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Estratti rivista LO STATO (n. 2 2014) diretta da A. Vignudelli e A. Carrino

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Mucchi Editore

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Estratto

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 11-30

 Il custode delle fontiLo Stato dopo lo Stato e la sua legalità

di Mauro Barberis*

Sommario: §1. – Stato, sovranità e gerarchia delle fonti.§1.1. – Stato. §1.2. – Sovranità. §1.3. – Fonti del diritto.§2. – Stato giurisdizionale, costituzionale, internaziona-le. §2.1. – Diritto privato. §2.2. – Diritto costituzionale.§2.2.1. – Forma di governo. §2.2.2. – Dichiarazione deidiritti. §2.3. – Diritto internazionale. §3. – Lo Stato come

custode delle fonti. §3.1. – Parentesi. §3.2. – Alternanza.§3.3. – Resilienza.

Il rule of law costituisce una limitazionedi tutti i poteri dello Stato,inclusi i poteri del legislativo(F. Hayek)

Dopo una ne più reclamizzata della morte di Dio, lo Stato – altra parolada scrivere in maiuscolo – attende ricollocazione nel nostro paesaggio intel-lettuale. Qui comincio risalendo alle origini giuridiche dello Stato moderno,seguendo l’ipotesi che esso sia stato costruito dai giuristi attribuendogli lasovranità sulle fonti del diritto. Poi, mostro come la concezione moderna deldiritto come legislazione incontri crescenti difcoltà in almeno tre settori: pri-vato, costituzionale, e internazionale. Inne, confronto tre ipotesi di supera-mento dello Stato, formulate in termini di parentesi, alternanza e resilienza, econcludo che a essere davvero superata è solo la concezione dello Stato comesignore delle fonti del diritto.

*  Università degli Studi di Trieste.

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Mauro Barberis

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§1. – Stato, sovranità e gerarchia delle fonti

Che io sappia, la migliore ricostruzione delle origini giuridichedello Stato è stata fornita da Michel Troper in un lavoro recente 1. Dopo

averla esposta altrove 2, qui le apporto tre precisazioni importanti.Intanto, la ricostruzione di Troper riguarda solo la concezione giuridica dello Stato: non altre almeno altrettanto importanti (politica, militare,economica...). Poi, tale ricostruzione può essere estesa al tema della cri-si dello Stato, cui non si riferiva originariamente. Inne, essa va distintada altre ricostruzioni che attingono allo stesso materiale storico 3, e chepossono servire a integrarla. In questa sezione analizzo sommariamen-te le tre nozioni attorno alle quali la ricostruzione ruota – Stato, sovrani-

tà, gerarchia delle fonti – al ne di impiegarle nelle sezioni successive.

§1.1. – Stato

Di ‘Stato’ possono fornirsi diverse denizioni (giuridiche, politi-che, militari, economiche...), secondo gli scopi conoscitivi o normativiche ci si propone. Troper insiste a ragione che la denizione giuridicada lui fornita può servire da meta-concetto (ESJ, 8) per rendere conto dei

concetti effettivamente elaborati nelle diverse epoche e culture. Credoche una denizione giuridica di ‘Stato’ sia davvero essenziale; dopotut-to, elementi giuridici compaiono già nella famosa denizione dello Sta-to come monopolio della forza legittima. Anche per noi giuristi, peral-tro, sarebbe opportuno evitare una riduzione dello Stato al diritto, comequella consumata da Hans Kelsen e ampiamente discussa da Troper.

La questione della denizione di ‘Stato’ – centrale anche nelleodierne discussioni fra sostenitori di un costituzionalismo politico e di

1  Cfr. M. TROPER, The Structure of the Legal System and the Emergence of the State, in www.nyustraus.org, paper 06/12, trad. sp. La estructura del sistema juridico y el nacimiento del Esta-do, in Eunomia, 4, 2013, 3-32 (d’ora in poi ESJ seguito dal numero di pagina). Le citazionisaranno dalla versione spagnola salvo eventuali ritraduzioni da parte di chi scrive: l’inglese‘emergence’, ad esempio, non può tradursi semplicemente con ‘nascita’ (sp. nacimiento). Laricostruzione di Troper presenta molte analogie con quella di P. BOURDIEU, Sur l’Ètat. Coursau Collège de France, vol. I, 1989-1990, Paris, Le Seuil, 2012, trad. it. a cura di M. Guareschi,Sullo Stato. Corso al Collège de France, vol. I, 1989-1990, Milano, Feltrinelli, 2013; bisognerebbeperò distinguere maggiormente fra Stato e discorso sullo Stato, o statualità: cfr. A. CARRINO,

La Dottrina dello Stato e la sua crisi, Modena, Mucchi, 2014, 32.2  Cfr. M. BARBERIS, La fne dello Stato e altri racconti, in Filosofa politica, 27, 2013, 317-328.3 Cfr. in particolare F. DI DONATO, La rinascita dello Stato – Dal conitto magistratura-

 politica alla civilizzazione istituzionale europea, Bologna, il Mulino, 2010; IDEM, La costituzione fuori del suo tempo. Dottrine, testi e pratiche costituzionali nella longue durée, in Quad. Cost.,2011, 4, 895-926: il quale insiste sull’instabile compromesso fra politica e magistratura chesta all’origine dello Stato moderno.

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Mauro Barberis

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Tornando alla concezione giuridica dello Stato, da cui eravamopartiti, si potrebbe concludere così. Dietro lo Stato signore delle fonticonsegnatoci dalla modernità giuridica fa capolino un’altra gura, piùrassicurante: uno Stato custode delle fonti, che può essere soggetto al

controllo del diritto anche perché non ne monopolizza più la produ-zione. Ma la limitazione del potere tramite il diritto – l’obbiettivo tipicodel costituzionalismo giuridico – si rivela, a ben vedere, poco più cheuna limitazione del diritto 50. Il diritto non statale può certo controllareil diritto statale, come s’è visto, ma controllare il potere è un’impresaben più ardua: la politica è soggetta al diritto solo se e quando accettadi farsene controllare.

 Abstract

The alleged end of the State – a topic more debated than God’s death – infact just imply a relocation of the term-concept ‘State’ in our conceptual land-scape. This paper provides a sketch in three steps of such a relocation. First,drawing from Michel Troper’s The Structure of Legal System and the Emergence

of the State (2013), the origins of modern State are retraced in the doctrines ofboth sovereignty and legal sources worked out by French jurists at the end ofMiddle Ages. Second, the ideas issued by these processes – the State as lord oflegal sources, the law as mere legislation – are criticized invoking three maincounterexamples: private law, constitutional law and international law. Final-ly, three narratives of modern State history are compared, in terms of paren-thesis, alternation and resilience respectively, in order to derive the followingconclusion: the State is alive, after all, to be dead is only its conception as lordof legal sources.

50 Così letteralmente G. PALOMBELLA, La “resilienza” del diritto, cit., 1058: «il rule of law è da intendersi soprattuto come un ideale di limitazione del diritto tramite il diritto; moltomeno perspicua è la sua ricorrente invocazione come “limitazione del potere” (se non – esolo conseguentemente – con riguardo al potere di generazione di norme)». Non aveva tor-to R. BIN, Diritti, giudici, poteri, cit., 1051, dunque, a chiedersi «dove si sia trasferito» un pote-re che resta sempre altro dal diritto.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 31-48

 Il diritto nell’Europa del terzo millennioNote a una raccolta di studi

di Pietro Giuseppe Grasso*

Sommario: §1. – Una silloge. §2. – La formazione del dirittoprivato dei popoli europei nel corso dei secoli. §3. – Il dirittoprivato e l’avvento dello Stato moderno. La concezione rivo-luzionaria. §4. – Permanenza del diritto privato nell’evoluzio-ne dello Stato moderno pure nella successione dei regimi poli-tici. §5. – Contraddizioni di diritto positivo alla summa divisio 

tra diritto pubblico e diritto privato. §6. – La fondazione di unnuovo ordinamento politico non comporta di necessità l’uni-cazione del diritto privato. §7. – Sulla nozione di ‘diritto priva-to europeo’. §8. – Proposte per un codice civile europeo unico.Aspetti problematici. §9. – Sulla questione dell’unità linguisticanegli atti delle istituzioni europee. §10. – Crescente estensionedel diritto giudiziario nei Paesi europei. §11. – Formazione digiuristi e avvocati europei. §12. – Osservazioni nali.

Con voto del Parlamento Europeo si è proposto di introdurre un codice di dirit-to civile unico per tutti i Paesi dell’Unione. È da dire che in ciascuno degli Sta-ti appartenenti all’Europa continentale sinora risulta vigente un codice civileapprovato dal legislatore nazionale. Bisogna però osservare che fra detti codicivi sono diverse analogie di contenuti normativi e istituzionali, elaborati nel cor-so dei secoli, per conseguenza di grandiosi movimenti comuni: il diritto romanorimasto in vigore ancora nel medioevo e successivamente; il diritto canonico; ildiritto comune; il diritto commerciale. Nell’insieme è usata anche l’espressioneCivil Law in contrapposizione a Common Law. Pur con dette tradizioni comunisi sono presentate difcoltà notevoli alla formazione di un nuovo codice conti-

nentale, che dovrebbe rappresentare un legame di continuità con la cultura cheha rappresentato un momento della storia e dell’identità europee.

§1. – Una silloge

 A l’Europe du troisieme millénaire è il titolo di una raccolta di stu-di, dedicati in onore del professore Giuseppe Gandol e per il deci-mo anniversario della Accademia dei Giusprivatisti Europei avente

sede in Pavia 1. In quattro ampi volumi sono raccolti contributi di cen-

1  AA.VV., A l’Europe du troisième millenarie. Mélanges offerts à Giuseppe Gandol à l’occa-sion du dixième anniversaire de la fondation de l’Académie, Milano, Giuffrè, 2004, da I a IV: il vol.IV porta la data 2009. Di seguito i riferimenti a detta raccolta sono indicati come St. Gandol.

*  Università degli Studi di Pavia.

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Pietro Giuseppe Grasso

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todieci studiosi italiani e stranieri, pubblicati nei testi originali, scrittiin francese, inglese, tedesco, spagnuolo, oltreché in italiano. Nel casoben vale l’osservazione di ordine generale secondo che raccolte di stu-di siffatte possono offrire elementi utili a visioni d’insieme, riguardan-

ti aspetti del diritto positivo e indirizzi della scienza giuridica in undato momento.

Nei quattro volumi menzionati di molto prevalgono gli studi con-cernenti temi e questioni di diritto privato, di cui si possono conside-rare in certo senso complementari taluni saggi di diritto romano. Fra itanti spunti desumibili da una silloge davvero ampia e varia pare giu-sticato trarre motivi di riessione circa le problematiche proprie deldiritto privato, inteso nella sua grandezza unitaria, nelle condizionistorico-spirituali dell’Europa di oggi 2. Indicative in proposito risulta-no alcune trattazioni circa proli di ordine generale e preliminare, dal-le quali pare dato di trarre indicazioni per una lettura minima, in setto-ri di ricerca per cui vi ha una bibliograa assai estesa. Pur nella varietàdelle impostazioni, il titolo della raccolta vale a denotare, come comu-ne motivo ispiratore, l’esigenza di comprendere questioni attinenti allafondazione di un futuro ordinamento continentale. Nei fatti politici èauspicata una novità radicale come l’instaurazione di un unico siste-ma di potere, dopo secoli di radicate divisioni. Ma nel contempo si

vorrebbero mantenere i risultati delle esperienze giuridiche maturatein un corso ultramillenario. Esplicite sono le enunciazioni per le qualiè espressa l’intenzione di riproporre, nel futuro assetto comunitario, iprincipî del costituzionalismo liberaldemocratico 3. Ancora più speci-cate sono le riaffermazioni della Carta dei diritti fondamentali, procla-mata la prima volta a Nizza, nell’anno 2000.

Per il diritto privato non si riscontrano analoghe dichiarazioni diprincipio, ma è dato di discernere atti e comportamenti in proposito,come le votazioni del Parlamento europeo con le quali si è auspicatal’approvazione di un codice di diritto civile per tutto il Vecchio Con-tinente, di cui è fatto cenno più oltre. Di maggior peso sono ragioni dicarattere storico culturale, posto che il diritto privato, per la sua forma-zione nei secoli, rappresenta uno degli elementi essenziali della civiltàeuropea, anche perché sviluppatosi con contenuti normativi simili neidiversi Paesi. Per questi aspetti è da ritenere che si tratti di materia rile-

2  A illustrare il senso della raccolta, come esempi si possono menzionare gli scrittiseguenti, compresi in St. Gandol, I: F. DE MARTINO, Considerazioni sull’unità del diritto priva-to in Europa, 231 ss.; A. GUARINO, Capitale Amaurote, 317 ss.; A. TRABUCCHI, È necessario andareavanti per questa strada dell’unicazione, 515 ss.

3  Per indicazioni e riferimenti in proposito sia consentito rimandare a P.G. GRASSO, A proposito di una carta costituzionale europea, in AA.VV., Alle frontiere del diritto costituzionale.Scritti in onore di V. Onida, Milano, Giuffrè, 2011, 921 ss. e Dir. soc., 2011, 315 ss.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 49-87

 Rifessioni di un giurista intorno alla moneta

di Giuseppe Ugo Rescigno*

Sommario: §1. – Come la banca centrale crea letteralmen-te moneta. §2. – Come si presenta la moneta. §3. – Sullamoneta in quanto depositaria di valore. §4. – La moneta èun credito generale e generico. §5. – Ancora sulla mone-ta come credito. §6. – La banca centrale e la moneta. §7.– Le banche e la moneta. §8. – I circuiti in base ai qualigli attori del sistema economico ottengono moneta. §9. –Le condizioni presupposte che consentono le funzioni eil movimento della moneta. §10. – Tre cicli della mone-ta. §11. – Da dove viene la maggior moneta che ricevonoi proprietari di moneta? §12. – La risposta alla domandaprecedente. §13. – La moneta e il movimento tra proprietàe credito. §14. – La duplicità della merce. §15. – La dupli-cità della proprietà. §16. – La proprietà diventa moneta eviceversa. §17. – Le azioni. §18. – Le obbligazioni. §19. –Le cartolarizzazioni. §20. – Una enorme e sempre crescen-te massa creditoria alla ricerca spasmodica del maggiorprotto. §21. – Una prima conclusione di ordine genera-

le partendo dalla moneta e ritornando ad essa. §22. – Unaseconda conclusione partendo dalla moneta per arrivarealla intera società. §23. – La conclusione più importante.

§1. – Come la banca centrale crea letteralmente moneta

Le pagine che seguono espongono riessioni iniziate dopo la let-

tura di una notizia che per qualche ragione (che posso tentare di indo-vinare ma che qui non ha alcuna importanza indagare) mi colpì profon-damente: per più di un anno e ancora oggi nel momento in cui scrivo(gennaio 2014) la Fed (la Banca centrale degli Stati Uniti) ha attuato edattua la politica del c.d. quantitative easing, e cioè ogni mese da più diun anno emette moneta per 85 miliardi di dollari, con i quali compraobbligazioni sia dello Stato che delle banche (con l’ovvia conseguenzache Stato e banche ogni mese possono a loro volta spendere in più 85miliardi di dollari). Ho poi letto che la medesima linea hanno segui-to e stanno ancora seguendo la banca centrale del Giappone, quella diGran Bretagna ed in sostanza (anche se con limitazioni dovute al trat-tato che disciplina tale banca) la Banca centrale europea.

*  Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.

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Giuseppe Ugo Rescigno

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Questa è l’apparenza con cui si presenta la notizia di una cosa equindi la cosa stessa nché si resta fermi alla notizia (la cosa in que-sto caso è “ciò che in prima approssimazione e secondo una evidenzaempirica possono fare e fanno le banche centrali”).

L’apparenza ci dice anche senza ombra di dubbio che chiunquedisponesse di x miliardi di dollari avrebbe un potere di acquisto enor-me, e cioè sarebbe molto ricco o vedrebbe incrementata la sua ricchezzain modo signicativo. Poiché la banca centrale emette moneta o con lostampare e distribuire banconote o più spesso mediante scritture con-tabili, oggi basate su supporti informatizzati che trasferiscono l’impor-to su altri supporti informatici presso i beneciari della distribuzionedi moneta, la straordinaria apparenza è quella di creazione di ricchez-za dal nulla.

Non può essere così, la ricchezza e l’aumento di ricchezza nonpossono venire dal nulla, per mero atto di volontà di qualcuno: dietrol’apparenza ci deve essere qualcosa di non immediatamente visibileche spiega anche l’apparenza con cui la cosa si presenta 1.

§2. – Come si presenta la moneta

Vediamo allora come si presenta la moneta 2: qui per moneta inten-do una delle tante monete presenti nel mondo, quali ad es. il dollaro, lasterlina , l’euro e così via.

1  I libri che ho letto, e più spesso riletto, da cui trarre preziose informazioni e conti-nue occasioni di riessione e apprendimento per scrivere questo mio lavoro sono natural-mente piccola cosa rispetto alla mole sterminata di opere intorno alla moneta; ma anchecosì ridotte sono troppo numerose per darne sufciente notizia in un saggio dalle dimen-sioni necessariamente contenute come quello qui presentato; a parte le poche citazioni indi-spensabili nelle pagine seguenti, mi limito qui a ricordare autori recenti e meno recenti che

hanno costituito lo sfondo principale e generale al cui interno mi sono collocato (cito dal-le più recenti alle più antiche): M. REVELLI, Post-Sinistra – Cosa resta della politica in un mondo globalizzato, Bari-Roma, Laterza, 2014; M.DE CECCO, Ma cos’è questa crisi – L’Italia, l’Europa ela seconda globalizzazione (2007-20013), Roma, Donzelli, 2013; L.GALLINO, Finanzcapitalismo –La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi 2011; IDEM, Il colpo di Stato di Banche e Governi –L’attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013; IDEM, Globalizzazione e disuguaglian-ze, Bari-Roma, Laterza, 2000; V.RUGGIERO, I crimini dell’economia – Una lettura criminologicadel pensiero economico, Milano, Feltrinelli, 2013; J.E. STIGLITZ, Bancarotta – L’economia globale incaduta libera, Torino, Einaudi, 2010; U.MATTEI, L.NADER, Il saccheggio – Regime di legalità e tra-sformazioni globali, tr. it., Milano, B. Mondadori, 2010 (2008); C.R.MORRIS, Crack – Come siamoarrivati al collasso del mercato e cosa ci riserva il futuro, con introduzione di L. Spaventa, Roma,Elliot, 2008; N.N.TALEB, Il cigno nero – Come l’improbabile governa la nostra vita, Milano, Il Sag-giatore, 2009 (2007); R. C. LIPSEY, K.A. CHRYSTAL, Economia, ed. it. condotta sulla ottava edi-

zione inglese, Bologna, Zanichelli, 1999; R.L.HEILBRONER e L.C. THUROW, Capire l’economia –Come funziona l’economia e come sta cambiando il mondo, Milano, Il Sole-24 Ore, 1999 (1982);R. PARBONI, Finanza e crisi internazionale, Milano, Etas, 1980; IDEM, Moneta e monetarismo- DaKeynes a Friedman, Bologna, il Mulino, 1984; R.HILFERDING, Il capitale fnanziario, introduzio-ne di G. Pietranera, Milano, Feltrinelli, 1961 (1910).

2  Userò prevalentemente la parola ‘moneta’, ma talvolta, secondo l’uso, anche ‘dana-ro’ (o ‘valuta’ nel caso della moneta che si scambia nel mercato appunto delle valute). Sareb-

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Rifessioni di un giurista intorno alla moneta

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tà, sicuramente), quali rapporti tra le aree di mercato e quelle non dimercato vanno creati per non creare squilibri e crisi?

Naturalmente sterminate sono le condizioni e le conseguenzeda individuare e studiare per dare coerenza e credibilità alle diverse

ipotesi, in termini economici, sociali, morali, giuridici; a me piacereb-be misurarmi con tali questioni, ma soprattutto mi piacerebbe che vifossero forze sociali e politiche signicative che si pongono domandeeguali o simili o vicine, e che vi fossero in queste direzioni da un latoesperienze signicative e dall’altro insegnamenti dalla esperienza permigliorarla e correggerla. Per ora mi accontento, posto che non pos-so fare altro e non vedo quanto mi piacerebbe vedere, di togliere allamoneta il velo di mistero e di magia che l’avvolge, di guardare in fac-cia la sua tragica realtà attuale.

 Abstract

According to the media, central banks put money into economic systems byprinting banknotes or, more often, by entering money into accounting records

and lending this money to the State or banks. To all appearances, this lookslike the creation of wealth from scratch. Since this is not possible, the authorintends to provide an account of the nature of money using juristic means.The key starting point is that money is a generic and general credit, similar toordinary credit but essentially distinct from it, by virtue of its being genericand general. On the basis of this statement, it is possible to analyse how anycredit or property may become money and vice versa, and how and why ev-ery economic circle becomes a continuous movement and transformation ofmoney, with the aim – typical of the capitalist system – of having a greaterreturn on the money than the amount invested. The entire analysis assumes

that State and legal system protect the above-mentioned functions of money;for this reason, at the end of his work the author wonders whether the Stateand its laws are in fact capable of governing, controlling and of even remov-ing some functions of money, in order to pursue objectives other than prot.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 89-100

 Discussione sul divenire

Una prima risposta a Biagio de Giovanni

di Emanuele Severino*

Giuristi e loso del diritto da sempre hanno dimestichez-za con quelle “verità articiali” che passano sotto il nome di‘dogmi’. Il fenomeno della “volontà interpretativa” che for-zi a considerare “fatto” ciò che, in sé, non sarebbe un possi-bile contenuto d’esperienza – tuttavia – rischia d’essere benpiù esteso e radicale di quanto possa manifestarsi nel solo

àmbito giuridico. La stessa “morte” è fatto o interpretazio-ne? Questa tappa del dialogo fra Emanuele Severino e Bia-gio de Giovanni – che Lo Stato si pregia qui d’ospitare peril suo universale valore teorico – racchiude così in un’unicadomanda, solo apparentemente provocatoria, l’estrema s-da lanciata a tutte le categorie losoche del Pensiero Occi-dentale. (La Direzione)

«Le domande della losoa sulle cose ultime della nostra esisten-za nascono con l‘uomo e si estingueranno solo con lui», scrive Bia-gio de Giovanni. Cioè l’uomo non può non porsele, ma non potrà mairisolverle. E la domanda fondamentale riguarda il rapporto tra eternitàe tempo, innito e nito, verità e storia. Ed egli aggiunge che «le moda-lità di questo rapporto sono illimitate e in Gentile e Severino sembranotoccare il punto di un’antitesi radicale fra ciò che è e ciò che diviene» 1.

Come ogni tesi di de Giovanni, anche questa è accompagnata da tut-to un insieme di suggestive sfumature, ma anche in questa sua peren-toria formulazione essa coglie il senso essenziale dell’interpretazioneche nei miei scritti vien data di Gentile. E sono d’accordo anche sullaposizione che de Giovanni assegna alla losoa: la losoa non è una“sovrastruttura” che è resa possibile da qualcosa di più profondo, maè il cuore della storia europea e dell’Occidente, il terreno, amo dire, incui crescono non solo le forme di sapienza, ma le “opere” stesse, le res gestae dell’Occidente. Scrive: «L’uomo è, kantianamente, ente metasi-

1  B. DE GIOVANNI, Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Napoli, Editoriale Scientica,2013, XI s.

*  Università Vita-Salute San Raffaele, Milano; Emerito dell’Università degli Studi Ca’Foscari, Venezia.

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Emanuele Severino

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co, prima di essere animale politico» 2. Sono d’accordo, anche se poi –ma de Giovanni non ha bisogno che lo ricordi –, nei miei scritti, il rap-porto tra nito e innito è inteso in modo del tutto diverso non solo dalcriticismo kantiano ma dal modo in cui l’intero Occidente ha pensato

tale rapporto. (L’Oriente non è l’alternativa, ma la preistoria dell’Oc-cidente – e preistoria, cioè preparazione dell’Occidente, è tutta la vitadell’uomo da che egli abita la terra).

E dico subito che sono grato a de Giovanni per il suo essere anda-to in profondità in questo suo scritto – un modo inedito, direi, di pren-dere in considerazione i miei, come alla sua uscita concordavamo conVincenzo Vitiello. Tanto che amplierò questo articolo dandogli for-ma di libretto, che uscirà nella collana Piccole Conferenze diretta da AljsVignudelli.

Riferendosi alla mia interpretazione della storia dell’Occidente edel rapporto tra attualismo gentiliano e tecnica, de Giovanni osservache «se Gentile è per eccellenza il losofo della tecnica, ovvero del-la vera potenza che per Severino domina il mondo, e della radicaledistruzione di ogni Immutabile, per questa sola ragione Gentile diven-ta il punto più alto e coerente» dell’alienazione, o fede, che dominala storia dell’uomo – e che i miei scritti intendono portare alla lucee negare, essendo tanto più radicata quanto più nascosta: la fede nel

diventar altro da parte delle cose. Nella sua forma più compiuta essapensa nel proprio inconscio che quel che è, è nulla. De Giovanni noncondivide l’esistenza della solidarietà tra attualismo e tecnica. Ritieneperò che per Gentile «quel che è, è nulla». Ma per Gentile questa affer-mazione signica innanzitutto che l’essere è divenire (esce dal nulla evi ritorna). Su un signicato più specico di tale affermazione si ritor-na qui avanti.

Tuttavia l’Atto, per Gentile, è il divenire stesso, che può essere talesolo in quanto è il divenire dell’esperienza, ossia della realtà pensata (odel pensiero della realtà: pensiero e realtà inscindibilmente uniti) che ècontinuamente superata e annientata dal prodursi di nuove realtà, dinuove verità. Autocreazione della realtà. E poiché il pensiero è coscien-za di sé – proprio perché è coscienza della realtà –, esso è Io (l’Io chenon è cosa tra le cose, ma è il Tutto in cui ogni cosa e ogni tempo si pre-sentano). L’autocreazione coincide con l’autocoscienza. D’altra partel’Io è anche un dialogo con sé stesso, è un “Noi”, cioè “Stato”: quella“società trascendentale” a cui Gentile guarda nell’ultima delle sue ope-

re, Genesi e struttura della società. L’autocreazione della realtà è l’auto-creazione della società trascendentale, che dunque è la potenza som-ma. Il pensiero è volontà creatrice.

2  B. DE GIOVANNI, op. cit., XII.

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Emanuele Severino

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terra isolata. Non solo non va detto, quindi, che nessuna cosa è dovela parola manca, ma non va detto nemmeno che la parola fa apparirela cosa. Nel tempo del contrasto tra il destino e la terra isolata, la cosa(il destino) appare anche se le manca la parola; e tuttavia è la parola

dell’isolamento a lasciare nell’ombra del non detto il destino. (Con ciòsi apre il problema, che altrove ho affrontato, del rapporto tra il desti-no e il linguaggio che invece lo testimonia).

Inne, tornando all’«antitesi radicale» tra Gentile e i miei scritti,vorrei aggiungere, a quelle prospettate da de Giovanni, un’ulterioreopposizione tra le due dimensioni. In breve: per Gentile l’accadimentodella storia e dei suoi contenuti è vera realtà (anche se si tratta di unaverità in continua trasformazione); i miei scritti mostrano invece chequell’accadimento è il contenuto della fede in cui consiste la terra iso-lata. Nel destino appare l’esistenza di questa fede e dei suoi contenu-ti: nel senso che tale esistenza è innegabile, non nel senso che sia inne-gabile ciò che in questa fede viene affermato – che anzi non solo non èinnegabile, ma è errore perché è qualcosa che, comunque si conguri,appare isolandosi dalla verità che pur appare e rende possibile l’appa-rire della fede.

 Abstract

The paper – which is an initial response to an earlier work by Biagio deGiovanni on the same subject – calls for a return in a critical vein to the philo- sophical concept of ‘becoming’. Western thought is based on the postulatethat things (all things) are born and die; that every object and every person in

the world is nothing more than “burning wood” appears to be the main proofunderpinning our cultural horizon. Emanuele Severino argues here the “in-terpretative” nature of that proof, denying that it could have rigorous empiri-cal grounds and demonstrating, at the same time, its implicit contradiction –that is to say, the equating of being and non-being, which would conrm theextreme “folly” of Western thought.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 103-124

«Ma, davvero, in mezzo a tutte queste rovinenon c’è altra via che il silenzio?»

Il carteggio tra Norberto Bobbio e Carl Schmitt (1949-1980)

In occasione del decennale della morte diNorberto Bobbio vogliamo ricordare il giurista e

 losofo torinese, che tanto ha contribuito al dibattitoculturale italiano nella seconda metà del secoloscorso, ristampando il carteggio che intrattenne conil giurista e losofo tedesco Carl Schmitt.

Quando l’epistolario venne pubblicato per

la prima volta, in edizione lologicamente curatada Piet Tommissen e su iniziativa di AgostinoCarrino, che in quegli anni intratteneva un rapportocontinuo con Bobbio, il quale a lui afdò appunto

la divulgazione di tale corrispondenza attraverso “Diritto e cultura” (anno V, 1995, n. 1, 49-81), le reazioni furono immediate e in qualche caso di sconcerto. Come poteva Norberto Bobbio,

 pensatore liberale, socialista in politica, attento studioso di Kelsen, essere stato “amico di penna”del solfureo giurista tedesco Carl Schmitt, presunto Kronjurist del Terzo Reich, grande avversarionella scienza giuridica proprio di Hans Kelsen?

Eppure, nel 1980 Bobbio, in una lettera a Schmitt che riprendeva un contatto interrottosimolti anni prima, volle ricordare proprio il loro primo incontro personale presso la casa berlinese

del giurista di Plettenberg, nell’estate del 1937. In quegli anni, per la verità, Bobbio, come ha avutomodo egli stesso di ricordare, non solo non era ancora un kelseniano, ma era un anti-kelseniano,avendo avuto modo di criticare il suo formalismo in maniera non dissimile proprio da Schmitt odagli altri giuristi antipositivisti dell’epoca weimariana, Smend, Kirchheimer, Heller.

Non è questa la sede per cercare di spiegare le ragioni di questo carteggio e ciò, a nostro avviso, perché non v’è necessità di farlo, quasi che Bobbio dovesse giusticarsi o essere giusticato per averintrattenuto una relazione con un pensatore che, per quanto da lui lontano scienticamente, perquanto “reazionario”, poteva comunque certamente insegnare qualcosa anche a chi reazionarionon era e aveva posizioni culturali e politiche molto distanti. Del resto, Bobbio aveva anche dettoche dai reazionari si poteva imparare e ciò perché, bene o male, egli stesso si inseriva nel lone dei

 pensatori realisti (del realismo politico, beninteso), del quale fanno parte autori, da Machiavelli aHobbes, da Hegel a Pareto a lui cari e, in fondo, cari agli stessi Schmitt e Kelsen, da lui interpretatoin maniera che fosse conciliabile con una spiegazione realista del processo di produzione del diritto

Come che sia, Bobbio è stato un pensatore complesso, scosso dal dubbio, sempre alla ricerca.Nessuno può rimproverargli di aver cercato la verità – o nuovi dubbi? – anche in una casa diBerlino addirittura non tanto lontana dalla Kanzlerei hitleriana. Ciò che conta, in ultima analisi,è quanto ci ha lasciato dal punto di vista intellettuale, la passione per la democrazia mai disgiuntadalla consapevolezza che proprio la libertà è il bene più fragile da conservare. Forse proprio a tal

 ne, per difendere la libertà e la democrazia, è però utile ascoltare anche la voce di chi nella libertàe nel suo valore può aver dubitato. (La Direzione)

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Il carteggio Bobbio - Schmitt (1949-1980)

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Plettenberg (Westfalen)(Zona Britannica) 15/XII 48

Stimatissimo Signor Prof. Bobbio,

può perdonare un vecchio ammiratore ed esperto di Hobbes chesi rivolge a Lei direttamente chiedendoLe se sia possibile avere la Suaedizione del De Cive di Hobbes?

Ne ho sentito parlare e sarei felice di conoscere la Sua edizione. Hoperso la mia bella, grande biblioteca, ma, con particolare soddisfazione,ho salvato la Sua edizione della Città del Sole di T. Campanella. PotreipregarLa, qualora vi fossero difcoltà a inviare libri in Germania, di man-dare una copia al signor Armin Mohler, Rigistr. 36, a Basel (Schweiz)?

Il nome di Hobbes compare anche in una noterella, privata, “Excaptivitate salus”, dell’anno 1946. Potrei mandarLe una copia di questodocumento, se avrà la bontà di comunicarmi il Suo indirizzo. Nel Bol-lettino del 1948 (vol. XXIV, fasc. 1) della Facoltà di Giurisprudenza diCoimbra trova una nota: Historiographia in nuce (su Tocqueville). Lìlessi anche un riferimento del prof. Mereo (Coimbra) a un libro di Pas-serin d’Entrèves su Filmer. Se non è esagerato, vorrei permettermi dichiederLe come sta il signor Passerin d’Entrèves e dove lavora adesso.

Di nuovo, La prego di avere un’amichevole indulgenza verso le

mie richieste. E, tuttavia: on se lasse de tout excepté de penser. Con l’e-spressione della mia sincera stima rimango sempre

il Suo devotissimoCarl Schmitt

Torino, 26. dic. 1948

via Sacchi 66

Illustre Professore Schmitt,pensi che dacché è nita la guerra la Sua lettera è la prima voce

diretta che mi giunge dalla Germania dotta alla quale, come Ella sa, erolegato da vincoli non soltanto culturali ma anche personali. Accolgo,dunque, questa lettera come un gradito segno che la vita intellettualenon si spegne pure in mezzo alle enormi difcoltà che le si oppongono,e con l’augurio che rappresenti l’inizio di nuove relazioni alle quali io,

per conto mio, sono ben lieto di dare il mio piccolo contributo.Ho pregato l’editore di mandare all’indirizzo da Lei indicato la

mia edizione del De Cive. Perché la sua aspettativa non sia delusa, Ledebbo aggiungere che si tratta di una traduzione italiana del celebretesto, da me commentata e accompagnata da una introduzione di carat-

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 125-164

Colloquio su Princìpi, Diritto e GiustiziaIntervista al Prof. Robert Alexy (Kiel, 27 febbraio 2014)

di Federico Pedrini*

Robert Alexy, emerito di Diritto Pubblico e Filo-soa del Diritto della Christian-Albrechts-Univer-sität zu Kiel, è uno tra i massimi teorici del dirit-to contemporanei. Eminente giurista e losofogiuridico inuentissimo, nel corso del tempo hadialogato con i maggiori esponenti di entrambele discipline, da Ernst-Wolfgang Böckenförde a

 Jurgen Habermas, da Eugenio Bulygin a JosephRaz, da Ronald Dworkin a John Rawls.Nella sua vasta produzione scientica si è con-frontato con tutti i più grandi temi del modernocostituzionalismo, pubblicando opere crucialiin tema di princìpi e di bilanciamento, di teo-ria del discorso e dell’argomentazione giuridi-ca, di rapporto fra diritto e morale e di relazionefra diritti fondamentali, giustizia costituzionalee democrazia.

Introduzione. Taking Non-Positivism Seriously** 

Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust(Faust I, 1112)

«Due anime, ahimè, mi dimorano in seno».

Forse proprio il celebre verso di Goethe, archetipo delle tensionicontrastanti che fatalmente convivono in ogni natura complessa, puòriuscire al meglio nel difcile compito d’introdurre la sfaccettata guradi Robert Alexy, costituzionalista di fama mondiale e teorico del dirit-to tra i più autorevoli del nostro tempo contemporaneamente citato ecriticato, apprezzato e avversato, accolto e respinto (quanto non diret-tamente “rimosso”) per ragioni in apparenza inconciliabili.

Da un lato il non-positivismo, il forte interesse per le connessio-ni fra diritto e giustizia, per l’argomentazione giuridica, per il bilancia-

mento fra princìpi, per la piena valorizzazione della dignità della per-

*  Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna.  Alexander von HumboldtResearch Fellow presso la Freie Universität Berlin.

**  Di Federico Pedrini.

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Federico Pedrini

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sona e dei diritti umani e fondamentali, per la giustizia costituzionalecome tessitrice d’un discorso pubblico “aperto” fra giudici, giuristi eopinione pubblica. Dall’altro lato l’approccio tenacemente analitico ela conseguente acribia nell’elaborazione di categorie e concetti sempre

più precisi, la propensione alle indagini strutturali e formali, la scom-posizione e ricomposizione dei più complessi e spesso solo “chiacchie-rati” problemi giuridici in formule matematiche esatte, la promozionedella razionalità e della correttezza come valori di fondo d’ogni imma-ginabile sintassi giuridica.

Eppure, a meglio considerare, la pretesa contraddizione tra le duecitate polarità si svela presto meramente ttizia, concretando semmaiil contrasto fra di esse una contingenza storica, non già un’autentica

necessità concettuale. Segnatamente il loro possibile e fruttuoso connu-bio, anzi, parrebbe costituire il Leitmotiv dell’intervista che qui si pro-pone, il cui senso ultimo parrebbe potersi riassumere in un trasversa-le e denitivo appello a prendere davvero sul serio il non-positivismo.

Un invito rivolto – com’è ovvio – anzitutto ai giuspositivisti “aprio-ristici” che tuttora sostengono la potenziale arbitrarietà di qualsivogliadecisione o contenuto giuridici, ma che sùbito si trasforma anche in unmonito per tutti i corifei “generalisti” dello stesso non-positivismo, apartire dai neocostituzionalisti à la Dworkin “ultima maniera” rispetto

ai quali oggi si potrebbe parlare «a malapena di una teoria». Per entram-be queste categorie, infatti, Robert Alexy rischia di divenire la prover-biale “spina nel anco” – o, comunque, una coscienza teorica assai sco-moda –, mostrando come un modo rigoroso di procedere possa e debbaessere praticato anche presso coloro che non si collochino sulle spondedell’auctoritas facit legem.

Non è un caso, allora, se anche dalle considerazioni articola-te durante questo Colloquio viene progressivamente a delinearsi un

manifesto programmatico idoneo, potremmo dire, a “scontentare” unpo’ tutti, che da una parte rende molto più laborioso attaccare la posi-zione non-positivistica riducendola comodamente agli stereotipi clas-sici del giusnaturalismo e dall’altra detta però vincoli stringenti e nonnegoziabili ai “voli di fantasia” (anche solo linguistica) e all’estro fabu-latorio di chi voglia prender quartiere all’interno di questo più forti-cato perimetro teorico.

La prima e più importante premessa dello statuto metodologi-co che ne emerge è costituita dal rilievo secondo cui esistono «struttu-

re  generali di razionalità», valide dunque per qualsiasi  scienza umana,compresa quella giuridica. È segnatamente (e solo) in forza di tali strut-ture che si possono gettare le basi – le fondamenta razionali, appunto –per una dimostrazione della connessione necessaria fra diritto e morale,per una concettualizzazione dei princìpi giuridici (e in particolare dei

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Federico Pedrini

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A.  Sarebbe quello di poter precisare meglio gli ulteriori svilup-pi della teoria dei princìpi formali e del rapporto fra diritti fondamen-tali e democrazia rispetto alla giustizia costituzionale. È il mio attualeàmbito di ricerca…

(Traduzione dal tedesco di Federico Pedrini)

 Abstract

This interview article offers a critical analysis of the key stages in the thoughtof Robert Alexy, highlighting the characteristics peculiar to the non-positi-  vist position of the well-known jurist and philosopher of law. In particular,Alexy’s position is examined and brought up to date as regards the connec-tion between law and (certain forms of) morals, investigating the theoreticalpremise constituted by the “demand for correctness” required by any juridi-cal system. Furthermore, the article focuses on the evolution within the theo-ry of principles, highlighting its reconstruction in terms of “optimisation pre-cepts”, the “ideal duty” and their criterion of distinction from the rules. Thenal part offers a number of transversal considerations on the limits of ju-

dicial interpretation and application, outlining the theory of discretionalitywhich the author believes essential to democratic constitutionalism.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 167-185

Ulisse e le corde: dalle Province all’area vasta

di Carmine De Angelis*

Sommario: §1. – Il nodo Province nel vortice del-la legislazione “di crisi”. §2. – Il ritorno del mitoabolizionista: di riforma in riforma. §3. – “Tantotuonò che piovve”: il giudizio di illegittimità del-la Corte Costituzionale riguardo alla ristruttura-zione istituzionale. §4. – “Come se nulla fosse”:una legge “ponte” nell’attesa di una riforma costi-

tuzionale.

§1. – Il nodo Province nel vortice della legislazione “di crisi”

Negli ultimi anni l’amplicazione della crisi economica ha deter-minato ripercussioni non solo sul sistema legislativo ma nanco sul-la complessa articolazione costituzionale. La logica emergenziale deiprovvedimenti adottati dallo Stato, privi di prospettiva sistemica edi coerenza, ha eroso il circuito rappresentativo 1, scosso il riconosci-mento pieno delle autonomie locali 2  e trasgurato, in una prospet-

tiva di stampo dichiaratamente neocentralistica, il pluralismo dellearchitetture territoriali 3. Inoltre, i dichiarati propositi di contenimen-to della spesa pubblica, di pareggio di bilancio e rispetto degli obbli-ghi internazionali, giusticativi ad utilizzare da parte del legislatore 

1  Sul piano normativo gli effetti di questa compressione sono visibili già sia nella leg-ge 23 dicembre 2009, n. 191, che nel decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78. Cfr. N.VICECONTE,Legislazione sulla crisi e Consigli regionali: riduzioni dei costi della politica o della democrazia?, in

Istituzioni del Federalismo, n. 1, 2013, 29 ss.2  Sul punto si rimanda a: G.PIPERATA, I poteri locali: da sistema autonomo a modello razio-

nale e sostenibile?, in Istituzioni del Federalismo, n. 3, 2012, 503-522; S.MANGIAMELI, Le Regioni ele autonomie tra crisi della politica e ristrutturazione istituzionale, in IDEM, Le Regioni italiane tracrisi globale e neocentralismo, Milano, Giuffrè, 2013.

3  Cfr. S. STAIANO, Le autonomie locali in tempi di recessione: emergenza e lacerazione delsistema, in Federalismi.it, 2012.

*  Università degli Studi di Roma “Foro Italico”.

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Carmine De Angelis

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anche strumenti eccezionali 4, non sempre sono stati contrassegnatida linearità e corrispondenza: anzi gli esiti sono stati assai sfumati, lerazionalizzazioni ridimensionate 5 e le restrizioni si sono rivelate unoscambio verso dislocazioni diverse di risorse 6.

Così, come spesso avviene, gli scenari avanzati di legislazioni con-cepite per assunti ideologici hanno prodotto effetti confusi, improvvi-sati o inapplicati, e dilatati infruttuosamente nel tempo a causa degliadempimenti procedimentali complessi. Ciò che appare del tutto evi-dente è la difcoltà di pregurare nitidamente un nuovo assetto ordi-namentale o più sinteticamente ravvisare una linearità degli intentipregurati dalla normazione. In una forma probabilmente irreversibi-le il rafforzamento dei caratteri emergenziali e la centralizzazione deimeccanismi di nanza pubblica hanno ridimensionato numerose sfe-re di autonomia dell’ordinamento degli enti locali 7. Che si tratti di tec-niche legislative legittimate all’interno degli obiettivi di contenimentodei costi, di decisioni cooptate dalle istituzioni europee 8 o piuttosto diuna ricalibratura della riforma costituzionale del 2001 9, comunque l’ef-fetto costante degli ampi provvedimenti resta la lenta erosione dell’au-tonomia locale 10.

Gli ultimi anni hanno visto così una progressiva divaricazionesempre più chiara quanto pericolosa tra la valorizzazione del fonda-

mentale principio autonomistico sancito nell’art. 5 della Costituzionee dalla Carta europea dell’autonomia locale e le logiche di risparmiosulla spesa pubblica, ovvero tra il necessario prezzo della democraziae i pesanti costi della politica. Così «lo stato ritorna sui suoi passi, frena

4  Corte costituzionale, 11 ottobre 2012, n. 233.5  Ad esempio, dall’analisi delle voci della Banca dati Siope del Ministero dell’econo-

mia i costi degli enti strumentali sono passati da 7,4 miliardi nel 2012 a 8,4 miliardi nel 2013.Nel dettaglio nel 2013 il costo degli ATO (la legge 26 marzo 2010, n. 42 ne prevedeva la sop-

pressione entro il 2011) è stato di oltre 126 milioni di euro, così anche i Bacini imbriferi Mon-tani sono costati 254 milioni di euro e il costo dei Consorzi è passato da oltre 459 milioni dieuro a più di 583 milioni di euro.

6  La plastica visione di una normazione “a partita di giro” può essere scorta neglieffetti rovesciati del decreto-legge 31 dicembre 2012, n. 23. In specie, il tetto alla remunera-zione dei consiglieri regionali previsto dalla norma (la somma di indennità, diarie e rimbor-si non avrebbe dovuto superare gli 11.100 euro lordi), è stato “aggirato” in molte Regioniriducendo l’emolumento totale alla voce dell’indennità, che è tassabile, ma aumentando ladiaria, che è un rimborso a forfait, quindi di fatto un reddito non tassabile.

7  Cfr. V. TONDI  DELLA  MURA, La riforma delle Unioni dei Comuni tra “ingegneria” e“approssimazione” istituzionali, in Federalismi.it, 2012, 3 ss.

8  Basti pensare all’impatto notevole che ha avuto la lettera spedita il 5 agosto 2011al governo italiano dall’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet con la quale veni-

va rimarcata «l’esigenza di prendere immediatamente misure per garantire una revisio-ne dell’amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l’efcienza amministrativa e lacapacità di assecondare le esigenze delle imprese», abolendo in tal senso i livelli interme-di di governo.

9  Sul punto L. VANDELLI, Crisi economica e trasformazione del governo locale, in Il librodell’anno del Diritto 2012, Roma, Treccani, 2012, 309 ss.

10 Cfr. S. STAIANO, Le autonomie locali in tempi di recessione, cit., 5 ss.

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Ulisse e le c ord e: d a lle Prov inc e a ll’ a rea va sta 

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za territoriale sia scosso, quasi compromesso, da un’approssimazioneistituzionale.

Le nuove disposizioni sulle Province “bismarckianamente” devo-no piacere, appagare e soddisfare: approfondirne il senso, la ratio  e

“guardarle come vengono fatte” potrebbe, forse, far emergere il gradodi sconfortante supercialità e la costante sordità dei “nuovi costituen-ti” alle istanze costituzionali. D’altronde, «più che l’esito dell’opera direvisione, interessa l’attività di revisione in sé; più che la riforma (com-piuta e coerente) interessa il riformare (ininterrotto ed instancabile)» 79.

 Abstract

This paper reviews the actual challenge for italian local government, with aspecial focus on the provincial role. The organization and regulation of localpowers in Italy have been debated over a long period of time. The Provinceshave for many years been considered a wasteful and largely superuous lay-er of local government whose tasks could be redistributed among the smallertown councils and the larger regional authorities. The analysis contrarily re-marks a fundamental role of Provincial governments in delivering services tothe public.

79  Ibidem.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 187-196

 La garanzia aristocratica della democrazia(a proposito della sent. Corte cost. n. 1 del 2014)

di Massimo Luciani*

Sommario: §1. – Le categorie. §2. – Il quadronormativo. §3. – La sentenza. §4. – La lezione

§1. – Le categorie

Il mito della forma di governo mista sembrerebbe tramontato:pochi ne parlano; pochi, nella discussione pubblica e nello stesso dibat-tito tra i giuristi, s’interessano ancora delle categorie classiche del pen-siero politico. Quel mito, si sa, era stato alimentato dal successo delleStorie di Polibio, che, riprendendo spunti platonici e aristotelici, avevaesaltato la forma di governo della repubblica romana al massimo del

suo fulgore (e subito prima della sua crisi, dovuta soprattutto a quel-lo sviluppo repentino che in poco tempo l’aveva condotta a domina-re, dopo le vittorie su cartaginesi e macedoni, tutto il Mediterraneo). Ilmito ha percorso l’intera storia del pensiero politico e giuridico occi-dentale, sino alla modernità, e aveva dalla sua due punti di forza: l’e-sempio storico del successo e della durata dell’esperienza romana; ilconvincimento che le spinte disgregatrici interne a ciascuna forma digoverno (che avrebbero fatalmente comportato la loro degenerazio-ne e innescato la fatale anakúklosis) 1 sarebbero state contenute, se non

1  E cioè il passaggio da una forma di governo all’altra, in un eterno circolo che alter-nava le tre forme di governo “buone” (monarchia, aristocrazia, democrazia) alle tre formedi governo “cattive” (tirannia, oligarchia, oclocrazia).

*  Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

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Massimo Luciani

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annullate, da una sapiente miscela degli elementi dell’una e dell’altra,così come aveva fatto – appunto – Roma.

In realtà, sotto quella forma di governo mitizzata giaceva unimplicito riconoscimento del concreto assetto degli interessi materia-

li e degli effettivi rapporti sociali in Roma antica, tanto che in essa ogniistituzione costituzionale riproduceva una parte di quegli interessi eproiettava un aspetto di quei rapporti al livello delle istituzioni. Benpochi lo compresero (e, probabilmente, ben pochi, ancora oggi, l’inten-dono): solo Machiavelli ebbe subito la cosa ben chiara in mente, comedimostrano le folgoranti osservazioni sul tribunato romano che tro-viamo nei Discorsi. Era fatale, dunque, che, sia pure inavvertitamen-te e per molti inconsapevolmente, la forza del mito prendesse ad afe-volirsi una volta che si è cominciato ad avvertire come le condizionimateriali sulla cui base era nato si erano modicate. Non solo: l’am-pliamento d’orizzonte segnato da Montesquieu, che – osserva giusta-mente Bobbio – come Vico aveva assunto la prospettiva della losoadella storia, ma l’aveva allargata al di là dell’antichità classica 2, invita-va a cancellare i segni del più lontano passato e sollecitava una ries-sione più prossima alle esigenze della modernità.

Di qui, dunque, la crisi del mito. Eppure, crisi non signifca scom-parsa. Come negare, infatti, che la dottrina della divisione dei poteri o

quella dei  checks and balances, pur essendo assai diverse da quella del-la forma di governo mista, ne abbiano ripreso l’idea che nelle costru-zioni costituzionali si debbono assemblare più materiali diversi per assi-curarne la solidità? E, in effetti, è evidente che in quelle che chiamiamo“democrazie rappresentative” sono presenti sia elementi democratici cheelementi aristocratici (la stessa rappresentanza, invero, ha una matricepropriamente aristocratica), e talora anche elementi monarchici (la for-mula duvergeriana della “monarchie républicaine” è illuminante).

L’aspetto più paradossale, forse, è che, quando le democrazierappresentative evolvono verso la forma dello Stato costituzionale didiritto, a costituzione rigida e con controlli di costituzionalità, la garan-zia delle forme democratiche nisce per essere afdata ad un istitutotipicamente aristocratico come la magistratura costituzionale. Ormai,infatti, è chiaro: le costituzioni contemporanee hanno escluso di af-darsi, per la propria garanzia, allo schmittiano Hüter der Verfassung ehanno introdotto la kelseniana  garantie juridictionnelle de la Constitu-tion 3, sicché spetta proprio ad organi aristocratici garantire la tenuta

delle costituzioni democratiche.

2  N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico , Torino, Giap-pichelli, 1976, 133.

3  Resta da stabilire se, nei regimi parlamentari, i capi dello Stato siano difensori poli-tici (come a me sembra: v. il mio La parabola della Presidenza della Repubblica, in Rivista AIC ,

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Massimo Luciani

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coerenza solo entro una lettura dello Stato costituzionale di diritto che(come peraltro molti, ormai, fanno) tende a svincolarlo dal suo fonda-mento democratico per radicarlo in valori costituzionali destoricizzati,espressione di un novello diritto naturale positivo 9.

Sulle Camere, in realtà, grava il dovere di prendere atto del-la lezione e di non porre tempo in mezzo. Proprio una risalente pro-nuncia della Corte costituzionale 10 indica quale sia la giusta misura invicende di questo tipo: chiamata a pronunciarsi sulla non commende-vole prassi di votare in Parlamento in luogo d’altri (schiacciando anchei pulsanti di voto dei colleghi assenti) la Corte disse che lo svolgimen-to interno dei lavori parlamentari si sottrae al sindacato giurisdiziona-le. Ma aggiunse un passaggio fondamentale: «Tuttavia questa Corte non può esimersi dall’osservare che, nello Stato costituzionale nel quale viviamo,la congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regola-mentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di legalità,certamente di conservazione della legittimazione degli istituti della autonomiache presidiano la sua libertà». La questione era allora ed è oggi, una vol-ta di più, politica e sono gli organi della politica a dover capire comee quanto la loro legittimazione sia sdata e quanto sia indispensabi-le agire per ricostruire un corretto rapporto duciario con la pubblica

opinione, se di democrazia (sia pure rappresentativa) vogliamo conti-nuare a parlare.

 Abstract

This paper is inspired by the recent judgment no. 1 of 2014 of the Italian Con-

stitutional Court, which declared void our electoral legislation. It is a signi-cant example of a guarantee of democracy through the application of aristo-cratic institutions.The essay highlights the legacy of the theory of the mixed form of governmentand claries the extent to which the current mix (in the same form of govern-ment) of monarchical, aristocratic and democratic principles is different thanit did in classical antiquity.

9  Sulla questione accennata nel testo, v. le opposte posizioni di Staiano (più vicina aquella qui sostenuta) e di Ferrara, negli scritti già citati in precedenza.

10  Sent. n. 379 del 1996.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 197-210

 Nobile sogno o pia illusione?Teoria e politica dell’interpretazione giuridica,ovvero: altre glosse ad Aljs Vignudelli

di Giorgio Pino*

Sommario: §1. – La natura dell’impresa di Vignu-delli. §2. – Perché la scienticità dell’interpreta-zione giuridica è un mito. §3. – Gli interpreti deldiritto.

Sono molto graticato dalle parole espresse da Aljs Vignudelli,nella sua replica alla mia recensione del volume Interpretazione e Costi-tuzione 1: sia per il fatto stesso egli abbia ritenuto meritevoli di una suareplica le riessioni da me sviluppate a partire dal suo testo (non a casole avevo chiamate «note a margine»); sia perché l’Autore ripetutamen-te sottolinea che, lungi dal fraintendere o manipolare il suo pensiero, loho inteso correttamente – e questo non può che suonare alquanto con-fortante, per chi di professione legge i lavori altrui.

Ma il fatto che l’illustre Autore evidenzi la generale correttezzadel modo in cui ho inteso la sua proposta teorica può essere, a benvedere, anche segno di una circostanza potenzialmente più allarman-te: può essere cioè il segno che, forse, tra Vignudelli e chi scrive corraun disaccordo teorico genuino, che non si potrebbe riuscire ad emen-dare ricorrendo a qualche chiarimento o a qualche correzione di tiro

1  I lavori cui si fa riferimento nel testo sono, nell’ordine: A. VIGNUDELLI, Interpretazio-ne e costituzione. Miti, mode e luoghi comuni del pensiero giuridico , Torino, Giappichelli, 2011;G. PINO, Di interpretazione e interpreti della Costituzione. Note a margine di ‘Interpretazione eCostituzione’ di Aljs Vignudelli, in Diritto e Società, 2013, 2, 353-373; A.VIGNUDELLI, «Non lo fo’ per piacer mio… ». Brevi osservazioni (e qualche ulteriore quesito) sull’“insostenibile” avalutativi-tà dell’interpretazione giuridica, in Diritto e Società, 2013, 3, 559-581 (i numeri tra parentesi neltesto si riferiscono a quest’ultimo lavoro).

*  Università degli Studi di Palermo. ‹[email protected]› ‹www.unipa.it/gpino›

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Giorgio Pino

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nei concetti e nelle denizioni utilizzati, da lui o da me. E in effetti cre-do che questo sia esattamente ciò che accade in questo caso. Pur essen-do sempre in agguato potenziali (miei) fraintendimenti, e nonostanteVignudelli abbia dichiarato di voler approttare della nostra discus-

sione anche per tornare su alcune delle tesi-chiave di teoria dell’inter-pretazione sostenute in Interpretazione e Costituzione, per «formularlemeglio, […] eliminarne le residue opacità o, se del caso, […] integrar-le con qualche ulteriore argomento» (560), non vedo prolarsi all’oriz-zonte quella possibilità, auspicata da Vignudelli, che «se il dialogo siprotrae a sufcienza, quanto meno un certo accordo sui fondamentalisi possa progressivamente costituire» (560).

In effetti, la lettura della replica di Vignudelli alla mia recensione,

replica come sempre arguta, colta, ed esteticamente assai godibile, miconferma nella mia già esplicitata (e, spero, argomentata) convinzionedell’insostenibilità della posizione di Vignudelli in teoria dell’interpre-tazione giuridica.

Se di teoria dell’interpretazione si tratta, beninteso. Infatti, non hoalcuna riserva ad affermare che sarebbe del tutto possibile, plausibi-le, e legittimo difendere una posizione afne a quella di Vignudelli seintesa come dottrina dell’interpretazione, o, se si preferisce chiamar-la così, come una proposta di politica dell’interpretazione: cioè, non

come una indagine concettuale sulla denizione di interpretazione,ma come una serie di direttive su come fare o non fare “buona” inter-pretazione. Ma, poiché ciò che Vignudelli intende offrire non è affattouna proposta di politica dell’interpretazione ma dichiaratamente unateoria dell’interpretazione, con ni conoscitivi e descrittivi, tutte le mieriserve sulla sua posizione restano intatte, e se possibile aumentate,anche dopo la sua replica.

Contro-replicherò, dunque, alle tesi di Vignudelli, sperando di riu-

scire a strutturare il mio intervento in un modo che non somigli trop-po ad una partita di ping pong, o ancora peggio ad uno scambio dimessaggi in codice tra iniziati. Passerò in rassegna tre nuclei temati-ci principali, nell’ambito di ciascuno dei quali sintetizzerò la posizio-ne di Vignudelli (che spero di continuare a non fraintendere), e ne evi-denzierò le ragioni che a mio parere la rendono insostenibile: la naturadell’impresa di Vignudelli (§ 1); la questione della (inattingibile) scien-ticità dell’interpretazione giuridica (§ 2); l’individuazione della plateadegli interpreti del diritto, e le conseguenze di tale individuazione sulla

caratterizzazione del linguaggio giuridico (§ 3). Non riprodurrò qui perintero le osservazioni critiche che ho già svolto nel mio primo interven-to, al quale rimando il lettore particolarmente paziente per una tratta-zione più dettagliata; ma qua e là, per la maggiore comodità del lettore,richiamerò sinteticamente quanto già detto in quella occasione.

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Giorgio Pino

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to funziona (e, si noti, non è un modo contingente: è così che il dirittoè), e di conseguenza sul fatto che inevitabilmente anche il cittadino saràpiù interessato a conoscere non un fantomatico signicato “vero” di unenunciato normativo, ma piuttosto lo stato della giurisprudenza su una

certa questione (come esattamente nota anche Vignudelli, 575).Ora, si può anche stipulare, ancora una volta, che questo è un pro-

blema di (teoria del) diritto e non anche di (teoria dell’)interpretazio-ne. Ma forse non sarebbe una stipulazione granché utile: il diritto è(anche) linguaggio, ed è linguaggio destinato ad essere utilizzato daorgani dell’applicazione ai ni dell’adozione di atti coercitivi; e qui,si badi, non è in questione la circostanza che nei casi singoli  le speci-che decisioni degli organi dell’applicazione diventano denitive (a

questo mi pare alluda Vignudelli quando dice che «i giudici ammini-strano sì il diritto […], ma non certo il linguaggio del legislatore», 577,corsivi nell’originale). È piuttosto in questione la circostanza che i giu-dici nel loro complesso, nelle motivazioni delle sentenze, rielaboranocontinuamente il linguaggio del legislatore. La modicazione del lin-guaggio legislativo non avviene nel dispositivo della sentenza, ma nel-la motivazione, è lì che i giudici “parlano” alle parti del processo, ailoro avvocati, ai giudici dei successivi gradi di giudizio, a tutti gli altrigiudici, alla cultura giuridica nel suo complesso, e talvolta allo stessolegislatore. È la motivazione della sentenza il luogo in cui le disposi-zioni legislative si trasformano in norme, da utilizzare come premessamaggiore del sillogismo giudiziario.

Dire che il linguaggio giuridico è un linguaggio “amministrato”signica semplicemente questo, e rimanda ad una caratteristica sem-plicemente ineliminabile del diritto (di sicuro del diritto moderno). Èun fatto che può non piacere, ma è pur sempre un fatto che nessunateoria del diritto può permettersi il lusso di ignorare.

 Abstract

In a previous review essay, I have discussed Aljs Vignudelli’s book Interpre-tazione e costituzione, pointing to some problems in the theoretical frameworkoffered by Vignudelli. Professor Vignudelli has subsequently replied to myreview, stating again his views on legal interpretation as a properly scienticenterprise, and on the individuation of the class of legal interpreters. I nowseize the opportunity of this exchange to assess again Vignudelli’s positionon the theory of legal interpretation and to provide further arguments for myown views on the subject.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 211-231

«Rigore è quando arbitro fschia»?Ovvero: (anche) con Pino monologo spesso

di Aljs Vignudelli

Sommario: §1. – Dreamers vs. Deludeds. §2. –Ancóra sugli interpreti del diritto. §3. – Teoria e dot-trina della stipulazione. §4. – Necessità teoriche eIntenzione del Legislatore di Kakania. §5. – «Rigoreè quando arbitro schia»?

§1. – Dreamers vs. Deludeds

Giorgio Pino, che ha avuto qui la pazienza di stendere alcune ulte-riori “glosse” al mio lavoro Interpretazione e Costituzione 1 (e alle precisa-zioni che erano seguite, da parte mia, a una prima recensione per manodello stesso Pino) 2, non senza un pizzico di provocatorietà titola il suointervento «Nobile sogno o pia illusione?» 3.

Com’è noto, il riferimento letterario (almeno per il primo “corno”dell’alternativa) è alla categorizzazione introdotta da José Juan More-so 4, il quale, sulla scia di Herbert L.A. Hart 5, scrive di «nobile sogno»per riassumere icasticamente la posizione propria del “formalismo” in

1  A. VIGNUDELLI, Interpretazione e Costituzione. Miti, mode e luoghi comuni del pensiero giuridico, Torino, Giappichelli, 2011.

2  G. PINO, Di interpretazioni e interpreti della Costituzione. Note a margine a ‘Interpretazio-ne e Costituzione’ di Aljs Vignudelli, in Dir. e Soc., 2/2013, 353 ss., cui era seguito il mio «Nonlo fo’ per piacer mio…». Brevi osservazioni (e qualche ulteriore quesito) sull’“insostenibile” avaluta-

tività dell’interpretazione giuridica, in Dir. e Soc., 3/2013, 559 ss.3  G. PINO, Nobile sogno o pia illusione? Teoria e politica dell’interpretazione giuridica, ovve-

ro: altre glosse ad Aljs Vignudelli, in Questa Rivista, 197 ss.4  J.J. MORESO, La indeterminación del derecho y la interpretación de la constitución, Madrid,

Centro de Estudios Constitucionales, 1997.5  H.L.A. HART, The Concept of Law (1961), trad. it. Il concetto di diritto, a cura di M.A.

Cattaneo, Einaudi, Torino, 2002, part. 146 ss.

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Aljs Vignudelli

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teoria dell’interpretazione. E al lettore minimamente attento, d’altrocanto, non sfugge che dovrei con ciò sentirmi chiamato personalmen-te in causa, poiché di lì a poco Pino denisce appunto la mia posizionecome «neoformalista» 6, sia pure all’interno d’un approccio dichiarata-

mente cauto nei confronti delle tradizionali “etichettature”.Condividendo appieno col mio interlocutore la difdenza verso

il “labelling teorico”, rinuncio alla tentazione di replicare sùbito diffu-samente a Pino come, se volessimo davvero applicare la tripartizio-ne di Moreso – il quale al «nobile sogno» (formalismo) contrapponel’«incubo» (scetticismo giusrealista) e la più moderata «veglia» (teo-ria intermedia o eclettica) –, io mi vedrei a rigore relegato tra i “vigili”ed escluso dai “sognatori”. Sul punto, che sospetto tuttora condiziona-to da alcuni fraintendimenti puramente nominalistici (e fors’anche daqualche equivoco concettuale), proverò semmai a tornare più avanti.

Piuttosto, vorrei sfruttare in esordio la dicotomia nobile sogno/pia illusione proponendola come chiave di lettura non tanto per quelche io specicamente sostengo in materia di teoria dell’interpretazio-ne, bensì per il presunto “dialogo” che si dovrebbe articolare in questepagine tra me e Pino.

Nobile Sogno o pia illusione? Id est, gli interlocutori ammettonodavvero la possibilità di rivedere le proprie premesse e i relativi svilup-

pi in rapporto alle critiche articolate dall’oppositore dialettico o sem-plicemente si arroccano “a oltranza” nella loro difesa? Detto altrimen-ti: siamo seriamente di fronte a un dialogo o assistiamo semplicementealla riproposizione di due distinti monologhi?

Ebbene, se dovessi indicare un campo nel quale sono realmentepartito con i panni del “sognatore” e oggi mi specchio sempre più aindossare quelli dell’“illuso”, sarei tentato di scegliere proprio quellodelle discussioni teoriche in tema d’interpretazione giuridica 7. Un’im- passe  che, peraltro, oltre a dover essere rilevata, sembrerebbe qui, senon proprio compiutamente da spiegare, quanto meno un poco piùd’approfondire.

Sicuramente a creare questa situazione di “stasi” (a lungo anda-re, peraltro, un tantino écoeurant) possono aver concorso, a vario titolo,una o più componenti di quel «disaccordo teorico genuino» menzio-nato anche da Pino 8 e – diciamolo pure – un certo naturale attacca-mento alle proprie idee da parte dei colloquianti. Tuttavia, né il quid diautentico dissenso teorico, né la possibile “cocciutaggine” degli inter-

6  G. PINO, op. ult. cit., 199.7  Cfr. già la Avvertenza in M. BARBERIS, A. VIGNUDELLI, “Nuovi” dialoghi sull’interpreta-

zione, Mucchi, Modena, 2013, 7, dove il sottotitolo (d’ascendenza krausiana) era appunto«Con Barberis monologo spesso…».

8  G. PINO, op. ult. cit., 197.

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«Rigore è quando arbitro fschia»?

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to e dell’interpretazione) come quella di Pino, che nemmeno in astrattoe nemmeno in parte consenta di realizzare tale obiettivo, continua adapparirmi poco funzionale a quello che ritengo tuttora essere uno degliscopi fondamentali e più “nobili” della scienza giuridica.

Con questo, riprendendo ciclicamente da dove si era comincia-to, non ho mai pensato d’essere un “sognatore” in teoria dell’inter-pretazione, ma se ciò fosse richiesto da una qualche “etichetta” potreisempre abituarmici. Fin d’ora, d’altro canto, mi posso consolare colpensiero che lo stesso Pino, seguendo la citata tripartizione di More-so, parrebbe trovarsi benissimo pure all’interno di una prospettiva teo-ricamente Nightmare-oriented. Forse aveva ragione Gesualdo Bufalinoquando scriveva che «ognuno sogna i sogni che si merita».

 Abstract

The essay constitutes a reply to the latest critique by Giorgio Pino publishedin this journal. The thesis of the essay is that various perspectives from whichto study juridical interpretation are possible, but that whatever position is

chosen must be stipulated, backing up one’s choice on the basis of the aims tobe achieved. Furthermore, the essay shows how a theory (and not a doctrine)of juridical interpretation may be conceivable, looking upon this as a cogni-tive undertaking; at the same time, it highlights the explanatory difculties ofthe model countered, both with regard to the intentions of the legislator andto the subjects of juridical communication.

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Lo Stato, n. 2 (2014), pp. 233-252

 Francesco Gentile e la legalità costituzionale:dalla difdenza alla piena sintonia*

di Pietro Perlingieri**

Sommario: §1. – Fattualità del diritto. §2. – Legalità e giu-stizia. §3. – Dinamicità del sistema ordinamentale. §4. – Si-stema ordinamentale aperto. §5. – Il primato della politica.§6. – Rinnovamento dell’ordine giudiziario. §7. – L’educa-

zione del giurista.

§1. – Fattualità del diritto

La storia del mio rapporto umano con Francesco Gentile ha signi-cato paradigmatico nell’approccio allo studio del diritto, caratteriz-zato dalla convinzione della necessità di un dialogo, opportunamen-te dialettico, tra il losofo e il giurista, ispirato dall’“amore del sapere”nel quale, con tanta passione, l’amico losofo identica la losoa 1.

1  Sulla centralità del ruolo della losoa nella formazione e nell’attività del giuristav. F. GENTILE, Filosoa del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi , Padova,

*  Relazione tenuta al Convegno Il contributo di Francesco Gentile alla losoa giuridico- politica contemporanea che si è svolto nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Pado-va, il 22 novembre 2013. Un gruppo di giovani dottorandi presso il Dipartimento di Diritto,Economia, Management e Metodi quantitativi dell’Università degli Studi del Sannio, compo-sto da Francesca Carra, Valeria Guida, Antonio Lacatena, Emanuella Prascina, Emilia Pen-nucci Molinaro, Angelo Rubano, coordinati dalla mia allieva Anna Bizzarro, hanno contri-buito alla stesura delle note. Le principali opere di Francesco Gentile, ripartite tra loro, sonostate lette e collegialmente discusse, in impegnativi incontri seminariali: quelle sulla storici-tà e sul rapporto losoa-diritto (A. Bizzarro, A. Lacatena), quelle sulla fattualità (A. Bizzar-ro, F. Carra, A. Lacatena, E. Prascina), quelle sulla centralità della controversia e sul ruolodella giurisprudenza nella formazione del giurista (F. Carra, E. Pennucci Molinaro, V. Gui-da, A. Rubano), quelle sul rapporto potere-diritto (V. Guida), quelle sul potere e sul primato

della politica, sui diritti e doveri, sull’identità europea e sulla sussidiarietà (F. Carra, E. Pra-scina) e, inne, quelle sulla legalità, sulla giustizia e sulla giusticazione (F. Carra, V. Gui-da, E. Pennucci Molinaro). Una discussione appassionata che lascerà una traccia gentiliananella formazione di questi giovani.

**  Università degli Studi del Sannio. Professore emerito di diritto civile.

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Pietro Perlingieri

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Sin dalla sua presenza nella Facoltà giuridica napoletana – sonogli anni dal 1980 al 1984 – i nostri colloqui si vanno con reciproca sim-patia inttendo e hanno riscontro anche in iniziative corali. Nel 1986, aBenevento in un Convegno, da me voluto, tra loso del diritto e civi-

listi, su Soggetti e norma, individuo e società 2, Francesco Gentile incentrala sua relazione sulla «controversia» 3 alle radici della esperienza giuri-dica ed invita «a non confondere […] l’ordine con l’ordinamento 4 chesi è attuato mediante la costruzione articiale di un sistema»  5, condi-videndo esplicitamente lo spunto che «la conoscenza giuridica non è

Cedam, 2006, 7, ove si legge: «la losoa, in quanto sapere radicalmente problematico, inquanto autentico e non simulato amore del sapere, è la condizione perché si possa eserci-tare tecnicamente la professione del giurista»; IDEM, Il diritto civile nella legalità costituziona-

le secondo il sistema italo-comunitario, in “L’Ircocervo”, Rivista elettronica italiana di metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato, 2007, n. 219, 1; IDEM, Il ruolo della loso- a nella formazione del giurista, ivi, IV, 2008, 1; IDEM, Legalità giustizia giusticazione. Sul ruolodella losoa del diritto nella formazione del giurista, Napoli, Esi, 2008, 9 ss., là dove si richiamal’attenzione sulla necessità e sull’importanza della losoa all’interno della scienza giuridi-ca e sul cammino che ha portato all’introduzione della losoa del diritto nei piani di studiodelle facoltà di giurisprudenza dell’università italiana. Analogamente,P. PERLINGIERI, Filoso-  del diritto e civilisti a confronto, in Scuole tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli,Esi, 1989, 313 ss.; IDEM, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comu-nitario delle fonti, Napoli, Esi, 2006, 7, dove è ribadita la necessarietà dell’incontro del loso-fo e del giurista e, in particolare, «del losofo del diritto e del civilista». Favorevole al dia-logo tra loso e giuristi, anche L. BAGOLINI, La scelta del metodo nella giurisprudenza (Dialogotra giurista e losofo), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 1054 ss. Tuttavia, non mancano perples-sità circa la rilevanza della losoa nella formazione del giurista là dove si evidenzia (N.IRTI, La formazione del giurista, in Riv. trim. dir. pubb., 2004, 647 ss.) la necessità che «i saperitecnici, afnché si svolgano con metallica precisione, siano alleggeriti di ogni bagaglio, diogni peso culturale», proponendo che la losoa del diritto debba «convertirsi in metodo-logia dei saperi speciali» e diventare, pertanto, uno strumento che il giurista possa impiega-re in funzione pratica e operativa. Quanto, però, alla rilevanza della losoa sulla politica,v. IDEM, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, Roma-Bari, Laterza, 2008.

2  Gli atti del Convegno, svoltosi a Benevento nei giorni 12 e 13 dicembre 1986, sonoraccolti nel testo: P. PERLINGIERI (a cura di), Soggetti e norma, individuo e società, Napoli, Esi,1987.

3  F. GENTILE, La controversia alle radici dell’esperienza giuridica, in Soggetti e norma, indi-viduo e società, cit., 144, ove il losofo afferma che «l’ordine della norma, non rileva se non

in quanto operante nell’ordinamento della controversia». Sul ruolo della controversia qua-le “schema” e “misura dialettica” dell’ordinamento giuridico, v.  IDEM, Ordinamento giuri-dico tra virtualità e realtà, 3a ed., Padova, Cedam, 2005, 46 ss., secondo il quale il disordinedella lite non è un non-ordine oggettivo, ma divergenza tra due vedute dell’ordine, da com-porre dialetticamente. L’idea della centralità della controversia e del processo – qualicatoquest’ultimo «come schema dell’ordinamento giuridico» (IDEM, Filosoa, cit., 223) – è mutua-ta, come lo stesso Autore riconosce, dall’insegnamento della sua Scuola: Giuseppe Capo-grassi e Enrico Opocher.

4  Sul punto, si veda il secondo codicillo “Su linguaggio e diritto” in F. GENTILE, Ordi-namento giuridico tra virtualità e realtà, cit., 121, nel quale si esamina il rapporto tra ordine eordinamento, sottolineandone la diversità e, nello stesso tempo, la inevitabile connessione,giacché l’ordinamento è condizione dell’ordine. Tuttavia, IDEM, Filosoa, cit., 105 ss., è con-sapevole della difcoltà di denire in astratto l’ordine e di individuarlo fuori dal concetto

di ordinamento. La necessità di distinguere i due concetti è ribadita a proposito del ruolodella legge positiva nella traduzione del conitto in controversia quando afferma che «ciòche usano i giuristi quando maneggiano il diritto positivo, non è l’ordine, e neppure la fon-te dell’ordine, bensì uno strumento per individuare le modalità dell’ordinamento delle rela-zioni intersoggettive» (IDEM, op. ult. cit., 217).

5  F. GENTILE, La controversia alle radici dell’esperienza giuridica, in Soggetti e norma, indi-viduo e società, cit., 142.

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Pietro Perlingieri

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Filosoa del Diritto, la Rivista Italiana Internazionale di Filosofa del Dirit-to, fondata da Giorgio Del Vecchio: loso e giuristi «troppo spessosi ignorano e quasi ostentano una reciproca incomprensione mentregrande sarebbe da ambo le parti il vantaggio se, abbandonando vieti

abiti mentali e difdenze ingiusticate, si stabilisse tra gli uni e gli altriuna certa comunione di lavoro e un attivo scambio di idee per ciò checoncerne la vita del diritto e i suoi problemi fondamentali» 83. Auspica-bile sarebbe che dalle difdenze potessero scaturire, in una sana dia-lettica, piene sintonie, come è avvenuto tra Francesco Gentile e me. Ciòpotrebbe essere assai utile, in questo momento storico, in un Paese,come il nostro, in profonda crisi etica e identitaria.

 Abstract

The need for a continuous dialogue between the philosopher and the jurist,inspired by the “love of knowledge”, ows from the study of Francesco Gen-tile’s main works. The aversion to a geometrical and formalistic approach tolaw, as well as the claim that legal interpretation does not deal with the lan-

guage of legal provisions but with facts and their complexity, are convincing.Therefore, the key role of litigation is undeniable. Law is experience, factua- lity and, thus, a historical and political process.

83  F. GENTILE, Legalità, cit., 19 ss.

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Lo Stato, n. 1 (2013), pp. 287-318

 Riferimenti bibliograci

Kelseniana

Segnaliamo i due ultimi titoli delle opere complete di Hans Kelsen, par-tendo dall’ultima in ordine pubblicazione:

HANS  KELSEN, Werke,  hrsg. von Matthias Jestaedt in Kooperation mit demHans Kelsen-Institut, Band 4: Veröffentliche Schriften 1918-1920, Tübingen,Mohr Siebeck, 2013, pp. 892.

Questo tomo racchiude, in edizione lologicamente accurata, tre saggi

importanti di Kelsen, noti anche allo studioso italiano avendo chi scrive cura-to in anni passati la loro traduzione nella nostra lingua: il saggio sulle nzionigiuridiche, del 1919, Il problema della sovranità, del 1920 (anno di edizione, main realtà il testo era già in buona parte composto nel 1916), – con una prefazio-ne che per la verità non rende conto delle complesse problematiche del testokelseniano – e gli abbozzi preliminari (1919) di Wesen und Wert der Demokra-tie. Oltre a questi, i curatori hanno raccolto altri scritti kelseniani risalenti aicruciali anni 1918-1920, nei quali l’Austria trapassa dalla monarchia asburgi-ca alla Repubblica, tentata prima come ‘grande-tedesca’, poi ridotta, com’ènoto, anche per l’opposizione delle potenze vincitrici, a meramente austriaca.

Di questi scritti, da un lato appaiono signicativi per il diritto costituzio-nale quelli dedicati al diritto elettorale, in modo particolare alla difesa politi-ca e giuridica del sistema proporzionale, dall’altro scritti eclettici, recensionie necrologi. Ciò che tiene insieme tutti questi lavori, ad avviso di chi scrive, èl’idea – di signicato non soltanto metodologico – di unità. Nella recensionea Layer sul contratto di diritto pubblico (153-157), ma un po’ in tutti gli scrit-ti qui raccolti, compreso, ovviamente, il saggio sulla sovranità, ciò che va sot-tolineato è lo sforzo costante, da parte di Kelsen, di ricondurre ad unità tutti idualismi più o meno falsi o fondati su nzioni che impediscono allo sguardo

scientico di spiegare l’oggetto nella sua ‘coglibilità’ da parte della scienza. Ilconcetto di unità, indubbiamente, in questa fase, si fonda e sempre più si fon-derà negli anni immediatamente successivi sulla metodologia del neokanti-smo di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer).

Gli scritti minori offrono al lettore molti spunti; vorrei qui limitarmi asegnalare la recensione (1918), assai favorevole, di uno scritto di Rudolf vonLaun sulla questione delle nazionalità, dove Kelsen prende posizione a favo-re del vigente diritto austriaco in materia di lingue e di nazioni, che all’este-ro la propaganda bellica indicava invece come ‘oppresse’. Importante è anche

segnalare che l’apparato lologico, veramente imponente e di grande preci-sione, offre anche una sinossi della conferenza di Kelsen sulla democrazia nel-le due varianti pubblicate nel 1919, prima della più nota “prima edizione” diWesen und Wert der Demokratie del 1920.

Gli scritti sul sistema elettorale ed un altro sulla riforma costituzionale siricollegano al quinto volume delle opere, uscito due anni prima:

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Biblioteca

HANS  KELSEN, Werke, hrsg. von Matthias Jestaedt in Kooperation mit demHans Kelsen-Institut, Band 5: Veröffentliche Schriften 1919-1920, Tübingen,Mohr Siebeck, 2011, pp. 765.

Il volume raccoglie le quattro parti del trattato e dei materiali legislativirelativi alla ideazione e redazione della costituzione della repubblica austria-ca: Die Verfassung der Republik Deutschösterreich (1919-1920).

La pubblicazione delle opere complete di Kelsen non ha però fermato leedizioni critiche di singole opere del giurista viennese. Segnaliamo:

HANS KELSEN, Wer  soll der  Hüter  der  Verfassung sein?, hrsg. von R. Chr. Van Oo-yen, Tübingen, Mohr, 2008, pp. 112.

Insieme con il famoso testo sul custode della costituzione del 1931, repli-ca al saggio di Carl Schmitt, il curatore ha inserito anche il saggio su Wesenund Entwicklung der Staatsgerichtsbarkeit, del 1929, per offrire allo studioso unpanorama essenziale delle posizioni di Kelsen in materia di giustizia costitu-zionale, essendo egli stato appunto tra i principali propugnatori e poi teoricidel controllo di costituzionalità delle leggi da parte di un giudice ad hoc, intro-dotto in Austria con la costituzione del 1920.

Van Ooyen presenta i due saggi con il sottotitolo di  Abhandlungen zurTheorie der Verfassungsgerichtsbarkeit in der pluralistischen, parlamentarischenDemokratie, terminologia che segnala anche il particolare approccio interpreta-

tivo della reine Rechtslehre da parte sua in altri lavori dedicati a Kelsen. Si trat-ta di un’interpretazione molto interessante, simile a quella da me sostenuta nelsaggio del 1984 su L’ordine delle norme, che interpreta politicamente la dottrinapura del diritto, ben oltre, quindi, l’idea che si tratti di una teoria puramente“scientica” del diritto. È importante, invece, coglierne la dimensione epocalenel senso di una teoria specica di una società democratica e pluralistica, dovela costituzione appare come la forma del compromesso politico che si ripetenella legislazione e dove quindi la giustizia costituzionale è essa stessa garan-zia (per l’appunto politica) degli accordi realizzati a livello legislativo.

Appare evidente che questa interpretazione di Kelsen implica anche,comunque, la constatazione di una lontananza della dottrina pura da quelneo-costituzionalismo che fa del giudice il depositario di una “giuridicità”moralisticamente legittimata contro la politica. Il giudice costituzionale, perKelsen, come “legislatore negativo”, svolge una funzione in parte almenopolitica, perché deve essere il soggetto protettore di quei compromessi tramaggioranza e minoranza che sono l’espressione della democrazia pluralista.La costituzione ha il ruolo di garantire non la maggioranza, ma la minoranza,e non certo in astratto, ma proprio per quanto riguarda la dimensione politicadell’accordo realizzato tra le parti e che trova espressione nella legge, la qualesta sotto la costituzione intesa essa stessa come compromesso politico.

È importante questa interpretazione perché, anche se forse inconsape-volmente, essa implica che una costituzione non può essere afdata all’inter-pretazione di princìpi e “valori” da parte di un giudice che opera necessaria-mente in maniera politica; ciò vorrebbe dire che il giudice costituzionale non

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Riferimenti bibliograci

tanto fa politica, ma fa la sua politica, nel senso che darebbe giudizi “moral-mente” fondati su leggi la cui compatibilità non è tanto con la costituzionecome concetto giuridico che racchiude il compromesso politico, ma con uninsieme di regole vaghe, aperte strutturalmente all’interpretazione libera di

soggetti il cui obbligo non è più giuridico, ma morale.La controversia sul guardiano della costituzione resta dunque un riferi-mento imprescindibile per ogni studio sul signicato e i limiti della giustiziacostituzionale, ma altrettanto importante è capire la differenza che oramai sidà anche tra il “padre del sindacato di costituzionalità delle leggi” e le formepiù recenti di giustizia costituzionale quali ipotizzate e propugnate dal neo-costituzionalismo.

Un altro testo che merita di essere segnalato sono gli atti di un convegnodedicato ai rapporti tra Kelsen e i costituzionalisti di lingua tedesca:

MATTHIAS JESTAEDT (Hrsg.), Hans Kelsen und die deutsche Staatsrechtslehre. Sta-tionen eines wechselvollen Verhältnisses, Tübingen, Mohr Siebeck, 2013, pp. 280.

Si tratta delle relazioni presentate ad un convegno tenutosi presso la Sie-mens-Stiftung di Monaco nel 2011, con le relative discussioni. Il sottotitolorichiama appunto il progetto di seguire Kelsen nei suoi rapporti con i costi-tuzionalisti dagli anni di Weimar no alla riscoperta o rinascita della dottrinapura del diritto in Germania negli anni Ottanta del secolo scorso. Il volume èarticolato in quattro parti: I. Gli anni di Weimar . II. La dottrina del diritto statuale

nel primo decennio postbellico. III. Kelsen nel giudizio della generazione postbellica.IV. La riscoperta postuma di Kelsen. V. Kelsen e l’odierna dottrina del diritto statuale.

La dottrina pura del diritto, com’è noto, ha sempre avuto un imprinting “austriaco”. Lo stesso Kelsen ne aveva sottolineato la radice austro-ungarica,per spiegare sopra tutto il rapporto tra unità (giuridico-formale) e moltepli-cità (socio-politica). Ma da parte dei giuristi tedeschi essa è stata anche, permolto tempo, considerata austriaca non tanto per la sua genesi, quanto per ilsuo “provincialismo”. Ciò in particolare negli anni del secondo dopoguerra.Si è trattato indubbiamente di una perdita, perché il misconoscimento di Kel-

sen non ha consentito di fare i conti anche con la storia della scienza costitu-zionalistica tedesca. Posso sbagliarmi, ma l’oblio di Kelsen è l’altra faccia della“tabuizzazione” di Schmitt negli stessi anni. Così come non si poteva e dove-va parlare di Schmitt, così Kelsen diventava un autore poco interessante.

È un dato di fatto – almeno questa è la mia opinione, ma anche la mia tesi –che giuristi come Kelsen e Schmitt (ma anche Smend, Kirchheimer, Heller) con-tinuano a rivestire un ruolo nella misura in cui essi vengono storicizzati e trat-tati come un tutto nel quale ogni parte (ogni singolo) richiama il tutto, gli altriautori, opposti ma complementari. L’obiezione è che in tal modo essi possonoessere considerati non nella loro scienticità, ma nella loro politicità polemica;ciò è vero, ma io considero la giurisprudenza una scienza pratica e quindi laverità sempre una verità storicamente e pragmaticamente situata. GiustamenteHorst Dreier, nel suo contributo sulla (ri-)scoperta di Kelsen negli anni Ottanta,fa riferimento alla crisi del marxismo e non a caso – egli ricorda – uno dei primivolumi della serie dello Hans Kelsen-Institut fu dedicata a Reine Rechtslehre und

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Biblioteca

marxistische Rechtstheorie. Tuttavia, va anche detto che ha probabilmente ragio-ne Schönberger, quando parla di normalizzazione e non di rinascita.

Hanno contribuito al volume: T. Olechowski; S. Korioth; Ch. Müller; F.Günther; E. Wiederin; M. Schulte; H. Schulze-Fielitz; H. Dreier; Ch. Schönber-

ger; U. Lembke; O. Lepsius. Arricchisce il volume la riproduzione di una fotocon tutti i partecipanti al Congresso dei giuristi tedeschi in Münster, nel 1926.Segnaliamo per ultimo la pubblicazione di un inedito kelseniano, a chi

scrive noto per aver veduto le fotocopie delle bozze del testo nella sua primaedizione, che però Kelsen, arrivato al momento della correzione, decise di nonfar più stampare:

HANS KELSEN, Secular Religion. A Polemic against the Misinterpretation of ModernSocial Philosophy, Science and Politics as “New Religions”, ed. by R. Walter, C. Ja-bloner and K. Zeleny, Wien-New-York, Springer, 2012, pp. 292.

Il volume era pronto per la stampa nel 1964 (California University Press),ma già in bozze Kelsen decise di ritirarlo e non venne più stampato. In que-sto scritto Kelsen sostiene la tesi secondo cui alcuni loso vorrebbero ripor-tare la teologia nella scienza e la religione nella politica, una tesi che qualcu-no potrebbe ritenere poco valida allora ma più attuale oggi. Poiché vorremmofarne oggetto di una considerazione più approfondita in un articolo di recen-sione, ci limitiamo a segnalare la decisione dello Hans Kelsen Institut di stam-parlo. Il testo kelseniano è stato però già oggetto di un seminario di studi:

CLEMENS JABLONER / THOMAS OLECHOWSKI / KLAUS ZELENY (Hrsgg.), Secular Reli- gion. Rezeption und Kritik von Hans Kelsens Auseinandersetzung mit Religion undWissenschaft, Wien, Manz, 2013, pp. 206.

Il volume raccoglie gli atti di un convegno dedicato a discutere appun-to del libro inedito di Kelsen già menzionato. Il volume si apre con un saggiodi Horst Dreier, certamente ne conoscitore di Kelsen. Per lui lo scopo delloscritto di Kelsen è quello di difendere l’autonomia e l’oggettività della scienza

da quelle correnti e quegli autori che vorrebbero fare invece della scienza unasorta di teologia mascherata. Il fondamento di questa posizione di Kelsen è laseparazione di essere e dovere, dalla quale tutto discende. Rinunciare a questaseparazione signica far ricadere la civiltà occidentale in un mondo premoder-no, dominato dalla religione. Il libro è dunque un «grido d’allarme» (11) controquesti rischi, rappresentati da scrittori come Schmitt o Voegelin (che è il veroobiettivo polemico di Kelsen). Se, da un certo punto di vista, questa spiegazio-ne è accettabile e rappresenta anche l’essenza della maniera in cui noi abbiamointerpretato Kelsen sin dal 1984, anno di pubblicazione della prima edizionede L’ordine delle norme, da un altro si ha la netta impressione che coloro che sisono occupati di questo Kelsen si siano trovati per così dire spiazzati e anchesconcertati. Ciò spiega il tentativo di ricondurre Secular Religion alla dicotomia,più consueta, tra essere e dovere, ma anche discorsi il cui rapporto con Kelsenè tutto da dimostrare: si veda ad es. il saggio di Sonja Puntscher sul paganesi-mo e il fondamento antiteologico della costituzione europea.

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Riferimenti bibliograci

D’altro canto, Voegelin è autore non di primo piano nella losoa politi-ca e della storia, ma non è detto che avesse torto per principio rispetto a Kel-sen. Denire i movimenti politici totalitari del XX secolo come “religioni seco-lari” non è affatto un errore e che la politica moderna, per vari aspetti, sia fon-

data su concetti teologici “secolarizzati” è un dato di fatto. Che riconosceretutto ciò implichi un ritorno alla religione, come sostengono molti autori e lostesso Kelsen nel libro, è più che dubbio.

Va poi detto che il rapporto tra politica e religione non è stato inventatoper la prima volta da Carl Schmitt, ma forse proprio da Hans Kelsen, sia purecon intenti differenti. Sfugge a quasi tutti gli autori di questo libro (fa ecce-zione Otto Pfersmann) il senso del saggio di Kelsen Gott und Staat, del 1922.Come che sia, la lettura di questo libro fornisce informazioni utili e spuntiinteressanti: così il saggio di I. Englard su un eventuale retroterra culturale

ebraico della reine Rechtslehre (101 ss.),In denitiva, pur ripromettendoci di ritornare sul libro in altra sede, sia-mo personalmente convinti che se Kelsen non volle pubblicare il libro unaragione – anche oltre quelle avanzate e discusse da Ian Stewart – doveva puresserci e questa forse è molto ovvia: pensava di aver scritto un libro sbagliato.Potrebbe aver avuto quindi ragione Robert Walter quando, alla mia propostadi pubblicare certi scritti di Kelsen (pareri per una tesi di dottorato di Umber-to Campagnolo a Ginevra negli anni Trenta) e proprio anche questo libro allo-ra inedito (ma delle cui bozze originali possedevo una fotocopia), rispose che

se Kelsen aveva deciso di non pubblicarli bisognava rispettare la sua volontà.Cosa che poi non è stata fatta, né per i pareri su Campagnolo, che M.G. Losa-no pubblicò anni addietro, né per questo testo.

Ho la sensazione che intorno a Kelsen si cominci a fare troppa confusio-ne e che rischia di avere ragione chi recentemente ha invocato una “liberazio-ne” da Kelsen. A parte il rischio di interpretare Kelsen come una volta si face-va con Marx, c’è anche quello di voler usare Kelsen a tutti i costi per operazio-ni editoriali più o meno discutibili.

Ho fatto cenno sopra al caso Campagnolo, tradotto e pubblicato – temo– al solo ne di giusticare l’utilizzo di una relazione di Kelsen, scritta a niamministrativi. Lo stesso autore di quella operazione, il prof. Mario Losano, sisegnala ora per un’iniziativa per certi aspetti analoga, velata dietro il paraven-to della “scoperta” di un presunto “primo” libro italiano di Kelsen. Si tratta diun’operazione che per poter essere condotta in porto – tra l’altro nascondendoun fatto di cui dirò poi –, ha portato a spacciare Kelsen, in un dialogo storica-mente mai esistito, per “contraddittore” di un personaggio minore dell’epocadel fascismo, Arnaldo Volpicelli, sulla cui rivista erano stati pubblicati alcuniscritti di Kelsen tra la ne degli anni Venti e i primi anni Trenta.

Losano ristampa un libro che in realtà pare fosse una pubblicazione fat-ta a stampa per ragioni concorsuali e/o per ragioni didattiche (adozione) daVolpicelli nel 1930, contenente saggi di Kelsen pubblicati già sulla rivista dalui diretta, Nuovi studi di diritto, economia e politica, con l’aggiunta di due suoi(di Volpicelli) saggi critici degli scritti di Kelsen, presentato addirittura come“coautore” del libro, certamente ad insaputa del giurista viennese.

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Biblioteca

Losano fa precedere ai saggi di Volpicelli e Kelsen una sua introduzio-ne che spazia dal fascismo di sinistra a vicende sudamericane, tra cui quellarelativa a un losofo del diritto argentino, Cossio, che aveva invitato Kelsen aBuenos Aires. Si occupa del concetto di cultura e di “cultura fascista”, di Bob-

bio, di liberalismo, parlamentarismo, corporativismo, il tutto per costruire unfatto per l’appunto storicamente mai esistito, un «dibattito tra Kelsen e Volpi-celli» (56) che non c’è mai stato se non per l’uso improprio e non autorizzato,oltre che unilaterale, che Volpicelli fece dei saggi di Kelsen pubblicati (quellisì con il consenso di Kelsen) sulla sua rivista.

Ma ancora più “improprio” (ad esser benevoli) è l’uso che Losano fa diun libro di Kelsen, questo sì il primo libro di Kelsen in lingua italiana, cura-to da Volpicelli nel 1932 (Lineamenti di una teoria generale dello stato e altri scrit-ti, Roma, Are, 1932) e che raccoglieva i saggi pubblicati sulla rivista negli anniprecedenti, alcuni a completamento solo dopo la pubblicazione delle dispen-se o della provvisoria concorsuale. Losano infatti non ha il coraggio di ristam-pare il testo del 1932 e nge di ripubblicare la provvisoria (o le dispense?)del 1930, avendo però cura di “integrarle” con i pezzi mancanti. In realtà nonfa altro che ripubblicare l’edizione del 1932, spacciandola come edizione del1930 “integrata” con le parti mancanti del saggio sullo Stato, ma avendo lamassima cura di tacere sul fatto che chi scrive aveva già riedito i testi del 1932sia in un’edizione completa, nel 1995, con il titolo Dottrina dello Stato (Napo-li, ESI, 1995), sia in forma individuale: Essenza e valore della democrazia, primaedizione del 1920 (Torino, Giappichelli, 2004), Lineamenti di teoria generale dello

Stato (Torino, Giappichelli, 2004).Losano, che pure usa pagine e pagine per ricostruire la storia bibliogra-

ca del saggio sulla democrazia, tace con cura maniacale l’esistenza di que-sti testi. Aveva forse paura che l’editore non gli pubblicasse questo presuntoscoop, considerando che certo Volpicelli non val la pena di essere letto se noncome testimonianza di un certo fascismo? E considerando che i testi di Kelsenerano già stati pubblicati, emendati di vari refusi?

Un’ultima cosa. Chi scrive ha sempre chiesto allo Hans Kelsen Institut diVienna, oggi diretto dal prof. Clemens Jabloner, l’autorizzazione a pubblicare

in traduzione o in originale testi di Kelsen, astenendosi dal farlo quando l’au-torizzazione è mancata (come nel caso di Campagnolo e di Secular Religion).Sulla base di quale “privilegio” il prof. Losano usa Kelsen a suo personale usoe consumo, senza una previa autorizzazione (che se chiesta e concessa, comepure mi auguro, non risulta dal copyright)?

Come che sia, di questo passo Kelsen è destinato ad una ne poco glorio-sa proprio a causa dei suoi presunti estimatori. Il libro, per chi fosse curioso, è:

HANS KELSEN  - ARNALDO VOLPICELLI, Parlamentarismo democrazia e corporativi-smo, Prefazione e cura di Mario G. Losano, Torino, Aragno, 2012, pp. 296.

A dimostrazione della originaria problematicità della dottrina pura deldiritto, è opportuno segnalare anche la raccolta di scritti di uno dei primissi-mi allievi e studiosi di Kelsen, Leonidas Pitamič, losofo del diritto sloveno,che dopo aver frequentato l’università di Vienna ritornò a vivere a Lubiana. È

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Riferimenti bibliograci

merito del professor Marijan Pavčnik aver curato e ben introdotto questa rac-colta bilingue di scritti dal 1917 al 1971:

Leonidas Pitamič, An den Grenzen der Reinen Rechtslehre, Ljubljana, Slovenska

akademja znanosti in umetnosti, 2009, pp. 350.

Pitamič, pur accogliendo buona parte dell’impostazione kelseniana, apartire dal normativismo, si rese immediatamente conto che la spiegazionedel diritto in quanto insieme di norme, gerarchicamente disposte, non pote-va in denitiva soddisfare la curiosità intellettuale di chi vuole arrivare aduna spiegazione esaustiva del fenomeno giuridico: il Sollen è certamente par-te costitutiva del diritto, ma esso non implica che il diritto sia tutto e soltan-to Sollen, in quanto i presupposti giuridici ricadono nella sfera dell’essere puressendo ancora giuridici. Questa posizione Pitamič, correttamente, la sosten-ne sin dal suo primo, più noto saggio, quello sul rapporto tra reine Rechtsleh-re e dottrina “denkökonomische” del pensiero. Questa tesi si sviluppa anche neisaggi successivi, dove sempre più, tra l’altro, Pitamič si pone il problema delrapporto di tensione tra diritto positivo e diritto naturale, il cui riconoscimen-to non per questo signica in alcun modo una caduta nel giusnaturalismotout-court. Il rapporto tra oggetto e metodo non è riducibile al metodo produt-tivo del “suo” oggetto, in quanto anche l’oggetto determina inevitabilmente,in certa misura, il metodo col quale si studia l’oggetto. Come scrive Pavčnikal termine della sua introduzione, «le ricerche di Pitamič hanno mostrato che

anche la più pura dottrina del diritto non può occuparsi del diritto unicamen-te come costruzione normativa» (173). Essere e dovere vanno distinti logica-mente, ma separarli signica rischiare di perdere del tutto l’oggetto della pro-pria scienza, in questo caso, per la scienza del diritto, il diritto.

Agostino Carrino

Schmittiana

Prosegue la meritoria impresa della Duncker & Humblot di Berlino di pub-blicare opere di Carl Schmitt in nuove edizioni, spesso a cura di Günter Masch-ke, in attesa di un lavoro analogo a quello fatto dalla Mohr per le opere completedi Kelsen o dalla stessa Duncker per Adolf J. Merkl. Intanto segnaliamo:

CARL SCHMITT, Staatsgefüge und Zusammenbruch des zweiten Reiches. Der Sieg desBürgers über den Soldaten, hrsg., mit einem Vorwort und mit Anmerkungen ver-sehen von Günter Maschke, Berlin, Duncker & Humblot, 2011, pp. XLVI-117.

Si tratta di un testo di cui lo studioso italiano dispone in una traduzionerisalente agli anni Trenta, per la verità piuttosto superata, di Delio Cantimori.Il saggio è del 1934 e stranamente esso viene trascurato anche da coloro (comeper esempio, in Francia, Zarka) che condannano a priori Schmitt e il suo pen-siero come nazisti. Eppure, più profondamente di altri scritti di Schmitt, que-

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sto saggio rappresenta il culmine della compromissione di Schmitt con il regi-me di Hitler, perché è in fondo il tentativo di tradurre in termini storico-giu-ridici un’affermazione del Führer sulla “rivoluzione” nazista come supera-mento nale del «compromesso legale-borghese» rappresentato dal II Reich,

anche se la vittoria del borghese sul soldato, dichiarata da Hitler e Schmitt peril II Reich, potrebbe apparire del tutto infondata storicamente, considerandoquanto il II Reich tedesco deve al militarismo prussiano. In verità, la contrad-dizione tra soldato (esercito prussiano e suoi valori) e borghese (parlamenta-rismo liberale, separazione Stato/società) vuol essere qui un tentativo di spie-gare la scontta del II Reich nella prima guerra mondiale, una versione certomolto più rafnata della leggenda del “colpo di pugnale alla schiena”, ma tut-tavia pur sempre entro lo stesso lone: «Un quadro storico nazional-liberaleancora ampiamente predominante e una dottrina dello Stato ad esso connes-sa, nata dallo stesso spirito ci hanno nora impedito di penetrare no alla cau-sa più profonda e più vera del crollo del 1918» (6). Questa causa è il compro-messo tra esercito e rappresentanza liberale, ovvero costituzione borghese. Ladottrina costituzionale del II Reich concorse a fare del militare un funzionariocivile tra gli altri, inserendolo così «nel sistema delle relazioni giuridiche del-lo Stato costituzionale borghese» (11).

È signicativo che Schmitt inquadri anche l’operaio tra le vittime delcompromesso esercito/costituzione, probabilmente attento al fatto che ilnazionalsocialismo era anche, appunto, “socialismo”, o anche perché reducedalla lettura di Der Arbeiter . Gestalt und Form, di Ernst Jünger. I privilegi dell’e-

sercito (giuramento al re e non alla costituzione, mancata controrma ministe-riale ecc.) non potevano essere un reale contrappeso all’ideologia pericolosadel Rechtsstaat liberale, a proposito della cui denizione – incerta e vaga – Sch-mitt cita un famoso passo di Bismarck. Ideologia pericolosa perché disgregan-te la volontà popolare, cui si contrappone la volontà della “rappresentanza”.Una rappresentanza del resto plurale in molti sensi: non solo i partiti rappre-sentanti del pluralismo sociale costituivano un contraltare allo Stato prussia-no, ma gli stessi Länder  continuavano ad avere potere di imposizione tributa-ria diretta, mentre il Reich ne aveva una solo indiretta. Una struttura giuridica

intimamente scissa avrebbe dunque portato prima alla scontta militare del1918 e poi alla Costituzione di Weimar, che Schmitt denisce come «la parteborghese della discorde compagine statale dell’impero crollato» (40).

Questo breve libro, come abbiamo detto, è poco considerato dalla let-teratura schmittiana e questo è un errore. Crediamo anzi che proprio questepagine aiutano a comprendere la sostanza, al tempo stesso semplice e com-plessa, del pensiero di Schmitt. D’altro canto, se esse si inseriscono in un ten-tativo di Schmitt di farsi interprete del nazionalsocialismo, dall’altro aiuta-no anche a spiegare e comprendere le differenze, spesso insuperabili, tra ilsuo decisionismo concreto e l’arbitrio totale del nazismo. E possono anche, anostro modo di vedere, contribuire ad un dibattito in corso sulla separazionedei poteri e il ruolo del giudice. Scrive Schmitt in una pagina di grande acu-me: «Ma se deve valere soltanto il normativismo di una costituzione, e non c’èné una legittimità dinastica, né una democratica, né un’altra qualsiasi, ma sol-tanto una legalità neutra dinanzi a ogni valore, tutte le decisioni politiche di

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Riferimenti bibliograci

governo vengono sottomesse al preteso giudizio puramente giuridico di unaistanza che da parte sua non è responsabile e sottomessa a nessun altri chead una legge molto poco chiara e interpretata da lei stessa. Allora dice l’ulti-ma parola nello Stato un tribunale composto di giudici indipendenti, cioè non

responsabili, inamovibili, pubblici funzionari. Ogni possibilità di governo otanto meno di direzione è allora soppressa e l’ideale liberaldemocratico delloStato di diritto senza capo è realizzato» (45).

La ripubblicazione di questo testo è accompagnata da una ricca introdu-zione del suo curatore, G. Maschke, che ha aggiunto anche, oltre ad un com-mentario esplicativo, in appendice un altro piccolo scritto di Schmitt del 1934,Die Logik der geistigen Unterwerfung.

Il pensiero di Schmitt è complesso, ambiguo, spesso oscuro, comunqueaperto a nuove interpretazioni e nuovi studi. Segnaliamo tra questi:

RÜDIGER VOIGT  (Hg.), Großraum-Denken. Carl Schmitts Kategorie der Großrau-mordnung, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2008, pp. 265.

«Reiche (…) sono le potenze guida la cui idea politica traluce in un deter-minato grande spazio e che per questo grande spazio escludono in linea diprincipio l’intervento di potenze spazialmente estranee»: questa frase di Sch-mitt può ben sintetizzare la sua teoria dei “grandi spazi”, sulla quale si soffer-mano i saggi raccolti nel volume qui segnalato.

Nonostante il fatto che il Großraum schmittiano non si identichi con l’i-dea di Lebensraum hitleriana, resta però indiscusso, a nostro avviso, e nono-stante gli sforzi fatti specialmente dai cultori di Schmitt, che le due nozio-ni sono piuttosto simili, in quanto il “grande spazio” non è identicabile conuna forma di Stato e nemmeno con l’idea di impero. Il grande spazio travali-ca il nòcciolo centrale dell’organizzazione politico-giuridica, ovvero della sta-tualità, per diventare una sorta di “riserva di caccia” della potenza dominan-te entro quello spazio. Da questo punto di vista esso potrebbe anche signica-re una rinascita del politico dopo il tramonto della decostruzione postmoder-na, ma in un senso che risentirebbe di categorie classiche non ancora adeguatealle nuove forme di confronto. La rivoluzione spaziale del XVI secolo, di cuiparla Schmitt, pur non essendo superata, sperimenta nuove modalità dovela territorialità non è più direttamente legata alla nazione, ma richiama, adesempio, la nozione di interesse comune (in primis economico), che può benessere indifferente alla nazionalità dei soggetti agenti.

Le analogie tra Großraum e Lebensraum non devono però nemmeno fartrascurare le differenze: per i teorici nazisti lo spazio vitale è ciò che è a dispo-sizione della “razza superiore”, mentre Schmitt immagina una struttura giuri-dica dello spazio, di cui tuttavia non si intuisce la forma. Giustamente Andre-as Anter, nel suo contributo, sottolinea come Schmitt resti comunque tra i pro-tagonisti del regime (60). Ma come ciò è vero, così è altrettanto vero che il con-cetto di Großraum può essere modicato e adattato a nuove condizioni. È ciòche lo stesso Schmitt fa negli anni Sessanta, rinviando alle precondizioni eco-nomiche e tecniche dei grandi spazi come dimensioni plurali.

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I saggi raccolti affrontano più volte, direttamente o indirettamente, il temadei rapporti tra la Großraumtheorie  di Schmitt e la questione europea; appa-re evidente, pur senza considerare lo scetticismo di Schmitt sulla comunitàeconomica europea, che la differenza più netta sta nella prospettiva: l’Europa

resta un progetto economico, mentre il grande spazio è il luogo della politica.Alla denizione del concetto di “politico” come fondato sulla distinzio-ne amico/nemico è dedicato l’altro volume che segnaliamo:

RÜDIGER  VOIGT  (Hg.), Freund-Feind-Denker. Carl Schmitts Kategorie des Politi-schen, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2011, pp. 231.

Il tema dei saggi qui raccolti può essere sintetizzato nel concetto di con-itto come dimensione esistenziale. Ciò non deve essere inteso come un giu-

dizio positivo dell’antagonismo in quanto tale, piuttosto come presa d’attoche il conitto è un dato imprescindibile dell’esistere e che pensare di poterlosuperare è solo un’ideologia, per di più cattiva, che può portare a conitti sen-za ne. Riconoscere il conitto signica per prima cosa volerlo e saperlo rego-lare, riutando le nzioni della “pace perpetua”.

Ciò non signica che il criterio di Schmitt possa essere accolto senza cor-rezioni. È in fondo ciò che emerge dalle diverse sensibilità degli autori, chespaziano dal confronto tra Schmitt e Spengler (P. Nitschke, 131 ss.) al temadella “omogeneità” come possibilità di uno Stato democratico (cfr. U. Thiele,

Der Feind ist unsere Frage als Gestalt, 151 ss.). Il confronto con Rousseau attra-versa alcuni saggi più losocamente orientati, mentre non mancano le consi-derazioni sulla situazione internazionale dopo l’11 settembre e la delineazio-ne di nuove forme di “nemico assoluto”.

Questo volume fa parte di una collana della Steiner Verlag intitolataStaatsdiskurse. Poiché l’impianto è in qualche modo legato – direttamente oindirettamente – al pensiero di Schmitt, segnaliamo anche:

RÜDIGER  VOIGT,  Alternativlose Politik? Zukunft des Staates – Zukunft der De-mokratie?, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, pp. 247.

I saggi qui raccolti si propongono di rispondere ad un dilemma dellapolitica contemporanea: se in un mondo globalizzato, nel quale le scelte poli-tiche vengono sempre più considerate “obbligate”, senza alternative, sia sulpiano internazionale sia su quello interno, non signichi ciò la ne della poli-tica in quanto tale, la quale implica nel suo stesso concetto la scelta, ovvero ladecisione tra possibilità diverse ed anche opposte. Schmitt aveva sottolineato ilcarattere polemico dello stesso concetto di politica e Chantal Mouffe, da “sini-stra”, ha sottolineato come la perdita dell’antagonismo possa signicare laperdita della democrazia tout-court. Certo, lo Stato nazionale è in pericolo per-ché sono sotto attacco il concetto di nazione e quello di sovranità popolare. Larisposta che Voigt dà in questi saggi alla domanda relativa al futuro dello Sta-to non è sempre univoca, nel senso che i rischi di un crollo nale della demo-crazia gli sono ben presenti, anche perché le proposte sono spesso pregiudi-

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Riferimenti bibliograci

zialmente riutate, così come una maggiore partecipazione diretta del popoloelettore alle scelte politiche attraverso referendum decisori.

Ha vinto la pura legalità formale sulla concreta legittimità sostanzia-le? I concetti di Stato, nazione, popolo, sovranità devono veramente cedere il

passo ad un ipotetico “Superstato” europeo che sarebbe forse più centralistadegli stessi Stati nazionali? Sicurezza e libertà possono ancora essere disgiun-te? Alle problematiche qui rappresentate Voigt risponde offrendo spessospunti di riessione, ma anche analisi speciche su autori (almeno apparen-temente) molto diversi tra loro, come Engels e Machiavelli, di cui si sottolineal’attualità in una prospettiva realista tesa a difendere la libertà, le cui garanziedipendono, prima che dal diritto e dalla morale, dalla sicurezza e dalla forza.

Agostino Carrino

La scienza politica liberale e pragmatica di Wilhelm Hennis

Wilhelm Hennis (1923-2012) non ha fatto in tempo a vedere stampato ilvolume di scritti dedicato al suo pensiero:

ANDREAS  ANTER  (Hrsg.), Wilhelm Hennis’ Politische Wissenschaft, Tübingen,Mohr Siebeck, 2012, pp. 369.

Il volume era stato pensato come una raccolta di scritti in onore, per poitramutarsi di fatto in un Festschrift in memoria. Per questo il pensiero di Hen-nis viene discusso in maniera per così dire “trasversale”, su temi e argomentimolto diversi ma che tutti presuppongono il suo modo di concepire la politicacome scienza pratica e quindi sottratta all’idea di una mera descrivibilità ava-lutativa. Ciò appare con chiarezza in molti suoi libri pubblicati proprio conMohr, che mostrano uno studioso poliedrico, pur con punti fermi.

Al pubblico italiano Hennis è noto specialmente come studioso di MaxWeber (alcuni suoi saggi sono stati infatti pubblicati da Laterza), ma l’attività

scientica di Hennis è stata molto più ampia e variegata e certamente una rico-struzione della cultura giuridica e politologica tedesca della seconda metà delNovecento non potrà fare a meno dei suoi contributi, nei quali egli ha sapu-to affrontare problemi concreti a partire da una prospettiva scientica e que-stioni della scienza politica (e giuridica) a partire da problematiche empiricherilevanti, un metodo che non è sempre facile padroneggiare con perizia, comeinvece riesce a Hennis. Bene, infatti, si fece anni addietro a raccogliere i suoipiù importanti scritti di scienza politica in due volumi, nel primo dei quali:

 W ILHELM HENNIS, Regieren im modernen Staat. Politikwissenschaftliche Abhandlun- gen I , Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1999, pp. 428.

si possono leggere scritti importanti in materia di scienza della politica,da quello del 1949 dedicato al sistema di governo parlamentare a quelli sullademocrazia rappresentativa e le tecniche di governo. Specico interesse rive-

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stono ai nostri occhi gli scritti di orientamento più giuridico e costituzionali-stico, in particolare il saggio su Costituzione e realtà costituzionale (che ci propo-niamo di offrire quanto prima al lettore di questa Rivista in traduzione italia-na), del 1968, che analizza una contrapposizione centrale della scienza costi-

tuzionalistica moderna (a noi più nota sotto l’opposizione di “costituzioneformale” e “costituzione materiale”), nella convinzione che la scienza politica(come professione, come titola weberianamente l’ultimo saggio del volume)può e deve offrire al diritto un punto di riferimento e materiali di riessioneimprescindibili per una scienza giuridica non formalistica (si vedano anche leconsiderazioni sulla dottrina della costituzione di Smend). Il secondo volume,

 W ILHELM HENNIS, Politikwissenschaft und politisches Denken, Politikwissenschaftli-che Abhandlungen II , Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 2000, pp. 386.

conteneva saggi che partono dal 1959 (Politica e flosofa pratica) e neiquali appare evidente ciò che nel primo volume lo è forse meno, vale a direche la scienza politica deve avere quale suo orizzonte problematico la pras-si, la concreta esperienza che si fa del governo empiricamente dato in quan-to governo “buono”, “cattivo”, “migliorabile”; Hennis parte dal dato insu-perabile della divisione tra governati e governanti. È evidente che qui egli siavvale al meglio della lezione di Max Weber, che anzi riesce assai bene a ren-dere feconda in molti dei suoi scritti, ed anche della lezione di Edmund Bur-ke, che avvertiva di non tralasciare mai il contesto, le “circostanze”, per non

cadere nell’astrazione di un cattivo illuminismo. Il volume raccoglie, oltre alsaggio sulla losoa pratica (suo lavoro di abilitazione, del 1960), scritti vari,tra i quali meritano di essere citati almeno quello sulla  fne della politica, unadiscussione critica della tesi di Schelsky, il denso studio sul concetto di legit-timità, il leggero ma acuto e signicativo scritto del 1994 su Goya (che forsebisognerebbe leggere per primo, per afferrare subito il senso della produzio-ne scientica di Hennis): «sono i sogni della ragione progettante», scrive l’Au-tore, che producono mostri, come a dire che occorre stare in guardia sin dall’i-nizio, perché siamo circondati da mostri, perché il dissenso tra la ragione pra-

tica e la ragione tecnica, che vorrebbe “costruire” Stato, diritto e morale comesi costruisce un cannone, ci avvolge e ci riguarda tutti.

Non si può a questo punto, prima di dar conto del Festschrift, non segna-lare però anche altri due suoi libri, il primo, la sua tesi di dottorato:

 W ILHELM HENNIS, Das Problem der Souveränität. Ein Beitrag zur neueren Literatur- geschichte und gegenwärtigen Problematik der politischen Wissenschaften, Tübin-gen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 2003, pp. 127.

nella quale l’A. studia il problema della sovranità a partire dalla lettera-tura in materia della seconda metà del XIX secolo – il dibattito weimariano,«senza mediazioni», è ovviamente sempre presente nella ricostruzione –, conuno sguardo alla giusticazione della sovranità dello Stato nei còmpiti cheesso deve assolvere (uno sguardo per così dire sociologico) e un altro ai limitiche la sovranità statale trova nel valore del singolo. Le conclusioni del lavoro,

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Riferimenti bibliograci

critiche sulla possibilità di estendere la sovranità ad entità sovranazionali nel-la misura in cui non vi sia un rapporto di responsabilità verso i singoli, acqui-sta attualità oggi con riferimento alle problematiche dell’Unione Europea. Ilsecondo volume riguarda invece un autore caro a Hennis:

 W ILHELM HENNIS, Max Weber und Thukydides, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Sie-beck), 2003, pp. 202.

una raccolta di saggi e di conferenze dedicate all’opera di Max Weber ealla sua attualità, che integrano i più ampi e noti lavori di Hennis dedicati allaproblematica antropologico-politica del grande sociologo tedesco.

Come si vede, la produzione letteraria di Hennis è pluriforme e articola-ta. I saggi raccolti da Andreas Anter nel volume già citato sulla scienza politi-ca di Hennis in qualche modo la riproducono. Si va infatti dal saggio di PeterGraff Kielmansegg, che chiarisce il senso della scienza politica hennisianacome scienza normativa simile alla medicina: come questa mira alla salute delcorpo, così quella vuole la tutela del “bene comune” e si sforza di capire e diprescrivere i rimedi necessari. La verità della scienza politica è dunque altrodalla verità delle scienze naturali. E buon governo, anche quando si discu-te di democrazia, e sopra tutto di democrazia, vuol dire governo responsabi-le, come dimostra anche, nel suo saggio sul concetto di democrazia in Hennis,Tine Stein (25 ss.), richiamandosi per esempio alla preferenza di Hennis per ilsistema elettorale maggioritario proprio in nome del principio della responsa-

bilità.Responsabilità signica ricerca della verità nel senso proprio della politi-

ca come scienza pratica, sicché non a caso Hennis, attento lettore di Smend (colquale si addottora), Schmitt, Heller, critica quelle posizioni che da Bacone in poiignorano i limiti dell’agire umano e, rifacendosi ad Aristotele, si richiama allatopica di Viehweg (cfr. R. Mehring, Ideologie und Topik, 47 ss.). Di qui anche l’a-nalisi critica dello Stato dei partiti (cfr. K. Von Beyme, Hennis und die Kritik amParteistaat, 139 ss.), ma anche una concezione della costituzione come ordina-mento fondamentale che deve essere strumentale al buon funzionamento del-

la politica e non intesa come deposito sacrale di valori sovrastorici e immutabi-li (cfr. A. Anter, Hennis’ Verfassungsdiagnostik , 73 ss.). La costituzione non è untesto sacro, ma uno strumento di governo e della politica.

Agostino Carrino

ANTER , ANDREAS, Die Macht der Ordnung. Aspekte einer Grundkategorie desPolitischen, II. Au., Tübingen, Mohr Siebeck, 2007, pp. 321.

Merita di essere recensito, anche se a distanza di anni dalla sua uscita,questo libro di Andrea Anter, allievo di Wilhelm Hennis, sul concetto di ordi-ne. Leggendolo, la prima obiezione che potrebbe sorgere nel lettore è che l’or-dine presuppone sempre il disordine e che, se questo libro studia il concettodi ordine in vari àmbiti dell’esperienza umana, sembra dimenticare il disordi-ne. In realtà, così non è: anzi, il libro presuppone esattamente l’idea di “disor-dine”, anche se come concetto negativo, mentre il disordine, proprio nell’e-

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sperienza concreta, si dà sempre come premessa dell’ordine, come l’altra fac-cia dell’ordine, come ciò che sempre, in ogni momento, rischia di romperel’ordine. Non è necessario pensare al disordine come “caos” creativo e pro-duttivo, come forza tellurica produttiva; è sufciente sapere che l’uno e l’al-

tro, ordine e disordine, sempre si tengono nell’esperienza e nell’agire dell’uo-mo. È vero ciò che Anter dice all’inizio del suo libro, che l’ordine è il telos delpolitico, ma è altrettanto vero che spesso la politica e anche “il politico” mira-no al dis-ordine, sia pure come prerequisito dell’ordine. Una rivoluzione vuo-le un nuovo ordine attraverso il dis-ordinamento del vecchio ordine.

Detto questo, il libro è assai pregevole e fa molto riettere. La doman -da cardine è ovviamente quella relativa a dove si colloca l’ordine, nellecose o nell’io? Nella realtà o nella coscienza? Almeno da Kant in poi l’ordi-ne è ciò che noi ci rappresentiamo come ordine nel pensiero; come scrivevaFritz Mauthner, citato da Anter (12), «Wir wissen nur von der subjektiven

Ordnung in unserem Kopfe (…) Der Mensch hat die Ordnung in die Naturhineingetragen». Altrettanto centrale, se non più, ovviamente, è il discorsodell’ordine in chi pensa che vi sia invece un ordine delle cose. L’idea di ordi-ne gioca così un ruolo centrale in tutte le discipline scientiche della moder-nità e in primis per la scienza della politica, ma signicativo è che il concet-to di ordine non può non trovare declinazioni ermeneutiche diverse, comedimostra Anter. «Ordine è una soluzione dai molti usi, che possono reclama-re non soltanto il conservatorismo, ma anche il socialismo e l’anarchismo»(260). Il problema dell’ordine, d’altro canto, consiste sempre in un equili-

brio tra ordine e disordine, essendo impossibile sia un ordine assoluto sia undisordine assoluto. Proprio questa necessità per così dire relativa dell’ordinefa anche comprendere che la crisi dello Stato e del diritto, pur indubbia, nonsignica affatto che dell’uno e dell’altro si possa fare a meno. A meno chenon si voglia cadere in quel “pensiero concreto dell’ordinamento” à la CarlSchmitt (il giurista convertito all’hitlerismo), cui Anter dedica diverse buo-ne pagine, per il quale l’ordine sta da una parte (nella volontà del Führer) eil disordine nella mera capacità di regolazione giuridica da parte dello Sta-to (cfr. 190 ss.).

Signicativo il riferimento a Lederer e al suo giudizio sul Terzo Reichcome «Unstaat» (203), nel senso che se l’ordine e lo Stato si tengono, Anter sabene cogliere i limiti di una identicazione, che infatti non si dà nella storiamoderna, anche perché egli interpreta l’idea di ordine – almeno per quantoriguarda la cultura tedesca – come una nostalgia: «di unità, di integrazione edi comunità» (219). In effetti, dietro la classe, dietro la razza, dietro anche lanazione, si è sempre celata questa nostalgia di una “comunità perduta”. Nel -la “postmodernità” si è creduto di poter superare questa nostalgia o questobisogno privatizzando le funzioni di ordine e di sicurezza, ma, come giusta-mente osserva Anter, ciò lascia fuori tutto il resto, che è quasi tutto, la societàe il pubblico. Non a caso, dopo la retorica della ”morte dello Stato”, si ritor-na a guardare allo Stato, sia pure in forme rinnovate e ciò perché, come giu-stamente scrive Anter, l’euforia della destatalizzazione nasconde il fatto che«ogni ordine non-statuale sfocia alla ne nel diritto del più forte» (251).

Agostino Carrino

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Riferimenti bibliograci

BALDUS , CHRISTIAN / KRONKE , HERBERT / MAGER , UTE (Hrsgg.), Heidelberger The-sen zu Recht und Gerechtigkeit, Tübingen, Mohr Siebeck, 2013, pp. 495.

Nel 2011 la prestigiosa Università di Heidelberg ha festeggiato i 625 anni

dalla sua fondazione. Il diritto, com’è noto, ha sempre rappresentato una par-te signicativa e importante dello Studium Generale di quella Università. LaFacoltà di Giurisprudenza, in occasione di un colloquio sul tema, ha volu-to festeggiare l’anniversario raccogliendo in volume gli atti di quel conve-gno, dove si sono ricordati — secondo una simpatica tradizione dell’accade-mia tedesca — gli studiosi che in quell’Ateneo svolsero tutta o parte della loroprincipale attività di studio e di insegnamento nei vari rami del diritto.

Si parte cosí da un saggio di Ch. Hattenhauer sulla persona, ovverol’essere umano in quanto tale come fondamento del diritto privato in HugoDonellus (1527-1591), a S. Pufendorf e ad altri giuspubblicisti che in Hei-delberg insegnarono per periodi più o meno lunghi (Thibaut, Bluntschli,Goldschmidt, Windscheid) a molti altri ancora oggi punto di riferimento nel-lo studio scientico del diritto.

Naturalmente, non mancano saggi specicamente dedicati a quei giuri-sti che tra Otto e Novecento diedero lustro ulteriore alla Facoltà giuridica diHeidelberg, a partire da Georg Jellinek (al quale dedica un saggio importan-te Winfried Brugger, che si occupa specicamente della dottrina dello ‘status’in Jellinek, a Hugo Preuß, Walter Jellinek, Max Weber, G. Anschütz, GustavRadbruch, del cui pensiero losoco due saggi discutono alcuni punti contro-

versi, in particolare se la famosa “formula di Radbruch” del 1946 costituiscao meno un rovesciamento nella losoa del diritto di Radbruch da positivi-sta a nonpositivista. Di ciò tratta G. Dannecker, mentre T. Hillenkamp discu-te della ricerca di alternative al diritto penale a partire dal pensiero giuspena-lista di Radbruch.

Angelo Di Giovanni

BIN , ROBERTO, A discrezione del giudice. Ordine e disordine, una prospettiva quanti-stica, Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 111.

Il libro di Roberto Bin qui recensito – al di là delle aspettative che potreb-bero suscitare il titolo e il focus iniziale apposto dall’A. medesimo alla sua ries-sione – è fondamentalmente un saggio teorico sulla separazione del potere.

Né tale affermazione deve stupire più di tanto, poiché è lo stesso Bin,nella parte nale dello scritto, a rendere palese tale “trama verticale” (segna-tamente nel § 11, rubricato «Qualche conclusione», 101 ss.).

Più esattamente, Roberto Bin prende le mosse da una constatazione dif-cilmente revocabile in dubbio, e cioè la presenza – negli ordinamenti libe-raldemocratici “occidentali” – di una forte discrezionalità giudiziale in sededi applicazione del diritto (7), e da qui sviluppa un racconto sempre nitido, atratti persino avvincente.

Forse, al di là della capacità di razionalizzare fenomeni solo apparente-mente circoscritti ed in-comunicanti all’interno di un quadro d’insieme coe-rente, ciò che colpirà maggiormente il lettore sarà il vericare la sostanziale

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consonanza tra quanto Bin va sostenendo a livello teorico-generale ed il pianogiuridico-positivo (in ispecie, quello italiano).

Lo scritto, infatti, dopo aver posto l’accento sulla suddetta discreziona-lità giudiziale – apparentemente senza controllo, e comunque accresciutasi in

corrispondenza dell’irrigidimento delle costituzioni del secondo dopoguer-ra, considerate quali testi normativi – individua l’antagonista del giudice nellegislatore (ibidem), ed in particolare nel legislatore democratico.

Intavolate sinteticamente le ormai “classiche” questioni sulla legittima-zione democratica dei tribunali costituzionali, nonché le obiezioni che abitual-mente vengono allegate contro tale rilievo, l’A. (sempre in chiave introdutti-va) enuncia le sue due principali linee di indagine: a) la critica dell’idea chesoggetto osservante ed oggetto osservato siano, nel procedimento conosciti-vo, entità separate; b) la valorizzazione di quella che egli chiama la «dimen-

sione istituzionale dell’interpretazione giuridica» (12).Nello sviluppo di tali tesi, Bin si avvale delle acquisizioni epistemologi-che provenienti da quei sici teoretici che hanno fondato un nuovo paradig-ma di studio del mondo naturale: la meccanica quantistica.

La giusticazione di tale accostamento, all’apparenza eccentrico, vieneeffettuata nei §§ 2 e 4 (rubricati rispettivamente «Perché la sica?» e «Inde-terminazione giuridica – e allora?», rispettivamente, 15 ss. e 27 ss.), e mira adimostrare come i “mondi” delle scienze c.d. dure e delle scienze sociali sia-no in realtà meno lontani di quel che potrebbe credersi: in questa chiave, lo

studioso si inserisce in una corrente di pensiero piuttosto recente, che tenta diattualizzare la risalente tensione degli scienziati sociali, in generale, e dei giu-risti, in particolare (ad iniziare da Hans Kelsen), verso lo statuto epistemicodelle scienze “esatte”; tuttavia, attraverso il richiamo alla prospettiva quanti-stica (spec. § 2), Bin non dispiega tale tentativo in funzione di una (irrealisti-ca?) affermazione di oggettività delle scienze sociali, quanto piuttosto versouna de-mitizzazione delle certezze proprie delle scienze naturali (§ 4).

Il momento di verica privilegiato per la “tenuta” di tale modello discienza giuridica si colloca in occasione delle decisioni dei giudici sui c.d. hardcases, i quali – a rimanere nella metafora dell’A. – esigono, per essere risolti,di essere esaminati con una «risoluzione ottica» diversa da quella sufcienteper affrontare la stragrande maggioranza delle questioni sottoposte ai giudi-ci ordinari (§ 3, 21 ss.).

Obbiettivo polemico di tali osservazioni, assieme a Kelsen ed alla suacostruzione “gradualistica” dell’ordinamento, è quindi anche Dworkin, o,meglio, il suo giudice “erculeo” (§ 4).

Per argomentare contro la «ontologia materialistica» dei due chiariAutori, Roberto Bin si concentra sull’esame di quell’attività, tanto importan-te quanto misconosciuta, che ogni giudice compie ben prima di iniziare ad“interpretare” il diritto, ossia il (cercarlo e) «trovarlo» (§ 5, 35 ss.); Bin eviden-zia, soprattutto, come la libertà del giudice in tale fase sia ben poco control-labile (§§ 5 e 6, 53-60), per lo meno sino a quando si rimanga in una prospet-tiva «individuale» (i.e.: sino a che si guardi il singolo atto, la singola senten-za: § 7, 61 ss.).

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Riferimenti bibliograci

La questione si presta invece ad essere affrontata in maniera più procuaaccogliendo – coerentemente coi postulati epistemologici “quantistici” – unaprospettiva più ampia, «istituzionale», che guardi cioè «all’insieme dei casi incui una norma è interpretata ed applicata» (il virgolettato è preso dal § 7, ma

l’argomentazione viene declinata nel successivo § 8, 69 ss.).Ed è proprio in questa dimensione che – ad avviso dell’A. – emerge undato fondamentale e dirimente, e cioè che «il legislatore tratta i diritti come unproblema di politica generale, mentre i giudici li trattano affrontando un casospecico alla volta» (ibidem): inizia ad aforare proprio in questo punto quella“trama verticale” di cui si diceva in apertura, poiché a «scambiare o confon-dere le due prospettive, ne resterebbe leso lo stesso principio di separazionedei poteri» (ibidem).

Del resto, il medesimo rilievo può essere associato anche alle (diverse)sentenze dei tribunali costituzionali, a seconda della “sede” in cui questi sonochiamati ad esprimersi e dell’interlocutore cui si rivolgono; ciò che spiega –per l’appunto – la diversità di stile e di approccio delle varie Corti, spessoall’interno di lassi temporali molto brevi, in casi aventi il medesimo oggetto; eche può altresì fare chiarezza sul quando possano realmente insorgere questio-ni sulla legittimazione democratica degli organi giudicanti: ossia quando l’or-gano giudicante tratti i diritti come problemi di politica generale e non comeuna questione singolare (§ 9, 81 ss.).

Un caso concreto tratto dalla cronaca italiana (pudicamente dissimulatodietro un’iniziale “E.”) viene inne evocato per saggiare la tenuta del modello

(§ 10, 93-100) e riaffermare la necessità (anche) teorica di tenere distinto il pia-no politico da quello giurisdizionale (§ 11, 101 ss.).

Cosa che, del resto, i nostri Padri costituenti dovevano aver avuta benchiara sin dall’inizio, se è vero che hanno esplicitamente riservato la funzionelegislativa alle Camere (art. 70 Cost.) e quella giurisdizionale al singolo giudi-ce (art. 102 Cost.).

Antonio Riviezzo

CARRINO , AGOSTINO, La giustizia come conitto. Crisi della politica e Stato dei giu-

dici, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 268.

Questo volume di Agostino Carrino pone a tema le principali contrad-dizioni della forma Stato moderna attraverso l’assunzione di una prospettivache n dall’esergo – il motto eracliteo «È necessario che la giustizia sia la con-tesa» – riconosce esplicitamente il conitto come possibilità concreta, se noncome condizione strutturale e necessaria del vivere associato.

Nella prefazione il tema della giustizia è illustrato con riferimento al rap-porto, problematico e, appunto, conittuale, fra diritto e potere (cfr. 12) e alpericolo rappresentato, in questo contesto, dalla possibile deriva verso uno“Stato dei giudici”. Tale deriva si realizza qualora colpevolmente si dimen-tichi il carattere inevitabilmente  politico e storicamente determinato di ogniCostituzione: da un lato, infatti, le Costituzioni «sono fenomeni culturali com-plessi, che non possono essere abbandonati alla mera interpretazione ‘razio-nale’, quasi che il testo delle norme supreme sia indifferente a tutto ciò che ne

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ha costituito e ne costituisce il contesto, le premesse, il ne» (18); dall’altro esi-ste un legame indissolubile fra la carta costituzionale nella sua congurazio-ne formale e il popolo, che ne costituisce a un tempo l’autore e il custode inultima istanza. Essa infatti – scrive l’Autore – «è un bene che il popolo si dà e

che non può essere afdato in esclusiva a nessun altro» (17). In questo conte-sto non si tratta di «scalzare il giudice dal trono», quanto piuttosto di ricono-scere in esso un “potere”, al di fuori di ogni connotazione morale e valoriale,e di assoggettarlo «ai limiti previsti per ogni potere» (24).

Il capitolo più ampio del libro – quasi a costituire per dimensione e arti-colazione interna un volume a sé – è intitolato La crisi dello Stato tra liberalismoe democrazia. Se la forma politica moderna coincide per molti versi con l’inven-zione dell’individuo titolare di diritti («Ciò che loso e sociologi hanno chia-mato ‘modernità’, ovvero il progetto specico di questo particolare tempo sto-rico, è consistito fondamentalmente in un’idea di liberazione e di autonomiz-zazione dei cittadini», 31), tale circostanza deve problematicamente conviverecon l’affermazione della nozione sovra-individuale di popolo che, nella decli-nazione democratica, si congura in termini di identità fra governante e gover-nati (cfr. 33). Per altro verso, se nella sua variante liberale la teoria modernaconsidera «quale suo compito prioritario quello di limitare il potere» (34), sulversante “democratico” essa assume consapevolmente il potere come proprioprincipio (cfr. 35). Ma il principio individualista deve ancora misurarsi pro-blematicamente con l’esigenza – contrapposta eppure frutto della medesimalogica – dei gruppi e delle formazioni sociali di costituirsi e rivendicare la pie-

na partecipazione alla vita politica (cfr. 45). Nel moderno, in realtà, individuoe comunità, unità e pluralità, più che principi opposti appaiono poli distinti iquali deniscono un comune campo di tensione che non può essere pacica-mente risolto in termini teorici, ma piuttosto governato politicamente (cfr. 52). Inquesto senso si spiega l’attenzione che Agostino Carrino rivolge al tema delladecisione politica (cfr. 92) e alla necessità di un rinnovato senso del bene comu-ne: «Libertà e bene comune si tengono e sottolineare un solo aspetto di unadialettica molto articolata storicamente e teoreticamente signica impoverirelo sforzo di comprensione del reale e quindi indebolire qualunque progetto di

buon governo» (101). Il bene comune va tuttavia inteso in termini di realismopolitico e al di fuori di ogni tentazione irenica: «La democrazia si rivela, così,essere (…) convinzione della necessità della frattura e dell’antagonismo, socie-tà del conitto e concezione realistica della politica» (57). Ad una tale consa-pevolezza non è peraltro estraneo un ben preciso sostrato etico: non è un casoche l’autore si richiami a Nicolai Hartmann per il quale «vi è un valore speci-co della comunità (…) esattamente come vi è un valore specico dell’indivi-duo» (46) e ponga una sorta di primato etico del dovere rispetto al diritto, indi-viduando nell’«etica dei doveri dell’individuo nella città» un efcace antidotoalla «deriva soggettivistica di un’etica dei diritti fondati solo su se stessi» (125).

Un ruolo cruciale in questo quadro svolge, dunque, la funzione di gover-no, nei cui confronti «deve cadere» ogni «sospetto» (140); qui viene postaun’alternativa stringente: o la funzione di governo «è accettata in quanto talee quindi regolata nelle sue competenze e nelle sue facoltà di comando (…) ocompressa in maniera illogica e innaturale, al punto da fare alla ne ‘esplode-

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Riferimenti bibliograci

re’ – talora in maniera anticostituzionale – tutte le funzioni e le competenzeproprie del governo» (148).

L’analisi del saggio di Guizot, Des conspirations, et de la justice politique, dicui nel 2001 Carrino ha curato l’edizione italiana, offre all’Autore l’opportuni-

tà di ritornare sul tema della giustizia, declinandolo in due direzioni diverse,ma contigue: da un lato la necessità di mantenere separate le sfere della politi-ca e della giustizia (cfr. 181); dall’altro la necessità che il giudice sia subordina-to alla legge: «Quando il giudice dimentica il vincolo della legge e teorizza undiritto superiore di cui egli e soltanto egli è l’interprete, l’equilibrio dei poterisi spezza e in nome della virtù si infrangono tutti i limiti che salvaguardano icittadini nell’esercizio delle libertà garantite dal governo e dalla legge» (190).

Nel capitolo successivo, l’Autore insiste sul tema della giustizia, distan-ziandosi da posizioni teoriche di marcato carattere nichilistico (il riferimentoesplicito è a Morris Ghezzi e Natalino Irti) e proponendo come possibile antido-to ad esse il riferimento (sia pure con qualche cautela) alle «origini sociali» deldiritto (211). L’affermazione del relativismo perde infatti la sua (paradossale)assolutezza, convertendosi produttivamente in pluralismo/politeismo, qualo-ra si consideri che «l’individuo non è mai veramente solo nel suo agire, ma sem-pre rapportato ad un altro» e che il conitto interindividuale, proprio in quantoconitto, «implica esattamente quel riconoscimento reciproco che relativizza ilrelativismo e rende possibile la convivenza come agonismo fra valori e conce-zioni del mondo» (212). Anche nel capitolo successivo, discutendo alcune tesidi Severino e, di nuovo, di Irti, l’Autore scorge una possibile via d’uscita dal

nichilismo giuridico, di cui «il kelsenismo è veramente l’espressione adegua-ta» (248), nel «ritorno d’attenzione agli individui concreti, agli uomini viven-ti» (252) e, sul piano giuridico, nell’impegnativa individuazione di un “dirittonaturale vigente”, inteso come «il complesso dei diritti degli individui concre-ti che vivono in sociale comunione l’uno con l’altro – diritto alla salvaguardia ealla tutela della propria individualità, diritto come ciò che accomuna» (253).

Nel capitolo nale, l’Autore affronta alcuni aspetti del dibattito (italia-no e non solo) sul federalismo. Questo concetto non va inteso, a suo giudi-zio, come sinonimo di secessione o disgregazione, ma costituisce «anzi il loro

esatto contrario», soprattutto se bilanciato da un’adeguata dose di presiden-zialismo (263). In questa declinazione istituzionale, che potrebbe costituire «lagrande, rivoluzionaria novità del XXI secolo» (ibd.), troverebbe posto una rin-novata nozione di popolo, inteso dinamicamente come «molteplice e differen-ziata unità» (267). Una tale nozione di federalismo, in grado di operare la sin-tesi difcile fra “individuo e comunità”, si presenterebbe inne come «l’altrafaccia dell’idea di un liberalismo politico e sociale (…) capace di proiettarsi suun progetto di Europa custode, non matrigna e negatrice delle caratteristichedei popoli, delle nazioni e delle entità subnazionali» (268).

Molteplici e impegnative sono dunque le sde che il volume lancia allariessione losoca e giuridica. Fra queste ci sembra si segnali innanzitutto lanecessità di determinare ulteriormente un concetto di popolo capace di dar ragio-ne insieme della sua dimensione unitaria – senza la quale non sono pensabili azio-ne politica e decisione – e della molteplicità delle aggregazioni e delle differenzeche a un tempo lo attraversano e lo costituiscono. A tale ne il tradizionale mec-

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canismo rappresentativo, per il quale l’unità del popolo si costituisce attraversoun movimento di autorizzazione da parte dei suoi membri nei confronti dell’i-stanza, individuale o collettiva, che la impersona, sembra aver perso, anche inconseguenza delle critiche radicali cui è stato sottoposto nel corso del Novecen-

to, gran parte della propria efcacia esplicativa. In secondo luogo, vi è l’urgenzadi pervenire ad una nozione di federalismo nella quale la struttura federale nonsi costituisca semplicemente come la somma di strutture territoriali di dimensio-ni più ridotte rispetto alla tradizionale forma-Stato: una soluzione di questo tipoavrebbe come esito la mera riproposizione in scala minore delle aporie tipichedella forma-Stato moderna. Il federalismo che l’analisi di Agostino Carrino sem-bra esigere, infatti, non risulterebbe pienamente adeguato al proprio compito senon si mostrasse in grado di tenere e dare conto, in termini di presenza politicae di partecipazione, non solo delle articolazioni territoriali, ma anche e soprat-tutto delle molteplici aggregazioni d’interesse, variamente organizzate e struttu-rate, che, sia a livello statale che sovra-statale, di fatto esercitano da gran tempoun peso decisivo nella determinazione delle politiche nazionali e sovranaziona-li. È questa una circostanza che, a nostro avviso, rende particolarmente urgentela determinazione concettuale delle modalità di una possibile “costituzionalizza-zione” plurilivello delle “parti”. In terzo luogo, vi è il problema del modo in cuila ridenizione della funzione di governo possa utilmente collocarsi al di là dellatradizionale (e inefcace) identicazione con il “potere esecutivo”. È questo infat-ti, come sottolinea l’Autore, un «temine improprio e sviante, in quanto nessungoverno degno di questo nome si è mai limitato ad ‘eseguire’ la volontà altrui»

(182). L’ultima e forse più impegnativa sda riguarda la necessità di dar contodei rapporti fra Comunità europea e Stati in termini ulteriori rispetto alla concet-tualità tipica dello Stato moderno. Ciò signica procedere risolutamente oltre ilvocabolario della sovranità e concepire lo spazio politico-istituzionale europeocome un’organizzazione complessa di poteri la cui legittimazione non sia sem-plicemente afdata alle procedure elettive, ma dipenda in misura decisiva dallacapacità reciproca di limitazione e controllo (cfr. 129).

Antonino Scalone

EHRLICH , EUGEN, Politische Schriften, hrsg. u. eingel. von Manfred Rehbinder,Berlin, Duncker & Humblot, 2007, pp. 206.

Eugen Ehrlich (1863-1922) appartiene agli “autori” che hanno inuen-zato la mia formazione scientica, molti dei quali di origine appunto ebraica.Triste e paradossale destino quello di tanti ebrei mitteleuropei, uomini di for-mazione mentale intimamente tedesca, ma anche di vocazione quasi “natural-mente” tedesca. Quanti ebrei consideravano la cultura del loro paese come lacultura per eccellenza! È difcile immaginare il senso di sgomento di quantidovettero assistere alla ne del loro sogno di integrazione dell’ebraismo nel-la germanicità e viceversa. E così è anche difcile pensare il senso di spaesa-mento per un ebreo come Ehrlich, che dovette subire un doppio ostracismo:in quanto ebreo e in quanto austro-tedesco.

Ehrlich era stato rettore dell’università di Czernowitz, dove insegnavadiritto romano. La Bucovina faceva parte dell’Impero austro-ungarico; dopo

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Riferimenti bibliograci

la guerra entrò a far parte della Romania e lì Ehrlich si trovò a combatterecontro anti-semiti, che per l’appunto lo combattevano in quanto ebreo, e anti-tedeschi, che gli rinfacciavano le sue posizioni politiche a favore dell’Imperoaustro-ungarico, del “josephinismo”, avvero dell’idea che solo in una realtà

imperiale multinazionale come l’Austria di Francesco Giuseppe fosse possi-bile per l’etnia e la cultura ebraiche trovare se stesse, la propria autonomia, lapropria dignità. E così Ehrlich venne privato della cattedra, per così dire, duevolte: in quanto ebreo e in quanto austro-tedesco.

Va anche per questo segnalato questo libro curato da M. Rehbinder, mas-simo conoscitore di Ehrlich, dove sono raccolti alcuni scritti politici pubblicatidal 1918 al 1921, praticamente sconosciuti, del fondatore della sociologia deldiritto. Ehrlich vi appare come sociologo di stampo conservatore, ma impe-gnato per la pace e per il quale l’attività dello Stato trova dei limiti invalicabi-li che gli sono posti dalla realtà economica. Com’è noto, il teorico del “dirittovivente” ha sempre considerato che il fondamento del diritto non risiede nénella legislazione né nella giurisdizione, bensì nella società, che quindi impe-disce naturaliter  allo Stato di regolare i rapporti sociali oltre un dato limite pre-stabilito, in qualche modo, dalle regole che vivono già dentro la società.

Il primo saggio, dedicato al crollo dell’Impero austriaco (Der Verfall eines grossen Reiches) è interessante perché si pone un interrogativo fecondo ancheoggi: perché dalle nazioni che componevano l’Impero non è nata una “nazioneaustriaca”? Oggi il nostro interrogativo suona: perché non nasce una “nazioneeuropea”? La lettura di questo scritto, che ricostruisce la storia politica dell’Im-

pero absburgico dalla ne del Settecento no al crollo in una chiave sociologi-co-politica, offre molti spunti di riessione. Seguono altri lavori, tra cui una cri-tica della politica di Bismarck, un pungente articolo di recensione sulla maniadei generali di scrivere memorie e pensieri, un saggio su Marx e la questionesociale, uno sul movimento pacista e uno sul futuro della Lega delle Nazioni.

Agostino Carrino

EISFELD , JENS / OTTO , MARTIN / Z WANZGER , MICHAEL UND PAHLOW  , LOUIS. (Hrsgg.),Naturrecht und Staat in der Neuzeit, Tübingen, Mohr Siebeck, 2013, pp. 640.

I giuristi che si occupano dei problemi del diritto vigente sono solitiscomporre la materia del loro studio in singole unità logicamente separabi-li, al ne di poterle analizzare meglio. Gli storici, invece, praticano la ricostru-zione dei contesti per evitare che le connessioni di senso tra i fatti siano lace-rate arbitrariamente. Gli storici del diritto si trovano precisamente a metà stra-da tra questi due mondi e la loro attività scientica si svolge all’insegna tantodell’analisi quanto della sintesi.

È proprio ad un importante storico del diritto, Diethelm Klippel, che èdedicato questo ampio volume, contentente più di trenta contributi che affron-tano, da diverse prospettive, il rapporto tra Stato e diritto naturale nell’etàmoderna. La Festschrift per i settant’anni dello storico di Treviri riette gli inte-ressi scientici del festeggiato che, nella sua lunga e produttiva carriera, svolta-si prima nell’università di Gießen, poi in quella di Bayreuth, ha approfondito ladinamica evolutiva, storica e concettuale, che il diritto naturale e la losoa del

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diritto, dopo il periodo antico e quello cristiano-medievale, hanno subito dall’e-poca illuministica no al XIX e, in parte, al XX secolo. La questione principaleche sta a fondamento del presente volume è quindi quella di comprendere inche modo le idee giusnaturalistiche si siano inserite in quel contesto storico, in

che misura siano state inuenzate dagli sviluppi dell’epoca in cui si erano radi-cate e, inne, in che senso siano state proprio esse ad esercitare un inusso con-sistente e duraturo sulla modernità e sulla concezione che oggi abbiamo di essa.

I contributi del volume danno un’idea molto precisa dei numerosi aspettistorici, culturali, losoci e giuridici che si intrecciano intorno al tema del dirit-to naturale, estendendosi dalla prima fase dell’Illuminismo no alle ripercus-sioni presunte o effettive che esso ha generato nel XX secolo, dal proto-illumi-nismo della Germania mediana (mitteldeutsch) no alla teoria dello ShareholderValue, da John Locke no a Kurt Wolzendorff, dalla concezione ottocentescadel diritto naturale nel Wittenberg al diritto francese della schiavitù nei Caraibi.

Pur non essendo possibile in questa sede dare conto di tutti i saggi, vor-rei però segnalarne alcuni che mi sembrano particolarmente interessanti e talida riettere la fertile interdisciplinarietà dell’approccio tedesco allo studio deldiritto, in grado di fondere insieme la prospettiva tecnicamente giuridica conquella storica e losoca: Heinhard Steiger si occupa, per esempio, del temaconcernente la libertà dei mari e il diritto naturale, mostrando come il dibattitosvoltosi a partire dal XVI secolo sulla distinzione tra mare liberum e mare clausum abbia acquisito un signicato giuridico-positivo per il diritto internazionaleattuale, mentre solo supercialmente può considerarsi di valore esclusivamen-

te storico. Walter Pauly e Jens Eisfeld si dedicano rispettivamente all’analisi delconcetto di Sollen e alla Trennung tra diritto e morale in Kant; Wolfang Schildsvolge una originale e approfondita analisi del diritto naturale in Hegel, indivi-duando tre tappe fondamentali del suo sviluppo nel 1817, nel 1827 e nel 1830,ovvero nelle tre edizioni della Enciclopedia delle scienze flosofche; Dieter Schwabdirige la propria analisi sul destino del diritto naturale e dell’idea di diritto nelXX secolo, con particolare riferimento a Gierke, Radbruch e Stammler, mentreLouis Pahlow concentra il proprio interesse sul rapporto tra diritto dell’econo-mia e losoa del diritto, analizzando i teorici che di questa connessione han-

no fatto un nucleo decisivo di inussi reciproci (lasciato troppo spesso ai mar-gini dalla relativa letteratura); dopo la prima guerra mondiale, infatti, le ideegiuslosoche hanno giocato un ruolo decisivo nella fondazione e legittimazio-ne di uno specico diritto dell’economia (si veda, tra gli altri, ancora Stammlerin Wirtschaft und Recht, e poi Goldschmidt, Hedemann, Sinzheimer, Westhoff,Darmstaedter). In conclusione al volume è posto un indice analitico, diviso peranno, delle pubblicazioni di Klippel (1975-2012) curato da Martin Otto.

Federico Lijoi

GREGORIO , MASSIMILIANO, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politicoin Italia tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 2013, pp. 439 (Biblioteca per la sto-ria del pensiero giuridico, n. 101).

Bel lavoro, questo di Gregorio, ma sopra tutto perché arriva in un momen-to in cui il partito politico sembra essere un residuo del passato, “liquefatto”

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Riferimenti bibliograci

nel presunto partito “personale” (che in realtà è un mero comitato di affari) oin semplici comitati elettorali.

Eppure il partito non solo ha una sua storia complessa (in Europa ingenerale come in Italia), ma è il simbolo di un processo civile e politico che è

quello della trasformazione dei sudditi in cittadini, un processo travagliato econtrastato, perché la nozione di partito esprime anche la contraddizione fon-damentale della politica moderna, che vuole essere al tempo stesso universa-le e fondata sull’individuo e che si afda ad una parte (il partito, un tempo la‘fazione’) per realizzare progetti generali.

“Parte totale” è dunque espressione adeguata alla problematica più sot-tile di una parte che si vuole tutto o vuole farsi tutto. In quanto tale, il parti-to è espressione del conitto sociale e quindi si comprende come esso sia sta-to mal giudicato a partire dalla Rivoluzione francese. ma anche entro quel-le dottrine che hanno mirato, attraverso il diritto, a fare delle istituzioni ilregno dell’armonia di contro al regno della disgregazione, rappresentato dal-la società. Così Kelsen, ma anche, in Italia, come racconta Gregorio, la scuoladi Orlando, che col metodo giuridico voleva neutralizzare il conitto e imma-ginava un partito in senso puramente liberale, cioè parlamentare.

Gregorio ripercorre le vicende del partito nelle dottrine costituzionaliitaliane dalla destra storica al secondo dopoguerra, partendo da una citazionedi Antonio Gramsci del 1921: «Un’associazione può essere chiamata partitopolitico solo in quanto possiede una sua propria dottrina costituzionale, soloin quanto è riuscita a concretare e divulgare una sua propria nozione dell’i-

dea di stato». Esattamente il contrario di quanto ancora un Giolitti pensavadi poter fare, cioè controllare il conitto sociale attraverso uno Stato neutrale,proprio mentre le masse operaie premevano ai cancelli delle istituzioni e ciòsempre più, proprio, attraverso il partito politico, non più “parlamentare”, madi massa, la cui alterità rispetto alla forma ottocentesca di partito parlamenta-re di notabili non fu subito còlta (cfr. 60 ss.), anche se parti della scienza giu-ridica, anche civilistica, si rendevano ormai conto del superamento dell’indi-vidualismo dei codici, inadeguato al pluralismo sociale crescente e al conittotra partiti oramai differenti. Con Santi Romano si riparte «dalla giuridicità dei

fatti» (71), ma, secondo l’a., senza sconvolgere il ragionamento orlandiano suuno Stato emancipato dalla società.

Solo dopo la guerra si rompe «l’antropologia individualista, che avevaispirato l’Europa dalla Rivoluzione francese in avanti», si «riscopre il valoredella comunità e si alimenta una forte propensione all’associazionismo poli-tico» (79) e il partito, in particolare con Kelsen, diventa uno strumento perla formazione (democratica) della volontà politica, anzi lo strumento d’o-ra innanzi indispensabile, fondato sull’idea di compromesso. Con Weimar,com’è noto, i partiti entrano, sia pure convulsamente, dentro lo Stato e ciò inquella forma di partiti di massa che mettono in crisi il partito dell’èra libera-le. A Weimar il pluralismo dei partiti nuovi non regge, e come in Italia conil fascismo, così in Germania al partito della tradizione liberale segue il par-tito “unico”, espressione patologica della concezione di “parte totale”. Alledue esperienze Gregorio dedica molte pagine del suo libro, soffermandosi inparticolare, per la Germania, su Schmitt e mettendo in rilievo la differenza

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tra lo statualismo fascista e il movimentismo nazista, che fa sì che lo Stato siasolo uno strumento del partito e ciò, aggiungiamo noi, perché il fondamen-to sostanziale è la razza, rispetto alla quale lo Stato viene ancora consideratoimpotente per il suo originario formalismo. Così come per il partito leninista

il fondamento è la classe.Come che sia, gli anni Trenta «rappresentarono davvero un tornante fon-damentale nella ricostruzione dell’idea novecentesca di partito [quale] portato-re di un nuovo principio di unità politica» (216). Non è possibile, qui, dar contodi tutto il percorso di Gregorio, dalla ideazione da parte di Panunzio del sinta-gma “parte totale” alle riessioni di Chiarelli e Mortati, Crisafulli e Lavagna odi un Esposito con l’idea di nazione quale fondo comune di Stato e partito.

La terza parte si sofferma inne sul partito nella repubblica, un’idea dipartito che riafferma le idee di pluralismo e di parlamentarismo e lo fa sul-la base di un accordo preliminare a livello costituzionale sulle caratteristiche

del pluralismo sociale. Signicativo che anche qui ritorni con forza il concettodi “parte totale”, coniugato però in senso personalistico, per esempio in Laz-zati (vicino a Dossetti), teso quindi a «costruire un principio di unità politi-ca» (312), ma anche in altre culture politiche. Un progetto, tuttavia, quello di“parte totale”, che mancherà sempre più col tempo la “totalità”, ovvero l’uni-tà politica, no alla crisi della forma-partito, ovvero della politica, nella qualeancora ci si dibatte e rispetto alla quale non si intravede la luce fuori del tun-nel di una eterna “transizione”.

Agostino Carrino

HÄBERLE, PETER, Der kooperative Verfassungsstaat – aus Kultur und als Kultur ,Berlin, Duncker & Humblot, 2013, pp. 816.

Tra i costituzionalisti tedeschi noti al pubblico italiano Peter Häberleoccupa un posto di rilievo. Non a caso il saggio di apertura di questo suonuovo volume è l’originale tedesco di una voce pubblicata sull’EnciclopediaTreccani. I lavori qui raccolti, tuttavia, non aggiungono molto a quanto si sadelle tesi di Häberle in materia di diritto costituzionale, tesi già consegnate

in ponderosi libri precedenti, come, Verfassung als öffentlicher Prozeß. Materi-alen zu einer Verfassungstheorie der offenen Gesellschaft (Berlin, Duncker & Hum-blot, 1996, 878). Sia in quello, sia in questo fresco di stampa, si tratta di sillo-gi di scritti di varia origine, sempre uniti dall’idea di costituzione come pun-to di precipitazione di problematiche, domande, bisogni propri di ogni socie-tà democratica; la costituzione rappresenta un processo pubblico ed apertoperché è (deve essere) aperta la società e costituzione e società si tengono inuna visione liberal-democratica focalizzata sul signicato di “cultura” cometeatro di un pluralismo aperto. Le costituzioni sono per Häberle degli edi-ci in costruzione; le modiche costituzionali appaiono proprio per questo lavia per garantire la continuità della costituzione nel tempo. Solo così essa siconserva come costituzione della libertà, strumento di tolleranza in una socie-tà aperta e perciò essa stessa – la costituzione – aperta alle altre scienze socia-li. La stessa interpretazione costituzionale deve essere interna ad una «societàaperta degli interpreti costituzionaliı (Verf. als öffentl. Prozeß, 123).

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Riferimenti bibliograci

Una società pluralista, dunque. Da questo punto di vista Häberle si vuolecontinuatore delle teorie di Fraenkel, Scheuner e altri giuristi tedeschi che han-no lasciato importanti contributi in materia. Il fondamento epistemologico delpluralismo è visto da Häberle nella teoria di Popper: «Il razionalismo critico è

la più convincente teoria scientica del pluralismo, considerato che il contenu-to del Grundgesetz (i suoi elementi strutturali pluralistici) e gli elementi teoricidel razionalismo critico sono congruenti» (Verf. als öffentl. Prozeß, 144).

Ma cosa signica “società aperta”, costituzione aperta, se non che lacostituzione non può essere data una volta per sempre, ma che interprete ecostituente devono alternarsi e che tra l’uno e l’altro si dà una «parziale iden-tità» (Verf. als öffentl. Prozeß, 199)? «La creazione di una costituzione (Verfas-sungsgebung) non termina con l’entrata in vigore di una concreta costituzio-ne; essa è un processo continuo, spesso inosservato, e irrinunciabile; ciò nellamisura in cui l’interpretazione (pluralistica) della costituzione è un processocreativo» (ibidem). Società e Stato non sono quindi per H. opposti, ma tra l’u-na e l’altro si dànno, proprio grazie all’evoluzione della costituzione, cana-li di comunicazione e di trasmissione di informazioni: la costituzione è l’«or-dinamento giuridico fondamentale di Stato e società» (19). Il cittadino deveconoscere la “sua“ costituzione e questa deve a sua volta “aprirsi” ai cittadiniattraverso la comunità degli interpreti (che evidentemente non può limitarsiai giudici, ma presuppone appunto, scrive H. in maniera per la verità cripti-ca, una «società aperta di interpreti della costituzione»: 263 ss.). La costituzio-ne è dunque contratto, ma non solo “sociale”, bensì anche intergenerazionale

nel senso di limite alle capacità decisorie delle istituzioni e delle generazionidel momento. In tal senso la costituzione è per Häberle fenomeno culturale,cioè espressione nel tempo e nello spazio di una razionalità intrinseca all’esse-re dei popoli e delle nazioni, meglio: all’umanità. I popoli sono infatti «gran-dezze culturali» (41) e non elementi dello Stato à la Jellinek. Häberle, in effetti,si inscrive tra i teorici delle costituzioni che formano gli Stati, nel senso che loStato si dà solo nella costituzione, che dunque crea e mette in forma lo Stato(45). In questo senso egli è senz’altro da annoverare tra i teorici del neocosti-tuzionalismo, che pretende di superare i concetti classici della scienza costitu-

zionale. Resta però dubbio come il popolo inteso in questo senso possa esse-re integrato nel diritto.

Häberle sostiene che la sovranità è morta e che si deve parlare di «sovra-nità della costituzione» (Verf. als öffentl. Prozeß, 395). Personalmente, noi ci tro-viamo sulla sponda opposta (cfr. A.CARRINO, La dottrina dello Stato e la sua crisi,Modena, Mucchi, 2014; ID., Il problema della sovranità nell’età della globalizzazio-ne, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014), sia perché riteniamo che la sovrani-tà non sia morta né che lo sia lo Stato, sia perché per noi la costituzione è unaforma che lo Stato dà a se stesso. Tuttavia, quale che sia il rapporto tra Statoe costituzione, Häberle sottolinea (in questo come in tutti gli altri suoi libri)un punto interessante, che cioè il moderno Stato costituzionale deve necessa-riamente strutturarsi in senso federalistico (53 ss.). Cosa signichi ‘federalisti-co’ e quale sia il rapporto tra federalismo e idea dei ‘piccoli Stati’ deve esserequi lasciato da parte, anche se il concetto appare più esposto che argomenta-to e giusticato. Vi sono infatti in Häberle non pochi pregiudizi politico-lo-

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soci che gli impediscono di problematizzare le sue tesi, di regola presenta-te in maniera quasi apodittica: signicativo, da questo punto di vista, proprioil riuto di Platone e di Hegel come autori «totalitari» (65). Non basta infat-ti dichiarare che le identità sono “plurali” e a forma di mosaico per risolve-

re una questione – quella dell’identità culturale, che è a base del federalismo– che invece esige approfondimenti e riessioni più complesse, tanto più cheproprio la comparazione, che H. invoca addirittura come metodo di interpre-tazione, invita a riettere sulle differenze concrete nello spazio e nel tempo,non riconducibili ad un comune denominatore.

Il modello di “Stato costituzionale cooperativo”, entro il quale H. rac-chiude i criteri della cultura e del federalismo, implica certo dinamicità edevolutività in un quadro di giuridicazione sovranazionale e universale, maanche in H. sembra perdersi del tutto – come nei teorici dei diritti dell’uomoprestatuali – ogni dimensione pratica dell’agire giuridico politicamente orien-tato. Il concetto di cultura, quale impiegato da H., è chiaramente un concet-to impolitico, se non anti-politico. Non a caso il metodo espositivo di H. sem-bra più accumulativo che argomentativo, in una massa enorme di riferimen-ti a testi di varia e composita origine, dove tra l’altro, ad avviso di chi scrive,si associano esperienze culturali eteroclite, dal Myanmar al Venezuela, dalSud-Africa alla Francia, al Messico. Il concetto di cultura di H. sembra infattiun concetto funzionale alla cancellazione delle differenze, non uno strumen-to empirico che si prende cura delle varietà storiche e per l’appunto culturalitra i popoli, le loro istituzioni e i loro costumi. Così il legislatore venezuelano,

pur autoritario e collettivista, si inserisce per H. «passivamente e attivamente(…) nella universale ‘ofcina dello Stato costituzionale’» (161).

Nell’insieme bisognerebbe chiedersi che senso ha parlare ancora di ‘Sta-to’ (costituzionale cooperativo) per un fenomeno che si oppone radicalmen-te alla tradizione della statualità europea e occidentale, in denitiva al  jus

 publicum europaeum, rispetto alla cui sostanza sono solo pallide evanescenzele festività per la costituzione che Häberle riassume con tanta enfasi (167 ss.).Non poche perplessità suscita poi l’idea che il ne dello Stato costituzionalecooperativo sarebbe quello di far «interiorizzare» (351) i diritti dell’uomo ai

cittadini, quasi che si tratti di uno Stato etico rinnovato in senso democratico-universalistico, per il quale gli esempi, un po’ alla rinfusa, sono la Spagna, ilPerù e il Guatemala…

Häberle ha una capacità più unica che rara di padroneggiare i documenticostituzionali dei paesi più diversi, da quelli europei a quelli in via di sviluppo.I testi costituzionali, scrive Häberle, sono testi di diritto positivo, ma essi rin-viano a qualcosa di più che questo, ad una realtà effettiva che il testo può indi-care soltanto. La cultura è tradizione, trasformazione, pluralismo, e una scien-za della costituzione deve orientarsi in quanto scienza della cultura su questitre principi fondamentali. Ma è veramente questo ‘cultura’? Non è forse trop-po indeterminata e generica una tale denizione, che lascia in secondo pianol’elemento differenziante, per il quale soltanto la cultura ha senso, in quantosolo essa consente, come categoria generale, di cogliere le culture storiche esi-stenti nelle loro differenziazioni e specicità? Che per H. ‘cultura’ sia solo unmodo per delineare una prospettiva umanistico-universalistica tesa ad uno

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Riferimenti bibliograci

Stato mondiale lo dimostrano i riferimenti che egli fa a J. Habermas (353) e allasua prospettiva di una ‘cittadinanza mondiale’ (idea per la verità oggi dallostesso Habermas ridimensionata).

Proprio per questo la scienza delle costituzioni, per Häberle, prevale sul-

la classica dottrina dello Stato, la quale tra gli elementi dello Stato consideraimperio, territorio e popolo, ma non la costituzione, che dovrebbe se non altroessere trattata come il quarto elemento dello Stato (per la verità, Häberle con-sidera lo Stato moderno, liberal-democratico, ma ogni Stato è una costituzio-ne dal punto di vista storico-esistenziale).

Se volessimo ora domandarci in cosa concretizzare tutto il discorso diHäberle, dovremmo dire che si tratta di una difesa del tema della dignitàdell’uomo (cfr. 333 ss.). Per questo occorre, dice Häberle, una teoria del benecomune (cfr. 459 ss.) come parte integrante di ogni scienza delle costituzioni,che giustichi e legittimi un’economia sociale di mercato. Appaiono però deltutto estrinseci e vaghi i riferimenti aIle esperienze della Tailandia, del Nigere dell’Uganda (473 ss.) messe insieme con le esperienze costituzionali dell’Eu-ropa. Direi che l’universalismo culturale di H. prevale sulle culture particola-ri, solo dalle quali ci si può sollevare ad una visione dell’umanità. Da questopunto di vista, è rintracciabile nel discorso di H. anche una evidente contrad-dizione, in quanto il municipalismo da lui propugnato non si concilia più ditanto con questo culturalismo mondialistico.

Tra “incursioni” ed “escursioni” questo libro di non facile lettura rischiadi offrire allo studioso più che una teoria del diritto costituzionale, o una dot-

trina della costituzione alternativa alle classiche dottrine dello Stato, una teo-ria accumulativa e ripetitiva di tutto ciò che empiricamente può essere riassun-to a livello di testi e di dottrine riferentesi alle costituzioni.

Agostino Carrino

KRONER , RICHARD, Von Kant bis Hegel, Tübingen, Mohr Siebeck, 2007, 2 Bände,pp. 612 e 526.

Gli studi hegeliani restano obbligati nei confronti di Richard Kroner

(1884-1974), il quale all’inizio degli anni Venti diede grande impulso allarinascita hegeliana in Germania, partendo da posizioni neokantiane (era sta-to allievo di Windelband e di Rickert). È merito delle edizioni Mohr Siebeckaver ristampato, in edizione anastatica, l’opus magnum di Kroner, apparso indue volumi nel 1921 e nel 1924, molto citato ma letto forse proprio solo daglispecialisti di Hegel.

Si tratta, com’è noto, di una interpretazione in chiave “irrazionalistica”del pensiero di Hegel ma, soprattutto, si tratta di un tentativo di dimostrarecome il passaggio da Kant a Hegel, attraverso Schelling e Fichte (al quale Kro-ner dedica pagine magistrali), fosse un passaggio logicamente e oggettiva-mente necessario. Per Kroner si danno nel pensiero di Kant una serie di con-traddizioni che impongono una loro soluzione, specialmente per quanto con-cerne il rapporto tra fenomeno e noumeno. Ma se Hegel è per Kroner il puntodi arrivo necessario di un percorso intellettuale unico nella storia intellettualedel mondo, Hegel non è certo anch’egli privo di contraddizioni, in particolare

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per quanto riguarda la sua ontoteologia, rispetto alla quale la dialettica hege-liana resta, ad avviso di Kroner, impotente. Non a caso nelle sue opere succes-sive di losoa della religione, nell’esilio americano, egli farà riferimento adaltri autori, in particolare Pascal e Kierkegaard, che a suo avviso vanno collo-

cati al di sopra, per molti aspetti, dello stesso Hegel. Angelo Di Giovanni

LEISNER , W ALTER, Institutionelle Evolution. Grundlinien einer Allgemeinen Staats-lehre, Berlin, Duncker & Humblot, 2012, pp. 139.

In un tempo in cui non pochi, tra giuristi e politologi, parlano (a nostroavviso a torto) di “morte dello Stato” (tema del resto ricorrente), va controcor-rente questo libro di Walter Leisner, colto giurista attento ai presupposti sto-rici dei concetti e quindi in grado anche di capire quali tra loro sono veramen-te transitori o già superati.

Leisner coglie il senso della ‘Staatslehre’, in quanto dottrina genera-le, nella missione civilizzatrice della cultura occidentale, ciò senza attribuir-le, ovviamente, nessuna funzione “missionaria”. La losoa greca e il dirit-to romano sono le basi di una visione del mondo che continua a tutt’oggi adare i suoi frutti, perché appunto imperituri. Lo stesso concetto di ‘impero’appare come uno dei concetti fondamentali della dottrina dello Stato, essen-do la vocazione imperiale (romana) la nostalgia sottile di ogni statualità, sen-za anche qui attribuire al concetto nessun signicato negativo. Holzwege (19),

sentieri interrotti, sono dunque quelli su cui si muove la dottrina dello Stato,insieme con la sua faccia giuridica, che mette in forma la sostanza politica del-lo Stato. Il jus publicum europaeum è la forma che lo Stato nella sua dimensionetipicamente moderna, appunto in quanto Stato, assume a partire da Machia-velli in poi.

Si badi: ciò che Leisner cerca nell’antichità non è certo lo stesso Statodella modernità, bensì quelle caratteristiche e quelle precondizioni che resta-no valide a tutt’oggi e che costruiscono lo Stato come ricerca sempre ancoraoggi incompiuta di quel modo di associarsi che forse potrebbe trovare nella

Roma di Augusto un modello insuperato. È la politica per l’appunto di Augu-sto, con i suoi requisiti – gravitas, severitas, auctoritas – che da allora forse man-ca (ma forse era essa stessa un tentativo, meno fallito di altri) e che l’uomomoderno ha cercato. Forse la crisi della Staatslehre altro potrebbe non esse-re che l’abdicazione a questa ricerca da parte dell’uomo d’oggi, dunque unadichiarazione di naufragio.

Resta invece all’uomo di cultura, qui al giurista, tener viva la nostalgiadi contro al naufragio predetto perno da Carl Schmitt (o era forse un’esor-cizzazione?) e continuare a praticare la nobile scienza – per quanto “rischio-sa” – del diritto, a dispetto di tutti i fallimenti e dello scadimento intellettualedi cui pure oggi essa soffre.

Leisner, in questi lineamenti, ripercorre sinteticamete ma con efcaciala storia della disciplina no alla sua “tecnicizzazione” attraverso le costitu-zioni e i testi giuridici codicati, con la conseguente modica del ruolo delladottrina stessa, alla quale si associa ora anche una “teoria” che prende in con-

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Riferimenti bibliograci

siderazione ciò che vige, la prassi concreta quale delineata dalle costituzionimoderne. Non a caso, nel XX secolo, specialmente in Germania, la dottrinadello Stato rischia di confondersi con il diritto pubblico tout-court, alle presecon i processi di democratizzazione in atto. Così, la dottrina pura di Kelsen si

rivela come una «legittimazione della nuova forma di Stato della democrazianella tecnica giuridica del normativismo» (31), contro la quale si erge la dottri-na dell’integrazione di Smend, che si spinge come dottrina dei valori da Wei-mar n dentro le discussioni odierne come «Gegenpol» del normativismo kel-seniano.

La dottrina dello Stato è stata una disciplina tendenzialmente multifor-me. La tendenza attualmente vigente a trasformarla in una sorta di politologiadimentica però alcune caratteristiche della disciplina che ne fanno un qualcosadi imprescindible tutt’oggi, come Leisner dimostra: la sua tendenza a compararegli ordinamenti giuridici e quindi ad impiegare strumenti tecnicamente rafna-ti per la comprensione del diritto positivamente vigente e quindi a mettere allaprova, criticamente, i fondamenti di legittimazione delle democrazie moderne.La dottrina dello Stato non è dunque trascendente alla realtà, ma “trascenden-tale” nel senso che elabora la realtà giuridica data, nella sua storica evoluzione,tenendo presente il passato e guardando al futuro. La dottrina dello Stato si facosì dottrina delle istituzioni giuridico-politiche studiate nella loro evoluzione.

Leisner dedica attenzione ai metodi, in particolare quello storico, indut-tivo, analogico e principiale, senza indulgenze per concezioni moralizzantidello Stato e della democrazia.

Agostino Carrino

LEMKE , MATTHIAS (Hrsg.), Die gerechte Stadt. Politische Gestaltbarkeit verdichteterRäume, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2012, pp. 208.

Lo Stato del XXI secolo si trova in un campo di tensione che vede con-trapporsi sicurezza e libertà, ordine e mutamento, autorità e democrazia. Sitrova cioè in un dilemma, per cui, da un lato, le transazioni internazionali neriducono la sovranità verso l’esterno, dall’altro lato, la proliferazione degli

interessi particolari ne circoscrivono la capacità di azione verso l’interno. L’o-biettivo della collana in cui il volume si inserisce (Staatsdiskurse) consiste pro-prio nel monitorare l’evoluzione dello Stato e, più concretamente, il suo rap-porto con il diritto, la potenza e la politica. In tal senso è quindi naturale chesia in special modo la globalizzazione, con tutte le conseguenze che ne deri-vano, a rappresentare uno dei fenomeni di maggiore importanza ai ni diuna disamina delle sempre nuove congurazioni assunte dalle unità politi-che nazionali. Incaricata di un compito così ambizioso, la scienza giuridica,in quanto Staatswissenschaft, non può sottrarsi alla necessità di acquisire unprolo integrato e multidisciplinare, in cui compaiano intrecciate prospettivegiuridiche, politiche, sociologiche e losoche.

Scopo dei saggi qui raccolti è quello di analizzare il rapporto tra la cit-tà, intesa come spazio denso e concentrato (globalizzato) di individualità e dilegami sociali, di conitto, lotta e confronto (si pensi alle metropoli urbane ealle megalopoli), e l’aspirazione alla giustizia di cui si fa portatore il discor-

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so politico: «Nel XXI secolo accanto allo Stato avanza – di nuovo – sempre dipiù la città quale luogo del politico» (19). In tal senso, dunque, il collegamen-to tra politico e polis torna a divenire un nesso altamente signicativo e la cit-tà, pertanto, non si trova al principio della politica soltanto dal punto di vista

puramente concettuale, bensì rappresenta la problematica specica, origina-ria ed empiricamente esperibile per l’applicazione delle tecniche di sicurezzae di dominio. Essa si rivela, come afferma il curatore del volume, il «cataliz-zatore del politico». Ma il politico è anche, come notavamo sopra, aspirazio-ne alla giustizia, costruzione della polis ideale, ovvero categoria normativa – econcretizzabile ad hoc – del politico (Leitkategorie der Politik). Questa dunque ladomanda principale che si trova a fondamento dei contributi raccolti in que-sto volume: «Come è possibile, sullo sfondo della pressione sempre crescenteesercitata dai problemi posti dalla città, una politica giusta?».

I saggi sono divisi in tre gruppi: il primo si occupa di esporre i princi-

pi basilari e le prospettive storiche e losoche concernenti il tema della “cit-tà giusta”. Il primo saggio, quello di M. Möhring-Hesse, tematizza il rappor-to tra città e giustizia, individuando i tipici meccanismi “ingiusti” di emar-ginazione e disintegrazione sociale (che, come l’A. nota con precisione, nonrimangono nell’ambito della città ma hanno effetti e ripercussioni negativeanche sull’intera nazione). D. Kuchler, invece, nel secondo contributo, rivolgela sua attenzione analitica alla  polis greca, dimostrando, con riferimento allaRepubblica di Platone, come i rapporti vitali che generano integrazione sia-no costitutivi per lo spazio politico della polis. Il richiamo ad Hanna Arendt e

alla sua lettura di Platone, inne, permette all’Autore di chiarire che una cit-tà può denirsi “giusta” quando sia in grado di allestire un contesto per lapluralità dei modelli di interazione e dei progetti di vita dei suoi abitanti. PerF. Hausknotz la città moderna è invece un luogo di conitto in cui, di controallo sforzo platonico per l’integrazione e l’unità, la giustizia diviene esperibilenel contesto urbano post-moderno solamente quando l’individuo è capace inmodo autonomo di creare una connessione con il suo spazio vitale.

Il secondo gruppo di saggi si concentra su alcune problematiche concre-te, di tipo economico e sociale, che una politica urbana interessata alla giusti-zia non può non prendere in considerazione. Il saggio di A. Holm, per esem-

pio, si dedica alla spiegazione di come i processi di gentricazione di alcuniquartieri, svolti all’insegna dell’alleanza con il mercato, conducano non sol-tanto all’emarginazione sociale, ma anche alla spoliticizzazione dello spa-zio urbano. I. Voelcker, invece, vede nella necessità di costruire infrastruttu-re urbane adatte agli anziani e, ancora di più, nella realizzazione di forme diconvivenza infragenerazionali, la condizione principale per uno spazio vitaleurbano “giusto”. Chiude questa seconda parte del volume il saggio di J. Lan-fer, dedicato alle politiche urbane di sicurezza sempre dal punto di vista dellagiustizia, ovvero in base al bisogno e alla partecipazione degli abitanti.

La terza parte del volume propone una diagnosi del presente in vistadei possibili sviluppi della città giusta, soprattutto in riferimento alle praticheche è necessario porre in essere per assicurare una capacità di congurazionedinamica al tessuto urbano in vista delle esigenze sempre mutevoli dei suoiabitanti. Entrambe le autrici, U. Altrock e Ch. Reicher, insistono sulla neces-sità che tali strumenti di congurazione siano allestiti mediante forme attive

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Riferimenti bibliograci

di partecipazione della società. La città, infatti, scrive Reicher, è sempre unaccordo di interessi differenti, i quali devono essere determinati in primo luo-go nell’ambito e con la partecipazione del contesto sociale.

Federico Lijoi

Pavčnik , marijan, Auf dem Weg zum Maß des Rechts. Ausgewählte Schriften zurRechtstheorie, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2011, pp. 318.

L’interesse dei saggi raccolti in questo volume, risalenti a periodi dif-ferenti dell’attività di studioso di Pavčnik, professore di losoa del dirittonell’Università di Lubiana, sta specialmente nel fatto di considerare il dirit-to nella sua normatività (le norme giuridiche, contrariamente a quanto soste-neva il nostro Ravà, non sono norme ‘tecniche’), ma in una normatività nonformalistica e soprattutto non autoreferenziale: la norma giuridica può esserecompresa solo nella sua relazione con il giudizio che la società dà della normain merito alla sua validità, la quale non è pertanto mai solo astratta, ma sem-pre richiama la concretezza dei rapporti sociali. Ciò signica che il diritto nonpuò tutto e che la produzione normativa deve essere sempre storicamente esocialmente condizionata (e quindi limitata). Contrariamente a quanto ritene-va Kelsen, gli scopi, i ni e i valori sono ciò che determinano la scelta di parti-colari norme, il che consente che le norme ‘tecniche’ entrino nel diritto senzaconfondersi con la giuridicità intrinseca alle norme propriamente giuridiche.

Il diritto, pur nella multiformità delle norme che lo compongono, è dun-

que un fenomeno eminentemente culturale. Come tale, esso è storicamentedeterminato e dipende dalle scelte ideali dei singoli e dei popoli. Ne consegueche lo Stato di diritto non è soltanto una forma di Stato, ma (Pavčnik si richia-ma spesso a Radbruch) la forma del livello culturale raggiunto dalla civiltàumana. Stato di diritto signica in particolare divisione dei poteri e qui l’A.attribuisce particolare signicato al ruolo del giudice, ma anche al Judicial self-restraint  (cfr. 373 s.), che signica agire con moderazione. Evidentemente, inSlovenia ancora non si è alle prese con un certo super-attivismo della magi-stratura e si può ancora auspicare, ad esempio, che il giudice delle leggi pre-

sti attenzione alla teoria del diritto (cfr. 175 ss.), alla quale l’A. dedica un dia-logo con il giurista americano L.E. Wolcher (335 ss.). Chiude il libro un saggiodedicato a Pitamič, cui si aggiunge una interessante lettera di Pitamič a Kelsen.

Agostino Carrino

VOSSKUHLE , ANDREAS  / BUMKE , CHRISTIAN  / MEINEL , FLORIAN  (Hrsgg.), Ve-rabschiedung und Wiederentdeckung des Staates im Spannungsfeld der Disziplinen,Berlin, Duncker & Humblot, 2013, pp. 388.

Questo Quaderno  21 della rivista Der Staat  raccoglie saggi in onore diGunnar Folke Schuppert, studioso dello Stato da lui inteso, come ricorda Oli-ver Lepsius nel suo saggio, non come «sostanza esistenziale ma come relazio-ne normativa» (41). Esso ha a che fare con una scienza del diritto orientata alfuturo e aperta tematicamente nella convinzione che lo Stato è processo dina-mico e in trasformazione. Come si vede, la scienza giuridica tedesca sta ritor-

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nando con forza sullo Stato e sulla “statualità”, intesa però, appunto, comeconcetto in trasformazione di una rinnovata scienza dello Stato, che ritornaalla statualità dopo essersi incentrata sulla costituzione. Ma quale statuali-tà? Le posizioni di Schuppert partono, in verità, dalla preminenza data alla

“ governance” e la statualità viene intesa da lui come subordinata al primatodella governance, tesi alla quale noi non aderiamo (cfr., tra gli altri, A. CARRI-

NO, La dottrina dello Stato e la sua crisi, Modena, Mucchi, 2014). Ciò nonostante,si tratta di argomentazioni signicative se non altro perché rivelano come ladottrina giuridica tedesca non riesca a fare a meno dello Stato anche quando,di fatto, lo riduce ad un fantasma di meri rapporti giuridici astratti e formali.

Non si può quindi dire che si ritorna dalla dottrina della costituzionealla dottrina dello Stato, ma di fatto una qualche “scienza dello Stato” appa-re comunque necessaria. Lepsius osserva che quella tedesca è una via specialenella scienza giuridica, perché solo lì si parla di Staatsrecht, mentre per esem-

pio in Italia si conosce come analogo solo il diritto ‘pubblico’. Non trovo deltutto corretta questa tesi, perché il concetto di ‘pubblico’ è sempre stato intesoda noi come diritto statale, nel senso che la res publica dei Romani è l’antesigna-no, mutatis mutandis, dello Stato. Né si può pensare che un ritorno alla statua-lità possa prescindere del tutto dal problema della denizione ovvero del fon-damento della decisione per concentrarsi sulle relazioni normative o le “quali-tà del diritto” quasi che tutto sia riconducibile al diritto. La ‘giuridicizzazione’del mondo non signica soltanto la ‘ne dello Stato’, ma la ne della politica.La funzionalizzazione del diritto, ovvero la sua relativizzazione (rispetto alla

quale Kelsen resta un precursore) al ne di cogliere meglio le “qualità del dirit-to” signica in denitiva perdere lo stesso oggetto ‘diritto’, perché la dinamicagiuridica – continuo a pensare – richiede un ‘soggetto’ che mette in movimentol’ordinamento giuridico e questo ‘soggetto’, essendo sempre un soggetto poli-tico, può servirsi dello Stato se vuole un ordine democratico, può fare a menodello Stato se vuole assoggettare il mondo alla retorica dei diritti.

Manca una teoria della trasformazione, si sostiene, ma in realtà, come giu-stamente sottolinea Werner Jann (Bedeutung von Verwaltungen, Institutionen undInstitutionentheorie, 93 ss.), la scienza, troppo attenta alle trasformazioni del suo

oggetto, rischia di perdere l’oggetto. «Governance è un nuovo importante para-digma di ricerca, ma esso non sostituisce in alcun modo l’interesse centrale perle amministrazioni e le istituzioni pubbliche, democraticamente legittimate econtrollate», scrive Jann (99). E così il concetto di sovranità, che l’idea di “gover-nance” dovrebbe mettere radicalmente in crisi, ritorna in forme mutate, non piùcome gioco di dinastie né scontro di ideologie nalizzate al controllo di un ter-ritorio, ma, come idea regolativa, alla protezione delle “proprie” popolazioni.Conclude Michael Zürn: «La ‘nuova sovranità’ considera lo Stato sempre piùcome uno strumento per assolvere altri valori. La nuova sovranità si distinguecerto molto nettamente dalla sovranità tradizionale, ma essa indica pur semprela stessa idea regolativa. La sovranità si è unicamente trasformata» (210). Cosìcome è vero che lo Stato ha perso il monopolio del politico (ma lo ha veramentesempre avuto?), ma la sua «qualità politica resta indispensabile», come Ulrich K.Preuß osserva, «per la formazione del mondo globalizzato del 21. secolo» (337).

Agostino Carrino

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