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Eucarestia memoriale e segno

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Partiamo dal documento del Concilio Vaticano II “Sacrosantum Concilium”. Il n° 47 dice: “il nostro Salvatore, nell’Ultima Cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue onde perpetuare nei secoli, fino al Suo ritorno, il sacrificio della Croce e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il Memoriale della sua morte e della sua risurrezione, sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale.

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Luigi Schiatti

EUCARISTIA memoriale e segno

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INDICE

EUCARISTIA MEMORIALE DELLA REDENZIONE ........................... pag. 3 Ricordo .................................................................................. pag. 4 Rinnovazione ........................................................................ pag. 8 Preparazione .......................................................................... pag. 11 EUCARISTIA COME SEGNO LETTURA DEL CAPITOLO VI DI S. GIOVANNI ........................ pag. 18 Lettura d’insieme .................................................................. pag. 18 Il pane di vita ......................................................................... pag. 21 Tre brani dell’Antico Testamento ...................................... pag 25 Confronto con il cap. VI di S. Giovanni ........................... pag. 28 Il pane del cielo ..................................................................... pag. 33 Che cosa mi insegna il cap.VI di S. Giovanni .................. pag. 39

Citazioni ...................................................................................... pag. 43

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EUCARISTIA MEMORIALE DELLA REDENZIONE

Partiamo dal documento del Concilio Vaticano II “Sacrosantum Concilium”. Il n° 47 dice: “il nostro Salvatore, nell’Ultima Cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue onde perpetuare nei secoli, fino al Suo ritorno, il sa-crificio della Croce e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il Memoriale della sua morte e della sua risurrezione, sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale”.

Ci soffermiamo solo sulla frase centrale: Memoriale della sua Morte e della sua Risurrezione Nella liturgia il termine “memoriale” comprende sempre tre ele-

menti: a) RICORDO, b) RINNOVAZIONE, c) PREPARAZIONE. Memoriale è anzitutto ricordo di un fatto o di un mistero della vi-

ta di Cristo; nello stesso tempo è rinnovazione dell’efficacia misteri-ca di quanto si ricorda, non del fatto: Gesù è morto e risorto una sola volta e non è vero che in ogni S. Messa muore ancora, come talvolta si dice; Gesù è morto una volta e non muore più; è risorto una volta e non risorge più.

La Messa è anche preparazione all’incontro finale con Cristo nella Parusia. È il memoriale dell’atto redentivo, l’atto centrale della missione del Cristo. La Messa, quindi, ci richiama il passato, un fat-to storico preciso: Gesù viene condotto al Calvario, Gesù muore, Gesù è sepolto, Gesù risorge. Un fatto storico, quindi va richiama-to e rivissuto in ogni Messa; ma nello stesso tempo è un atto pre-sente, attuale nella sua efficacia; senza ripetere l’atto della morte e della risurrezione, si rinnova l’efficacia compiendo i gesti della li-turgia, chiamata appunto liturgia della S. Messa e in essa si vive già il futuro glorioso della Parusia. Ogni volta che noi celebriamo la Messa, viviamo già, nel nostro momento attuale, quello che sarà l’incontro finale con Cristo. Occorre vivere, “vedere” la Messa sempre sotto tutti e tre gli aspetti con i quali il Concilio definisce l’Eucaristia: “fonte e apice di tutta la vita cristiana”; non esiste vita cristiana che non parta da essa! La vita ha tanti valori umani, ma se

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non parte dall’Eucaristia, non è vita cristiana. È fonte, quindi, di tutta la vita cristiana e, nello stesso tempo è “apice” et vita; cioè tutta la vita cristiana deve arrivare all’Eucaristia, atto terminale di ogni aspetto della vita umana e cristiana.

“Luogo dove è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa” (sono sempre parole del Concilio): tutto il bene spirituale; pensiamo a queste parole, proviamo a viverle sul serio, proviamo almeno a sen-tirle fortemente nel nostro cuore! Continua il Concilio: “È sorgente e culmine di tutta l’Evangelizzazione”: l’intera opera missionaria catto-lica deve portare a celebrare e vivere l’Eucaristia, altrimenti è filan-tropia o sociologia, non evangelizzazione.

Se è vero questo (sono parole del Concilio!), la vocazione, quella di adoratrice eucaristica, è al centro della Chiesa e, (non è un’esagerazione) se dovessero mancare persone adoratrici dell’Eucaristia, la Chiesa correrebbe il rischio di essere astratta e non incisiva nell’umanità.

La missione dell’Adoratrice Perpetua del SS. Sacramento è vera-mente il cuore della Chiesa e voi dovete sentirvi (non per la vostra santità) il termine e il culmine di tutta la vita della Chiesa. Sono certo che ciascuna di voi Adoratrici è cosciente di questo, però vale la pe-na, forse, di sentirsi ancora maggiormente responsabili di una tale vocazione e, per lo stesso motivo, noi sacerdoti esistiamo per l’Eucaristia e per tutto ciò che ad Essa è collegato (confessione, evangelizzazione, carità pastorale, ecc.).

RICORDO Siamo chiamati a vivere la Messa innanzi tutto sotto l’aspetto

di RICORDO. Ho la sensazione che questo primo aspetto non sia tenuto sufficientemente presente. Messa come ricordo di un fat-to della vita di Gesù: che cosa significa? Come possiamo vivere questo aspetto? È necessario prepararci alla Messa, in silenzio, abbandonando tutte le nostre occupazioni, le distrazioni, i pro-blemi, gli interessi. Stiamo per celebrare l’atto più solenne che possa esistere, quindi buttiamo fuori tutto dal cuore e dalla men-

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te. Proviamo a riportarci a quei tempi e in quella situazione spiri-tuale ed umana; dobbiamo proprio chiudere gli occhi e cercare di vedere la situazione di quei tempi e in quel luogo. Ecco per-ché mi pare che anche le vesti liturgiche, che qualcuno considera inutili, ridicole, fastidiose, hanno un loro valore: ci servono per uscire dalla situazione immediata del momento, dalla materialità della vita che ci circonda, e favoriscono (come anche i gesti, le rubriche, i canti) il nostro riportarci con la fantasia, con la me-moria, in un modo quasi visivo, a quei tempi, a quella situazione spirituale ed umana. A questo proposito, potremmo qualche vol-ta pensare alla situazione di quel tempo: che idea di Messia ave-vano? Come fu accolto Gesù? Che rapporto c’era tra i vari grup-pi (farisei e gli altri)? In questa luce vedo molto utile, ad esem-pio, lo studio della storia d’Israele per conoscere meglio usi, co-stumi, situazioni. Soprattutto dobbiamo rivedere e risentire Gesù nell’Ultima Cena, perché è in questa occasione che è stata istitui-ta l’Eucaristia. Come fare? Suggerisco di leggere, proprio come preparazione alla Messa, il capitolo XVII di S. Giovanni (discor-so dell’unità o preghiera sacerdotale); basta rileggerne una parte, fino a quando “scatta il cuore” e sto lì. Io riguardo la descrizio-ne, i discorsi, la situazione dell’Ultima Cena e, partendo da qui, provo a rivedere i volti delle persone che sono alla stessa mensa: Giuda, il buon Giovanni che vive serafico, Pietro con i piedi per terra…E mi fermo a guardare i loro volti, cerco di capire i loro pensieri e sentimenti. A volte, invece, provo a rivedere Gesù che percorre la Via Crucis, a rivedere il Calvario, Gesù in croce. Op-pure possiamo… sentire il silenzio del sepolcro vuoto: qual è il nostro stato d’animo di fronte al sepolcro vuoto? Smarrimento? Gioia? Speranza?

Rendiamo più umana, più reale, più viva la celebrazione della

Messa. Riviviamo in noi i sentimenti di Gesù al momento dell’istituzione dell’Eucaristia.

a) Innanzi tutto la volontà di redenzione: primo sentimento, fonte degli altri sentimenti del cuore di Gesù; volontà di reden-

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zione significa volontà di rappacificazione tra l’uomo e Dio, perché in questo sta la gloria di Dio Padre. Il fine ultimo di tut-to quello che Gesù compie è la gloria del Padre, e poiché la gloria del Padre sta nella rappacificazione tra Dio e l’uomo, Gesù vuole, realizza la rappacificazione affinchè il Padre sia glorificato. Dio Padre è l’alfa e l’omega di tutta la realtà e della storia: Gesù Cristo è (…solo!) la porta, la via; il termine di tutto è Dio Padre: sarà Lui a giudicarci, a riconoscerci il premio o il castigo. b) Un secondo sentimento di Gesù è l’atteggiamento di offerta al Padre: un atteggiamento, non una costrizione; Dio Padre non gli ha detto: “Fatti uomo, muori per me!”. È stata un’accettazione di offer-ta libera e volontaria; libera, ricordiamoci e noi lo dimostriamo con la nostra partecipazione… libera alla Messa! c) Un terzo sentimento di Gesù è l’accettazione della sofferenza come via alla redenzione. Non credo che Gesù abbia detto: “Vo-glio soffrire, bramo soffrire”; non era masochista; era sanissimo, pe-rò ha accettato la sofferenza perché volontà del Padre, come atto re-dentivo. Non è umano accettare la sofferenza in sé, oppure volere la sofferenza, ma è atto cristiano accettarla come partecipazione alla croce di Cristo, alla Sua sofferenza. d) Un altro sentimento: il desiderio di amore e di unione peren-ne con i Suoi, desiderio che vuol dire bisogno forte, insopprimibi-le; li chiamavano proprio “i Suoi”, dice il Vangelo: “Avendo amato i Suoi, li amò sino alla fine”. E che cosa ha fatto per loro? È morto in croce, proprio come ultimo atto di questo amore concreto verso i suoi amici. Ricordiamo quel grido unico del capitolo XVII: “UT UNUM SINT” (affinchè siano una cosa sola!); per questo –dice Ge-sù- io istituisco l’Eucaristia, per questo accetto di soffrire, di morire in croce e poi risorgere: “UT UNUM SINT”, non perché siano belli, non perché siano contenti, non perché non abbiano sofferenze, no! Quante volte, durante la S. Messa preghiamo così: “Padre, siamo qui a partecipare alla Messa ut unum sint gli uomini di oggi? E poi,

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sempre nel capitolo XVII: “Ti prego, Padre, non solo per loro, ma anche per quelli che crederanno per mezzo loro, perché anche loro siano una cosa sola”. Bella questa piramide (non so come chiamar-la): “Ti prego per coloro i quali sono qui con me, ma anche per quelli che per mezzo loro crederanno e via via, fino alla fine dei tempi, affinchè tutti IN NOI, IN ME, siano una cosa sola”. Ricapito-lando: riportiamoci a quei tempi, rivediamo Gesù nell’Ultima Cena, risentiamo in noi i suoi sentimenti. E ancora: richiamiamo allo spi-rito gli atteggiamenti degli altri discepoli: come si comportavano, che cosa sentivano (smarrimento, incomprensione...). Scrive il Car-dinal Martini sulla crisi di S. Pietro: ”Povero Pietro, non capiva più chi fosse questo benedetto maestro! E Giuda? E gli altri due fratelli: chi sarà il primo di noi? Che vantaggio ne trarremo? Che cosa avranno capito gli Apostoli circa la missione di Gesù? Ad un certo punto scappano tutti, si rifugiano nel Cenacolo. Pensiamo anche alle pie donne: lo guardano…a distanza; piangono, ma al di là delle transenne. Una sola ha saltato le transenne ed è andata ad asciugare il volto di Gesù; le pie donne condividono a distanza. Chissà se noi siamo capaci di condividere i sentimenti di Gesù! Pensiamo poi agli atteggiamenti delle autorità del tempo: l’autorità civile che faceva di tutto per eliminarlo, poiché erano convinti che, una volta eliminato, non avrebbero avuto più problemi; pensiamo, invece, al tormento, alla rabbia delle autorità religiose che, pur non capendolo, intuivano che era diverso dagli altri: “Ma è il Messia promesso, l’atteso o non è il Messia? Non può essere lui: lo conosciamo! È il figlio di Maria e di Giuseppe!”. Pensiamo poi a un altro sentimento splendido: quel-lo della Maddalena. Va al sepolcro di Gesù e lo trova vuoto; poi vede Gesù vivo: smarrimento, speranza, confusione, gioia! Pensia-mo poi ai sentimenti degli Apostoli quando arriva la Maddalena nel Cenacolo e afferma di aver visto Gesù risorto. La considerano paz-za, ma Pietro comincia a capire, eppure non si sbilancia, sembra du-ro ed irremovibile; quando gli chiedono: “Tu, Pietro, che cosa ne dici?”, risponde: “È vero, è risorto, lo aveva detto Lui”. Se tutti questi sentimenti non li riviviamo nella nostra memoria durante la celebrazione eucaristica, se trascuriamo il ricordo di ciò che avven-ne a quei tempi, che Messa asettica, fredda, astratta…!

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RINNOVAZIONE Il secondo aspetto del Memoriale è la RINNOVAZIONE

dell’efficacia del fatto storico mistero di Cristo. La Messa ci fa rivivere la rinnovazione dei frutti della Redenzione. Ogni mistero della vita di Gesù è un sacramento, ossia un segno efficace (non solo segno, ma efficace); significa che, mentre lo ricordiamo, men-tre lo facciamo rivivere attraverso i gesti, attraverso i testi, ossia attraverso l’azione liturgica, questo ricordo ridiventa vivo nella sua efficacia, cioè ridiventa sempre efficace nel tempo, qui, ora, per gli uomini di oggi. La S. Messa è segno efficace della Redenzione, ma nella misura in cui la vivo come ricordo. Il valore, lo scopo dei te-sti liturgici dell’ A.T. e del N.T., le parti mobili, tutti i gesti che ri-petono quelli compiuti da Gesù (prese il calice, prese il pane), le parole che Egli pronunciò, è quello di rinnovare l’efficacia dell’atto redentivo. Gesù, con la morte in croce, ha reso gloria al Padre, con la Messa rinnoviamo quell’atto di Cristo nel suo dupli-ce effetto: rendere Gloria al Padre e salvare gli uomini.

Ogni volta che celebriamo la Messa, ridiventiamo figli amati di Dio. Dio ci ama sempre di un amore infinito e non smette mai di amarci un istante in modo straordinario, ma siamo noi che attra-verso la Messa ci rendiamo ancor più conto di essere figli amati di Dio. Infatti (forse non ci pensiamo molto) prima del Padre No-stro, perché “osiamo dire”? Osiamo dire “Padre Nostro” perché abbiamo celebrato ancora, abbiamo rinnovato la consacrazione e quindi siamo ancora di più, da parte nostra, figli amati di Dio. Con la Messa, inoltre, ci rivestiamo maggiormente di Cristo e ci uniamo ai nostri fratelli: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal.2,20). Io mi auguro che tutti i sacerdoti, ad ogni Messa che celebrano, si fermino qualche istante dopo aver ricevu-to la Comunione e possano dire: “Se è vero che quello che ho consumato è Gesù Cristo vivo, allora è vero che (almeno fino a che ci sono le Sacre Specie) non sono io che vivo, ma Gesù vive in me!”. Cose vere, reali, lo sappiamo tutti, ma quanto è bello ogni tanto ripensarci per cercare di viverle sempre di più, perché è in questo modo che ci santifichiamo ed è bello che ogni atto sacra-

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mentale, ogni atto liturgico, richieda la Messa. È giusto, perché la Messa è tutto e, come rinnovazione dei frutti dell’azione salvifica di Cristo, opera due cose molto belle:

a) la liberazione di ogni colpa, dal male, dal peccato (non solo da quello mortale, ma anche dalla tentazione al male che ognuno ha in sé); l’Eucaristia realmente ci libera da questa tensione al male, ci libera dalla materia, la quale acquista valore sacro, diven-ta più spirituale: anche il lavoro acquista valore sacro dall’Eucaristia. Avviene anche la liberazione dal limite; l’uomo di oggi sente molto il limite, la fatica, la mancanza di mezzi come limite che mortifica l’uomo; la morte come limite sommo, la ma-lattia come limite all’azione fisica; anche il dover lavorare per vi-vere è sentito come limite. L’Eucaristia ci fa superare il limite della morte, della malattia, delle privazioni, della fatica, di tutto, perché ci inserisce nel SEMPRE, in Gesù che è morto, ma che ormai è risorto e vivo, ci inserisce al di là del tempo. Ci può es-sere la tentazione di vedere Gesù Cristo nell’Eucaristia venire a me nel tempo; è vero, viene nel tempo e quindi mi aiuta a vivere la mia vita; ma sono io che mediante l’assimilazione mia a Lui, che è ormai glorioso e vivo per sempre, quando mangio Gesù eucaristico, vengo trasformato in Lui. Ecco perché nonostante il dolore fisico e morale, nonostante l’umiliazione, il fallimento, la morte, “niente ci può separare dall’amore di Cristo”. Questo si-gnifica che quanto più noi ci lasciamo trasformare, durante la ce-lebrazione eucaristica, in Gesù, tanto più diventiamo spirituali, immortali; quindi, anche se viviamo in un luogo preciso e limita-to, anche se siamo condizionati dalla salute, dal clima, dalle cir-costanze…, viviamo già nell’eternità: “Che io viva a lungo, che io viva poco, non importa: il Paradiso è in me” (beata Elisabetta della Trinità). Io ritengo che il bisogno di superare il limite sia una delle aspirazioni più forti dell’uomo di oggi; quindi occorre la Messa ben celebrata e devotamente partecipata.

b) La Messa opera poi la consacrazione dell’uomo nella sua realtà. Tutti lo viviamo, in certi momenti lo sentiamo: ci sentiamo sacri,

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consacrati, proprietà di Dio. Ciò avviene proprio tramite la cele-brazione dell’Eucaristia, la consacrazione dell’uomo nella sua real-tà, con le sue gioie, i suoi problemi, i dolori, ecc…..tutto è consa-crato a Dio. Alcune volte nella mia situazione di sacerdote, sento la tentazione di dire: “Questa è un’attività laicale, non sacerdotale, non religiosa, sto perdendo tempo, perché quello che faccio io potrebbe farlo benissimo un laico!”. È una tentazione! Infatti, se ci penso, dico: “Io sono sacerdote, ho celebrato la Messa, quindi, sia che viva in confessionale, o che faccia direzione spirituale, o che stia predicando, oppure che stia occupandomi dell’amministrazione, TUTTO è consacrato a Dio, TUTTO è opera di Dio, TUTTO rende gloria a Dio. Il Padre nostro prega così: “Sia santificato il Tuo Nome”. Cosa significa? Come faccio io a santificare il nome di Dio, a rendergli gloria? Come faccio a riconoscere la sua divinità, a riconoscere che mi realizzo in quanto dipendo da Lui? “Sia santificato il Tuo Nome” da parte mia, si realizza mediante il mio lavoro unito alla Messa, “derivante dalla Messa”; il mio lavoro, quello che l’ubbidienza mi chiede, i miei problemi quotidiani, le persone che ho accanto, le delusioni… Così viene santificato il suo Nome. E tutto questo è una conse-guenza dell’Eucaristia. Se è vero che l’uomo viene consacrato a Dio, tutta la realtà naturale, mediante l’uomo, tutto (mare, monti, fiori, alberi, lavoro, la storia, la politica, le conquiste, ecc.) viene consacrato, lo dice S. Paolo. Quanto più l’uomo è consacrato e vive la sua consacrazione a Dio, tanto più consacra tutta la realtà; ecco perché non esiste la realtà “atea”; ecco perchè non esiste realtà insignificante, ma tutto ciò che esiste è per la gloria di Dio, nella misura in cui noi uomini, partecipando all’Eucaristia, ci met-tiamo in contatto con la realtà, portiamo in noi tutta la realtà, par-tecipiamo con il “corpo”. Che cosa significa “corpo”? Mi pare che si possa definire così: il corpo è tutto ciò che io, con la mia perso-nalità, con la mia identità, riesco a realizzare: vuol dire vita, con-quiste, rapporti con le persone, con le cose, con la natura, con il mondo. Pensiamo allora alla risurrezione dei corpi: è qualcosa di splendido! Quanto più l’uomo vive la Messa, l’Eucaristia, tanto più è capace di liberare il mondo e di consacrarlo a Dio.

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PREPARAZIONE Memoriale del mistero della Redenzione, quindi come ricordo

e rinnovazione, ma il terzo momento mi pare quello più forte e impegnativo: occorre vivere la Messa sotto l’aspetto di prepara-zione. A che cosa? All’incontro finale con Gesù Cristo (incontro finale di ciascuno di noi, quindi personale), perché questo è il fine della nostra vita e anche il “pleroma” della creazione, cioè la pie-nezza. Per vedere questo, a me piace considerare un po’ il piano di Dio per tentare di capire in che senso la S .Messa è proprio l’atto centrale della vita di ogni uomo e di tutto l’universo e, direi, l’atto culminante di tutto il piano di Dio. Vorrei riassumere questo piano di Dio in tre proposizioni e mi viene la tentazione di citarle in latino, almeno alcune parti, perché c’è una incisività diversa tra le due lingue:

a) I Cor. 15,24-28 “...Poi sarà la fine, quando Egli (Gesù Cristo) consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che Egli regni finchè non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però, quando dice che ogni cosa è stata sotto-posta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’Egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”.

Il termine “il tutto”, “l’omega”, la conclusione di tutta la realtà è Dio Padre; Gesù è la via, la porta attraverso la quale si arriva a Dio Padre. Tutta la realtà è completa, è in pace, realizzata solo quando tutto sarà sottomesso a Dio Padre.

Proviamo a vedere innanzi tutto il v.24 : il latino dice: “Deinde finis, cum tradiderit regnum Deo et Patri, cum evacuaverit omnem Principatum et Potestatem et Virtutem”. La traduzione è esatta, ma ciò che interessa ora non è la traduzione esatta, bensì entrare nella Parola di Dio: “deinde” significa “che viene giù” (“de”= dall’alto in basso), che “deriva” (ma proprio… scenden-do); “finis” non va tradotto “la fine”; qui vuol dire “completa-

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mento”, “pleroma”, cioè: ci sarà la pienezza. Come mai il termine “finis” può essere interpretato in vari modi? Mi servo di un esem-pio: il punto fermo è sempre un segnino della penna, della matita; proviamo però a guardare il valore di quel puntino al termine di un periodo, oppure al termine di un capitolo, oppure al termine di una sezione di un libro, oppure al termine del libro. È sempre lo stesso puntino, uguale, ma ha un valore, un significato diverso.

La parola “finis” non significa solo che dopo non c’è più niente, ma in questo caso, nella mente di S. Paolo corrisponde al punto fi-nale di un libro, il quale dice che tutto il pensiero è stato sviluppato; quindi vuol dire pienezza, realizzazione, completamento di tutto il piano di Dio. Quando ci sarà la pienezza? “Cum tradiderit Regnum Deo et Patri”. Il verbo della proposizione principale è un futuro semplice (finis erit); “cum tradiderit “ dice anteriorità, cioè che deve avvenire prima di quello che si dice nella proposizione principale (“ci sarà la fine”); quindi, perché ci sia la pienezza, occorre che pri-ma avvenga la consegna del Regno a Dio Padre. Qual è il disegno finale di Dio? La pienezza si raggiungerà solo dopo che Gesù avrà consegnato il regno a Dio Padre. Il latino mette anche “et”: “Deo et Patri”. Sono, a mio parere, due concetti diversi, perché dire “Dio”, vuol dire principio, vuol dire termine, vuol dire qualcosa di ontologico, ma il concetto di Padre è qualcosa di più e di molto più bello; già grandissimo e stupendo è quello di Dio, ma il concetto di Padre aggiunge qualcosa di affascinante. Quindi: ci sarà la pienezza, il completamento del piano di Dio, dopo che Gesù avrà consegna-to il Regno a Colui che è Dio e che è Padre.

Proviamo a riflettere di più su questa Parola di Dio che è stu-penda; si vede con chiarezza che il termine ultimo di tutta la realtà è Dio Padre e si vede con altrettanta chiarezza che l’artefice è Ge-sù Cristo. Quando avverrà questo? C’è un’altra anteriorità, un al-tro…cum+congiuntivo perfetto: “cum evacuaverit”, ossia ci sarà la pienezza del piano di Dio dopo che Gesù Cristo avrà consegna-to il Regno a Dio Padre, ma prima di consegnarlo, deve eliminare quanto gli si oppone. Cerchiamo di capire: “evacuo” è un concet-to latino; è formato da “vac-“ che significa “vuoto” e da “e” che indica il movimento dall’interno all’esterno, significa far uscire,

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come se fosse una bottiglia piena di liquido dalla quale faccio usci-re tutto quello che è contenuto e lo verso per terra fino a quando sparisce. Quindi: prima di “evacuare”, buttar fuori da se stesso, da quello che crede sia la realtà, deve annientare, far sparire tutto; poi ci sarà la consegna a Dio Padre. Che cosa Gesù deve vincere e annientare? “Omnem principatum et potestatem et virtutem”. Anche qui occorre qualche parola di spiegazione. “Omnem” non significa il tutto di una realtà, tutta quanta una singola realtà (avrebbe usato “totum”); esprime invece realtà distinte, quasi per dire che sono tante le singole realtà che deve far scomparire e mette tre termini non inutili: principatum, potestas, virtus. Il “principatum” è ogni potenza organizzata politica che si oppone, “potestas” è ogni potere personale (la patria potestà, per esem-pio), e “ virtus” è la forza personale dell’individuo, la violenza fisi-ca. Ecco il piano finale qual è: si realizzerà dopo che Gesù Cristo avrà fatto scomparire tutte le singole potenze, forze ( non solo uomini) che, organizzate o individuali, cercano di opporsi al piano di Dio. Ecco allora il v.28: “Quando tutto gli sarà sottomesso (a Gesù Cristo), anche Lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio (il Padre) sia tutto in tutti. È meraviglioso considerare questo piano finale di Dio!

b) Un secondo passo che interessa la nostra riflessione è tratto dal-la lettera agli Efesini:“…ricapitolare tutte le cose in Cristo”. In lati-no: “instaurare omnia in Christo, quae in coelis, quae in terra sunt, in ipso” (Ef.1,10).

Tutto il capitolo primo andrebbe letto perché presenta il piano divino della salvezza,ma ci interessa il v. 7 e soprattutto il v.10. Il v. 7 recita: “ E questo a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua gra-zia”. Proviamo a ricordare ciò che è stato detto prima: Gesù Cristo deve, dapprima, sottomettere tutto. Qui aggiunge che in Gesù ab-biamo la redenzione nostra, ma mediante il suo sangue.

Il v.10 dice: “…il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. È giusto il verbo

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“ricapitolare”, ma il latino “instaurare”…quanto è forte e incisivo! La radice “st” dice sicurezza, dà l’idea di un pilastro inamovibile, qualcosa di estremamente solido, qualcosa che niente e nessuno può scalfire, spostare o distruggere. Il prefisso “in” significa met-tere dentro, inserire in questa sicurezza, per cui niente può abbat-tersi contro.

Ecco qual è il secondo passo del piano di Dio: occorre instau-rare, fare esistere, dare solidità, dare sicurezza, dare stabilità a tutte le cose (omnia) in Cristo; quanto più le varie realtà esistenti (uo-mini, cose, storia, tutto) vengono messe in contatto con Cristo, in rapporto con Lui, tanto più esse acquistano sicurezza, solidità.

“Omnia” significa tutto, non solo ciò che è tangibile; tutto quanto esiste acquista solidità in Cristo (in ipso, cioè proprio in Lui!).

Siccome tutto quanto esiste in Cristo non viene evacuato, non viene annientato, perché, se esiste in Cristo, non è una potenza, una forza, un qualche cosa che si oppone a Gesù, ma esiste, vive proprio grazie a Lui: chi è in Cristo, è salvo e farà parte del Regno che verrà consegnato al Padre.

c) Da ultimo prendiamo in considerazione il v. 20 del capitolo I della lettera ai Colossesi che costituisce la parte dogmatica, il pri-mato del Cristo. Con chiarezza si parla qui della morte in croce di Gesù Cristo. Certo, bisogna “instaurare” tutte le cose in Cristo, ma c’è la rottura, c’è il peccato: allora ecco il terzo e ultimo mo-mento: “Per eum reconciliare omnia in ipsum, pacificans per san-guinem crucis eius”, che si traduce: “Per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce”. (Col.1,20) Occorre “reconciliare”; è giusto dire “riconciliare”, ma pensiamo al significato di “concilium”, quindi re-conciliare. “Concilium” è il cerchio e il cerchio è segno di perfezione nell’uguaglianza di valori, perché nel cerchio un punto è uguale all’altro (perché tutti i punti sono equidistanti dal centro) e non c’è soluzione di continuità.

L’armonia, la perfezione tra Dio e l’uomo avviene solo quando c’è il cerchio, quando il cerchio è chiuso. Il peccato rompe il cer-chio e allora occorre che qualcuno abbia a ri-chiuderlo, a riconci-

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liare, cioè ricomporre l’armonia tra Dio e l’uomo. Come avviene ciò? “Per eum”. Per + accusativo è complemento di luogo, di mo-to attraverso luogo ed è nello stesso tempo complemento di mez-zo, indicato da una persona. Questo “per eum” significa che la ri-conciliazione o ri-armonizzazione tra Dio e l’uomo avviene per opera di Gesù Cristo, facendo passare le realtà attraverso Gesù Cristo. Viene allora in mente il modo in cui nell’ Antico Testa-mento si realizzava un patto tra l’uomo e Dio: si divideva l’animale, con il fuoco si passava in mezzo, purificandolo. Allo stesso modo, attraversare Gesù Cristo è indispensabile per creare la riconciliazione tra Dio e l’uomo: è Lui che opera, che agisce ed è Lui il luogo, la via, la porta; attraversandolo tutto ( ecco il signi-ficato della ferita al costato) c’è la riconciliazione con Dio Padre!

S. Paolo è perfino esagerato, perché non solo dice “per eum”, ma addirittura “in ipsum”: in + accusativo vuol dire movimento, vuol dire: andare dentro; non è solo complemento di moto a luo-go, ma di moto in luogo. È Gesù che opera, che salva: bisogna at-traversare Lui, bisogna portare tutto dentro in Lui; ossia, prendere me, la mia mente, il mio cuore, i miei sentimenti, la mia volontà, i problemi, la mia persona e spostarla da dove è adesso per portarla in Lui.

Dopo i due complementi di moto attraverso luogo (per eum) e di moto in luogo (in ipsum), ecco finalmente lo stato in luogo (in ipso): quando sarò in Lui, sarò salvo. È un discorso chiaro, ma S. Paolo non ha finito; ecco dov’è il nocciolo: tutto questo avviene “pacificans”, parola che deriva da ”pax”, cioè pace, sintonia, ar-monia con se stessi e con Dio, mancanza di tormenti, tranquillità. “Pacificans” significa fare l’armonia, la sintonia tra me e Dio; è participio presente, cioè indica l’azione che si svolge, non uno sta-to, una situazione, ma il divenire dell’azione, lo svolgersi dell’azione stessa. Quindi: il “per eum reconciliare omnia in ipsum” avviene quando e nella misura in cui riusciamo a metterci (meglio a ri-metterci) in pace, in armonia, in sintonia con Dio. Come avviene ciò? “Per sanguinem crucis eius”, dove per + accu-sativo indica il moto attraverso luogo; si raggiunge qui il massimo della chiarezza dell’insegnamento paolino: passando attraverso il

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sague della sua croce, rifacendo la stessa esperienza della morte di Cristo in croce. Ecco dov’è l’Eucaristia!

Celebrare la Messa non significa rifare, ma rendere ancora at-tuale ed efficace, allo stesso modo di duemila anni fa, il mistero della morte in croce e della risurrezione.

Se adesso vogliamo arrivare al fondo dell’insegnamento di S. Paolo, basta ripartire dal fondo fino al “deinde finis”. Tutte le volte che celebro la Messa, rendo efficace e attuale il “pacificans per sanguinem crucis eius”, rimetto in armo-nia, passando attraverso Gesù Cristo (riportando me e tutta la realtà in Lui), tutta la realtà e, rimettendo in armonia, “in-stauro”, do valore e sicurezza a tutta la realtà. Tutto ciò che è in Cristo Gesù è salvo, tutto ciò che non viene riportato in Lui attraverso l’Eucaristia non è nel Regno.

Il discorso è chiaro: quanto più e meglio viviamo la Messa co-me Memoriale dell’atto redentivo, tanto più collaboriamo ad in-staurare, a ricapitolare, a riconciliare tutto in Cristo, cioè a realiz-zare il piano di Dio.

Carissime Sorelle Adoratrici, la vostra vocazione non è davvero stupenda? Non è veramente preferenziale? Siete al centro della Chiesa: con il vostro esi-stere che è Eucaristia resa tangibile, in ogni situazione, in ogni atto, attraver-so la Messa, attraverso l’Adorazione, attraverso il lavoro, attraverso il niente, realizzate veramente il Regno di Dio.

Che vocazione, allora, quella eucaristica! Bisogna proprio pre-pararsi ad ogni S. Messa (purtroppo si può correre il rischio dell’abitudine) e all’Adorazione con responsabilità. Gesù parla del-le condizioni per prepararsi al sacrificio della Messa: “Se un tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia l’offerta e vai a riconciliar-ti”. È tremendo, però il Vangelo ha valore per tutto e per tutti, al-trimenti….! Non dice che la Messa è invalida se poi non vivo da autentico cristiano. È diffusa l’idea che, se uno non vive da cri-stiano, la sua Messa non vale. No, la Messa vale! Sarà incoerente chi vi partecipa, ma la Messa vale.

Gesù non parla mai del dopo, non dice mai che la Messa non è valida se poi non vivi in un determinato modo: ciò che conta è sempre la preparazione, perché la Messa è un atto terminale. Per

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chi partecipiamo alla Messa? Per la gloria di Dio! Non per i no-stri reumatismi, non sopratutto per fare comunità! La Messa si ce-lebra per la gloria di Dio. Rendendo gloria a Dio ci troviamo fra-telli, ma questa è una conseguenza. Gesù è morto e risorto per la gloria del Padre, salvando gli uomini. La Messa vale anche se io, prete, la celebro da solo, Sbagliano i preti che dicono: “Piuttosto che dire Messa da solo non la dico”. La Messa va celebrata per la gloria di Dio; tu sei prete, abilitato, incaricato di celebrare la Mes-sa…, devi rendere gloria a Dio, indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno a vederti!

È bene vivere la giornata, o una parte, come preparazione alla S. Messa; richiamare spesso l’idea della Messa: come mi sto prepa-rando? Qualche volta vale la pena di richiamare i tre aspetti del Memoriale per rendere le nostre Messe più calme, a più ampio re-spiro: è un’azione della Chiesa, anzi, del mondo! È necessario par-tecipare in tre modi, con tre avverbi: personalmente, ecclesialmen-te e cosmicamente.

- Personalmente: io, mediante la mia partecipazione ( con il cuo-re, con la mente, con le mie distrazioni) a questa Eucaristia colla-boro ad “instaurare omnia in Cristo”, a riconciliare “per eum, in ipsum” e quindi a rendere tutto Regno di Dio.

- Ecclesialmente: la Chiesa tutta, in me, collabora alla realizza-zione del Regno; è necessario, quindi, tenere presenti i problemi attuali della Chiesa.

- Cosmicamente: tutto il creato, in me, loda Dio. Quanto più e meglio (ripeto ancora) parteciperemo alla S. Mes-

sa, tanto più realizzeremo il disegno di Dio.

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EUCARISTIA COME SEGNO LETTURA DEL CAPITOLO VI DI S.GIOVANNI

LETTURA D’INSIEME Sono solo spunti di riflessione, ma è necessario che ciascuno

legga più volte il testo del capitolo VI con molta attenzione, la-sciando la libertà allo Spirito Santo di parlare. Sono convinto che questo lavoro serve se ciascuno dedica tempo, ma con tutto il cuore, con calma, leggendo parola per parola e ascoltando quello che lo Spirito Santo gli suggerisce.

Come affrontare questo capitolo? Comincio a notare che il cap. VI di Giovanni ci dà un insegnamento molto importante; lo ricavo dalle circostanze ambientali che si trovano all’inizio del ca-pitolo e che richiamano le circostanze ambientali del cap. V di Matteo ( le Beatitudini). Sia in Matteo sia in Giovanni troviamo lo stesso luogo, la montagna; Giovanni scrive che Gesù, dopo questi fatti (guarigioni), andò altra riva del lago di Tiberiade. Come mai dice: “Andò all’altra riva”? Era proprio necessario? Indica quasi una pausa, uno stacco; Gesù sembra dire: “Qui non si tratta di una continuazione dei miracoli narrati prima, di ciò che stavo di-cendo, ma devo dirvi ora una cosa molto importante”. Mi pare che questo andare all’altra riva voglia dire proprio: “Ascoltatemi un momento, sospendete i vostri pensieri, provate a concentrarvi su quello che vi sto per dire”. “Una grande folla lo seguiva, ve-dendo i segni che faceva sugli infermi”. Sì, è vero che lo seguiva perché vedeva i segni che faceva sugli infermi, ma anche qui la grande folla vuole significare che Gesù non sta facendo un collo-quio personale, ma sta parlando a tutti; questo dà solennità, im-portanza, grandezza al discorso che sta per fare.

“Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi di-scepoli” (v.3).Questa mi pare che sia la nota più caratteristica. Era necessario dire che Gesù salì sulla montagna? Che cosa significa: “…e là si pose a sedere con i suoi discepoli”? Proviamo a guarda-re l’inizio del cap. V di Matteo: “Vedendo le folle, Gesù salì sulla

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montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli”. Direi che è identico. Salire sulla montagna ha un po’ il significato del sedere in cattedra, salire sul pulpito, quasi per dire: “Adesso vi sto per dare un insegnamento particolarmente importante. Non è un colloquio, non è una chiacchierata, non è un dialogo. Ascolta-te, parlo Io! Solo Io, perché Io ho da comunicarvi un grande mes-saggio”. Proprio per rendere autentico e solenne questo discorso, i discepoli gli si siedono attorno in cerchio, particolarmente gli Apostoli che sono i testimoni più qualificati.

Il cap. VI, ci dicono gli esegeti, può essere letto in modo mes-

sianico ed eucaristico , anzi, probabilmente va letto soprattutto come discorso messianico e l’aspetto eucaristico si inserisce mera-vigliosamente nel discorso messianico, quasi per dire che l’Eucaristia è la realizzazione, la presenza attuale, nella storia, della missione messianica di Gesù.

a) MESSIANICO

Proviamo a guardare quanti elementi in questo cap. VI ci ri-chiamano il Messia: dice volutamente Giovanni che siamo vicini alla Pasqua. La folla perché lo seguiva? Perché vedeva i segni che faceva, ma la folla lo va a cercare al di là del mare per riconoscerlo Messia secondo i propri criteri. Sì, perché ha fame, ma, dice qui, perché vede i segni e la folla ormai è in attesa del Messia e, visto ciò che Gesù fa, lo vuole dichiarare re, lo vuole riconoscere come Messia.

Allora si capisce perché il discorso è tenuto a Cafarnao. Nella sinagoga di Cafarnao Gesù si era messo a leggere il rotolo delle profezie circa il Messia; ora vuol mostrare il compimento di quelle profezie.

Altro elemento messianico: la gente vuole scrutare Gesù per vedere i segni e, visti i segni che fa, lo vuol proclamare re. Infatti ai vv.14 e 15 dice: “Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: ”Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo””. È stupendo! La gente lo va, sì, a cercare per-ché ha fame, ma (vedete che è innanzi tutto un discorso messiani-

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co) perché capisce che forse è Lui il Messia: “Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo”.

Un altro elemento che ci fa pensare anzitutto ad un discorso messianico, sono le cosiddette opere a cui Dio avrebbe concesso come ricompensa il Messia: “Che cosa dobbiamo fare per com-piere le opere di Dio? (v.28). Le opere buone non sono le circo-stanze esterne, ma: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che Egli ha mandato”. (v.29)

Altri elementi messianici sono i richiami non rari alla storia del popolo (Mosè e la manna, per esempio).

Nella lettura di questo capitolo teniamo presente il valore mes-sianico, altrimenti corriamo il rischio di diminuirne il valore pro-fondo, ma ricordiamo anche l’aspetto eucaristico. b) EUCARISTICO

Alcuni studiosi della Bibbia pensano che il discorso eucaristi-co sia stato addirittura inserito nel discorso messianico del se-gno. Il discorso fondamentale iniziale è quello messianico: la gente chiede un segno; partendo dal discorso del segno, Gesù inserisce quello eucaristico e dice: “Io (!) sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo (il mio corpo: io) è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”. (vv.48-50). Emerge un legame forte tra discorso messianico ed Eucaristia: il Messia è nell’Eucaristia. A proposito di questo inserimento del discorso eucaristico in quello messianico, dice la Bibbia di Gerusalemme: secondo al-cuni un discorso eucaristico sarebbe stato inserito nel racconto-discorso seguente: ai giudei che reclamano un segno analogo a quello della manna, Gesù risponde: con l’insegnamento del Pa-dre che trasmetto agli uomini sono io il vero pane, assimilabile mediante la fede. I giudei non comprendono, ad eccezione di Pietro e dei discepoli.

Un’ altra osservazione: Giovanni lega l’Eucaristia all’episodio

della moltiplicazione dei pani, i sinottici legano il discorso eucari-

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stico all’Ultima Cena. Non c’è contraddizione fra di loro: Giovan-ni vede l’Eucaristia partendo dal segno, il pane; infatti tutto il di-scorso è impostato sul segno che chiedono a Gesù per poterlo ac-cettare come Messia, quindi è ovvio che il discorso si sviluppi sul segno. I sinottici partono dall’evento, ma tutti hanno lo stesso oggetto: l’Agnello immolato sulla croce che costituisce la realtà ultima del segno e dell’evento. Oserei dire che Giovanni e i sinot-tici si completano a vicenda.

IL PANE DI VITA Il capitolo VI inizia con una folla di affamati che vengono ab-

bondantemente sfamati da Gesù. È raccomandabile, a questo punto, la lettura dal v.1 al v.13: “... raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Li raccolsero e riempirono dodici ca-nestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo avanzati a coloro che avevano mangiato”.

Perché dodici canestri? Perché dodici sono le tribù d’Israele, quasi per dire: tutto il popolo, in tutte le sue realtà, in tutta la sua composizione, ha ricevuto in abbondanza e addirittura in ecce-denza.

Una folla di affamati e Gesù li sfama abbondantemente. Che cosa mi dice questa immagine? Solo chi ha fame, cioè non è sazio, sente il valore concreto di questo discorso per la sua vita persona-le, avverte che non è un discorso generico. Se vogliamo veramen-te entrare in sintonia con quanto viene descritto nel cap. VI, se vogliamo sentirci coinvolti personalmente, dobbiamo essere af-famati. Se, invece, siamo sazi, questo discorso diventa una lezione di principi e nient’altro. Leggendo questo brano, dobbiamo chie-derci: “Ma io sono sazio? Penso di aver risolto tutti i miei pro-blemi? Sto bene così come sono?”. Occorre che ci poniamo i problemi profondi della Chiesa, del mondo. Occorre sentire su di noi il problema di non trovare la soluzione di certe questioni grosse della Chiesa e del mondo (giustizia, dignità della persona, uguaglianza, insicurezza del lavoro, educazione, vocazioni, il vero

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problema di ciò che conta e di ciò che non conta nella vita). Oc-corre che ogni tanto, per leggere con frutto questo capitolo, ci poniamo nella situazione di dire: “Ma qui, come risolvo questo problema? Qual è la soluzione giusta? Stiamo attenti a non vivere solo i nostri problemi personali!

Occorre scoprire in noi dei vuoti, dei bisogni del cuore, delle insoddisfazioni profonde e delle insicurezze. È uno stato d’animo necessario per porci tra quella folla di affamati; solo se ci sentiamo coinvolti, potremo dire: “Tu, Gesù, che cosa mi combini? Mi ser-vi oppure no?”. Devo sentire una necessità profonda di aiuto, gri-do autentico nell’oscurità: “Gesù, ho bisogno, abbiamo bisogno di Te!”. Ecco dov’è il valore della nostra sofferenza (che diventa sof-ferenza personale per un motivo o per l’altro; che diventa, a volte, angoscia): ci rende poveri, ci inserisce tra quella folla di affamati. Ricordiamo che Dio sfama sempre abbondantemente.

Sempre a proposito del pane di vita, un’altra domanda: perché

Giovanni imposta tutto il discorso sul segno del pane? Perché i giudei hanno chiesto un segno. A questo proposito riferisco un commento di padre Cantalamessa:

“Che cosa vuol dire il Vangelo quando introduce la compren-sione dell’Eucaristia mediante l’episodio della moltiplicazione dei pani? Vuol dire che la grazia suppone la natura, non la scavalca, non la elimina; la redenzione non annulla la creazione, ma addirit-tura costruisce su di essa. In altre parole, Giovanni vuol dire che nell’Eucaristia c’è continuità e armonia tra la realtà materiale e la grazia. Non capirà mai l’Eucaristia chi non ha mai fatto esperienza di cibo umano. Chi non ha fatto esperienza di insoddisfazioni profonde, di fame fisica, materiale, umana, cioè di non riuscire a risolvere problemi umani come quello di mantenere una famiglia, di non trovare soluzioni ad una malattia tremenda, non può capire sul serio questo discorso sulla Eucaristia (lo vede quasi come un’evasione). Non capirà mai l’Eucaristia chi non ha fatto espe-rienza dello spartire il pane, del mangiare insieme.

Per spiegare l’Eucaristia siamo abituati a parlare “transustan-ziazione”; è giusto, però ricordiamo che il segno resta; la specie

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del pane e del vino restano anche se cambia la sostanza (non è più pane, non è più vino: è Gesù vivo e vero); le specie restano e noi mastichiamo le specie. Forse noi che siamo abituati ogni giorno a cibarci dell’Eucaristia, abbiamo bisogno di ricordarci questo. Di che cosa sono segno il pane e il vino prima della consacrazione? Sono “segno della fecondità della terra”.

a) PRIMA della consacrazione

Se ricordiamo le specie, perché non pensare quando riceviamo l’Eucaristia, che è presente tutto il cosmo, la profondità della ter-ra? Il segno del pane e del vino ci riporta alla profondità della ter-ra, al lavoro dell’uomo, alla sollecitudine del padre di famiglia che deve procurare il cibo materiale (cioè le cose visibili, concrete), all’unità di coloro che mangiano insieme. Se il segno del pane e del vino rimane come specie nell’eucaristia, dopo la consacrazio-ne, vuol dire che nell’Eucaristia, in Gesù, è presente tutto il co-smo, tutta l’attività dell’uomo.

b) DOPO la consacrazione

Di che cosa è segno il pane dopo la consacrazione? È segno del sacrificio di Gesù. Anche la Comunione ricevuta al di fuori della Messa (per validi motivi) è una profonda, personalissima, to-tale partecipazione al sacrificio di Gesù. È segno del suo amore per l’uomo, quindi, mangiando l’Eucaristia io rivivo l’amore di Dio e di Gesù verso gli uomini. È segno del nutrimento spirituale; è segno dell’unità del popolo di Cristo. Questa è la realtà del pane e dell’Eucaristia. Il pane non è solo insieme di molecole, non è il chimico che conosce la realtà profonda dell’Eucaristia, è forse il contadino che ha coltivato il grano o il bambino che riceve il pane dalle mani della mamma.

La realtà dell’Eucaristia è amore di Cristo, è partecipazione vera alla sua morte e risurrezione, è unità della Chiesa. Nell’Eucaristia è lo stesso Cristo che si rende presente personalmente, la natura non solo accoglie la Grazia (come fa, per esempio, l’acqua nel Battesi-mo) ma accoglie l’autore stesso della Grazia.

Qualche conseguenza pratica di questa teologia eucaristica:

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1. Se l’Eucaristia è inseparabilmente radicata nella realtà natura-le del pane e del banchetto, allora il rito eucaristico non può esse-re totalmente avulso dall’esperienza quotidiana. Stiamo attenti a non celebrare delle Messe “asettiche”! La preghiera dei fedeli mi pare un ottimo mezzo per fare entrare la vita quotidiana; un rito che, volutamente, cancellasse ogni analogia con la realtà del pane e del banchetto, magari con il pretesto di accentuarne il carattere soprannaturale, non esprimerebbe pienamente la realtà. Che cosa significa questo? Significa che un po’ di varietà, di spontaneità, nella Messa è utile; la riforma liturgica ammette la possibilità di variare leggermente alcune parti della Messa, proprio perché si possa riferire alla situazione del momento. Ci vuole equilibrio tra autenticità e solennità, tra spontaneità e coralità liturgica, in una parola, tra natura e Grazia. 2. Se da una parte, l’Eucaristia deve accostarsi alla vita, dall’altra la vita deve tendere all’Eucaristia. Il pasto quotidiano, soprattutto quello che prendiamo in famiglia, deve essere in qualche modo un gesto religioso che prepara all’Eucaristia. Occorre vivere il senso della cena, della mensa, quindi anche dell’unità attorno all’unica tavola. Mi fanno tenerezza quelle povere famiglie nelle quali ognuno mangia quando gli pare e piace; queste tavole disgregate non favoriscono il senso dell’Eucaristia, del banchetto; mentre si vede che in tante famiglie, dove ci si aspetta per sedersi a tavola e dove si usa ancora il segno di croce, c’è maggiormente il senso della famiglia e della comunità. Vi assicuro che questo prepara molto alla partecipazione eucaristica comunitaria: abbiamo anche un corpo, non solo lo spirito! Per chi vive in una comunità c’è un vantaggio indiscutibile perché, non solo a cena attorno all’unica tavola, ma tutta la vita di comunità prepara all’Eucaristia e deve essere vissuta così, anche umanamente, con tanta gioia, con impe-gno anche perché la vita comunitaria ci prepara al banchetto euca-ristico. 3. “E quando furono saziati, Gesù disse ai discepoli: raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto” (v.12). Che cosa signifi-

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ca? Mi pare proprio che il pensiero corra spontaneamente alla rac-comandazione evangelica di dare ciò che avanza ai poveri: il frutto dell’Eucaristia è sconfinato, illimitato, è per tutti, non solo per quelli che fisicamente, in quel momento sono lì, alla Mensa. Se c’è unità tra natura e Grazia nell’Eucaristia, il gesto di aiuto agli altri non ha solo un senso materiale o sociologico, ma religioso! È un aspetto del fatto che abbiamo partecipato all’Eucaristia e anche se tanti fra-telli non hanno potuto partecipare perché malati o impegnati, non importa: la mia partecipazione all’Eucaristia mi rende illimitato, mi mette in rapporto con tutto il mondo, con tutti i fratelli.

L’attenzione agli altri è proprio un’esigenza eucaristica; non posso non interessarmi degli ammalati, dei fratelli impegnati e di quelli dissenzienti, non avere quell’attenzione cordiale che è affet-to, preghiera, aiuto. Ho partecipato all’Eucaristia: non posso escludere nessuno, a maggior ragione quelli che vivono nella mia famiglia o comunità.

TRE BRANI DELL’ANTICO TESTAMENTO Dal secondo libro dei Re (2 Re 4,42-44) In quei giorni, da Baal-Salisa venne un individuo, che offrì primizie

all'uomo di Dio, venti pani d'orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo dis-se: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?».

Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche».

Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore.

(Prima lettura XVII domenica, anno B) Dal libro dell’Esodo (Es. 16,2-4 . 12-15) In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro

Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando

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pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».

Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, per-ché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Si-gnore, vostro Dio”».

La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».

(Prima lettura XVIII domenica, anno B) Dal primo libro dei Re (1 Re 19,4-8): In quel tempo, Elia si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò

a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto il ginepro.

Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”. Egli guar-dò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.

Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Su mangia, per-ché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve.

Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaran-ta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

(Prima lettura XIX domenica, anno B)

1. Queste tre letture sono molto utili per capire meglio il discorso che S. Giovanni sta facendo: discorso eucaristico, ma partendo dal pane di vita.

Che cosa vediamo in queste tre letture? Innanzi tutto la gente (prima lettura) presentata in modo generico senza distinzione di razza, di cultura, di aggregazione; quasi per dire: ogni popolo,

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ogni persona che esiste sulla faccia della terra. Poi la seconda let-tura: un popolo, anzi, il popolo d’Israele e, terza lettura, un uo-mo, uno solo, Elia. La gente generica, il popolo d’Israele, il grande profeta Elia, tutti colti di fronte al problema della fame, quasi per dire che nessun uomo sulla faccia della terra esula dal pro-blema della fame. Non solo, ma tutti vengono colti di fronte al problema della fame in una misura sempre esasperata, non normale, tanto che si richiede un intervento speciale, una dose particolare di cibo e, direi anche, un cibo particolare, perché il cibo normale o non c’è o non sfama a sufficienza per ciò che quegli uomini sono chiamati a compiere.

Perché la gente viene colta in questa particolare situazione: una fame esagerata? La fame di cui parla Giovanni esprime l’uomo di fronte ai problemi concreti, urgenti e impellenti, problemi grossi, non di fronte a problemini, quasi per dire che ci sono momenti in cui l’uomo si trova di fronte alle grandi scelte, alle grandi difficol-tà, o in situazioni che richiedono un aiuto particolare. Il grande Elia viene addirittura presentato in uno stato di sconforto, non ne può più, non ha il coraggio di andare avanti e dalla fame fisica, reale, si sviluppa un senso di abbattimento interiore, di sfiducia verso la vita e verso se stesso. Quasi a significare che in certi mo-menti noi uomini possiamo trovarci in situazioni disperate, per cui proprio nulla, nemmeno la vita, ha valore. 2. Di fronte a questa situazione di fame, vediamo che Dio, dall’alto, interviene a sfamare l’uomo; interviene abbondante-mente, in modo gratuito. Notiamo sempre l’intervento diretto, personale di Dio. In tutti e tre i casi, Dio sfama abbondantemen-te; persino Elia che vuol morire e non vuole nutrirsi, viene co-stretto a mangiare dall’angelo e trova così la forza di ripartire. Com’è bello! Dio interviene a sfamare abbondantemente l’uomo, quasi per insegnarci che la soluzione vera dei problemi profondi dell’uomo viene da Lui, con un cibo che sfugge alla programma-zione e alla realizzazione normale degli uomini. Teniamo presen-ti queste letture che ci insegnano: ecco dov’è l’Eucaristia, ecco dov’è il Pane!

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3. Troviamo ancora qualcosa di particolare nelle tre letture: c’è un crescendo (dalla prima, alla seconda, alla terza) verso la consa-pevolezza dell’uomo che questo pane viene direttamente dal Si-gnore e lo scuote, lo tira fuori dal suo torpore. C’è una consape-volezza che questo pane è abbondante e serve per il bene dell’uomo, serve perché l’uomo sia come vuole Dio.

Che cosa significa che con quel pane Elia potè camminare per quaranta giorni e quaranta notti? Che significato ha il numero 40 nella Bibbia? Significa un tempo di attesa verso un grande avve-nimento. Attesa e attesa penitente verso un grande avvenimento: Elia potè camminare non solo fino al fiume, fino a casa sua, ma fino al monte di Dio, l’Oreb, fino alla conoscenza di Dio.

Analogamente nel brano precedente, abbiamo: “…io farò pio-vere dal cielo la manna…così saprete che io sono il vostro Dio”. Il bene vero per l’uomo è la conoscenza di Dio, è il rapporto e la comunione con Dio che avviene solo mediante il suo inter-vento perché noi, con le nostre forze, non riusciamo.

CONFRONTO CON IL CAPITOLO VI DI S. GIOVANNI Le tre letture esaminate, viste in questo modo, ci introducono

meravigliosamente nel tema del pane di vita trattato in tutto il cap. VI di Giovanni. Che cosa ci dice questa pagina evangelica? Il punto di partenza è lo stesso problema fondamentale dell’uomo visto sopra, cioè la fame. Gesù , come sempre, parte dalla realtà concreta, quindi coglie queste folle che sono affama-te di una fame materiale, ma anche spirituale: “La folla seguiva Gesù perché aveva bisogno della Sua Parola di verità” dice Gio-vanni. È duplice l’aspetto della fame; non trascuriamo la fame materiale, però non fermiamoci ad essa e vediamo anche quella spirituale. Questo è il problema di fondo di ogni uomo degno di essere considerato tale. Proviamo ogni tanto a chiederci: “Io chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Come vivo? È giusto ciò che sto facendo?...” La risposta a tutte queste domande ci viene data da Gesù, perché Gesù è la risposta, è colui che sfama veramente

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ogni uomo. Quando abbiamo nel cuore un vuoto, una fame tremenda (leggi: problema, dolore…), ricordiamoci che è Gesù che sfama. Un’osservazione: il modo con cui Gesù sfama (me-diante la moltiplicazione dei pani, mediante la manna, mediante un angelo) insegna che Egli è superiore alle leggi della natura; sfama materialmente e spiritualmente al di sopra delle leggi della natura. Gesù domina la natura. Pensiamo, ad esempio, anche ai capp. IV e V del Vangelo di Giovanni, dove troviamo le guari-gioni del figlio di un funzionario reale (Giov. 4,46-54) e di un paralitico nella piscina di Betzaetà (Gv. 5,1-15), ma soprattutto al cap. VI, quando Gesù cammina sulle acque (Gv. 6,16-21). Per-ché Giovanni ci dice qui, in questo contesto, che Gesù cammi-nava sulle acque? E perché l’ha fatto? Notiamo che i discepoli si dirigono verso Cafarnao poiché questo è il luogo delle dispute messianiche. L’episodio divide quasi in due parti il capitolo: pri-ma c’è la folla affamata che viene sfamata, poi il discorso del se-gno. Per tre capitoli viene presentato Gesù che domina la natura, in modo semplice, quasi per dire: “La natura è roba mia!” e la natura obbedisce a Gesù; persino il mare, che anticamente era segno di male, di pericolo irrazionale e violento contro l’uomo, viene da Lui dominato. Ecco il nocciolo di tutto il discorso del capitolo VI: se non ci fosse questo passaggio di Gesù che cam-mina sulle acque, quello che segue, cioè il vero discorso “il pane di vita sono io” non avrebbe la stessa incidenza, la stessa forza di convinzione. È naturale che Gesù dica: “Vedete che cosa faccio? Vedete che io domino la natura ed essa mi obbedi-sce? Dunque, credetemi!”

È stupendo il modo in cui Giovanni “mette insieme” questo capitolo VI: a) prima c’è il fatto della moltiplicazione dei pani, b) poi il miracolo che dà valore, non tanto a ciò che ha fatto, quanto a ciò che sta per dire: “Se è vero che domino la natura, ritenete vero quello che adesso vi dirò, che è scandaloso”. La fede in Ge-sù, ma in Gesù che discende dall’alto come Messia, è assoluta-mente necessaria all’uomo. Proviamo a collegare ciò che ho detto adesso con i vv.14-15: “Allora la gente, visto il segno che egli ave-va compiuto (la moltiplicazione dei pani), cominciò a dire: “Que-

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sti è davvero il profeta che deve venire nel mondo! Ma Gesù, sa-pendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo”.

Forse lo riconoscono come Messia, ma secondo le loro catego-rie, secondo il loro modo di pensare, per il quale il Messia doveva essere un comandante che si ponesse alla testa di tutto il popolo per dominare tutti i popoli avversari. Gesù si rende conto che non sono ancora maturi, permette che abbiano a crescere nel pensiero: “Forse è Lui?”, però scappa, si ritira, perché non sono ancora in grado di capire, di accettare il Suo discorso. Gesù vuole che la gente si renda conto che Egli domina la natura e che abbia fiducia in Lui: allora cammina sulle acque. A questo punto può inziare veramente il Suo discorso.

Vediamo come si intreccia il discorso messianico con quello

eucaristico. La fede in Gesù eucaristico, in Gesù disceso dal cielo, è vera-

mente indispensabile per l’uomo. A proposito della fede in Gesù disceso dall’alto (Messia), vorrei fare due constatazioni.

1. La prima: l’uomo trova sempre molta difficoltà a credere in Gesù come Messia, vuole vedere i segni, non può fidarsi gratui-tamente di Lui: “Quale segno tu fai perché vediamo e possiamo crederti? …. I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto”. (vv.30-31). È la tentazione dell’uomo di avere le prove tangibili; siamo fatti di carne, siamo un po’ tutti dei S. Tommaso: vogliamo vedere, toccare.

Inoltre dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giusep-pe?” (v.42). Il dramma è questo: “Lo conosciamo, conosciamo il padre e la madre”. È la tentazione della razionalità e dell’esperienza personale. È la mente umana che sentenzia: “È vero solo se lo ca-pisco”; è il rifiuto di ciò che non è misurabile dall’uomo.

Mi pare che queste due esigenze siano esasperate nell’uomo di oggi, sia a livello teorico, sia a livello pratico, tanto che si respira un umanesimo assoluto, “sciolto”, che va per conto suo, che poggia

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solo sull’uomo colto in sé, nella sua dimensione esistenziale e nient’altro. Oggi nel nostro mondo è molto difficile credere, per questi motivi!

Che cosa occorre da parte nostra? Occorre la contemplazione! Fosse solo per questo motivo, la vocazione dell’Adoratrice è indi-spensabile! Mi auguro che ciascuna viva il più intensamente possi-bile la contemplazione, per tutto il mondo, perché l’uomo di oggi ha bisogno di essere meno razionalista, meno materialista e più contemplativo. Come è bello leggere il brano evangelico dell’Annunciazione, la contemplazione fatta persona e vita! Come mi piace quell’ “ecce”! M’immagino la Madonna indaffarata nei suoi lavori di casa, Maria che lavora con tanta gioia nel cuore e pensa al suo Giuseppe…quand’ecco arriva l’angelo ed ella si ac-corge che Dio le parla personalmente. Che cosa fa? Si ferma su quel pezzettino di pavimento su cui si trova, il corpo è fermo, non fa più niente, è lì; mente e cuore sono rivolti solo a Dio che le parla: ella ascolta e vive. Sono profondamente convinto che il mondo di oggi abbia bisogno di migliaia e migliaia di vocazioni contemplative in più, per vivere, per salvarsi, per respirare, altri-menti il materialismo soffoca tutti.

Il mondo ha bisogno di contemplativi per essere in grado di credere in Gesù “pane vivo” per l’uomo!

2. La seconda costatazione: se da una parte c’è l’uomo che trova difficoltà a credere, dall’altra c’è la ripetuta, ostinata affermazione che la soluzione dei problemi dell’uomo viene dall’alto, da Dio e non dalle tavolo rotonde, non dalle inchieste! Cito sempre dal cap. VI questo Gesù che, con calma, con pacatezza dice: “Io sono il pa-ne della vita…se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (pare voglia aggiungere: “se no, no”). E la prova qual è? “I padri vostri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti, il mio corpo è pane che scende dal cielo perché chi ne mangia non muoia”. Il di-scorso di Giovanni è sempre fatto a spirale (come il prologo): alcu-ne semirette disposte a piramide, la linea passa sempre attraverso la stessa semiretta, ma mai nello stesso punto. Significa che Giovanni torna sempre su certi temi fondamentali, ma ogni volta che ritorna

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è un approfondimento ulteriore; per questo motivo Giovanni non si può spiegare: va letto e contemplato!

Il cap. VI inizia, prima ancora di parlare della moltiplicazione dei pani, col parlare dei “segni” (le guarigioni), quindi è un discor-so messianico. Se vogliamo approfondire maggiormente questo brano, vale la pena di mettere a confronto “i segni” con il “se-gno”. Il cap. VI inizia con il problema dei segni, ma poi si parla del segno: “Allora la gente, visto il segno che Egli aveva compiu-to…” (v.14), che è ciò che conta in questo momento. Tutta la dia-triba avviene su questo segno, l’Eucaristia assurge a segno supre-mo. La moltiplicazione dei pani, ossia l ‘Eucaristia, nella Chiesa assurge a segno supremo perché questa è veramente la prova che Gesù è il Messia. In questo segno sta la soluzione dei problemi fondamentali dell’uomo.

Gesù sta conducendo la gente ad una maturazione; di fronte a questo segno, cioè l’aver così abbondantemente sfamato oltre cinquemila persone, dicono i presenti: “Allora è il Messia promes-so”; ma da questo riconoscimento, o supposizione, non potevano assolutamente arrivare fino ad accettare di mangiare il corpo di Cristo. Allora si capisce perché, a questo punto preciso, Giovanni inserisce il fatto di Gesù che cammina sulle acque: “Mi credete? Solo se mi credete, se siete convinti che io sono il pane disceso dal cielo, mangiatemi!”.

Vale la pena considerare anche l’altro brano: ”…i suoi disce-poli, trovatolo di là del mare, gli dissero: “Rabbì, quando sei ve-nuto qua?”. Perché non vuole essere proclamato re? Perché è scappato? Gesù risponde: “In verità, in verità vi dico (quando Gesù dice così è per affermare che ciò che annuncia non ammet-te discussioni): voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procura-tevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di Lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che Egli ha mandato” (vv.25-29). Sembra quasi che Gesù metta in dubbio che la moltiplicazione

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dei pani sia un segno e riprende il dialogo sui segni perché era necessario per coinvolgere i suoi interlocutori. Coinvolge sempre partendo dal concreto, dalle situazioni in cui uno si trova e af-ferma che i segni vanno interpretati, vanno letti, al di là del sen-sibile e scoprire la realtà di cui il segno è segno. Il pane che ha sfamato i cinquemila è segno solo e nella misura in cui si va al di là della materialità e si va a cogliere la realtà di cui ciò è visto come segno. Un esempio che può sembrare banale: verde, bian-co, rosso. Quando è segno? Quando al di là del colore verde, del colore bianco, del colore rosso, considerati insieme vedo la real-tà che sta sotto, l’Italia, di cui questi tre colori verticali sono i se-gni; ma se mi fermo a guardare separatamente i tre colori, non arrivo alla realtà che sta sotto. Un altro esempio: il crocifisso è immagine di Gesù in croce, ma questa realtà è immagine solo nella misura in cui e quando passo al di là di questo oggetto (con le sue dimensioni, il colore, ecc.) e colgo la realtà che sta sotto, di cui quest’oggetto è immagine, cioè Gesù crocifisso. Gesù sembra dire: “Voi non avete capito niente del segno: avete visto sfamare, ma dovete andare al di là e cogliere che cosa sta sotto; il pane è segno, ma segno del vero Pane che sfama la vera fame dell’uomo, e questo Pane sono io”.

IL PANE DEL CIELO Dopo che Gesù ha sfamato abbondantemente la gente, gli

animi si aprono spontaneamente a Lui, sono ben disposti ad ac-cogliere il suo insegnamento, ma Gesù porta gli interlocutori ol-tre, fino a riconoscere che l’uomo ha bisogno di un altro pane, un pane che viene dal cielo, cioè non prodotto dalle cose, dalla mate-ria, dalle mani dell’uomo, ma donato da Dio.

“Benedetto uomo, nulla di terreno ti può realizzare” e Gesù vorrebbe mettere in crisi questa gente dimostrando che niente di terreno può accontentare le esigenze dell’uomo. La manna che scende dal cielo è un segno valido che Dio è con l’uomo, con il suo popolo; la gente chiede un segno anche a Gesù.

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Gesù dice: “Sì, la manna è segno di una realtà, ma ciò che con-ta è la realtà, non il segno; se vi fermate al segno esterno, non co-gliete la realtà profonda. Il Padre ha mandato un altro pane, quello vero, ha mandato…la realtà di cui la manna era segno: il Pane ve-ro, che rimane (non come la manna che si consumava)”. E i di-scepoli fanno lo sforzo per arrivare alla realtà: “Dacci questo pa-ne”, non chiedono più il segno. Alla risposta di Gesù: ”Sono io”, quelli rimangono sbalorditi. Prima, dal modo con cui aveva opera-to, Gesù dice ai suoi uditori: ”Allora credetemi!”. Ora, dal fatto che Egli è la realtà, pane vero di cui la manna era solo segno, dice: “Mangiatemi, perché Io sono il vero pane”.

Riprendiamo il v.41: “Intanto i giudei mormoravano di Lui perché aveva detto: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”. Ha avuto un bel coraggio Gesù a dire: “Io sono il pane vero disceso dal cielo. Non sono un segno, sono la realtà”. Sembra esagerato, i giudei vedono una persona, non il pane. Vedono il figlio di Giu-seppe, come può Egli dire: “Sono disceso dal cielo”? il problema è umanissimo, povera gente! Se qualcuno dicesse a noi: “Mangia-temi”, come reagiremmo? Dicevano: “Noi lo conosciamo bene, conosciamo la sua nazionalità, non può essere disceso dal cielo”. Ecco il problema; il loro padri avevano visto la manna discendere dal cielo e ciò era segno che Dio era con loro, ma Gesù…; se è vero che è disceso dal cielo, allora le cose cambiano, allora devo-no accettare per forza. La loro difficoltà a questo punto è quella di riuscire a capire che quest’uomo chiamato Gesù è disceso davvero dal cielo. Se è vero, che cosa significa al di là delle parole? Gesù dice: “Nessuno può venire a me se non l’attira il Padre che mi ha mandato”. Poi fa un altro passo enorme: “Avete ragione di non capire niente, di avere dubbi, ma io non posso cambiare, questa è la Verità. Se il Padre vi dà la capacità di capire, va bene; altrimen-ti…amici come prima!”. Pare che dica: “Poche storie, la fede è un dono. Non è colpa vostra se non capite, però non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, può capirmi, può accettarmi, se non lo attira il Padre”. Pensate al verbi “attira” non “costringe”. Quindi la fede è un muoversi, dono di Dio, perché Dio libera-mente, con bontà ci prende e ci attira a sé. Dirà infatti a Pietro :

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“Beato te, Simone, perché né il sangue, né la carne te lo hanno ri-velato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. “Ecco, io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Che cosa vuol dire? Adesso che significato ha? “Voi capite solo se il Padre mio vi attira … io lo risusciterò nell’ultimo giorno, quello definitivo, cioè quello senza limite: io lo farò entrare nella vita che non ha più limite, che non ha confini”. C’è un’altra frase che merita di essere contemplata, senza essere spiegata: “Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da Lui, viene a me”: quando il Padre interviene, sono in grado di capire (non si parla di intelligenza o di altre capacità umane).

“Chiunque ha udito il Padre” (non “ascoltato”, perché ascol-tare significa porre mente, cuore, attenzione, la propria volontà per capire ciò che l’altro dice). Posso udire, invece, anche se sono distratto, anche se non ho programmato di prestare attenzione. Dio interviene all’improvviso nella vita dell’uomo, l’intervento non è programmato dall’uomo. Dio interviene quando vuole e in chi vuole, anche quando l’uomo è molto lontano dalle cose di Dio. Quando l’uomo ha udito e si pone alla sequela, il Padre lo attira e lo mette in contatto con Gesù Cristo, Pane vero, mangia il Pane, non muore, vive per sempre.

“Io sono il Pane vivo disceso dal cielo”; in latino: “Ego sum Pa-nis vivens” (non solo “vivus”). “Vivus” dice solo una situazione, uno stato; “vivens” è un participio presente=che vive=colui che vive=in quanto vive=IL VIVENTE! Siamo arrivati al nocciolo di tut-to l’insegnamento di Gesù: “Io sono il Vivente. La manna era una pane come gli altri pani, per la vita normale, ma poiché io sono il Pane “vivens”, significa che chi si ciba di me, vive di me, è anche lui vivente, non muore, non è sottomesso al limite, vive una vita al di là… quindi vivrà in eterno. Il pane che io darò (scandalo!) è la mia carne per la vita del mondo”. Dopo averli sconvolti dicendo che Egli è il Pane vivente, va oltre e dice: “Mangiatemi”. Questa mi pare la conclusione di tutto il discorso messianico-eucaristico: la redenzione operata dal Messia viene applicata a me proprio me-diante il mangiare la sua carne, perché Egli è il “PANIS VIVENS”. Solo chi mangia questo Pane ha la vita eterna: “Solo chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”.

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Che cosa significa mangiare la carne e bere il sangue? Il cibo e la bevanda vengono a far parte del mio corpo, della mia identità, della mia persona. Mangiare la carne di Gesù e bere il suo sangue vuol dire assimilarsi a Lui. Il cibarmi del corpo di Cristo produce in me, di fatto, la condivisione della vita, dell’esperienza, della missione di Gesù: anch’io divento corredentore! Il Cristo è vivo in me.Il Cristo continua a vivere nella Chiesa mediante noi; siamo veramente, con la nostra vita, i continuatori dell’opera redentrice di Gesù che è morto e risuscitato per gli uomini. Noi siamo una risurrezione continua… E magari abbiamo i musi lunghi! Dob-biamo sempre essere gioiosi, sorridenti, nonostante i nostri guai: non è sentimentalismo, è un elemento della nostra vocazione cri-stiana. A maggior ragione è un elemento della nostra vocazione religiosa se siamo consacrati!

Chi si ciba di Gesù, vive per Lui, con Lui, mediante Lui, nel Pa-dre, per sempre. Se non colloco il participio “VIVENS” nella mia vi-ta, non capisco niente. Ricordiamo a questo punto la vite e i tralci “Io sono la vite vera”. Che cosa significa? Nell’ antichità si usava molto esprimere il popolo d’Israele con l’immagine della vigna, con la vite infeconda (Is. 5). Mi sarei aspettato di vedere raffigurato Israele come un albero maestoso e robusto, una quercia, invece no! La vite, un albero brutto, sottile sottile, che ha bisogno di un soste-gno per reggersi e di tante cure: è una pianta capricciosa. La vigna, vista così, esprime proprio il popolo d’Israele, volubile, capriccioso, infedele. Gesù riprende il discorso per dire: “Israele è la vigna, la vigna infedele e siccome è infedele, il Padre la vuole distruggere, ma IO sono la vite vera, non infedele, non sterile; sono la vite vera per-ché sono nel Padre, perché sono la seconda persona della SS. Trini-tà. Voi siete i tralci, chi rimane in me, questi porterà molto frutto, sempre; io sono sempre amato dal Padre, quindi tu, tralcio, se ri-mani in me, sarai sempre amato dal Padre e, essendo amato dal Pa-dre, porterai molti frutti, sempre.”

È lo stesso concetto del “panis vivens”: chi ne mangia, sarà sempre vivens, il vivente. Dice Gesù: “Io non solo sono il Vivens nel Padre, ma sono dato, morto, offerto per gli uomini; quindi, chi mi mangia, per forza muore con me, si dona per gli uomini”. “Fate questo in

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memoria di me” vuol dire vivere in donazione continua per i fratelli. È la nostra vocazione nella Chiesa. E la vita eterna che cosa vuol dire? Vuol dire Vita di Dio, già adesso. Vuol dire che noi viviamo non più sottomessi al limite, alla caducità, al contingente, ma poiché ci cibiamo di Cristo Eucaristia, eterno, siamo in una situazione che non subisce limite, che non subisce morte. Quindi già ora, ognuno di noi, nella propria situazione, quanto più si ciba di Cristo, tanto più vive “al di là delle cose” (è il titolo di un libro di Carlo Carretto).

Siamo veramente alla conclusione del discorso di Gesù e tutti i presenti rimangono sbalorditi perché è troppo duro; molti se ne vanno. Pietro e i discepoli rimangono, nonostante non riescano a ca-pire tutto. Com’è sconvolgente il Maestro! Pensiamo a Pietro: “Vade retro satana!”, eppure bisogna seguirlo; Gesù parla di strane beatitu-dini, di croce; Pietro non capisce, eppure come capo degli Apostoli, a nome loro dice: “Tu, Maestro; hai parole di vita eterna”. Lo segue, nonostante tutto.

Vale la pena di fermare l’attenzione su questa ultima parte del cap. VI: Gesù ha appena terminato il discorso sul pane di vita; la conseguenza? Una solenne delusione per tutti: per la folla, per gli Apostoli, per Gesù. Che fallimento! La folla come si compor-ta? Che cosa pensa? Che cosa dice? Si vede delusa e tradita nelle sue speranze messianiche, nazionalistiche (per loro è la stessa cosa). Aspettavano ansiosamente questo re che avrebbe portato il loro popolo alla vittoria. Dopo la moltiplicazione dei pani la folla aveva seguito Gesù con entusiasmo, per farlo re contro l’imperialismo romano. Gesù invece fugge e tiene un discorso troppo difficile, quasi offensivo all’orecchio del popolo. A questi poveri uomini stanchi di essere continuamente umiliati dalla prepotenza romana e desiderosi di trovare in sé la forza di libe-rarsi e di scoprire uno che li guidasse in questa azione, Gesù par-la del pane e del vino, altro che re! Altro che guerra! Altro che vittoria! Questo Gesù non ha capito niente dei loro problemi; addirittura propone se stesso come l’unico risolutore dei loro problemi, ma è sulla croce e pretende che gli altri condividano la sua sorte fino in fondo: “Solo che mangia la mia carne, cioè solo chi condivide fino in fondo la mia sorte, questi vivrà in eterno”.

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Questo è troppo per la folla! E se ne va…. Tutti se ne vanno de-lusi, ma c’è un motivo: perchè hanno seguito la carne, dice il brano finale. Hanno seguito la carne, cioè la ragione, la sensibili-tà, i criteri e i calcoli umani, perciò non sono in grado di accetta-re la proposta di Gesù. La ragione umana, in queste cose, non giova a nulla. È la crisi di fede di fronte all’umiliazione dell’Incarnazione, della Croce, dell’Eucaristia; è una crisi che si ripete nella Chiesa di sempre. Eppure Gesù non cambia niente. Umanamente penso che sia rimasto molto male: si vede abban-donato da tutti e quasi si scontra anche con gli Apostoli ai quali dice: “Volete andarvene anche voi?”. Gesù, che ha scelto gli Apostoli, li ha chiamati, li ha staccati dal loro lavoro, li ha forma-ti, è disposto a perderli tutti, a trovarsi solo, ma non cambia una parola! Noi, al suo posto, saremmo tentati di concedere, di allar-gare le maglie della morale, pur di non perdere proseliti; Gesù fa l’opposto: è impassibile, duro, ostinato, li fissa negli occhi: “Vo-lete andarvene? Non mi interessa, questa è la Verità!” Forse an-che noi dovremmo essere più attaccati alla Verità.

E poi i carissimi Apostoli! Smarriti e dubbiosi. Proviamo ad entra-re nel cuore e nella mente di questi poveri Apostoli: “Dunque, chi è questo Gesù? Chi è il Maestro? Tutto quello che ha detto è vero o non è vero? È valido o no?” Hanno giocato la vita su questo Mae-stro… La folla se ne è andata, ma loro…. ?! Sono indispettiti perché Gesù appare un fallito di fronte al popolo e alle sue aspettative; gli Apostoli vengono dal popolo, in fondo la pensano come il popolo, si attendevano cioè un Messia che portasse alla vittoria: “Quando sarai nel tuo Regno chi sarà il primo?” Avevano lasciato TUTTO, eppure, sconvolti, non hanno neppure il coraggio di scappare e, fidandosi ancora di Lui contro ogni evidenza, gli dicono responsabilmente e liberamente, senza preoccuparsi delle conseguenze: “SÌ”. Questa è la fede! Non capiscono, eppure dicono di sì perché è Gesù, è il Mae-stro, perché Lui li ha amati, anzi li ama, e perché si sono affidati a Lui. Restano, ma non più come prima, ora non hanno più il velo. Prima lo seguivano perché attratti dal fascino di Gesù, lo seguivano senza impegno, senza responsabilità, senza coinvolgimento persona-le, perché erano trascinati da Lui, nel senso che non li aveva ancora

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scandalizzati. Ora sanno che hanno scelto Lui, per la vita e per la morte. Lo seguono ora responsabilmente. È il caso di una vocazione. Prima Gesù trascina, fa vedere tutto il bello, il profumo, l’entusiasmo, ma poi arriva sempre il momento in cui ci si chiede: “Ma che cosa vuol dire seguire Gesù?” E non si capisce; però, come gli Apostoli, l’invitato dice: “Rimango lo stesso, mi fido di te; in que-sto momento, responsabilmente, liberamente, dico il mio sì. Adesso io, per questo mio atto libero, mi sento coinvolto per la vita e per la morte”. E allora è stupendo perché da questo momento non ci sono più le gioie che trascinano, i dolori che scandalizzano: c’è Gesù! A me piace tanto l’episodio della pesca miracolosa: “In verbo AUTEM tuo”. Provate a mettervi nella situazione umana di Pietro, sulla riva del lago. Pietro, ignorante di tutto, non se ne intendeva di niente…, ma di una cosa sì: la pesca. Solo la pesca: in questo campo nessuno aveva qualcosa da insegnargli. Gesù va a provarlo sull’unico suo pun-to fermo: la pesca; lo prova proprio sulla pesca! Pietro deve andare contro la sua esperienza, contro la natura (Gesù gli dice di gettare le reti al mattino, quando tutti sanno che al mattino non si pesca), con-tro il suo buon nome, contro il suo interesse, contro l’opinione pub-blica, contro tutto… Questo “AUTEM” vuol dire contro, all’opposto, per assurdo: tutti i criteri umani e le leggi di natura vengono scaval-cati, gettati via, unicamente “IN VERBO TUO”: sulla parola di Gesù, non sull’esperienza personale, sulle leggi di natura. Mangiare il Mae-stro: eppure, se l’ha detto Lui…! Non capisco niente, però mi fido, quindi credo!

CHE COSA MI INSEGNA IL CAPITOLO VI DI S.GIOVANNI? LA SCELTA FONDAMENTALE

Ogni uomo, prima di osservare i comandamenti, prima di

chiedersi se sta facendo un’azione buona o no, deve, in fondo al suo cuore, accettare risolutamente Gesù Cristo, quindi Dio. Ac-cettarlo come il “necessario” per la sua vita. Fidarsi di Gesù senza misurarlo. I giovani di oggi in questo senso sono splendidi: lascia-no perdere le osservanze secondarie, ma se un giovane è autenti-

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co, arriva a pestare il naso contro Gesù e Gli dice sì o no. Se dice sì, è sì e tutto il resto non ha più importanza per lui. Mi dice di andare nel fuoco? Vado nel fuoco! Mi dice di andare in clausura? Vado in clausura! Certo che mi dà fastidio, ma… me l’ha detto Lui! Questa è una grande conquista della gioventù di oggi. È bella questa scelta fondamentale, al di là di tutti i comandamenti: le re-gole, le norme non interessano. È umanamente esaltante questo fatto ed è una celta che dobbiamo ripetere più volte nella vita, quando il Signore ce lo chiede.

A questo punto rileggiamo il cap. 24 del libro di Giosuè (I lettu-ra della domenica 21° anno B del vecchio lezionario ambrosiano).

In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d'Israele a Sichem e convocò gli anziani d'Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davan-ti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servi-re il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno ser-vito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lon-tano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio». (Gs 24,1-2.15-17.18)

Che cosa ci dice? Gli israeliti sono già nella Terra Promessa,

sono liberi, sono in casa loro. I comandamenti, cioè le leggi, ci sono già, eppure Giosuè richiede qualcosa di anteriore ai singoli comandamenti e di più importante: “Scegliete il vostro Dio, o Jahvè o gli altri!” Hanno la libertà, hanno la legge santa, ma non è sufficiente: occorre un atto anteriore e dire personalmente e re-sponsabilmente: “Accetto Jhavè”. Se non avviene questa scelta personale , anche i comandamenti non hanno valore. Solo dopo questa scelta personale, avrà senso parlare di morale, di peccato.

Perché il comandamento abbia valore, occorre che ci sia un rapporto personale tra la fonte (“Il Signore dice”) e la persona. Non è questo il caso della vita cristiana? Della vita religiosa? È

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una scelta spesso drammatica, lacerante, vissuta ripetutamente. La decisione per lo scandalo della povertà e dell’umiltà contro l’illusione dell’orgoglio e del potere, la decisione per il Dio Viven-te (ed esigente) contro tutti gli idoli morti, ma comodi. È tremen-do questo momento e non è facile. Abbiamo un po’ di rispetto per i nostri fratelli che non possono credere o non riescono a cre-dere. Non giudichiamoli! Dovremmo ripetere spesso ciò che di-ciamo nella Messa: “Signore Gesù, ti prego per tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero”. Chi sono? Non lo so, però non dovremmo giudicare nessuno.

Questa scelta di fondo è libera. Nessuno ci può obbligare a fare questa scelta. Questa è la grandezza dell’uomo, che è LIBERO. Ciascuno, proprio sulla sua pelle, giocando la sua vita, è chiamato a dire: “Scelgo Gesù”. Questa scelta consiste nel seguire Dio. Giosuè presenta al popolo le varie possibilità, spetta al popolo de-cidere liberamente; liberamente sceglie di servire Jahvè. Nel brano di Giosuè il verbo “servire” si ripete sette volte e sette è il numero della perfezione sacra. “Servire” nel vocabolario biblico, significa “aderire liberamente e gioiosamente al Dio vero” abbandonando il servire idolatrico della schiavitù egiziana. Significa dirGli: “Tutto ciò che vuoi, perché ti voglio bene, so che Tu mi vuoi bene e ve-do che così mi trovo bene”. Significa amarlo con tutto il cuore, temerlo, credere in Lui.

Al termine del cap. VI di Giovanni si legge: “Volete andarve-ne anche voi?” (v.67). Gesù li ha scelti, li ha invitati; ora tocca a loro prendere personalmente la decisione. Gesù non fa nulla per piegarli alla sua Volontà per costringerli; propone e vuole che liberamente dicano di sì. Ed è una libertà, questa, non solo “da” qualcosa, ma libertà “per” Qualcuno, finalizzata a Qualcuno, cioè una scelta positiva: per Dio e per i fratelli. Risponde S. Pie-tro a nome di tutti: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eter-na. Noi abbiamo creduto e veduto che Tu sei il Santo.” (vv.68-69). Prima hanno creduto, perché prima bisogna credere in Dio, poi si conosce.

È una decisione rischiosa, perché la libertà è rischio, può sfo-ciare perfino nel tradimento. Infatti, Giuda lo ha tradito, Pietro lo

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ha rinnegato tre volte. La decisione non ci toglie dalla lotta. La misura dell’autentica libertà è l’amore.

È necessario che ciascuno di noi, nel raccoglimento personale, rinnovi ogni tanto questa opzione fondamentale in Gesù, questa scelta totalizzante di Dio in Cristo, mediante la partecipazione “coinvolgente” all’Eucaristia.

Questo sia fatto per amore alla Chiesa, popolo di Dio in cammino e Corpo di Cristo, sempre

il VIVENTE.

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CITAZIONI Raniero Cantalamessa, L’Eucaristia, nostra santificazione, Ed. Ancora

Per un approfondimento aggiungo alcuni pensieri di Padre Ra-

niero Cantalamessa, francescano cappuccino. La Messa ripresenta e rinnova l’efficacia della morte di Cristo Grazie al sacramento dell’Eucaristia, noi diventiamo, misterio-

samente, contemporanei dell’evento; l’evento si fa presente a noi e noi all’evento. Nella liturgia della notte di Pasqua, gli ebrei del tempo di Gesù dicevano: “In ogni generazione, ognuno deve con-siderare se stesso, come se egli in persona fosse uscito, quella not-te, dall’Egitto”. Applicato a noi cristiani, questo testo viene a dire che in ogni generazione, ciascuno deve considerare se stesso, co-me se egli in persona fosse stato, quel pomeriggio, sotto la croce, insieme con Maria e con Giovanni. Sì, noi eravamo là; “tutti là siamo nati”. Quando ascolto quel canto “spiritual” negro che dice: “C’eri tu, c’eri tu, alla croce di Gesù?”, dentro di me rispondo sempre: Sì, c’ero anch’io alla croce di Gesù. Ma il sacramento dell’Eucaristia non rende presente l’evento della croce soltanto a noi; sarebbe poco: lo rende presente soprattutto al Padre. A ogni “frazione del pane”, quando il sacerdote spezza l’ostia, è come se venisse di nuovo infranto il vaso di alabastro dell’umanità di Cri-sto, come avvenne, appunto, sulla croce, e il profumo della sua obbedienza salisse ad intenerire ancora il cuore del Padre.

(pag.19-20) Quando, compiuta l’istituzione dell’Eucaristia, diede il coman-

do. “Fate questo in memoria di me” (Lc. 22,19), egli, infatti, non intendeva dire soltanto: Fate esattamente i gesti che ho fatto io, ripetete il rito che io ho compiuto; ma intendeva dire anche: Fate la sostanza di ciò che ho fatto io; offrite anche voi il vostro corpo

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in sacrificio, come vedete che ho fatto io! “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv.13,15).anzi, c’è qualcosa di ancora più pressante e accorato in quel comando di Gesù. Noi siamo il “suo” corpo, le “sue” mem-bra (cf 1 Cor.12,12 ss); perciò è come se Gesù ci dicesse: Permet-tetemi di offrire al Padre il mio stesso corpo che siete voi; non mi impedite di offrire me stesso al Padre; io non posso offrirmi to-talmente al Padre finchè c’è un solo membro del mio corpo che si rifiuta di offrirsi con me! Completate, dunque, ciò che manca alla mia offerta; fate piena la mia gioia!

(pag.25-26) Ora, cosa offriamo noi, offrendo il nostro corpo e il nostro san-

gue, insieme con Gesù, nella Messa? Offriamo anche noi quello che offrì Gesù: la vita e la morte. Con la parola “corpo”, doniamo tutto ciò che costituisce concretamente la vita che conduciamo in questo corpo: tempo, salute, energie, capacità, affetto, magari solo un sor-riso, che solo uno spirito che vive in un corpo può fare e che è, a volte, una cosa così preziosa. Con la parola “sangue”, esprimiamo anche noi l’offerta della nostra morte; ma non necessariamente la morte definitiva, il martirio per Cristo o per i fratelli. È morte tutto ciò che in noi, fin d’ora, prepara e anticipa la morte: umiliazioni, in-successi, malattie che immobilizzano, limitazioni dovute all’età, alla salute, tutto ciò che ci “mortifica”. Quando S. Paolo ci esorta, per la misericordia di Dio, a offrire “i nostri corpi”, non intendeva, con la parola “corpo”, solo i nostri sensi e appetiti carnali, ma tutti noi stessi, anima e corpo; anzi, soprattutto l’anima, la volontà, l’intelligenza. Prosegue infatti dicendo: “ Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gra-dito e perfetto” (Rom.12,2).

Tutto ciò esige, però, che noi, appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto; che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire ai fratelli, il nostro “corpo”, cioè il tempo, le energie, l’attenzione; in una parola, la

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nostra vita. Gesù, dopo aver pronunciato quelle parole: “Prende-te…questo è il mio corpo; prendete…questo è il mio sangue”, non lasciò passare molto tempo che compì ciò che aveva promes-so: dopo poche ore diede la sua vita e il suo sangue sulla croce. Bisogna, dunque, che, dopo aver detto ai fratelli: “Prendete, man-giate”, noi ci lasciamo realmente “mangiare” e ci lasciamo man-giare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza e il garbo che ci aspetteremmo. Gesù diceva: Se amate solo quelli che vi amano; se salutate solo quelli che vi salutano; se invitate solo quel-li che vi riinvitano, che merito ne avete? Così fan tutti. Sant’Ignazio di Antiochia, andando a Roma per morirvi martire, scriveva: “Io sono frumento di Cristo: che io sia macinato dai denti delle fiere, per diventare pane puro per il Signore”. Ognuno di noi, se si guarda bene intorno, ha di questi denti acuminati di fiere che lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nasco-ste o palesi, divergenze di vedute con chi ci sta intorno, diversità di carattere. Dovremmo essere perfino grati a quei fratelli che ci aiutano in questo modo; essi ci sono infinitamente più utili che non coloro che ci approvano e lusingano in tutto; lo stesso santo martire Ignazio, in un’altra lettera, diceva: “Coloro che mi lodano, mi flagellano”.

Proviamo a immaginare cosa avverrebbe se celebrassimo con questa partecipazione personale la Messa, se dicessimo veramente tutti, al momento della consacrazione, chi ad alta voce e chi silen-ziosamente, secondo il ministero di ognuno: Prendete, mangiate. Una mamma di famiglia celebra così la sua Messa, poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose. La sua vita è letteralmente sbriciolata; ma non è cosa da niente quello che fa: è un’Eucaristia insieme con Gesù!

(pag.34-35-36) “Finché Egli venga”: l’Eucaristia è attesa… finale. “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo ca-

lice, voi annunziate la morte del Signore finchè egli venga” (I Cor.

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11,26). In ogni Messa risuona questa parola dell’Apostolo; dopo la consacrazione, infatti, noi esclamiamo: “ Annunziamo la tua mor-te, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta!”. È un’eco del Maranatha, del “Vieni, Signore!” (o “Il Si-gnore viene!”) che si ascoltava, durante la celebrazione eucaristica, nei primi giorni della Chiesa. San Girolamo parla di “una tradizio-ne apostolica”, conservatasi fino ai giorni suoi, secondo la quale, nella veglia di Pasqua, non era lecito congedare il popolo prima della mezzanotte, perché fino a quel momento poteva sempre aver luogo ancora la parusia del Signore. Questo dimostra quanto era concreta e sentita questa attesa del ritorno di Cristo nella pri-mitiva liturgia della Chiesa.

L’attesa del ritorno del Signore (la “tensione escatologica” ) non è un fatto puramente soggettivo -che esiste, cioè, solo nella mente di coloro che si accostano all’Eucaristia-, ma al contrario si radica nelle profondità stesse del mistero, è intrinseca alla celebra-zione eucaristica.

(pag.159-160)

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Pro manuscripto

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