsindaco Nicola Amore, già discusso questore nei fatti luttuosi di Pietrarsa dell’ago-sto 1863, che dovette difendersi dalle accuse di aver favorito le banche torinesi neilavori di bonifica e la società svizzera “Geisser” nell’acquisto di suoli edificabilidella città. Ulrich Geisser aveva scalato l’alta finanza grazie ai solidi legami stretticon Cavour e controllava le azioni della Banca Tiberina di Torino, istituto proprieta-rio di alcuni suoli a Chiaja, oltre che al Vomero, che speculò anche a Roma nello svi-luppo della nuova capitale del Regno d’Italia. In un momento di crisi economica, iltrasferimento di ingenti capitali nelle due importanti città, l’eccessivo sfruttamentodei terreni in tutto il Paese, l’affarismo sfrenato e la disinvolta concessione di prestitiagli speculatori edilizi generarono una crisi del sistema bancario che culminò nelcrollo del settore edile e nel fallimento degli istituti di investimento ai quali la BancaRomana aveva elargito prestiti a lungo termine. Per coprire le enormi perdite, l’isti-

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Fig. 14 - Banca Tiberina

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tuto di credito capitolino forzò l’emissione di moneta senza autorizzazione e stampòun ingentissimo quantitativo di banconote con un numero di serie identico ad altreemesse precedentemente, riservandone una parte per pagare politici e giornalisti.L’iniziale insabbiatura non servì a scongiurare uno scandalo di dimensioni enormi,uno dei primi della storia d’Italia, che svelò un’alleanza strategica tra aristocraticiproprietari terrieri e banche settentrionali catapultate su speculazioni a breve termi-ne. Una colossale truffa in cui furono implicati Francesco Crispi, Giovanni Giolitti euna ventina di parlamentari, nonché, seppur indirettamente, il re Umberto di Savoia,fortemente indebitato proprio con la Banca Romana. Il processo farsa del 1894 pro-dusse un colpo di spugna con cui fu salvata l’alta politica del Regno italiano dei Sa-voia. I giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la

colpevolezza degliimputati. Stessa fineavevano fatto gliincarta menti di unaCommissione d’in-chiesta che nel 1864aveva inda gato sullegrosse speculazioniattorno alla costruzio-ne e all’esercizio del-le reti ferroviarie me-ridionali, cedute dalgoverno di Torino allacompagnia finanzia-ria privata Bastogi,torinese, che le avevasubappaltate vantag-giosamente e clande-

stinamente, sostituendosi al governo nell’approvare un contratto con destinatari di-versi da quelli indicati dal ministero. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord,con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Il politico e industrialelivornese Pietro Bastogi, amico del Cavour, era stato l’ispiratore della manovra chegli aveva fruttato un grossissimo margine. Costretto a dimettersi, fu “premiato” coltitolo di conte da Vittorio Emanuele II e continuò la sua attività di guida dei grandibanchieri settentrionali, rendendosi abile tessitore anche nella descritta speculazioneedilizia di Napoli, Roma, Milano e altre città. Le ferrovie meridionali restarono alpalo: sparirono i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adria tico e, perspostare le merci, furono unite verticalmente a quelle settentrionali che nel frattem-po si svilupparono intensamente con la regia di un’altra guida delle banche delNord, un altro amico di Cavour, quel Carlo Bombrini per cui il Mezzogiorno non

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Fig. 15 - Teatro San Carlino

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avrebbe dovuto più essere in grado d’intraprendere. Fu lui, comproprietario dell’An-saldo, a coordinare le famigerate banche nel finanziamento delle imprese settentrio-nali. Una di queste, il Credito Mobiliare di Torino, finanziò il piemontese FrancescoCirio nell’ascesa della sua industria conserviera, cui fu concesso un contratto agevo-lato dalle Società Ferrovie Alta Italia per la spedizione all’estero di migliaia di vago-ni di alimenti. Cirio rastrellò pelati e prodotti della terra nelle zone agricole del Na-poletano, del Casertano e del Salernitano ed ebbe piena disponibilità della rete ferro-viaria a costi irrisori e contro ogni norma di concorrenza leale, divenendo un caso di-scusso ripetutamente in varie sedute di un’altra specifica Commissione parlamenta-re d’inchiesta del 1878 sull’esercizio delle ferrovie. Bastogi e Bombrini, questi era-no gli amici di Cavour che inaugurarono le fortune imprenditoriali del Nord; e nonc’è da stupirsi delle parole che Vittorio Emanuele II pronunciò al plenipotenziarioinglese Augustus Paget:

«Ci sono due modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione.»Usò le une e l’altra il “re galantuomo” che, alla sua morte, lasciò debiti personali

per quaranta milioni di lire (circa quarantacinque milioni di euro di oggi) e molti sche-letri nell’armadio. Con questi edaltri scandali, al sorgere del-l’Unità, fu inaugurata l’esecra-bile commistione tra finanza epolitica. Così è nata l’Italia delletangenti; come poteva diventareun Paese diverso?

Napoli, intanto, iniziava acollassare, colpita dal costodella vita triplicato, in un Mez-zogiorno che, producendo unreddito pari al 22% di quellocomplessivo italiano, versava il36% del relativo gettito tributa-rio. Nel 1898 si registrarono tu-multi per il caro vita, cartina ditornasole di una ex capitale cheveniva messa in ginocchio dalle politiche del Regno d’Italia e che iniziava a regi-strare il fenomeno sconosciuto e progressivo dell’emigrazione. Nel dicembre del-l’anno seguente, il settimanale socialista La Propaganda denunciò la corruzione e ilclientelismo dell’amministrazione cittadina nell’ambito degli interminabili lavoridel Risanamento. Fu istituita la già citata Commissione Saredo, che fece luce sugliintrecci tra amministrazione locale e “alta camorra”, mettendo a nudo il disinteressedei governi di Torino, Firenze e Roma per la città e per il Sud nei primi quarant’annidi Unità.

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Fig. 16 - Lamont Young

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La speculazione edilizia e la cattiva amministrazione inghiottirono alcune anti-cipatrici proposte urbanistiche di straordinario valore, su tutte quelle di LamontYoung (fig. 16), architetto eclettico e urba nista napoletano di origini scozzesi, tal-mente fervido da partorire progetti innovativi e pionieristici mai realizzati. Lui sìche idealizzò un vero abbellimento della città, sfruttandone le potenzialità e non isuoli. Già nel 1872, presentò i disegni della metropolitana di Napoli che prevedeva-no la costruzione di una strada ferrata sotterranea, con strutture sopraelevate in alcu-ni tratti, di connes sione tra Bagnoli, Posillipo, Vomero, San Ferdinando e Capodi-monte. Di cultura fortemente progressista, stimolò uno sviluppo sostenibile del turi-smo e propose i disegni del “Rione Venezia”, un nuovo quartiere che da Santa Lucia,lungo la costa di Posillipo avrebbe dovuto collegare Napoli con i Campi Flegrei at-traverso un canale navigabile con battelli, sfociando a Bagnoli in un quartiere resi-denziale a scarsa densità abitativa fornito di stabilimenti balneari e termali, alberghi,un giardino zoologico, giardini, zone terrazzate, ville degradanti verso il mare, nego-zi e un palazzo di cristallo con un lago e delle isolette. Le sue intuizioni avrebberomodificato il corso della storia urbanistico turistica di Napoli, ma tutti i suoi proget-ti, a parte quelli di alcuni noti edifici cittadini, rimasero su carta. Entrò in un violentocontrasto con la Banca Tiberina di Torino, che avviò la realizzazione delle funicolaridi Chiaia e di Montesanto, in conflitto con i prospetti dell’urbanista, e gli espropriònel 1886 un suolo di proprietà tra i tanti confiscati per costruire la stazione di via Ci-marosa. Per l’atteggiamento contrario all’affarismo che poco apportava alla città,Young fu completamente boicottato dall’imprenditoria operante, che poco stimava eche gli diede amare delusioni, conducendolo al disperato suicidio, seppur a vecchia-ia sopraggiunta, nella sua Villa Ebe alle rampe di Pizzofalcone. I progetti della ferro-via Cumana, del passante ferroviario tra Gianturco e Pozzuoli e delle successive gal-lerie cittadine verso la zona flegrea sarebbero stati ispirati alla sua “utopia”; a Ba-gnoli, il cui nome indica i trascorsi turistico termali, sarebbero poi sorte a inizio No-vecento le acciaierie che avrebbero annullato e deturpato una grande risorsa turisticadel territorio.

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Capitolo 12

Rivisitiamo il Risorgimento

Vorrei cominciare questo capitolo sulla rivisitazione del Risorgimento ripropo-nendo alcune mie lettere sull’argomento, inviate nel tempo ai quotidiani, pubblicatecon gran risalto dai più importanti giornali italiani, a volte con 4 colonne di com-mento del direttore, oppure come nel caso di “1000 giovani al giorno per 150 anni”,che ebbe l’onore di uscire su La stampa come editoriale.

Mentre incombono le celebrazioni per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia,previste per il 2011, si alzano voci autorevoli per segnalare l’assoluta mancanza difondi, per cui la manifestazio-ne avverrà senza dubbi in to-no minore, anche per l’ostru-zionismo praticato dalla Lega,la quale interpreta in sensonegativo quella serie di avve-nimenti che portarono al sor-gere dell’Italia come nazione.

La pagina più nera dellanostra storia è ancora copertadal segreto militare a distanzadi oltre 140 anni dagli avveni-menti. Nonostante il Risorgi-mento (fig. 1) stia lentamentesubendo un processo di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all’impegno dialcuni storici coraggiosi, che lavorano in contrasto all’ortodossia accademica, a Ro-ma, presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, si conservano, inaccessibili agli studio-si, 150.000 pagine che contengono la verità sull’insurrezione meridionale contro ipiemontesi: quel controverso periodo capziosamente definito brigantaggio.

I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla distruzione di interi paesi,sulla deportazione dei suoi abitanti e sulla fucilazione di migliaia di meridionali su-biscono ancora “Il complesso La Marmora”, dal nome del generale che diresse peranni la repressione nel Mezzogiorno, prima di divenire capo del governo.

Negli archivi militari americani si può tranquillamente conoscere ogni dettaglio

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Fig. 1 - Risorgimento

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del genocidio degli indiani, inquelli francesi indagare sugliaspetti più oscuri del coloniali-smo,in quelli tedeschi sapere tuttosul nazismo. Da noi nel 1967, do-po i prescritti 50 anni di segretez-za, abbiamo potuto meditare sulladolorosa disfatta di Caporetto, masulla ”conquista” del Sud da partedel Nord vige ancora un silenzioassordante ed una vergognosachiusura degli archivi pubblici allaconsultazione!

E vorremmo proseguire conun nostro scritto, che fu pubblicatonell’editoriale dei lettori de “La

Stampa” e con una lettera al direttore accolta da numerosi quotidiani.La nostalgia dei primati perduti e l’orgoglio neoborbonicoAbbiamo esposto in un altro capitolo i numerosi primati che facevano di Napoli

una grande capitale europea nel campo delle arti figurative, della scienza e della ur-banistica; soprattutto all’epoca di due re illuminati, come Carlo III e Ferdinando II,per cui non ci ripeteremo.

Vogliamo solo sottolineare come non solo i mass media, ma anche la storiografiaufficiale, ha cercato di propagandare l’immagine di un meridione arretrato e fannullo-ne, perpetuando una sorta di damnatio memoriae, che solo in tempi recenti, grazieall’opera di volenterosi studiosi, sta riacquistando la verità storica degli avvenimenti.

Alcuni libri, come “Terroni” di Pino Aprile (fig. 2) e la nascita di alcuni movi-menti filo borbonici, ha dato uno scossone decisivo alla marea inarrestabile di men-zogne e falsificazioni, con una miscela di dati storici e di vivace vena polemica.

A parte libri e riviste, èsu internet che molte asso-ciazioni hanno trovato mo-do di esprimersi, con mai-ling list di decine di mi-gliaia di contatti.

Vogliamo ricordare, ilPartito del sud, Insorgenzacivile, Associazione neo-borbonica, Comitati due Si-cilie, Orgoglio meridionale(fig. 3).

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Fig. 2 - Pino Aprile

Fig. 3 - Italia confine sud

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La prima nacque venti anni fa e tra i fondatori vi era anche il compianto Riccar-do Pazzaglia (fig. 4), il quale, nello scegliere il nome dell’associazione: neoborboni-ci, intese di fare una provocazione per identificare la protesta del Sud con qualcosache precedeva l’Unità, acclarando che non tutto ciò che vi era prima del 1861 era ne-gativo.

Gennaro De Crescenzo attualmente presidente dei neoborbonici, è professore distoria e frequentatore di archivi. Un appassionato che contesta il pregiudizio acriti-co, la storia divisa a fette tra buoni e cattivi, come invece sostiene Aldo Cazzullo aproposito della guerra civile del brigantaggio. Certo alcune forme di estraneità per loStato nel sud sono ereditate delle modalità con cui fu costruita la nostra nazione: im-posta dall’alto, voluta e realizzata da un’élite, estranea alle popolazioni rurali, comesostennero già Gramsci e in parte Croce. Le classi dirigenti di allora, i notabili lati-fondisti, fusero subito i loro interessi con quelli della borghesia imprenditoriale delNord, temendo che quella rivoluzione politica potesse diventare anche sociale. Lecampagne erano in rivolta,la guerra contadina, il bri-gantaggio, faceva del Sudil vero Far west dell’Italiaappena nata. Furono i gat-topardi di sempre, chemuovevano voti e influen-zavano masse popolari, acontrollare il Mezzogior-no. E aderirono alle sceltepolitico-economiche deiprimi anni dell’unità, privi-legiando industrie e finan-ze del Nord anche a costodi penalizzare le necessità di sviluppo del Sud. La storia a una direzione non fa maibene e sono convinto che nessuno al Sud pensa ad una secessione, ha nostalgia per iBorbone, o è contro l’unità. L’orgoglio meridionale di oggi comincia dalla rilettura,con documenti, di come diventammo una sola nazione. Non si tratta di dividere, madi unire. Se si conoscono meglio i percorsi e le identità differenti del processo risor-gimentale si ritroveranno forse le ragioni per tenere insieme nord e sud d’Italia che,ignorando le rispettive storie, diffidano l’uno dell’altro, guardandosi con pregiudi-zio. Cominciamo al Sud: inutile abbandonarsi alla retorica a rovescio del meridiona-le sempre e comunque migliore degli altri. Certo, le scelte dei primi anni di unitàdanneggiarono il Mezzogiorno, ma 150 anni dopo va superata la sterile autocommi-serazione, la delega delle responsabilità. Partendo dalla rilettura più onesta di storiee culture del passato, l’orgoglio meridionale deve diventare coscienza che oggi piùche mai è necessario l’impegno e la serietà di tutti. Neoborbonici e non.

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Fig. 4 - Riccardo Pazzaglia

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MILLE GIOVANI AL GIORNO DA 150 ANNI

150 anni fa mille giovani garibaldini si imbarcarono da Quarto (fig. 5-6-7) perandare al sud a fare l’Italia, da allora ogni giorno, ininterrottamente, mille giovanisono costretti a compiere il percorso inverso dal sud verso il nord, alla ricerca di unlavoro e di un futuro decente, perché la vecchia patria non esiste più e la nuova non

ha voluto o non è stata ingrado di procurarglielo.

L’emorragia continuaimperterrita con alti e bas-si; una sorta di genocidiosilenzioso che raggiunseun picco negli anni Sessan-ta, ma che da tempo ha ri-preso lena, privando le re-gioni meridionali delle mi-gliori energie, dei laureaticon lode e di tutti coloroche si sentono ingabbiatinelle maglie di una societàpietrificata.

Tante generazioni perdute che hanno lasciato il sud in balia di politici corrotti,amministratori inefficienti ed eterne caricature di Masaniello.

Il fiume di denaro pubblico che lo Stato ha elargito per decenni è stato clamorosa-mente dilapidato, usato, non per investimenti produttivi, ma unicamente per consolida-re un vacuo consenso elettora-le, perpetuando il proliferare disquallide oligarchie locali, dicricche e di camarille collusecon la criminalità organizzata.

E mentre ogni anno tre-centomila garibaldini alla ro-vescia sono costretti a lasciaregli affetti ed il luogo natio percercare altrove la dignità diesistere, l’incubo della crisieconomica e del federalismofiscale rischia di far deflagra-re una situazione esplosiva te-nuta in coma da flussi di dena-ro a perdere.

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Fig. 5 - Partenza dei Mille da Quarto

Fig. 6 - Giuseppe Garibaldi

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Se l’idea di eguaglianza e di solidarietà do-vesse cedere il passo ad una deriva separatistaal sud non resterà che cercare di capeggiare unafederazione di stati rivieraschi del Mediterra-neo, di mettersi a capo di popoli disperati,avendo come punti di riferimento non più Ro-ma, Milano e Bruxelles, bensì Tripoli, Algeried Alessandria d’Egitto.

Ho sempre sottolineato l’assurdità del vin-colo del segreto militare, che non ha termini pe-rentori, a differenza del segreto di Stato che de-cade dopo 50 anni e posso testimoniarlo perso-nalmente, perché fui il primo a consultare, tra-

scorsi 10 lustri, il carteggio amoroso tra Claretta Petacci e Mussolini (fig. 8), conser-vato presso la biblioteca na-zionale di Napoli.

In particolare vorrei sotto-lineare che grazie a me cono-sciamo la verità sulla strage diUstica (fig. 9) perché dopo lapubblicazione della mia mis-siva “Una strage che gridavendetta”, che uscì su 11 tragiornali e riviste, finalmentesi seguì il mio consiglio ecompulsando i tracciati radardella porta aerei americana,alla rada nel golfo di Napoli lanotte del fattaccio, si è saputala imbarazzante verità, anchese in seguito i mass mediahanno fatto di tutto per farladimenticare.

Rileggiamola assiemeUna strage che grida vendettaA giorni saranno trenta anni dalla strage di Ustica, uno dei tanti misteri che sof-

focano la nostra storia recente, sulla quale si è detto e non detto e sono stati versatifiumi di parole inutili.

A ricordare la triste ricorrenza nessuna cerimonia ufficiale, le interviste reticenti aipolitici dell’epoca, che sanno e non dicono ed un bel libro di Rosario Priore, il giudiceche indagò a lungo, ostacolato in ogni modo, sulla tragica esplosione del Dc9 dell’Ita-

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Fig. 8 - Claretta Petacci e Benito Mussolini

Fig. 7 - Regno delle due Sicilie

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via e sulla morte di ottanta per-sone.

Ma trovare la verità nondovrebbe essere difficile e mipermetto di consigliare la viada percorrere a chi volesse,giornalista o magistrato, sape-re cosa successe realmente neinostri cieli.

Gli Americani conosconoda sempre l’esatto svolgersidegli avvenimenti, anche sehanno sempre rifiutato di col-laborare. A Napoli, alla rada,stazionava una portaerei che

con i suoi radar teneva sotto controllo tutto il Mediterraneo, mentre dall’alto ai satel-liti non sfugge un metro quadrato di territorio; tutto registrato e conservato.

Negli Stati Uniti esiste una legge sacrosanta a baluardo della libertà d’informa-zione:il Freedom of Information Act, che consente al semplice cittadino di accederedirettamente ai documenti, anche all’epoca riservati, della pubblica amministrazionecivile e militare.

Le informazioni che ci interessano sono lì che attendono di essere compulsate, cisarà qualcuno di buona volontà che vorrà adoperarsi per farci conoscere la verità?

In particolare mi interessa parlare ora di Fenestrelle e dopo alcune notizie sullequali siamo tutti d’accordo: dove si trova, quando è stata costruita, etc., lasceremo laparola a coloro che hanno cercato di fare luce su una pagina oscura della nostra sto-ria, in particolare ad uno stu-dioso nordico per cui inso-spettabile.

La Fortezza di Fenestrelle(fig. 10-11), più comunemen-te nota come Forte di Fene-strelle, è un complesso fortifi-cato eretto dal secolo XVIII alsecolo XIX in località Fene-strelle in Val Chisone (cittàmetropolitana di Torino).

Per le sue dimensioni e ilsuo sviluppo lungo tutto ilfianco sinistro della valle, lafortezza è anche detta la gran-

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Fig. 9 - Relitto aereo

Fig. 10 - Fenestrelle

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de muraglia piemontese (fig.12). Dal 1999 è diventata ilsimbolo della Provincia di To-rino e nel 2007 il World Monu-ments Fund l’ha inserita nellalista dei 100 siti storico-ar-cheologici di rilevanza mon-diale più a rischio (insieme adaltri 4 siti italiani).

Il forte fu anche una pri-gione militare in cui furonorinchiusi, oltre ai militari cheavevano commesso crimini ogravi infrazioni al regolamen-to, anche i soldati di queglieserciti che erano stati attaccati dal Regno di Sardegna prima e dal Regno d’Italia inseguito, durante il Risorgimento e i primi decenni del XX secolo; in particolare au-striaci ed italiani degli stati preunitari che avevano combattuto durante le guerre d’in-dipendenza, componenti del disciolto Esercito delle Due Sicilie fatti prigionieri du-rante gli anni dell’unificazione risorgimentale del Sud Italia, 6 garibaldini in seguitoai falliti tentativi di Garibaldi di occupare lo Stato della Chiesa, 462 soldati dell’Eser-cito pontificio dopo la presa di Roma, militari austro-ungarici durante la prima guerramondiale. I detenuti del bagno penale erano reclusi in camerate comuni.

Negli ultimi anni il forte di Fenestrelle è passato agli onori della cronaca a causadella “denuncia” da parte di una certa storiografia re-visionista, secondo cui nel carcere, nel decennio tra il1860 e il 1870, furono deportati militari dell’ex Re-gno delle Due Sicilie, il cui numero andrebbe dai24.000 fino alle più grandi stime di 120.000 uomini,la cui colpa sarebbe stata quella di essersi opposti allaconquista e alla successiva annessione delle Due Si-cilie al neonato Regno d’Italia. Sempre secondo lamedesima storiografia, i reclusi sarebbero stati tenutiin pessime condizioni (fig. 13). Il 22 agosto 1861 cifu un tentativo di ribellione in cui i reclusi in rivoltaavrebbero cercato di assumere il controllo della for-tezza. L’insurrezione sarebbe stata sventata in manie-ra quasi fortuita dalle autorità piemontesi ed avrebbeavuto come solo risultato l’inasprimento delle pene.

La definizione di Fenestrelle quale “campo diconcentramento” da parte di autori revisionisti ha

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Fig. 11 - Fenestrelle

Fig. 12 - Fenestrelle

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stimolato la ricerca storica da parte di studiosipiemontesi, che smentiscono gran parte delle ac-cuse presentate da movimenti revisionisti chesarebbero state inverosimilmente ingigantitequando non direttamente inventate.

Lo storico Alessandro Barbero, che ha defi-nito la vicenda di Fenestrelle “un’invenzionestoriografica e mediatica”, consultando i docu-menti originali dell’epoca, ha verificato come iprigionieri dell’ex esercito borbonico effettiva-mente detenuti nel forte furono poco più di millee di questi solo 4 morirono durante la prigionia.Barbero ha sostenuto quindi: che la fortezza fusolo una delle strutture in cui furono momenta-neamente detenuti “anche” militari del Regnodelle Due Sicilie; che le condizioni di vita nonerano peggiori di quelle degli altri luoghi di de-tenzione; che la documentazione, sia militare,sia amministrativa, sia parrocchiale, sul numerodei detenuti, sul numero delle morti e loro cause,sulle modalità di seppellimento è ampia e rin-

tracciabile. L’affermazione che con la morte i corpi dei detenuti venissero discioltinella calce viva (collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa del For-te) viene confutata con l’osservazione che la calce viva non fu utilizzata per farescomparire i prigionieri, in quanto non capace di sciogliere cadaveri; il fatto che essafosse bensì “posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano esseresoggette per motivi d’igiene, all’epoca”. In sostanza, per Barbero, quanto avvenne aFenestrelle deve essere molto ri-dimensionato e, comunque, an-cora di più scientificamente stu-diato, sebbene egli riconosca chetali eventi siano da inquadrarsinei sussulti, anche dolorosi, delneonato Stato italiano.

Juri Bossuto, consigliere re-gionale piemontese di Rifonda-zione Comunista, in un libro del2012 (“Le catene dei Savoia”,scritto con Luca Costanzo, Ed. IlPunto) ridimensiona notevol-mente il numero delle vittime,

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Fig. 13 - Lager

Fig. 14 - Lapide Fenestrelle

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riportandone solo quattro nel no-vembre del 1860 e tende a smen-tire il maltrattamento ai dannidei prigionieri borbonici, poichésarebbero stati assistiti con vittoe cure sanitarie. Sulle mura delForte è stata affissa una targa(fig. 14) a “ricordo” dei fatti de-nunciati mentre, nel 2016, il sitomonumentale è stato oggetto dimanifestazioni ad opera di attivi-sti neoborbonici (fig. 15).

E concludiamo in bellezzariportando un articolo di Ales-sandro Morelli

ALTRO CHE EPOPEA DEL RISORGIMENTO NAZIONALE

In questo periodo c’è un gran parlare delle varie Foibe, Campi di concentramen-to nazisti (lager), gulag staliniani e in Italia tutti si dicono commossi e tutti sonopronti a ricordare.

Ebbene, almeno queste vittime hanno un testo scolastico di Storia che li menzio-na, una stele e una lapide per il ricordo; invece c’è qualcuno che è stato barbaramen-te ucciso ma nessuno si ricorda di loro.

Sto parlando dei soldati dell’ex Regno delle Due Sicilie deportati nei campi diconcentramento del Nord.

Fino a qualche decennio or sono nessuno scriveva di questo, poi poco per voltavennero a galla delle notizie storiche sempre più precise e abbinate alla ricerca di al-cuni “irriducibili” duo-siciliani si riuscì a scoprire la dura realtà.

Finalmente il 23 gennaio scorso un quoti-diano nazionale, “L’Indipendente” (fig. 16) siricorda di loro: I LAGER DEI SAVOIA il tito-lo principale e come sottotitolo: Dal sud del-l’Italia furono deportati in migliaia. Gli “inci-vili beduini” morirono in fortezze e galere delnord. Il numero esatto delle vittime nessuno losa perché i registri furono distrutti.

La storia inizia proprio nel 1860, l’esercitopiemontese scende nel sud e ci fu una guerraregolare ed irregolare; tutti i soldati dell’allora

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Fig. 15 - Manifestazione Fenestrelle

Fig. 16 - Giornale

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esercito duo-siciliano combatterono regolarmente. Poi, dopo la caduta di Gaeta, laguerra finì con la vittoria dell’esercito piemontese e c’era il problema dei soldati fat-ti prigionieri. All’inizio l’allora primo ministro, il barone Ricasoli, propose al gover-no argentino l’affitto delle gelide terre della Patagonia dove deportare i soldati meri-dionali. Il governo argentino rifiutò l’offerta e forse, senza saperlo, riuscirono abloccare la più criminale deportazione di massa della storia. Allora si decise di inter-narli nelle fortezze del Nord-Italia; le prime deportazioni incominciarono nell’otto-bre del 1860. Stipati come bestie sulle navi, furono fatti sbarcare a Genova, da dove,attraversando laceri e affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi diconcentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forteS. Benigno in Genova, a Milano, a Bergamo e in varie altre località del nord. In queiluoghi, appena coperti di cenci di tela, vissero in condizioni terribili. Per oltre diecianni, oltre 40.000, rei solo di aver tenuto fede al loro giuramento, morirono per famestenti e malattie.

Quelli deportati a Fenetrelle, ufficiali, sottufficiali e soldati semplici, subirono iltrattamento più feroce; il 22 Agosto 1861 tentarono anche una rivolta per impadro-nirsi della fortezza. La rivolta fu scoperta prima dell’azione e il tentativo ebbe comerisultato l’inasprimento delle pene con i più costretti con una palla al piede da 16kg., ceppi e catene. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizio-ni, anche per le gelide temperature invernali a 1.600 metri d’altezza che dovevanosopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. La liberazione avveniva solocon la morte e i corpi venivano disciolti nella calce viva.

Ancora oggi, nell’archivio storico della fortezza, ci sono i registri dei prigionierie ognuno di loro porta la dicitura “prigionieri di guerra” in francese con le date(1861, 1862) di un’Italia già unita.

Oggi i libri di testo osannano i vari Garibaldi, Cavour, Re Vittorio Emanuele II,ma nessuno si ricorda di questi meridionali, nostri avi, morti senza onore, senzatombe, senza ricordo, neanche una stele alla memoria.

Se una nazione si ritiene democratica è anche giusto che divulga ai suoi concitta-dini la vera storia e soprattutto che vengano ricordati i primi centri di deportazionedi massa.

Queste brevi note dovrebbero soprattutto far riflettere gli innumerevoli meridio-nali che vivono e producono al nord – non ci riferiamo solo agli operai ma anche ailaureati e gente cosiddetta di cultura – e che vituperano spesso la loro terra d’origine.

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Capitolo 13

Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più

A Napoli il 2017, nel cinquantenario della morte, è stato dedicato all’ indimenti-cabile Totò (fig. 1), dal Maggio dei monumenti ad alcune grandi mostre (fig. 2), cheperò hanno trascurato alcuni aspetti essenziali della sua biografia, alla pari delle de-cine di libri (fig. 3) su di lui usciti durante l’anno. Sono parentesi importanti, che nonpossono essere più trascurate:dalla sua presunta nobiltà, a chifu dedicata la canzone Malafem-mina (fig. 4), oltre ad alcunidubbi sulla completa autografiadella celebre poesia A’ livella(fig. 5).

Sono quesiti che ho da tem-po risolto, grazie alla testimo-nianza del suo compianto cuginoFederico (fig. 6), due volte rela-tore ed abituale frequentatore delmitico cenacolo culturale di miamoglie Elvira, che per oltre 10anni si è tenuto ogni mercoledìnei saloni della mia villa di Po-sillipo (fig. 7-8).

Ho trattato dell’argomento il 27 luglio del 2002 nella pagina culturale del quoti-diano Cronache di Napoli di cui all’epoca ero responsabile e lo scritto è stato poi ri-preso nelle pagine del mio libro Le ragioni di della Ragione, pubblicato nel 2005.

Riproponiamo ai lettori il testo dell’articolo dal titolo eloquente e vogliamo ri-cordare un dettaglio: l’usanza di applaudire la salma del defunto, all’uscita dellachiesa, dopo la messa, nacque spontaneamente ai funerali di Totò (fig. 9-10), tenutisia piazza Mercato ed ai quali parteciparono commosse 50.000 persone, tra cui il sot-toscritto.

Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più. Un libro su Napoli e lanapoletanità che non dedichi un capitolo a Totò non si può nemmeno immaginare,

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Fig. 1 - Totò monarchico

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ma su di lui sono statiscritti decine di volumi,per cui è difficile ag-giungere qualcosa di ori-ginale.

Faremo tesoro di al-cune interviste che ab-biamo avuto modo di fa-re alcuni anni fa alla fi-glia e ad un cugino del

grande artista per parlare del museo del quale da decenni, ad ogni tornata elettorale, siannuncia l’apertura e della presunta nobiltà del principe, sulla quale possiamo presen-tare documenti decisiviche dimostrano che sitratta di uno scartiloffio.

Negli ultimi giornile pagine dei quotidianinapoletani si sono infit-tite di altalenanti notiziesulla casa natale di Totò(fig. 11) che cambiavaproprietario, mettendo arepentaglio il destino didue anziani coniugi ul-traottuagenari, da decen-ni custodi fedeli ed a ri-chiesta dispensatori dimemorie sui primi vagitied i primissimi anni del-l’immortale attore. Si

sono susseguiti innume-revoli colpi di scena,quali la scoperta anagra-fica, ottenuta compul-sando antichi archivi,che l’abitazione oggettodella diatriba, sita in viaSanta Maria Antesecula109 nel popolare rioneSanità, non era forse il

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Fig. 2 - Tre mostre su Totò

Fig. 3 - I libri su Totò

Fig. 4 - Canzone Malefemmena di Totò

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vero luogo di nascita delprincipe della risata,bensì l’evento sarebbeavvenuto nel palazzoadiacente, oppure che inuovi proprietari, dopoun sogno premonitore,erano intenzionati a far-ne un Vittoriale di ri-membranze. Tanto casi-no sui giornali ha datocome sempre l’occasio-ne alle autorità politichedi occupare la scena, im-ponendo tardivi vincolidi destinazione alla po-vera casetta o blaterando vanamente sull’imminente apertura del museo dedicato adAntonio De Curtis nello storico palazzo dello Spagnolo. Apertura della quale da an-ni si parla come prossima in comunicati stampa diramati a gara ad ogni ricorrenzadal Comune e dalla Regione, ridondanti di paroloni, ma vuoti come consuetudine dipragmatismo.

A tal proposito abbiamo voluto sapere come realmente sta la situazione dalla vi-va voce della figlia dell’artista (fig. 12), la quale ci ha concesso un’intervista:

“È tutta colpa di un cesso”, così ha esordito la signora Liliana in un romanescostretto e cacofonico lontano mille miglia dalle sonorità onomatopeiche del nostrovernacolo.

“Un cesso?” “Certo, il museo si trova agli ultimi piani del palazzo ed è perciònecessario un ascensore; a tale scopo ne ho fatto approntare la tromba già da tempo,

ma mentre i mesi e gli anni passano per le lungaggi-ni burocratiche un inquilino del palazzo ha decisodi costruirvi abusivamente all’interno un cesso. Co-se che capitano solo a Napoli”

“È fiduciosa nell’inaugurazione autunnale?”“Lo spero con i dovuti scongiuri e quando apri-

rà io sarò in prima fila nell’organizzazione con se-minari, dibattiti ed incontri con i giovani. Sarà unmuseo molto vivo e Totò sarà contento”

“Si riuscirà a riempire tutti i locali?”“Certamente c’è molto materiale, sarà anche ri-

costruita la stanza dove nacque mio padre”Da parte nostra speriamo che a ciò che metterà

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Fig. 5 - Totò poesia

Fig. 6 - Federico De Curtis

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a disposizione la signoraDe Curtis, si riuscirà adaggiungere il contenutodi quel famoso baule(fig. 13), oggi proprietàdel figlio di un cuginodell’attore, da pocoscomparso, un certo Fe-derico Clemente. Il bau-le, conservato a Pollena-trocchia è ritenuto pocomeno di un reliquario,infatti la richiesta delproprietario è di 800 mi-

lioni delle vecchie lire, una cifra cospicua per la quale bisogna sperare nell’interven-to delle Istituzioni. Quando tutto sarà pronto il museo costituirà un’attrazione moltoforte per i napoletani e per i forestieri, per cui si tratterà pur sempre di un buon inve-stimento.

Questi episodi di attualità invitano a parlare di nuovo di Totò, una figura ormaientrata di diritto nella leggenda, ma dopo i fiumi d’inchiostro versati sull’argomentoin decine di libri che hanno saturato da tempo le scansie delle librerie degli appassio-nati, non è lecito scriverne ancora se non si è in grado di aggiungere qualche novità.Ed è quello che ci proponiamo di fare grazie all’amicizia che nutriamo da anni conun cugino dell’indimenticabile attore: il maestro Federico De Curtis.

Prima di discutere della nobiltà dell’artista vorremmo spendere qualche parolasu un aspetto trascuratodell’arte di Totò: il sur-realismo.

Il genio di Totò èuniversale ed incom-mensurabile, ma la suafama è sempre stata cir-coscritta ai confini patri,colpa di una critica mio-pe, quando l’attore erain attività, di traduzionie doppiaggi a dir pocodeleteri e di una distri-buzione all’estero mal-destra ed approssimati-va.

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Fig. 7 - Salotto Elvira

Fig. 8 - Salotto Elvira

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Negli ultimi anni grandirassegne in Europa ed oltreo-ceano sui suoi film più celebrihanno in parte colmato questagrave lacuna, ma forse è trop-po tardi per portare in tutto ilmondo il suo umorismo strari-pante, la sua figura dinoccolu-ta, la sua maschera comica etragica allo stesso tempo, de-gna della fama e dell’immorta-lità di un archetipo greco. Ilritmo dei suoi film mostra i se-gni del tempo, né più né menodella produzione di mitici personaggi come Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un pec-cato che dalla sua immutata vitalità possano continuare a trarre linfa vitale solo gliItaliani e pochi altri.

Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo teatro, delquale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata sottovalutata anche dallacritica più attenta. Nei trattati di cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel edelle sue impeccabili creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale diTotò, che avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero sicu-ramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo verbo.

I due orfanelli (fig. 14), uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è lalampante dimostrazione. L’altro giorno è stato messo in onda dalla televisione ed ho

potuto gustarlo credoper la centesima volta.Quelle sue battute al ful-micotone, immerse inun’atmosfera onirica,cariche di antica saggez-za invitano alla medita-zione ed acquistanosmalto ed attualità colpassare del tempo. Sonodegne di un’antologia dastudiare in tutte le scuo-le. Ne rammento qualcu-na per la gioia della ster-minata platea dei suoiammiratori:

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Fig. 9 - Funerali

Fig. 10 - Tomba di Totò

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Ai generosi cavaliericorsi a salvarlo nelle ve-sti di Napoleone.

“Ma quando mai co-loro che provocano leguerre corrono dei peri-coli”

All’amico che glimanifestava stupore nelconstatare che i cattivivengono premiati ed ibuoni vengono castigati.

“Ma di cosa ti preoc-cupi la vita è un sogno”

Ed infine all’abate Faria che lo invitava a scappare“Ma perché debbo scappare, sono innocente”“Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!”Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la presentazio-

ne di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che mi ha permesso di fa-re un figurone.

Ma ritorniamo al racconto del cugino di Totò, il quale con squisita gentilezza ciha fornito una serie di notizie che, integrate da alcune ricerche genealogiche, ci per-mette oggi di escludere categoricamente la nobiltà tanto agognata da Totò, perché loriscattava da un triste passato di figlio di N.N.

Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commneno Porfirogenito Gagliardide Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro RomanoImpero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopo-li, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, con-te e duca di Drivasto e di Durazzo, così amava definirsi il grande Totò, il quale pur difregiarsi di questi altisonanti titoli nobiliari spese una fortuna, ma senza rimpianti.

Questa sfilza di titoli, a cui tanto teneva ilPrincipe del sorriso non furono altro che ilfrutto di un raggiro ad opera di un tal Pellicani,esperto di araldica oggi ottantenne ma ancoraattivo con studio a Roma e a Milano.

Il primo a sentire puzza di bruciato e odoredi truffa fu Indro Montanelli e lo esplicitò inun suo articolo, ma all’epoca non vi erano leprove inoppugnabili dello scartiloffio.

Oggi viceversa sono disponibili due bendistinti alberi genealogici, uno di Totò e della

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Fig. 11 -Targa casa natale di Totò

Fig. 12 - Liliana De Curtis

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sua famiglia e l’altro di un tal Ca-millo de Curtis, un gentiluomo disettantanove anni, da anni residentea Caracas, legittimo erede dei pom-posi titoli nobiliari, assunti in epocaremota da un suo avo tale Gasparede Curtis.

Il Pellicani, che tra l’altro, comeci ha assicurato il colonnello Bella-ti, è stato per un periodo ospite delloStato…creò, secondo quanto riferi-toci dal tenore De Curtis, che da decenni s’interessa alla vicenda, documenti dubbi,quali una sentenza del Tribunale di Avezzano emessa nel 1914, pochi mesi primache un cataclisma devastasse la città, distruggendo la cittadella giudiziaria ed altredue sentenze, l’una del 1945, l’altra del 1946, del Tribunale di Napoli, oggi conser-vate all’Archivio di Stato, completamente diverse nella grafia da tutte le altre cartecontenute nel faldone ed inoltre pare combinò artatamente le due discendenze car-pendo l’ingenuità del grande artista che, una volta riconosciuta la sua preclara di-

scendenza, fino alla morte amò di-stinguere la maschera, irriverentescoppiettante e canzonatoria, dal No-bile, gentile, educato e distaccato da-gli eventi e dalle passioni. Pubbli-chiamo per la prima volta questi duealberi genealogici, uno dei quali inda-gato fino al 1750 e dal loro esame èincontrovertibile che il marchese Ca-millo de Curtis appartiene ad una di-versa schiatta.

Ciò che abbiamo riferito sulla ba-se delle confidenze del maestro Fede-rico, non sposta naturalmente una vir-gola nella straripante venerazione concui legioni di estimatori ricordano ilgrande, inimitabile, immortale artistae tra questi ai primi posti, teniamo aprecisare a scanso di equivoci, sta ilsottoscritto, il quale ha rivisto ognifilm di Totò non meno di quaranta -cinquanta volte ed è in grado di ripe-terne a memoria qualsiasi battuta, tut-

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Fig. 13 - Baule

Fig. 14 - Locandina, I due orfanelli

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te le poesie e tutte le canzoni. Ma a pro-posito di canzoni, trovandoci, vogliamorendere pubbliche altre confidenze forni-teci gentilmente dal parente dell’attore,cugino di secondo grado, il quale, a ri-guardo dell’indimenticabile canzone“Malafemmina” (fig. 15) tiene a precisareche la stessa fu dedicata alla moglie Dia-na, ancora oggi vivente e non a SilvanaPampanini (fig. 16), che l’idea della me-lodia Totò la prese da una analoga canzo-ne dello zio, padre del maestro Federico,ed infine che a ritoccare musica e parolemisero mano il maestro Bonagura e Gia-como Rondinella. E per terminare anchela famosa “Livella”si mormora fosse statacorretta… da Mario Stefanile.

Concludiamo un articolo, apparente-mente denigratorio, ma rispettoso della veri-tà storica con un inno all’arte di Totò, subli-me nel senso più puro, come inteso daNietzsche, infatti il grande pensatore tede-sco riteneva che il sublime si raggiungessesoltanto quando la comicità della commediasi congiungeva al dramma della tragedia.

E siamo inoltre certi che Totò dallatomba se leggesse ciò che abbiamo scrittosaprebbe commentare le nostre parole senon con una pernacchia almeno con un pe-rentorio: “Ma ci facciano il piacere.”

Creatore di una lingua geniale, causticae scoppiettante, piena di onomatopeici neo-logismi, espressa in più di cento film, a talpunto che Fellini, pieno di giusta ammira-zione, lo definiva benefattore dell’umanità.

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Fig. 15 - Locandina

Fig. 16 - Silvana