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© Giovanni Fioriti Editore s.r.l. 75 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 2, 75-88 ESISTE UN’INTELLIGENZA DIGITALE? SÌ E PUÒ ESSERE DIMOSTRATO 1 Paolo Ferri* La rivoluzione digitale sembra aver prodotto una trasformazione più radicale di quella tecnologica, una vera e propria “trasformazione antropologica”e sembra configurare l’emergere di una nuova forma di intelligenza umana, l’intelligenza digitale, appunto. L’ “intelligenza digitale” è nata, infatti, dagli effetti combinati dell’affermarsi della rivoluzione digitale cui abbiamo assistito negli ultimo trent’anni e dell’adattamento proattivo a questi cambiamenti della capacità cognitiva della specie umana: i protagonisti di questa “mutazione antropologica” sono i “nativi digitali”, i bimbi e i pre-adolescenti nati a partire dalla fine degli anni Novanta. L’intelligenza digitale è all’opera, ad esempio, quando clicchiamo su un link ipertestuale all’interno di una pagina Internet o facciamo seguire a Super Mario un percorso piuttosto che altro nel suo mondo virtuale attraverso i controller della Wii. Sono le neuroscienze, in primo luogo, a portare le prove dell’esistenza di questa nuova intelligenza. Nel 2012, gli scienziati del University College di Londra guidati da Geraint Rees, ad esempio, hanno studiato l’effetto di Facebook sul cervello di 125 ragazzi “forti” utenti del social network di Zuckerberg. Esaminando il loro cervello attraverso le tecniche del neuro-imaging 3D, si è scoperto un aumento della materia grigia nell’amigdala (zona cerebrale coinvolta nella memoria emozionale) dei giovani che avevano il maggior numero di amici su Facebook è cioè un potenziamento dell’intelligenza emotiva (http://www.ucl.ac.uk/ news/news-articles/1110/11101801-facebook-friends-linked-to-size-of-brain). Sempre nel 2012 gli scienziati della Jao Tong Medical School di Shanghai (Lin et al. 2012), hanno studiato con tecniche analoghe il cervello dei forti utenti di Internet e scoperto che presenta un’anomala quantità di materia bianca (i fasci di fibra nevosa ricoperti di mielina che collegano encefalo e midollo spinale) nelle zone dove hanno sede il controllo neuromotorio, l’attenzione, e le funzioni esecutive; l’interpretazione di questo dato è controversa più connessioni neurali e quindi più creatività e idee oppure meno attenzione e riflessione? Quello che è certo è che il nostro cervello sta cambiando molto velocemente. La causa della sua trasformazione, anche a livello biologico, non solo culturale è molto probabilmente nell’interazione con i nuovi media. Si tratta perciò di un fenomeno correlato alla estrema plasticità neurale del nostro sistema nervoso, in particolare nelle prime fasi della vita, ma che perdura nell’arco di durata di tutta la vita (una scoperta degli ultimi 15 anni). Il cervello umano è infatti molto più plastico (Fisher 2007) di quanto si ritenesse in precedenza ed evolve e si modifica permanentemente e in modo individuale e molto personale (Koizumi 2000), sviluppando e intersecando intelligenze differenti e reti neurali sempre più ramificate e 1 Il presente articolo riprende e attualizza la mia trattazione di questo tema condotta nel capitolo 5 Verso un’intelligenza digitale, del mio saggio Nativi Digitali, Bruno Mondadori, 2011 SOTTOMESSO MAGGIO 2013, ACCETTATO OTTOBRE 2013

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© Giovanni Fioriti Editore s.r.l. 75

Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 2, 75-88

ESISTE UN’INTELLIGENZA DIGITALE? SÌ E PUÒ ESSERE DIMOSTRATO1

Paolo Ferri*

La rivoluzione digitale sembra aver prodotto una trasformazione più radicale di quella tecnologica, una vera e propria “trasformazione antropologica”e sembra confi gurare l’emergere di una nuova forma di intelligenza umana, l’intelligenza digitale, appunto. L’ “intelligenza digitale” è nata, infatti, dagli effetti combinati dell’affermarsi della rivoluzione digitale cui abbiamo assistito negli ultimo trent’anni e dell’adattamento proattivo a questi cambiamenti della capacità cognitiva della specie umana: i protagonisti di questa “mutazione antropologica” sono i “nativi digitali”, i bimbi e i pre-adolescenti nati a partire dalla fi ne degli anni Novanta. L’intelligenza digitale è all’opera, ad esempio, quando clicchiamo su un link ipertestuale all’interno di una pagina Internet o facciamo seguire a Super Mario un percorso piuttosto che altro nel suo mondo virtuale attraverso i controller della Wii. Sono le neuroscienze, in primo luogo, a portare le prove dell’esistenza di questa nuova intelligenza. Nel 2012, gli scienziati del University College di Londra guidati da Geraint Rees, ad esempio, hanno studiato l’effetto di Facebook sul cervello di 125 ragazzi “forti” utenti del social network di Zuckerberg. Esaminando il loro cervello attraverso le tecniche del neuro-imaging 3D, si è scoperto un aumento della materia grigia nell’amigdala (zona cerebrale coinvolta nella memoria emozionale) dei giovani che avevano il maggior numero di amici su Facebook è cioè un potenziamento dell’intelligenza emotiva (http://www.ucl.ac.uk/news/news-articles/1110/11101801-facebook-friends-linked-to-size-of-brain). Sempre nel 2012 gli scienziati della Jao Tong Medical School di Shanghai (Lin et al. 2012), hanno studiato con tecniche analoghe il cervello dei forti utenti di Internet e scoperto che presenta un’anomala quantità di materia bianca (i fasci di fi bra nevosa ricoperti di mielina che collegano encefalo e midollo spinale) nelle zone dove hanno sede il controllo neuromotorio, l’attenzione, e le funzioni esecutive; l’interpretazione di questo dato è controversa più connessioni neurali e quindi più creatività e idee oppure meno attenzione e rifl essione? Quello che è certo è che il nostro cervello sta cambiando molto velocemente.

La causa della sua trasformazione, anche a livello biologico, non solo culturale è molto probabilmente nell’interazione con i nuovi media. Si tratta perciò di un fenomeno correlato alla estrema plasticità neurale del nostro sistema nervoso, in particolare nelle prime fasi della vita, ma che perdura nell’arco di durata di tutta la vita (una scoperta degli ultimi 15 anni). Il cervello umano è infatti molto più plastico (Fisher 2007) di quanto si ritenesse in precedenza ed evolve e si modifi ca permanentemente e in modo individuale e molto personale (Koizumi 2000), sviluppando e intersecando intelligenze differenti e reti neurali sempre più ramifi cate e

1 Il presente articolo riprende e attualizza la mia trattazione di questo tema condotta nel capitolo 5 Verso un’intelligenza digitale, del mio saggio Nativi Digitali, Bruno Mondadori, 2011

SOTTOMESSO MAGGIO 2013, ACCETTATO OTTOBRE 2013

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complesse in risposta agli stimoli di un ambiente sempre più digitalizzato ed interconnesso. Afferma a questo proposito la psicologa statunitense Patricia Greenfield su Science, in un

articolo dove ha analizzato più di 50 studi relativi agli effetti dei nuovi media sulle dinamiche neurali “ogni medium sviluppa nuove capacità cognitive a spese di altre: stare molte ore al computer, anche per un video gioco, ad esempio, migliora la nostra intelligenza spazio-visuale e ci abitua a seguire più segnali simultaneamente” (Greenfield 2009, pp. 67-79).

La co-evoluzione tra tecnologie digitali e il loro uso sociale e individuale ha, perciò, dato vita a un nuovo modo di pensare, di vedere e costruire il mondo. Ma quali caratteristiche ha l’ “intelligenza digitale”? Le ricerche nel campo della neurofisiologia e delle neuroscienze, testimonino il fatto che l’attività cerebrale venga profondamente modificata dall’utilizzo dei media digitali, o meglio vengono radicalmente modificale le immagini delle aree di attivazione neurale che vengono rilevate dalle PET e dalle RMN durante l’utilizzo di schermi interattivi rispetto ai loro corrispettivi analogici e gutemberghiani: intelligenza spaziale, multitasking, conoscenza per esplorazione e scoperta sono i principali tratti di questa nuova modalità di interagire con il mondo. Inoltre alcune aree cerebrali sembrano svilupparsi maggiormente in presenza di un uso quotidiano dei media digitali e di Internet riprogrammando le nostre menti come sostengono molti neuroscienziati ad esempio il giapponese Koizumi (Koizumi 2005), uno dei più grandi esperti mondiale delle studio funzionale delle dinamiche cerebrali (PET, RNM). Non è affatto detto che questa trasformazione debba essere considerata così catastrofica come la considerano alcuni studiosi ad esempio Nicholas Carr nel suo controverso Internet ci rende stupidi (2010).

Il genere homo sta trasformandosi da homo sapiens sapiens a homo sapiens digitalis. Lo stesso Howard Gardner, grande studioso dell’intelligenza e teorico delle intelligenze multiple, in un paper (Gardner 2003) ipotizza l’esistenza di questo tipo di intelligenza insieme a quella “sessuale”. Ma lo studioso che ha costruito un vero e proprio frame teorico rispetto all’intelligenza digitale è Antonio Battro (Battro e Denham 2007), neuroscienzato del MIT e di Harvard e Chief Educational Officer del progetto OLPC (One Laptop per Child), il progetto avviato da Nicholas Negroponte2. L’intelligenza digitale, come emerge anche dalle ricerche che abbiamo preso in esame in precedenza (CERI/OECD 2010; Becta 2008a, 2008b; Lenhart et al. 2010), sembra proprio essere il campo cognitivo privilegiato dai nativi digitali.

Proviamo a indagare questo nuovo dominio delle facoltà cognitive dei nostri figli. In primo luogo è necessario notare come per il momento l’idea di un’intelligenza digitale sia ancora un’ipotesi euristica, un modello che sfida le nostre capacità di comprensione e le nostre capacità di sperimentazione relative ai processi cognitivi in termini di apprendimento, nonché di socializzazione. Molte ricerche internazionali che abbiamo preso in considerazione, oltre a quelle sviluppate direttamente presso il nostro Dipartimento di scienze della formazione (Mantovani e Ferri 2008) e quelle recentemente pubblicate nel campo delle neuroscienze e della neurofisiologia da noi svolte (Ferri et al. 2009), indicano l’emergere di nuove competenze cognitive che non vengono spiegate attraverso le attuali categorie interpretative. Proviamo perciò ad analizzare

2 Per il progetto OLPC si vedano i siti http://laptop.org/en e http://laptop.org/it; una biografia italiana di Antonio Battro può essere reperita al seguente indirizzo web:http://laptop.org/en/utility/people/antonio-battro.html.

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questa “nuova intelligenza” e avviamo l’indagine cercando innanzitutto di spiegare che cosa non è. Per intelligenza digitale non si intende né quella forma di intelligenza che è stata definita da Howard Gardner “intelligenza logico-matematica”, né una nuova variante dell’intelligenza linguistica. Gardner (2006a) ha infatti autorevolmente rimarcato come le “intelligenze”, e cioè le forme di adattamento del nostro io individuale e collettivo al mondo e all’ambiente, non possano essere considerate un insieme chiuso e limitato.

Non lo sono nemmeno le sette intelligenze codificate da Gardner nel 1983: l’intelligenza logico-matematica, l’intelligenza linguistica, quella spaziale, quella musicale, cinestetica, interpersonale e intrapersonale (Gardner 1983). Il padre della teoria delle intelligenze multiple afferma, infatti, nel 2006: “Nella vita, la maggior parte dei problemi non si presenta in forma semplice e pronta per essere risolta: la maggior parte delle soluzioni ai problemi deve essere “costruita” e organizzata a partire da eventi, accadimenti e informazioni che provengono dall’ambiente tecno-sociale circostante e per questo abbiamo bisogno di una migliore comprensione del contesto per risolvere tali problemi” (Gardner 2006a, pp. 210-211).

L’intelligenza digitale può essere quindi definita, seguendo le ultime tendenze del pensiero di Gardner e di Battro, come una “nuova intelligenza” (Battro e Denham 2007). Essa si presenta come il prodotto dell’intersezione e della co-evoluzione di alcune caratteristiche culturali e tecnologiche delle società informazionali sviluppate contemporanee. Per esempio, l’affermarsi della rivoluzione digitale cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni e l’adattamento proattivo a questi cambiamenti della capacità cognitiva della specie umana che è stato messo in campo in particolare dalle generazioni dei nativi digitali a partire dagli anni novanta.

Proviamo a definire meglio il nostro oggetto; in seguito, per dare fondatezza a questa analisi, sottoporremo l’intelligenza così definita agli otto test che, secondo Gardner (1983), una facoltà o competenza della mente deve superare per poter essere considerata un’intelligenza autonoma. In primo luogo, è necessario rilevare come il termine “digitale” sia un termine plurivoco. Comprende cioè una molteplicità di significati nel linguaggio naturale, che possono essere forieri di confusione nel discorso che intendiamo sviluppare e che quindi è necessario disambiguare. In particolare, possiamo individuare le seguenti accezioni del termine “digitale”:1) Con questo termine si identifica un codice numerico particolare in base 2 che permette per

esempio di rappresentare numeri e caratteri sulla base di sequenze codificate di 0 e di 1.2) Il termine, inoltre, indica un estremo dello spettro che va dal continuo al discreto, indica

cioè la possibilità di esprimere quantità continue (tradizionalmente intese come qualitative) attraverso l’utilizzo del codice binario: per esempio, un colore può essere definito sullo schermo di un computer attraverso l’utilizzo di un numero elevato ma definito di coppie di codici binari che identificano le coordinate cartesiane e il colore di punti specifici sullo schermo (pixel). L’insieme di questi pixel, che identifica anche la risoluzione dello schermo (per esempio 1024 × 720 pixel), compone i colori dello spettro del visibile attraverso grandezze discrete sullo schermo del computer.

3) Il termine “digitale” identifica poi un linguaggio di programmazione basato su regole formali che permettono di ricodificare in modo discreto anche quantità continue e di esprimere attraverso sequenze di numeri, per esempio, l’alfabeto esadecimale o i numeri, le immagini o i video.

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4) “Digitale” identifica anche, in inglese, la capacità di muovere le dita delle mani: questa definizione, per esempio, indica la possibilità di “digitare” parole su uno schermo. Si tratta delle tradizionali definizioni del termine, ma Antonio Battro ne propone una nuova che sarà molto utile per la nostra successiva dimostrazione dell’esistenza di un’intelligenza digitale.Nell’accezione in cui intenderemo il termine, esso identifica l’abilità cognitiva di utilizzare

l’alternativa “sì/no”, “azione/inazione” all’interno del nuovo spazio digitale dello schermo che è diventato la tecnologia caratterizzante della trasmissione del sapere. Per esempio, identifica la possibilità di attivare o non attivare un link ipertestuale all’interno di una pagina web, o la possibilità, più complessa dal punto di vista cognitivo, di tracciare un percorso intenzionale tra i link, cioè di seguire attraverso una decisione specifica questo o quel link in una pagina Internet o un determinato percorso di gioco in una consolle.

Ma in che cosa si distingue l’intelligenza digitale dalle altre molteplici intelligenze che secondo Gardner costituiscono lo spettro delle intelligenze umane? In altre parole, in che cosa differisce dalle intelligenze “analogiche” che hanno dominato la rappresentazione della conoscenza messa in campo nell’epoca di Gutenberg e nelle epoche precedenti della civilizzazione umana? Ritorniamo ancora una volta sulla coppia oppositiva analogico-digitale.

Se infatti, seguendo l’esempio di Antonio Battro (Battro e Denham 2007, p. 7), dobbiamo tratteggiare la differenza tra una macchina – per esempio una bilancia – analogica e una digitale, per ciò che riguarda la prima possiamo affermare che si tratta di una macchina che misura il peso degli oggetti su una scala continua in relazione a una determinata unità di misura di riferimento della massa. I piatti della bilancia stanno in equilibrio o si abbassano con velocità diverse, ma sempre in modo continuo: infatti, in relazione alle differenze di peso degli oggetti caricati sui piatti, la velocità del movimento dei bracci è inversamente proporzionale alla radice quadrata della differenza di peso. Una macchina digitale come una bilancia elettronica, invece, trasforma istantaneamente il peso dell’oggetto in un codice digitale. Misura cioè la massa di un oggetto in unità discrete e in maniera diretta senza necessità di comparazione di grandezze continue.

La nostra mente è in grado di operare attraverso entrambe le strategie di elaborazione delle informazioni, sia analogiche che digitali, utilizzando cioè sia codici analogici di natura continua sia codici digitali di natura discreta. È infatti il cervello che deriva le informazioni e misura il peso di un oggetto soppesandolo tra le due mani, e cioè funzionando come una bilancia analogica, oppure che rileva le misurazioni istantanee, per esempio, di due oggetti, che ricava dallo schermo di una bilancia elettronica comparandole attraverso un calcolo per differenza delle quantità discrete e ricavando in questo modo le differenze di peso tra i due oggetti concreti.

Ma questo tipo di comparazione rientra nel campo dell’intelligenza matematica e non specifica la natura dell’intelligenza digitale (ivi, p. 8). In effetti non esiste coincidenza tra la capacità di operare sui simboli matematici e la capacità di accendere e spegnere un interruttore, o di scegliere questo o quel link all’interno di una pagina Internet, attraverso quella che definiremo, con Battro, “opzione click”. Questa facoltà elementare è quella che viene definita da Battro come una delle condizioni necessarie per affermare l’esistenza di un’intelligenza digitale.

Seguiamo Battro nel suo ragionamento: Pensiamo che l’intelligenza digitale si fondi sulla selezione di un’alternativa semplice, l’opzione click, appunto, che è l’unità fondamentale di una euristica di natura binaria [la scelta tra un link, o un tasto piuttosto che un altro], e che si tratti di

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un’abilità di carattere eminentemente pratico. Questa scelta o opzione può applicarsi ad ambienti e supporti molto differenti e si esprime per esempio nel premere pulsanti di ogni tipo, aprire o chiudere manopole. In effetti la cultura industriale ha sviluppato negli ultimi due secoli una vasta gamma di strumenti e apparecchiature elettromeccaniche, che funzionano sulla base di questo principio. Ma dobbiamo riconoscere che la crescita di questa “abilità digitale” è stata rapidissima ed esplosiva negli ultimi due decenni con la diffusione senza precedenti dei personal computer, che ha condotto all’affermarsi della nuova cultura digitale nella storia dell’umanità.

Mostreremo ora come la natura di queste operazioni di scelta binaria sia “materiale” e di base e non possa semplicemente essere identificata come un’alternativa e una variante dell’algebra di Boole (ivi, p. 22). In effetti, mentre le operazioni logico-simboliche richiedono, come ha dimostrato tutta la psicologia evolutiva piagettiana e postpiagettiana, fasi avanzate dello sviluppo, e il raggiungimento della “fase delle operazioni concrete” (7-11 anni) e di “quelle astratte” (11-14 anni), il “cliccare” sui link di una pagina web è un’attività molto elementare e non richiede competenze di natura logico-matematica e può essere compiuta anche da un bambino di 3 anni. L’intelligenza digitale non è la capacità di elaborare simboli astratti; si tratta, invece, di un altro tipo di facoltà mentale e cerebrale, che si è prodigiosamente sviluppato nei nativi a partire dalla diffusione di massa delle tecnologie digitali. Ma perché noi “nativi gutenberghiani”, o immigranti digitali, facciamo così fatica ad adattarci alle varie “opzioni click” richieste dall’utilizzo di macchine digitali, mentre i nostri figli sembrano non avere questi problemi? Perché da quando ha 5 anni (ora ne ha 7) mio figlio mi batte regolarmente, quando ci sfidiamo con una consolle per videogiochi, la Wii che ci appassiona entrambi? Si tratta di un fenomeno legato all’estrema plasticità neurale del cervello umano nelle prime fasi della vita, ma che, contrariamente a quanto si pensava fino a pochi anni fa, perdura per tutto il corso della nostra esistenza. Il cervello è infatti plastico (Battro et al. 2008) ed evolve e si modifica per tutto il corso della vita in modo peculiarmente personale, sviluppando e intersecando intelligenze differenti e reti neurali sempre più ramificate e complesse. La plasticità neurale non solo dura per tutta la vita – come ci dicono recentissime acquisizioni delle neuroscienze (Rizzolatti e Sinigaglia 2006) – ma agisce in continuo anche in conseguenza di attivazioni della “memoria selettiva” molto brevi: per esempio il nostro cervello, dopo che abbiamo ascoltato o assistito a una conferenza, si riconfigura e sviluppa nuove, più articolate connessioni neurali e dendritiche.

Questo processo è perciò costante (Koizumi 2005, Ferri et al. 2009). Una delle prove più evidenti della straordinaria plasticità del nostro cervello è rintracciabile nella enorme quantità di lingue che si sono sviluppate nel corso della storia dell’uomo e nella ancor più grande peculiarità delle culture, anche all’interno delle singole lingue. Inoltre, ogni singolo individuo sviluppa personali e peculiari forme di manipolazione dei simboli e dei linguaggi. Ora, come sostiene Antonio Battro, una di queste lingue ha un carattere binario e rigorosamente formalizzato e si esprime nel “codice digitale” che ci permette di interfacciare il nostro sistema senso-percettivo e di stabilire una comunicazione con i calcolatori, i vari devices digitali, e i software. In questo modo il “codice binario” ha provocato indirettamente e attraverso una lunga serie di mediazioni un cambiamento profondo nel nostro modo di gestire le relazioni e la comunicazione sociale (Battro e Denham 2007, p. 35).

La rivoluzione digitale, oltre a essere il tratto caratterizzante della società informazionale

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contemporanea, ha indotto molti (Lévy 2001, Longo 2003, Negroponte 1995, Moriggi e Nicoletti 2009), tra i quali anche chi scrive, a immaginare la nascita di una nuova forma di Homo sapiens che si caratterizza per la sua capacità di interagire, meticciarsi e comunicare con grande facilità con le macchine digitali sempre più sofisticate che vengono ogni giorno progettate e messe sul mercato. Per utilizzare le parole di Giuseppe Longo, oggi siamo tutti diventati “simbionti strutturali” della tecnologia digitale, e cioè per vivere e produrre siamo sempre più interconnessi con la tecnologia, basti pensare al ruolo del cellulare o del laptop nella nostra vita. Come ha affermato spesso Nicholas Negroponte, ogni generazione sarà sempre più digitale della precedente ed è possibile che questo processo implichi anche una modificazione “epigenetica” del cervello dei nativi digitali. Per il momento questa affermazione è un’ipotesi euristica che richiede una sua dimostrazione, ma ci sono molti indizi convergenti per metterla alla prova di ancora più “sensate esperienze e rigorose dimostrazioni”.

Esiste un’intelligenza digitale quindi? Riformulando la domanda nei termini in cui lo farebbe il teorico delle intelligenze multiple Howard Gardner, è possibile individuare un potenziale (un’“intelligenza digitale” appunto) che può essere attivato o no dipendentemente dall’organizzazione e dai valori di una certa e definita cultura e dalle opportunità socio-tecnologiche che quella cultura rende disponibili agli uomini e alle donne che all’interno di quello specifico ambiente sociale vivono? (Gardner 1999, p. 34). In altri termini e più concretamente, quando interagiamo con gli strumenti digitali, per esempio quando decidiamo di cliccare su questo o quel link nel web, stiamo utilizzando una nuova forma di intelligenza? Lavoriamo, cioè, sulla “zona di sviluppo prossimale” della nostra mente aggiungendo una specifica facoltà alle nostre capacità cognitive o stiamo semplicemente operando un’assimilazione del modo di funzionare delle forme di intelligenza “tradizionali”?

La risposta a questa domanda è decisiva per comprendere se i nativi digitali, quando navigano in Internet o videogiocano, oppure apprendono o comunicano attraverso i social network, si stiano muovendo su un terreno d’esperienza e di cognizione nuovo, che quindi richiede nuovi strumenti di indagine e nuove metodologie di comprensione, oppure semplicemente utilizzino strumenti nuovi attraverso facoltà cognitive conosciute anche in passato. Discontinuità o continuismo? Esistono davvero i nativi digitali? Hanno davvero sviluppato, in questi anni, una nuova forma di intelligenza della quale è necessario indagare la differenza specifica? La risposta a queste domande non può essere impressionistica, ma deve fondarsi su uno schema interpretativo sufficientemente consolidato e corroborato. Le domande che abbiamo posto, infatti, possono avere grandi implicazioni sul modo in cui vengono analizzati, compresi, gestiti e governati i processi sociali, formativi e professionali contemporanei.

Comprendere meglio la nostra relazione con gli strumenti digitali significa, infatti, comprendere e gestire meglio la nostra vita in quasi tutte le sue dimensioni contemporanee. La nostra opinione, in proposito, è piuttosto radicale: i nativi digitali esistono e la loro differenza specifica è l’intelligenza digitale. Per giustificare questa affermazione, viste le sue rilevanti implicazioni, ci proponiamo di dimostrarla in maniera “obiettiva” e proveremo a farlo seguendo lo schema di dimostrazione dell’esistenza dell’intelligenza digitale che Antonio Battro propone nel suo Verso un’intelligenza digitale (Battro e Denham 2007).

Si tratta cioè di sottoporre a prova le evidenze empiriche e osservative che abbiamo analizzato

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nei capitoli precedenti relative ai comportamenti cognitivi e sociali dei nativi digitali. Occorre passare al vaglio di un protocollo “scientifico”, proposto da Gardner, la nuova forma specifica attraverso cui i nativi vedono e costruiscono il mondo. Per condurre questa analisi sottoporremo l’intelligenza digitale alla verifica “sperimentale” che Howard Gardner richiede per definire l’emergere di una nuova forma di intelligenza e per poterla classificare in quanto tale. Una nuova “intelligenza” o “una nuova forma mentis”, per essere tale e non costituire semplicemente un derivato di una forma di intelligenza già formalizzata, secondo Gardner (1983) deve rispondere alle seguenti caratteristiche e rispettare le seguenti condizioni:

1) Deve poter essere rilevata o attraverso prove “obiettive” (Battro e Denham 2007, capp. 1-5).2) Deve poter essere ricostruita una sua storia evolutiva specifica. (ivi, cap. 2).3) Deve poter essere articolata e cioè strutturata e ramificata in almeno due sottodomini, che ne

specifichino le funzioni e le dinamiche di funzionamento (ivi, cap. 3).4) L’intelligenza presa in esame deve poter essere codificata in un sistema simbolico particolare

che viene identificata dalla sua notazione specifica 5) Deve poter essere ricostruibile il suo sviluppo e cioè il suo articolarsi dal semplice al complesso,

dal più esperto al meno esperto.6) Devono esistere nel dominio dell’intelligenza digitale “casi eccezionali”, cioè casi di talenti

precoci, e devono esistere “incapacità” a sviluppare un’intelligenza digitale (ivi, cap. 5).7) Può interferire o perturbare il funzionamento di altre intelligenze o si può trasferire in maniera

proattiva ad altre intelligenze? 8) Deve poter essere misurata. Si può, cioè, in qualche modo, misurare l’intelligenza digitale e

valutarne lo sviluppo.

Analizziamo quindi più distesamente se l’intelligenza digitale dei nativi così come l’abbiamo presentata qui risponda alle condizioni poste da Gardner e possa perciò essere propriamente definita come una nuova modalità del conoscere.

Proviamo perciò a “dimostrare” l’esistenza di un’intelligenza digitale secondo i criteri di Gardner.

1. Esistono prove obiettive dell’intelligenza digitale?

La risposta è piuttosto semplice ed è tanto più efficace poiché le prove a favore di questo fatto vengono da un grande detrattore dell’intelligenza digitale, Nicholas Carr (2010), nell’ultimo e provocatorio saggio dal sottotitolo significativo What the Internet Is Doing to Our Brains (“Che cosa sta facendo Internet al nostro cervello”). Per sostenere la sua tesi, che può essere riassunta nell’assunto paradossale “Internet ci rende più stupidi”, egli riporta una serie di prove scientifiche ricavate da ricerche nel campo della neurofisiologia e delle neuroscienze testimonianti il fatto che l’attività cerebrale viene profondamente modificata – attenzione non peggiorata, solo modificata – dall’utilizzo di Internet, o meglio vengono modificate le immagini delle aree di attivazione neurale rilevate dalle PET e dalle RMN durante l’utilizzo di tecnologie digitali rispetto ai loro corrispettivi in presenza dell’utilizzo di tecnologie gutenberghiane.

L’uso di Internet e degli altri strumenti digitali che teniamo in tasca o sulle nostre scrivanie

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sta modificando la configurazione neurale della nostra mente, che presenta, come abbiamo visto sopra, un elevato tasso di plasticità. È sicuramente vero che la nostra mente, anche a livello di configurazione cerebrale, sta “co-evolvendo” con le nostre pratiche d’uso delle tecnologie, come sostengono molti neuroscienziati, per esempio il giapponese Koizumi (2005), uno dei più grandi esperti mondiali dello studio funzionale delle dinamiche cerebrali (PET, RMN). Le nostre menti e i nostri cervelli sono plastici e plasticamente si sviluppano in relazione alle tecnologie che utilizziamo, ma non è affatto detto che questa trasformazione debba essere considerata così catastrofica come la giudica Carr nel suo volume. La massa di informazioni in arrivo attraverso il web, il telefono, le e-mail sta cambiando non solo il modo con il quale ci informiamo, ma anche quello di pensare e di reagire, di interpretare le nuove pratiche comunicative implicate dalle

tecnologie. Una trasformazione e un cambiamento delle attivazioni e configurazioni neuronali sono ormai accertati “scientificamente”, ma certamente, come rilevano anche gli studi di Battro, Koizumi e altri neuroscienziati, non siamo ancora in grado di interpretare i dati degli strumenti e tanto meno gli effetti positivi o negativi di questa trasformazione: sappiamo che le immagini cerebrali sono differenti a seconda del supporto della comunicazione che utilizziamo, ma non sappiamo ancora che cosa questo significhi.

2. Esiste una storia evolutiva dell’intelligenza digitale?

La dimostrazione della presenza di questa condizione è piuttosto interessante, dal momento che la capacità di premere un pulsante per attivare un’“opzione click” del tipo acceso/spento, aperto/chiuso, è una facoltà non solo umana ma propria anche di alcuni primati e di altri animali, che la esercitano in maniera elementare. Per esempio, i primati ma anche i “topi” di Pavlov “imparano” ad aprire e chiudere un interruttore per procurarsi del cibo. Anche nell’uomo si assiste a un progressivo sviluppo di questa funzione, indipendente da altre tipologie di intelligenza che la praticano.

Secondo Battro è interessante notare come questa facoltà non coincida con l’intelligenza matematica che si fonda sulla espressione logica A/non B. In effetti, prosegue Battro, l’insieme delle osservazioni che possono essere condotte sugli animali e sui bambini ci permette di affermare che l’“opzione click”, la facoltà di chiudere e aprire un circuito elettrico per esempio, non è affatto un comportamento evolutivo recente che è stato messo sotto l’occhio dei riflettori dalla diffusione delle tecnologie digitali, ma è un comportamento molto più antico e fondamentale. È il frutto di un’evoluzione lenta e progressiva. Si tratta cioè di un comportamento che ha richiesto migliaia di anni di selezione naturale e sessuale e come tutte le altre forme di intelligenza rappresenta una risposta ai problemi di sopravvivenza e riproduzione che gli ominidi si trovarono di fronte sin dalla loro comparsa nell’Africa del Pleistocene. Quello che invece risulta piuttosto chiaro è che la diffusione di Internet e dei media digitali ha permesso uno sviluppo eccezionale di queste facoltà di base (Battro e Denham 2007, pp. 29-30). Per la prima volta nella storia del genere umano una nuova facoltà che chiamiamo “intelligenza digitale” si è manifestata in forma dispiegata. Esemplifichiamo questo passaggio attraverso l’analisi “fenomenologica” di una sessione di navigazione in Internet. Un bambino che anche non sappia leggere né scrivere, come mio figlio nell’esempio che apre il presente volume, attraverso l’“opzione click” ha la possibilità

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di attivare un collegamento ipertestuale e muoversi all’interno dell’ipermedia attraverso la semplice pressione di un pulsante del mouse; questa azione lo mette ulteriormente di fronte a molteplici opzioni, i link contenuti nella nuova pagina aperta, che necessitano a loro volta di una serie di “opzioni click” e cioè di decisioni elementari per essere attivati. Dai primati e gli altri animali ai bambini e agli adulti: esiste quindi una storia evolutiva di quella che abbiamo definito intelligenza digitale.

3. L’intelligenza digitale si articola in sottodomini?

Abbiamo appena analizzato alcune caratteristiche dell’“opzione click”, il primo sottodominio dell’intelligenza digitale identificato da Battro. Il secondo sottodominio è l’“euristica digitale”, cioè la facoltà cognitiva eminentemente pratica che ci permette funzionalmente di attuare l’“opzione click”, vale a dire che ci mette in grado di navigare consapevolmente attraverso le informazioni. Si tratta di una concatenazione di meccanismi semplici di decisione che caratterizza per esempio i comportamenti cognitivi che si attuano nel momento in cui si gioca con un videogioco digitale. Nella realtà immersiva del videogioco e cioè nell’esplorazione virtuale di un ambiente artificiale di natura digitale (Tomb Raider o War of Worldcraft), questa euristica binaria ci permette

a) di analizzare le specifiche di contesto dell’ambiente in maniera semplice minimizzando la quantità di informazione che deve essere ricevuta e usata per realizzare scelte e decisioni che ci fanno procedere nel gioco (o nella consultazione della pagina web che stiamo leggendo);

b) di esplorare la struttura delle informazioni disponibili nell’ambiente (opzione di gioco o di lettura) per attivare decisioni rapide e specifiche che servano a portare a compimento il compito proposto (il livello del videogioco o l’informazione che vogliamo ricavare da Internet);

c) di interfacciare il nostro sistema senso-percettivo con la struttura delle informazioni esterne in maniera euristica appunto, senza il ricorso a calcoli formalizzati complessi.

Queste sono le tre facoltà, o sottodomini, proprie dell’euristica binaria: minimizzare la quantità di informazioni, utilizzare le informazioni ricavate dall’ambiente esterno e adattare rapidamente il sistema senso-percettivo alle necessità dell’interfaccia digitale. Esse costituiscono il processo cognitivo che sostiene l’“opzione click” e che si trova alla base dell’intelligenza digitale. Queste facoltà sono proprio quelle che permettono ai nativi di muoversi così agevolmente nell’universo delle macchine digitali. In effetti le tre azioni che abbiamo descritto possono essere molto semplicemente osservate nel momento in cui si presti attenzione al modo in cui un bambino dai 4 ai 6 anni gioca con una consolle digitale al suo videogioco preferito. In questo modo siamo riusciti a concettualizzare due dei sottodomini in cui si articola l’intelligenza digitale dei nativi.

4. L’intelligenza digitale è codificabile in un linguaggio specifico?

La risposta a questa condizione posta da Gardner non può che essere affermativa, esiste una notazione propria del linguaggio digitale che amplia e metamorfosa il codice alfabetico inserendo in questo in maniera strutturale la dimensione della relazione, della connessione. Un esempio

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molto significativo di questo fenomeno è costituito dal simbolo @ che identifica l’indirizzo e-mail di milioni di persone e implica anche e nello stesso tempo la relazione diretta e immediata che possiamo stabilire con queste persone. Allo stesso modo, gli indirizzi web implicano immediatamente la possibilità di visualizzare un contenuto sul web e di mettersi in relazione con i contenuti e i messaggi di quel sito ma anche di interagire, commentare e completare o discutere i contenuti del sito stesso. Generalizzando possiamo affermare che esiste un sistema simbolico incarnato da termini quali @, www, http, URL (ma anche xml, html), costituito da elementi sintattici, semantici e pragmatici, dove proprio l’elemento pragmatico identifica la codifica ipertestuale rispetto a quella testuale. Ogni simbolo che identifica il codice digitale (@, hot words ecc.) implica sempre un’interazione pragmatica, vale a dire è un segno, @ o link, che presuppone strutturalmente non solo un emittente e un ricevente ma anche la connessione elettronica diretta (link) che li mette in relazione; e il segnale si attiva attraverso un semplice click di un apparato digitale. I simboli del linguaggio del web sono strutturalmente pragmatici e interattivi. In effetti è proprio il sistema di linkaggio che differenzia radicalmente la struttura di un testo da quella di un ipertesto (Ferri 1998). In particolare, la struttura reticolare e interattiva dell’ipermedia è il segnale più chiaro di un cambiamento nella tecnologia caratterizzante la trasmissione delle informazioni nella società informazionale contemporanea. I nostri figli nativi digitali parlano “digitale” senza necessità di manuali o di imparare la grammatica della nuova lingua dell’intelligenza digitale.

5. Può essere riconosciuto uno sviluppo dell’intelligenza digitale?

Si tratta in questo caso del criterio maggiormente riconoscibile nella vita quotidiana e facilmente riproducibile. Ciascuno di noi ha sperimentato questa dinamica nel corso della sua vita cominciando dalla propria infanzia analogica fino alla maturità digitale. Ciascuno di noi ha sperimentato, per esempio, l’impossibilità di “imparare” l’uso delle macchine digitali attraverso la lettura dei manuali e ha compreso nella sua esperienza diretta come la logica digitale e quella matematica, per esempio, costituiscano due domini differenti. Seymour Papert – il padre dell’applicazione della tecnologia ai processi di apprendimento – ha evocato spesso, per riferirsi all’intelligenza e alla logica del digitale, l’attività del bricoleur. Papert, contro i sostenitori della programmazione strutturata di natura matematico-ingegneristica, sostiene un approccio differente e più concreto nel programmare, quello del bricoleur. Il bricoleur digitale ricorda il pittore che si ferma tra una pennellata e l’altra, guarda la tela, e solo dopo averla guardata, decide cosa fare. Il bricoleur utilizza con maestria le associazioni e le interazioni. Per i programmatori informatici tradizionali, gli errori sono passi falsi; il bricoleur digitale utilizza, invece, una “navigazione a vista” e procede per correzioni e aggiustamenti successivi, imparando dai propri errori. Per i programmatori tradizionali, un programma è uno strumento di controllo, per il bricoleur digitale è uno strumento euristico per realizzare degli obiettivi in collaborazione con la macchina. La nostra impressione è che l’intelligenza digitale sia molto più simile a quella del bricoleur che all’intelligenza matematica. La computer and Internet science non è una scienza esatta, ma procede per tentativi ed errori. Per questo divenire esperti nella gestione dei sistemi di comunicazione digitale o divenire “alfabetizzati” nella lingua digitale è un processo specifico e non comparabile con altri.

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6. Esistono casi eccezionali e casi di incapacità rispetto all’intelligenza digitale?

Anche questa condizione può essere facilmente soddisfatta. Esiste, infatti, una serie di esempi eclatanti della capacità di maneggiare l’intelligenza digitale, che possono essere anche fattualmente individuati. Possono essere rintracciati tra le figure storiche che hanno portato all’affermazione della rivoluzione digitale: evidentemente Tim Berners-Lee, l’inventore di Internet, così come lo conosciamo oggi,4 o Bill Gates, l’inventore dei moderni sistemi operativi a partire da Microsoft DOS o MS-DOS fino a Windows 7. Anche tutti gli altri “padri fondatori” della comunicazione digitale, da Steve Jobs, l’inventore del primo personal computer, a Marc Zuckerberg, possono essere considerati dei maestri o dei savants nel campo dell’intelligenza digitale. Allo stesso modo tutti i genitori che abbiano figli tra gli 0 e i 12 anni non avranno difficoltà a constatare che le competenze digitali dei propri figli sono enormemente più sviluppate delle loro. Più difficile è invece individuare casi di assoluta incapacità nella gestione del codice digitale, una volta superate le barriere di natura psicologica e socioeconomica che caratterizzano spesso gli immigranti digitali.

7. L’intelligenza digitale interferisce e potenzia o limita altre intelligenze?

Per ciò che riguarda l’interferenza e il potenziamento di altre intelligenze è molto chiaro come l’intelligenza digitale possa influire positivamente sull’intelligenza individuale, ma allo stesso modo sull’intelligenza sociale e interpersonale e su quella linguistica. L’accesso attraverso Internet a “tutto il sapere del mondo” e la possibilità di poterlo avere “potenzialmente” a disposizione attraverso un solo click – o un’ “opzione click”, come viene definita da Battro – sugli schermi dei nostri dispositivi digitali potenziano enormemente molte delle intelligenze individuate da Gardner. Per quello che riguarda per esempio l’intelligenza sociale e interpersonale, basta pensare alla facilità con la quale il digitale, in tutte le sue forme, ci permette di comunicare anche in mobilità.

Ma per comprendere meglio questi fenomeni è sufficiente pensare a un foglio di calcolo come Excel. È chiaro come questa “invenzione” digitale possa interferire e potenziare molto la nostra capacità di maneggiare i numeri e quindi l’intelligenza logico-matematica; lo stesso vale per gli strumenti digitali di rappresentazione grafica in due o tre dimensioni di fenomeni matematici, ma anche atmosferici o climatici. Allo stesso modo l’intelligenza digitale, come abbiamo visto relativamente alla discussione che abbiamo condotto sulle prove obiettive dell’esistenza di tale facoltà attraverso la RMN o la PET, può influire e modificare, per così dire, in negativo alcune facoltà cognitive.

L’esempio più chiaro è quello della memoria, che negli ultimi anni è una facoltà messa in tensione dalla sua esternalizzazione digitale. È molto probabile, come ha notato criticamente Carr, che alcune forme di memoria possano essere indebolite dall’utilizzo massivo di supporti digitali di archiviazione dei dati e che nello stesso tempo questa funzione assuma un diverso peso nelle nostre attività intellettuali, lasciando il posto ad attività di natura più creativa e inventiva, per esempio alla capacità di correlare informazioni in maniera creativa e di ideare nuove forme digitali di rappresentazione in 3D della realtà.

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8. L’intelligenza digitale può essere misurata e analizzata in maniera obiettiva?

Si tratta della condizione più facilmente dimostrabile e in parte già dimostrata. Infatti, relativamente alla misurabilità dell’intelligenza digitale, abbiamo fornito nel capitolo 1 una serie di esempi relativi all’apprendimento: l’indagine OCSE-PISA CERI (CERI/OECD 2010), le indagini del Becta (Becta 2008 a, Becta 2008 b), ma le stesse indagini del Pew Research Center’s Internet & American Life Project (Lenhart A. et al. 2010) si muovono in questa direzione.

L’intelligenza digitale esiste quindi. Seguendo e integrando le argomentazioni di Antonio Battro abbiamo provato a fornire una dimostrazione – ovviamente provvisoria e falsificabile – dell’esistenza e delle caratteristiche proprie dell’intelligenza digitale, cioè del modo in cui vedono e costruiscono il mondo i nativi digitali. Riteniamo che l’affermarsi dei media digitali nel campo del conoscere abbia rappresentato un punto di discontinuità radicale e per così dire senza ritorno della storia dell’evoluzione dell’Homo sapiens. Il digitale come “tecnologia caratterizzante” dell’intrattenimento, della socialità e della cultura nelle società informazionali identifica una “singolarità” rispetto al passato che a nostro avviso rende inutili e forse un po’oziose le polemiche tra fautori e detrattori della rivoluzione digitale. Il digitale “è qui per restare” e con lui dobbiamo convivere. Ogni salto di paradigma, ogni “singolarità” implica una certa incommensurabilità con il paradigma precedente, in questo caso con la galassia Gutenberg. Oggi siamo “nel nuovo” e dobbiamo capirne e analizzarne le caratteristiche, positive o negative che siano.

RiassuntoParolo chiave: intelligenza digitale, intelligenze multiple, nativi digitali

L’articolo affronta un tematica ancora poco esplorata: quella dell’”Intelligenza digitale” e presuppone la riflessione di Howard Gardner sulle Intelligenze Multiple (Gardner 1983). L’ipotesi è quella che sulla scorta della riflessione di Gardner, che ha dimostrato l’esistenza di molteplici intelligenze, oltre a quella logico-matematica e linguistica, si possa anche ipotizzare l’esistenza di un’”intelligenza digitale”. Questa intelligenza sarebbe particolarmente sviluppata nei “nativi digitali” (Ferri 2011) cioè nei bambini e nei preadolescenti nati e vissuti dopo la diffusione massiccia di Internet. Dopo un descrizione delle caratteristiche dell’intelligenza digitale così come è teorizzata da Battro e Denham (2007) viene discussa e analizzata la “dimostrazione” dell’esistenza di una intelligenza digitale che questi autori provano a fornire sempre sulla base della metodologia di Gardner.

DOES ExIST A DIGITAL INTELLIGENCE? YES AND CAN BE PROvED

AbstractKey Words: digital intelligence, multiple intelligences, digital natives

The paper deals with a subject still little explored: the existence of ‘”Digital Intelligence” and require, as back ground theory, Howard Gardner’s reflection about Multiple Intelligences (Gardner 1983). The hypothesis is that on the basis of the reflection of Gardner, who proved the existence of multiple intelligences in addition to the linguistic and logical-mathematical one, we can also assume the existence of a ‘”digital intelligence”. This kind of intelligence would be particularly developed in the “digital natives” (Ferri 2011) the toddler, children and pre-adolescents born after the massive spearing of the Internet. After a description

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of the characteristics of digital intelligence as it is theorized by Battro and Denham (2007) in the paper is discussed and analyzed the “proof” of the existence of a digital intelligence that these authors try to provide always on the basis of the methodology of Gardner.

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Paolo Ferri

Professore Associato di Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie didattiche presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, dove dirige il LISP (Laboratorio informatico di Sperimentazione Pedagogica) e l’Osservatorio Nuovi Media NuMediaBios.

Corrispondenza

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