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www.writingshome.com EUGENIE EUGENIE EUGENIE EUGENIE GRANDET GRANDET GRANDET GRANDET di Honore De Balzac

EUGENIE GRANDET GRANDET - Pubblica il tuo ebook e Leggi … · borchie enormi sulle quali l'inventiva dei nostri avi ha tracciato geroglifici personali il cui significato è perduto

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EUGENIE EUGENIE EUGENIE EUGENIE

GRANDETGRANDETGRANDETGRANDET

di

Honore De Balzac

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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In certe città di provincia si trovano delle case la cui vista ispira una malinconia pari

a quella che suscitano i chiostri più cupi, le lande più squallide o i ruderi più tristi. Forse in

queste case ci sono insieme il silenzio dei chiostri e l'aridità delle lande, e gli scheletri dei

ruderi; la vita e il movimento vi sono così sopiti che un estraneo le crederebbe disabitate,

se all'improvviso non gli capitasse di incontrare lo sguardo vacuo e freddo di una persona

il cui volto quasi monastico si sporge, al rumore di un passo sconosciuto, oltre il davanzale

della finestra. Questi tratti malinconici si ritrovano nell'aspetto di una casa situata a

Saumur, in cima alla strada in salita che attraverso la parte alta della città, mena al castello.

Questa strada, oggi poco frequentata, calda d'estate, fredda d'inverno, buia in certi punti, è

notevole per la sonorità del selciato, sempre pulito e asciutto, per la strettezza della

carreggiata tortuosa, per il silenzio delle case che appartengono alla città vecchia e sulle

quali incombono i bastioni. Vi sono abitazioni tre volte centenarie ancora solide

nonostante siano costruite in legno e le loro diverse caratteristiche concorrono a

quell'originalità che raccomanda questa parte di Saumur all'attenzione degli antiquari e

degli artisti. È difficile passare davanti a queste case senza ammirare le enormi travi alle

cui estremità sono scolpite bizzarre figure e che nella maggior parte dei casi incorniciano

con un bassorilievo nero il pianterreno. Qui, delle centine di legno trasversali, coperte di

ardesia, tracciano linee blu sulle fragili mura di una casa che culmina in un tetto a falde

piegato dagli anni e i cui travicelli marciti si sono imbarcati per l'azione ora della pioggia

ora del sole. Là, si scorgono davanzali consunti, anneriti; le loro delicate sculture sono

appena visibili, ed essi non paiono abbastanza robusti per il vaso di terracotta dal quale si

levano i garofani e il rosaio di una povera lavorante. Più in là, ci sono porte decorate da

borchie enormi sulle quali l'inventiva dei nostri avi ha tracciato geroglifici personali il cui

significato è perduto per sempre. Qui un protestante vi ha proclamato la sua fede, lì un

leghista vi ha maledetto Enrico IV. Qualche borghese vi ha inciso le insegne della sua

nobiltà di toga, la gloria di un antico scabinato. C'è tutta intera la storia della Francia.

Accanto alla casa malferma a spigoli rustici dove l'artigiano ha fatto della sua pialla una

divinità, si erge il palazzetto di un gentiluomo; sull'arco del portale di pietra si scorgono

ancora i contorni dello stemma, spezzato dalle varie rivoluzioni che dopo il 1789 hanno

sconvolto il paese. In questa strada, i pianterreni adibiti al commercio non sono né

botteghe né magazzini; gli amanti del Medioevo vi ritroverebbero l'operosità dei nostri

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padri in tutta la sua ingenua semplicità. Questi locali bassi senza esposizione, senza

mostra, senza vetrine, sono profondi, bui e disadorni all'esterno come all'interno. La porta,

grossolanamente ferrata, si apre nel senso della larghezza con due battenti; quello

superiore si ripiega verso l'interno, mentre l'inferiore, in continuo movimento, è provvisto

di un campanello a molla. L'aria e la luce penetrano in quella specie di antro umido o

dall'alto della porta, o attraverso l'apertura che si trova fra la volta, il piancito e il muretto

basso nel quale vanno a incastrarsi delle solide imposte, che vengono tolte il mattino e

rimesse la sera assicurandole con sbarre di ferro bullonate. Quel muretto serve a esibire le

mercanzie del negoziante. Là, niente ciarlatanerie. A seconda di ciò che vi si vende, il

campionario esposto consta di due o tre barilotti di sale e di merluzzo, di qualche rotolo di

tela per vele, di ottone appeso ai correnti del soffitto, di cerchi appoggiati alle pareti e di

qualche pezza di stoffa sugli scaffali. Entrate, una ragazza linda, fresca e giovane, con uno

scialletto bianco, le braccia arrossate, interromperà il lavoro a maglia, chiamerà il padre o

la madre, che verranno e vi venderanno, flemmatici, premurosi o arroganti, secondo il loro

carattere, quello che chiedete, siano venti soldi o ventimila franchi di merce. Vedrete un

commerciante di legname per doghe seduto sull'uscio, che gira i pollici mentre chiacchiera

con il vicino; in apparenza non ha che dei brutti scaffali per bottiglie e due o tre fasci di

listelli; ma sul porto il suo magazzino stracolmo fornisce tutti i bottegai dell'Angiò; egli sa,

tavola più tavola meno, quante botti può fare se l'annata è buona; un colpo di sole lo

arricchisce, un rovescio di pioggia lo manda in rovina; in una mattinata il prezzo dei barili

può passare da venti franchi a sei lire. In questo paese, come in Turenna, le vicissitudini

del clima condizionano le attività commerciali. Vignaioli, proprietari, mercanti di legname,

locandieri, marinai, tutti sono alla mercé di un raggio di sole; la sera si coricano con il

timore di apprendere l'indomani mattina che durante la notte ha gelato; temono la

pioggia, il vento, la siccità e vorrebbero che l'acqua, il caldo, le nuvole obbedissero ai loro

desideri. C'è una lotta continua fra il cielo e gli interessi terreni. Il barometro di volta in

volta incupisce, rasserena, allieta le facce. Da un capo all'altro di questa strada, l'antica

Grand-Rue di Saumur, queste parole: «È un tempo d'oro!» vengono soppesate di porta in

porta. E ognuno risponde al vicino: «Piovono luigi!» sapendo ciò che gli frutterà un raggio

di sole, una pioggia al momento giusto. Durante la bella stagione, il sabato verso

mezzogiorno, non riuscirete a ottenere da questi bravi commercianti nemmeno un soldo di

mercanzia. Ciascuno ha una vigna, un podere e va a passare due giorni in campagna.

Poiché là tutto è previsto, le compere, le vendite, i profitti, i commercianti si trovano ad

avere dieci ore su dodici da impiegare in lieti intrattenimenti, in un continuo osservare,

commentare, spiare. Se una massaia compra una pernice, i vicini chiederanno senza fallo

al marito se è stata ben cucinata. Se una ragazza mette il capo alla finestra, sarà notata da

tutti i crocchi di sfaccendati. Là, dunque, le coscienze sono alla luce del giorno, così come

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quelle case impenetrabili, nere e silenziose non hanno misteri. La vita si svolge quasi

sempre all'aria aperta: ogni famiglia si siede davanti alla porta, vi pranza, vi cena, vi litiga.

Non passa persona per la strada che non venga studiata. Similmente, un tempo, quando

un forestiero arrivava in una città di provincia, gli tagliavano i panni addosso di porta in

porta. Di qui gli aneddoti ameni, di qui l'appellativo di burloni dato agli abitanti di Angers,

che eccellevano in queste facezie cittadine. Gli antichi palazzatti della città vecchia sono

situati in capo a questa strada, una volta abitata dai gentiluomini del paese. La casa,

malinconica, dove sono accaduti gli eventi della nostra storia, era precisamente una di

queste, resti venerabili di un secolo in cui le cose e gli uomini avevano quella semplicità

che i costumi francesi vanno perdendo di giorno in giorno. Dopo aver seguito le curve di

questa strada pittoresca, dove la più piccola irregolarità suscita ricordi e il cui effetto

generale è quello di farvi piombare automaticamente in una sorta di fantasticheria,

scorgete una rientranza piuttosto buia, al centro della quale si trova, un po' nascosta, la

porta di casa Grandet. È impossibile comprendere tutto il valore di questa espressione, se

non si fornisce la biografia di M. Grandet.

M. Grandet godeva a Saumur di una reputazione le cui cause e i cui effetti non

possono essere valutati appieno da chi non abbia vissuto, poco o molto, in provincia. M.

Grandet, che ancora alcuni, ma il numero di questi vegliardi diminuiva sensibilmente,

chiamavano papà Grandet, nel 1789 era un agiato bottegaio che sapeva leggere, scrivere e

far di conto. Quando la repubblica francese mise in vendita, nel distretto di Saumur, i beni

del clero, il bottegaio, che aveva allora quaranta anni, si era appena sposato con la figlia di

un ricco commerciante di tavolame. Grandet, munito di tutto il suo denaro liquido e della

dote, munito di duemila luigi d'oro, andò al distretto dove, grazie all'esborso di duecento

doppi luigi, offerti dal suocero allo scorbutico repubblicano che sovrintendeva alla vendita

dei beni demaniali, per un pezzo di pane ebbe legalmente, se non legittimamente, i più bei

vigneti del circondario, una vecchia abbazia e alcune cascine. Poiché gli abitanti di Saumur

non erano certo dei rivoluzionari, papà Grandet si fece la fama di uomo audace, di

repubblicano, di patriota, di persona che teneva in conto le nuove idee, mentre i bottai di

solito tenevano in conto le vigne. Fu nominato membro dell'amministrazione del distretto

di Saumur, e il suo spirito conciliante fece sentire la sua influenza sia sul piano politico sia

su quello commerciale. Sul piano politico, protesse gli aristocratici e impedì, usando tutto

il suo potere, la vendita dei beni degli emigrati; sul piano commerciale, fornì alle armate

repubblicane un migliaio o due di fusti di vino bianco, facendosi dare in cambio dei

meravigliosi prati compresi fra le terre di una comunità religiosa femminile che erano state

riservate come ultimo lotto. Durante il Consolato, il bravo Grandet diventò sindaco,

amministrò bene, vendemmiò meglio; sotto l'impero, fu M. Grandet. Napoleone non

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amava i repubblicani: sostituì M. Grandet, del quale si diceva che avesse portato il berretto

frigio, con un latifondista, un uomo con la particella nobiliare, un futuro barone

dell'impero. M. Grandet lasciò la carica municipale senza alcun rimpianto. Nell'interesse

della città aveva fatto costruire ottime strade che conducevano alle sue proprietà. Sulla sua

casa e sulle sue terre, grazie a vantaggiose iscrizioni catastali, gravavano imposte molto

contenute. Dopo la classificazione dei suoi diversi poderi, i suoi vigneti, grazie alle cure

costanti, erano diventati classici della zona, espressione tecnica usata per indicare le vigne

che producevano la migliore qualità di vino. Avrebbe potuto chiedere la croce della

Legion d'onore. La qual cosa accadde nel 1806. M. Grandet aveva allora cinquantasette

anni e sua moglie circa trentasei. La figlia, unico frutto dei loro legittimi amori, aveva dieci

anni. M. Grandet, che la Provvidenza volle senza dubbio consolare del fatto di essere

caduto in disgrazia come amministratore, durante quell'anno raccolse, a breve distanza

l'una dall'altra, l'eredità di Mme de la Gaudinière, nata de la Bertellière, madre di Mme

Grandet; poi quella del vecchio M. de la Bertellière, padre della defunta; infine quella di

Mme Gentillet, nonna materna: tre eredità la cui consistenza rimase sconosciuta a tutti.

L'avarizia dei tre vegliardi era tale che da anni essi tesaurizzavano il loro denaro per

poterlo contemplare in segreto. Il vecchio M. de la Bertellière definiva prodigalità un

investimento, trovando più interesse nella vista dell'oro che negli utili dell'usura. La città

di Saumur valutò dunque l'ammontare delle economie in base alle rendite dei beni al sole.

M. Grandet ottenne allora quel nuovo titolo di nobiltà che la nostra mania per

l'uguaglianza non riuscirà mai a cancellare, diventò il più tassato del distretto. Possedeva

cento arpenti a vigneto, che, nelle annate buone gli davano sette o ottocento barili di vino.

Possedeva tredici cascine, una vecchia abbazia, dove, da quell'uomo economo che era,

aveva fatto murare, preservandole in tal modo, finestre, ogive e vetrate: e poi centoventi

arpenti di terra dove crescevano e si irrobustivano tremila pioppi piantati nel 1793. Infine

la casa nella quale abitava era sua. Questo per ciò che riguardava i beni visibili. Quanto ai

suoi capitali, due sole persone erano in grado di valutarne, sia pure in modo

approssimativo, la consistenza: una era M. Cruchot, notaio, che si occupava dei prestiti a

interesse di M. Grandet; l'altra era M. des Grassins, il più ricco banchiere di Saumur, ai cui

utili il vignaiolo partecipava a sua discrezione e segretamente. Sebbene il vecchio Cruchot

e M. des Grassins possedessero quella totale discrezione che suscitano, in provincia, la

fiducia e il denaro, entrambi manifestavano in pubblico un tale rispetto per M. Grandet

che agli osservatori era possibile valutare la consistenza dei capitali dell'ex sindaco in base

alla ossequiosa considerazione di cui egli era oggetto. A Saumur tutti erano convinti che

M. Grandet possedesse un tesoro, un nascondiglio pieno di luigi, e che nottetempo si

abbandonasse alle ineffabili gioie che procura la vista di una grande massa d'oro. Gli avari

ne avevano quasi la certezza vedendo gli occhi del brav'uomo ai quali il giallo metallo

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sembrava aver trasmesso il suo colore. Gli occhi di un uomo abituato a ricavare dai suoi

capitali un interesse enorme prendono necessariamente, come negli individui sensuali, nei

giocatori o nei cortigiani, certe abitudini indefinibili, dei battiti furtivi, avidi, misteriosi che

non sfuggono a quelli come lui. Questo linguaggio segreto forma in qualche modo la

massoneria delle passioni. M. Grandet ispirava dunque la stima rispettosa alla quale ha

diritto un uomo che non deve nulla a nessuno, che, esperto bottegaio e vignaiolo, indovina

con la precisione di un astronomo quando per la sua vendemmia bisognava fabbricare

mille barili o appena cinquecento; che non si lasciava sfuggire una sola speculazione,

aveva sempre delle botti da vendere quando la botte valeva più del raccolto, che poteva

conservare nelle sue cantine il prodotto della vendemmia e aspettare di vendere il barile a

duecento franchi mentre i piccoli proprietari dovevano cederlo a cinque luigi. La sua

famosa vendemmia del 1811, oculatamente conservata, venduta a poco a poco, gli aveva

fruttato più di duecentoquarantamila lire. Dal punto di vista finanziario, M. Grandet

aveva della tigre e del boa: sapeva accovacciarsi, rannicchiarsi, studiare a lungo la preda e

alla fine balzarle addosso, poi spalancava le fauci della borsa, ingoiava una massa di scudi,

e si acciambellava tranquillo, come il serpente che digerisce, impassibile, freddo, metodico.

Nessuno lo vedeva passare senza provare un senso di ammirazione nel quale entravano il

rispetto e il terrore. Chi a Saumur non aveva provato i graffi cortesi dei suoi artigli di

acciaio? A quello, il notaio Cruchot aveva procurato il denaro occorrente per l'acquisto di

un fondo, ma all'undici per cento; a questo, M. des Grassins aveva scontato delle tratte, ma

computandogli un interesse spaventoso. Erano pochi i giorni in cui non venisse fatto il

nome di M. Grandet, vuoi al mercato vuoi durante le conversazioni serali in città. Per

qualcuno, la fortuna del vecchio vignaiolo era motivo di orgoglio campanilistico. Così più

di un negoziante, più di un locandiere diceva ai forestieri, con una certa soddisfazione:

«Signore, noi abbiamo qui due o tre famiglie milionarie; ma quanto a M. Grandet,

nemmeno lui conosce le sue ricchezze!». Nel 1816, i più abili calcolatori di Saumur

stimavano i beni immobili del brav'uomo a quattro milioni; ma poiché dal 1793 al 1817 le

sue rendite fondiarie potevano essere valutate, in media, sui centomila franchi l'anno, era

presumibile che in denaro liquido possedesse una somma quasi uguale al valore degli

immobili. Perciò, quando, dopo una partita di boston o dopo aver parlato di vigneti,

saltava fuori il nome di M. Grandet, quelli che se ne intendevano dicevano: «Papà

Grandet? ... papà Grandet deve avere qualcosa come cinque o sei milioni.» «Lei è più

bravo di me, io non sono mai riuscito a sapere l'ammontare preciso», rispondevano M.

Cruchot o M. des Grassins, quando capitava loro di sentire questi discorsi. C'erano dei

parigini che parlavano dei Rothschild o di M. Laffitte e quelli di Saumur chiedevano se

fossero ricchi quanto M. Grandet. Se il parigino, sorridendo, lo affermava con una certa

aria di commiserazione, quelli si guardavano fra loro e scuotevano la testa increduli. Una

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fortuna di tale entità copriva con un mantello d'oro tutte le azioni di quell'uomo. Se

dapprima alcuni episodi della sua vita avevano dato esca al ridicolo e alla canzonatura,

canzonatura e ridicolo avevano finito col logorarsi. In ogni suo comportamento, fin nel più

trascurabile, M. Grandet aveva dalla sua l'autorevolezza della cosa giudicata. La sua

parola, il suo modo di vestire, i suoi atteggiamenti, l'ammiccare degli occhi facevano testo

in un paese dove ognuno, dopo averlo studiato come un naturalista studia gli effetti

dell'istinto negli animali, aveva dovuto riconoscere la profonda e laconica saggezza di ogni

suo pur minimo gesto. L'inverno sarà duro, si diceva, papà Grandet ha messo i guanti

foderati: bisognerà vendemmiare. Papà Grandet sta comperando parecchio legno per

doghe, avremo vino quest'anno. M. Grandet non comprava mai né carne né pane. I suoi

fittavoli ogni settimana, come quota in natura, gli portavano provviste sufficienti di

capponi, polli, uova, burro e grano. Egli possedeva un mulino il cui locatario, oltre a

corrispondergli il canone d'affitto, doveva ritirare una certa quantità di grano e riportargli

la crusca e la farina. Ogni sabato Nanon, un donnone che era la sua unica domestica,

sebbene non fosse più giovane, faceva il pane per la casa. M. Grandet si era accordato con

gli ortolani, suoi affittuari, affinché gli fornissero le verdure. Quanto alla frutta ne

raccoglieva tanta che una buona parte la faceva vendere al mercato. La legna da ardere era

tagliata dalle sue siepi o presa dai vecchi alberi mezzi marci che egli faceva togliere dai

bordi dei campi, e i fittavoli gliela trasportavano in città bella e segata, gliela sistemavano

per cortesia nella legnaia e ricevevano i suoi ringraziamenti. Le sue uniche spese note

erano quelle per il pane benedetto, per gli abiti della moglie e della figlia e per l'affitto

delle loro sedie in chiesa; per la luce, per il salario di Nanon, per la stagnatura delle

casseruole; per il pagamento delle tasse, per le riparazioni dei fabbricati e per la

conduzione dei fondi. Aveva acquistato da poco seicento arpenti di bosco che faceva

sorvegliare dalla guardia di un vicino, al quale prometteva un indennizzo. Solo dopo

questo acquisto aveva preso a mangiare selvaggina. Le maniere di quest'uomo erano

molto semplici. Parlava poco. In genere, esprimeva le sue idee mediante brevi frasi

sentenziose pronunciate con voce dolce. Dopo la Rivoluzione, epoca durante la quale si

era fatto notare, se doveva parlare a lungo o sostenere una discussione, il brav'uomo

cominciava a balbettare in modo penoso. Quel suo balbettare, l'incoerenza del discorso, il

flusso di parole in cui annegava il suo pensiero, l'apparente mancanza di logica, attribuiti a

scarsa istruzione, erano simulati, come verrà sufficientemente chiarito da alcuni fatti di

questa storia. Del resto, quattro frasi, esatte come formule algebriche, gli servivano di

norma ad affrontare, a risolvere tutte le difficoltà della vita e degli affari: «Non so, non

posso, non voglio, si vedrà.» Non diceva mai sì o no, e non scriveva. Quando gli parlavano,

ascoltava impassibile, appoggiando il mento sulla mano destra e il gomito destro sul dorso

della mano sinistra, e su ogni faccenda si formava delle opinioni sulle quali non tornava

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più. Rifletteva a lungo sul più piccolo affare. Quando, dopo una accorta conversazione, il

suo interlocutore finiva per rivelargli le sue mire segrete credendo di averlo in pugno, egli

rispondeva: «Non posso concludere senza aver consultato mia moglie.» La moglie, che egli

aveva ridotto a una completa soggezione, in affari era il suo paravento più comodo. Non

andava mai a trovare nessuno, non voleva ricevere né avere gente a cena, non faceva mai

rumore e sembrava economizzare su tutto, anche sui movimenti. Quando era in casa

d'altri non toccava nulla per un rispetto innato della proprietà. Eppure, malgrado la

dolcezza della voce, malgrado i modi prudenti, il linguaggio e le abitudini da bottaio

venivano fuori, soprattutto quando era in casa, dove si controllava meno che altrove.

Fisicamente, Grandet era alto uno e sessantacinque, tozzo, quadrato, con dei polpacci di

trentasei centimetri di circonferenza, rotule nodose e spalle larghe; la faccia era tonda,

abbronzata, butterata; il mento era diritto, le labbra tutt'altro che marcate, i denti bianchi;

gli occhi avevano quell'espressione immobile e di fuoco che il popolino attribuisce al

basilisco; la fronte, solcata da rughe trasversali, non mancava di protuberanze

significative; i capelli, giallastri e brizzolati, erano, a detta di qualche giovane che ignorava

quanto fosse grave fare lo spiritoso su M. Grandet, bianchi e oro. Sul naso, grosso in punta,

c'era una verruca gonfia di venuzze che il volgo reputava, non senza ragione, piena di

malizia. Quel volto rispecchiava una scaltrezza pericolosa, una probità senza trasporto e

l'egoismo di un uomo che riponeva ogni suo sentimento nel piacere dell'avarizia e

nell'unico essere che per lui contasse davvero qualcosa, la figlia Eugénie, sua unica erede.

Del resto, atteggiamento, modo di fare e di muoversi, tutto in lui dimostrava quella fiducia

in se stesso che viene dall'abitudine al successo in ogni impresa. Perciò, anche se appariva

bonario e conciliante, M. Grandet aveva un carattere di ferro. Vestiva sempre nello stesso

modo e chi lo vedesse oggi lo vedrebbe come era già nel 1791. Le scarpe robuste erano

allacciate con stringhe di cuoio; in qualsiasi stagione portava calze di lana tessuta,

pantaloni corti di pesante stoffa marrone con fibbie d'argento, un gilè di velluto a righe

color giallo e pulce, abbottonato fino al collo, un'ampia giubba marrone a falde larghe, una

cravatta nera e un cappello da quacchero. I guanti, solidi come quelli dei gendarmi, gli

duravano venti mesi, e, per non sporcarli, egli soleva posarli, con un gesto abituale, sulla

tesa del cappello. Altro a Saumur non si sapeva su questo personaggio.

Soltanto sei cittadini avevano diritto di entrare in casa sua. Fra i primi tre il più

considerevole era il nipote di M. Cruchot. Dopo la nomina a presidente del tribunale di

prima istanza di Saumur, questo giovanotto aveva aggiunto al nome Cruchot quello di

Bonfons, e faceva di tutto perché Bonfons prevalesse su Cruchot. Ormai si firmava C. de

Bonfons. Se una parte in causa fosse stata tanto sconsiderata da chiamarlo «M. Cruchot»

avrebbe avuto modo di lì a poco, in udienza, di accorgersi della propria stupidaggine. Il

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magistrato aveva un occhio di riguardo per quelli che lo chiamavano «signor presidente» ,

ma era tutto sorrisi per gli adulatori che gli davano del «Monsieur de Bonfons». Il signor

presidente aveva trentatré anni, possedeva la tenuta di Bonfons (Boni Fontis), che dava una

rendita di settemila lire; contava sulla successione dello zio notaio e su quella di un altro

zio, padre Cruchot, dignitario del capitolo di Saint-Martin di Tours, entrambi reputati

uomini piuttosto ricchi. Questi tre Cruchot, appoggiati da un buon numero di cugini,

legati a una ventina di famiglie della città, formavano un partito, come un tempo i Medici

a Firenze; e come i Medici, anche i Cruchot avevano i loro Pazzi. Mme des Grassins, madre

di un figlio di ventitré anni, veniva spesso a giocare a carte con Mme Grandet, nella

speranza di far sposare il suo caro Adolphe con Mlle Eugénie. M. des Grassins appoggiava

con impegno le manovre della moglie facendo continui, discreti favori al vecchio avaro, e

si trovava sempre al momento opportuno sul campo di battaglia. I tre des Grassins

avevano a loro volta partigiani, cugini, alleati fedeli. Dalla parte dei Cruchot, il sacerdote,

il Talleyrand della famiglia, ben sostenuto dal fratello notaio, disputava con tenacia il

terreno alla banchiera, e cercava di assicurare la ricca eredità al nipote presidente. Questa

guerra segreta fra i Cruchot e i des Grassins, che aveva come posta la mano di Eugénie

Grandet, appassionava tutti i circoli di Saumur. Mlle Grandet avrebbe sposato il signor

presidente o M. Adolphe des Grassins? A questa domanda alcuni rispondevano che M.

Grandet non avrebbe dato la figlia né all'uno né all'altro. L'ex bottaio, roso dall'ambizione,

voleva, dicevano, come genero un pari di Francia al quale trecentomila lire di rendita

avrebbero fatto chiudere un occhio su tutte le botti passate, presenti e future dei Grandet.

Altri replicavano che M. e Mme des Grassins erano nobili, molto ricchi, che Adolphe era

un cavaliere a modo, e che a meno di avere nella manica un nipote del papa, un simile

matrimonio doveva più che soddisfare gente di bassa estrazione, un uomo che tutta

Saumur aveva visto con l'ascia da bottaio in mano e che, del resto, aveva portato il berretto

frigio. I più avveduti facevano notare che M. Cruchot de Bonfons era ammesso in casa a

qualsiasi ora, mentre il rivale veniva ricevuto solo le domeniche. Taluno sosteneva che

Mme des Grassins, più legata dei Cruceot alla donne di casa Grandet, poteva inculcare in

queste delle idee che, prima o poi, le avrebbero dato la vittoria. Talaltro rispondeva che

padre Cruchot era l'uomo più insistente del mondo e che fra una donna e un prete la

partita era ad armi pari. «Sono sottana a sottana», diceva un bello spirito di Saumur. Più

accorti, gli anziani del paese sostenevano che i Grandet non erano così sciocchi da lasciar

uscire dalla famiglia i loro beni, e che Mlle Eugénie Grandet, di Saumur, sarebbe stata

maritata con il figlio di M. Grandet, di Parigi, ricco grossista di vini. A questo i

cruchottiani e i grassinisti rispondevano: «Innanzi tutto, i due fratelli in trenta anni non si

sono visti due volte. Poi M. Grandet, di Parigi, ha grandi ambizioni per il figlio. È sindaco

di un distretto, deputato, colonnello della guardia nazionale, giudice del tribunale di

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commercio; rinnega i Grandet di Saumur, e aspira grazie a Napoleone a imparentarsi con

una famiglia ducale.» Che cosa non si diceva di un'ereditiera di cui la gente parlava per

venti leghe all'intorno e addirittura nelle diligenze, compresa quella fra Angers e Blois!

All'inizio del 1818, i cruchottiani segnarono un grosso punto a loro vantaggio nei confronti

dei grassinisti. La tenuta di Froidfond, notevole per il parco, il bel castello, le fattorie, i

fiumi, gli stagni, le foreste, una proprietà che valeva tre milioni, fu messa in vendita dal

giovane marchese di Froidfond, costretto a realizzare i suoi beni. Il notaio Cruchot, il

presidente Cruchot, padre Cruchot, con l'aiuto dei loro aderenti, riuscirono a impedirne la

vendita a piccoli lotti. Il notaio concluse un affare d'oro con il giovanotto persuadendolo

che sarebbe stata necessaria una sequela di procedimenti contro gli aggiudicatari prima di

poter incassare il prezzo dei singoli lotti; era meglio allora vendere a M. Grandet, che non

solo era solvibile, ma poteva addirittura pagare la terra in denaro contante. Il bel

marchesato di Froidfond fu così convogliato verso l'esofago di M. Grandet, che, con

grande stupore di Saumur, lo pagò, ottenendo uno sconto, subito dopo espletate le

formalità. Di questo affare si parlò fino a Nantes e a Orléans. Sfruttando l'occasione di un

carrettiere che doveva tornarci, M. Grandet andò a visitare il suo castello. Dopo aver

gettato sulla proprietà un colpo d'occhio da padrone, tornò a Saumur, sicuro di aver

investito il suo denaro al cinque per cento, e infatuato dalla grandiosa idea di arrotondare

il marchesato di Froidfond riunendo a esso tutti i suoi beni. Poi, per rimpolpare il peculio

quasi esaurito, decise di tagliare i suoi boschi, le sue foreste e di sfruttare i pioppeti delle

sue terre.

È ora facile intendere che cosa significhi: casa Grandet, quell'edificio slavato,

freddo, silenzioso, situato in cima alla città e circondato dalle rovine dei bastioni. I due

pilastri e la volta che formavano il portale d'ingresso erano stati costruiti, come tutta la

casa, in tufo, una pietra bianca tipica della valle della Loira e così tenera che la sua durata

media è di appena duecento anni. I buchi, ineguali e numerosi, che le intemperie vi

avevano aperto in modo bizzarro, davano all'arco e ai pilastri l'apparenza delle pietre

scanalate dell'architettura francese e una certa rassomiglianza con il vestibolo di un

carcere. Sopra l'arco spiccava un lungo bassorilievo in pietra dura che rappresentava le

quattro stagioni, con le figure ormai corrose e tutte annerite. Questo bassorilievo era

sormontato da un plinto sporgente sul quale vegetavano diverse piante di quelle che

crescono a caso, parietarie gialle, vilucchi, convolvoli, piantaggini e un piccolo ciliegio già

abbastanza alto. La porta di quercia massiccia, bruna, risecchita, piena di fenditure, in

apparenza fragile, era ben rinforzata da un sistema di borchie che formavano dei disegni

simmetrici. Una griglia quadrata, piccola, ma a barre strette e rossa di ruggine, occupava il

centro del portello e fungeva, per così dire, da motivo ornamentale a un battaglio appeso a

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essa mediante un anello e che andava a cadere sulla testa grinzosa di una grossa borchia.

Questo battaglio, di forma oblunga e simile a quelli che i nostri antenati chiamavano

picchiotti, sembrava un grosso punto esclamativo; esaminandolo con attenzione un

antiquario vi avrebbe scoperto le tracce della sembianza sostanzialmente grottesca che un

tempo vi era rappresentata e che il lungo uso aveva cancellato. Attraverso la piccola

griglia, destinata, al tempo delle guerre civili, a riconoscere gli amici, chi sbirciava poteva

scorgere in fondo a un androne a volta oscuro e verdastro, dei gradini smozzicati che

salivano verso un giardino chiuso in modo pittoresco da mura spesse e umide, coperte di

scoli e di arbusti striminziti. Queste mura erano quelle dei bastioni sui quali si trovavano i

giardini di alcune case vicine. Al pianterreno dell'edificio, il locale più ragguardevole era

una sala la cui entrata si trovava sotto la volta della porta cocchiera. Poche persone

conoscono l'importante funzione di una sala nelle cittadine dell'Angiò, della Turenna e del

Berry. La sala è insieme anticamera, salotto, studio, boudoir, stanza da pranzo; è il

palcoscenico della vita domestica, il locale comune; qui il parrucchiere del quartiere veniva

due volte l'anno a tagliare i capelli di M. Grandet; qui entravano i fittavoli, il parroco, il

sottoprefetto, il garzone del mugnaio. Questo ambiente, le cui due finestre davano sulla

strada, aveva il piancito di legno; le pareti erano tutte ricoperte da pannelli grigi con

vecchie modanature; sul soffitto c'erano travi a vista, pure dipinte di grigio, e gli spazi fra

trave e trave erano intonacati con calce ingiallita dal tempo. Un vecchio orologio da muro

di rame, incrostato da arabeschi in tartaruga, ornava la cappa del camino di pietra bianca,

mal tagliata, sulla quale c'era uno specchio verdastro, i cui bordi, molati per farne risaltare

lo spessore, riflettevano una lama di luce sulla specchiera gotica di acciaio damaschinato.

Le due girandole di rame dorato che abbellivano ciascun angolo del camino erano a

doppio uso: togliendo le rose che servivano da padelline e il cui ramo principale andava a

incastrarsi nel piedestallo di marmo bluastro decorato di rame antico, il piedestallo stesso

diventava un candeliere per tutti i giorni. Le sedie, di foggia antica, erano ricoperte da una

tappezzeria che rappresentava le favole di La Fontaine; ma bisognava saperlo per

riconoscerne i soggetti, i colori stinti e le figure tutte rammendi si distinguevano molto

male. Ai quattro angoli della sala c'erano delle cantoniere, specie di buffet che

terminavano con dei ripiani bisunti. Addossato alla parete che separava le due finestre, un

vecchio tavolino da gioco intarsiato il cui ripiano formava una scacchiera. Sopra il tavolino

c'era un barometro ovale con una cornice nera, abbellita da nastri di legno dorato, sui quali

le mosche avevano folleggiato con tale smodatezza da renderne problematica la doratura.

Sulla parete opposta al camino, due ritratti a pastello si supponeva raffigurassero il nonno

di Mme Grandet, il vecchio M. de la Bertellière, in divisa di tenente delle guardie francesi,

e la defunta Mme Gentillet, in abito da pastora. Le due finestre erano incorniciate da tende

di grò di Tours rosso, tenute aperte da cordoni di seta a ghiande. Questo arredamento

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lussuoso, così poco intonato alle abitudini di M. Grandet, era stato incluso nell'acquisto

della casa al pari della specchiera, dell'orologio, delle sedie ricoperte e delle cantoniere in

legno di rosa. Accanto alla finestra più vicina alla porta c'era una sedia di paglia con le

gambe montate su zoccoli così da portare Mme Grandet a un'altezza che le permettesse di

vedere i passanti. Il vano era occupato da un tavolino da lavoro in legno di ciliegio

selvatico, e accanto c'era la poltroncina di Eugénie Grandet. Erano quindici anni che, dal

mese di aprile fino al mese di novembre, madre e figlia passavano tranquillamente, intente

al lavoro, le giornate in quel luogo. Il primo di novembre potevano trasferirsi nel loro

quartiere d'inverno accanto al camino. Quel giorno, e solo quel giorno, Grandet dava

licenza di accendere nella sala il fuoco, che faceva spegnere il 31 marzo, senza curarsi degli

ultimi freddi di primavera né dei primi dell'autunno. Uno scaldapiedi, alimentato con la

brace della cucina che la grande Nanon si ingegnava di tenere da parte, aiutava Mme e

Mlle Grandet a sopportare le mattinate e le serate più rigide dei mesi d'aprile e di ottobre.

La madre e la figlia tenevano in ordine tutta la biancheria di casa e si applicavano a questa

fatica da vere e proprie lavoranti con tale scrupolo che, se Eugénie voleva ricamare un

collarino per la madre, doveva per forza rubare le ore al sonno e la luce al padre. Da

tempo, l'avaro distribuiva personalmente la candela alla figlia e alla grande Nanon, così

come ogni mattino distribuiva il pane e le derrate necessarie per i pasti quotidiani.

La grande Nanon era forse la sola creatura umana capace di accettare il dispotismo

del padrone. Tutta la città la invidiava a M. e a Mme Grandet. La grande Nanon, così

chiamata perché era alta un metro e ottantaquattro, apparteneva a Grandet da

trentacinque anni. Sebbene avesse un mensile di sole sessanta lire, passava per una delle

serve più ricche di Saumur. Quelle sessanta lire tesaurizzate durante trentacinque anni, le

avevano permesso alla fine di costituirsi con quattromila lire un vitalizio presso il notaio

Cruchot. Il risultato delle lunghe e tenaci economie della grande Nanon parve enorme.

Ogni domestica, sapendo che la povera sessantenne si era assicurata il pane per la

vecchiaia, provava gelosia, ma non pensava alla dura servitù con la quale tutto ciò era

stato ottenuto. A venticinque anni, la povera figliola non era riuscita a trovare un servizio,

tanto il suo viso era repellente; una ingiustizia, senza dubbio: la sua faccia avrebbe

suscitato ammirazione se fosse stata sulle spalle di un granatiere della guardia; ma, come

si dice, ogni cosa a suo luogo. Costretta, dopo un incendio, a lasciare una fattoria dove

custodiva le vacche, andò a Saumur e lì cercò di mettersi a servizio, animata da quel

robusto coraggio che non rifiuta nulla. A quel tempo M. Grandet stava pensando di

sposarsi e voleva già organizzare la propria vita domestica. Notò quella ragazza, respinta

da ogni casa. Buon giudice, in quanto bottaio, della forza fisica, intuì l'utile che si sarebbe

potuto ricavare da una creatura femminile di taglia erculea, piantata sui piedi come una

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quercia di sessanta anni lo è sulle radici, forte di fianchi, dalla schiena robusta, con mani

da carrettiere e una onestà solida come la sua intatta virtù. Né le verruche che ornavano

quel viso marziale né l'incarnato scuro né le braccia muscolose né gli stracci della Nanon

spaventarono il bottaio, ancora in età da provare certi trasalimenti. Egli quindi rivestì,

calzò, nutrì la povera figlia, le diede un mensile, e la impiegò al suo servizio senza trattarla

troppo rudemente. Davanti a questa accoglienza, la grande Nanon pianse di gioia in

segreto, e si attaccò con tutta sincerità al bottaio che, per parte sua, la sfruttò come un

feudatario. Nanon faceva tutto: faceva da mangiare, faceva la liscivia, andava a lavare

nella Loira la biancheria e se la riportava sulle spalle; si alzava all'alba, si coricava tardi;

preparava i pasti per i braccianti al tempo della vendemmia, teneva d'occhio quelli che

andavano nelle vigne a raspollare; difendeva, come un cane fedele, gli averi del suo

padrone; infine, avendo in lui una fiducia cieca, obbediva senza batter ciglio alle sue

fantasie più assurde. Nella famosa annata del 1811, in cui la vendemmia costò fatiche

inaudite, Grandet decise di regalare a Nanon, dopo vent'anni di servizio, il suo vecchio

orologio, unico dono che ella ricevette mai da lui. Sebbene egli le passasse le sue scarpe

vecchie (che andavano bene per i piedi di lei), è impossibile considerare l'uso delle scarpe

di Grandet come un regalo, tanto erano consunte. La necessità rese quella povera ragazza

così avara, che Grandet aveva finito per amarla come si ama un cane, e Nanon si era

lasciato mettere un collare guarnito di punte delle quali non sentiva più le punture. Se

Grandet tagliava il pane con un po' troppa parsimonia, ella non se ne lamentava;

partecipava di buon animo ai vantaggi igienici che derivavano dal regime severo della

casa, dove nessuno era mai malato. Eppoi Nanon faceva parte della famiglia: rideva

quando rideva Grandet, si rattristava, gelava, si scaldava, lavorava con lui. Quale dolce

compenso in questa uguaglianza! Mai il padrone aveva rinfacciato alla serva la pesca

duracina o la pesca di vigna o le prugne o le pesche noci mangiate sotto l'albero. «Avanti,

serviti, Nanon», le diceva nelle annate in cui i rami si piegavano sotto il peso dei frutti, che

i fittavoli erano costretti a gettare ai porci. A una contadina che in gioventù aveva ricevuto

solo maltrattamenti, a una poveretta accolta per carità, le risate equivoche di papà Grandet

sembravano veri raggi di sole. Del resto, il cuore semplice, il cervello corto di Nanon

potevano contenere solo un sentimento e solo un'idea. Da trentacinque anni, ella si

rivedeva arrivare a piedi nudi, vestita di stracci, davanti alla fabbrica di M. Grandet e

sentiva sempre il bottaio che le diceva: «Che cosa volete, cocca?» e la sua riconoscenza era

sempre giovane. A volte, Grandet, pensando che quella povera creatura non aveva mai

inteso una parola lusinghiera, che ignorava i dolci sentimenti ispirati dalla donna e che un

giorno avrebbe potuto comparire davanti a Dio più casta della stessa vergine Maria,

Grandet, preso da pietà, diceva guardandola: «Povera Nanon!» E questa esclamazione era

sempre seguita da uno sguardo indefinibile che gli rivolgeva la vecchia serva. La frase,

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pronunciata di tanto in tanto, formava da tempo una ininterrotta catena d'amicizia alla

quale ogni esclamazione aggiungeva una maglia. La compassione, che albergava nel cuore

di Grandet e che la vecchia zitella accettava di buon grado, aveva un qualcosa di orribile.

Quella atroce compassione da avaro, che risvegliava mille piaceri nel cuore del vecchio

bottaio, era per Nanon tutta la felicità. Chi non ripeterebbe: «Povera Nanon!» Dio

riconoscerà i suoi angeli dalle inflessioni della voce e dai misteriosi rimpianti. A Saumur

c'erano molte famiglie dove i domestici erano trattati meglio, senza per questo che i

padroni ne ricevessero maggiore soddisfazione. Di qui un'altra frase corrente: «Ma che

cosa faranno i Grandet a Nanon perché sia tanto affezionata? Per loro camminerebbe sul

fuoco!» La cucina di Nanon, le cui finestre inferriate davano sul cortile, era sempre pulita,

in ordine, fredda, la vera cucina di un avaro dove niente doveva andare perduto. Quando

Nanon aveva rigovernato, chiuso in dispensa gli avanzi della cena, spento il fuoco,

lasciava la cucina, che un corridoio separava dalla sala, e andava a filare canapa accanto ai

padroni. Alla famiglia bastava una sola candela per tutta la serata. La serva dormiva in

fondo a quel corridoio, in un vano rischiarato da una finestrella aperta sul fondo del

vicino. La salute di ferro le permetteva di vivere senza danno in quella specie di buco, da

dove, grazie al silenzio che regnava notte e giorno nella casa, riusciva a percepire il

minimo rumore. Come un cane da guardia dormiva con un occhio solo e si riposava

vegliando.

La descrizione delle altre parti della casa si troverà unita a quella degli avvenimenti

di questa storia; comunque, ciò che s'è detto della sala, in cui rifulgeva tutto il lusso della

famiglia, può far intuire in anticipo la nudità dei piani superiori.

Nel 1819, a metà del mese di novembre, la grande Nanon al cader della sera accese

per la prima volta il fuoco. L'autunno era stato molto bello. Quel giorno cadeva una festa

ben nota ai cruchottiani e ai grassinisti. Così i sei antagonisti si preparavano, con tutte le

armi di cui disponevano, a incontrarsi nella sala e a gareggiare in dimostrazioni di

amicizia. La mattina, tutta Saumur aveva visto Mme e Mlle Grandet, accompagnate da

Nanon, andare in parrocchia per ascoltarvi la messa, e ognuno ricordò che quel giorno

cadeva l'anniversario della nascita di Mlle Eugénie. Calcolando quindi l'ora in cui la cena

doveva terminare, il notaio Cruchot e M. C. de Bonfons fecero in modo di arrivare prima

dei des Grassins a festeggiare Mlle Grandet. Tutti e tre portavano enormi mazzi di fiori

colti nelle loro piccole serre. I gambi dei fiori che il presidente voleva offrire erano

ingegnosamente tenuti insieme da un nastro di satin bianco con frange d'oro. Quel

mattino, M. Grandet, seguendo una sua costumanza per i giorni memorabili del

compleanno e dell'onomastico di Eugénie, era andato a salutarla quando ancora la ragazza

si trovava a letto, e le aveva offerto solennemente il regalo paterno che consisteva, da

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tredici anni, in una insolita moneta d'oro. Mme Grandet di regola donava alla figlia un

abito invernale o estivo, a seconda della circostanza. Questi due abiti, le monete d'oro che

ella riceveva a capodanno e per la festa del padre, fruttavano alla giovane un piccola

rendita di quasi cento scudi, che a Grandet piaceva vedere accumulare. Era come travasare

il proprio denaro da una cassa in un'altra, come, per così dire, dare spago all'avarizia della

sua erede, alla quale talvolta egli chiedeva conto di quel peculio, già rimpinzato dai la

Bertellière, dicendole: «Sarà il tuo dozzeno di nozze.» Il dozzeno è un'antica usanza ancora

in vigore e religiosamente rispettata in qualche paese della Francia centrale. Nel Berry,

nell'Angiò, quando una ragazza si marita, la famiglia o quella dello sposo deve regalarle

una borsa nella quale si trovano, secondo le possibilità economiche, dodici monete o

dodici dozzine di monete o milleduecento monete d'argento o d'oro. La più povera delle

pastorelle non si sposerebbe senza il suo dozzeno, magari formato solo da soldoni. Si parla

ancora a Issoudun di un certo dozzeno offerto a una ricca ereditiera e che conteneva

centoquarantaquattro portoghesi d'oro. Il papa Clemente VII regalò alla nipote Caterina

dei Medici che andava sposa a Enrico II una dozzina di medaglie antiche di grandissimo

valore. Durante la cena, il padre, felice di vedere la sua Eugénie ancor più bella in un

vestito nuovo, aveva esclamato: «Poiché è la festa di Eugénie, accendiamo il fuoco! sarà di

buon augurio.»

«La signorina si sposerà entro l'anno, è sicuro,» disse la grande Nanon portando via

gli avanzi di un'oca, il fagiano dei bottai.

«Non vedo un partito per lei a Saumur,» rispose Mme Grandet guardando il marito

con una timidezza, che, considerata la sua età, lasciava intuire tutta la soggezione maritale

sotto la quale la povera donna languiva.

Grandet contemplò la figlia ed esclamò allegramente: «La piccina fa oggi ventitré

anni; presto bisognerà occuparsi di lei.»

Eugénie e la madre scambiarono in silenzio uno sguardo d'intesa.

Mme Grandet era una donna risecchita e magra, gialla come una cotogna, goffa,

lenta; una di quelle donne che sembrano fatte apposta per essere tiranneggiate. Aveva ossa

grandi, naso grande, occhi grandi e, al primo sguardo, faceva pensare a un frutto stopposo

senza più sapore né sugo. Aveva i denti scuri e radi, la bocca grinzosa, e il mento era,

come si dice, a ciabatta. Era una donna eccellente, una vera la Bertellière. Padre Cruchot

non perdeva occasione per dirle che non era stata niente male e lei gli credeva. La dolcezza

angelica, la rassegnazione dell'insetto torturato dai bambini, una devozione rara, un

umore costante, il buon cuore, la facevano compatire e rispettare da tutti. Per le piccole

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spese il marito non le dava mai più di sei franchi alla volta. Sebbene ridicola in apparenza,

questa donna che, fra la dote e le eredità aveva portato a M. Grandet più di trecentomila

franchi, si era sempre sentita umiliata dalla dipendenza e dalla soggezione contro le quali

la mitezza d'animo le impediva di rivoltarsi, e non aveva mai chiesto un soldo né mai

aveva avuto a che dire sugli strumenti che il notaio Cruchot le portava da firmare. Una

fierezza sciocca e segreta, una nobiltà d'animo costantemente misconosciuta e offesa da

Grandet, regolavano la condotta di questa donna. Mme Grandet indossava sempre un

abito di levantina verdastra, che si era abituata a far durare circa un anno; portava un

grande scialle di cotonina bianca, un cappello di paglia cucita, e un grembiule di taffettà

che non toglieva quasi mai. Poiché usciva poco, consumava poche scarpe. In conclusione,

per sé non voleva mai niente. Così Grandet, preso talora dal rimorso allorché ricordava

quanto tempo fosse passato dal giorno in cui aveva elargito sei franchi alla moglie, al

momento di vendere i raccolti dell'annata chiedeva sempre una regalia per lei. I quattro o

cinque luigi offerti dall'olandese o dal belga che acquistava la vendemmia Grandet

rappresentavano la rendita annuale più certa di Mme Grandet. Ma, dopo che ella aveva

intascato i suoi cinque luigi, spesso il marito le diceva, come se avessero la borsa in

comune: «Hai qualche soldo da prestarmi?» E la povera donna, felice di poter fare

qualcosa per un uomo che il confessore le diceva essere il suo signore e padrone, finiva,

durante il corso dell'inverno, per restituire al marito qualche scudo di quelli delle regalie.

Grandet, quando tirava fuori di tasca la moneta da cento soldi destinata alle piccole spese

mensili, il filo, gli aghi e la toeletta della figlia, non mancava mai, dopo aver abbottonato il

taschino, di dire alla moglie: «E tu, mamma, vuoi qualcosa?»

«Amico mio,» rispondeva Mme Grandet, spinta da un sentimento di dignità

materna, «vedremo.»

Dignità sprecata! Grandet era convinto di essere molto generoso con la moglie. I

filosofi che incontrano delle Nanon, delle Mme Grandet, delle Eugénie, non hanno forse il

diritto di pensare che, in fondo, nella Provvidenza ci sia una buona dose di ironia?

Terminata quella cena durante la quale per la prima volta si parlò del matrimonio di

Eugénie, Nanon andò a prendere una bottiglia di cassis nella camera di M. Grandet e

mentre scendeva mancò poco cadesse.

«Bestiona,» le disse il padrone, «adesso ti metti anche a cadere?»

«Signore, è quel gradino delle scale che non regge più.»

«Ha ragione,» disse Mme Grandet. «Avreste dovuto farlo accomodare già da un

pezzo. Ieri per poco Eugénie non si faceva male a un piede.»

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«Tieni,» disse Grandet a Nanon vedendola sbiancata in volto, «perché è il

compleanno di Eugénie e tu sei stata per cadere, bevi un bicchierino di cassis; ti farà bene.»

«In fede mia, me lo sono guadagnato,» disse Nanon. «Al mio posto, un'altra

avrebbe rotto la bottiglia; ma io pur di salvarla mi sarei rotto il gomito.»

«Povera Nanon!» disse Grandet versandole il cassis.

«Ti sei fatta male?» le chiese Eugénie guardandola con interesse.

«No, perché mi sono bloccata facendo forza sulle reni.»

«Ebbene, poiché è il compleanno di Eugénie,» disse Grandet, «vado ad aggiustare

quel vostro scalino. Voialtre non sapete mettere il piede nell'angolo ancora solido.»

Grandet prese la candela, lasciò la moglie, la figlia e la serva senza altra luce che il

riflesso della fiamma che ardeva nel camino, e andò nel locale del forno a prendere tavole,

chiodi e attrezzi.

«Avete bisogno di aiuto?» gli gridò Nanon sentendolo battere sulla scala.

«No! no! so fare da solo,» rispose il vecchio bottaio.

Mentre Grandet era intento ad aggiustare con le proprie mani la scala tarlata, e

fischiava a tutto spiano in ricordo dei suoi verdi anni, i tre Cruchot bussarono alla porta.

«Siete voi, signor Cruchot?» chiese Nanon guardando attraverso la piccola griglia.

«Sì,» rispose il presidente.

Nanon apri la porta, e il bagliore del camino, che riverberava sotto la volta, permise

ai tre Cruchot di scorgere l'entrata della sala.

«Ah! siete venuti per la festa,» disse loro Nanon sentendo l'odore dei fiori.

«Scusate, signori,» gridò Grandet che aveva riconosciuto le voci dei suoi amici,

«sono subito da voi! Non è che voglia darmi delle arie, sto rabberciando un gradino della

scala.»

«Fate, fate, signor Grandet! Il carbonaio è signore in casa sua,» disse con tono

sentenzioso il presidente, ridendo fra sé dell'allusione che nessuno afferrò.

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Mme e Mlle Grandet si alzarono. Il presidente, approfittando allora dell'oscurità,

disse a Eugénie: «Mi permettete, signorina, di augurarvi, nel giorno in cui nasceste, tanti

anni felici e la conservazione della salute di cui godete?»

Le porse un grosso mazzo di fiori rari a Saumur; poi, prendendo l'ereditiera per i

gomiti, la baciò sui lati del collo, con un compiacimento che riempì di vergogna Eugénie. Il

presidente, che sembrava un grosso chiodo arrugginito, credeva in tal modo di farle la

corte.

«Non disturbatevi,» disse Grandet rientrando. «Come correte nei giorni di festa,

signor presidente!»

«Ma con la signorina,» rispose padre Cruchot, armato del suo mazzo di fiori, «tutti i

giorni sarebbero per mio nipote giorni di festa.»

Il prete baciò la mano di Eugénie. Quanto al notaio Cruchot, baciò con tutta

semplicità la ragazza sulle guance e disse: «Come ci si sente invecchiare! Ogni anno dodici

mesi.»

Mentre rimetteva la candela davanti all'orologio, Grandet, che quando aveva una

battuta che gli sembrava divertente non finiva mai di ripeterla, disse: «Poiché è la festa di

Eugénie, accendiamo le luminarie!»

Tolse con cura i bracci dei candelabri, mise la padellina su ciascun piedestallo, prese

dalle mani di Nanon una candela nuova avvolta alla base in un pezzo di carta, la infilò nel

buco, la fissò bene, l'accese, e andò a sedersi accanto alla moglie, passando con lo sguardo

dagli amici alla figlia e alle due candele. Padre Cruchot, un ometto paffuto, grassottello,

con la parrucca rossa e liscia, con una faccia da vecchia gaudente, disse allungando i piedi

ben calzati in scarpe robuste con fibbie d'argento: «I des Grassins non sono venuti?»

«Non ancora,» rispose Grandet.

«Ma devono venire?» domandò il vecchio notaio atteggiando a una smorfia la faccia

bucherellata come una schiumarola.

«Penso di sì,» rispose Mme Grandet.

«Avete già finito la vendemmia?» chiese il presidente Bonfons a Grandet.

«Dappertutto,» rispose il vecchio vignaiolo, alzandosi e mettendosi a camminare su

e giù per la sala, mentre gonfiava il torace con un atteggiamento che traboccava orgoglio

come la parola: dappertutto! Dalla porta del corridoio che menava in cucina, vide la

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grande Nanon, seduta accanto al braciere e con una candela, che si accingeva a filare in

quel posto per non mescolarsi alla festa. «Nanon,» disse Grandet inoltrandosi nel

corridoio, «vuoi spegnere il fuoco e la candela e venire con noi? Perdiana! La sala è

abbastanza grande perché ci si possa stare tutti.»

«Ma, signore, avrete visitatori di riguardo.»

«E tu sei da meno? Vengono tutti dalla costola d'Adamo come te.»

Grandet tornò vicino al presidente e gli disse: «Voi avete venduto il raccolto?»

«No, davvero, io lo conservo. Se ora il vino è buono, fra due anni sarà migliore. I

proprietari, lo sapete, hanno giurato di attenersi al prezzo convenuto e, quest'anno, i belgi

non la spunteranno con noi. Se se ne vanno, ebbene, torneranno.»

«Sì, ma bisogna che ci stiano tutti,» disse Grandet con un tono che fece fremere il

presidente.

«Che sia in trattative?» pensò Cruchot.

In quel momento un colpo alla porta annunciò la famiglia des Grassins il cui arrivo

interruppe una conversazione fra Mme Grandet e il prete.

Mme des Grassins era una di quelle donne piccine, vivaci, paffute, bianche e rosa,

che, grazie alle abitudini claustrali della provincia e a una vita virtuosa, si conservano

giovani anche a quaranta anni. Sono come le ultime rose di fine stagione che fa piacere

guardare, ma i cui petali hanno una certa freddezza e il cui profumo è affievolito. Si

vestiva piuttosto bene, faceva venire i modelli da Parigi, dava il tono alla città di Saumur, e

offriva dei ricevimenti. Suo marito, ex quartier-mastro della guardia imperiale, ferito

gravemente ad Austerlitz e andato in congedo, conservava, nonostante la sua

considerazione per Grandet, i modi schietti del militare.

«Buongiorno, Grandet,» disse al vignaiolo porgendogli la mano e affettando una

certa aria di superiorità sotto la quale schiacciava sempre i Cruchot. «Signorina,» disse a

Eugénie dopo aver salutato Mme Grandet, «voi siete sempre bella e giudiziosa, in verità,

non so che cosa vi si possa augurare.» Poi offrì una cassetta portata dal domestico che

conteneva un'erica del Capo, pianta da poco importata in Europa e assai rara.

Mme des Grassins baciò con molto affetto Eugénie, le strinse la mano e le disse:

«Adolphe si è preso l'incarico di offrirvi un mio ricordino.»

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Un giovanotto alto, biondo, pallido ed esile, di modi cortesi, timido in apparenza,

ma che a Parigi, dove era andato a studiare diritto, aveva speso otto o diecimila franchi in

più del suo appannaggio, avanzò verso Eugénie, la baciò sulle guance e le offrì una scatola

da lavoro i cui utensili erano tutti in vermeil, una cosa davvero dozzinale, anche se lo

stemma sul quale era finemente inciso in caratteri gotici il monogramma E.G. poteva far

pensare a un oggetto di buona fattura. Quando la aprì, Eugénie provò una di quelle gioie

insperate e complete che fanno arrossire, trasalire e tremare di felicità le fanciulle. Voltò gli

occhi verso il padre, come per sapere se le era permesso accettare, e M. Grandet disse

«Prendilo, figlia mia!» con un tono di voce degno di un grande attore.

I tre Cruchot rimasero stupefatti vedendo lo sguardo lieto e vivace che l'ereditiera,

cui simili tesori parevano inauditi lanciò ad Adolphe des Grassins. M. des Grassins offrì a

Grandet una presa di tabacco, ne prese una per sé, scosse via i bricioli caduti sul nastro

della Legion d'onore infilato nella bottoniera della marsina blu, poi guardò i Cruchot con

l'aria di dire: «Paratemi questa botta!» Mme des Grassins gettò un'occhiata ai vasi turchini

dov'erano i mazzi di fiori dei Cruchot come se cercasse i loro regali con una finta buona

fede che era tutta una canzonatura. In quella situazione delicata padre Cruchot lasciò che

gli altri sedessero in cerchio davanti al fuoco e andò a passeggiare con Grandet sul fondo

della sala. Quando i due vecchi furono nel vano della finestra più lontana dai des Grassins:

«Quella gente,» disse il prete all'orecchio dell'avaro, «getta i soldi dalla finestra.»

«E che importa, se finiscono nella mia cantina?» rispose il vecchio vignaiolo.

«A voi non mancherebbero i mezzi, se voleste regalare delle forbici d'oro a vostra

figlia,» disse il prete.

«Le do qualcosa di meglio delle forbici,» rispose Grandet.

«Mio nipote è uno sciocco,» pensò il reverendo e guardò il presidente nel quale

l'impressione sgradevole dell'incarnato scuro era accentuata dai capelli arruffati. Non

poteva venirgli in mente una sciocchezzuola di qualche pregio?

«Vogliamo fare la solita partita, Mme Grandet?» chiese Mme des Grassins.

«Ma siamo in tanti, ci vorrebbero due tavoli ...»

«Poiché è la festa di Eugénie, giocate tutti a tombola,» disse papà Grandet, «anche i

due ragazzi.» L'ex bottaio, che non giocava mai, accennò a sua figlia e ad Adolphe. «Su,

Nanon, sistema i tavoli.»

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«Vi diamo una mano, signorina Nanon,» disse con tono allegro Mme des Grassins,

tutta felice della felicità che aveva procurato a Eugénie.

«In vita mia non sono mai stata così contenta,» le disse l'ereditiera. «Non avevo mai

visto niente di tanto bello.»

«L'ha portata Adolphe da Parigi ed è lui che l'ha scelta,» le disse in un orecchio

Mme des Grassins.

«Fai, fai pure, maledetta intrigante!» pensò il presidente; «se mai avrete una causa

in tribunale, tu o tuo marito, sarà difficile che riusciate a vincere.»

Il notaio, seduto in un angolo, guardò con calma il reverendo e si disse: «I des

Grassins hanno voglia a fare, il mio patrimonio, quello di mio fratello e quello di mio

nipote assommano a un milione e centomila franchi. I des Grassins arriveranno tutt'al più

alla metà, e hanno una figlia; regalino pure ciò che vogliono! ereditiera e regali un giorno

verranno a noi.»

Alle otto e mezzo di sera erano stati preparati due tavoli. La deliziosa Mme des

Grassins era riuscita a mettere suo figlio accanto a Eugénie. Gli attori di questa commedia

interessante, seppure in apparenza volgare, muniti di cartelle colorate, numerate e di

gettoni di vetro blu, sembravano ascoltare le piacevolezze del vecchio notaio, il quale

faceva un commento a ogni numero che estraeva; ma tutti pensavano ai milioni di M.

Grandet. Il vecchio bottaio contemplava, tutto tronfio, le piume rosa, l'abito inappuntabile

di Mme des Grassins, la testa marziale del banchiere, quella di Adolphe, il presidente, il

reverendo, il notaio, e diceva dentro di sé: «Sono qui per i miei scudi. Vengono ad

annoiarsi qui per mia figlia. Eh! mia figlia non toccherà né agli uni né agli altri, tutti

costoro mi servono solo come ami per pescare!»

Quella allegria casalinga nel vecchio salone grigio male illuminato da due candele;

quelle risate, accompagnate dal rumore del filatoio della grande Nanon, e che erano

sincere solo sulle labbra di Eugénie o di sua madre; quella meschinità legata a interessi

tanto grandi; quella fanciulla che, simile a certi uccelli vittime ignare del loro prezzo

elevato, era braccata, incalzata dalle dimostrazioni di amicizia con le quali la

abbindolavano: tutto contribuiva a rendere la scena tristemente comica. Del resto non era

una scena d'ogni tempo e d'ogni luogo, ma riportata alla sua espressione più semplice? La

figura di Grandet che sfruttava il falso attaccamento delle due famiglie, traendone enormi

vantaggi, dominava e chiariva il dramma. Non era forse quello il solo dio moderno nel

quale si abbia fede, il Denaro in tutta la sua potenza, espresso da una sola fisionomia? I

dolci sentimenti della vita occupavano colà solo un posto di secondo piano; albergavano in

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tre cuori schietti, quelli di Nanon, di Eugénie e di sua madre. E ancora, quanta ignoranza

nella loro ingenuità! Eugénie e la madre non sapevano nulla del patrimonio di Grandet,

esse valutavano le cose della vita in base alle loro vaghe idee, e non apprezzavano né

disprezzavano il denaro, abituate com'erano a farne a meno. I loro sentimenti, offesi senza

che esse lo sapessero, ma vivaci, ne facevano delle curiose eccezioni in quella accolta di

persone la cui vita era solo materiale. Terribile condizione dell'uomo! non una delle sue

felicità che non nasca dall'ignoranza. Nel momento in cui Mme Grandet vinceva una posta

di sedici soldi, la più considerevole che si fosse mai vista in quella sala, e mentre la grande

Nanon rideva di contentezza vedendo la signora intascare quella bella somma, un colpo di

battaglio rimbombò alla porta di casa facendo un tale fracasso, che le donne sobbalzarono

sulle sedie.

«Non può essere uno di Saumur a bussare in questo modo,» disse il notaio.

«Che maniera di picchiare!» disse Nanon. «Vogliono sfasciarci la porta?»

«Chi diavolo è?» esclamò Grandet.

Nanon prese una delle due candele e andò ad aprire, accompagnata da Grandet.

«Grandet! Grandet!» gridò la moglie, che, spinta da un vago senso di paura, si

precipitò verso la porta della sala.

Tutti i giocatori la guardarono.

«Se ci andassimo anche noi?» disse Mme des Grassins. «Quel colpo di martello non

mi dice niente di buono.»

M. des Grassins riuscì appena a scorgere il viso di un giovanotto accompagnato dal

fattorino delle messaggerie, che portava due enormi bauli e trascinava delle sacche da

viaggio. Grandet si voltò bruscamente verso la moglie e le disse: «Signora Grandet, tornate

alla vostra tombola. Devo parlare con il signore.» Poi chiuse con decisione la porta della

sala, e i giocatori inquieti ripresero i loro posti, ma non continuarono a giocare.

«È qualcuno di Saumur, signor des Grassins?» gli chiese la moglie.

«No, è un viaggiatore.»

«Non può venire che da Parigi.»

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«In effetti,» disse il notaio tirando fuori il suo vecchio orologio spesso due dita e che

somigliava a un vascello olandese, «sono le nove. Accidenti! la diligenza non è mai in

ritardo.»

«È giovane quel signore?» chiese padre Cruchot.

«Sì,» rispose M. des Grassins. «Ha un bagaglio che deve pesare almeno trecento

chili.»

«Nanon non torna,» disse Eugénie.

«Può essere solo qualcuno della vostra famiglia,» disse il presidente.

«Cominciamo a puntare,» suggerì piano Mme Grandet. «Dal tono della voce ho

capito che M. Grandet era contrariato forse non sarebbe contento se si accorgesse che

parliamo dei suoi affari.»

«Signorina,» disse Adolphe alla sua vicina, «sarà senza dubbio vostro cugino

Grandet, un bel giovanotto che ho visto al ballo di M. de Nucingen.»

Adolphe tacque perché la madre gli aveva rifilato un pestone; poi, chiedendogli ad

alta voce due soldi per la puntata: «Vuoi star zitto, pezzo di babbeo?» gli disse in un

orecchio.

In quel momento Grandet rientrò senza la grande Nanon, i cui passi insieme con

quelli del fattorino echeggiarono sulle scale; Grandet era seguito dal viaggiatore che da

qualche istante suscitava tanta curiosità e occupava a tal punto la fantasia di tutti, che il

suo arrivo in quella casa e il suo apparire in mezzo a quella gente potrebbero essere

paragonati alla comparsa di una lumaca in un alveare, o all'ingresso di un pavone in un

oscuro cortile di villaggio.

«Sedetevi accanto al fuoco,» gli disse Grandet.

Prima di sedersi, il giovane forestiero salutò con grazia i presenti. Gli uomini si

alzarono per rispondere con un cortese inchino, le donne fecero una cerimoniosa

riverenza.

«Avrete certo freddo, signore,» disse Mme Grandet, «arrivate forse da...»

«Ecco le donne!» disse il vecchio vignaiolo interrompendo la lettura di una lettera

che aveva in mano; «lasciate riposare il signore.»

«Ma, padre mio, forse il signore ha bisogno di qualcosa,» disse Eugénie.

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«Ha la lingua,» rispose asciutto il vignaiolo.

Solo lo sconosciuto rimase sorpreso da questa scena. Gli altri erano abituati alle

maniere dispotiche del brav'uomo. Nondimeno, dopo quelle due domande e quelle due

risposte, lo sconosciuto si alzò, voltò la schiena verso il fuoco, alzò un piede per scaldare la

suola dello stivale, e disse a Eugénie: «Cara cugina, vi ringrazio, ho cenato a Tours.» E,

aggiunse guardando Grandet, «non ho bisogno di nulla e non sono nemmeno stanco.»

«Il signore viene dalla capitale?» chiese Mme des Grassins.

M. Charles, così si chiamava il figlio di M. Grandet, di Parigi, sentendosi

interpellare, prese l'occhialino che portava appeso con una catenina al collo, se lo portò

all'occhio destro per esaminare ciò che stava sul tavolo e le persone che vi erano sedute

intorno, scrutò con molta impertinenza Mme des Grassins e le disse, dopo aver visto ciò

che voleva: «Sì, signora. Vedo che giocate a tombola, cara zia,» aggiunse; «per favore,

continuate, è un gioco troppo divertente per interromperlo...»

«Ero sicura che fosse il cugino,» pensò Mme des Grassins sogguardando il nuovo

arrivato.

«47,» disse forte il vecchio prete. «Segnatelo, Mme des Grassins, non ce l'avete nella

vostra cartella?»

M. des Grassins mise un gettone sulla cartella della moglie, che, in preda a tristi

presentimenti, guardava ora il cugino di Parigi ora Eugénie, senza pensare alla tombola.

Di tanto in tanto, la giovane ereditiera gettava al cugino degli sguardi furtivi, nei quali la

moglie del banchiere riuscì a scorgere un Crescendo di stupore e di curiosità.

[2]

M. Charles Grandet, bel giovane di ventidue anni, offriva nella circostanza un

singolare contrasto con quei bravi provinciali che si sentivano piuttosto urtati dai suoi

modi aristocratici, e che lo stavano studiando per potersi poi burlare di lui. Ciò esige una

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spiegazione. A ventidue anni i giovani sono ancora abbastanza vicini all'infanzia per

cedere agli infantilismi. Così, forse, su cento di loro se ne potrebbero trovare novantotto

che si sarebbero comportati come Charles Grandet. Alcuni giorni prima, il padre gli aveva

detto di andare a stare per qualche mese da suo fratello a Saumur. Forse M. Grandet, di

Parigi, pensava a Eugénie. Charles, che capitava in provincia per la prima volta, ebbe

l'idea di darsi un tono di superiorità da giovane alla moda, di sconcertare il circondario

con il suo lusso, di farvi scalpore e di importarvi le novità della vita parigina. Insomma,

per dirla in poche parole, intendeva, a Saumur, impiegare più tempo di quanto ne

impiegasse a Parigi per lucidarsi le unghie, ed esibire quell'eccessiva ricercatezza nel

vestire che a volte un giovane elegante trascura in favore di una negligenza che non manca

di grazia. Charles, dunque, si portò dietro il più bel vestito da caccia, il più bel fucile, il più

bel coltello, il più bel fodero di Parigi. Portò una collezione di gilè fra i più fantasiosi: ce

n'erano grigi, bianchi, neri, color scarabeo, con riflessi dorati, ornati di lustrini, variegati, a

doppio petto, sciallati e non, col collo rivoltato, abbottonati fino in alto, con i bottoni d'oro.

Portò tutti i tipi di colletti e di cravatte che erano di moda in quel momento. Portò due

marsine di Buisson e la sua biancheria più fine. Portò il suo bel nécessaire da toeletta in

oro, regalo della madre. Portò tutti i suoi ammennicoli da dandy, senza dimenticare un

delizioso piccolo servizio per scrivere dono della donna più amabile, almeno per lui, di

una gran dama che egli chiamava Annette e che stava viaggiando col marito, annoiandosi,

in Scozia, vittima di certi sospetti ai quali per il momento era giocoforza sacrificare la

felicità; e poi una gran quantità di carta finissima per scriverle una lettera ogni quindici

giorni. Insomma un carico di futilità parigine dei più completi e nel quale, dal frustino che

serve per provocare un duello fino alle belle pistole cesellate che lo concludono, erano

compresi tutti gli attrezzi di cui un giovane ozioso si serve per arare il terreno della vita.

Poiché il padre gli aveva detto di viaggiare da solo e modestamente, era venuto con una

diligenza affittata tutta per lui, ben contento di non dover sciupare una deliziosa vettura

da viaggio ordinata per andare a raggiungere la sua Annette, la gran dama che... ecc., che

egli doveva incontrare in giugno alle terme di Baden. Charles pensava di trovare un

centinaio di persone in casa di suo zio, di cacciare a cavallo nelle foreste di suo zio,

insomma di vivere come in un castello; non sapeva che lo zio fosse a Saumur, dove,

arrivando, si era limitato a chiedere la strada per Froidfond; poi, avendo appreso che era

in città, pensò di trovarlo in un grande palazzo. Per comparire nel modo più acconcio in

casa dello zio, fosse a Saumur, fosse a Froidfond, si era messo un abito da viaggio

civettuolo, semplice e ricercato, adorabile, per usare una parola che a quei tempi

compendiava le particolari perfezioni di una cosa o di un uomo. A Tours, si era fatto

rinfrescare da un parrucchiere l'arricciatura dei bei capelli castani; si era cambiata la

biancheria e aveva messo una cravatta di satin nero su un colletto tondo in modo da

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incorniciare gradevolmente il viso candido e sorridente. Una redingote da viaggio

abbottonata a metà gli serrava la vita e lasciava vedere un gilè sciallato di cachemire sotto

il quale c'era un secondo gilè bianco. L'orologio, infilato negligentemente in un taschino,

era attaccato con una catena d'oro alla bottoniera. I pantaloni grigi si chiudevano sui

fianchi, dove ricami in seta nera abbellivano le cuciture. Impugnava con disinvoltura un

bastone il cui pomo d'oro sbalzato non lasciava la minima ombra sui guanti grigi

immacolati. Per concludere, il berretto era di un gusto eccellente. Solo un parigino, un

parigino del ceto più elevato, poteva abbigliarsi così senza apparire ridicolo, anzi dando

una fatua armonia a tutte queste quisquilie, sostenute del resto da un'aria spavalda, l'aria

del giovanotto che ha due belle pistole, la mira sicura e Annette. Ora, se volete

comprendere appieno la sorpresa sia di quelli di Saumur sia del giovane parigino, vedere

con chiarezza il riverbero abbagliante che l'eleganza del viaggiatore proiettava sulle ombre

grigie della sala e sulle figure che formavano il quadro di famiglia, cercate di immaginarvi

i Cruchot. Tutti e tre tabaccavano e ormai da un pezzo non si curavano più delle goccioline

di moccio o delle macchioline scure che costellavano le pettorine delle camicie strinate, con

i colletti spiegazzati e piene di segni giallastri. Le cravatte molli, una volta annodate, si

intorcinavano come fossero corde. L'enorme quantità di biancheria che conservavano in

fondo agli armadi, permetteva a loro di fare la liscivia ogni sei mesi e al tempo di

imprimere sui capi un colore grigio e vecchio. Erano insieme e in egual misura sgraziati e

senili. Le loro facce avvizzite come gli abiti frusti, spiegazzate come i pantaloni,

sembravano consunte, incartapecorite e contorte. La generale sciatteria degli altri capi,

tutti spaiati, stazzonati, come lo sono gli abiti in provincia, dove a poco a poco si giunge a

non vestirsi più gli uni per gli altri e a far caso al prezzo di un paio di guanti, si accordava

con la trascuratezza dei Cruchot. L'orrore per la moda era il solo punto sul quale

grassinisti e cruchottiani si intendessero perfettamente. Appena il parigino prendeva

l'occhialetto per esaminare il singolare arredo della sala, le tavole del piancito, il colore dei

pannelli o le macchioline che le mosche vi avevano lasciato in quantità tale che sarebbero

state sufficienti per punteggiare l'Encyclopédie méthodique o «Le Monitour», ecco che i

giocatori di tombola alzavano il naso e lo osservavano con la stessa curiosità che avrebbero

dimostrato per una giraffa. M. des Grassins e il figlio, per i quali un uomo alla moda non

era un personaggio sconosciuto, si unirono ciò nondimeno allo stupore dei vicini o perché

subivano l'indefinibile influenza del sentimento generale o perché erano d'accordo,

dicendo ai loro concittadini, con occhiate cariche di ironia: «Ecco come sono a Parigi.» Del

resto, tutti a loro piacimento potevano osservare Charles, senza tema di irritare il padrone

di casa. Grandet era assorbito dalla lunga lettera che teneva in mano, e per leggerla aveva

preso l'unica candela del tavolo senza preoccuparsi degli ospiti e del loro gioco. Eugénie,

cui era del tutto sconosciuto un tale tipo di perfezione, tanto nell'abito quanto nella

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persona, credette di vedere nel cugino una creatura scesa da una sfera angelica. Ella

respirava deliziata i profumi che si sprigionavano da quella capigliatura così lucente, così

ben arricciata. Avrebbe voluto poter toccare la pelle satinata di quei guanti graziosi.

Invidiava a Charles le mani piccole, l'incarnato, la freschezza e la delicatezza dei tratti.

Insomma, se in qualche modo un'immagine può riassumere l'impressione che il giovane

alla moda produsse su una fanciulla ignorante sempre occupata a rammendare calze, a

rattoppare il guardaroba del padre, e la cui vita era trascorsa fra quei luridi pannelli di

legno senza veder passare nella via silenziosa più di una persona l'ora, si può dire che la

vista del cugino suscitò nel cuore di lei gli stessi fremiti di sottile voluttà che suscitano in

un giovane le fantastiche figure di donne disegnate da Westall nei keepsakes inglesi, e incise

dai Finden con tale abilità, che si ha paura, soffiando sulla velina, di far volare via quelle

apparizioni celestiali. Charles tirò fuori di tasca un fazzoletto ricamato dalla gran dama

che in quel momento viaggiava in Scozia. Vedendo quel piccolo capolavoro, fatto con

amore nelle ore perdute per l'amore, Eugénie guardò il cugino per capire se avesse

davvero l'intenzione di usarlo. Le maniere di Charles, i gesti, il modo in cui prendeva

l'occhialetto, la sua impertinenza affettata, il disprezzo per la scatola da lavoro che poco

prima aveva colmato di piacere la ricca ereditiera e che egli giudicava evidentemente o

senza valore o ridicola; insomma, tutto ciò che urtò i Cruchot e i des Grassins le piacque

tanto che prima di addormentarsi fantasticò a lungo su questa fenice dei cugini.

L'estrazione dei numeri procedeva a rilento, ma di lì a poco la tombola venne

interrotta. La grande Nanon entrò e disse ad alta voce: «Signora, mi occorrono le lenzuola

per fare il letto a questo signore.»

Mme Grandet uscì con Nanon. Allora Mme des Grassins disse a bassa voce:

«Riprendiamoci i nostri soldi e lasciamo perdere la tombola.» Ciascuno riprese i suoi due

soldi dalla vecchia sottocoppa sbreccata dove li aveva deposti; poi tutti si mossero

all'unisono e fecero un quarto di giro verso il fuoco.

«E allora avete finito?» chiese Grandet senza smettere di leggere la lettera.

«Sì, sì,» rispose Mme des Grassins andando a sedere vicino a Charles.

Eugénie, spinta da uno di quei pensieri che nascono nel cuore delle ragazze quando

un sentimento vi prende stanza per la prima volta, lasciò la sala per andare ad aiutare la

madre e Nanon. Se fosse stata interrogata da un abile confessore, avrebbe ammesso senza

dubbio che non pensava né alla madre né a Nanon, ma che era in preda all'acuto desiderio

di ispezionare la camera del cugino per potersi occupare di lui, per mettervi una cosa

qualsiasi, per rimediare a una dimenticanza, per prevedere tutto ciò che occorresse a

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renderla, nei limiti del possibile, elegante e accogliente. Eugénie era ormai convinta di

essere la sola capace di comprendere i gusti e le idee del cugino. In effetti, arrivò a tempo

per dimostrare alla madre e a Nanon, le quali stavano venendo via sicure di aver fatto

tutto, che tutto era ancora da fare. Suggerì alla grande Nanon di riscaldare le lenzuola con

la brace; coprì lei stessa il vecchio tavolo con un centrino e raccomandò a Nanon di

cambiarlo tutte le mattine. Convinse la madre della necessità di accendere un bel fuoco nel

camino e indusse Nanon a portare di sopra, nel corridoio, un po' di legna senza dir nulla al

padre. Lei stessa corse a prendere in una cantoniera della sala un vecchio vassoio laccato

che veniva dalla successione del defunto M. de la Bertellière, prese anche un bicchiere di

cristallo a sei facce, un cucchiaino con fregi, una bottiglietta antica sulla quale erano

impressi degli amorini e con aria trionfale depositò il tutto su un angolo del camino.

Aveva avuto più idee in un quarto d'ora di quante ne avesse avute dal giorno in cui era

venuta al mondo.

«Mamma,» disse, «mio cugino non sopporterà mai l'odore di una candela di sego.

Se comperassimo una candela di cera?. .» Leggera come un uccello, andò a prendere nella

sua borsa lo scudo da cento soldi che aveva ricevuto per le spese mensili. «Tieni, Nanon,»

disse, «vacci subito.»

«Ma che dirà tuo padre?» Questa terribile obiezione fu sollevata da Mme Grandet

che vide fra le mani della figlia una vecchia zuccheriera di Sèvres presa da Grandet nel

castello di Froidfond. «E dove prenderai lo zucchero? Sei impazzita?»

«Mamma, Nanon comprerà insieme con la candela anche un po' di zucchero.»

«E tuo padre?»

«Sarebbe forse decoroso che suo nipote non potesse bere un bicchiere di acqua

zuccherata? Eppoi, non ci farà caso.»

«Tuo padre vede tutto,» disse Mme Grandet scuotendo il capo.

Nanon, che conosceva il padrone, esitava.

«Vai dunque Nanon, dal momento che è la mia festa.»

Nanon sbottò a ridere sentendo la prima spiritosaggine che la padroncina avesse

mai detto, e le obbedì. Mentre Eugénie e la madre si sforzavano di abbellire la stanza che

M. Grandet aveva destinato al nipote, Charles era oggetto delle attenzioni di Mme des

Grassins che gli faceva parecchie moine.

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«Siete molto coraggioso, signore,» gli disse, «ad abbandonare i piaceri della capitale

durante l'inverno per venire a Saumur. Ma, se non vi facciamo troppa paura, vedrete che

ci si può divertire anche qui.»

Gli scoccò una di quelle occhiate da provinciale, in cui le donne per abitudine

mettono tanta riservatezza e cautela da dare ai loro occhi la ghiotta concupiscenza tipica

degli occhi degli ecclesiastici ai quali ogni piacere sembra un furto o una colpa. Charles si

sentiva così spaesato in quella sala, tanto diversa dall'immenso castello e dall'esistenza

fastosa che aveva attribuito allo zio, che, guardando bene Mme des Grassins, gli parve di

scorgere la copia un po' sbiadita dei volti parigini. Rispose con gentilezza a quella specie

di invito che gli era stato rivolto, e si impegnò con naturalezza in una conversazione,

durante la quale Mme des Grassins abbassò poco per volta la voce per intonarla con il

carattere delle sue confidenze. E sia lei che Charles avevano lo stesso bisogno di

confidenze. Così, dopo qualche minuto di conversazione frivola e di piacevolezze serie,

l'accorta provinciale, credendo di non essere ascoltata dagli altri, che parlavano della

vendita del vino, una faccenda in quel momento all'ordine del giorno a Saumur, riuscì a

dirgli: «Signore, se ci farete l'onore di venire a trovarci, certamente sarà un grande piacere

per mio marito e per me. Il nostro salotto è l'unico a Saumur dove troverete riuniti i grossi

commercianti e i nobili: noi apparteniamo a entrambi i ceti e questi vogliono incontrarsi

solo da noi, perché da noi ci si diverte. Mio marito, e lo dico con orgoglio, è tenuto in

grande considerazione sia dagli uni che dagli altri. Perciò faremo di tutto per alleviare la

noia del vostro soggiorno qui. Se non usciste da casa Grandet, che sarebbe di voi, mio Dio!

Vostro zio è un avaraccio che pensa solo alle vigne; vostra zia è una pia donna che non sa

mettere insieme due idee, e vostra cugina è un'ochetta senza educazione, ordinaria, senza

doti e che passa la vita a rammendare stracci.»

«È in gamba questa donna,» si disse Charles Grandet, rispondendo alle moine di

Mme des Grassins.

«Moglie mia, mi sembra che tu voglia accaparrarti il signore,» disse ridendo quel

pezzo d'uomo del banchiere.

Udendo ciò, il notaio e il presidente fecero delle battute più o meno maliziose; ma il

reverendo li guardò con aria astuta e riassunse il loro pensiero mentre prendeva una presa

di tabacco e offriva in giro la tabacchiera: «Chi meglio di Mme des Grassins,» disse,

«potrebbe fare gli onori di Saumur al signore?»

«Che cosa intendete dire, reverendo?» chiese M. des Grassins.

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«Intendo dire, signore, la cosa più lusinghiera per voi, per la signora, per la città di

Saumur e per il signore,» aggiunse l'astuto vegliardo voltandosi dalla parte di Charles.

Senza dare a vedere che vi prestasse la minima attenzione, padre Cruchot era

riuscito a intuire il tenore della conversazione fra Charles e Mme des Grassins.

«Signore,» disse allora Adolphe a Charles con un'aria che avrebbe voluto essere

disinvolta, «non so se vi ricordiate di me; ho avuto il piacere di incontrarvi a un ballo del

signor barone di Nucingen, e...»

«Perfettamente, signore, perfettamente,» rispose Charles, sorpreso di vedersi

l'oggetto delle attenzioni di tutti.

«Il signore è vostro figlio?» chiese a Mme des Grassins.

Il reverendo guardò la madre con aria maliziosa.

«Sì, signore,» disse lei.

«Eravate dunque molto giovane quando stavate a Parigi?» riprese Charles

rivolgendosi ad Adolphe.

«Che volete, signore,» disse il prete, «li mandiamo a Babilonia appena svezzati.»

Mme des Grassins rivolse al reverendo uno sguardo interrogativo di una

sorprendente profondità. «Bisogna venire in provincia,» continuò il prete, «per trovare

delle donne di trenta e passa anni fresche come la signora, anche se hanno dei figli

laureandi in legge. Mi sembra di essere tornato al giorno in cui i giovani e le dame

montavano sulle sedie per vedervi ballare, signora,» aggiunse voltandosi verso la sua

avversaria. «Per me, i vostri successi sono cosa di ieri...»

«Oh! vecchio scellerato!» disse fra sé Mme des Grassins, «possibile che mi abbia

capito?»

«Sembra che avrò molto successo a Saumur,» si diceva Charles sbottonando la

redingote, infilando una mano nel gilè e lasciando vagare lo sguardo nel vuoto per imitare

la posa in cui Chantrey aveva ritratto lord Byron.

La disattenzione di papà Grandet, o, per meglio dire, la preoccupazione che gli

suscitava la lettura della missiva, non sfuggi né al notaio né al presidente, i quali cercarono

di indovinarne il contenuto attraverso gli impercettibili movimenti del viso del brav'uomo,

che si trovava a essere ben illuminato dalla candela. Al vignaiolo riusciva difficile

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mantenere l'impassibilità abituale della sua fisionomia. Del resto, ognuno potrà

immaginare quale fosse l'espressione di quell'uomo mentre leggeva la terribile lettera che

segue:

«Fratello mio, fra poco saranno ventitré anni che non ci vediamo. L'ultima volta

parlammo del mio matrimonio e poi ci separammo contenti l'uno dell'altro. Certo, non

potevo prevedere che un giorno saresti stato l'unico sostegno della famiglia, della cui

prosperità allora ti rallegravi. Quando avrai fra le mani questa lettera, io non ci sarò più.

Data la mia posizione non ho voluto sopravvivere alla vergogna di un fallimento. Mi sono

tenuto in equilibrio sull'orlo del precipizio fino all'ultimo momento, sperando di

sopravvivere. Ora è necessario cadere. La bancarotta del mio agente di cambio e quella di

Roguin, il mio notaio, hanno divorato le ultime risorse e mi hanno lasciato senza niente.

Ho il dolore di avere debiti per circa quattro milioni, e non posso offrire più del

venticinque per cento di attivo. I vini che ho immagazzinato subiscono ora il disastroso

calo di prezzo provocato dall'abbondanza e dalla qualità dei vostri raccolti. Di qui a tre

giorni, si dirà a Parigi: "M. Grandet era un lestofante!" Io, uomo onesto, finirò avvolto in

un sudario d'infamia. Derubo mio figlio del nome che macchio e della fortuna di sua

madre. Quell'infelice ragazzo che idolatro non sa nulla di ciò. Ci siamo detti addio con

tenerezza.

Per fortuna, ignorava che in quell'addio c'erano gli ultimi palpiti della mia vita.

Chissà se mi maledirà un giorno? Fratello mio, fratello mio, la maledizione dei figli è

spaventosa! contro la nostra essi possono appellarsi, ma la loro è irrevocabile. Grandet, tu

sei il mio fratello maggiore, tu mi devi la tua protezione: fa' che Charles non pronunci

parole amare sulla mia tomba! Fratello mio, se ti scrivessi con il sangue e le lacrime, il

dolore che riverso in questa lettera sarebbe minore; perché piangerei, sanguinerei, sarei

morto e non soffrirei più; ma io soffro e contemplo la morte con occhi asciutti. Eccoti

dunque padre di Charles! egli non ha parenti dal lato materno, e tu sai perché. Perché non

ho rispettato i pregiudizi sociali? Perché ho ceduto all'amore? Perché ho sposato la figlia

naturale di un gran signore? Charles non ha più una famiglia. O sfortunato figlio! figlio

mio!... Ascolta, Grandet, io non ti supplico per me; del resto, il tuo patrimonio non è forse

tanto grande da poter sopportare un'ipoteca di tre milioni; ma per mio figlio! Sappi,

fratello, che le mie mani supplici si sono congiunte nel pensare a te. Grandet, in punto di

morte io ti affido Charles. Ora guardo la mie pistole senza dolore, perché so che gli farai

da padre. Mi amava molto, Charles; io ero buono con lui, non lo contrariavo mai: non mi

maledirà. Del resto, lo vedrai tu stesso: è dolce, ha preso dalla madre, non ti darà mai un

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dispiacere. Povero ragazzo! abituato alle gioie del lusso, non conosce le privazioni alle

quali la nostra miseria giovanile costrinse te e me... Ed eccolo rovinato, solo! Sì, tutti gli

amici lo eviteranno, e sarò stato io la causa delle sue umiliazioni. Ah! vorrei avere braccia

abbastanza forti per scagliarlo in cielo, accanto a sua madre. Follia! torno alla mia sfortuna,

a quella di Charles. L'ho mandato da te perché tu lo informi come si conviene della mia

fine e della sua sorte futura. Sii un padre per lui, ma un buon padre. Non strapparlo di

colpo alla sua vita oziosa, lo uccideresti. Io gli chiedo in ginocchio di rinunciare ai crediti

che quale erede di sua madre potrebbe accampare verso di me. Ma è una preghiera

superflua; egli ha il senso dell'onore e capirà che non deve unirsi ai miei creditori. Fa' che

rinunci alla mia successione in tempo utile. Attenuagli le dure condizioni di vita nelle

quali lo lascio, e, se ha ancora dell'affetto per me, digli a mio nome che non tutto è perduto

per lui. Sì, il lavoro, che ha salvato noi due, può restituirgli quel patrimonio che io gli

sottraggo; e che se vuole ascoltare la voce del padre, che per lui vorrebbe uscire un attimo

solo dalla tomba, parta, vada nelle Indie! Fratello mio Charles è un giovane onesto e

coraggioso; mettigli insieme una paccottiglia, ed egli morirebbe piuttosto che non

restituirti i primi fondi che gli presterai; perché tu glieli presterai, Grandet! altrimenti avrai

dei rimorsi. Ah! se mio figlio non trovasse in te né aiuto né affetto, per l'eternità chiederei

vendetta a Dio della tua durezza. Se avessi potuto salvare qualcosa, avrei avuto il diritto di

rimettergli una somma in conto del patrimonio materno; ma i pagamenti di fine mese

hanno prosciugato tutte le mie risorse. Non avrei voluto morire dubitando della sorte di

mio figlio; avrei voluto sentire delle solenni promesse nel calore della tua mano, che mi

avrebbe riscaldato; ma il tempo mi manca. Mentre Charles è in viaggio, devo compilare il

bilancio. Cerco di provare grazie alla buona fede che regola i miei affari, che nel mio

disastro non c'è né colpa né disonestà. Anche questo non è un modo di occuparmi di

Charles? Addio, fratello mio. Che tu possa ricevere tutte le benedizioni di Dio per la

generosa tutela che ti affido, e che tu, non ne dubito, accetterai. Ci sarà una voce che

pregherà senza posa per te nel mondo dove tutti un giorno devono andare, e dove io sono

già.

Victor-Ange-Guillaume GRANDET.»

«Allora, fate conversazione?» disse papà Grandet piegando meticolosamente la

lettera secondo le pieghe originali e riponendola nella tasca del gilè. Guardò il nipote con

un'aria umile e timorosa, sotto la quale nascondeva emozioni e calcoli. «Vi siete scaldato?»

«A perfezione, mio caro zio.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Ma dove sono le nostre donne?» disse lo zio, avendo già dimenticato che il nipote

dormiva in casa sua. In quel momento, Eugénie e Mme Grandet rientrarono. «È tutto in

ordine di sopra?» chiese loro il brav'uomo ritrovando la calma.

«Sì, padre mio.»

«Ebbene, caro nipote, se siete stanco, Nanon vi accompagnerà nella vostra stanza.

Cribbio, non è certo un appartamento da zerbinotti! ma vorrete scusare dei poveri

vignaioli sempre squattrinati. Il fisco ci mangia tutto.»

«Non vorremmo essere indiscreti, Grandet,» disse il banchiere. «Forse vorrete

discorrere con vostro nipote, perciò vi auguriamo la buona sera. A domani.»

A queste parole, tutti si alzarono, e ognuno fece la riverenza a modo suo. Il vecchio

notaio andò a prendere la lanterna che aveva lasciato sotto la porta, e tornò per accenderla

offrendosi di accompagnare i des Grassins. Mme des Grassins non aveva previsto

l'incidente che doveva far terminare la serata anzitempo, per questo il suo domestico non

era ancora arrivato.

«Volete farmi l'onore di accettare il mio braccio, signora?» disse padre Cruchot a

Mme des Grassins.

«Grazie, reverendo. Ho mio figlio,» rispose lei seccamente.

«Le signore non vogliono compromettersi con me,» disse il prete.

«Via, da' il braccio a padre Cruchot,» le disse il marito.

Il prete condusse la graziosa dama a passo svelto in modo da precedere gli altri.

«È proprio a posto quel giovane, signora,» le disse stringendole il braccio. «Addio

speranze: i giochi sono fatti! Dovrete dire addio a Mlle Grandet, Eugénie andrà al parigino. A

meno che il cugino non sia innamorato di una parigina, vostro figlio Adolphe troverà in

lui il rivale più...»

«Lasciate stare, reverendo. Quel giovane non tarderà ad accorgersi che Eugénie è

una sciocca, una ragazza senza freschezza. Non l'avete veduta? Stasera era gialla come una

cotogna.»

«L'avete già fatto notare al cugino, per caso?»

«E non mi sono fatta scrupolo...»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«State sempre accanto a Eugénie, signora, e non avrete da dire molto a quel giovane

contro la cugina, farà da solo un confronto che...»

«Tanto per cominciare, mi ha promesso di venire a cena da me dopodomani.»

«Ah! se voi voleste, signora...» disse il prete.

«E che cosa volete che voglia, reverendo? Intendete forse darmi dei cattivi consigli?

Non sono arrivata a trentanove anni con una reputazione senza macchia, grazie a Dio, per

comprometterla, anche se si trattasse dell'impero del Gran Mogol. Abbiamo un'età, l'uno e

l'altra, in cui si sa che cosa significa parlare. Devo dire che per essere un ecclesiastico, avete

delle idee proprio sconvenienti. Vergogna! Tutto questo è degno di Faublas.»

«Avete letto Faublas?»

«No, reverendo, volevo dire Le relazioni pericolose.»

«Ah! questo è un libro molto più morale,» disse ridendo il prete. «Ma voi mi

ritenete perverso come un giovane d'oggi. Volevo solo dire...»

«Osereste dire che non intendevate consigliarmi qualche infamia? Non è chiaro? Se

quel giovane, che è molto a posto, ne convengo, mi facesse la corte, non penserebbe alla

cugina. Lo so che a Parigi ci sono delle brave madri che si comportano così per la felicità e

la fortuna dei loro figli; ma qui siamo in provincia, reverendo.»

«Sì, signora.»

«E,» riprese lei, «io rifiuterei, Adolphe medesimo rifiuterebbe cento milioni ottenuti

a quel prezzo.»

«Signora, io non ho parlato di cento milioni. Forse la tentazione avrebbe potuto

essere troppo forte per l'uno e per l'altra. Solo, credo che una donna onesta possa

permettersi, senza far nulla di male e rispettando il proprio onore, delle piccole civetterie

di poco conto, che fanno parte dei suoi doveri in società, e che...»

«Voi credete?»

«Non dobbiamo, signora, cercare di piacerci gli uni agli altri? ...Permettete che mi

soffi il naso. Vi assicuro, signora,» riprese, «che vi guardava con un'aria un po' più

lusinghiera di quella che aveva nel guardare me; ma gli perdono di preferire alla vecchiaia

la bellezza...»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«È chiaro,» diceva il presidente col suo vocione, «che M. Grandet di Parigi manda il

figlio a Saumur con intenti decisamente matrimoniali...»

«Ma, allora, l'arrivo del cugino non è stato un fulmine a ciel sereno,» rispondeva il

notaio.

«Questo non vuol dire niente,» osservò M. des Grassins, «il nostro brav'uomo è un

tipo misterioso.»

«Des Grassins, amico mio, quel giovanotto l'ho invitato a cena. Bisognerà che tu

vada a invitare M. e Mme de Larsonnière e i du Hautoy, con la bella signorina Hautoy,

ben inteso; sperando che almeno quel giorno si vesta bene! Per gelosia la madre la manda

sempre in giro infagottata! Spero, signori, che ci farete l'onore di venire,» aggiunse

fermando il corteo per voltarsi verso i due Cruchot.

«Eccovi arrivata, signora,» disse il notaio.

Dopo aver salutato i tre des Grassins, i tre Cruchot se ne tornarono verso le loro

case, mettendo a profitto il genio analitico tipico dei provinciali per studiare sotto tutti gli

aspetti gli avvenimenti di quella serata, che mutava le posizioni sia dei cruchottiani sia dei

grassinisti. L'ammirevole buon senso che regolava le azioni di questi grandi calcolatori

fece sentire agli uni e agli altri la necessità di una temporanea alleanza contro il nemico

comune. Non dovevano forse di comune accordo impedire che Eugénie si innamorasse del

cugino, e che Charles pensasse alla cugina? Il parigino avrebbe saputo resistere alle perfide

insinuazioni, alle calunnie zuccherose, alle maldicenze infarcite di elogi, agli ingenui

dinieghi che gli avrebbero fatto ronzare di continuo nelle orecchie per ingannarlo?

Quando i quattro parenti furono rimasti soli nella sala, M. Grandet disse al nipote:

«Sarà meglio andare a letto. È troppo tardi per parlare delle faccende che vi portano qui,

troveremo domani il momento opportuno. Noi facciamo colazione alle otto. A

mezzogiorno, mangiamo senza cerimonie un frutto e un pezzetto di pane e beviamo un

bicchiere di vino bianco poi ceniamo, come fanno i parigini, alle cinque. Ecco gli orari. Se

volete vedere la città o i dintorni, siete libero come l'aria. Mi scuserete se gli affari non mi

permetteranno sempre di accompagnarvi. Forse vi sentirete dire da tutti che sono ricco:

"M. Grandet di qui, M. Grandet di là!" Io li lascio dire, le loro chiacchiere non nuociono per

nulla alla mia reputazione. Ma la verità è che non ho un soldo e alla mia età lavoro come

un giovane garzone i cui unici beni sono una cattiva pialla e due buone braccia. Forse voi

stesso capirete presto che cosa vale uno scudo quando bisogna sudarselo. Suvvia, Nanon,

le candele!»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Spero, nipote mio, che troverete tutto ciò di cui avete bisogno,» disse Mme

Grandet; «ma, se vi occorresse qualcosa potrete chiamare Nanon.»

«Cara zia, sarà difficile; credo di aver portato tutto ciò che mi serve! Permettetemi di

augurare una buona notte a voi e anche alla mia giovane cugina.»

Charles prese dalle mani di Nanon una candela accesa, una candela di cera, ma

rimasta tanto a lungo in negozio da aver preso una tinta giallastra così simile a quella delle

candele di sego che M. Grandet, non potendo sospettarne l'esistenza in casa sua, non si

accorse di tanto lusso.

«Vi faccio strada,» disse il brav'uomo.

Invece di uscire per la porta della sala che dava sull'andito, Grandet fece la scena di

passare dal corridoio che separava la sala dalla cucina. Una porta a vento con un vetro

ovale chiudeva il corridoio dalla parte delle scale per attenuare il freddo che vi si

annidava. Ma d'inverno gli spifferi erano tali che, nonostante i parafreddo sistemati sotto

le porte della sala, a stento il calore riusciva a mantenersi a un livello conveniente. Nanon

mise il chiavistello al portone, chiuse la sala e andò nella stalla a sciogliere un cane lupo

che abbaiava con voce roca come se avesse una laringite. Quest'animale, di una notevole

ferocia, non riconosceva che Nanon. Erano due creature campagnole che si capivano.

Quando Charles vide le pareti giallastre e affumicate della tromba della scala dove i

gradini e la ringhiera tarlata tremavano sotto il passo pesante dello zio, si sentì sempre più

preso dallo sgomento. Gli parve di trovarsi su un posatoio per i polli. La zia e la cugina,

verso le quali si voltò per interrogare i loro visi, erano tanto abituate a quella scala che,

non indovinando il motivo del suo stupore, pensarono si trattasse di un'espressione

amichevole, e risposero con un bel sorriso. «Che diavolo mi manda a fare qui mio padre?»

si chiedeva. Arrivato sul primo pianerottolo, vide tre porte dipinte in rosso etrusco e senza

stipiti, che sembravano confondersi con l'intonaco polveroso ed erano guarnite da strisce

di ferro bullonate, in bella vista, che avevano ciascuna estremità foggiata a mo' di fiamma

come lo erano le estremità della lunga mascherina della serratura. Quella delle tre porte

che si trovava proprio in capo alle scale e che avrebbe dovuto dare accesso al locale situato

sopra la cucina, era chiaramente murata. In realtà si entrava solo passando dalla camera di

Grandet al quale quella stanza serviva come studio. L'unica finestra da cui l'ambiente

prendeva luce dava sul cortile ma era sbarrata da una pesante griglia di ferro. Nessuno,

nemmeno Mme Grandet, aveva il permesso di entrare, perché il brav'uomo voleva restarci

solo, come un alchimista davanti al suo fornello. Senza dubbio in quella stanza era stato

creato un qualche nascondiglio, là venivano stipati i titoli di proprietà, là c'erano le bilance

per pesare i luigi, là di notte e in segreto venivano fatte le quietanze, le ricevute, i conti; di

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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modo che chi era in affari vedendo Grandet sempre pronto a ogni evenienza era indotto a

credere che avesse ai suoi ordini una fata o un demone. Là, senza dubbio, quando Nanon

russava da spaccare il piancito, quando il cane lupo vegliava e sbadigliava in cortile,

quando Mme e Mlle Grandet erano addormentate ben bene, il vecchio bottaio andava a

coccolare, a carezzare, a covare, a far lievitare, a imbottare il suo oro. Le pareti erano

spesse, le imposte impenetrabili. Lui solo aveva la chiave di questo laboratorio, dove, si

diceva, consultava delle mappe sulle quali erano disegnati i suoi alberi da frutta e dove

calcolava i suoi prodotti fino all'ultimo arbusto, fino all'ultima fascina. L'ingresso della

stanza di Eugénie era di fronte a questa porta murata. Poi, in fondo al pianerottolo, c'era

l'appartamento degli sposi, che prendeva tutta la facciata della casa. Mme Grandet aveva

una camera vicina a quella di Eugénie nella quale era possibile entrare da una porta

vetrata. La camera del padrone era separata da quella della moglie mediante un tramezzo

e dal misterioso studio mediante uno spesso muro. Papà Grandet aveva fatto sistemare il

nipote al secondo piano, nell'alta mansarda sopra la sua camera, così da poterlo sentire se

gli fosse venuto l'uzzolo di andare in giro. Quando Eugénie e la madre furono in mezzo al

pianerottolo si scambiarono il bacio della buona notte; poi, dopo aver rivolto a Charles

qualche parola di congedo, fredda sulle labbra ma certo calorosa nel cuore della ragazza,

entrarono nelle rispettive stanze.

«Eccovi nella vostra camera, nipote mio,» disse papà Grandet a Charles aprendogli

la porta. «Se aveste bisogno di uscire, chiamate Nanon. Se non c'è lei, mio caro, il cane vi

sbranerebbe senza dire una parola. Dormite bene. Buona notte. Ah! ah! le signore vi hanno

acceso il fuoco,» riprese. In quel momento arrivò la grande Nanon armata di uno

scaldaletto. «Eccone un'altra,» disse M. Grandet. «Credi che mio nipote sia una donna

incinta? Porta via quella brace, Nanon!»

«Ma, signore, le lenzuola sono umide, e questo signore è proprio carino come una

donna.»

«E va bene dal momento che te lo sei messo in testa,» disse Grandet spingendola

per le spalle, «ma sta' attenta a non appiccare un incendio.» Poi l'avaro scese borbottando

parole incomprensibili.

Charles rimase senza fiato in mezzo ai suoi bagagli. Dopo aver gettato un'occhiata

sulle pareti della stanza a mansarda tappezzate con quella carta gialla a fiori che si vede

nelle osterie dei sobborghi, su un camino di pietra calcarea scanalata che metteva freddo

solo a guardarlo, su certe sedie di legno giallo guarnite di giunco verniciato che

sembravano avere più di quattro angoli, su un tavolo da notte aperto che avrebbe potuto

contenere un piccolo sergente di cavalleria, sul misero tappeto di cimosa steso ai piedi di

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un letto a baldacchino il cui drappeggio tremava come se stesse per cadere, roso dalle

tarme, guardò con molta serietà la grande Nanon e le disse: «Ah, beh! Ragazza mia, sono

proprio in casa di M. Grandet, ex sindaco di Saumur, fratello di M. Grandet di Parigi?»

«Sì, signore, siete in casa di un signore amabilissimo, dolcissimo, perfettissimo.

Volete che vi aiuti a disfare i bagagli?»

«Ma certo, mio veterano! Per caso non avete servito fra i marinai della guardia

imperiale?»

«Oh! oh! oh! oh!» disse Nanon, «che cosa sono i marinai della guardia? È roba

salata? E va per mare?»

«Tenete, prendete la vestaglia che è in quella valigia. Questa è la chiave.»

Nanon rimase piena di meraviglia nel vedere una vestaglia di seta verde a fiori

d'oro e con disegni antichi.

«Vi mettete questa per coricarvi?» chiese.

«Sì.»

«Santa Vergine, sarebbe un bel paliotto per l'altare della parrocchia. Mio caro e bel

signore, regalatela alla chiesa, vi salverete l'anima, mentre tenendola la perderete. Oh,

come state bene così. Vado a chiamare la signorina perché vi ammiri.»

«Suvvia, Nanon, poiché Nanon siete, volete stare zitta? Lasciatemi andare a letto,

sistemerò domani le mie cose; e se la mia vestaglia vi piace tanto, vi darò il modo di

salvare l'anima. Sono troppo buon cristiano per non regalarvela quando partirò, e voi

potrete farne tutto quello che vorrete.»

Nanon rimase impietrita a guardare Charles senza riuscire a credere alle sue parole.

«Regalarmi quel capo!» disse uscendo. «Il signorino sta già sognando. Buona notte.»

«Buona notte, Nanon.»

«Che cosa sono venuto a fare qui?» si chiese Charles mentre prendeva sonno. «Mio

padre non è uno sciocco, questo viaggio deve avere uno scopo. Bah! A domani le questioni

serie come diceva non ricordo più quale imbecille d'un greco.»

«Santa Vergine! come è bello mio cugino!» si disse Eugénie interrompendo le

preghiere che per quella sera rimasero a metà.

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Mme Grandet mentre si coricava non pensava a nulla. Attraverso la porta di

comunicazione che si trovava al centro del tramezzo, sentiva l'avaro che camminava in

lungo e in largo nella sua stanza. Come fanno tutte le mogli timide, ella aveva studiato il

carattere del suo signore. Se il gabbiano prevede la tempesta, ella, da segni impercettibili,

intuiva la tempesta interiore che agitava Grandet, e di conseguenza, per usare

un'espressione sua, faceva la morta. Grandet guardava la porta dello studio foderata

all'interno di lamiera, e si diceva: «Che idea assurda ha avuto mio fratello di lasciarmi in

eredità il figlio! Bella successione! Non ho nemmeno venti scudi da dargli. E che sono poi

venti scudi per quel vagheggino, che guardava il mio barometro come se avesse voluto

buttarlo nel fuoco?»

Pensando alle conseguenze di quel doloroso testamento, Grandet era forse più

agitato di quanto lo fosse stato suo fratello al momento di scriverlo.

«Mi lascerà davvero quell'abito d'oro?...» diceva Nanon, che si addormentò

abbigliata con il suo paliotto, e sognò fiori, tappeti, damaschi per la prima volta in vita sua,

proprio come Eugénie sognava l'amore.

[3]

Nella casta e monotona vita delle fanciulle arriva un momento in cui il sole riscalda

con i suoi raggi la loro anima, in cui il fiore acquista un significato, in cui le palpitazioni

del cuore comunicano al cervello un calore fecondo, e amalgamano le idee in un vago

desiderio; giorno di innocente melanconia e di gioia soave! Quando i bambini cominciano

a vedere, sorridono; quando una fanciulla intravede il sentimento nella natura, ella sorride

come sorrideva da bambina. Se la luce è il primo amore della vita, l'amore non è la luce del

cuore? Per Eugénie era arrivato il momento di veder chiaro nelle cose di questo mondo.

Mattiniera come tutte le ragazze di provincia, si alzò di buon'ora, disse le preghiere, e fece

la toeletta, un'occupazione che, adesso, cominciava ad avere un senso. Per prima cosa si

spazzolò i capelli castani, li avvolse in un grosso chignon sul capo con molta attenzione

per evitare che le trecce si sciogliessero, e mise nella sua acconciatura una simmetria che

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accentuò il timido candore del viso, armonizzando la semplicità della pettinatura con

l'ingenuità dei tratti. Mentre si lavava più volte le mani con acqua pura e semplice che le

induriva e le arrossava la pelle, guardava le sue belle braccia rotonde e si chiedeva che

cosa facesse il cugino per avere le mani di un bianco così tenero, le unghie così ben

modellate. Mise delle calze nuove e le sue scarpe più belle. Si abbottonò ben bene senza

saltare nemmeno un'asola. Infine desiderando per la prima volta in vita sua di far bella

figura, conobbe la felicità di indossare un abito in ordine, ben fatto, e che la rendeva

attraente. Quando ebbe terminato la toeletta, sentì suonare l'orologio della parrocchia e si

stupì di udire solo sette rintocchi. Il desiderio di avere tutto il tempo per vestirsi con cura

l'aveva fatta alzare troppo presto. Non conoscendo l'arte di aggiustare e riaggiustare dieci

volte un ricciolo, Eugénie incrociò le braccia in santa pace e sedette alla finestra a

contemplare il cortile, il piccolo giardino e le alte terrazze che lo sovrastavano; una veduta

melanconica, limitata, ma non priva di quella misteriosa bellezza che è dei luoghi solitari o

della natura selvaggia. Accanto alla cucina c'era un pozzo con la vera e la carrucola era

attaccata a un braccio di ferro curvo che una vite avviluppava con i pampini risecchiti,

arrossati, bruciati dalla stagione; di lì, il tralcio tortuoso raggiungeva il muro, vi si

abbarbicava, correva lungo la casa e finiva in una legnaia dove i ciocchi erano sistemati in

bell'ordine come i libri nella libreria di un bibliofilo. Il selciato del cortile presentava quelle

sfumature nerastre che col passare del tempo sono causate dai muschi, dalle erbe e dallo

scarso passaggio. I muri spessi erano velati di verde con lunghe strisce ondulate di color

bruno. Infine, gli otto gradini che spiccavano sul fondo del cortile e conducevano alla

porta del giardino erano malconci e sepolti dalla vegetazione come la tomba di un

cavaliere sotterrato dalla vedova al tempo delle crociate. Sopra un filare di pietre tutte

corrose si levava un cancello di legno fradicio, mezzo sgangherato per la vecchiaia, ma al

quale si aggrappavano a capriccio delle piante rampicanti. Su un lato e sull'altro della

porta a graticcio si protendevano i rami contorti di due meli rinsecchiti. Tre viali paralleli,

in terra e separati da aiuole delimitate da siepi di bosso, formavano il giardino che, in

fondo alla terrazza, terminava sotto la chioma di alcuni tigli. A un capo, dei cespugli di

lamponi; all'altro, un enorme noce che protendeva i rami fin sullo studio del bottaio. La

giornata limpida e il bel sole frequenti in autunno sulle rive della Loira cominciavano a

dissipare il velo lasciato dalla notte sugli oggetti pittoreschi, sui muri, sulle piante del

giardino e del cortile. Eugénie scoprì un fascino del tutto nuovo in quelle cose che prima

per lei erano così comuni. Mille pensieri confusi le nascevano nell'animo, e vi crescevano

man mano che fuori i raggi del sole si facevano più vivi. Ella provò infine quel senso di

piacere vago, inesplicabile, che avviluppa lo spirito, come una nube avvilupperebbe il

corpo. Le sue riflessioni si accordavano con i particolari di quell'ambiente singolare, e le

armonie del suo cuore si sposarono con le armonie della natura.

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Quando il sole raggiunse un tratto del muro da cui scendevano dei capelvenere dal

fogliame folto con i colori cangianti come la gola dei piccioni, raggi celesti di speranza

illuminarono l'avvenire per Eugénie, che ormai era immersa nella contemplazione di quel

muro, dei fiori pallidi, delle campanule azzurre e delle erbe appassite, cui si mescolava un

ricordo dolce come quelli dell'infanzia. Il fruscio che in quel cortile sonoro produceva ogni

foglia che si staccava dal ramo dava una risposta agli interrogativi segreti della fanciulla,

che sarebbe rimasta lì tutta la giornata senza accorgersi del trascorrere delle ore. Poi

vennero i moti tumultuosi dell'animo. Ella si alzava spesso si poneva davanti allo specchio

e si guardava, come un autore onesto contempla la propria opera per criticarsi e

ingiuriarsi.

«Non sono abbastanza bella per lui.» Tale era il pensiero di Eugénie, un pensiero

umile e fertile di sofferenze. La povera fanciulla non si rendeva giustizia; ma la modestia,

o meglio la paura, è una delle prime virtù dell'amore. Eugénie apparteneva, è vero, a quel

tipo di ragazze ben piantate, come se ne trovano nella piccola borghesia, e le cui attrattive

sembrano volgari; ma, se ella non rassomigliava alla Venere di Milo, le sue forme erano

nobilitate da quel soave sentimento cristiano che purifica la donna e le dà una distinzione

sconosciuta agli scultori antichi. Aveva la testa grande, la fronte mascolina, ma delicata,

del Giove di Fidia, e gli occhi grigi ai quali la castità della vita, riversandovisi tutta intera,

conferiva una particolare luminosità. I tratti del viso rotondo, un tempo fresco e rosa,

erano stati appesantiti da un vaiolo abbastanza benigno da non lasciare tracce, ma che

aveva distrutto il vellutato della pelle, rimasta tuttavia ancora così delicata e fine, che il

tenero bacio della madre vi lasciava per un attimo un segno rosso. Il naso era un po'

troppo marcato, ma si accordava con la bocca color rosso di minio, le cui mille

increspature erano piene d'amore e di bontà. Il collo era di una rotondità perfetta. Il seno

pieno, accuratamente velato, attirava lo sguardo e faceva sognare; mancava forse un poco

di quella grazia che conferisce l'abito, ma, per gli intenditori, la non flessibilità di quel

busto sostenuto costituiva un'attrattiva. Eugénie, grande e forte, non aveva dunque quella

bellezza che piace alle masse; ma era bella di quella bellezza così facile da riconoscere e

della quale si invaghiscono soltanto gli artisti. Il pittore che avesse cercato su questa terra

un tipo con la celeste purezza di Maria, che avesse chiesto alla natura femminile tutta

intera quegli occhi modesti e fieri intuiti da Raffaello, quelle linee verginali spesso dovute

alla casualità della concezione, ma che solo una vita cristiana e pudica può conservare o

fare acquistare; quel pittore, innamorato di un sì raro modello, avrebbe trovato nel viso di

Eugénie la nobiltà innata e inconsapevole; avrebbe visto sotto la fronte serena un mondo

d'amore, e, nel taglio degli occhi, nei movimenti abituali delle palpebre, un non so che di

divino. I suoi tratti, i contorni del viso, che l'espressione del piacere non aveva mai né

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alterato né stancato, somigliavano alla linea dell'orizzonte che si delinea dolcemente in

lontananza sulle acque dei laghi tranquilli. Quella fisionomia calma, colorita, aureolata di

luminosità come un bel fiore sbocciato, riposava l'animo, trasmetteva il fascino della

coscienza che vi si rifletteva e attirava lo sguardo. Eugénie era ancora sulla sponda della

vita dove fioriscono le illusioni infantili, dove si colgono le margherite con una gioia più

tardi sconosciuta. Perciò, guardandosi nello specchio si disse, senza sapere ancora che cosa

fosse l'amore: «Sono troppo brutta, non farà caso a me!»

Poi aprì la porta della camera che dava sulle scale, e allungò il collo per ascoltare i

rumori della casa. «Ancora non si alza,» pensò udendo la tosse mattutina di Nanon, e la

brava donna che andava, veniva, spazzava la sala, accendeva il fuoco, legava il cane e

parlava alle bestie nella scuderia. Allora Eugénie scese e corse da Nanon che stava

mungendo la vacca.

«Nanon, cara Nanon, fa' un po' di panna per il caffe di mio cugino.»

«Ma, signorina, bisognava pensarci ieri,» disse Nanon, scoppiando a ridere. «Non

posso fare la panna. Vostro cugino è carino, carino, veramente carino. Voi non l'avete

veduto con la vestaglia di seta e d'oro. Io sì che l'ho visto, io. Porta della biancheria fine

come la cotta del signor parroco.»

«Allora, Nanon, fai una focaccia.»

«E chi mi darà la legna per il forno, e la farina, e il burro?» disse Nanon, che, nella

sua qualità di primo ministro di Grandet, assumeva a volte un'importanza enorme agli

occhi di Eugénie e della madre. «C'è bisogno di derubarlo, quell'uomo, per far festa a

vostro cugino? Chiedetegli il burro, la farina, la legna, è vostro padre, può darvi tutto ciò

che vuole. Guardate, ecco che scende per occuparsi delle provviste...»

Sentendo tremare la scala sotto il passo del padre, Eugénie fuggì in giardino, tutta

spaventata. Ella provava già gli effetti di quel profondo pudore e di quella particolare

consapevolezza della felicità che ci fa supporre, forse non senza ragione, di avere i pensieri

stampati sulla fronte e quindi ben esposti agli sguardi di tutti. Rendendosi conto alla fine

che la casa paterna era fredda e spoglia, la povera ragazza provò la rabbia di non poterla

sistemare in armonia con l'eleganza del cugino. Sentì un bisogno irrefrenabile di fare

qualcosa per lui: ma che cosa? Non ne aveva la minima idea. Ingenua e schietta, ella si

abbandonava alla propria natura angelica senza diffidare né delle sue impressioni né dei

suoi sentimenti. La sola vista del cugino aveva svegliato in lei le inclinazioni naturali della

donna, tanto più forti in quanto, avendo raggiunto il ventitreesimo anno, ella era nella

pienezza dell'intelligenza e dei desideri. Per la prima volta il cuore le si riempì di terrore

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alla vista del padre, lo considerò come l'arbitro del suo destino, e si sentì in colpa perché

gli taceva una parte dei suoi pensieri. Si mise a camminare di buon passo, meravigliandosi

di respirare un'aria più pura, di sentire più vivificanti i raggi del sole e di trarne un calore

morale, una vita nuova. Mentre ella cercava il modo e la maniera per ottenere la focaccia,

fra la grande Nanon e Grandet scoppiò una disputa, cosa rara fra i due quanto le rondini

d'inverno. Munito di chiavi, il brav'uomo era venuto a misurare i viveri necessari per i

pasti della giornata.

«È avanzato pane da ieri?» disse a Nanon.

«Nemmeno una briciola, signore.»

Grandet prese una grossa pagnotta rotonda, ben infarinata, modellata in una di

quelle ceste piatte che nell'Angiò si usano per panificare, e stava per tagliarla, quando

Nanon gli disse: «Oggi siamo in cinque, signore.»

«È vero,» rispose Grandet, «ma la pagnotta pesa sei libbre, ne avanzerà. Del resto, i

giovanotti di Parigi, lo vedrai, non mangiano pane.»

«E che,» disse Nanon, «mangiano solo il lecchetto?»

Il lecchetto, parola del lessico popolare, indica ciò che si accompagna al pane, dal

burro spalmato, lecchetto volgare, fino alle marmellate di pesca duracina, il più raffinato

dei lecchetti; e tutti coloro che da bambini hanno leccato il lecchetto e lasciato il pane

capiranno tutto il significato della parola. «No,» rispose Grandet, «non mangiano né

lecchetto né pane. Sono come delle ragazze da marito.»

Infine, dopo aver ordinato con parsimonia il menu quotidiano, il brav'uomo si stava

dirigendo verso il frutteto, non senza aver prima chiuso i battenti della dispensa, quando

Nanon lo fermò per dirgli: «Signore, datemi un po' di farina e di burro, preparerò una

focaccia per i ragazzi.»

«Hai intenzione di saccheggiare la casa perché è arrivato mio nipote?»

«Non pensavo a vostro nipote più che al vostro cane, e non più di quanto ci

pensiate voi stesso... Lo vedete? Mi avete dato solo sei zollette di zucchero! ce ne vogliono

otto.»

«Ah, beh! Nanon, non ti avevo mai vista così. Si può sapere che ti passa per la testa?

Sei forse la padrona, qui? Non ti darò più di sei zollette di zucchero.»

«E allora, vostro nipote con che cosa inzucchererà il caffe?»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Con due zollette; io ne farò a meno.»

«Voi farete a meno dello zucchero, alla vostra età! Preferirei comperarvelo con i

miei soldi.»

«Occupati di ciò che ti riguarda.»

Malgrado il ribasso dei prezzi, lo zucchero rimaneva, agli occhi del bottaio, la più

preziosa fra le derrate coloniali, per lui valeva sempre sei franchi la libbra. L'impegno di

contenerne il consumo, preso sotto l'impero, era diventata la più irrinunciabile delle sue

abitudini. Ogni donna, anche la più sciocca, sa usare l'astuzia per arrivare ai suoi scopi:

Nanon lasciò cadere il problema dello zucchero per ottenere la focaccia.

«Signorina,» gridò attraverso la finestra, «è vero che volete la focaccia?»

«No, no,» rispose Eugénie.

«E va bene, Nanon,» disse Grandet sentendo la voce della figlia, «prendi.» Aprì la

madia dove c'era la farina, gliene diede una misura, e aggiunse qualche oncia di burro al

pezzo che aveva già tagliato.

«Ci vorrà della legna per scaldare il forno,» disse l'implacabile Nanon.

«Prendine quanta te ne serve,» rispose malinconicamente Grandet; «però, se farai

una torta di frutta e cuocerai tutta la cena al forno, così non dovrai accendere due fuochi.»

«Senti un po'!» esclamò Nanon, «non avete certo bisogno di dirmelo.» Grandet

lanciò al suo fedele ministro un'occhiata quasi paterna. «Signorina,» gridò la cuoca,

«avremo la focaccia.»

Papà Grandet tornò carico di frutta e ne sistemò una prima vassoiata sul tavolo di

cucina. «Avete visto, signore,» gli disse Nanon, «che begli stivali ha vostro nipote? Che

cuoio, e che buon odore! Con che cosa bisognerà pulirli? Devo dargli quel vostro lucido

all'uovo?»

«Nanon, credo che l'uovo sciuperebbe quel cuoio lì. Eppoi, digli che non sai come

lucidare il marocchino... si, è marocchino; si comprerà lui a Saumur e ti porterà il lucido

adatto ai suoi stivali. Ho sentito dire che aggiungono dello zucchero al lucido per renderli

brillanti.»

«È buono da mangiare?» disse la serva, avvicinando gli stivali al naso. «Senti, senti!

odorano come l'acqua di Colonia della signora! Ah! è buffo.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Buffo!» disse il padrone, «trovi buffo che un paio di stivali costino più di quel che

vale colui che li porta?»

«Signore,» disse Nanon al secondo viaggio del padrone, che aveva chiuso la

dispensa della frutta, «che ne direste di fare una o due volte la settimana un po' di lesso

per via di vostro...?»

«Sì.»

«Bisognerà che vada dal macellaio.»

«Non ce n'è bisogno; fai brodo di gallina, te la daranno i fittavoli. Dirò a Cornoiller

di uccidere dei corvi. È una selvaggina, quella, che fa il miglior brodo del mondo.»

«È vero, signore, che i corvi mangiano i morti?»

«Sei una stupida, Nanon! Mangiano, come tutti, quello che trovano. Forse che anche

noi non viviamo di morti? Che altro sono le eredità?» Papà Grandet, non avendo altri

ordini da impartire, cavò di tasca l'orologio, e, vedendo che poteva disporre ancora di una

mezz'ora prima di colazione, prese il cappello, andò ad abbracciare la figlia e le disse:

«Vuoi venire a fare due passi sui miei prati lungo la Loira? Ho qualcosa da fare laggiù.»

Eugénie andò a mettersi il cappello di paglia cucita, foderato di taffettà rosa; poi

padre e figlia scesero la strada tortuosa fino alla piazza.

«Dove ve ne andate così di buon mattino?» chiese il notaio Cruchot, incontrando

Grandet.

«A vedere certe cose,» rispose il brav'uomo per nulla convinto della passeggiata

mattutina del suo amico.

Il notaio sapeva per esperienza che quando papà Grandet andava a vedere certe

cose c'era sempre da guadagnarci a tenergli dietro. Perciò, lo accompagnò.

«Venite, Cruchot?» disse Grandet al notaio. «Voi siete mio amico; ora vi dimostrerò

quale stupidaggine sia piantare pioppi su dei buoni terreni...»

«Ma allora non ricordate più i sessantamila franchi che avete ricavato da quelli dei

vostri prati sulla Loira?» disse Cruchot spalancando gli occhi per lo stupore. «Avete avuto

una bella fortuna!... tagliare agli alberi quando a Nantes scarseggiava il legno dolce e

venderli a trenta franchi!»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Eugénie ascoltava senza sapere di essere nel momento più importante della sua

vita, e senza sapere che il notaio stava per far pronunciare nei suoi confronti una sentenza

paterna e sovrana. Grandet era arrivato ai bellissimi prati che possedeva lungo la Loira, e

dove trenta braccianti erano occupati a ripulire, colmare, livellare il terreno sul quale un

tempo sorgevano i pioppi, «Notaio Cruchot, guardate quanto terreno prende un pioppo,»

disse Grandet. «Jean,» gridò a un bracciante, «mi...mi...misura con la tesa in tu...tu...tutti i

sensi!»

«Quattro volte otto piedi,» rispose il bracciante dopo aver prese le misure.

«Trentadue piedi perduti,» disse Grandet a Cruchot. «Su questo filare avevo

trecento pioppi, è così? Ora...tre ce...ce...ce...nto volte trentad...ue pie...piedi me ne

ru...ru...ru...ru...bavano cin...quecento di fieno; aggiungetene due volte tanto sui lati,

millecinquecento; i filari di mezzo altrettanto. Dunque, di...di...diciamo mille balle di

fieno.»

«Va bene,» disse Cruchot per aiutare l'amico, «mille balle di fieno valgono circa

seicento franchi.»

«Di...di...diciamo mi...ii...lle duecento con i tre o quattrocento franchi del secondo

taglio. Ora, ca...ca...ca...calcolate qua...qua...quanto re...re...rendono mi...lleduecento

franchi l'anno du...du...durante quaranta anni con gli in...in...interessi com...com...composti

che...che...che...le...i sa.»

«Vada per sessantamila franchi,» disse il notaio.

«D'accordo! Sa...sa...saranno so...so...solo sessantamila franchi.» Ebbene, riprese il

vignaiolo senza balbettare, «duemila pioppi di quaranta anni non mi renderebbero

cinquantamila franchi. C'è remissione. E questo l'ho scoperto io,» disse Grandet gonfiando

il petto d'orgoglio. «Jean,» continuò, «riempi le buche tranne che dalla parte della Loira,

dove pianterai i pioppi che ho comperato. Piantandoli lungo il fiume si nutriranno a spese

del governo,» aggiunse voltandosi verso Cruchot e imprimendo alla verruca del naso un

lieve movimento che equivaleva al più ironico dei sorrisi.

«È chiaro: i pioppi vanno piantati solo su terreni magri,» disse Cruchot, sbalordito

dai calcoli di Grandet.

«Siiis...signore,» rispose con ironia il bottaio.

Eugénie che contemplava il bellissimo paesaggio della Loira senza ascoltare i calcoli

del padre, sentendo Cruchot dire qualcosa al suo cliente prestò orecchio alle parole del

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notaio: «E così avete fatto venire un genero da Parigi; in tutta Saumur non si parla che di

vostro nipote. Avrò presto un contratto da preparare, papà Grandet?»

«Vo...vo...voi siete u...u...uscito di bu...buon'ora pe...per dirmi questo,» riprese

Grandet accompagnando le parole con un movimento della verruca. «Ebbene, mio vecchio

came...rata, sarò franco e vi dirò quello che vo...lete sa...sapere. Vedete, preferirei

ge...gettare mia fi...fi...figlia nella Loira piuttosto che da...rla a suo cu...u...ugino;

po...po...tete di...dirlo a tutti. Anzi no, lasciate che la ge...nte chi...acchieri.»

Questa risposta fece venire le vertigini a Eugénie. Le vaghe speranze che

cominciavano a germogliare nel suo cuore, fiorirono all'improvviso, si realizzarono e

formarono un fascio di fiori che ella vide recisi e gettati a terra. Dal giorno innanzi aveva

cominciato ad attaccarsi a Charles con tutti quei legami di felicità che uniscono le anime;

ormai dunque la sofferenza le avrebbe nutrite. Non è forse nel nobile destino della donna

essere più colpita dalle tristezze della miseria che dagli splendori della ricchezza? Come

aveva potuto il sentimento paterno estinguersi in fondo al cuore del padre? Di quale mai

delitto era colpevole Charles? Mistero! Il suo amore nascente, che era un mistero tanto

profondo, si avvolgeva già nei misteri. Tornò con le gambe tremanti, e, arrivando nella

vecchia strada buia cosi allegra per lei, la trovò triste e respirò la malinconia che il tempo e

le cose vi avevano impresso. Non le mancava alcuno degli insegnamenti dell'amore. A

qualche passo da casa precedette il padre e lo attese sulla porta dopo aver bussato. Ma

Grandet che aveva notato in mano al notaio un giornale ancora con la fascetta, gli aveva

detto: «A quanto stanno i titoli?»

«Voi non volete darmi retta, Grandet,» gli rispose Cruchot.

«Comprateli alla svelta, c'è ancora da guadagnarci un venti per cento in due anni a

parte gli interessi a un tasso eccellente, cinquemila lire di rendita per ottantamila franchi. I

titoli stanno a ottanta franchi e cinquanta centesimi.»

«Si vedrà,» rispose Grandet massaggiandosi il mento.

«Mio Dio!» disse il notaio, che aveva aperto il giornale.

«E allora?» esclamò Grandet nel momento in cui Cruchot gli metteva il giornale

sotto gli occhi dicendo: «Leggete quest'articolo.»

M. Grandet, uno dei commercianti più stimati di Parigi, si è bruciato le cervella ieri, dopo

aver fatto la sua solita apparizione alla Borsa aveva inviato al presidente della Camera dei deputati

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le dimissioni e si era anche dimesso dalla carica di giudice del tribunale di commercio. È stato

rovinato dal fallimento dei signori Roguin e Souchet, il suo agente di cambio e il suo notaio. La

considerazione di cui godeva M. Grandet e il suo credito erano comunque tali che avrebbe senza

dubbio trovato aiuti sulla piazza di Parigi. È doloroso che un uomo onorato abbia ceduto a un

momento di disperazione ecc.

«Lo sapevo,» disse il vecchio vignaiolo al notaio.

Queste parole gelarono Cruchot, che, sebbene come notaio fosse abituato a essere

impassibile, sentì un brivido nella schiena al pensiero che il Grandet di Parigi aveva forse

mendicato invano i milioni del Grandet di Saumur.

«E suo figlio, così felice ieri...?»

«Non sa ancora niente,» rispose Grandet con la stessa calma.

«Addio, signor Grandet,» disse Cruchot, che capì tutto e andò a rassicurare il

presidente de Bonfons.

Entrando in casa, Grandet trovò la colazione pronta. Con quel trasporto che ci

procura un dolore segreto Eugénie saltò, per baciarla, al collo di Mme Grandet, che, già

seduta sulla sua sedia rialzata, si stava facendo delle maniche di maglia per l'inverno.

«Potete mangiare,» disse Nanon, che scendeva gli scalini a quattro a quattro, «il

ragazzo dorme come un cherubino. Come è carino con gli occhi chiusi! Sono entrata, l'ho

chiamato. Beh, niente!»

«Lascialo dormire,» disse Grandet, «oggi si sveglierà sempre troppo presto per

apprendere le cattive notizie che lo aspettano.»

«Che cosa è successo?» chiese Eugénie mettendo nel caffe due zollette di zucchero

pesanti non si sa quanti grammi, che il brav'uomo si divertiva a tagliare lui stesso nei

momenti liberi. Mme Grandet, che non aveva osato fare quella domanda, guardò il marito.

«Suo padre si è fatto saltare le cervella.»

«Mio zio?...» disse Eugénie.

«Povero giovane!» esclamò Mme Grandet.

«Sì, povero,» riprese Grandet, «non ha più un soldo.»

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«E dire che dorme come se fosse il re della terra,» osservò Nanon con voce dolce.

Eugénie smise di mangiare. Il cuore le si strinse come quando la compassione,

suscitata dalla sventura dell'uomo amato, invade tutto il corpo di una donna. La fanciulla

scoppiò a piangere.

«Nemmeno conoscevi tuo zio, perché piangi?» le disse il padre lanciandole una di

quelle occhiate da tigre affamata che senza dubbio lanciava ai suoi mucchi d'oro.

«Ma, signore,» disse la serva, «chi non proverebbe pietà per quel povero giovane

che dorme come un ciocco e ignora il suo destino?»

«Non sto parlando con te, Nanon! tieni a freno la lingua.»

Eugénie apprese in quel momento che la donna che ama deve sempre dissimulare i

propri sentimenti. Non rispose.

«Fino al mio ritorno non gli direte nulla, spero, signora Grandet,» continuò il

vecchio. «Devo andare a far sistemare il fossato dei miei prati lungo la strada. Tornerò a

mezzogiorno per la seconda colazione, e parlerò con mio nipote dei suoi affari. Quanto a

te, signorina Eugénie, se è per quel vagheggino che piangi, puoi anche smettere, ragazza

mia. Partirà al più presto per le Indie. Non lo vedrai più...»

Il padre prese i guanti dalla tesa del cappello, li infilò con la calma abituale, li calzò

ben bene incrociando fra loro le dita delle due mani, e uscì.

«Ah! mamma, soffoco!» gridò Eugénie quando fu rimasta sola con la madre. «Non

ho mai sofferto tanto.» Mme Grandet, vedendo impallidire la figlia, aprì la finestra e le

fece respirare una boccata d'aria fresca. «Mi sento meglio,» disse dopo un po' Eugénie.

Questa reazione nervosa in un carattere fino ad allora apparentemente calmo e

freddo colpì Mme Grandet che osservò la figlia con quella intuizione e comprensione che

hanno le madri per l'oggetto della loro tenerezza, e indovinò tutto. Ma, in verità, la vita

delle famose sorelle ungheresi, attaccate l'una all'altra a causa di un errore della natura,

non era stata più intimamente unita di quella di Eugénie e della madre, sempre insieme in

quel vano di finestra, insieme in chiesa, insieme quando dormivano respirando la

medesima aria.

«Povera piccola!» disse Mme Grandet prendendo la testa di Eugénie per

appoggiarsela sul seno.

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A queste parole, la fanciulla alzò il capo, interrogò con lo sguardo la madre, ne

scrutò i pensieri più riposti e le disse: «Perché mandarlo nelle Indie? Se è infelice, non

dovrebbe restare qui? non è il nostro parente più prossimo?»

«Si, bambina mia, sarebbe naturale; ma tuo padre ha le sue ragioni, noi dobbiamo

rispettarle.»

Madre e figlia rimasero in silenzio sedute, una sulla sedia rialzata, l'altra sulla

poltroncina; e, tutte e due, ripresero il loro lavoro. Piena di riconoscenza per l'ammirevole

comprensione che le aveva dimostrato la madre, Eugénie le baciò una mano dicendo:

«Come sei buona, mamma mia cara!» Queste parole illuminarono il vecchio volto materno

segnato da lunghi dolori. «Ti piace?» chiese Eugénie.

Mme Grandet rispose con un sorriso; poi, dopo un attimo di silenzio, disse a bassa

voce: «Dunque lo ami di già? È male.»

«Male,» riprese Eugénie, «perché? A te piace, piace a Nanon, perché non dovrebbe

piacere a me? Vieni, mamma, prepariamo la tavola per la sua colazione.» Posò il lavoro e

la madre fece altrettanto dicendole: «Sei pazza!» Ma era felice di giustificare la follia della

figlia condividendola. Eugénie chiamò Nanon.

«Che altro vuole, signorina?»

«Nanon, farai un po' di panna per mezzogiorno?»

«Ah! per mezzogiorno, si,» rispose la vecchia domestica.

«Bene, fagli del caffe molto forte, ho sentito dire da M. des Grassins che a Parigi il

caffe lo fanno molto forte. Metticene parecchio.»

«E dove vuole che lo prenda?»

«Compralo.»

«E se il padrone mi incontra?»

«È sui campi.»

«Corro. Ma M. Fessard quando mi ha dato la candela mi ha chiesto se avevamo in

visita i tre magi. Tutta la città verrà a sapere le nostre sregolatezze.»

«Se tuo padre si accorge di qualcosa,» disse Mme Grandet «è capace di picchiarci.»

«Ci batta pure, riceveremo i suoi colpi in ginocchio.»

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Per tutta risposta Mme Grandet alzò gli occhi al cielo. Nanon prese la cuffia e uscì.

Eugénie tirò fuori della biancheria candida, andò a prendere qualche grappolo d'uva che si

era divertita ad appendere a delle funi in granaio; camminò con passo leggero nel

corridoio per non svegliare il cugino, e non seppe trattenersi dall'ascoltare attraverso la

porta il respiro che gli usciva dalle labbra con cadenza regolare. «Mentre lui dorme

l'infelicità veglia,» si disse. Prese le foglie di vite più verdi, sistemò i suoi grappoli con

l'arte di un esperto capo dispensiere, e li portò trionfalmente in tavola. In cucina, fece man

bassa delle pere contate dal padre, e le dispose a piramide in mezzo alle foglie. Andava,

veniva, trottava, saltava. Se avesse potuto avrebbe prosciugato la casa del padre; ma questi

aveva le chiavi di tutto. Nanon tornò con due uova fresche. Vedendo le uova, Eugénie

provò l'impulso di saltarle al collo.

«Il fittavolo della Lande le aveva nel paniere, io gliele ho chieste e lui me le ha date

per farmi piacere, il tesoruccio.»

Dopo aver trafficato per due ore, durante le quali Eugénie interruppe venti volte il

lavoro per andare a veder bollire il caffe, per andare a sentire se il cugino si stesse alzando,

ella riuscì a preparare una colazione molto semplice, poco costosa, ma che si scostava di

gran lunga dalle abitudini inveterate della casa. La colazione di mezzogiorno veniva

consumata in piedi. Ognuno prendeva un pezzo di pane, un frutto o un po' di burro, e un

bicchiere di vino. Guardando la tavola sistemata accanto al fuoco, la poltrona accanto al

coperto del cugino, guardando i due vassoi di frutta, il porta-uovo, la bottiglia di vino

bianco, il pane, le zollette di zucchero ammucchiate in un piattino, Eugénie fu scossa da un

tremito allorché le venne fatto di pensare, e solo allora, alle occhiatacce che le avrebbe

lanciato il padre se fosse rientrato in quel momento. Non faceva quindi che guardare la

pendola per calcolare se il cugino sarebbe riuscito a fare colazione prima del ritorno del

brav'uomo.

«Stai tranquilla, Eugénie; se tuo padre arriva, mi prenderò io la responsabilità di

tutto,» disse Mme Grandet.

Eugénie non riuscì a trattenere una lacrima.

«Oh! mia buona madre,» esclamò, «non ti ho amata mai abbastanza!»

Charles, dopo aver fatto, canticchiando, mille andirivieni nella sua stanza, alla fine

scese. Per fortuna non erano ancora le undici. Il solito parigino! Si era vestito con civetteria

come se fosse stato al castello della nobile dama che viaggiava in Scozia. Entrò con

quell'aria affabile e sorridente che ben si addice alla giovinezza, e che provocò in Eugénie

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una triste gioia. Aveva preso allegramente il crollo dei suoi immaginari castelli d'Angiò, e

si rivolse tutto gaio alla zia.

«Avete passato bene la notte, cara zia? E voi, cugina?»

«Bene; e voi?» disse Mme Grandet.

«Io magnificamente.»

«Dovete aver fame, cugino mio,» disse Eugénie; «mettetevi a tavola.»

«Non faccio mai colazione prima di mezzogiorno, cioè quando mi alzo. Tuttavia, il

viaggio è stato cosi cattivo che farò uno strappo alla regola. Del resto...» Tirò fuori dal

taschino il più delizioso orologio piatto che Bréguet avesse mai fabbricato. «Toh, ma sono

le undici, sono stato mattiniero.»

«Mattiniero?...» disse Mme Grandet.

«Sì, il fatto è che volevo sistemare le mie cose. E va bene, mangerò volentieri

qualcosa, un nonnulla, un pollo, una pernice.»

«Santa Vergine!» esclamò Nanon udendo quelle parole.

«Una pernice,» ripeteva fra sé Eugénie che sarebbe stata disposta a pagare una

pernice con tutto il suo peculio.

«Mettetevi a sedere,» gli disse la zia.

Il dandy si accomodò sulla poltrona come una bella donna si siede sul suo divano.

Eugénie e la madre presero due sedie e si sistemarono accanto a lui davanti al fuoco.

«Vivete sempre qui?» chiese Charles che alla luce del giorno trovava la sala ancora

più brutta che al lume di candela.

«Sempre,» rispose Eugénie guardandolo, «tranne che al tempo della vendemmia.

Allora andiamo ad aiutare Nanon e abitiamo tutti nell'abbazia di Noyers.»

«Non andate mai a passeggio?»

«Qualche volta la domenica, dopo i vespri, se è bel tempo,» disse Mme Grandet,

«andiamo sul ponte o a veder falciare il fieno.»

«Avete un teatro qui?»

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«Andare a teatro!» esclamò Mme Grandet, «a vedere i commedianti! Ma non lo

sapete che è un peccato mortale?»

«Ecco, mio caro signore,» disse Nanon portando le uova, «le daremo dei polli alla

coque.»

«Oh! uova fresche,» disse Charles, che, come tutte le persone abituate al lusso, non

pensava già più alla sua pernice. «Ma è una delizia! Non avreste per caso del burro,

ragazza mia?»

«Ah! del burro! Allora rinunciate alla focaccia?» disse la domestica.

«Insomma, Nanon, porta il burro!» esclamò Eugénie.

La fanciulla osservava il cugino, intento a tagliare bastoncini di pane, e provava lo

stesso piacere che prova la più sentimentale sartina di Parigi nel vedere un melodramma

in cui trionfa l'innocenza. È vero che Charles, allevato da una madre piena di grazia,

perfezionato da un'amica chic, aveva gesti carini, eleganti, misurati, come quelli di una

donna di classe. La tenerezza e la comprensione di una fanciulla emanano un influsso

davvero magnetico. Così Charles, vedendosi oggetto delle attenzioni della cugina e della

zia, non poté sottrarsi all'influenza dei sentimenti che convergevano verso di lui

sommergendolo, per così dire. Lanciò a Eugénie uno sguardo pieno di bontà, di carezze,

uno sguardo che sembrava fatto di sorrisi. Notò, osservando Eugénie, la squisita armonia

dei tratti di quel volto puro, l'atteggiamento innocente, la limpidezza magica degli occhi,

dove scintillavano giovani pensieri d'amore, e dove il desiderio ignorava la voluttà.

«Davvero, cara cugina, se voi foste in un palco e in abito da sera all'Opéra, vi

garantisco che mia zia avrebbe ragione perché fareste commettere peccati di desiderio agli

uomini e di gelosia alle donne.»

Questo complimento diede una stretta al cuore di Eugénie e lo fece palpitare di

gioia, per quanto ella non vi capisse nulla.

«Oh! cugino mio, volete burlarvi di una povera piccola provinciale.»

«Se mi conosceste, cugina, sapreste che detesto le canzonature: inaridiscono il cuore

e sciupano ogni sentimento...» E inghiottì di gusto il suo bastoncino di pane imburrato.

«No, forse non ho abbastanza spirito per burlarmi degli altri, e questo è un difetto che non

mi giova. A Parigi, si trova modo di distruggere un uomo dicendo: "Ha buon cuore." Il che

vuol dire: "Il povero ragazzo è stupido come un rinoceronte." Ma, siccome sono ricco, ed è

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risaputo che so colpire d'acchito un fantoccio a trenta passi, all'aperto e con ogni specie di

pistola, le canzonature non mi toccano.»

«Ciò che dite, nipote mio, dimostra che avete buon cuore.»

«Avete un bell'anello,» disse Eugénie; «vi dispiace se vi chiedo di farmelo vedere?»

Charles tese la mano togliendosi l'anello ed Eugénie arrossì nello sfiorare con la

punta delle dita le unghie rosa del cugino.

«Guarda, mamma, che bel lavoro.»

«Oh! c'è parecchio oro,» disse Nanon portando il caffe.

«Che cos'è quella roba?» chiese Charles ridendo.

E indicava un recipiente oblungo, di terracotta scura, verniciato, maiolicato

all'interno, orlato da una frangia di cenere, e sul fondo del quale si depositava il caffe dopo

essere salito alla superficie del liquido bollente.

«È caffe bollito,» disse Nanon.

«Ah! cara zia, se non altro lascerò una traccia benefica del mio passaggio qui. Siete

molto arretrati! Vi insegnerò a fare del buon caffe in una caffettiera alla Chaptal.»

Cercò di spiegare come funzionasse una caffettiera alla Chaptal.

«Ah, beh, se c'è tutto questo traffico da fare,» disse Nanon, «bisognerebbe passarci

la vita. Non farò mai un caffe così. Ci mancherebbe! E chi taglierà l'erba per la vacca

mentre io faccio il caffe?»

«Lo farò io,» disse Eugénie.

«Figliola!» disse Mme Grandet guardando sua figlia.

A questa parola, quasi un richiamo al dolore che stava per colpire quell'infelice

giovane, le tre donne tacquero e lo fissarono con un'aria di commiserazione che lo colpì.

«Che cosa avete, cugina?»

«Ssst!» disse Mme Grandet a Eugénie che stava per rispondere. «Figlia mia, sai che

tuo padre si è assunto il compito di parlare al signore...»

«Dite Charles,» fece il giovane Grandet.

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«Ah! vi chiamate Charles? È un bel nome,» esclamò Eugénie.

Le disgrazie presagite arrivano quasi sempre. A quel punto, Nanon, Mme Grandet e

Eugénie, che non potevano pensare senza rabbrividire al ritorno del vecchio bottaio,

udirono bussare alla porta con un colpo che era a loro ben noto.

«Ecco papà,» disse Eugénie.

Tolse il piattino con lo zucchero lasciandone qualche zolletta sulla tovaglia. Nanon

portò via il piatto con le uova. Mme Grandet si drizzò come una cerva spaventata. Era un

vero e proprio timor panico, del quale Charles si stupì senza riuscire a spiegarselo.

«Ma insomma, che cosa avete?» chiese loro.

«C'è mio padre,» disse Eugénie.

«E allora?...»

M. Grandet entrò, gettò il suo sguardo acuto sulla tavola, su Charles, vide tutto.

«Ah! ah! hai fatto festa a tuo nipote, bene, benissimo, benone!» disse senza

balbettare. «Quando il gatto non c'è, i topi ballano.»

«Festa?...» si disse Charles, incapace di sospettare il tenore di vita e le abitudini di

quella casa.

«Dammi il mio bicchiere, Nanon,» disse il brav'uomo.

Eugénie portò il bicchiere. Grandet tirò fuori dal taschino un coltello con

l'impugnatura di corno e la lama larga, tagliò una fetta di pane, prese un po' di burro, lo

spalmò con cura, e si mise a mangiare sempre restando in piedi. In quel momento, Charles

inzuccherava il suo caffe. Papà Grandet notò le zollette di zucchero, scrutò la moglie, che

impallidì e arretrò di qualche passo; si chinò sull'orecchio della povera vecchia e le disse:

«Si può sapere dove hai preso tutto quello zucchero?»

«Nanon è andata a prenderlo da Fessard, non ce n'era più.»

È impossibile immaginare l'interesse che questa scena muta suscitava nelle tre

donne; Nanon era uscita dalla cucina e guardava verso la sala per vedere come si

mettessero le cose. Charles, dopo aver assaggiato il suo caffe, trovandolo troppo amaro,

cercò lo zucchero che Grandet aveva già fatto sparire.

«Che cosa volete, nipote mio?» gli disse il brav'uomo.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Lo zucchero.»

«Mettete un po' di latte,» rispose il padrone di casa, «e il caffe si addolcirà.»

Eugénie riprese il piattino dello zucchero che Grandet aveva tolto di mezzo, e lo

mise sulla tavola guardando il padre con tutta calma. Senza dubbio la parigina che, per

facilitare la fuga dell'amante, regge con le deboli braccia una scala di seta non ha più

coraggio di quanto ne dimostrò Eugénie riportando in tavola lo zucchero. L'amante

ricompenserà la sua parigina che gli mostrerà orgogliosa il bel braccio martoriato dove

ogni livido verrà cosparso di lacrime e di baci e guarito dal piacere; per Charles invece era

impossibile penetrare il segreto dei profondi turbamenti che travagliavano il cuore della

cugina, fulminata in quel momento dallo sguardo del vecchio bottaio.

«Tu non mangi, moglie mia?»

La povera schiava si fece avanti, si tagliò con aria remissiva un pezzo di pane e

prese una pera. Eugénie ebbe l'audacia di offrire al padre dell'uva, dicendogli: «Assaggia

quest'uva che ho conservato, papà! - Ne mangerete anche voi, vero cugino? Sono andata a

prenderli apposta per voi, questi bei grappoli.»

«Oh! se qualcuno non le ferma, per voi, caro nipote, metteranno a sacco Saumur.

Quando avrete finito, andremo a fare due passi in giardino, devo dirvi qualcosa di poco

gradevole.»

Eugénie e la madre gettarono a Charles un'occhiata, sul significato della quale il

giovane non poté avere dubbi.

«Che cosa significano queste parole, caro zio? Dopo la morte della mia povera

mamma...» nel pronunciare quelle parole la sua voce si incrinò, «non ci sono più sventure

possibili per me...»

«Nipote mio, chi può conoscere le afflizioni attraverso le quali Dio vuole metterci

alla prova?» gli disse la zia.

«Ta ta ta ta!» disse Grandet, «non cominciamo a dire sciocchezze. Mi dispiace di

vedere, nipote, che avete mani bianche e delicate.» E gli mostrò quella specie di spalla di

montone che la natura gli aveva messo in fondo alle braccia. «Queste sono mani fatte per

rastrellare scudi! Voi siete stato abituato a tenere i piedi nella stessa pelle con la quale si

fabbricano i portafogli nei quali custodiamo i nostri biglietti di banca. Male! male!»

«Che cosa volete dire, zio? Vorrei essere impiccato se ci capisco una parola.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Venite,» disse Grandet.

L'avaro chiuse con uno scatto la lama del coltello, finì di bere il vino e aprì la porta.

«Cugino mio, siate coraggioso!»

Il tono di voce della fanciulla aveva gelato Charles, che segui il suo terribile parente

in preda a mortali inquietudini. Eugénie, la madre e Nanon andarono in cucina, prese

dalla invincibile curiosità di spiare i due attori della scena che stava per svolgersi nel

piccolo giardino umido, dove lo zio a tutta prima camminò in silenzio a fianco del nipote.

Grandet non era imbarazzato dal fatto di dover comunicare a Charles la morte del padre,

ma provava una specie di compassione perché lo sapeva senza un soldo e cercava le

parole per addolcirgli questa crudele verità. «Avete perduto vostro padre!» era facile da

dire. I padri muoiono prima dei figli. Ma: «Non avete più niente!» tutte le sventure della

terra erano compendiate in queste parole. E intanto il brav'uomo faceva per la terza volta,

con la terra che scricchiolava sotto la suola delle sue scarpe, il giro del viale di mezzo. Nei

momenti importanti della vita, l'anima si abbarbica ai luoghi nei quali abbiamo provato

piaceri o dolori. Così Charles esaminava con un'attenzione particolare i cespugli di quel

piccolo giardino, le foglie ingiallite che cadevano, i muri sconnessi, la forma strana degli

alberi da frutta, tutti particolari che il processo mnemonico tipico delle passioni avrebbe

impresso nel suo ricordo, mescolati per sempre a quell'ora fatale.

«È una giornata bella e calda,» disse Grandet aspirando una grossa boccata d'aria.

«Sì, zio... Ma perché... ?»

«Ebbene, ragazzo,» riprese lo zio, «ho da darvi brutte notizie. Vostro padre sta

molto male...»

«Perché sono qui?» disse Charles. «Nanon,» gridò, «dei cavalli di posta! Ci sarà

pure una carrozza in città,» aggiunse voltandosi verso lo zio che rimaneva immobile.

«I cavalli e la carrozza non servono,» rispose Grandet guardando Charles che

rimase muto e con gli occhi sbarrati. «Sì, povero ragazzo, avete indovinato. È morto. Ma

questo è niente, c'è qualcosa di peggio, si è fatto saltare le cervella...»

«Mio padre?...»

«Si. Ma questo è niente. I giornali ne parlano come se avessero il diritto di farlo.

Prendi, leggi.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Grandet, che si era fatto lasciare il giornale da Cruchot, mise il tremendo articolo

sotto gli occhi di Charles. A quel punto, il povero giovane, ancora fanciullo, ancora in

un'età in cui i sentimenti sgorgano con ingenuità, scoppiò in lacrime.

«Meglio così,» si disse Grandet. «I suoi occhi mi spaventavano. Se piange, è salvo.»

«E questo è ancora niente, mio povero nipote,» riprese Grandet ad alta voce, senza

nemmeno sapere se Charles lo ascoltasse, «questo è niente, ve ne farete una ragione; ma...»

«Giammai! Giammai! Padre mio! padre mio!»

«Vi ha rovinato, non avete più un soldo.»

«Che me ne importa? Dov'è mio padre; mio padre?»

I pianti e i singhiozzi echeggiavano fra quelle mura in un modo straziante. Le tre

donne, commosse, piangevano: le lacrime sono contagiose come il riso. Charles, senza

ascoltare ciò che gli diceva lo zio, fuggì nel cortile, trovò la scala, salì nella sua camera e si

gettò di traverso sul letto affondando il viso nelle lenzuola per sfogarsi a piangere lontano

dai parenti.

«Bisogna lasciar passare la prima burrasca,» disse Grandet rientrando nella sala,

dove Eugénie e la madre si erano affrettate a riprendere i loro posti, e lavoravano con

mani tremanti dopo essersi asciugati gli occhi. «Ma questo giovanotto non è buono a

niente, si preoccupa più dei morti che del denaro.»

Eugénie rabbrividì sentendo il padre che parlava in questo modo del più sacro dei

dolori. Da quel momento, cominciò a giudicare il padre. In quella casa piena di echi si

sentivano, per quanto attenuati, i singhiozzi di Charles; e i suoi profondi lamenti, che

sembravano uscire da sotto terra, non cessarono che verso sera, dopo essersi a poco a poco

affievoliti.

«Povero giovane!» disse Mme Grandet.

Non l'avesse mai detto! Papà Grandet guardò la moglie, Eugénie e la zuccheriera; si

ricordò della colazione eccezionale preparata per il parente sfortunato e andò a piazzarsi

in mezzo alla sala.

«Ah è cosi! spero,» disse con la solita calma, «che non continuerai con queste

prodigalità, signora Grandet. Non ti do il MIO denaro per rimpinzare di zucchero questo

bricconcello.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Mia madre non c'entra,» disse Eugénie. «Sono io che...»

«È perché sei maggiorenne,» riprese Grandet interrompendo la figlia, «che vuoi

contraddirmi? Bada, Eugénie...»

«Padre, il figlio di tuo fratello, non doveva mancare in casa tua di...»

«Ta ta ta ta!» disse il bottaio su quattro toni cromatici, «il figlio di mio fratello di qui,

mio nipote di là. Charles non è niente per noi, non ha il becco di un quattrino; suo padre è

fallito; e quando quello zerbinotto avrà finito di piangere, se ne andrà di qui; non voglio

che metta a soqquadro la mia casa.»

«Che cosa significa, padre mio, fare fallimento?» chiese Eugénie.

«Fare fallimento,» riprese il padre, «è commettere l'azione più disonesta fra tutte

quelle che possono disonorare l'uomo.»

«Deve essere un gran peccato,» disse Mme Grandet, «e nostro fratello sarà

dannato.»

«Smettila con queste litanie,» disse Grandet alla moglie alzando le spalle. «Il

fallimento, Eugénie,» riprese, «è un furto protetto purtroppo dalla legge. Certe persone

hanno dato le loro merci a Guillaume Grandet, confidando nella sua reputazione di uomo

onorato e onesto; ma poi lui si è preso tutto e ha lasciato loro solo gli occhi per piangere. Il

bandito di strada è preferibile al bancarottiere; quello ti attacca, tu puoi difenderti, lui

rischia la testa; ma l'altro... insomma Charles è disonorato.»

Queste parole rintronarono nel cuore della povera ragazza, opprimendolo con tutto

il loro peso. Onesta quanto è delicato un fiore di bosco, ella non conosceva né le massime

del mondo né i suoi ragionamenti capziosi né i suoi sofismi; accettò dunque l'atroce

spiegazione che il padre le aveva dato, senza dirle però che c'è una differenza tra

fallimento involontario e fallimento calcolato.

«Ma tu, padre mio, non hai potuto evitare questa sciagura?»

«Mio fratello non si è consigliato con me; eppoi il suo debito ammonta a quattro

milioni.»

«Che cosa è un milione, padre?» chiese lei con l'ingenuità di un fanciullo che crede

di poter trovare subito ciò che desidera.

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«Un milione,» disse Grandet. «Ma è un milione di pezzi da venti soldi, e ci vogliono

cinque pezzi da venti soldi per fare cinque franchi.»

«Mio Dio! mio Dio!» esclamò Eugénie, «come poteva mio zio avere quattro milioni?

C'è qualcun altro in Francia che possa avere tanti milioni?» (Papà Grandet si accarezzò il

mento, sorrise, e parve che la sua verruca si dilatasse.) «Che cosa accadrà a mio cugino

Charles?»

«Partirà per le Indie, dove, secondo il desiderio del padre, cercherà di fare fortuna.»

«E ha il denaro per arrivarci?»

«Gli pagherò io il viaggio... fino a... ma si, fino a Nantes.»

Eugénie saltò al collo del padre.

«Ah! padre mio, come sei buono, tu!»

Le sue effusioni fecero quasi vergognare Grandet, che provava qualche rimorso di

coscienza.

«Ci vuole molto tempo per mettere insieme un milione?» gli chiese Eugénie.

«Diamine,» disse il bottaio, «tu sai che cosa è un napoleone; ebbene, ce ne vogliono

cinquantamila per fare un milione.»

«Mamma, faremo dire delle novene per lui.»

«Ci avevo pensato,» rispose la madre.

«Ecco, sempre a spendere soldi,» esclamò il padre. «Ma che cosa credete, che qui ci

siano soldi a palate?»

In quel preciso istante, un lamento sordo, più lugubre degli altri, risuonò nella

soffitta e agghiacciò di terrore Eugénie e la madre.

«Nanon, va' a vedere che non si ammazzi,» disse Grandet. «Badate bene voi due,»

riprese voltandosi verso la moglie e la figlia, che erano impallidite, «niente sciocchezze. Vi

lascio. Vado a dare un'annusata ai nostri olandesi che oggi partono. Poi andrò a trovare

Cruchot per parlare con lui di tutta questa faccenda.»

Uscì. Appena Grandet ebbe chiuso la porta, Eugénie e la madre tirarono un respiro

di sollievo. Prima di quella mattina, mai la figlia si era sentita a disagio in presenza del

padre; ma, da qualche ora, ella cambiava d'attimo in attimo sentimenti e idee.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Mamma, quanti luigi vale una botte di vino?»

«Tuo padre vende le sue a cento o centocinquanta franchi, a volte duecento, da quel

che ho sentito dire.»

«E quanto fa millequattrocento botti di vino...?»

«In fede mia, figliola, non so cosa fruttino; tuo padre non mi parla mai dei suoi

affari.»

«Ma allora, papà deve essere ricco.»

«Può darsi. Ma M. Cruchot mi ha detto che due anni fa ha acquistato Froidfond.

Deve essergli costato parecchio.»

Eugénie, non comprendendo più niente della ricchezza di suo padre, smise di fare

calcoli.

«Non mi ha nemmeno visto, quel tesorino!» disse Nanon rientrando. «È steso sul

letto come un vitello, e piange come una Maddalena, da strappare le benedizioni! Che cosa

addolora tanto quel povero caro giovane?»

«Andiamo subito a consolarlo, mamma e, se sentiamo bussare, scenderemo.»

Mme Grandet si sentì disarmata di fronte alla voce armoniosa della figlia. Eugénie

era sublime, era donna. Entrambe, col cuore che batteva, salirono in camera di Charles. La

porta era aperta. Il giovane non vedeva e non udiva nulla. In preda alle lacrime, si

lamentava in un modo incomprensibile.

«Quanto ama il padre!» disse Eugénie a bassa voce.

Era impossibile non riconoscere nel tono di queste parole le speranze di un cuore

che ignorava di essere colmo di passione. Perciò Mme Grandet lanciò alla figlia uno

sguardo pieno di amor materno; poi, le sussurrò all'orecchio: «Sta' attenta, finirai per

amarlo,» disse.

«Amarlo!» riprese Eugénie. «Ah! se tu sapessi quello che ha detto mio padre!»

Charles si voltò, vide la zia e la cugina.

«Ho perduto mio padre, il mio povero padre! Se mi avesse confidato il segreto della

sua disgrazia, avremmo lavorato insieme per metterci riparo. Mio Dio! mio buon padre!

ero cosi sicuro di rivederlo, che credo di averlo abbracciato con freddezza...»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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I singhiozzi gli spezzarono la voce.

«Pregheremo per lui,» disse Mme Grandet. «Rassegnatevi alla volontà di Dio.»

«Cugino mio,» disse Eugénie, «fatevi coraggio! la vostra perdita è irrimediabile,

perciò adesso dovete pensare a salvare l'onore...»

Con quell'istinto, quell'acume della donna che pone intelligenza in ogni cosa, anche

quando consola, Eugénie voleva alleviare il dolore al cugino, inducendolo a occuparsi di

se stesso.

«Il mio onore?...» esclamò il giovane scostandosi i capelli dal viso con un

movimento brusco. E sedette sul letto a braccia conserte. «Ah! è vero. Lo zio diceva che

mio padre è fallito.» Gettò un grido straziante e nascose il volto fra le mani.

«Lasciatemi, cugina, lasciatemi! Mio Dio! mio Dio! perdonate mio padre, chissà

quanto ha sofferto.»

C'era qualcosa di indicibilmente penoso nell'espressione di quel dolore giovane,

vero, senza calcolo, senza secondi fini. Era un dolore pudico che i cuori semplici di

Eugénie e della madre compresero quando Charles con un gesto chiese loro di lasciarlo

solo. Scesero, ripresero in silenzio i loro posti accanto alla finestra e lavorarono per circa

un'ora senza scambiare una parola. Eugénie aveva notato, con l'occhiata furtiva data agli

oggetti del giovane, una di quelle occhiate con le quali le fanciulle vedono tutto in un

attimo, i begli ammennicoli della sua toeletta, le forbici, i rasoi ornati d'oro. Questa visione

di lusso attraverso il dolore le rese Charles ancor più interessante, forse per contrasto. Mai

un avvenimento così grave, mai uno spettacolo tanto drammatico aveva colpito

l'immaginazione di quelle due creature, sprofondate di continuo nella calma e nella

solitudine.

«Mamma,» disse Eugénie, «porteremo il lutto per lo zio.»

«Questo lo deciderà tuo padre,» rispose Mme Grandet.

Rimasero di nuovo in silenzio. Eugénie cuciva con la regolarità di un automa e

questo avrebbe svelato a un osservatore la folla di pensieri che popolava la sua mente. Il

primo desiderio di quella fanciulla adorabile era di condividere il lutto del cugino. Verso

le quattro, un forte colpo di battaglio fece sobbalzare il cuore di Mme Grandet.

«Che cosa ha tuo padre?» disse alla figlia.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Il vignaiolo entrò tutto allegro. Dopo essersi sfilati i guanti, si strofinò le mani con

tanta energia da strapparsi la pelle, se l'epidermide non fosse stata conciata come cuoio di

Russia, ma senza l'odore di larice e di incenso. Camminò avanti e indietro, guardò il

tempo. Alla fine tirò fuori il segreto.

«Cara moglie,» disse senza balbettare, «li ho messi tutti nel sacco. Gli olandesi e i

belgi partivano questa mattina, io sono andato a passeggiare sulla piazza davanti al loro

albergo, facendo il finto tonto. Chose, che tu conosci, mi si è avvicinato. I proprietari di

tutti i buoni vigneti hanno messo in cantina il vino e vogliono aspettare, io non gliel'ho

impedito. Il nostro belga era disperato. Me ne sono accorto. Affare fatto, compra il nostro

vino a duecento franchi la botte, metà in contanti. Mi paga in oro. Abbiamo scritto i

pagherò, ed eccoti i tuoi sei luigi. Fra tre mesi, il prezzo del vino calerà.»

Queste ultime parole furono pronunciate con un tono pacato ma così carico di

ironia, che la gente di Saumur, raccolta in quel momento sulla piazza e interdetta dalla

notizia della vendita appena conclusa da Grandet, avrebbe avuto un fremito se le avesse

udite. Il panico avrebbe fatto diminuire il prezzo del vino del cinquanta per cento.

«Hai fatto mille botti quest'anno, padre mio?» chiese Eugénie.

«Sì, figlietta.»

Questa parola era la massima espressione di gioia del vecchio bottaio.

«Vuol dire duecentomila pezzi da venti soldi?»

«Sì, signorina Grandet.»

«Allora, padre, non ti sarà difficile aiutare Charles.»

Lo sbalordimento, la collera, lo stupore di Baldassarre quando vide il Mane-Tekel-

Fares non possono nemmeno essere paragonati al freddo corruccio di Grandet, che,

essendosi dimenticato completamente del nipote, lo ritrovava nel cuore e nei calcoli della

figlia.

«Ah! è così! da quando quel vagheggino ci ha messo piede, in casa mia va tutto

storto. Sembra che vogliate comperare confetti, fare nozze e banchetti. Non voglio

nemmeno sentirne parlare. Alla mia età so come comportarmi, direi! E poi non devo

prendere lezioni da mia figlia né da nessun altro. Farò per mio nipote quello che sarà

opportuno e voi non dovete metterci il naso. - Quanto a te, Eugénie,» aggiunse voltandosi

verso la ragazza, «non parlarne più, se non vuoi che ti spedisca all'abbazia di Noyers con

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Nanon, fuori dai piedi; e se brontoli ti ci mando domani stesso. Dov'è quel ragazzo. È

sceso?»

«No, amico mio,» rispose Mme Grandet.

«Insomma che cosa fa?»

«Piange suo padre,» rispose Eugénie.

Grandet guardò la figlia senza trovare parole. Era un po' padre anche lui. Dopo

aver fatto una o due volte il giro della sala, salì in fretta nello studio per riflettere su un

investimento nei titoli di stato. I duemila arpenti di bosco tagliato gli avevano reso

seicentomila franchi; aggiungendo a questa somma il denaro dei pioppi, le rendite

dell'anno precedente e di quello in corso, oltre ai duecentomila franchi dell'affare appena

concluso, poteva mettere insieme novecentomila franchi. Guadagnare in poco tempo il

venti per cento sui titoli, che stavano a sessanta franchi e dieci, lo tentava. Fece i calcoli

della speculazione sul giornale dove era annunciata la morte del fratello, udendo, senza

ascoltarli, i gemiti del nipote. Nanon andò a bussare al muro per invitare il padrone a

scendere, la cena era in tavola. Sotto l'andito e all'ultimo scalino, Grandet stava dicendo fra

sé e sé: «Visto che i miei interessi arriveranno all'otto, farò l'affare. In due anni avrò un

milione e mezzo di franchi, che ritirerò da Parigi in oro buono.»

«E allora, dov'è mio nipote?»

«Dice che non vuole mangiare,» rispose Nanon. «Non gli farà bene.»

«Tanto di risparmiato,» le rispose il padrone.

«Diamine sì,» rispose la donna.

«Bah! non piangerà per sempre. La fame fa uscire il lupo dal bosco.»

La cena fu insolitamente silenziosa.

«Mio buon amico,» disse Mme Grandet quando fu tolta la tovaglia, «bisognerà che

prendiamo il lutto.»

«In verità, signora Grandet, non sai che inventare per spendere denaro. Il lutto è nel

cuore e non negli abiti.»

«Ma il lutto per un fratello è un lutto stretto e la Chiesa ci ordina...»

«Comprati gli abiti da lutto con i tuoi sei luigi. A me una fascia nera basterà.»

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Eugénie alzò gli occhi al cielo senza fiatare. Per la prima volta i suoi impulsi

generosi addormentati, repressi, ma poi improvvisamente risvegliati, venivano offesi a

ogni momento. In apparenza quella serata fu simile a mille serate della loro monotona

esistenza, ma fu certo la più orribile. Eugénie lavorò senza mai alzare la testa, e non si

servì del nécessaire che Charles aveva disprezzato la sera prima. Mme Grandet continuò a

fare le sue maniche di maglia. Grandet girò i pollici per quattro ore, sprofondato in calcoli

i cui risultati avrebbero l'indomani stupito Saumur. Quel giorno non ci furono visite. In

tutta la città non si parlava che dell'impresa di Grandet, del fallimento di suo fratello e

dell'arrivo del nipote. Per obbedire al bisogno di parlare degli interessi comuni, tutti i

grossi e medi proprietari di vigneti di Saumur si erano ritrovati da M. des Grassins, dove

vennero scagliate terribili imprecazioni contro l'ex sindaco. Nanon filava, e il rumore del

suo filatoio era l'unico che si sentisse sotto le travi grigiastre della sala.

«Non si può dire che consumiamo troppo la lingua,» disse, mostrando i denti

bianchi e grossi come mandorle sbucciate.

«Non bisogna consumare niente,» riprese Grandet scuotendosi dalle sue

meditazioni. Vedeva in prospettiva otto milioni in tre anni, e navigava su questo fiume

d'oro. «Corichiamoci. Andrò da mio nipote a dargli la buona notte per tutti e a vedere se

vuole mangiare qualcosa.»

Mme Grandet restò sul pianerottolo del primo piano per ascoltare la conversazione

fra Charles e il brav'uomo. Eugénie, più audace della madre, salì due scalini.

«E allora, nipote mio, soffrite molto? Sì, piangete, è naturale. Un padre è un padre.

Ma bisogna sopportare con pazienza il nostro dolore. Mentre piangete io mi occupo di voi.

Sono un buon parente come vedete. Volete un po' di vino? Il vino non costa niente a

Saumur; lo si offre come nelle Indie offrono una tazza di tè. Ma,» continuò Grandet, «qui

non c'è luce. Male! male! bisogna veder chiaro ciò che si fa.» Grandet si avvicinò al camino.

«Toh!,» esclamò, «una candela di cera. Dove diavolo l'hanno pescata? Quelle là

sarebbero capaci di demolirmi le travi di casa per cuocere due uova a questo ragazzo.»

Sentendo queste parole, madre e figlia entrarono nelle loro camere e si ficcarono a

letto con la velocità di due topi spaventati che si nascondono nei loro buchi.

«Signora Grandet, possedete forse un tesoro?» disse il marito entrando nella camera

della moglie.

«Amico mio, aspettate, ora sto pregando,» rispose la povera madre con voce

alterata.

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«Che il diavolo si porti il tuo buon Dio!» bofonchiò Grandet.

Gli avari non credono a una vita futura, il presente è tutto per loro. Questa

riflessione getta una luce orribile sull'epoca attuale, nella quale, più che in qualsiasi altro

tempo, il denaro domina le leggi, la politica, i costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrine,

tutto congiura per minare la credenza in una vita futura sulla quale si fonda da

milleottocento anni l'edificio sociale. Il futuro, che ci attendeva dopo il requiem, è stato

trasferito nel presente. Tutti pensano solo ad arrivare per fas et nefas nel paradiso terrestre

del lusso e dei vani godimenti, a indurire il proprio cuore, a macerarsi il corpo per il

possesso di beni effimeri, come un tempo si pativa il martirio della vita per il possesso di

beni eterni! Questo concetto del resto è scritto ovunque, persino nelle leggi che chiedono al

legislatore: «Che cosa paghi?» invece di chiedergli: «Che cosa pensi?» Quando questa

dottrina si sarà diffusa dalla borghesia al popolo, che diventerà la nazione?

«Signora Grandet, hai finito?» domandò il vecchio bottaio.

«Amico mio, prego per te.»

«Benone! Buona notte. Parleremo domattina.»

La poveretta si addormentò come lo scolaro che, non avendo fatto i compiti, teme di

trovarsi davanti, al risveglio, la faccia corrucciata del maestro. Nel momento in cui,

impaurita, si avvolgeva nelle coperte per non sentire più niente, Eugénie le scivolò

accanto, in camicia, a piedi nudi, e la baciò sulla fronte.

«Oh! buona madre,» disse, «domani gli confesserò che sono stata io.»

«No, ti manderebbe a Noyers. Lasciami fare, non mi mangerà.»

«Senti, mamma?»

«Che cosa?»

«Piange sempre.»

«Vai a coricarti, figliola. Prenderai freddo ai piedi: il pavimento è umido.»

Passò così l'importante giornata che doveva pesare sulla vita della ricca e povera

ereditiera, il cui sonno non fu più profondo e sereno come era stato fino ad allora.

Abbastanza spesso, certe azioni umane sembrano, letterariamente parlando, inverosimili,

anche se sono vere. Ma non è forse perché trascuriamo di illuminare le nostre decisioni

spontanee con una certa qual luce psicologica, non spiegando quindi le misteriose ragioni

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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che le hanno determinate? Forse la profonda passione di Eugénie dovrebbe essere

analizzata nelle sue fibre più delicate; perché essa divenne, direbbe un burlone, una

malattia e influenzò tutta la sua vita. Molti preferiscono negare le conclusioni piuttosto che

misurare la forza dei legami, dei nodi, degli agganci che saldano segretamente un fatto a

un altro nell'ordine morale. In questo caso il passato di Eugénie garantirebbe, per coloro

che studiano la natura umana, l'ingenuità della sua mancanza di riflessione e i repentini

trasporti della sua anima. Proprio perché la sua vita era stata tranquilla, la pietà femminile,

il più ingegnoso dei sentimenti, maturò nell'animo suo con tanto vigore. Perciò, turbata

dagli avvenimenti della giornata, si svegliò parecchie volte per ascoltare il cugino,

convinta di averne udito i sospiri che dal giorno prima le echeggiavano nel cuore: ora lo

vedeva sfinito dal dolore, ora lo sognava morto di fame. Verso la mattina, fu certa di aver

udito un grido terribile. Si vestì subito e accorse, nella luce dell'alba, in punta di piedi,

accanto al cugino, che aveva lasciato la porta aperta. La candela si era consumata sul

piattino del candeliere. Charles, vinto dalla natura, si era addormentato vestito, seduto su

una poltrona, la testa rovesciata sul letto; sognava come sogna chi ha lo stomaco vuoto.

Eugénie poté piangere con tutto il suo agio; poté ammirare quel volto giovane e bello,

pietrificato dal dolore, quegli occhi gonfi di pianto e che, sebbene addormentati, sembrava

continuassero a versare lacrime. Charles sentì la presenza di Eugénie, aprì gli occhi e la

vide tutta commossa.

«Scusatemi, cugina,» disse, non rendendosi conto evidentemente né dell'ora né del

luogo.

«Ci sono dei cuori che vi ascoltano, cugino, e noi abbiamo creduto che aveste

bisogno di qualcosa. Dovreste mettervi a letto, vi stancherete a restare così.»

«È vero.»

«Allora, addio.»

Eugénie uscì, vergognosa e felice di essere andata. Solo l'innocenza osa certe

audacie. Istruita, la virtù fa i suoi calcoli come il vizio. Eugénie, che accanto al cugino non

aveva tremato, una volta tornata nella sua stanza riusciva appena a tenersi in piedi. La sua

vita ignorante finì di colpo, ella ragionò, si rimproverò. «Che idea si farà di me? Crederà

che io l'ami.» Era precisamente ciò che più di tutto desiderava di vedergli credere. L'amore

schietto ha una sua prescienza e sa che l'amore chiama l'amore. Quale avvenimento era

stato per quella fanciulla solitaria essere entrata furtivamente nella camera di un giovane!

Non ci sono forse pensieri, gesti, che, in amore, equivalgono, per certe anime, a un solenne

fidanzamento? Un'ora più tardi, ella entrò da sua madre, e come d'abitudine la aiutò a

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vestirsi. Poi le due donne andarono a sedersi ai loro posti davanti alla finestra, e attesero

Grandet con quell'ansia che, quando ci si aspetta una scenata, una punizione, gela il cuore

o lo riscalda, lo stringe o lo gonfia, a seconda dei caratteri: reazione del resto così naturale

che gli animali domestici gridano per il lieve dolore di una punizione, ma tacciono

allorché per caso si feriscono. Il brav'uomo scese, ma parlò alla moglie con aria distratta,

baciò Eugénie e si mise a tavola senza pensare, così pareva, alle minacce del giorno prima.

«Che ne è di mio nipote? Non si può dire che il ragazzo dia fastidio.»

«Signore, dorme,» rispose Nanon.

«Tanto meglio, non avrà bisogno di candele,» disse Grandet con un tono ironico.

Questa insolita clemenza, questa amara allegria colpirono Mme Grandet, che

guardò il marito con molta attenzione. Il brav'uomo... (Qui forse è opportuno far notare

che in Turenna nell'Angiò, nel Poitou, in Bretagna, le parole brav'uomo, già impiegate

spesso per designare Grandet, sono usate per indicare tanto i più crudeli quanto i più

bonaccioni fra gli uomini, non appena hanno raggiunto una certa età. Questo appellativo

non ha nulla a che vedere con la mansuetudine della singola persona...) Il brav'uomo,

dunque, prese il cappello, i guanti e disse: «Vado a fare un giretto in piazza per incontrare

i nostri Cruchot.»

«Eugénie, è certo che tuo padre ha qualcosa...»

In effetti, Grandet, che aveva bisogno di poco sonno, impiegava la metà delle notti

in quei calcoli preliminari che davano ai suoi punti di vista, alle sue osservazioni, ai suoi

progetti una stupefacente precisione e garantivano loro quel successo immancabile di cui

tutti si meravigliavano a Saumur. Ogni potere umano è fatto di pazienza e di tempo. Le

persone potenti vogliono e vegliano. La vita dell'avaro è un continuo esercizio della

potenza umana messa al servizio della personalità. L'avaro si basa su due soli sentimenti:

l'amor proprio e l'interesse; ma essendo l'interesse in certo qual modo un amor proprio

concreto e bene inteso, la continua dimostrazione di una superiorità reale, l'amor proprio e

l'interesse finiscono per essere due parti di un tutto unico, l'egoismo. Da ciò deriva

probabilmente l'enorme curiosità che suscita il carattere dell'avaro quando sia portato

sulla scena con abilità. Ognuno è legato, sia pure con un filo, a questi personaggi che se la

prendono con tutti i sentimenti umani, riassumendoli tutti. Dov'è l'uomo senza desideri, e

quale desiderio sociale si può soddisfare senza denaro? Grandet aveva davvero qualcosa

secondo l'espressione della moglie. In lui c'era, come in tutti gli avari, il bisogno costante

di misurarsi con gli altri uomini, di vincere legalmente il loro denaro. Imporsi agli altri,

non è forse una manifestazione di potere, un attribuirsi sempre il diritto di disprezzare

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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quelli che, essendo troppo deboli, sono destinati quaggiù a essere divorati? Oh! chi mai ha

capito fino in fondo il mansueto agnello accovacciato ai piedi di Dio, il simbolo più

toccante di tutte le vittime terrene, del loro futuro, insomma la glorificazione della

sofferenza e della debolezza? Quell'agnello, l'avaro lo lascia ingrassare, lo macella, lo

cuoce, lo mangia e lo disprezza. Il pascolo degli avari è fatto di denaro e di disprezzo.

Durante la notte le idee del brav'uomo avevano preso un altro indirizzo: di qui la sua

clemenza. Aveva concepito una trama per beffarsi dei parigini, per strizzarli, prenderli in

giro, tormentarli, farli andare e venire, sudare, sperare, impallidire; per divertirsi con loro,

lui, ex bottaio, nella sua sala grigia, con la sua scala tarlata della casa di Saumur. Si era

occupato del nipote. Voleva salvare l'onore del fratello morto senza che ciò costasse un

soldo né al nipote né a lui. Stava per investire i suoi capitali a tre anni, e ormai non doveva

fare altro che amministrare le sue terre; occorreva dunque uno scopo alla sua attività

maligna, e l'aveva trovato nel fallimento del fratello. Non avendo nulla da pestare sotto i

piedi, voleva pestare i parigini a vantaggio di Charles e dimostrare, a buon mercato, di

essere un eccellente fratello. L'onore della famiglia entrava così poco nel progetto, che la

sua buona volontà poteva essere paragonata al bisogno che hanno i giocatori di veder

giocare bene una partita anche se non vi hanno messo alcuna posta. E i Cruchot gli erano

necessari, ma non volendo andare a cercarli, aveva deciso di farli venire da lui, e di

cominciare quella sera stessa la commedia di cui aveva appena concepito la trama, allo

scopo di essere l'indomani, senza che questo gli costasse un soldo, oggetto di ammirazione

nella sua città.

[4]

Durante l'assenza del padre, Eugénie ebbe la felicità di potersi occupare senza

sotterfugi del suo beneamato cugino, di profondere su di lui senza timore i tesori della sua

pietà, una delle sublimi superiorità della donna, la sola che ella voglia far sentire, la sola

per cui sia disposta a perdonare l'uomo che gliela riconosce. Tre o quattro volte, Eugénie

andò ad ascoltare il respiro del cugino, a sentire se dormiva, se si stava svegliando; poi,

quando egli si alzò, la panna, il caffe, le uova, la frutta, i piatti, il bicchiere, tutto ciò che

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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faceva parte della colazione, la occuparono in qualche misura. Sali svelta la vecchia scala

per andare ad ascoltare i rumori che venivano dalla stanza del cugino. Si stava vestendo?

piangeva ancora? Si avvicinò fino alla porta.

«Cugino!»

«Cugina!»

«Volete fare colazione in sala o nella vostra camera?»

«Dove volete.»

«Come vi sentite?»

«Cara cugina, mi vergogno di avere fame.»

Questa conversazione attraverso la porta era per Eugénie un episodio da romanzo.

«Allora, vi porteremo la colazione in camera, per non irritare mio padre.» Eugénie

scese in cucina con la leggerezza di un uccellino. «Nanon, vai a rifargli la stanza.»

Quella scala tanto spesso salita e discesa, dove il più piccolo rumore rimbombava,

sembrò a Eugénie che avesse perso la sua aria vetusta; la vedeva luminosa, le pareva che

parlasse, che fosse giovane come lei, giovane come l'amore al quale serviva. Alla fine sua

madre, quella madre buona e indulgente, accondiscese alle fantasie del suo amore, e,

quando la stanza di Charles fu riordinata, andò con la figlia a tener compagnia all'infelice:

la carità cristiana non ordinava forse di consolarlo?

Le due donne scovarono nella religione un buon numero di piccoli sofismi per

giustificare il loro comportamento. Charles Grandet si vide dunque fatto oggetto delle

attenzioni più affettuose e più tenere. Il suo cuore dolente sentì tutta la dolcezza di questa

amabile amicizia, della squisita comprensione che quelle due anime sempre represse

seppero dispiegare trovandosi per un momento libere nella regione delle sofferenze, la

loro sfera naturale. Autorizzata dal rapporto di parentela, Eugénie si mise a riordinare la

biancheria, gli oggetti da toeletta che il cugino aveva portato con sé ed ebbe agio di

meravigliarsi di ogni lussuosa bazzecola, dei ninnoli di argento e d'oro lavorato che le

capitavano sotto mano e che ella teneva a lungo tra le dita con la scusa di esaminarli.

Charles notò non senza provare una profonda tenerezza l'interesse generoso che

mostravano per lui la zia e la cugina; conosceva abbastanza la società parigina per sapere

che, nella sua situazione, vi avrebbe trovato solo cuori indifferenti o gelidi. Eugénie gli

apparve in tutto lo splendore della sua singolare bellezza, da quell'istante ammirò i suoi

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modi ingenui dei quali si era burlato la sera prima. Così quando Eugénie prese dalle mani

di Nanon il recipiente di porcellana pieno di caffè con panna per servire il cugino,

gettandogli una lunga occhiata, gli occhi del parigino si gonfiarono di lacrime, le prese la

mano e gliela baciò.

«Suvvia, che cosa c'è ancora?» chiese lei.

«Oh! sono lacrime di riconoscenza,» rispose il giovane.

Eugénie si voltò di scatto verso il camino per prendere i candelieri.

«Nanon, prendete, portateli via,» disse.

Quando tornò a guardare il cugino era ancora rossa, ma se non altro i suoi occhi

riuscirono a mentire e a non tradire la gioia infinita che le traboccava dal cuore; ma i loro

sguardi espressero un medesimo sentimento, così come le loro anime si fusero in un unico

pensiero: l'avvenire era loro. Questa dolce emozione fu tanto più deliziosa per Charles,

sprofondato in quel dolore immenso, in quanto era del tutto inattesa. Un colpo di battaglio

richiamò le due donne ai loro posti. Per fortuna, riuscirono a scendere le scale abbastanza

in fretta da essere di nuovo al lavoro quando Grandet entrò; per attizzare i suoi sospetti

sarebbe bastato che le avesse incontrate nell'andito. Dopo la seconda colazione, che il

brav'uomo fece all'inpiedi, arrivò da Froidfond il guardiano, al quale non era stato ancora

corrisposto il compenso promesso, recando una lepre, delle pernici uccise nel parco, delle

anguille e due lucci dovuti dai mugnai.

«Eh! eh! il nostro povero Cornoiller arriva come il pesce in quaresima. È buona da

mangiare questa?»

«Sì, mio caro e generoso signore, è stata uccisa due giorni fa.»

«Forza, Nanon, alza i tacchi,» disse il brav'uomo. «Prendila, la mangeremo a cena,

voglio invitare due Cruchot.»

Nanon spalancò un paio di occhi inebetiti e si guardò in giro.

«Va bene,» disse, «ma dove vado a prendere il lardo e le spezie?»

«Moglie mia,» disse Grandet, «dai sei franchi a Nanon, e ricordami di andare in

cantina a prendere del buon vino.»

«Già che ci sono, signor Grandet,» riprese il guardiano che si era preparato un

discorsetto per venire a capo della faccenda del suoi compensi, «signor Grandet...»

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«Ta ta ta ta,» disse Grandet; «so già quello che vuoi dire; tu sei un buon diavolo: ne

parleremo domani, oggi sono troppo occupato. Moglie mia, dagli cento soldi,» disse a

Mme Grandet.

E se ne uscì. La povera donna fu ben felice di comperare la pace a undici franchi.

Sapeva che Grandet, dopo essersi ripreso, soldo su soldo, il denaro che le aveva dato, non

avrebbe aperto bocca per quindici giorni.

«Tieni, Cornoiller,» disse mettendogli in mano dieci franchi; «un giorno o l'altro i

tuoi servizi saranno riconosciuti.»

Cornoiller non trovò niente da dire e se ne andò.

«Signora,» disse Nanon che si era messa la cuffia nera e aveva preso il paniere, «mi

bastano tre franchi, il resto lo tenga. Vedrà che andrà bene lo stesso.»

«Prepara una buona cena, Nanon, mio cugino scenderà a mangiare,» disse Eugénie.

«Sono sicura che sta succedendo qualcosa di straordinario,» disse Mme Grandet. «È

la terza volta, da quando siamo sposati, che tuo padre invita qualcuno a cena.»

Verso le quattro, nel momento in cui Eugénie e la madre finivano di apparecchiare

la tavola per sei persone e dopo che il padrone di casa aveva portato su dalla cantina

alcune bottiglie di quei vini squisiti che i provinciali conservano con amore, Charles entrò

nella sala. Il giovane era pallido. I suoi gesti, il suo contegno, il suo sguardo e il suono

della sua voce erano improntati a una tristezza piena di grazia. Non recitava la parte

dell'addolorato, ma soffriva davvero, e il velo che la pena aveva steso sui tratti del suo

volto gli dava quell'aria interessante che piace tanto alle donne. Eugénie lo amò ancora di

più. Forse anche perché l'infelicità lo aveva avvicinato a lei. Charles non era più il

giovanotto ricco e bello che si muoveva in una sfera per lei inabbordabile, ma un parente

colpito da una spaventosa disgrazia. La sventura ci rende uguali. La donna ha questo in

comune con gli angeli, che i sofferenti le appartengono. Charles e Eugénie si compresero e

si parlarono solo con gli occhi; infatti il povero dandy avvilito, l'orfano si mise in un

angolo e vi rimase silenzioso, calmo e fiero; ma di quando in quando lo sguardo dolce e

carezzevole della cugina si posava su di lui, lo costringeva ad abbandonare i suoi tristi

pensieri, e a inoltrarsi con lei sulle vie della speranza e del futuro, dove ella voleva

incamminarsi con lui. In quello stesso momento, la città di Saumur era sconvolta dalla

cena che Grandet offriva ai Cruchot più di quanto lo fosse stata il giorno prima dalla

vendita della vendemmia, che costituiva un delitto di alto tradimento verso la viticoltura.

Se il furbo vignaiolo avesse offerto quella cena con la stessa intenzione che costò la coda al

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cane di Alcibiade, sarebbe stato forse un grand'uomo; ma, troppo superiore a una città

della quale egli si beffava di continuo, Grandet non faceva alcun caso a Saumur. I des

Grassins vennero a sapere ben presto la morte violenta e il probabile fallimento del padre

di Charles; decisero di andare la sera stessa a trovare il loro cliente per porgergli le

condoglianze e attestargli la loro amicizia, e anche per scoprire i motivi che potevano

averlo indotto, in simili circostanze, a invitare a cena i Cruchot. Alle cinque precise, il

presidente C. de Bonfons e suo zio il notaio arrivarono tutti tirati a lucido. I convitati si

misero a tavola e cominciarono un'ottima cena. Grandet era serio, Charles silenzioso,

Eugénie muta, Mme Grandet non parlò più del solito, di modo che quel desinare fu un

vero pasto di condoglianze. Al levar delle mense, Charles disse alla zia e allo zio:

«Permettetemi di ritirarmi. Devo sbrigare una lunga e triste corrispondenza.»

«Fate pure, nipote mio.»

Dopo la sua uscita, il brav'uomo, quando ritenne che Charles non potesse più

ascoltare e fosse immerso nelle sue lettere, guardò con aria sorniona la moglie.

«Signora Grandet, ciò che dobbiamo dire sarebbe latino per voi; sono le sette e

mezzo, dovreste andare a chiudervi in camera vostra. Buona notte, figlia mia.»

Baciò Eugénie e le due donne uscirono. Allora cominciò la scena, nella quale papà

Grandet, più che in qualsiasi altro momento della sua vita, spiegò l'abilità che aveva

acquistato nel commercio con gli uomini, e che spesso gli valeva, da parte di coloro che

egli mordeva un po' troppo forte, il soprannome di vecchio cane. Se il sindaco di Saumur

avesse avuto ambizioni più grandi, se qualche circostanza fortunata, facendolo arrivare

vicino alle sfere superiori della società, lo avesse portato nei congressi dove si trattano gli

affari delle nazioni, e se egli avesse impiegato il talento che aveva messo al servizio del suo

interesse personale, non v'è dubbio che avrebbe potuto essere meravigliosamente utile alla

Francia. È però anche probabile che, una volta uscito da Saumur, il brav'uomo avrebbe

fatto solo una meschina figura. Forse ci sono dei cervelli simili a certi animali che perdono

la fertilità una volta trasferiti lontano dall'ambiente in cui sono nati.

«Si...i...i...i...gnor pre...pre...pre...presidente, voooi di...di...di...dicecevaaate che il

faaallimento...»

Il balbettio che il brav'uomo simulava da tanto tempo e che passava per essere

naturale, come la sordità di cui si lagnava nelle giornate di pioggia, diventò, in quella

circostanza, così stancante per i due Cruchot, che ascoltando il vignaiolo senza

accorgersene torcevano la bocca, facendo degli sforzi come se volessero completare le

parole sulle quali egli si impuntava a suo piacimento. A questo punto, diventa forse

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necessario fornire la storia della balbuzie e della sordità di Grandet. Nessuno, nell'Angiò,

aveva un udito migliore e una pronuncia più scorrevole del furbo vignaiolo. Una volta,

malgrado la sua astuzia, era stato raggirato da un israelita, che, durante la discussione,

portava una mano all'orecchio a mo' di cornetto acustico, con il pretesto di sentire meglio,

e tartagliava così bene nel cercare la parole, che Grandet, vittima della propria umanità, si

senti in dovere di suggerire allo scaltro ebreo le parole e le idee che quello sembrava

cercare, di completare lui stesso i ragionamenti del detto ebreo, di parlare come doveva

parlare quel dannato ebreo, di essere insomma l'ebreo e non Grandet. Per il bottaio il

risultato di questo strano duello fu quello di concludere il solo affare di cui ebbe a pentirsi

nella sua vita di commerciante. Ma, se egli perse, dal punto di vista pecuniario, ci

guadagnò dal punto di vista morale una buona lezione, e, più tardi, ne raccolse i frutti.

Così il brav'uomo finì per benedire l'ebreo che gli aveva insegnato l'arte di far spazientire

il proprio antagonista in affari, e, impegnandolo a esprimere meglio il suo pensiero, di

fargli perdere continuamente di vista il proprio. Ora, nessuna faccenda esigeva più di

quella che era in ballo, il ricorso alla sordità, alla balbuzie e alle ambagi incomprensibili

nelle quali Grandet avviluppava le sue idee. Innanzi tutto egli non voleva addossarsi la

responsabilità delle proprie idee; e poi non voleva impegnarsi a fondo, bensì lasciare

dubbi sulle sue vere intenzioni.

«Si...gnor de Bon...Bon...Bonfons.» Era la seconda volta, in tre anni, che Grandet

chiamava Cruchot nipote signor de Bonfons. Il presidente fu sul punto di credersi scelto

come genero da quel contorto brav'uomo. «Vooooi di...di...di...dicevate dunque che i

faaallimenti po...po...po...possono, i...in ce...certi casi, essere impe...pe...pe...diti d...da...»

«Dagli stessi tribunali di commercio. È cosa di tutti i giorni,» disse M. C. de

Bonfons, sposando l'idea di papà Grandet o credendo di indovinarla e volendogliela

cortesemente spiegare.

«Ascoltate»

«Ascol...to,» rispose umilmente il brav'uomo assumendo la maliziosa espressione di

un fanciullo che dentro di sé rida del suo professore mentre sembra prestargli la più

grande attenzione.

«Quando un uomo considerevole e considerato, come lo era, per esempio, il defunto

vostro signor fratello a Parigi...»

«Mio...o fratello, si.»

«Corre il pericolo di un dissesto...»

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«Si...iii chi...chiama di...di...dissesto?»

«Sì. Vale a dire quando la dichiarazione di fallimento è imminente, il tribunale di

commercio, dal quale egli dovrà essere giudicato (seguitemi bene), ha facoltà di nominare,

con una sentenza, alcuni liquidatori della sua ditta. Liquidare non significa fallire, capite?

Quando fa fallimento, un uomo è disonorato; ma quando liquida, rimane un onest'uomo.»

«C'è una bella di...di...di...differenza, se que...e...sto non co...o...o...sta più caro,»

disse Grandet.

«Ma una liquidazione si può fare anche senza l'intervento del tribunale di

commercio. Infatti,» disse il presidente annusando una presa di tabacco, «come si dichiara

un fallimento?»

«Già, non ci avevo mai pe...pe...pe...pensato,» rispose Grandet.

«In primo luogo,» riprese il magistrato, «con il deposito del bilancio nella

cancelleria del tribunale, eseguito dal commerciante stesso o da un suo procuratore

debitamente nominato. In secondo luogo dietro richiesta dei creditori. Ora, se il

commerciante non deposita il bilancio, se nessun creditore chiede una sentenza del

tribunale che dichiari il suddetto commerciante in stato fallimentare, che succede?»

«Sì...ì...i, ve...ve...vediamo.»

«Allora, la famiglia del defunto, i suoi rappresentanti, il suo erede diretto, o il

commerciante, se non è morto, o i suoi amici, se si nasconde, liquidano. Volete forse

liquidare la ditta di vostro fratello?» domandò il presidente.

«Ah! Grandet!» esclamò il notaio, «sarebbe una buona cosa. C'è ancora il senso

dell'onore nelle nostre province. Se voi salvaste il vostro nome, perché è il vostro nome,

sareste un uomo...»

«Sublime!» disse il presidente interrompendo lo zio.

«Ce...certo,» rispose il vecchio vignaiolo; «mi...mio frrr...fra...fratello si

chia...chia...chia...mava Grandet co...come me. Que...que...que...questo è più che sicuro.

I...i...io non dico di...di no. E...e...e...questa li...li...li...liquidazione potrebbe in ogni caaaso

essere soootto tuuutti gli a...a...aspetti molto va...va...vantaggiosa per gli i...i...i...interessi di

mio ni...ni...nipote, che io a...a...amo. Ma bisogna vedere. Io non co...co...conosco quei furbi

di Parigi. Io...sto a Sau...au...aumur, io, lo sapete. I miei iiinnesti, i miei fooossati, e po...poi

ho i miei affari. Non ho mai firmato una ca...ca...cambiale. Che cos'è una cambiale?

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Ne...ne...ne ho ricevute mo...molte, ma non ne ho mai fi...fi...firmate. Si...iii incassano, si

scontano. Ecco tuuutto quello ch...ch...che so. Ho se...se...se...sentito di...di...dire che siii

po...po...possono gi...gi...girare le ca...ca...ca...»

«Sì,» disse il presidente, «è possibile acquistare le cambiali su piazza, pagando un

tanto per cento. Capite?»

Grandet portò una mano all'orecchio come un cornetto acustico, e il presidente

ripeté ciò che aveva detto.

«Ma,» rispose il vignaiolo, «in que...queste cose bisogna stare attenti. Io...io...io non

so niente, alla mia età, di tuuutte que...que...queste faccende. Io de...devo ri...manere

qu...qu... qui per ba...ba...badare al grano. Il grano va imma...gazzinato, ed è...è...è cooon il

grano che si pa...paga. Priiima di tutto, occorre ba...ba...badare ai...ai ra...ra...raccolti, ho

affari più i...i...importanti e inte...te...teressanti a Froidfond. Io non posso

a...a...abbandonare la mi...mi...mi...mia casa perché degli i...i...imbrogli de...de...del

di...di...diavolo in cui non ci capi...pisco niente. Voooi dite che...che dovrei, per

li...li...liquidare, per fermare la dichiarazione di fallimento essere a Parigi. Non ci si può

trooo...vare nello stesso tempo i...i...in due posti a meno di essere un u...u...u...uccellino

e...»

«Io vi capisco,» esclamò il notaio. «Ebbene, mio vecchio amico, voi avete degli

amici, dei vecchi amici che vi sono devoti.»

«Benone!» pensava fra sé il vignaiolo, «decidetevi allora!»

«E se qualcuno partisse per Parigi, vi cercasse il più grosso creditore di vostro

fratello Guillaume, gli dicesse...»

«Un mi...mi...minuto,» riprese il brav'uomo; «gli dicesse...che cosa? U...una co...cosa

co...co...come questa: M. Grandet...det di Saumur di...di...di... qua, M. Grandet...det di

Saumur di là. Ama suo fratello, ama suo ni...ni...nipote. Grandet è un buon

pa...pa...parente, ha delle ottime intenzioni. Ha venduto bene la sua ve...ve...vendemmia.

Non dichiarate il fa...fa...fa...fallimento, riiiunitevi, no...no...nominate dei li...li...liquidatori.

Aaallora Grandet ve...ee...rrà. Voooi o...o....otterrete di più liquidando che mettendoci di

me...mezzo il tribunale. Non è così?»

«Giusto!» disse il presidente.

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«Perché, vedete, signor de Bon...Bon...Bon...fons, bisogna riflettere prima di

de...decidere. Chi no...no...non può, no...non può. In ogni a...a...affare ooone...neroso, peeer

non ro...ro...ro...rovinarsi, bisogna conoscere le risorse e le spese. Non è così?»

«Certamente,» disse il presidente. «Io sono del parere che nel giro di qualche mese

sarà possibile riscattare i debiti per una certa somma e pagare tutto addivenendo a un

accordo. Ah! ah! si riesce a far correre parecchio i cani mostrando loro un pezzo di lardo.

Una volta che non ci sia stata dichiarazione di fallimento e che voi abbiate in mano i titoli

di credito, diverrete bianco come la neve.»

«Come la ne...ne...neve?» ripeté Grandet tornando a portarsi una mano all'orecchio.

«Non capisco la ne...ne...neve.»

«Ma,» esclamò il presidente, «ascoltatemi dunque!»

«A...a...ascolto.»

«Un effetto è una merce che può avere i suoi alti e bassi. Questo si deduce dalla

teoria di Geremia Bentham sull'usura. Questo scrittore ha dimostrato che i pregiudizi

contro gli usurai sono una sciocchezza.»

«Già!» fece il brav'uomo.

«Dato che in via di principio, secondo Bentham, il denaro è una merce, e che ciò che

rappresenta il denaro diviene a sua volta merce,» riprese il presidente; «poiché è noto che,

soggetta alle normali oscillazioni che si verificano negli scambi, la merce-cambiale, recante

la tale o tal'altra firma, esattamente come il tale o tal altro articolo, abbonda o scarseggia

sulla piazza, e quindi il suo prezzo va alle stelle o cade a zero, il tribunale ordina... (toh!

che bestia sono, scusate...), io sono del parere che possiate riscattare vostro fratello per un

venticinque per cento.»

«Voooi lo avete chi...chi...chiamato Ge...Ge...Ge...Geremia Ben...?»

«Bentham, è un inglese.»

«Quel Geremia là ci risparmierà un sacco di noie negli affari,» disse ridendo il

notaio.

«Questi inglesi hanno a vo...vo...volte del bu...on senso,» disse Grandet. «Così,

se...se...se...secondo Ben...Ben...Ben Bentham, se gli effetti di mio fratello

va...va...va...va...valgono...non valgono! Sì. Di...di...dico bene, non è cosi? Questo mi

sembra chiaro...I creditori sarebbero...no, non sarebbero...ho capito.»

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«Lasciate che vi spieghi tutto,» disse il presidente. «In linea di diritto, se voi

possedete i titoli di tutti i debiti della ditta Grandet, vostro fratello o i suoi eredi non

devono niente a nessuno. Bene.»

«Bene,» ripeté il brav'uomo.

«In linea di equità, se gli effetti di vostro fratello vengono negoziati (negoziati,

comprendete bene questo termine?) su piazza con la perdita di un tanto per cento; se un

vostro amico si trova a passare di là e li acquista, non avendoli i creditori ceduti sotto

alcuna coercizione, la successione del defunto Grandet di Parigi si trova onestamente in

pari.»

«È vero, gli a...a...a...affari sono affari,» disse il bottaio. «Ciò pooosto... Ma, tuttavia,

voi co...co...co...mprendete che è di...di...di...difficile. I...i...io non ho denaro né...né...né

tempo, né tempo né...»

«Si, voi non potete disturbarvi. Mi offro di andare io a Parigi (mi rimborserete solo

le spese di viaggio, una miseria). Incontrerò i creditori, parlerò con loro, li ammansirò e

tutto si sistemerà con un esborso supplementare che aggiungerete al valore della

liquidazione, allo scopo di rientrare in possesso dei titoli di credito.»

«Veeedremo; io no...no...non posso, no...no...non voglio i...i...impegnarmi

senza...senza... che... Chi...chi...chi... no...non può, non può. Caaapite?»

«È giusto!»

«Ho la testa fra...fra...frastornata da que...quello che voooi...voi mi a...a...a...avete

detto. È la...la...la prima volta in vita mia che i...io sono costretto a pe...pensare a...»

«Certo voi non siete un giureconsulto.»

«I...io sono un po...po...povero vignaiolo e non so niente di ciò che vo...vo...voi avete

detto; bi...bi...bisogna che ci stu...stu...studi sopra.»

«Ebbene...» riprese il presidente come se volesse riassumere la discussione.

«Caro nipote!...» lo interruppe il notaio con un tono di rimprovero.

«Che cosa c'è, zio?» rispose il presidente.

«Lascia che M. Grandet ti spieghi le sue intenzioni. Si tratta di un mandato

importante. Il nostro caro amico lo deve definire in modo preci...»

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Un colpo di martello che annunciava l'arrivo della famiglia des Grassins, l'ingresso

di costoro e i saluti impedirono a Cruchot di completare la frase. Il notaio fu contento di

questa interruzione; Grandet lo guardava già di traverso e la verruca indicava una

tempesta interiore. Ma innanzi tutto, il prudente notaio non trovava opportuno che un

presidente di tribunale di prima istanza andasse a Parigi per ridurre alla ragione dei

creditori, per prestarsi a un maneggio che urtava contro i principi di una rigorosa probità;

poi, non avendo sentito esprimere da papà Grandet la minima intenzione di pagare quel

che ci fosse da pagare, temeva istintivamente di vedere il nipote impegolato in questa

faccenda. Approfittò dunque del momento in cui i des Grassins entravano per prendere

sottobraccio il presidente nel vano della finestra.

«Tu ti sei esposto a sufficienza, nipote; ma basta con questo tipo di devozione. Il

desiderio di avere la figlia ti acceca. Diavolo! Non bisogna buttarcisi a capofitto come una

cornacchia sulle noci. Lascia a me il timone della barca e tu aiutami solo nella manovra.

Hai forse il dovere di compromettere la tua dignità di magistrato in una simile...»

Non terminò la frase; ascoltava M. des Grassins che diceva al vecchio bottaio

porgendogli la mano: «Grandet, abbiamo saputo della terribile disgrazia capitata nella

vostra famiglia, il disastro della ditta Guillaume Grandet e la morte di vostro fratello;

siamo venuti per esprimervi la nostra partecipazione a questo triste evento.»

«L'unica disgrazia,» disse il notaio interrompendo il banchiere, «è la morte di M.

Grandet junior. E comunque non si sarebbe ucciso se avesse pensato di chiedere aiuto al

fratello. Il nostro vecchio amico che ha il senso dell'onore fin nella punta delle unghie,

conta di liquidare i debiti della ditta Grandet di Parigi. Mio nipote il presidente, per

risparmiargli i fastidi di una faccenda di carattere giudiziario, si è offerto di partire subito

per Parigi, allo scopo di concludere una transazione con i creditori e di soddisfarli in modo

conveniente.»

Queste parole, confermate dall'atteggiamento del vignaiolo, che si accarezzava il

mento, sorpresero non poco i tre des Grassins, i quali strada facendo avevano imprecato

contro l'avarizia di Grandet, accusandolo quasi di fratricidio.

«Ah! lo sapevo!» esclamò il banchiere guardando la moglie.

«Che ti dicevo per via, signora des Grassins? Grandet ha l'onore fin sulla punta dei

capelli, e non accetterà che il suo nome possa essere anche solo leggermente scalfito! Il

denaro senza onore è una piaga. Nelle nostre province l'onore esiste! È una buona, ottima

cosa, Grandet. Io sono un vecchio soldato e non so dissimulare il mio pensiero; parlerò

senza ambagi: per mille fulmini! è un gesto sublime.»

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«Aaallora il su...su...sublime costa ca...caro,» rispose il brav'uomo mentre il

banchiere gli scuoteva calorosamente la mano.

«Ma questa, mio caro Grandet, non dispiaccia al signor presidente,» riprese des

Grassins, «è una questione puramente finanziaria, ed esige una persona molto esperta nel

ramo. Non si tratta forse di saperla lunga sui conti di restituzione, di anticipazione, sul

calcolo degli interessi? Devo andare a Parigi per i miei affari, e quindi potrei incaricarmi

di...»

«Vedremo dunque di ce...ce...cercare di accordarci no...noi due nelle rispettive

po...po...po...possibilità e senza i...i...impegnarmi in qualcosa che io...io...io...non

voooo...rrei fare,» disse Grandet balbettando; «perché, vedete, il signor presidente mi

chiedeva come è naturale le spese di viaggio.»

Pronunciando queste ultime parole il brav'uomo non balbettava più.

«Eh!» disse Mme des Grassins, «è un tale piacere stare a Parigi. Pagherei volentieri

per andarci io.»

E fece un segno al marito come per incoraggiarlo a soffiare a ogni costo,

quell'incarico ai loro avversari; poi gettò uno sguardo carico di ironia ai due Cruchot, che

avevano un'aria delusa. Grandet afferrò allora il banchiere per un bottone della marsina e

lo attirò in un angolo.

«Ho più fiducia in voi che nel presidente,» gli disse. «Eppoi c'è dell'altro,» aggiunse

muovendo la verruca. «Vorrei investire nei titoli; penso di comperare titoli per qualche

migliaio di franchi, ma non vorrei pagarli più di ottanta franchi. Mi dicono che le

quotazioni scendono a fine mese. Voi ve ne intendete, vero?»

«Perdiana! Dovrei dunque acquistare qualche migliaio di lire di titoli per vostro

conto?»

«Poca roba per cominciare. Mosca! Vorrei giocare a quel gioco senza che se ne

sappia nulla. Concluderete l'acquisto per fine mese, ma non dite nulla ai Cruchot,

potrebbero indispettirsi. Dal momento che andate a Parigi, vedremo al tempo stesso, per il

mio povero nipote, come stanno le cose.»

«D'accordo. Partirò domani con la diligenza,» disse ad alta voce des Grassins, «e

verrò a prendere le vostre ultime istruzioni alle... A che ora?»

«Alle cinque, prima di cena,» disse il vignaiolo fregandosi le mani.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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I due avversi schieramenti rimasero ancora qualche istante uno di fronte all'altro.

Dopo una pausa, des Grassins disse battendo su una spalla di Grandet: «È bello avere dei

buoni parenti cosi...»

«Sì, sì, anche se non lo do a vedere,» rispose Grandet, «sono un buon pa...parente.

Volevo bene a mio fratello e lo dimostrerò se...se non...non costa...»

«Noi vi lasciamo, Grandet,» disse il banchiere, interrompendolo per fortuna prima

che completasse la frase. «Se anticipo la partenza, ho bisogno di sistemare alcune

faccende.»

«Bene, bene. Anche io, rii...guardo a ciò che sa...pete, va...vado a ritirarmi in

ca...mera di co...consiglio, come dice il presidente Cruchot.»

«Accidenti! Non mi chiama più M. de Bonfons,» pensò tristemente il magistrato, sul

cui viso si dipinse l'espressione del giudice annoiato da un'arringa.

I capi delle due famiglie rivali se ne andarono insieme. Né gli uni né gli altri

pensavano più al tradimento di cui si era macchiato quella mattina Grandet nei confronti

della viticoltura locale, e cercarono, ma invano, di conoscere i rispettivi punti di vista sulle

reali intenzioni del brav'uomo in questo nuovo affare.

«Venite con noi da Mme d'Orsonval?» chiese des Grassins al notaio.

«Ci verremo più tardi,» rispose il presidente. «Se mio zio permette, ho promesso di

fare un salutino a Mme de Gribeaucourt, e pensiamo di passare da lei.»

«Arrivederci dunque, signori,» disse Mme des Grassins.

E, quando i des Grassins si furono allontanati di qualche passo dai Cruchot,

Adolphe disse al padre: «Sono imbuggerati niente male, eh?»

«Sta' zitto, figliolo,» lo rimbeccò la madre, «possono ancora sentirci. Eppoi queste

espressioni sono di cattivo gusto e puzzano di università.»

«Hai visto, zio?» esclamò il magistrato quando vide che i des Grassins erano

abbastanza lontani, «ho cominciato con l'essere il presidente de Bonfons e ho finito come

un semplice Cruchot.»

«Mi sono accorto che eri contrariato; ma il vento spirava a favore dei des Grassins.

Con tutta la tua intelligenza ti comporti da stupido! Lascia che cavalchino un vedremo di

papà Grandet, e stai calmo, ragazzo mio: non per questo Eugénie non sarà tua moglie.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Nel giro di pochi minuti la notizia della magnanima decisione di Grandet fu

conosciuta contemporaneamente in tre case, e in tutta la città non si parlò più che di

questo attaccamento fraterno. Tutti avevano perdonato a Grandet la vendita conclusa in

dispregio del solenne accordo fra viticoltori, e ammiravano il suo senso dell'onore,

lodavano la generosità di cui non lo avevano ritenuto capace. È proprio del carattere

francese entusiasmarsi, andare in collera, appassionarsi per l'astro del momento, per

l'effimero. Le collettività, i popoli non hanno dunque memoria?

Dopo aver chiuso la porta, papà Grandet chiamò Nanon.

«Non sciogliere il cane e non andare a dormire, dobbiamo lavorare insieme. Alle

undici, Cornoiller deve trovarsi alla porta con la carrozza di Froidfond. Sta' attenta a

quando arriva in modo che non bussi, e digli di entrare in silenzio. Le leggi di polizia

vietano gli schiamazzi notturni. Eppoi, non c'è bisogno di far sapere a tutto il vicinato che

mi metto in viaggio.»

Detto ciò, Grandet tornò nel suo laboratorio, e Nanon lo sentì trafficare, frugare,

andare, venire, ma tutto con circospezione. Evidentemente non voleva svegliare né la

moglie né la figlia, e soprattutto non voleva attirare l'attenzione del nipote, che stava già

maledicendo perché aveva visto luce nella sua camera. A metà notte, Eugénie preoccupata

per il cugino, credette di aver sentito il rantolo di un moribondo, e per lei quel moribondo

era Charles: lo aveva lasciato così pallido e disperato! forse si era ucciso. Si buttò addosso

una specie di mantello di pelo con cappuccio e decise di uscire. A tutta prima un forte

bagliore che trapelava dalla fessura della porta le fece temere che ci fosse un incendio; poi

si rassicurò udendo i passi pesanti di Nanon e la sua voce che si confondeva con un nitrire

di cavalli.

«Che mio padre voglia portar via mio cugino?» si disse socchiudendo la porta con

precauzione per non farla cigolare, ma in modo da poter vedere ciò che accadeva nel

corridoio.

D'un tratto i suoi occhi incontrarono quelli del padre, il cui sguardo, per quanto

vago e indifferente, la fece rabbrividire di terrore. Il brav'uomo e Nanon tenevano

ciascuno sulla spalla destra le due estremità di una pertica alla quale era attaccato

mediante una fune un barilotto simile a quelli che papà Grandet si divertiva a fabbricare

nel locale del forno quando aveva dei momenti liberi.

«Santa Vergine! signore, come pesa!» disse a bassa voce Nanon.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Purtroppo sono solo soldoni!» rispose il brav'uomo. «Attenta a non urtare il

candeliere.»

Questa scena era illuminata da una sola candela sistemata fra due sbarre della

ringhiera.

«Cornoiller,» disse Grandet al suo guardiano in partibus , «hai preso le pistole?»

«No, signore. Cribbio! che c'è da temere per i vostri soldoni?...»

«Oh! niente,» disse papà Grandet.

«Del resto, andremo svelti,» riprese il guardiano, «i fittavoli hanno scelto per voi i

cavalli migliori.»

«Bene, bene. Hai detto forse dove vado?»

«Non lo so nemmeno.»

«Bene. La vettura è solida?»

«Questa, padrone? Ah beh, questa potrebbe portare tremila libbre. Ma quanto

pesano questi vostri barilacci?»

«Quanto a questo,» disse Nanon, «lo so ben io! Quasi mille e ottocento.»

«Vuoi tacere, Nanon? Di' a mia moglie che sono andato in campagna e tornerò per

cena. - Va' alla svelta, Cornoiller, dobbiamo essere ad Angers prima delle nove.»

Partita la carrozza, Nanon mise il chiavistello al portone, sciolse il cane, andò a letto

con una spalla indolenzita, e nessuno nel quartiere sospettò né la partenza di Grandet né

lo scopo di quel viaggio. La segretezza del brav'uomo era assoluta. Nessuno vedeva mai

un soldo in quella casa piena d'oro. Dopo aver saputo in mattinata, dalle chiacchiere che si

facevano sul porto, che il prezzo dell'oro era raddoppiato per via delle numerose navi che

si stavano armando a Nantes, e che ad Angers erano arrivati degli speculatori che

intendevano acquistare oro, il vecchio vignaiolo, facendosi semplicemente prestare dei

cavalli dei fittavoli, fu in grado di andare a vendere il suo oro e di riportare a casa in buoni

del ricevitore generale del Tesoro la somma necessaria, aumentata dal plusvalore, per

acquistare i suoi titoli.

«Mio padre se ne va,» disse Eugénie che dall'alto della scala aveva sentito tutto. Il

silenzio era tornato nella casa, e il lontano rumore della carrozza, che svaniva a poco a

poco, non si udiva già più in una Saumur addormentata. In quel momento Eugénie sentì

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col cuore, prima di udirlo con le orecchie, un lamento che trapassò le pareti, e che veniva

dalla camera del cugino. Una striscia luminosa, sottile come il taglio di una sciabola,

passava dalla fessura della porta e fendeva orizzontalmente la ringhiera della vecchia

scala.

«Sta soffrendo,» disse lei salendo due scalini. Un secondo gemito la fece arrivare

fino al pianerottolo della camera. La porta era socchiusa, ella la spinse. Charles dormiva

con la testa che penzolava fuori della vecchia poltrona; la mano dalla quale era sfuggita la

penna toccava quasi per terra. Il respiro irregolare del giovane dovuto alla posizione fece

spaventare Eugénie, che entrò subito. «Deve essere molto stanco», si disse guardando una

decina di lettere chiuse. Ne lesse gli indirizzi: Ai signori: Farry, Breilman e C., carrozzieri - Al

signor Buisson, sarto ecc. «Deve aver sistemato tutti i suoi affari per poter lasciare al più

presto la Francia,» pensò Eugénie. Gli occhi le caddero su due lettere aperte. Le parole con

cui cominciava una lettera: «Mia cara Annette...» le provocarono un capogiro. Il cuore le

batteva in petto, i piedi sembravano inchiodati al pavimento. La sua cara Annette! Egli

ama, è amato! Non c'è più speranza!... Che cosa le dice? Questi pensieri le trapassarono la

testa e il cuore. Vedeva quelle parole fiammeggiare dappertutto, perfino sul piancito.

«Devo già rinunciare a lui! No, non leggerò quella lettera. Devo andarmene... Ma dopo

tutto, se la leggessi?» Guardò Charles, gli prese dolcemente la testa e la posò sulla spalliera

della poltrona, mentre lui si lasciava fare come un bambino che, pure dormendo, riconosce

la madre e accetta, senza svegliarsi, le sue premure e i suoi baci. Come una madre Eugénie

sollevò la mano che stava penzoloni, e, come una madre, gli baciò con dolcezza i capelli.

«Cara Annette!» Un demone le urlava queste due parole nelle orecchie. «So che forse

faccio male, ma questa lettera la leggerò,» disse. Eugénie voltò la testa perché la sua nobile

onestà le faceva rimordere la coscienza. Per la prima volta nella vita il bene e il male erano

uno di fronte all'altro nel suo cuore. Fino a quel momento, non aveva dovuto arrossire di

nulla. La passione, la curiosità ebbero il sopravvento. A ogni frase, il cuore le si gonfiava

sempre più, e il bruciore che la invase durante la lettura le rese ancor più gustosi i piaceri

del primo amore.

«Mia cara Annette, niente avrebbe dovuto separarci, se non la disgrazia che mi

travolge e che la prudenza umana non avrebbe potuto prevedere. Mio padre si è ucciso, la

sua fortuna e la mia sono completamente perdute. Mi ritrovo orfano a un'età in cui, data la

mia educazione, potrei passare per un ragazzo; e tuttavia devo risalire da uomo il

precipizio nel quale sono caduto. Ho impiegato una parte di questa notte a fare conti. Se

voglio lasciare la Francia da onest'uomo, e non c'è da dubitarne, non possiedo nemmeno

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cento franchi per andare a fare fortuna nelle Indie o in America. Sì, mia povera Anna,

andrò a tentare la sorte nei climi più malsani. Sotto quei cieli, mi hanno detto, essa è sicura

e rapida. Restare a Parigi non potrei. Né la mia anima né il mio viso sono fatti per

sopportare gli affronti, la freddezza, il disprezzo che attendono l'uomo rovinato, il figlio

del fallito! Buon Dio! Essere debitore di due milioni!... Finirei ucciso in duello nel giro di

sette giorni. Per questo non vi tornerò. Nemmeno il tuo amore, il più tenero e il più devoto

che abbia mai nobilitato il cuore di un uomo riuscirebbe ad attirarmi colà. Ahimè! mia

adorata, non ho abbastanza denaro per venire dove sei tu, per dare e ricevere un ultimo

bacio, un bacio dal quale trarrei la forza necessaria per quello che devo intraprendere...»

«Povero Charles, ho fatto bene a leggere! Ho un po' d'oro, glielo darò,» disse

Eugénie.

Dopo essersi asciugata le lacrime, riprese la lettura.

«Non avevo mai pensato all'infelicità della miseria. Se ho i cento luigi indispensabili

per pagare il passaggio, non mi resterà un soldo per mettere insieme una paccottiglia.

Macché, non ho né cento luigi né un luigi, saprò quanto denaro mi resta solo dopo che

saranno stati pagati i miei debiti a Parigi. Se non mi rimane nulla, me ne andrò

tranquillamente a Nantes, mi imbarcherò come mozzo, e comincerò dal basso come hanno

cominciato gli uomini forti che, da giovani, non avevano un soldo e sono tornati ricchi

dalle Indie. Da questa mattina guardo con freddezza il mio avvenire. È più brutto per me

che per chiunque altro, perché io sono stato coccolato da una madre che mi adorava,

amato dal migliore dei padri e perché, al mio ingresso nel mondo, ho incontrato l'amore di

una Anna! Ho conosciuto solo i fiori della vita: questa felicità non poteva durare. E

tuttavia, mia cara Annette, ho più coraggio di quanto dovrebbe averne un giovane fatuo,

soprattutto un giovane abituato ai vezzi della donna più deliziosa di Parigi, cullato nelle

gioie della famiglia, cui tutto sorrideva in casa, e i cui desideri erano legge per un padre...

Oh! Annette, mio padre, mio padre è morto...

«Ebbene, ho riflettuto sulla mia situazione, e ho riflettuto anche sulla tua. Sono

invecchiato molto in ventiquattro ore. Cara Anna, se, per tenermi vicino a te, a Parigi, tu

sacrificassi tutti i tuoi piaceri del lusso, i tuoi vestiti, il palco all'Opera, non arriveremmo

ancora alla cifra necessaria per la mia vita dissipata; eppoi io non potrei accettare tanti

sacrifici. Quindi oggi noi ci lasciamo per sempre.»

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«Egli la lascia, Santa Vergine! O felicità!»

Eugénie fece un salto di gioia. Charles si mosse, ed ella si sentì gelare dal terrore;

ma il giovane non si svegliò, fortunatamente per lei. Eugénie riprese la lettura:

«Quando tornerò? Non lo so. Il clima delle Indie fa invecchiare precocemente un

europeo e soprattutto un europeo che lavora. Diciamo da qui a dieci anni. Fra dieci anni

tua figlia avrà diciotto anni, sarà la tua compagna, la tua spia. Per te il mondo sarà crudele,

tua figlia lo sarà ancora di più. Abbiamo avuto esempi di questi giudizi mondani, di

queste ingratitudini delle ragazze; mettiamoli a profitto. Conserva in fondo al tuo animo,

come io lo conserverò, il ricordo di questi quattro anni di felicità e sii fedele, se puoi, al tuo

povero amico. Però non potrei esigerlo, perché, vedi mia cara Annette, devo adattarmi alla

mia situazione, vedere la vita da borghese e valutarla per ciò che è. Quindi, devo pensare a

sposarmi, il che sarà una necessità della mia nuova esistenza; e ti confesserò che ho trovato

qui, a Saumur, in casa di mio zio, una cugina della quale le maniere, il viso, l'intelligenza e

il cuore ti piacerebbero, e che, inoltre, mi pare abbia...»

«Doveva essere molto stanco per aver smesso di scrivere,» si disse Eugénie vedendo

che la lettera era interrotta a metà di quella frase.

Ella lo giustificava! Era dunque impossibile che quella innocente fanciulla si

accorgesse della freddezza che c'era nella lettera? Per le giovani educate religiosamente,

ignoranti e pure, tutto è amore dal momento in cui mettono piede nelle regioni incantate

dell'amore. Vi avanzano circondate dalla luce celeste che la loro anima proietta e che si

irraggia sul loro amante; esse lo colorano con le tinte accese dei propri sentimenti e gli

prestano i loro bei pensieri. Gli errori della donna nascono quasi sempre dal suo credere

nel bene, o dalla sua fiducia nel vero. Queste parole: «Mia cara Annette, mia adorata»

risuonavano nel cuore di Eugénie come il più bel linguaggio d'amore e le carezzavano

l'anima come, da bambina, le note divine del Venite adoremus, suonate dall'organo, le

carezzavano le orecchie. Del resto, le lacrime che bagnavano ancora gli occhi di Charles

dimostravano quella nobiltà del cuore che non può non sedurre una fanciulla. E come

poteva ella sapere che, se Charles amava tanto il padre e lo piangeva sinceramente, questa

tenerezza proveniva non tanto dalla bontà del suo cuore quanto dalla bontà del padre? M.

e Mme Guillaume Grandet, assecondando sempre i capricci del figlio, concedendogli tutte

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le soddisfazioni della ricchezza, gli avevano impedito di fare quegli orribili calcoli di cui

sono più o meno capaci, a Parigi, molti figli, quando, davanti ai piaceri parigini, nutrono

desideri e concepiscono progetti continuamente rinviati o ritardati dall'esistenza dei

genitori. La prodigalità del padre giunse quindi a far nascere nel cuore del figlio un amore

filiale vero, senza secondi fini. Ciò nondimeno, Charles era un ragazzo di Parigi, abituato

dai costumi di Parigi, dalla stessa Annette, a calcolare tutto, un vecchio sotto la maschera

del giovane. Aveva ricevuto la spaventosa educazione di un mondo in cui, in una serata, si

commettono con i pensieri, con le parole più delitti di quanti la giustizia ne punisca nelle

corti d'assise, in cui le battute di spirito assassinano le più grandi idee, in cui si passa per

essere in gamba quando si vede giusto; e, là, vedere giusto significa non credere a nulla, né

ai sentimenti né agli uomini e nemmeno agli avvenimenti; là si montano falsi avvenimenti.

Là, per vedere giusto, bisogna ogni mattina, pesare la borsa di un amico, sapersi mettere

politicamente al di sopra di ogni eventualità; non ammirare nulla di slancio, né le opere

d'arte né le azioni nobili, e dare come fine ad ogni cosa l'interesse personale. Dopo mille

follie, la gran dama, la bella Annette, costrinse Charles a pensare seriamente; gli parlava

della sua posizione futura, passandogli fra i capelli una mano profumata; mettendogli a

posto un ricciolo, gli faceva calcolare la vita: lo effemminava e lo rendeva materialista.

Doppia corruzione, ma corruzione elegante e di buon gusto.

«Siete ingenuo, Charles», gli diceva. «Farò fatica a insegnarvi come va il mondo. Vi

siete comportato malissimo con M. des Lupeaulx. Lo so che è un uomo poco rispettabile;

ma aspettate che non sia più al potere, allora lo disprezzerete quanto vorrete. Sapete che

cosa ci diceva Mme Campan? Ragazzi miei, finché un uomo è al governo, adoratelo; se

cade, aiutate a trascinarlo nel pattume. Quando è potente, è come un Dio; quando è

distrutto, è in una situazione peggiore di Marat nella sua tinozza, perché lui è vivo mentre

Marat era morto. La vita è un seguito di combinazioni, e bisogna studiarle, seguirle, per

riuscire a mantenersi sempre in una buona posizione.»

Charles era un uomo troppo alla moda, era stato reso sempre troppo felice dai

genitori, era stato troppo adulato dal mondo, per avere grandi sentimenti. La pepita d'oro

che la madre gli aveva messo nel cuore era diventata duttile passando per la trafila

parigina; egli l'aveva impiegata superficialmente e l'avrebbe consumata con l'attrito. Ma

Charles aveva allora solo ventuno anni. A quell'età, la freschezza della vita sembra

inseparabile dal candore dell'anima. La voce, lo sguardo, il volto, sembravano rispecchiare

i sentimenti. Perciò il giudice più severo, l'avvocato più incredulo, l'usuraio più incallito

esitano sempre a credere alla vecchiezza del cuore, alla corruzione dei calcoli, quando gli

occhi nuotano ancora in un fluido puro e sulla fronte non ci sono rughe. Charles non

aveva mai avuto occasione di applicare le massime della morale parigina e fino a quel

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giorno l'inesperienza lo rendeva bello. Ma, a sua insaputa, gli era stato inoculato

l'egoismo. I germi dell'economia politica a uso del parigino, latenti nel suo cuore, non

dovevano tardare a moltiplicarsi, non appena da spettatore passivo, fosse diventato attore

nel dramma della vita. Quasi tutte le fanciulle cedono alle dolci promesse di queste

apparenze; ma, se Eugénie fosse stata prudente e osservatrice quanto lo sono certe ragazze

di provincia, avrebbe potuto diffidare del cugino, dato che in lui i modi, le parole e le

azioni erano ancora in armonia con le aspirazioni del cuore? Un caso, per lei fatale, le fece

sperimentare le ultime effusioni di schietta sensibilità di quel giovane cuore, e ascoltare,

per cosi dire, gli ultimi sospiri della coscienza. Lasciò quella lettera, ai suoi occhi piena

d'amore, e si mise a contemplare con uno sguardo gentile il cugino addormentato: per lei

le fresche illusioni della vita erano ancora dipinte su quel volto; giurò a se stessa di amarlo

per sempre. Poi gettò gli occhi sull'altra lettera senza provare molti rimorsi per questa

indiscrezione; e, se cominciò a leggerla, fu per avere altre conferme delle nobili qualità che,

simile in ciò a tutte le donne, attribuiva a colui che aveva scelto.

«Mio caro Alphonse, quando leggerai questa lettera io non avrò più amici; ma ti

confesso che se dubito delle persone di mondo abituate a usare con facilità questa parola,

non ho dubitato della tua amicizia. Perciò do a te l'incarico di sistemare i miei affari, e

conto su di te per ricavare il meglio da tutto ciò che possiedo. Ora bisogna che tu conosca

la mia situazione. Non ho più niente e voglio partire per le Indie. Ho appena scritto a tutte

le persone alle quali credo di dovere del denaro, e tu ne troverai qui unito l'elenco,

completo per quanto possibile dovendo affidarmi solo alla memoria. La mia biblioteca, i

miei mobili, le mie carrozze, i miei cavalli ecc. dovrebbero bastare a pagare i debiti. Tengo

per me solo le quisquilie senza valore che potrebbero servirmi per cominciare a mettere

insieme una paccottiglia. Mio caro Alphonse, ti spedirò da qui, per questa vendita, una

regolare procura, onde evitare ogni contestazione. Mandami tutte le mie armi. Tieni per te

Briton. Nessuno sarebbe disposto a pagare il prezzo di quella ammirabile bestia, preferisco

offrirtela, come l'anello che il moribondo lascia per consuetudine al suo esecutore

testamentario. Farry, Breilman e C. mi hanno costruito una comodissima vettura da

viaggio, ma non me l'hanno consegnata; convincili a tenersela senza pretendere

indennizzi: se rifiutassero, evita tutto ciò che potrebbe, nelle circostanze in cui mi trovo,

macchiare la mia probità. Devo all'isolano sei luigi, persi al gioco, non mancare di...»

«Caro cugino», disse Eugénie posando la lettera e tornando a piccoli passi in camera

sua con una delle candele accese. E là, non senza un vivo senso di piacere apri il cassetto di

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un vecchio mobile di quercia, una bella opera dell'epoca chiamata Rinascimento, e sul

quale si vedeva ancora, un po' consunta, la famosa salamandra reale. Eugénie ne tirò fuori

una grossa borsa di velluto rosso con ghiande d'oro, orlata da una canutiglia consumata,

proveniente dall'eredità della nonna. Poi soppesò piena di orgoglio quella borsa, e si mise

a rifare il conto ormai dimenticato del piccolo peculio. Dapprima mise da parte venti

portoghesi ancora nuovi, coniati nel 1725 sotto il regno di Giovanni V e che valevano al

cambio reale cinque lisbonine o centosessantotto franchi e sessantaquattro centesimi

ciascuno, cosi le aveva detto il padre, ma il cui valore convenzionale era di centottanta

franchi, data la rarità e la bellezza di quelle monete, che splendevano come soli. Item,

cinque genovine o pezzi da cento lire di Genova, altra moneta rara che al cambio valeva

ottantasette franchi, ma per gli amatori cento franchi. Le venivano dal vecchio M. de la

Bertellière. Item, tre quadruple d'oro spagnole di Filippo V, coniate nel 1729, regalate da

Mme Gentillet, che, offrendogliele, le diceva sempre la stessa frase: «Questo canarino,

questa piccola moneta d'oro, vale novantotto lire! Custoditela bene, carina mia, sarà il fior

fiore del vostro tesoro.» Item, ciò che suo padre stimava di più (l'oro di queste monete era a

ventitré carati e una frazione) cento ducati d'Olanda, coniati nel 1756, e che valevano quasi

tredici franchi. Item, una grande curiosità!... alcune medaglie preziose per gli avari, tre

rupie col segno della Bilancia, e cinque rupie col segno della Vergine, tutte di oro puro a

ventiquattro carati, la splendida moneta del Gran Mogol, ciascuna delle quali valeva

trentasette franchi e quaranta centesimi a peso, ma almeno cinquanta franchi per gli

intenditori che amano maneggiare l'oro. Item, il napoleone da quaranta franchi ricevuto

due giorni prima e che ella aveva messo senza farci tanto caso nella borsa rossa. Questo

tesoro comprendeva delle monete nuove e vergini, delle vere opere d'arte che a volte papà

Grandet chiedeva di rivedere, per spiegarne alla figlia i pregi intrinseci come la bellezza

della cornice, la lucentezza delle facce, la preziosità delle lettere i cui spigoli vivi non erano

ancora smussati. Ma ella non pensava né a queste rarità né alla mania del padre né al

pericolo che correva dando via un tesoro a lui tanto caro; no, ella pensava al cugino, e alla

fine giunse a capire, dopo qualche calcolo sbagliato, che possedeva circa cinquemila

ottocento franchi in valori reali, che, convenzionalmente, si potevano vendere a quasi

duemila scudi. Alla vista di queste ricchezze, Eugénie si mise a battere le mani, come un

fanciullo che scarichi l'eccesso di gioia con movimenti inconsulti del corpo. Così padre e

figlia avevano contato ciascuno la propria fortuna: lui, per andare a vendere il suo oro;

Eugénie, per gettare il suo in un oceano di affetto. Ripose le monete nella vecchia borsa, e

con questa risalì le scale senza esitazioni. La miseria segreta del cugino le faceva

dimenticare la notte, le convenienze; eppoi si sentiva forte della propria coscienza, del

proprio attaccamento, della propria felicità. Nel momento in cui apparve sull'uscio,

tenendo in una mano la candela, nell'altra la borsa, Charles si svegliò, vide la cugina e

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rimase a bocca aperta per la sorpresa. Eugénie si fece avanti, posò il candeliere sul tavolo e

disse con voce commossa:

«Cugino, devo chiedervi perdono di una grave colpa che ho commesso verso di voi;

ma se voi vorrete cancellarla, Dio me lo perdonerà, questo peccato.»

«Di che si tratta?» chiese Charles strofinandosi gli occhi. «Ho letto quelle due

lettere.»

Charles arrossì. «Come è successo?» riprese lei; «perché sono salita? In verità,

adesso non lo so più. Ma sono tentata di non pentirmi troppo per aver letto quelle due

lettere, perché esse mi hanno fatto conoscere il vostro cuore, la vostra anima e...»

«E che altro?» domandó Charles.

«I vostri progetti, la necessità in cui vi trovate di poter disporre di una somma...»

«Mia cara cugina...»

«Ssst, ssst, cugino! parlate piano, o sveglieremo qualcuno. Ecco,» disse aprendo la

borsa, «i risparmi di una povera ragazza che non ha bisogno di nulla. Charles, accettateli.

Questa mattina, ignoravo che cosa fosse il denaro, voi me lo avete insegnato, non è che un

mezzo, ecco tutto. Un cugino è quasi un fratello, quindi potete benissimo prendere in

prestito la borsa di vostra sorella.»

Eugénie, tanto donna quanto fanciulla, non aveva previsto un rifiuto, e suo cugino

non diceva nulla.

«Volete forse rifiutare?» chiese Eugénie; i battiti del suo cuore risuonavano in quel

silenzio profondo.

L'esitazione del cugino la umiliò; ma lo stato di bisogno nel quale egli si trovava

ebbe il sopravvento nel suo animo, ed ella piegò un ginocchio.

«Non mi rialzerò prima che abbiate preso quest'oro!» disse. «Cugino mio, di grazia,

una risposta!... voglio sapere se mi onorate, se siete generoso, se...»

Udendo quel grido di nobile disperazione, Charles bagnò di lacrime le mani della

cugina, che aveva afferrato per impedirle di inginocchiarsi. Sentendo quelle lacrime calde,

Eugénie afferrò la borsa e la rovesciò sul tavolo.

«Allora, sì, non è vero?» disse piangendo di gioia. «Non temete, cugino, voi

diventerete ricco. Questo oro vi porterà fortuna; un giorno me lo restituirete; e poi, noi due

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saremo in società; insomma accetterò tutte le condizioni che mi imporrete. Ma non

dovreste attribuire tanto valore a questo dono.»

Charles riuscì alla fine a dare sfogo ai propri sentimenti.

«Sì, Eugénie, avrei un animo ben meschino, se non accettassi. Tuttavia, niente per

niente, fiducia per fiducia.»

«Che cosa volete?» disse lei spaventata.

«Ascoltate, cara cugina, ho qui...» Si interruppe per indicare sul comodino una

cassetta quadrata chiusa in una custodia di cuoio.

«Ho qui, vedete, una cosa che mi è cara come la vita. Quella cassetta è un regalo di

mia madre. Dopo questa mattina, ho pensato che, se potesse uscire dalla tomba, lei stessa

venderebbe l'oro che la tenerezza le fece prodigare in questo nécessaire, ma se lo facessi io,

mi parrebbe un gesto sacrilego.» Udendo queste parole Eugénie serrò con forza la mano

del cugino.

«No,» riprese Charles dopo una breve pausa, durante la quale si scambiarono uno

sguardo inumidito dalle lacrime, «no, non voglio distruggerla né voglio metterla in

pericolo nei miei viaggi. Cara Eugénie, voi ne sarete la depositaria. Mai amico ha confidato

qualcosa di più sacro all'amico. Giudicate voi.» Andò a prendere la cassetta, la tolse dalla

custodia, l'aprì e mostrò con aria triste alla cugina sbalordita un nécessaire dove la

lavorazione conferiva all'oro un valore di molto superiore a quello del peso. «Quello che

ammirate è niente,» disse spingendo una molla che fece scattare un doppio fondo. «Ecco

ciò che, per me, vale il mondo intero.» Tirò fuori due ritratti, due capolavori di Mme de

Mirbel, inquadrati in due cornici di perle.

«Oh! che bella persona! non è la signora alla quale voi scri...?»

«No,» disse sorridendo Charles. «Questa donna è mia madre, e questo è mio padre,

vale a dire vostra zia e vostro zio. Eugénie, devo supplicarvi in ginocchio di conservarmi

questi tesori. Se morissi perdendo la vostra piccola fortuna, quest'oro vi indennizzerebbe;

e, a voi sola, io posso lasciare i due ritratti; voi siete degna di custodirli; ma distruggeteli,

affinché dopo di voi non vadano in altre mani...» Eugénie taceva. «E allora, si, non è

vero?» aggiunse lui con grazia.

Udendo le parole appena pronunciate dal cugino, ella gli lanciò il suo primo

sguardo di donna innamorata, uno di quegli sguardi in cui c'è tanta civetteria quanta

profondità; Charles le prese la mano e gliela baciò.

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«Angelo di purezza, fra noi il denaro non significherà mai niente, vero? Conterà

solo il sentimento che al denaro dà un senso.»

«Somigliate a vostra madre. Aveva la voce dolce come la vostra?»

«Oh! molto più dolce...»

«Sì, per voi,» disse Eugénie abbassando le palpebre. «Suvvia, Charles, coricatevi, lo

voglio, siete stanco. A domani.»

Liberò dolcemente la mano dalla stretta di quelle del cugino, che la riaccompagnò

facendole lume. Quando furono tutti e due sull'uscio: «Ah! perché sono rovinato?» disse

lui.

«Bah! mio padre è ricco, credo,» rispose Eugénie.

«Povera piccola,» riprese Charles allungando un piede verso l'interno della stanza e

appoggiandosi con le spalle al muro, «se così fosse non avrebbe lasciato morire mio padre;

non vi farebbe condurre una vita tanto misera, insomma vivrebbe in altro modo.»

«Ma ha Froidfond.»

«E che cosa vale Froidfond?»

«Non lo so; ma ha Noyers.»

«Qualche pessima fattoria!»

«Ha delle vigne e dei prati...»

«Miserie,» disse Charles con tono sprezzante. «Se vostro padre avesse solo

ventiquattromila lire di rendita, forse che voi vivreste in questa camera fredda e spoglia?»

aggiunse spostando in avanti il piede sinistro. «Là staranno dunque i miei tesori,» disse

accennando al vecchio cassone per mascherare i suoi pensieri.

«Andate a dormire,» disse Eugénie impedendogli di entrare in una stanza in

disordine.

Charles si ritrasse ed entrambi si dissero buona notte con un sorriso.

Tutti e due si addormentarono con lo stesso sogno e da quel momento Charles

cominciò a gettare qualche rosa sul suo lutto. L'indomani mattina, Mme Grandet trovò la

figlia che passeggiava, prima di colazione, in compagnia di Charles. Il giovane era ancora

triste come deve esserlo un infelice sceso, per cosi dire, fin sul fondo dei suoi dolori, e che,

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misurando la profondità dell'abisso in cui era precipitato, aveva sentito tutto il fardello

della propria vita futura.

«Mio padre tornerà solo per cena,» disse Eugénie vedendo l'inquietudine dipinta

sul volto della madre.

Era facile vedere nei modi, sul volto di Eugénie e nella singolare dolcezza che

trapelava dalla voce, un'armonia di pensieri fra lei e il cugino. Le loro anime si erano

sposate con foga forse ancor prima di aver provato la forza dei sentimenti che li univano

l'uno all'altra. Charles rimase nella sala, e la sua malinconia fu rispettata. Ognuna delle tre

donne ebbe il suo da fare. Poiché Grandet aveva dimenticato le sue faccende ci fu un

grande va e vieni di gente. Il lattoniere, lo stagnaio, il muratore, gli sterratori, il

carpentiere, degli ortolani, dei fittavoli, gli uni per rimanere d'accordo su certe riparazioni,

gli altri per pagare i fitti o incassare del denaro. Mme Grandet e Eugénie stettero perciò

sempre in movimento, dovettero rispondere agli interminabili discorsi degli operai e dei

campagnoli. In cucina Nanon riceveva le prestazioni in natura. Ella aspettava sempre gli

ordini del padrone per sapere ciò che andava tenuto in casa e ciò che doveva essere

venduto al mercato. Il brav'uomo aveva l'abitudine, come molti gentiluomini di

campagna, di bere il suo cattivo vino e di mangiare la sua frutta guasta. Verso le cinque di

sera, Grandet tornò da Angers, dove aveva incassato quattordicimila franchi per il suo oro,

e avendo nel portafoglio dei buoni di stato che gli avrebbero fruttato un interesse fino al

giorno in cui avesse dovuto pagare i titoli. Ad Angers aveva lasciato Cornoiller, perché si

prendesse cura dei cavalli mezzo sfiancati, e li riportasse con calma dopo averli fatti

riposare per bene.

«Torno da Angers, moglie mia,» disse. «Ho fame.»

Nanon gli gridò dalla cucina: «Non avete mangiato niente da ieri?»

«Niente,» riprese il brav'uomo.

Nanon portò la zuppa. Des Grassins venne a prendere gli ordini dal suo cliente

mentre la famiglia era a tavola. Papà Grandet non aveva neppure visto il nipote.

«Mangiate con calma, Grandet,» disse il banchiere. «Intanto chiacchiereremo,

Sapete quanto vale l'oro ad Angers, dove sono venuti a farne incetta per Nantes? Ho

intenzione di mandarne anch'io.»

«Non ne mandate,» rispose il brav'uomo, «ce n'è di già a sufficienza. Siamo troppo

buoni amici perché non vi risparmi una perdita di tempo.»

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«Ma laggiù l'oro vale tredici franchi e cinquanta centesimi.»

«Dite piuttosto: valeva.»

«E da dove diavolo è arrivato?»

«Stanotte sono andato ad Angers,» gli rispose Grandet a bassa voce.

Il banchiere trasalì per la sorpresa. Poi fra i due si avviò una conversazione

sussurrata nelle orecchie, durante la quale des Grassins e Grandet guardarono più volte

Charles. Nel momento in cui senza dubbio l'ex bottaio disse al banchiere di comperargli

centomila lire di titoli, des Grassins si lasciò andare a un gesto di stupore.

«Signor Grandet,» disse a Charles, «parto per Parigi; se aveste delle commissioni da

affidarmi...»

«Nessuna, signore. Vi ringrazio,» rispose Charles.

«Ringraziatelo con più calore, nipote mio. Il signore ci va per sistemare gli affari

della ditta Guillaume Grandet.»

«C'è forse qualche speranza?» domandò Charles.

«Insomma,» esclamò il bottaio con un orgoglio ben recitato, «non siete mio nipote?

Il vostro onore è il nostro. Non vi chiamate anche voi Grandet?»

Charles si alzò, abbracciò papà Grandet, lo baciò, impallidì e uscì. Eugénie

guardava il padre piena di ammirazione.

«Allora, addio, mio buon des Grassins, tutto è nelle vostre mani, incastratemi bene

quella gente!» I due diplomatici si strinsero la mano; l'ex bottaio riaccompagnò il

banchiere fino alla porta; poi, dopo averla chiusa, tornò, e disse a Nanon lasciandosi

andare sulla poltrona: «Dammi un po' di cassis!» Ma, troppo agitato per rimanersene

fermo, si alzò, guardò il ritratto di M. de la Bertellière e si mise a cantare, facendo quelli

che Nanon chiamava dei passi di danza:

Nelle guardie francesi

Avevo un buon papà...

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Nanon, Mme Grandet, Eugénie si scambiarono uno sguardo in silenzio. Si

spaventavano sempre quando l'allegria del vignaiolo arriva al culmine. Di lì a poco la

serata finì. Prima di tutto papà Grandet volle coricarsi di buon'ora; e, quando lui si

coricava, tutti in casa dovevano dormire: cosi come quando Augusto beveva, tutta la

Polonia era ubriaca. In secondo luogo, Nanon, Charles e Eugénie non erano meno stanchi

del padron di casa. Quanto a Mme Grandet, lei dormiva, mangiava, beveva, camminava

secondo i desideri del marito.

Nondimeno. durante le due ore accordate alla digestione il bottaio, più faceto di

quanto fosse mai stato, pronunciò parecchie delle sue massime, una sola delle quali darà la

misura del suo carattere. dopo aver bevuto il cassis guardò il bicchiere: «Non si fa a tempo

a portare alle labbra un bicchiere che è già vuoto! Ecco il nostro destino. Non si può essere

ed essere stati. Gli scudi non possono girare e rimanere nella borsa, sennò la vita sarebbe

troppo bella.»

Fu gioviale e magnanimo. Quando Nanon arrivò con il suo filatoio: «Devi essere

stanca,» le disse. «Lascia stare la tua canapa.»

«Ah beh!... ma finirò per annoiarmi,» rispose la domestica.

«Povera Nanon! Vuoi un po' di cassis?»

«Ah! quando si tratta di cassis, non dico di no; la signora lo fa molto meglio dei

farmacisti. Quello che vendono è una schifezza.»

«Ci mettono troppo zucchero, e così non sa più di niente,» disse il brav'uomo.

L'indomani, la famiglia, riunita alle otto per la colazione, offriva per la prima volta

il quadro di una vera intimità. La sventura aveva subito stabilito un rapporto fra Mme

Grandet, Eugénie e Charles; la stessa Nanon simpatizzava con loro senza saperlo. Tutti e

quattro cominciarono a formare una sola famiglia. Quanto al vecchio vignaiolo, poiché la

sua avarizia era soddisfatta e aveva la certezza di veder partire presto il vagheggino senza

dovergli sborsar altro che il prezzo del viaggio fino a Nantes, la presenza del nipote in

casa gli era quasi indifferente. Lasciò i due ragazzi, così chiamava Charles e Eugénie, liberi

di fare ciò che volevano sotto l'occhio di Mme Grandet, nella quale del resto egli aveva la

più completa fiducia per ciò che concerneva la morale pubblica e religiosa. La

sistemazione dei prati e dei fossati lungo la strada i pioppeti sulla Loira e i lavori invernali

nelle vigne e a Froidfond lo tenevano del tutto occupato. Da quel momento cominciò per

Eugénie la primavera dell'amore. Dopo l'incontro notturno durante il quale la cugina

aveva dato il suo tesoro al cugino, il cuore di lei seguì il tesoro. Legati dal medesimo

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segreto, esprimevano con gli sguardi una reciproca comprensione, che approfondiva i loro

sentimenti e glieli rendeva più comuni a entrambi, più intimi, mettendoli, per così dire,

tutti e due al di fuori della vita ordinaria. La parentela non giustificava forse una certa

dolcezza nel tono di voce, una tenerezza negli sguardi? Così Eugénie si lasciò andare al

piacere di attutire i dolori del cugino con le gioie infantili di un amore nascente. Non ci

sono tanti bei punti in comune fra gli inizi di un amore e quelli della vita? Non si culla il

neonato con dolci nenie e sguardi gentili? Non gli si raccontano storie meravigliose che

indorano l'avvenire? Per lui, la speranza non spiega di continuo le sue ali radiose? Non

versa egli di volta in volta lacrime di gioia e di dolore? Non fa le bizze per dei nonnulla,

per delle pietre con le quali cerca di costruirsi un palazzo che non sta in piedi, per dei

mazzolini di fiori dimenticati non appena tagliati? Non è avido di afferrare il tempo, di

procedere nella vita? L'amore è la nostra seconda trasformazione. L'infanzia e l'amore

furono la stessa cosa fra Eugénie e Charles: fu la prima passione con tutti i suoi

infantilismi, tanto più cari ai loro cuori in quanto erano avviluppati nella malinconia.

Dibattendosi fin dalla nascita sotto i veli neri del lutto, questo amore finiva per essere

ancor più in armonia con la semplicità provinciale di quella casa malandata. Scambiando

qualche parola con la cugina accanto alla vera del pozzo, in quel cortile silenzioso;

restando in quel giardinetto, seduti su una panchina coperta di muschio fino all'ora in cui

il sole tramontava, impegnati a dirsi dei grandi nonnulla, o assorti nella calma che regnava

fra il bastione e la casa, come ci si sente assorti nelle navate di una chiesa, Charles capì la

santità dell'amore; la sua gran dama, la sua cara Annette, infatti, non gliene aveva fatto

conoscere che le tempeste. In quel momento egli abbandonava la passione parigina,

civettuola, vanitosa, sfolgorante, per l'amore puro e vero. Amava quella casa, le cui

abitudini non gli sembravano più tanto ridicole. Scendeva di prima mattina, per poter

parlare qualche istante con Eugénie prima che Grandet venisse a consegnare le razioni per

la giornata; e, quando sulla scala si sentivano i passi del brav'uomo, Charles se la svignava

in giardino. Il piccolo crimine di questo incontro mattutino, che anche la madre di Eugénie

ignorava, e che Nanon faceva finta di non vedere, dava all'amore più innocente del mondo

il gusto dei piaceri proibiti. Poi, quando, dopo colazione, papà Grandet usciva per andare

a badare alle sue proprietà e ai suoi investimenti, Charles restava con la madre e la figlia, e

provava un piacere sconosciuto a porgere loro le mani per dipanare le matasse, a

guardarle lavorare, a sentirle chiacchierare. La semplicità di quella vita quasi monastica,

che gli rivelò le bellezze di quelle due anime alle quali il mondo era sconosciuto, lo colpì

vivamente. Aveva creduto che quel modo di vivere fosse impossibile in Francia; ne aveva

ammesso l'esistenza in Germania, ma solo letterariamente e nei romanzi di Auguste

Lafontaine. In breve, per lui, Eugénie fu l'immagine ideale della Margherita di Goethe, ma

senza la colpa. Insomma, di giorno in giorno, i suoi sguardi, le sue parole sedussero la

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povera ragazza, che si abbandonò, deliziata, alla corrente dell'amore; ella si afferrava alla

propria felicità come un nuotatore si afferra al ramo di salice per uscire dal fiume e

riposarsi sulla sponda. Il dispiacere di un prossimo distacco non rattristava di già le ore

più liete di quelle giornate fugaci? Ogni giorno, un piccolo avvenimento ricordava loro la

separazione imminente. Per esempio, tre giorni dopo la partenza di des Grassins, Charles

fu condotto da Grandet al tribunale di prima istanza con la solennità che la gente di

provincia attribuisce a tali atti, per firmare la rinuncia alla successione del padre. Terribile

ripudio! una specie di apostasia familiare. Andò dal notaio Cruchot a far stendere due

procure, una per des Grassins, l'altra per l'amico incaricato di vendere i suoi beni mobili.

Poi bisognò adempiere alle formalità necessarie onde ottenere un passaporto per l'estero.

Infine, quando arrivarono i modesti abiti da lutto che Charles aveva chiesto a Parigi, il

giovane fece venire un sarto di Saumur, e gli vendette i capi inutili del suo guardaroba.

Questa iniziativa piacque molto a papà Grandet.

«Ah! ora si che sembrate un uomo che deve imbarcarsi e che vuol fare fortuna,» gli

disse vedendolo con una redingote di pesante stoffa nera. «Bene, molto bene!»

«Vi prego di credere, signore,» gli rispose Charles, «che saprò immedesimarmi nella

mia situazione.»

«E questo che cos'è?» chiese il brav'uomo, i cui occhi si erano accesi alla vista della

manciata d'oro che gli mostrava Charles.

«Signore, ho messo insieme i miei bottoni, gli anelli, tutte le cose superflue che

possiedo e che potrebbero avere qualche valore; ma, non conoscendo nessuno a Saumur,

volevo pregarvi questa mattina di...»

«Di comperarli?» lo interruppe Grandet.

«No, zio, di indicarmi un onest'uomo che...»

«Datemi quella roba, nipote mio; andrò di sopra a stimarla e verrò a dirvi quanto

vale, centesimo più centesimo meno. Oro da gioielleria,» disse esaminando una lunga

catena, fra i diciotto e i diciannove carati.

Il brav'uomo tese la sua manona e si portò via quel mucchio d'oro.

«Cugina,» disse Charles, «permettetemi di offrirvi questi due bottoni, che

potrebbero servirvi per attaccare dei nastri ai polsi. È un braccialetto molto di moda in

questo momento.»

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«L'accetto volentieri, cugino,» gli disse lei con un'occhiata d'intesa.

«Zia, ecco il ditale di mia madre, lo conservavo gelosamente nel mio nécessaire da

viaggio», disse Charles offrendo un bellissimo ditale d'oro a Mme Grandet, che da dieci

anni ne desiderava uno.

«Non so come ringraziarvi, nipote mio,» disse la vecchia madre, mentre gli occhi le

si inumidivano di pianto. «Sera e mattina, alle mie preghiere ne aggiungerò una per voi,

più fervida di tutte, quella per i viaggiatori. Se io morissi, Eugénie conserverà per voi

questo gioiello.»

«Tutto questo vale novecento ottantanove franchi e settantacinque centesimi, nipote

mio,» disse Grandet aprendo la porta. «Ma, per risparmiarvi il disturbo di andarlo a

vendere, vi darò l'equivalente... in lire.»

L'espressione in lire significa nella regione della Loira che gli scudi da sei lire

devono essere accettati per il valore di sei franchi senza deduzioni.

«Non osavo proporvelo,» rispose Charles; «ma mi ripugnava andare a vendere i

miei gioielli nella città dove voi abitate. Bisogna lavare i panni sporchi in famiglia, diceva

Napoleone. Vi ringrazio per la vostra comprensione.» Grandet si grattò l'orecchio e ci fu

un attimo di silenzio. «Mio caro zio,» riprese Charles guardandolo un po' preoccupato,

come se temesse di offendere la sua suscettibilità, «mia cugina e mia zia hanno accettato

un piccolo ricordo di me; vogliate anche voi accettare questi gemelli che a me non servono

più: vi ricorderanno un povero ragazzo che, lontano da voi, penserà a coloro che ormai

sono tutta la sua famiglia.»

«Ragazzo mio, ragazzo mio, non devi privarti di tutto in questo modo... - Tu che

cosa hai avuto, moglie?» chiese voltandosi con avidità verso di lei. «Ah! un ditale d'oro. - E

tu, figlietta? Ma guarda, dei bottoni di diamanti. - E va bene, prendo i tuoi gemelli,

ragazzo mio,» riprese stringendo la mano di Charles. «Ma...tu mi permetterai

di...pagare...il tuo sì...il tuo passaggio per le Indie. Sì, voglio pagarti il passaggio. Tanto

più, vedi, ragazzo mio, che stimando i tuoi gioielli, ho calcolato solo l'oro, mentre forse si

può ricavare qualcosa anche dalla lavorazione. Insomma, quel che è detto è detto. Ti darò

millecinquecento franchi...in lire, che mi farò prestare da Cruchot: perché qui non ho

neppure un soldo di rame, a meno che Perrotet, che è in ritardo con l'affitto, non mi paghi.

A proposito, a proposito, voglio proprio andare a vedere.»

Prese il cappello, mise i guanti e uscì.

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«Dunque ve ne andrete?» chiese Eugénie gettandogli uno sguardo fatto di tristezza

e di ammirazione.

«È necessario,» rispose lui abbassando la testa.

Da qualche giorno, il contegno, le maniere, le parole di Charles erano diventati

quelli di un uomo profondamente afflitto, ma che, sentendo il peso di obblighi immensi,

trova nuovo coraggio nella sua disgrazia. Non sospirava più, si era fatto uomo. Perciò

Eugénie apprezzò meglio il carattere del cugino quando lo vide scendere con gli abiti di

pesante stoffa nera, che ben si addicevano al volto pallido e all'atteggiamento triste. Quel

giorno presero il lutto anche le due donne che assistettero con Charles a un Requiem

celebrato in parrocchia per l'anima del defunto Guillaume Grandet.

Alla seconda colazione Charles ricevette delle lettere da Parigi e le lesse.

«E allora, cugino, siete soddisfatto dei vostri affari?» chiese Eugénie a bassa voce.

«Non fare domande del genere, figlia mia,» osservò Grandet, Che diavolo! io non

parlo dei miei affari, perché vuoi ficcare il naso in quelli di tuo cugino? Lascialo in pace,

questo ragazzo.»

«Oh! io non ho segreti,» disse Charles.

«Ta ta ta ta! Nipote mio, imparerai che nel commercio bisogna tenere la lingua a

freno.»

Quando i due amanti furono soli in giardino, Charles disse a Eugénie, attirandola

verso la vecchia panchina sotto il noce: «Avevo giudicato bene Alphonse, si è comportato

a meraviglia. Ha curato i miei affari con prudenza e lealtà. Non ho più debiti a Parigi, il

mio mobilio è stato venduto bene, ed egli mi comunica che, dopo essersi consigliato con

un capitano di lungo corso, ha impiegato tremila franchi che gli restavano per comperare

una paccottiglia composta da curiosità europee che nelle Indie si possono vendere con un

eccellente profitto. Ha spedito i miei bagagli a Nantes, dove si trova sotto carico una nave

che partirà per Giava. Fra cinque giorni, Eugénie, dovremo dirci addio forse per sempre,

comunque per molto tempo. La mia paccottiglia e diecimila franchi che mi mandano due

amici sono un modesto inizio. È impossibile che io pensi al ritorno prima di parecchi anni.

Cara cugina, non mettete sulla bilancia la mia vita e la vostra, io potrei morire, forse voi

troverete da accasarvi bene...»

«Voi mi amate?...» disse lei.

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«Oh! sì, molto,» rispose il giovane con una profondità di accento che rivelava una

uguale profondità di sentimenti.

«Aspetterò, Charles. Dio! c'è mio padre alla finestra,» disse respingendo il cugino,

che le si avvicinava per baciarla.

Eugénie andò nell'androne, Charles la raggiunse; vedendolo, ella arretrò fino ai

piedi della scala e aprì la porta battente; poi, senza sapere bene dove andasse, si trovò

accanto alla tana di Nanon, nel punto più scuro del corridoio; e lì, Charles che l'aveva

seguita, le prese una mano, l'attirò sul suo cuore, l'afferrò per la vita e la strinse

dolcemente a sé. Eugénie non resistette più, ricevé e diede il più puro, il più soave, ma

anche il più completo dei baci.

«Cara Eugénie, un cugino è meglio di un fratello, perché può sposarti,» le disse

Charles.

«Così sia!» esclamò Nanon aprendo la porta del suo bugigattolo.

I due amanti, spaventati, corsero in sala, dove Eugénie riprese il lavoro, e dove

Charles si mise a leggere le litanie della Vergine sul libro da messa di Mme Grandet.

«Guarda un po'!» fece Nanon, «diciamo tutti le preghiere.»

Dopo che Charles ebbe annunciato la sua partenza, Grandet si mise in movimento

allo scopo di far credere che nutriva un grande interesse per il giovane; si mostrò generoso

quando esserlo non gli costava nulla, si incaricò di trovargli un imballatore, ma poi disse

che costui vendeva troppo care le sue casse; volle allora a tutti i costi fabbricarle lui stesso,

usando delle vecchie tavole; si alzò presto la mattina per piallare, aggiustare, levigare,

inchiodare i suoi travicelli e farne delle bellissime casse nelle quali imballò tutti gli effetti

di Charles; pensò lui a spedirle per battello sulla Loira, ad assicurarle, e a fare in modo che

arrivassero in tempo utile a Nantes.

Dopo il bacio scambiato nel corridoio, le ore fuggirono, per Eugénie, con

spaventosa velocità. A volte, pensava di seguire il cugino. Chi ha provato la più intensa

delle passioni, la cui durata è soggetta ogni giorno al rischio dell'età, del tempo, di una

malattia mortale, di uno qualsiasi degli inevitabili casi che capitano agli uomini,

comprenderà i tormenti di Eugénie. Spesso piangeva mentre passeggiava in quel giardino,

ora troppo stretto per lei, al pari del cortile, della casa, della città: e con la fantasia si

lanciava sulla grande distesa dei mari. Alla fine arrivò la vigilia della partenza. La mattina,

approfittando dell'assenza di Grandet e di Nanon, il prezioso cofanetto nel quale si

trovavano i due ritratti, fu trasferito nell'unico tiretto del cassone che si potesse chiudere a

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chiave e dove si trovava già la borsa vuota. La consegna di quel tesoro fu accompagnata

da baci e lacrime. Quando Eugénie ripose la chiave in seno, non ebbe il coraggio di

impedire a Charles di baciare quel posto.

«Non uscirà mai di qui, amico mio.»

«Ebbene, ci starà sempre anche il mio cuore.»

«Ah! Charles, non sta bene,» disse lei con un lieve tono di rimprovero.

«Ma noi non siamo sposati?» rispose lui; «io ho la tua parola, tu ricevi la mia.»

«Ti appartengo per sempre!» fu detto due volte dall'uno e dall'altra.

Nessuna promessa al mondo fu più pura di quella; il candore di Eugénie aveva

momentaneamente santificato l'amore di Charles. L'indomani mattina, la colazione fu

triste. Malgrado la vestaglia d'oro e una crocetta che le aveva regalato Charles, anche

Nanon, libera di esprimere i propri sentimenti, aveva le lacrime agli occhi.

«Quel povero signorino, che se ne va per mare... Che Dio lo accompagni!»

Alle dieci e mezzo, la famiglia si mise in cammino per accompagnare Charles alla

diligenza di Nantes. Nanon aveva sciolto il cane, chiuso la porta e aveva voluto portare la

sacca da viaggio di Charles. Tutti i negozianti della vecchia strada erano sulle soglie delle

loro botteghe per veder passare quel corteo al quale si unì sulla piazza il notaio Cruchot.

«Non metterti a piangere, Eugénie,» le disse la madre.

«Nipote mio,» disse Grandet sotto la porta della locanda baciando Charles sulle

guance, «partite povero, tornate ricco, troverete salvo l'onore di vostro padre. Ne rispondo

io, Grandet; perché, allora, toccherà solo a voi di...»

«Ah! caro zio, voi addolcite l'amarezza della partenza. È il più bel regalo che avreste

potuto farmi.»

Non comprendendo le parole del vecchio bottaio, che aveva interrotto, Charles

versò sul viso cotto dal sole dello zio lacrime di riconoscenza, mentre Eugénie stringeva

con tutte le forze la mano del cugino e quella del padre. Solo il notaio sorrideva

ammirando l'astuzia di Grandet, perché lui solo aveva capito il brav'uomo. I quattro,

circondati da diverse persone, rimasero accanto alla vettura finché questa partì, poi,

quando disparve sul ponte e se ne sentì il rumore in lontananza: «Buon viaggio!» disse il

vignaiolo. Per fortuna il notaio Cruchot fu il solo a sentire questa esclamazione. Eugénie e

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la madre erano andate in un punto del lungofiume dal quale potevano ancora scorgere la

diligenza, e agitavano i fazzoletti bianchi, un saluto al quale Charles rispose agitando il

suo fazzoletto.

«Madre mia, vorrei avere per un momento la potenza di Dio,» disse Eugénie

nell'attimo in cui non vide più il fazzoletto di Charles.

Per non interrompere il corso degli eventi che si verificarono in seno alla famiglia

Grandet, è necessario gettare in anticipo un'occhiata sulle operazioni che il brav'uomo fece

a Parigi per il tramite di des Grassins. Un mese dopo la partenza del banchiere, Grandet

possedeva un'iscrizione per centomila lire di titoli acquistati a ottanta franchi netti. Le

informazioni che si ebbero dall'inventario dei beni al momento della sua morte non hanno

mai chiarito come mai la sua diffidenza gli avesse suggerito di scambiare il prezzo

dell'iscrizione contro l'iscrizione stessa. Il notaio Cruchot pensò che Nanon fosse stata,

senza saperlo, lo strumento fidato di questo trasferimento di fondi. Intorno a quell'epoca,

la domestica si assentò per cinque giorni col pretesto di dover andare a sistemare certe

cose a Froidfond, come se il brav'uomo fosse il tipo da lasciare qualcosa in sospeso. Per

quel che riguarda gli affari della ditta Guillaume Grandet, tutte le previsioni del bottaio si

avverarono.

Presso la Banca di Francia si trovano, come ognuno sa, informazioni precise sui

grandi patrimoni di Parigi e dei dipartimenti. I nomi di des Grassins e di Félix Grandet vi

erano conosciuti, e vi godevano la stima accordata ai grossi capitalisti che hanno come

base immense proprietà fondiarie libere da ipoteche. L'arrivo del banchiere di Saumur,

incaricato, si diceva, di liquidare onorevolmente la ditta Grandet di Parigi, fu sufficiente

per risparmiare alla memoria del commerciante l'onta dei protesti. I sigilli furono tolti in

presenza dei creditori, e il notaio della famiglia procedette regolarmente all'inventario

della successione. In breve des Grassins riunì i creditori, i quali, all'unanimità, nominarono

liquidatori il banchiere di Saumur e François Keller, capo di una ricca famiglia, uno dei

maggiori interessati, e diedero ai due tutti i poteri necessari per salvare al tempo stesso

l'onore della famiglia e i crediti. Il credito del Grandet di Saumur, la speranza che egli mise

nel cuore dei creditori per il tramite di des Grassins resero più facili le transazioni; non ci

fu nessuno che recalcitrasse. Nessuno pensava di trasferire il suo credito sul conto profitti

e perdite, e ognuno si diceva: «Il Grandet di Saumur pagherà!» Trascorsero sei mesi. I

parigini avevano ritirato gli effetti in circolazione e li conservavano in fondo ai loro

portafogli. Era il primo risultato che il bottaio voleva ottenere. Nove mesi dopo la prima

riunione, i due liquidatori distribuirono a ciascun creditore il quarantasette per cento. Tale

somma veniva dalla vendita dei valori, possessi, beni, e cose di ogni genere appartenute al

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defunto Guillaume Grandet, vendita che fu fatta con scrupolosa serietà. L'onestà più

rigida presiedeva a questa liquidazione. I creditori si compiacquero di riconoscere

l'onorabilità ammirevole e incontestabile dei Grandet. Quando queste lodi ebbero circolato

a sufficienza, i creditori chiesero il resto del loro denaro. Dovettero scrivere una lettera

collettiva a Grandet.

«Ci siamo,» disse l'ex bottaio gettando la lettera nel fuoco; «pazienza, amichetti

miei.»

Rispondendo alle proposte contenute in quella lettera, il Grandet di Saumur chiese

il deposito presso un notaio di tutti i titoli di credito esistenti nei confronti dell'asse

ereditario del fratello e insieme delle ricevute liberatorie dei pagamenti già fatti,

adducendo il pretesto di dover verificare i conti e valutare correttamente lo stato della

successione. Questa operazione di deposito creò molte difficoltà. In genere, il creditore è

una specie di maniaco. Oggi è disposto a transigere, domani vuol mettere tutto a ferro e

fuoco; dopodomani, diventa più conciliante. Oggi la moglie è di buon umore, il suo ultimo

nato ha messo i denti, in casa tutto va bene e lui non vuole rimetterci un soldo; domani,

piange, non si sente di uscire, è malinconico, dice di sì a ogni proposta che possa essere

risolutiva; dopodomani, ci vogliono delle garanzie; alla fine del mese, pretende di fare gli

atti esecutivi, il carnefice! Il creditore somiglia al passerotto sulla coda del quale si sfidano

i bambini a mettere un granello di sale; ma il creditore ritorce questa immagine sul suo

credito, dal quale non riesce a ricavare nulla. Grandet aveva osservato le variazioni

atmosferiche dei creditori in genere, e quelli di suo fratello non fecero eccezione. Alcuni se

la presero a male e rifiutarono nettamente di eseguire il deposito. «Benone,» diceva Grandet

fregandosi le mani quando leggeva le lettere che des Grassins gli scriveva a questo

proposito. Altri accettarono il detto deposito solo a condizione che fossero chiaramente

riconosciuti i loro diritti, nessuno escluso, compreso quello di far dichiarare il fallimento.

Nuovo scambio di corrispondenza, dopo il quale il Grandet di Saumur accettò tutte le

riserve avanzate. Grazie a questa concessione i creditori più malleabili fecero intendere

ragione a quelli più duri. Il deposito venne eseguito, non senza qualche lamentela. «Quel

brav'uomo,» disse qualcuno a des Grassins, «si burla di voi e di noi.» Ventitré mesi dopo la

morte di Guillaume Grandet, molti commercianti, assorbiti dal movimento degli affari di

Parigi, avevano dimenticato i loro crediti verso Grandet, o ci pensavano solo per dirsi:

«Comincio a pensare che il quarantasette per cento sia tutto quello che riuscirò a

cavarne.» Il bottaio aveva fatto assegnamento sul tempo che, diceva lui, è un buon diavolo.

Alla fine del terzo anno, des Grassins scrisse a Grandet che, con un dieci per cento dei due

milioni e quattrocentomila franchi ancora dovuti dalla ditta Grandet, aveva convinto i

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creditori a restituirgli i titoli di credito. Grandet rispose che il notaio e l'agente di cambio i

cui spaventosi fallimenti avevano provocato la morte di suo fratello vivevano, loro!

potevano esser diventati solvibili e quindi bisognava citarli in giudizio allo scopo di

tirarne fuori qualcosa e diminuire l'ammontare del deficit. Alla fine del quarto anno, il

deficit fu debitamente fissato nella somma di un milione e duecentomila franchi. Ci furono

discussioni che durarono sei mesi fra i liquidatori e i creditori, fra Grandet e i liquidatori.

In breve, invitato energicamente a prendere una decisione, il Grandet di Saumur rispose ai

liquidatori, verso il nono mese di quell'anno, che suo nipote, che aveva fatto fortuna nelle

Indie, gli aveva manifestato l'intenzione di pagare integralmente i debiti del padre;

pertanto egli non poteva prendersi la responsabilità di saldare di nascosto senza averlo

consultato; era in attesa di una risposta. I creditori, verso la metà del quinto anno, erano

ancora tenuti in scacco dalla parola integralmente, tirata fuori di quando in quando dal

sublime bottaio, che rideva sotto i baffi, e non diceva mai, senza lasciarsi sfuggire un

sorrisetto furbo e un'imprecazione: Questi PARIGINI!... Ma ai creditori era riservata una

sorte inaudita nei fasti del commercio. Nel momento in cui gli eventi di questa storia li

obbligheranno a riapparire, si ritroveranno nella stessa situazione in cui li aveva tenuti

Grandet. Quando i titoli raggiunsero quota centoquindici, papà Grandet vendette, incassò

da Parigi circa due milioni quattrocentomila franchi in oro, che andarono a raggiungere

nei suoi barili i seicentomila franchi di interessi composti frutto delle iscrizioni. Des

Grassins rimase a Parigi; ecco perché: innanzi tutto fu eletto deputato; poi ebbe una

relazione, lui padre di famiglia, ma annoiato dalla noiosa vita di Saumur, con Florine, una

delle attrici più graziose del teatro di Madame, e nel banchiere ci fu una resipiscenza del

vecchio quartier-mastro. È inutile parlare della sua condotta; a Saumur fu giudicata

profondamente immorale. La moglie fu ben felice che i suoi beni fossero separati da quelli

del marito ed ebbe abbastanza cervello per mandare avanti l'impresa di Saumur, i cui

affari continuarono sotto il suo nome, allo scopo di mettere un riparo alle brecce aperte nel

patrimonio dalle follie di M. des Grassins. I cruchottiani seppero sfruttare così bene la sua

ambigua situazione di quasi vedova, che ella dovette maritare molto male la figlia e fu

costretta a rinunciare al matrimonio del figlio con Eugénie Grandet. Adolphe raggiunse

des Grassins a Parigi, dove diventò, si dice, un pessimo soggetto. I Cruchot trionfarono.

«Vostro marito non ha buon senso,» disse Grandet una volta che prestò una certa

somma a Mme des Grassins, contro garanzie sicure. «Vi compiango molto, voi siete una

brava donnina.»

«Ah! signore,» rispose la povera donna, «chi avrebbe detto che il giorno in cui uscì

da casa vostra per andare a Parigi sarebbe corso incontro alla sua rovina?»

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«Il cielo mi è testimone, signora, che ho fatto di tutto fino all'ultimo istante per

impedirgli di partire. Il signor presidente voleva andarci a tutti i costi in sua vece; ma, se

teneva tanto ad andarci, adesso sappiamo perché.»

Così Grandet si era scaricato di ogni obbligo verso des Grassins.

[5]

In ogni circostanza, le donne hanno più motivi di dolore di quanti ne abbia l'uomo,

e soffrono più di lui. L'uomo ha la sua forza, e l'esercizio del suo potere: agisce, si muove,

si occupa, pensa, contempla l'avvenire e vi trova delle consolazioni. Così faceva Charles.

Ma la donna non si muove, rimane faccia a faccia con il dolore dal quale nulla la distrae,

scende sino al fondo dell'abisso che l'uomo ha aperto, lo misura e spesso lo colma con i

suoi voti e le sue lacrime. Questo è ciò che faceva Eugénie. Ella si stava avviando verso il

suo destino. Sentire, amare, soffrire, dedicarsi, questo sarà sempre il tessuto della vita delle

donne. Eugénie doveva essere in tutto e per tutto una donna, senza ciò che la consola. La

sua felicità, come i chiodi conficcati in un muro, secondo la sublime immagine di Bossuet,

non le avrebbe nemmeno riempito il cavo della mano. I dispiaceri non si fanno mai

attendere, e per lei arrivarono presto. L'indomani della partenza di Charles, casa Grandet

riprese la sua fisionomia per tutti, tranne che per Eugénie, che di colpo la trovò vuota.

All'insaputa del padre, volle che la camera di Charles rimanesse nello stato in cui egli

l'aveva lasciata. Mme Grandet e Nanon furono ben volentieri complici di questo status quo.

«Chi sa che non torni prima di quanto crediamo,» disse Eugénie.

«Ah! vorrei vederlo già qui,» rispose Nanon. «Mi ero abituata bene a lui! Era un

signore dolce e perfetto, quasi grazioso, tutto ricci come una nuvola.» Eugénie guardò

Nanon. «Santa Vergine, signorina, con quegli occhi vi dannerete l'anima! Non guardate in

quel modo.»

Dopo quel giorno, la bellezza di Mlle Grandet prese un nuovo aspetto. I gravi

pensieri d'amore dai quali il suo animo era invaso a poco a poco, la dignità della donna

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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amata, diedero ai suoi tratti quella specie di luminosità che i pittori raffigurano con

l'aureola. Prima dell'arrivo del cugino, Eugénie poteva essere paragonata alla Vergine

prima della concezione; dopo la partenza di lui, ella rassomigliava alla Vergine madre: ella

aveva concepito l'amore. Queste due Marie, tanto differenti e così ben rappresentate da

certi pittori spagnoli, sono figure delle più luminose fra le tante che abbondano nel

cristianesimo. Tornando dalla messa, dove andò il giorno dopo la partenza di Charles, e

dove aveva fatto voto di andare tutti i giorni, acquistò dal libraio della città un

mappamondo che inchiodò alla parete accanto allo specchio, per poter seguire il cugino

nel viaggio verso le Indie, per sentirsi un po', sera e mattina, nel vascello che lo

trasportava, per vederlo, per rivolgergli mille domande, per dirgli: «Stai bene? Non soffri?

Pensi a me quando guardi quella stella di cui mi hai fatto conoscere le bellezze e l'utilità?»

Poi, la mattina, rimaneva pensosa sotto il noce, seduta sulla panchina di legno tarlato e

coperta di muschio grigio dove si erano detti tante cose belle, tante piccole sciocchezze,

dove avevano costruito i castelli in aria della loro dolce unione. Pensava all'avvenire

guardando il piccolo spazio di cielo che le mura le permettevano di abbracciare; poi il

vecchio muro e il tetto sotto il quale si trovava la camera di Charles. Insomma era l'amore

solitario, l'amore vero che continua, che si insinua in ogni pensiero, e diventa la sostanza,

o, come avrebbero detto i nostri padri, la stoffa della vita. Quando la sera i cosiddetti amici

di papà Grandet venivano a fare la partita, ella era allegra, dissimulava; ma, durante tutta

la mattinata, parlava di Charles con la madre e Nanon. Nanon aveva capito che poteva

immedesimarsi nelle sofferenze della padroncina senza venir meno ai propri doveri verso

il vecchio padrone, e diceva a Eugénie: «Se avessi avuto un uomo mio, l'avrei...seguito

all'inferno. L'avrei...non so... Insomma, mi sarei uccisa per lui; ma...niente. Morirò senza

sapere che cosa è la vita. Lo credereste, signorina, che il vecchio Cornoiller, che del resto è

un buon uomo, mi gira attorno alle sottane per via della mia rendita, proprio come tutti

quelli che vengono qui a farvi la corte ma annusano il malloppo del signore? Me ne

accorgo, perché sono ancora fine, sebbene sia grossa come una torre; ebbene, signorina, ciò

mi fa piacere, anche se non è amore.»

Trascorsero così due mesi. La vita domestica, un tempo tanto monotona, era

animata dall'immenso interesse che legava intimamente le tre donne. Per loro, sotto le

travi grigiastre della sala, Charles c'era ancora, ancora andava e veniva. Sera e mattina,

Eugénie apriva il nécessaire e contemplava il ritratto della zia. Una domenica mattina, fu

sorpresa dalla madre mentre era intenta a ritrovare i lineamenti di Charles in quelli del

ritratto. Mme Grandet venne a sapere allora il terribile segreto dello scambio fatto dal

viaggiatore contro il tesoro di Eugénie.

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«Gli hai dato tutto!» disse la madre spaventata. «Che dirai a tuo padre, il primo

dell'anno, quando vorrà vedere il tuo oro?»

Lo sguardo di Eugenie diventò fisso, e le due donne, per mezza mattinata rimasero

preda di un terrore mortale. Furono così turbate da perdere la messa cantata, e andarono

solo alla messa dei militari. Di lì a tre giorni finiva l'anno 1819. Di lì a tre giorni sarebbe

cominciato un dramma terribile, una tragedia borghese senza veleni, senza pugnali, senza

spargimento di sangue; ma, per i protagonisti, più crudele di tutti i drammi che si

compirono nella illustre famiglia degli Atridi.

«Che sarà di noi?» disse Mme Grandet alla figlia poggiando il lavoro sulle

ginocchia.

La povera madre era talmente turbata da due mesi, che le maniche di lana di cui

aveva bisogno per l'inverno non erano ancora finite. Questo incidente domestico,

trascurabile in apparenza, ebbe per lei delle tristi conseguenze. Non avendo maniche si

raffreddò malamente durante una sudata provocata da uno spaventoso accesso di collera

del marito.

«Pensavo, povera figlia mia, che se mi avessi confidato il tuo segreto, avremmo

avuto il tempo di scrivere a Parigi a M. des Grassins. Avrebbe potuto mandarci delle

monete d'oro simili alle tue; e, sebbene Grandet le conosca bene, forse...»

«Ma dove avremmo preso tanto denaro?»

«Ci avrei messo il mio. Del resto, M. des Grassins avrebbe certo...»

«Non c'è più tempo,» rispose Eugénie, interrompendo la madre con voce sorda e

alterata. «Domani mattina, non dobbiamo andare ad augurargli buon anno in camera

sua?»

«Figlia mia, e se andassi a trovare i Cruchot?»

«No, no, significherebbe consegnarmi a loro e metterci alla loro mercé. Eppoi, ho

deciso. Ho fatto bene e non mi pento di nulla. Dio mi proteggerà. Sia fatta la sua santa

volontà. Ah! se aveste letto la sua lettera, non avreste pensato che a lui, madre mia.»

L'indomani mattina, 1° gennaio 1820, il terrore di cui erano preda la madre e la

figlia suggerì alle due donne la più naturale delle scuse per evitare il solenne ingresso

nella camera di Grandet. L'inverno fra il 1819 e il 1820 fu uno dei più rigidi di quell'epoca.

I tetti delle case erano coperti di neve.

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Mme Grandet quando sentì il marito che si muoveva nella sua stanza, gli disse:

«Grandet, di' a Nanon di accendere un po' di fuoco in camera mia; il freddo è così

pungente che sto gelando sotto le coperte. Sono arrivata a un'età in cui si ha bisogno di

certi riguardi. Del resto,» continuò dopo una breve pausa, «Eugénie verrà a vestirsi qui.

Con un tempo simile, se lo facesse in camera sua, quella povera ragazza potrebbe

prendersi un malanno. Verremo dopo in sala ad augurarti il buon anno.»

«Ta ta ta ta, che lingua! Cominci bene l'anno, signora Grandet! Non ti ho mai sentita

parlare tanto. Eppure, non credo che tu abbia fatto la zuppetta col vino.» Ci fu un

momento di silenzio. «E va bene,» riprese il brav'uomo, senza dubbio la proposta della

moglie gli andava a genio, «farò quello che volete, signora Grandet. Tu sei davvero una

brava donna, e non voglio che ti capiti qualcosa alla tua età, per quanto in generale i la

Bertellière sono fatti di cemento. Eh! non è così?» disse dopo una pausa. «In fin dei conti,

da loro abbiamo ereditato e li perdono.» E tossì.

«Siete allegro questa mattina, signore,» disse con tono grave la povera donna.

«Sono sempre allegro, io...

«Allegro, bottaio,

aggiusta il tuo tino!»

aggiunse entrando in camera della moglie tutto vestito. «Sì, per dindirindina, fa proprio

freddo. Faremo una eccellente colazione, moglie mia. Des Grassins mi ha mandato un paté

di fegato d'oca tartufato! Vado a prenderlo alla diligenza. Ci deve essere anche un doppio

napoleone per Eugénie,» le disse il bottaio all'orecchio. «Io non ho più oro, moglie mia.

Avevo ancora qualche vecchia moneta, lo dico a te; ma ho dovuto spenderle per gli affari.»

E, per festeggiare il primo giorno dell'anno, la baciò sulla fronte.

«Eugénie,» disse ad alta voce la brava madre, «non so su quale fianco abbia dormito

tuo padre, ma questa mattina è di buon umore. Bah! riusciremo a cavarcela.»

«Che cos'ha il nostro padrone?» chiese Nanon entrando in camera della padrona

per accendere il fuoco. «Come mi ha visto, mi ha detto: "Buon giorno, buon anno, bestiona!

Vai ad accendere il fuoco da mia moglie che ha freddo." M'è quasi venuto un colpo

quando ha allungato una mano per darmi uno scudo da sei franchi quasi nuovo! Ecco,

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signora, guardatelo. Oh! che brav'uomo. Comunque sia, è un degno uomo. Ce ne sono

tanti che più invecchiano e più diventano scorbutici; lui invece diventa dolce come il

vostro cassis e più buono. Come uomo è proprio perfetto, proprio buono...»

La spiegazione di tutta quella allegria era nella completa riuscita della speculazione

di Grandet. M. des Grassins, dopo aver dedotto ciò che gli doveva il bottaio per lo sconto

di centocinquantamila franchi di cambiali olandesi, e per l'anticipo che gli aveva fatto per

completare la somma necessaria ad acquistare centomila lire di titoli, gli mandava con la

diligenza, trentamila franchi in scudi a completamento degli interessi semestrali, e gli

annunciava il rialzo dei titoli di stato. Erano arrivati a ottantanove, i più grossi capitalisti li

comperavano, per fine gennaio, a novantadue. Grandet guadagnava, in due mesi, il dodici

per cento sui suoi capitali, aveva sistemato i conti, e ormai avrebbe incassato

cinquantamila franchi ogni sei mesi senza dover pagare né imposte né ammortamenti.

Insomma egli aveva capito che cosa fossero i titoli, un investimento per il quale i

provinciali hanno una ripugnanza invincibile, e si vedeva padrone, nel giro di cinque anni,

di un capitale di sei milioni accumulato senza molta fatica, e che, sommato al valore delle

proprietà immobiliari, avrebbe costituito una fortuna colossale. I sei franchi dati a Nanon

erano forse il pagamento di un immenso servizio che la domestica senza saperlo aveva

reso al suo padrone.

«Oh! oh! dove va papà Grandet così di corsa a quest'ora del mattino?» si dissero i

negozianti che stavano aprendo bottega. Poi, quando lo videro tornare dal porto seguito

da un fattorino delle Messaggerie che spingeva una carretta piena di sacchi: «L'acqua va

sempre al fiume, il brav'uomo andava ai suoi scudi,» diceva uno.

«Gliene arrivano da Parigi, da Froidfond, dall'Olanda,» diceva un altro.

«Finirà per comperare tutta Saumur,» esclamava un terzo.

«Lui se ne infischia del freddo, si dà sempre da fare,» diceva una donna al marito.

«Ehi! ehi! signor Grandet, se questa roba vi dà fastidio» gli disse un negoziante di

stoffe, suo vicino, «ci penso io a sbarazzarvene.»

«Come no! sono soldi,» rispose il vignaiolo.

«D'argento,» disse il fattorino a bassa voce.

«Se vuoi la mancia, chiudi il becco,» disse il brav'uomo al fattorino mentre apriva la

porta.

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«Ah! vecchia volpe, credevo fosse sordo,» pensò il fattorino; «sembra che, quando fa

freddo, ci senta.»

«Eccoti venti soldi come strenna, e mosca! Fila!» gli disse Grandet. «Nanon ti

riporterà il carretto. Nanon, quelle svampite sono a messa?»

«Sì, signore.»

«Avanti, muovi le zampe! al lavoro,» gridò caricandola di sacchi. In poco tempo gli

scudi furono trasportati in camera sua dove egli li chiuse a chiave. «Quando sarà pronta la

colazione, bussa al muro. Riporta la carretta alle Messaggerie.»

La famiglia fece colazione alle dieci.

«Tuo padre non ti chiederà adesso di vedere il tuo oro,» disse Mme Grandet alla

figlia mentre rientravano dalla messa. «Comunque tu di' che sei tutta infreddolita.

Troveremo il modo di ricostruire il tuo tesoro per il tuo compleanno...»

Grandet scese la scala pensando a come poter trasformare i suoi scudi parigini in

oro buono, e alle sue meravigliose speculazioni sui titoli di stato. Era deciso a investire cosi

le sue rendite fino a quando i titoli non avessero raggiunto il costo di cento franchi.

Riflessioni funeste per Eugénie.

Appena entrò, le due donne gli augurarono buon anno, la figlia saltandogli al collo

e facendogli delle moine, Mme Grandet gravemente e con dignità.

«Ah! ah! ragazza mia,» disse baciando la figlia sulle guance,

«lavoro per te, vedi!... voglio la tua felicità. Ci vuole denaro per essere felici. Senza

denaro, nisba. Toh, ecco un napoleone bello nuovo, l'ho fatto venire da Parigi. Per

dindirindina, non c'è un grano d'oro in questa casa. Non ci sei che tu ad avere dell'oro.

Mostramelo il tuo oro, figlietta.»

«Bah! fa troppo freddo; pranziamo,» gli rispose Eugénie.

«Ebbene, a dopo, eh? Ci aiuterà tutti quanti a digerire. - Quel pezzo d'uomo di des

Grassins, ci ha mandato anche tutto questo,» riprese. «Perciò, mangiate, ragazze mie, non

costa niente. Funziona bene, des Grassins, sono contento di lui. Il furbacchione rende un

servizio a Charles, e gratis per di più. Sta sistemando molto bene gli affari del povero

defunto Grandet. -Uuuh! uuuh!» fece con la bocca piena, dopo una pausa, «come è buono!

Suvvia mangiane, moglie! questo nutre almeno per due giorni»

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«Non ho fame. Mi sento un po' indisposta, lo sai.»

«Ah! già! Ma puoi rimpinzarti senza paura di far scoppiare la carcassa; sei una la

Bertellière, una donna robusta. Sei un tantinello giallina, ma a me piace il giallo.»

L'attesa di una morte ignominiosa e pubblica è forse meno orribile, per un

condannato, di quanto lo fosse per Mme Grandet e la figlia l'attesa degli eventi con i quali

si sarebbe concluso quel pranzo di famiglia. Più il vecchio vignaiolo mangiava e parlava

allegramente, più le due donne si sentivano stringere il cuore. La figlia per lo meno in

quella situazione aveva un sostegno: ella traeva forza dal suo amore.

«Per lui, per lui,» diceva fra sé e sé, «sarei disposta a patire mille morti.»

A quel pensiero, gettò alla madre degli sguardi pieni di coraggio.

«Togli tutto,» disse Grandet a Nanon quando, verso le undici, il pranzo fu

terminato; «ma lasciaci la tavola. Staremo più comodi per dare un'occhiata al tuo piccolo

tesoro,» disse guardando Eugénie. «Piccolo! direi proprio di no. Tu possiedi, in valore

intrinseco, cinquemila novecento cinquantanove franchi, e con i quaranta di questa

mattina, fanno seimila franchi meno uno. Ebbene, te lo darò io il franco che manca per fare

cifra tonda, perché, vedi, figlietta... Si può sapere perché stai ad ascoltare? Alza i tacchi,

Nanon, e va' a fare il tuo lavoro,» disse il brav'uomo. Nanon sparì. «Ascolta, Eugénie,

bisogna che tu mi dia il tuo oro. Non lo rifiuterai al paparino, figliettina mia, eh?» Le due

donne non parlavano. «Io non ho più oro. Ne avevo e non ne ho più. Ti darò in cambio

seimila franchi in lire, e tu li investirai come ti dirò io. Non bisogna pensare più al

dozzeno. Quando ti mariterò, il che avverrà presto, ti troverò un promesso sposo che potrà

offrirti il più bel dozzeno di cui si sia mai parlato nella provincia. Ascolta dunque, figlietta.

Si presenta una bella occasione: puoi investire i tuoi seimila franchi in titoli di stato, e ne

ricaverai ogni sei mesi circa duecento franchi di interessi, senza imposte, senza riparazioni,

né grandine, né gelate, né mareggiate, né niente di tutto quello che mette a repentaglio le

rendite. Forse non ti va di separarti dal tuo oro, eh, figlietta? Portamelo lo stesso. Ti

troverò delle monete d'oro, delle olandesi, delle portoghesi, delle rupie del Mogol, delle

genovine; e, con quelle che ti darò per le tue feste, in tre anni avrai rimesso insieme la metà

del tuo bel gruzzoletto in oro. Che ne dici, figlietta? Alza la faccia. Su, va' a prenderla

quella delizia. Dovresti baciarmi sugli occhi per averti detto i segreti e i misteri della vita e

della morte degli scudi. È vero, gli scudi vivono e si muovono come gli uomini: vanno,

vengono, sudano, producono.»

Eugénie si alzò, ma, dopo aver fatto qualche passo verso la porta, si voltò

bruscamente, guardò il padre e gli disse:

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«Non ho più il mio oro.»

«Non hai più il tuo oro!» gridò Grandet rizzandosi sulle gambe come un cavallo che

senta sparare il cannone a dieci passi di distanza.

«No, non ce l'ho più.»

«Tu ti sbagli, Eugénie.»

«No,»

«Per la roncola di mio padre!»

Quando il bottaio imprecava così, le travi tremavano.

«Dio misericordioso! La signora è diventata bianca come un cencio,» esclamò

Nanon.

«Grandet, queste tue collere mi faranno morire,» disse la povera donna.

«Ta ta ta ta! voialtri, non morrete mai voi della vostra famiglia! Eugénie, che cosa

avete fatto delle vostre monete?» gridò precipitandosi verso di lei.

«Signore,» disse la figlia che si era inginocchiata accanto a Mme Grandet, «mia

madre sta soffrendo molto... vedete... non uccidetela.»

Grandet si spaventò vedendo che il volto della moglie, poco prima giallastro, era

diventato pallido.

«Nanon, aiutatemi a coricarmi,» disse la madre con un filo di voce. «Mi sento

morire.»

Subito Nanon porse il braccio alla padrona, e altrettanto fece Eugénie, e con gran

fatica riuscirono a farla salire in camera, perché a ogni scalino la poveretta si sentita venir

meno: Grandet rimase solo. Tuttavia, dopo qualche momento, salì sette o otto scalini, e

gridò: «Eugénie, quando vostra madre sarà a letto, scendete.»

«Sì, padre.»

Eugénie, dopo aver rassicurato la madre, non tardò a scendere.

«Figlia,» le disse Grandet, «ora mi direte dov'è il vostro tesoro.»

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«Padre, se mi fate dei regali di cui non sono interamente padrona, riprendeteveli,»

rispose freddamente Eugénie prendendo il napoleone che stava sul camino e

porgendoglielo.

Grandet afferrò subito il napoleone e lo cacciò nel taschino.

«È certo che non ti darò più niente! Niente di niente!» disse facendo scattare

l'unghia del pollice contro i denti davanti. «E cosi voi disprezzate vostro padre? non avete

fiducia in lui? non lo sapete che cosa è un padre? Se per voi non è tutto, non è niente.

Dov'è il vostro oro?»

«Padre, io vi amo e vi rispetto, malgrado la vostra collera; ma devo farvi

rispettosamente osservare che ho ventidue anni. So di essere maggiorenne perché me lo

avete detto voi stesso più volte. Ho fatto col mio denaro quello che ho voluto, e state sicuro

che è ben investito...»

«Dove?»

«È un segreto inviolabile,» disse lei. «Voi non avete i vostri segreti?»

«Ma io non sono forse il capo della famiglia? E non posso avere i miei affari?»

«E questo è un mio affare.»

«Deve essere un cattivo affare, se non potete dirlo a vostro padre, signorina

Grandet.»

«È un affare eccellente, ma non posso dirlo a mio padre.»

«Ditemi almeno quando avete dato via il vostro oro.» Eugénie rispose di no con un

cenno del capo.

«L'avevate ancora il giorno del vostro compleanno, eh?» Eugénie, divenuta scaltra

per amore quanto il padre lo era per avarizia, ripeté il medesimo cenno col capo. «Non si

era mai vista una simile testardaggine né un furto simile,» disse Grandet con una voce che

andò in crescendo e che a poco a poco fece vibrare tutta la casa. «Ma come! qui, in casa mia,

da me, qualcuno avrebbe preso il tuo oro! il solo oro che c'era! e io non devo sapere chi è?

L'oro è una cosa cara. Le ragazze più oneste possono commettere degli errori, dare non so

che, succede nelle famiglie nobili e anche in quelle borghesi; ma dare via l'oro, perché voi

l'avete dato a qualcuno, no?» Eugénie rimase impassibile. «Si è mai vista una figlia simile?

E sono io vostro padre? Se l'avete investito, dovete avere una ricevuta...»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Ero libera si o no, di farne ciò che mi piaceva? Era o non era mio?»

«Ma tu sei una bambina!»

«Maggiorenne.»

Basito dalla logica della figlia, Grandet impallidì, pestò i piedi, bestemmiò; poi,

trovando finalmente le parole, gridò: «Maledetto serpente di una figlia! ah! erba cattiva, tu

sai che ti amo e ne approfitti. Costei scanna il proprio padre! Perdio! Tu hai gettato la

nostra fortuna ai piedi di quello squattrinato che se ne va in giro con degli stivali di

marocchino. Per la roncola di mio padre! non posso diseredarti, corpo di un barile! ma ti

maledico, te, tuo cugino, e i tuoi figli! Non te ne verrà niente di buono, capisci? Se è stato a

Charles che... Ma no, non è possibile. Dico! quello zerbinotto da quattro soldi mi avrebbe

svaligiato...» Guardò la figlia, che rimaneva muta e fredda.

«Non fa una piega, non muove un sopracciglio, è una Grandet più di quanto sia

Grandet io. Non avrai dato il tuo oro per niente, almeno. Vediamo, che dici?» Eugénie

guardò il padre con un'espressione ironica che lo ferì. «Eugénie, voi siete in casa mia, in

casa di vostro padre. Per restarci, dovete sottomettervi ai suoi ordini. Anche i preti vi

ordinano di obbedirmi.» Eugénie abbassò il capo. «Voi mi offendete in quello che ho di più

caro,» riprese il padre, «vi rivedrò solo quando sarete sottomessa. Andate nella vostra

camera. Vi rimarrete finché non vi permetterò di uscirne. Nanon vi porterà pane e acqua.

Avete sentito, andate!»

Eugénie scoppiò in lacrime e corse in camera della madre. Dopo aver fatto

parecchie volte il giro del giardino coperto di neve, senza accorgersi del freddo, Grandet

fu colto dal sospetto che la figlia fosse nella stanza della moglie; allettato dall'idea di

sorprenderla in flagrante disubbidienza, salì le scale con l'agilità di un gatto, e arrivò in

camera di Mme Grandet nel momento in cui costei carezzava i capelli di Eugénie, che

aveva il viso affondato nel seno materno.

«Fatti coraggio, mia povera piccola, tuo padre si calmerà.»

«Costei non ha più un padre,» disse il bottaio. «È da voi e da me, signora Grandet,

che è nata una figlia così disobbidiente? Bella educazione, e religiosa per giunta! E allora,

non siete ancora nella vostra camera? Via, in prigione, in prigione, signorina.»

«Volete privarmi di mia figlia, signore?» disse Mme Grandet con il volto arrossato

dalla febbre.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Se la volete presso di voi, portatela via, sgomberatemi la casa tutte e due... Per tutti

i fulmini, dov'è l'oro? che ne è stato dell'oro?»

Eugénie si alzò, gettò uno sguardo carico di orgoglio sul padre, e si ritirò nella sua

stanza, che il brav'uomo chiuse a chiave. «Nanon,» gridò, «spegni il fuoco in sala.» E andò

a sedersi su una poltrona accanto al caminetto della moglie, dicendole: «Senza dubbio lo

ha dato a quel miserabile seduttore di Charles, che mirava solo al nostro denaro.»

Mme Grandet trovò, nel pericolo che minacciava la figlia e nel suo sentimento per

lei, abbastanza forza per rimanere in apparenza fredda, muta e sorda.

«Non sapevo niente di tutto ciò,» rispose e si voltò dalla parte del muro per non

subire gli sguardi infuocati del marito. «Soffro tanto per la vostra violenza, che, se devo

credere ai miei presentimenti, uscirò di qui solo con i piedi in avanti. Avreste dovuto

risparmiarmi in questo momento, signore, risparmiare una che non vi ha mai dato un

dispiacere, almeno lo credo. Vostra figlia vi ama, per me è innocente come un bambino

appena nato; perciò non fatela soffrire, revocate il vostro ordine. Il freddo è intenso e voi

potreste essere la causa di qualche malattia grave.»

«Non voglio vederla né parlarle. Resterà nella sua camera a pane e acqua finché non

avrà dato soddisfazione a suo padre. Che diavolo! Il capo di una famiglia ha diritto di

sapere dove va l'oro di casa sua. Possedeva forse le sole rupie che ci fossero in Francia, poi

delle genovine, dei ducati d'Olanda...»

«Signore, Eugénie è la nostra unica figlia, e, se anche le avesse gettate in acqua....»

«In acqua,» gridò il brav'uomo, «in acqua! Voi siete pazza, signora Grandet.

Quando ho detto una cosa è quella, voi lo sapete. Se volete avere la pace in casa, fate

confessare vostra figlia, fatele sputare il rospo; le donne sanno farle meglio queste cose di

noialtri. Qualsiasi cosa abbia potuto fare, non la mangerò. Ha forse paura di me? Anche se

avesse ricoperto d'oro suo cugino dalla testa ai piedi, ormai è in alto mare, no? non

possiamo correre dietro...»

«Ebbene, signore...» Spinta dalla crisi nervosa in cui si trovava, o dalla sventura

della figlia che ingigantiva il suo affetto e la sua intelligenza, la perspicacia di Mme

Grandet le fece notare un movimento terribile della verruca del marito nel momento in cui

stava per rispondere; ella cambiò idea senza cambiare tono: «Ebbene, signore, ho io più

autorità su di lei di quanta ne avete voi? A me non ha detto nulla, ha preso da voi.»

«Perdio! che lingua lunga avete questa mattina! Ta ta ta ta! credo che mi prendiate

in giro. Forse ve la intendete con lei.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Guardò fisso la moglie.

«In verità, signor Grandet, se volete uccidermi, non dovete fare altro che continuare

così. Ve lo dico, signore, e dovesse costarmi la vita, ve lo ripeterò ancora: avete torto nei

confronti di vostra figlia, ella è più ragionevole di voi. Quel denaro le apparteneva, ne avrà

fatto di certo buon uso, e Dio solo ha il diritto di conoscere le nostre opere buone. Signore,

ve ne supplico, ridate a Eugénie la vostra benevolenza!... In questo modo attenuerete

l'effetto del colpo che mi ha inferto la vostra collera e forse mi salverete la vita. Mia figlia,

signore! restituitemi mia figlia.»

«Me ne vado,» disse Grandet. «In casa mia non si resiste, madre e figlia ragionano

come se... Brrr! Puah! Mi avete fatto una strenna crudele, Eugénie!» gridò. «Sì, sì, piangete!

Ciò che fate vi darà dei rimorsi, capite? A che vi serve mangiare il buon Dio sei volte ogni

tre mesi, se date di nascosto l'oro di vostro padre a un fannullone che vi divorerà il cuore

quando non avrete più altro da dargli? Vedrete che cosa vale il vostro Charles, con i suoi

stivali di marocchino e la sua aria da non mi toccate. Non ha né cuore né anima, se osa

portarsi via il tesoro di una povera ragazza senza il consenso dei genitori.»

Quando sentì chiudere la porta di strada, Eugénie uscì dalla sua stanza e andò dalla

madre.

«Avete avuto molto coraggio per vostra figlia,» le disse.

«Vedi, figlia mia, dove ci portano le cose illecite!... Mi hai fatto dire una bugia.»

«Oh! chiederò a Dio di punire solo me.»

«È vero,» disse Nanon arrivando tutta sbigottita, «che la signorina deve mangiare

pane e acqua per il resto dei suoi giorni?»

«Che importa, Nanon?» disse con calma Eugénie.

«Ah! figurarsi se mangerò il companatico quando la figlia di casa mangia pane

secco... No, no.»

«Non una parola di più, Nanon,» disse Eugénie.

«Che mi si secchi la bocca, ma vedrete!»

Grandet cenò solo per la prima volta da ventiquattro anni.

«E così eccovi vedovo, signore,» gli disse Nanon. «È spiacevole essere vedovo con

due donne in casa.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Con te non parlo. Chiudi il becco o ti caccio. Che cosa c'è nella casseruola che la

sento bollire sul fuoco?»

«È del grasso che sto facendo squagliare...»

«Verrà gente stasera, accendi il fuoco.»

I Cruchot, Mme des Grassins e il figlio arrivarono alle otto, e si stupirono di non

vedere né Mme Grandet né la figlia.

«Mia moglie è un po' indisposta, Eugénie la assiste,» rispose il vecchio vignaiolo, il

cui viso non tradì alcuna emozione.

Dopo un'ora impiegata in conversazioni insignificanti, Mme des Grassins che era

salita a trovare Mme Grandet, scese, e tutti le chiesero: «Come sta Mme Grandet?»

«Per niente bene, per niente,» disse lei. «Il suo stato di salute mi pare davvero

preoccupante. Alla sua età, bisogna prendere tutte le precauzioni, papà Grandet.»

«Si vedrà,» rispose il vignaiolo con un tono distratto.

Ognuno gli augurò la buona notte. Quando i Cruchot furono in strada, Mme des

Grassins disse loro: «C'è qualcosa di nuovo dai Grandet. La madre sta peggio di quanto

creda. La figlia ha gli occhi rossi come se avesse pianto a lungo. Che vogliano maritarla

contro la sua volontà?»

Quando il vignaiolo fu andato a letto, Nanon in pantofole e senza far rumore andò

da Eugénie e le portò un paté fatto in casseruola.

«Tenete, signorina,» disse la brava donna, «Cornoiller m'ha dato una lepre. Voi

mangiate così poco che questo paté vi durerà otto giorni; e col freddo che fa non c'è

pericolo che vada a male. Almeno, non rimarrete a pane secco. Non è affatto sano.»

«Povera Nanon!» disse Eugénie stringendole la mano.

«L'ho fatto proprio buono, delicato, e lui non se ne è accorto. Ho comprato il lardo,

l'alloro, tutto con i miei sei franchi; sono miei dopo tutto.» Poi la domestica se ne andò

perché le era parso di sentire Grandet.

Per qualche mese, il vignaiolo andò sempre a trovare la moglie in ore diverse, senza

pronunciare il nome della figlia, senza vederla, senza fare la minima allusione a lei. Mme

Grandet non lasciava la stanza, e, di giorno in giorno, il suo stato peggiorava. Niente fece

piegare il vecchio bottaio. Rimase irremovibile, freddo e duro come un masso di granito.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Continuò ad andare e venire secondo le sue abitudini, ma non balbettò più, parlò di meno,

e si mostrò in affari più duro di quanto fosse mai stato. Spesso, facendo i conti gli sfuggiva

qualche errore. «In casa Grandet deve essere successo qualcosa,» dicevano i cruchottiani e

i grassinisti. «Che cosa è successo in casa Grandet?» fu la domanda di rito che si sentiva

generalmente in tutti i salotti di Saumur. Eugénie andava in chiesa accompagnata da

Nanon. All'uscita, se Mme des Grassins le rivolgeva qualche parola, ella rispondeva in

maniera evasiva e senza soddisfare la curiosità dell'altra. Nondimeno, in capo a due mesi

risultò impossibile tener nascosto, sia ai tre Cruchot, sia a Mme des Grassins, il segreto

della reclusione di Eugénie. Arrivò un momento in cui vennero meno i pretesti per

giustificare la sua continua assenza. Poi, senza che si potesse sapere da chi era stato svelato

il segreto, tutta la città venne a sapere che, dal primo dell'anno, Mlle Grandet era

rinchiusa, per ordine del padre, nella sua stanza a pane e acqua e senza fuoco; che Nanon

le preparava delle ghiottonerie e gliele portava nottetempo; e si sapeva anche che la

giovane poteva vedere e assistere la madre solo quando il padre non era in casa. Allora la

condotta di Grandet fu giudicata molto severamente. Tutta la città lo mise per così dire

fuori legge, si ricordò dei suoi tradimenti, delle sue durezze, e lo scomunicò. Quando

passava, la gente lo mostrava a dito bisbigliando. Quando la figlia scendeva la strada

tortuosa per andare a messa o ai vespri, accompagnata da Nanon, tutti gli abitanti si

mettevano alle finestre per esaminare con curiosità l'atteggiamento della ricca ereditiera e

il suo viso, sul quale erano dipinte una malinconia e una dolcezza angeliche. La reclusione,

l'ostilità del padre, erano niente per lei. Continuava a vedere il mappamondo, la panchina,

il giardino, il muro, e risentiva sulle labbra il miele che vi avevano lasciato i baci

dell'amore. Per qualche tempo ella ignorò le conversazioni della gente delle quali era

l'argomento, proprio come le ignorava suo padre. Religiosa e pura davanti a Dio, la

propria coscienza e l'amore l'aiutavano a sopportare la collera e la vendetta paterne. Ma

un dolore profondo faceva tacere tutti gli altri dolori. Sua madre, dolce e tenera creatura

che si abbelliva con la luce che proiettava la sua anima avvicinandosi alla tomba, sua

madre deperiva di giorno in giorno. Spesso, Eugénie si rimproverava di essere stata la

causa involontaria della crudele, della lenta malattia che la divorava. Questi rimorsi, per

quanto placati dalla madre, la legavano ancor più strettamente al suo amore. Tutte le

mattine, appena il padre usciva, ella accorreva al capezzale della madre, e, là, Nanon le

portava la colazione. Ma la povera Eugénie, triste e sofferente per le sofferenze della

madre, ne indicava il volto a Nanon con un cenno piangeva e non osava parlare di suo

cugino. Mme Grandet era costretta a dirle per prima: «Dov'è? Perché non scrive?»

Madre e figlia ignoravano del tutto le distanze.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Pensiamo a lui, madre mia,» rispondeva Eugénie, «e non ne parliamo. Voi soffrite,

voi venite prima di tutti.»

Tutti, significava lui.

«Figli miei,» diceva Mme Grandet, «Non rimpiango la vita, Dio mi ha protetto

facendomi considerare con gioia la fine delle mie miserie.»

Le parole di quella donna erano sempre parole sante e cristiane. Quando, al

momento di far colazione accanto a lei, il marito veniva a passeggiare nella sua stanza, ella

gli fece nei primi mesi dell'anno, gli stessi discorsi, ripetuti con una dolcezza angelica, ma

con la fermezza di una donna alla quale la morte prossima dava il coraggio che le era

mancato durante la vita.

«Signore, vi ringrazio dell'interesse che prendete alla mia salute,» rispondeva

quando lui le rivolgeva la più banale delle domande; «ma se volete addolcire l'amarezza

dei miei ultimi istanti e alleviare le mie sofferenze, perdonate nostra figlia; mostratevi

cristiano, sposo e padre.»

Sentendo queste parole, Grandet sedeva accanto al letto e si comportava come un

uomo che, vedendo arrivare un temporale, si mette al riparo sotto una porta cocchiera;

ascoltava in silenzio la moglie, e non rispondeva. Dopo che gli erano state rivolte le più

commoventi, le più tenere, le più fervide suppliche, diceva: «Sei un po' pallidina oggi,

povera moglie mia.» L'oblio totale della figlia sembrava stampato su quella fronte terrea,

su quelle labbra strette. Non si commoveva nemmeno per le lacrime che le sue risposte

vaghe facevano calare sul viso sbiancato della moglie.

«Che Dio vi perdoni, signore,» diceva lei, «come io vi perdono. Un giorno anche voi

avrete bisogno di indulgenza.»

Dalla malattia della moglie, non aveva più osato servirsi del suo terribile ta ta ta ta!

ma il suo dispotismo non era stato disarmato da quell'angelo di dolcezza, la cui bruttezza

spariva di giorno in giorno, cancellata dall'espressione delle qualità morali, che fiorivano

sul suo volto. Ella era tutta anima. Il genio della preghiera sembrava purificare, annullare i

tratti più grossolani del viso, e la faceva risplendere. Chi non ha osservato questo

fenomeno di trasfigurazione su dei santi volti dove le abitudini dell'anima finiscono per

avere ragione dei lineamenti più rozzi, imprimendo loro quella particolare animazione

dovuta alla nobiltà e alla purezza di pensieri elevati? Lo spettacolo di questa

trasformazione compiuta dalle sofferenze che in quella donna consumavano i brandelli

dell'essere umano agiva, anche se debolmente, sul vecchio bottaio, che tuttavia restava

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irremovibile. Se il suo modo di parlare non fu più sdegnoso, il suo comportamento era

dominato da un silenzio imperturbabile, che metteva al riparo la sua superiorità di padre

di famiglia. Quando la fedele Nanon andava al mercato, subito le fischiavano alle orecchie

lazzi e critiche sul suo padrone; ma, sebbene la pubblica opinione condannasse

unanimemente papà Grandet, la domestica lo difendeva per amore della casa.

«E che,» diceva ai detrattori del brav'uomo, «forse non diventiamo tutti più duri

quando invecchiamo? E perché anche lui non dovrebbe indurirsi un po'? Smettetela con le

vostre bugie. La signorina vive come una regina. Sta da sola perché questo le piace. E poi, i

miei padroni hanno i loro buoni motivi.»

Una sera, verso la fine della primavera, Mme Grandet, divorata dal dispiacere ancor

più che dalla malattia, non essendo riuscita, malgrado le sue preghiere, a riconciliare

Eugénie e il padre, confidò le sue pene segrete ai Cruchot.

«Tenere una figlia di ventitré anni a pane e acqua!...» esclamò il presidente de

Bonfons, «e senza nessun motivo; ma qui si tratta di sevizie, contro le quali ella non può

invocare sia in che su...»

«Via, nipote,» disse il notaio, «lasciate perdere il vostro gergo giudiziario. - State

tranquilla, signora, farò in modo che sia posto termine a questa reclusione fin da domani.»

Sentendo che parlavano di lei, Eugénie usci dalla sua camera.

«Signori,» disse facendosi avanti con un incedere pieno di fierezza, «vi prego di non

occuparvi di questa faccenda. Mio padre è padrone in casa sua. Finché vivrò qui, gli devo

ubbidire. La sua condotta non può essere soggetta all'approvazione o alla disapprovazione

della gente, egli deve renderne conto solo a Dio. Io esigo dalla vostra amicizia il più

profondo silenzio in merito. Biasimare mio padre, significherebbe attaccare la nostra stessa

reputazione. Vi sono grata, signori, dell'interesse che mi dimostrate; ma vi sarò ancor più

obbligata se vorrete far cessare le voci offensive che corrono per la città e delle quali sono

venuta a conoscenza per caso.»

«Ha ragione,» disse Mme Grandet.

«Signorina, il modo migliore per impedire alla gente di chiacchierare è quello di

farvi restituire la libertà,» le rispose rispettosamente il vecchio notaio, colpito dalla

bellezza che l'isolamento, la malinconia e l'amore avevano dato a Eugénie. «Ma sì, figlia

mia, lascia che M. Cruchot si occupi di sistemare questa faccenda, dal momento che egli

garantisce un buon esito. Conosce tuo padre e sa come bisogna prenderlo. Se vuoi vedermi

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felice nel poco tempo che mi resta da vivere, bisogna, a tutti i costi, che tu e tuo padre vi

riconciliate.»

L'indomani Grandet, secondo un'abitudine che aveva preso dopo la reclusione di

Eugénie, andò a fare quattro passi nel giardinetto. Aveva scelto per questa passeggiata il

momento in cui Eugénie si pettinava. Quando il brav'uomo arrivava al grande noce, si

nascondeva dietro il tronco dell'albero, restava qualche minuto a contemplare i lunghi

capelli della figlia, e ondeggiava senza dubbio fra i pensieri che gli suggeriva la sua

testardaggine e il desiderio di baciare la figlia. Spesso, se ne rimaneva seduto sulla

panchina di legno marcio dove Charles e Eugénie si erano giurati eterno amore, mentre

anche lei guardava il padre di sfuggita o attraverso lo specchio. Se lui si alzava e

ricominciava a passeggiare, lei si sedeva tranquilla alla finestra e si metteva a guardare il

pezzo di muro dal quale pendevano i fiori più belli, dalle cui crepe uscivano il

capelvenere, i convolvoli e una pianta grassa, gialla o bianca, un sedo, che abbonda nelle

vigne di Saumur e di Tours. Un bel giorno di giugno, il notaio Cruchot arrivò di buon'ora

e trovò il vecchio vignaiolo seduto sulla panchina, la schiena appoggiata al muro divisorio,

intento a guardare la figlia.

«In che cosa posso servirvi, Cruchot?» chiese, vedendo il notaio.

«Vengo a parlarvi di affari.»

«Ah! ah! avete da darmi un po' d'oro contro scudi?»

«No, no, non si tratta di denaro, ma di vostra figlia Eugénie. Tutti parlano di lei e di

voi.»

«Di che cosa ci si impiccia? Il carbonaio è padrone in casa sua.»

«D'accordo, il carbonaio è anche padrone di uccidersi, e, quel che è peggio, di

gettare il denaro dalla finestra.»

«Che cosa significa?»

«Eh, vostra moglie è molto malata, amico mio. Dovreste consultare M. Bergerin, ella

è in pericolo di morte. Se morisse senza essere stata curata come si deve, voi non sareste

tranquillo, credo.»

«Ta ta ta ta! sapete bene quello che ha mia moglie. Questi medici, una volta che

hanno messo il piede in casa, vengono cinque o sei volte il giorno.»

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«Insomma, Grandet, fate come volete. Noi siamo vecchi amici: non c'è, in tutta

Saumur, un uomo cui stia di più a cuore ciò che vi riguarda; perciò ho sentito il dovere di

dirvi queste cose. Ora, succeda quel che vuol succedere, voi siete maggiorenne, sapete

come comportarvi, fate voi. Ma non è per questo che sono venuto. Si tratta di qualcosa di

più serio per voi, forse. Dopo tutto, voi non desiderate la morte di vostra moglie, vi è

troppo utile. Pensate dunque alla situazione in cui verrete a trovarvi di fronte a vostra

figlia, se Mme Grandet morisse. Voi dovreste rendere dei conti a Eugénie, perché con

vostra moglie siete in regime di comunione dei beni. Vostra figlia avrà il diritto di

reclamare la divisione del patrimonio e di far vendere Froidfond. Insomma, lei succede

alla madre, dalla quale voi non potete ereditare.»

Queste parole furono un fulmine a ciel sereno per il brav'uomo, che non era forte in

materia legale quanto lo era nel commercio. Non aveva mai pensato a una licitazione.

«Perciò vi raccomando di trattarla con dolcezza,» disse Cruchot concludendo.

«Ma sapete che cosa ha fatto, Cruchot?»

«Che cosa?» disse il notaio, incuriosito di ricevere una confidenza da papà Grandet

e di sapere il motivo della disputa.

«Ha dato via il suo oro.»

«E allora, era suo?» domandò il notaio.

«Tutti mi dicono la stessa cosa!» fece il brav'uomo lasciando cadere le braccia con

un gesto tragico.

«E voi, per una miseria,» riprese Cruchot, «volete mettere a repentaglio le

concessioni che dovrete chiederle di farvi alla morte della madre?»

«Ah! voi seimila franchi d'oro li chiamate una miseria?»

«Eh! vecchio mio, sapete che cosa verranno a costare l'inventario e la divisione

dell'eredità di vostra moglie, se Eugénie lo esigerà?»

«Quanto?»

«Due o tre o quattrocentomila franchi forse! Non è necessario mettere all'incanto e

vendere per conoscere il vero valore? Invece mettendovi d'accordo...»

«Per la roncola di mio padre!» esclamò il vignaiolo, che impallidì e si mise a sedere,

«vedremo, Cruchot.»

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Dopo un momento di silenzio o di agonia, il brav'uomo guardò il notaio e gli disse:

«La vita è ben dura! Ce ne sono di dolori. Cruchot,» riprese con un tono solenne, «voi non

volete ingannarmi, datemi la vostra parola d'onore che ciò che mi dite è nella legge.

Mostratemi il Codice, voglio vedere il Codice!»

«Mio povero amico,» rispose il notaio, «credete che non conosca il mio mestiere?»

«È dunque vero? Sarò spogliato, tradito, ucciso, divorato da mia figlia.»

«È l'erede della madre.»

«A che servono dunque i figli? Ah! voglio bene a mia moglie. Per fortuna è robusta;

è una la Bertellière.»

«Non ha un mese di vita.»

Il bottaio si batté la fronte, fece qualche passo, tornò indietro, e, gettando uno

sguardo spaventoso a Cruchot: «Che cosa si può fare?» gli chiese.

«Eugénie potrà rinunciare puramente e semplicemente alla successione della

madre. Voi non volete diseredarla, vero? Ma, se volete ottenere una concessione del

genere, non trattatela male. Ciò che vi dico, vecchio mio, è contro il mio interesse. Qual è il

mio lavoro? ...liquidazioni, inventari, vendite, divisioni...»

«Vedremo, vedremo. Non parliamone più, Cruchot. Voi mi strizzate le budella.

Avete ricevuto dell'oro?»

«No; ma ho qualche vecchio luigi, una diecina, e ve li darò. Mio buon amico, fate la

pace con Eugénie. Vedete, tutti a Saumur vi danno addosso.»

«Buffoni!»

«Evvia, i titoli stanno a novantanove. Siate contento almeno una volta nella vostra

vita.»

«A novantanove, Cruchot?»

«Sì.»

«Eh! eh! novantanove!» disse il brav'uomo riaccompagnando il notaio fino alla

porta di strada. Poi, troppo agitato da ciò che aveva sentito per restarsene a casa, salì dalla

moglie e le disse: «Coraggio, mamma, puoi passare la giornata con tua figlia, io vado a

Froidfond. Fate le brave tutte e due. È l'anniversario del nostro matrimonio, mia cara

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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moglie: tieni, ecco dieci scudi per il tuo repositorio del Corpus Domini. È un pezzo che ne

volevi uno, regalatelo, siate allegre, e state bene. Viva la gioia!» Gettò dieci scudi da sei

franchi sul letto della moglie e le prese la testa per baciarla sulla fronte. «Cara moglie, stai

meglio, non è vero?»

«Come potete pensare di ricevere nella vostra casa il Dio che perdona, quando

tenete vostra figlia lontana dal cuore?» disse lei con impeto.

«Ta ta ta ta!» disse il padre con voce carezzevole, «vedremo.»

«Bontà del cielo! Eugénie,» gridó la madre arrossendo di gioia, «vieni ad

abbracciare tuo padre, egli ti perdona!»

Ma il brav'uomo era scomparso. Se ne andò di buon passo verso i vigneti cercando

di riordinare le idee scombussolate. A quel tempo Grandet era entrato nel settantaseiesimo

anno. Specialmente da due anni, la sua avarizia si era accresciuta come si accrescono tutte

le passioni radicate nell'uomo. Secondo un'osservazione fatta sugli avari, sugli ambiziosi,

su tutte le persone la cui vita è stata dominata da un'idea, egli si era fissato soprattutto su

un simbolo della sua passione. La vista dell'oro, il possesso dell'oro erano diventati per lui

una monomania. La sua tendenza al distpotismo era aumentata in proporzione con

l'avarizia, e abbandonare la disponibilità della minima parte delle sue terre alla morte

della moglie gli pareva una cosa contro natura. Dichiarare il suo patrimonio alla figlia,

inventariare la totalità dei beni mobili e immobili per metterli all'incanto?... «Sarebbe come

tagliarsi la gola,» disse ad alta voce fra i filari mentre esaminava le viti. Alla fine si decise,

tornò a Saumur all'ora di cena, risoluto a piegarsi davanti a Eugénie, a coccolarla, ad

ammansirla per poter morire regalmente, tenendo fino all'ultimo respiro le redini dei suoi

milioni. Nel momento in cui il brav'uomo, che stranamente aveva con sé la chiave di casa,

saliva la scala a passi di lupo per andare dalla moglie, Eugénie aveva portato sul letto della

madre il bel nécessaire. Entrambe, quando Grandet non c'era, si concedevano il piacere di

guardare il ritratto di Charles osservando quello della madre.

«Ha la sua fronte e la sua bocca!» stava dicendo Eugénie quando il vignaiolo aprì la

porta. Vedendo lo sguardo che il marito gettò sull'oro, Mme Grandet gridò: «Mio Dio,

abbiate pietà di noi!»

Il brav'uomo si gettò sul nécessaire come una tigre balza su un bambino

addormentato. «Che cos'è questo?» disse prendendo il tesoro e andando vicino alla

finestra. «Oro buono! oro!» esclamò. «Molto oro! Questo qui pesa due libbre. Ah! ah!

Charles ti ha dato questo in cambio delle tue belle monete eh? Perché non dirmelo? È un

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buon affare, figlietta! Sei mia figlia, ti riconosco.» Eugénie tremava come un

fuscello.«Questo è di Charles, nevvero?» riprese il brav'uomo.

«Sì, padre, non è mio. Questo oggetto è un deposito sacro.»

«Ta ta ta ta! egli ha preso la tua ricchezza, bisogna che ricostituisci il tuo piccolo

tesoro.»

«Padre mio!...»

Il brav'uomo tirò fuori il coltello per far saltare una placca d'oro, e per far questo

dovette posare il nécessaire su una sedia. Eugénie si slanció per riprenderlo; ma il bottaio,

che teneva d'occhio contemporaneamente la figlia e il cofanetto, tese un braccio e la

respinse con tanta violenza, che la ragazza andò a cadere sul letto della madre.

«Signore! signore!» gridò la madre tirandosi a sedere sul letto.

Grandet aveva aperto il coltello e si accingeva a scalzare l'oro.

«Padre mio,» esclamò Eugénie gettandosi ginocchioni e avvicinandosi al padre in

questa positura con le mani alzate verso di lui; «padre mio in nome di tutti i santi e della

Vergine, in nome di Cristo, morto in croce; per la vostra salute eterna, per la mia vita, non

toccatelo! Quel nécessaire non è né vostro né mio; è di un congiunto infelice che me l'ha

confidato, e io devo restituirglielo intatto.»

«Perché lo guardavi, se è un deposito? Guardare, è peggio che toccare.»

«Padre mio, se lo distruggete, sarò disonorata! Mi ascoltate?»

«Signore, vi supplico!» disse la madre.

«Padre!» gridò Eugénie con voce così forte, che Nanon, spaventata, salì. Con un

balzo Eugénie afferrò un coltello che trovò a portata di mano.

«E allora?» le disse tranquillamente Grandet con un sorriso gelido.

«Signore, signore, voi mi assassinate!» disse la madre.

«Padre, se il vostro coltello scalfisce anche solo una particella di quell'oro, io mi

trafiggerò con questo. Avete già reso mia madre mortalmente malata, ucciderete anche

vostra figlia. Avanti dunque, ferita per ferita!»

Grandet tenne il coltello sul nécessaire e guardò la figlia esitando.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Ne saresti davvero capace, Eugénie?» chiese.

«Sì, signore,» disse la madre.

«Farà quello che ha detto,» esclamò Nanon. «Siate ragionevole, signore, almeno una

volta nella vostra vita.» Per un momento il bottaio fece passare lo sguardo dall'oro alla

figlia. Mme Grandet perse i sensi. «Guardate, signore, la padrona muore!» gridò Nanon.

«E va bene, figlia, non litighiamo per un cofanetto. Prendi!» esclamò con veemenza

il bottaio gettando il nécessaire sul letto.

«Tu, Nanon, va' a chiamare M. Bergerin. Su, mamma,» disse baciando la mano della

moglie, «non è nulla, via; abbiamo fatto la pace. - Vero, figlietta? Niente più pane secco,

mangerai quello che vorrai... Ah! riapre gli occhi. - Ebbene, mamma, mammina,

mammetta, coraggio! Ecco, vedi, bacio Eugénie. Ella ama suo cugino, lo sposerà se vuole,

gli custodirà il cofanetto. Ma tu vivi ancora a lungo, mia povera moglie. Suvvia, fa' un

gesto! Ascolta, avrai il più bel repositorio che sia mai stato fatto a Saumur.»

«Mio Dio, come potete trattare così vostra moglie e vostra figlia!» disse con un filo

di voce Mme Grandet.

«Non lo farò più, più!» esclamò il bottaio. «Vedrai, povera moglie mia.»

Andò nello studio e tornò con una manciata di luigi che sparpagliò sul letto.

«Tieni, Eugénie, tieni, moglie mia, sono per voi,» disse passando le dita fra le

monete. «Su, rallegrati, moglie mia; cerca di star bene, non mancherai di nulla e nemmeno

Eugénie. Ecco cento luigi d'oro per lei. Questi non li darai via, Eugénie, eh?»

Mme Grandet e la figlia si guardarono, sbalordite.

«Riprendeteli, padre; noi abbiamo bisogno solo della vostra tenerezza.»

«Bene, e sia,» disse rimettendosi in tasca i luigi, «viviamo da buoni amici.

Scendiamo tutti in sala a cenare, a giocare a tombola tutte le sere con due soldi per posta.

Scherzate pure! Che ne dici, moglie?»

«Ahimè! lo vorrei, perché potrebbe essere piacevole,» disse la moribonda; «ma non

ce la faccio ad alzarmi.»

«Povera mamma,» disse il bottaio, «tu non sai quanto ti amo. - E anche te, figlia

mia!» La abbracciò e la baciò. «Oh! quanto è bello baciare la propria figlia dopo uno

screzio! la mia figlietta! - Ecco, vedi, mammina, adesso siamo una persona sola. - Vai a

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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riporlo,» disse a Eugénie indicandole il cofanetto. «Va', non temere. Non te ne parlerò mai

più.»

M. Bergerin, il più celebre medico di Saumur, arrivò di lì a poco. Terminata la visita,

disse chiaro e tondo a Grandet che sua moglie stava molto male, ma che con molta

tranquillità, dolcezza e cure scrupolose sarebbe stato possibile ritardare il momento della

morte fin verso la fine dell'autunno.

«Costerà caro?» chiese il brav'uomo; «ci vogliono medicine?»

«Poche medicine, ma molte cure,» rispose il dottore che non riuscì a trattenere un

sorriso.

«Insomma, signor Bergerin,» rispose Grandet, «voi siete un uomo d'onore, non è

così? Mi affido a voi, venite a vedere mia moglie tutte lo volte che lo riterrete opportuno.

Conservatemi la mia buona moglie; l'amo molto, vedete, anche se non lo do a vedere,

perché io sono fatto così, mi tengo tutto dentro e mi rodo l'anima. Sono pieno di dispiaceri.

Il dolore è entrato in casa mia con la morte di mio fratello, per il quale spendo, a Parigi,

delle somme... un occhio della testa, insomma! e non è ancora finita. Addio, signore. Se è

possibile salvare mia moglie, salvatela, anche se per questo si dovessero spendere cento o

duecento franchi.»

Malgrado i fervidi auguri che Grandet faceva per la salute della moglie, la cui

successione era per lui una prima morte; malgrado la compiacenza che dimostrava in ogni

occasione per i più piccoli desideri di una madre e di una figlia sbalordite; malgrado le

cure più affettuose prodigate da Eugénie, Mme Grandet si avviava rapidamente alla

morte. Ogni giorno, si indeboliva e deperiva come deperisce la maggior parte delle donne

colpite, a quell'età, dalla malattia. Era fragile come le foglie degli alberi in autunno. La luce

del cielo la faceva risplendere come quelle foglie quando il sole le attraversa e le indora. Fu

una morte degna della sua vita, una morte tutta cristiana; non è come dire sublime? Nel

mese di ottobre 1822 rifulsero in modo particolare le sue virtù, la sua pazienza d'angelo e

l'amore per la figlia; ella si spense senza essersi lasciato sfuggire il più piccolo lamento.

Agnello senza macchia, saliva in cielo, e non rimpiangeva quaggiù che la dolce compagna

della sua fredda vita, alla quale i suoi ultimi sguardi sembravano predire mille mali.

Tremava all'idea di dover lasciare quella pecorella, candida come lei, sola in un mondo

egoista che voleva strapparle il vello, i suoi tesori.

«Figlia mia,» le disse prima di spirare, «la felicità è solo in cielo, un giorno lo

saprai.»

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All'indomani di quella morte, Eugénie trovò nuovi motivi per affezionarsi a quella

casa dove era nata, dove aveva tanto sofferto, dove sua madre era appena morta. In sala

non riusciva a guardare la finestra e la sedia rialzata senza sciogliersi in lacrime. Credette

di aver mal giudicato l'animo del padre vedendosi oggetto delle sue più affettuose

attenzioni: veniva a darle il braccio per scendere a colazione; per ore intere restava a

guardarla con occhi quasi buoni; insomma, la covava come se fosse stata d'oro. Il vecchio

bottaio somigliava così poco a se stesso, tremava a tal punto davanti alla figlia, che Nanon

e i cruchottiani, testimoni di questa sua debolezza, la attribuirono all'età avanzata, e

pensarono perciò a un infiacchimento delle sue facoltà; ma, il giorno in cui la famiglia

prese il lutto, dopo la cena, alla quale era stato invitato il notaio Cruchot, che conosceva,

lui solo, il segreto del suo cliente, la condotta del brav'uomo diventò chiara.

«Mia cara figliola,» disse a Eugénie quando la tavola fu sparecchiata e le porte

accuratamente chiuse, «ora tu sei l'erede di tua madre e noi due dobbiamo sistemare

qualche affaruccio. Non è vero, Cruchot?»

«Sì.»

«È proprio necessario occuparsene oggi, padre?»

«Sì, sì, figlietta. Non potrei resistere nell'incertezza in cui mi trovo. Non credo che tu

voglia darmi un dispiacere.»

«Oh! padre mio...»

«Ebbene, bisogna sistemare tutto questa sera.»

«Che cosa volete dunque che faccia?»

«Ma, figlietta, questo non riguarda me. - Ditelo voi, Cruchot.»

«Signorina, il vostro signor padre non vorrebbe né dividere né vendere i suoi beni

né pagare enormi diritti di successione per il denaro contante che egli si trovasse a

possedere. A tale scopo, dunque, bisognerebbe evitare di fare l'inventario di tutto il

patrimonio che oggi non è diviso fra voi e il vostro signor padre...»

«Cruchot, siete ben sicuro di questo, per parlarne così davanti a una bambina?»

«Lasciatemi dire, Grandet.»

«Sì, sì, amico mio. Né voi né mia figlia vorrete spogliarmi. Vero, figlietta?»

«Ma, signor Cruchot, che cosa dovrei fare?» domandò Eugénie spazientita.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Beh,» disse il notaio, «bisognerebbe firmare quest'atto con il quale voi rinunciate

alla successione della vostra signora madre, e lasciate a vostro padre l'usufrutto di tutti i

beni indivisi fra voi, e dei quali egli vi garantisce la nuda proprietà...»

«Io non capisco niente di tutto quello che mi dite,» rispose Eugénie; «datemi l'atto e

ditemi dove devo firmare.»

Papà Grandet guardava ora il documento ora la figlia e provava delle emozioni così

violente da doversi asciugare le gocce di sudore che gli imperlarono la fronte.

«Figlietta,» disse, «invece di firmare questo documento che a farlo registrare ci

costerebbe molto, preferirei che tu rinunciassi puramente e semplicemente alla successione

della tua povera, cara, mamma defunta, e far conto su di me per il futuro. Io ti passerei

tutti i mesi una bella e consistente rendita di cento franchi. Vedi, potresti pagare a quelli,

cui le fai dire, quante messe vorrai... Eh! cento franchi al mese, in lire?»

«Farò quello che vorrai, padre mio.»

«Signorina,» disse il notaio, «è mio dovere farvi osservare che voi vi private....»

«Eh! mio Dio,» fece lei, «che cosa me ne importa?»

«Taci, Cruchot. - È detto, è detto,» esclamò Grandet prendendo la mano della figlia

e battendoci sopra con la sua, «Eugénie, tu non cambierai idea, tu sei una ragazza onesta,

eh?»

«Oh! padre mio...»

Egli la baciò con trasporto, la strinse fra le braccia fin quasi a soffocarla.

«Figlia mia, tu dai la vita a tuo padre; però gli restituisci quello che lui ti ha dato:

siamo pari. Ecco come devono farsi gli affari. La vita è un affare. Io ti benedico! Tu sei una

ragazza virtuosa, che vuol bene al suo papà. E ora fa' quello che vuoi. - A domani,

Cruchot,» disse guardando il notaio allibito. «Ci vedremo per l'atto di rinuncia alla

cancelleria del tribunale.»

L'indomani, verso mezzogiorno, venne firmata la dichiarazione con la quale

Eugénie decideva di privarsi di tutto. Tuttavia, nonostante la parola data, il vecchio

bottaio, alla fine del primo anno, non aveva ancora sborsato un soldo dei cento franchi

mensili solennemente promessi alla figlia. Perciò, quando Eugénie gliene parlò senza dare

importanza alla cosa, non poté fare a meno di arrossire; salì in fretta nel suo studio, tornò,

e le presentò circa un terzo dei gioielli che aveva preso al nipote.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Tieni, piccola,» disse con un tono ironico, «vuoi questi per i tuoi mille e duecento

franchi?»

«Oh! padre mio, davvero me li dai?»

«Te ne darò altrettanti l'anno prossimo,» disse gettandoglieli nel grembiule. «Così,

in poco tempo, avrai tutti i suoi ciondoli,» aggiunse fregandosi le mani, felice di poter

speculare sui sentimenti della figlia.

Nondimeno, il vecchio, sebbene ancora robusto, sentì la necessità di mettere la

ragazza a parte dei segreti della famiglia. Per due anni consecutivi, volle che fosse lei a

ordinare in sua presenza i pasti, e ricevere gli affitti. Le insegnò poco per volta i nomi e

l'estensione delle vigne e dei poderi. Intorno al terzo anno, l'aveva abituata così bene a

tutte le sue avarizie, gliele aveva inculcate così bene, che le affidò senza timore le chiavi

della dispensa, e ne fece la padrona di casa.

Passarono cinque anni senza che alcun avvenimento segnasse l'esistenza monotona

di Eugénie e del padre. Sempre gli stessi gesti compiuti con la regolarità cronometrica

della vecchia pendola. La profonda malinconia di Mlle Grandet non era un mistero per

nessuno; ma, se chiunque poteva intuirne la causa, mai una parola pronunciata da lei

giustificò i sospetti che tutti a Saumur nutrivano sui sentimenti della ricca ereditiera. La

sua sola compagnia era formata dai tre Cruchot e da qualche amico che essi avevano senza

parere introdotto nella casa. Le avevano insegnato a giocare a whist, e venivano tutte le

sere a fare la partita. Nell'anno 1827, il padre, sentendo il peso delle sue infermità, fu

costretto a iniziarla ai segreti del suo patrimonio immobiliare, e le diceva di rivolgersi, in

caso di difficoltà, al notaio Cruchot, di cui egli conosceva la probità. Poi, verso la fine di

quell'anno, il brav'uomo, che aveva ottantadue anni, venne finalmente colpito da una

paralisi che fece rapidi progressi. Grandet fu condannato da M. Bergerin. Pensando che di

lì a poco sarebbe rimasta sola al mondo, Eugénie si strinse, per così dire, più vicino al

padre e rinsaldò quell'ultimo anello di affetto. Nei suoi pensieri, come in quelli di tutte le

donne che amano, l'amore era il mondo intero, e Charles non era lì. Ella fu sublime nelle

premure e nelle attenzioni per il vecchio padre, le cui facoltà cominciavano a scemare, ma

la cui avarizia era sostenuta dall'istinto. Perciò la morte di quell'uomo non sconvolse la sua

vita. La mattina, egli si faceva mettere fra il camino della camera e la porta del suo studio,

senza dubbio pieno d'oro. Restava là incapace di muoversi, ma guardava con ansia quelli

che venivano a trovarlo e la porta rinforzata di ferro. Voleva sapere la cagione dei più

piccoli rumori che udiva; e, con grande stupore del notaio, sentiva gli sbadigli del cane in

cortile. Si riscuoteva da quello stato di apparente stupore nel giorno e nell'ora in cui

bisognava incassare gli affitti, fare i conti con i vignaioli, o rilasciare delle ricevute. Allora

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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spostava la poltrona a rotelle in modo da trovarsi davanti alla porta dello studio. La faceva

aprire dalla figlia, e si accertava che ella stessa collocasse i sacchi di denaro gli uni sugli

altri e che poi chiudesse bene la porta. Poi tornava in silenzio al suo posto non appena la

figlia gli aveva restituito la preziosa chiave, che teneva sempre nel taschino del gilè, dove

di quando in quando la tastava. D'altra parte, il suo vecchio amico, il notaio, convinto che

la ricca ereditiera non avrebbe potuto non sposare il presidente suo nipote, se Charles

Grandet non tornava, raddoppiò le premure e le attenzioni: tutti i giorni veniva a mettersi

a disposizione di Grandet, e quando questi glielo chiedeva andava a Froidfond, sulle terre,

sui prati, nei vigneti, vendeva i raccolti, e tramutava tutto in oro e in argento che andavano

a raggiungere i sacchi ammucchiati nello studio. Arrivarono poi i giorni dell'agonia,

durante i quali la forte struttura del brav'uomo lottò contro la distruzione. Volle rimanere

seduto accanto al fuoco, davanti alla porta del suo studio. Attirava a sé e arrotolava tutte le

coperte che gli mettevano addosso, e diceva a Nanon: «Chiudi, chiudi, non voglio che mi

derubino.» Quando riusciva ad aprire gli occhi, l'unica parte viva di lui, li voltava subito

verso la porta dello studio dov'erano i suoi tesori e diceva alla figlia: «Ci sono? ci sono?» e

nel tono della voce si avvertiva una specie di timor panico.

«Sì, padre mio.»

«Sorveglia l'oro!... mettimi qui davanti dell'oro!»

Eugénie gli sciorinava dei luigi su un tavolo, e lui rimaneva per ore intere con gli

occhi fissi sui luigi, come un bambino che, nel momento in cui comincia a vedere, rimane

inebetito a guardare sempre la stessa cosa; e, proprio come un bambino, accennava un

sorriso penoso. «Questo mi riscalda!» diceva talvolta mentre sul suo viso appariva

un'espressione beata.

Quando il parroco venne a somministrargli i sacramenti, i suoi occhi, in apparenza

spenti da qualche ora, si rianimarono alla vista della croce, dei candelieri,

dell'acquasantiera d'argento che guardò a lungo, e mosse per l'ultima volta la sua verruca.

Quando il prete gli avvicinò alle labbra il crocifisso dorato per fargli baciare l'immagine

del Cristo, egli fece un gesto spaventoso per afferrarlo e quest'ultimo sforzo gli costò la

vita. Chiamò Eugénie, che non vedeva, benché fosse inginocchiata davanti a lui e bagnasse

di lacrime una mano già fredda.

«Padre mio, beneditemi,» chiese lei.

«Abbi cura di tutto! Me ne renderai conto laggiù,» dimostrando con quest'ultima

parola che il cristianesimo deve essere la religione degli avari.

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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Eugénie Grandet si trovò dunque sola in quella grande casa e non avendo altri che

Nanon cui gettare uno sguardo con la certezza di essere intesa e compresa, Nanon, il solo

essere che l'amasse per se stessa e con la quale poteva parlare dei suoi dolori. La grande

Nanon era una provvidenza per Eugénie. Così non fu più una serva, ma un'umile amica.

Dopo la morte del padre, Eugénie apprese dal notaio Cruchot che possedeva trecento mila

lire di rendita terriera nel circondario di Saumur, sei milioni investiti al tre per cento in

titoli acquistati a sessanta franchi e che valevano in quel momento settantasette franchi;

più due milioni in oro e centomila franchi in scudi, senza contare i canoni arretrati da

riscuotere. La stima totale dei suoi beni era di diciassette milioni.

«Dov'è mio cugino?» si chiedeva Eugénie.

Il giorno in cui il notaio Cruchot consegnò alla sua cliente un rapporto sull'eredità,

divenuta chiara e non soggetta a contestazioni, Eugénie rimase sola con Nanon, sedute

l'una e l'altra ai due lati del camino in quella sala così vuota, dove tutto era un ricordo,

dalla sedia rialzata sulla quale si sedeva sua madre al bicchiere nel quale aveva bevuto il

cugino.

«Siamo sole, Nanon!»

«Sì, signorina; se sapessi dov'è quel tesorino, andrei a cercarlo a piedi.»

«C'è il mare fra di noi,» disse lei.

Mentre la povera ereditiera piangeva in compagnia della vecchia domestica, in

quella casa fredda e scura che per lei era tutto l'universo, da Nantes a Orléans non si

parlava d'altro che dei diciassette milioni di Mlle Grandet. Uno dei suoi primi atti fu

quello di assegnare una rendita vitalizia di milleduecento franchi a Nanon, la quale,

poiché possedeva altri seicento franchi, diventò un bel partito. In meno di un mese, passò

dalla condizione di ragazza a quella di donna, sotto la protezione di Antoine Cornoiller,

che fu nominato sorvegliante generale delle terre e proprietà di Mlle Grandet. Mme

Cornoiller aveva sulle sue coetanee un grande vantaggio. Sebbene avesse cinquantanove

anni non ne dimostrava più di quaranta. I suoi lineamenti grossolani avevano resistito agli

attacchi del tempo. Grazie a un regime di vita monastica, ella sfidava la vecchiaia con un

bel colorito e con una salute di ferro. Aveva i vantaggi della bruttezza, e appariva grossa,

grassa, forte, con sul viso un'aria di felicità che indusse qualcuno a indiviare la sorte di

Cornoiller. «Ha un bel colorito,» diceva il drappiere. «È ancora capace di fare dei figli,»

disse il mercante di sale; «si è conservata come in salamoia, con rispetto parlando.» «È

ricca, e Cornoiller ha fatto un bel colpo,» diceva un altro vicino. Uscendo dalla vecchia

casa, Nanon che era amata da tutto il vicinato, ricevette solo complimenti mentre scendeva

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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la strada tortuosa per andare in parrocchia. Come regalo di nozze, Eugénie le diede tre

dozzine di posate. Cornoiller, sorpreso da tanta generosità, parlava della padrona con le

lacrime agli occhi: si sarebbe fatto squartare per lei. Divenuta la confidente di Eugénie,

Mme Cornoiller ebbe da allora una felicità uguale a quella di possedere un marito. Aveva

finalmente una dispensa da aprire e chiudere, delle provviste da prendere al mattino,

come faceva il suo defunto padrone. Poi dovette dirigere due domestiche, una cuoca e una

cameriera, incaricata di tenere in ordine la biancheria di casa e di confezionare gli abiti

della signorina. Cornoiller cumulò le funzioni di sorvegliante e di intendente. Inutile dire

che la cuoca e la cameriera scelte da Nanon erano delle vere perle. Mlle Grandet ebbe così

quattro servitori la cui devozione era illimitata. I fittavoli non notarono alcuna differenza

dopo la morte del brav'uomo, poiché costui aveva stabilito rigidi usi e costumi nella

amministrazione, che fu continuata con scrupolo da M. e Mme Cornoiller.

[6]

A trentatré anni Eugénie non conosceva ancora le felicità dell'esistenza. La sua

infanzia, sbiadita e triste, era trascorsa accanto a una madre il cui cuore misconosciuto,

offeso, aveva sempre sofferto. Abbandonando con gioia la vita, questa madre compianse la

figlia che doveva vivere, e le lasciò nell'animo lievi rimorsi e rimpianti eterni. Il primo, il

solo amore era per Eugénie un motivo di malinconia. Dopo aver intravisto il suo amante

per qualche giorno, gli aveva dato il proprio cuore fra due baci furtivamente accettati e

resi; poi egli era partito, frapponendo fra loro due il mondo. Questo amore, maledetto dal

padre, le era quasi costato la madre, e le procurava solo dolore mescolato a qualche fragile

speranza. Perciò, fino ad allora, ella aveva rincorso la felicità consumando le sue forze

senza rinnovarle. Nella vita spirituale, come in quella fisica, esiste un'inspirazione e

un'espirazione: l'anima ha bisogno di assorbire i sentimenti di un'altra anima, di

assimilarli per poi restituirli arricchiti. Senza questo bel fenomeno umano, il cuore non ha

vita; gli manca l'aria, soffre e deperisce. Eugénie cominciava a soffrire. Per lei la ricchezza

non significava potere e neppure consolazione; ella poteva esistere solo grazie all'amore,

alla religione, alla fede nell'avvenire. L'amore le faceva capire l'eternità. Il cuore e il

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Vangelo le mostravano due mondi che l'attendevano. Notte e giorno era immersa in due

pensieri infiniti, che per lei forse erano un tutto unico. Si ritirava in se stessa, amando e

credendosi amata. Dopo sette anni, la sua passione aveva invaso tutto. I suoi tesori non

erano i milioni i cui interessi si accumulavano, ma il cofanetto di Charles, ma i due ritratti

appesi sul suo letto, ma i gioielli ricomprati al padre, e disposti orgogliosamente su uno

strato di ovatta in un tiretto del cassone; ma il ditale della zia usato da sua madre, e che,

tutti i giorni, ella prendeva religiosamente per lavorare a un ricamo, una tela di Penelope,

intrapreso solo per poter infilare al dito quell'oggetto d'oro carico di ricordi. Non

sembrava verosimile che Mlle Grandet decidesse di sposarsi durante il lutto. La sua

profonda pietà era nota. Perciò la famiglia Cruchot, la cui politica era saggiamente

orchestrata dal vecchio sacerdote, si accontentava di circuire l'ereditiera con le premure

più affettuose. Tutte le sere, la sala della sua casa si riempiva con una compagnia formata

dai più ferventi e devoti cruchottiani del paese, i quali non facevano che cantare su tutti i

toni le lodi dell'ospite. Ella aveva il medico personale, il grande elemosiniere, il

ciambellano, la prima dama di compagnia, il primo ministro, e soprattutto il cancelliere,

un cancelliere che voleva consigliarla su ogni cosa. Se l'ereditiera avesse desiderato un

caudatario, gliene avrebbero trovato uno. Era una regina, e la più abilmente adulata di

tutte le regine. L'adulazione non viene mai dalle anime grandi ma è appannaggio di quelle

meschine, che riescono a rimpicciolirsi ancora di più per entrare meglio nella sfera vitale

della persona attorno alla quale gravitano. L'adulazione presuppone un interesse. E così le

persone che ogni sera andavano ad affollare la sala di Mlle Grandet, che loro chiamavano

Mlle de Froidfond, riuscivano meravigliosamente bene a ricoprirla di lodi. Questo

concerto di elogi, nuovo per Eugénie, dapprima la fece arrossire; ma a poco a poco, anche

se certi complimenti erano smaccati, le orecchie le si abituarono così bene a sentir vantare

la sua bellezza, che se un nuovo venuto l'avesse trovata brutta, ella sarebbe stata più

sensibile a questa critica di quanto avrebbe potuto esserlo otto anni prima. Poi Eugénie finì

per amare queste dolcezze che segretamente deponeva ai piedi del suo idolo. Si abituò

quindi per gradi a essere trattata come una sovrana e a vedere la sua corte affollata tutte le

sere.

Il signor presidente de Bonfons era l'eroe di questo piccolo circolo, dove si

vantavano senza posa il suo spirito, la sua persona, la sua istruzione, la sua amabilità. Uno

faceva notare che, negli ultimi sette anni, egli aveva accresciuto di molto il suo patrimonio;

che Bonfons valeva almeno diecimila franchi di rendita e le terre erano, come tutte quelle

dei Cruchot, circondate da quelle dell'ereditiera. «Sapete, signorina,» diceva un visitatore

abituale, «i Cruchot dispongono di rendite per quarantamila lire!» «E delle loro

economie,» soggiungeva una vecchia cruchottiana, Mlle de Gribeaucourt. «Un signore di

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Parigi è venuto nei giorni scorsi a offrire a M. Cruchot duecentomila franchi per il suo

studio. Deve venderlo, per esser nominato giudice di pace.» «Vuole succedere a M. de

Bonfons nella presidenza del tribunale, e quindi deve fare i suoi passi,» rispose Mme

d'Orsonval; «perché il signor presidente diventerà consigliere, e poi presidente di corte

d'appello; ha troppi meriti per non arrivarci.» «Sì, è un uomo notevole,» diceva un altro.

«Non trovate, signorina?»

Il signor presidente era costretto a mettersi all'altezza del ruolo che voleva

sostenere. Malgrado i quaranta anni, malgrado il viso scuro e arcigno, appassito come lo

sono quasi tutte le facce dei magistrati, si vestiva da giovanotto, giocherellava con un

bastoncino, non tabaccava in casa di Mlle de Froidfond, vi arrivava sempre in cravatta

bianca, e con una camicia la cui pettorina gli conferiva una certa rassomiglianza con le

creature del genere tacchino. Parlava con un tono familiare all'ereditiera, e le diceva: «La

nostra cara Eugénie.» Insomma, a parte il numero delle persone, se si sostituisce alla

tombola il whist, se si eliminano i volti di M. e Mme Grandet, la scena con cui cominciò

questa storia era press'a poco la stessa. La muta braccava sempre Eugénie e i suoi milioni;

ma, più numerosa, abbaiava meglio e circondava la preda con maggior abilità. Se Charles

fosse tornato dalle lontane Indie, avrebbe ritrovato gli stessi personaggi e gli stessi

interessi. Mme des Grassins, per la quale Eugénie era una perfezione di grazia e di bontà,

continuava a tormentare i Cruchot. Ma allora, come un tempo, la figura di Eugénie

dominava il quadro, come un tempo Charles sarebbe stato ancora il sovrano. Tuttavia,

c'era un progresso. Il mazzo di fiori che una volta il presidente offriva a Eugénie per il

compleanno era diventato una regola. Tutte le sere, egli portava alla ricca ereditiera un

grande e magnifico mazzo che Mme Cornoiller metteva ostentatamente in un vaso, e

gettava di nascosto in un angolo del cortile non appena i visitatori se ne erano andati.

All'inizio della primavera, Mme des Grassins cercò di turbare la felicità dei cruchottiani

parlando a Eugénie del marchese di Froidfond, il cui casato in rovina avrebbe potuto

risollevarsi se l'ereditiera avesse voluto restituirgli le terre attraverso un contratto di

matrimonio. Mme des Grassins sbandierava il titolo di pari e il marchesato, e, prendendo

il sorriso sdegnoso di Eugénie per un'approvazione, andava dicendo che il matrimonio del

signor presidente Cruchot non era così fatto come si credeva. «Sebbene M. de Froidfond

abbia cinquant'anni» diceva, «non sembra più vecchio di M. Cruchot; è vedovo, ha figli, è

vero, ma è marchese, sarà pari di Francia, e, con i tempi che corrono, trovatemi un partito

di questo calibro. So per certo che papà Grandet, quando riunì le sue terre a quelle di

Froidfond, aveva intenzione di imparentarsi con i Froidfond. Me l'ha detto spesso. Era

furbo il brav'uomo.»

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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«Come mai, Nanon,» disse una sera Eugénie coricandosi, «non mi ha scritto una

volta in sette anni?...»

Mentre a Saumur accadevano queste cose, Charles faceva fortuna nelle Indie.

Innanzi tutto era riuscito a vendere bene la sua paccottiglia. In breve tempo aveva

realizzato una somma di seimila dollari. Il battesimo dell'equatore gli aveva fatto perdere

molti pregiudizi, si rese conto che il modo migliore per raggiungere la ricchezza nelle

regioni equatoriali, come del resto in Europa, era quello di acquistare e vendere uomini.

Andò così sulle coste dell'Africa e fece la tratta dei negri, unendo al commercio d'uomini

quello delle mercanzie più vantaggiose da scambiare sui diversi mercati dove lo

portavano i suoi interessi. Si dedicava agli affari con un impegno che non gli lasciava un

momento libero. Era ossessionato dall'idea di riapparire a Parigi nello splendore di una

immensa ricchezza, e di conquistare una posizione ancora più brillante di quella dalla

quale era precipitato. A forza di frequentare uomini e paesi, di osservarne i costumi

contrastanti, le sue idee si modificarono ed egli diventò scettico. Non ebbe più un'idea

precisa sul giusto e l'ingiusto, vedendo reputare crimine in un paese ciò che era virtù in un

altro. Sempre a contatto con l'interesse, il suo cuore si fece gelido, chiuso, arido. Il sangue

dei Grandet non mentì, Charles diventò duro, avido di guadagni. Vendette cinesi, negri,

nidi di rondine, bambini, artisti; praticò l'usura in grande. L'abitudine a frodare i diritti di

dogana lo rese meno scrupoloso sui diritti degli uomini. Andava a Saint-Thomas a

comperare a basso prezzo le merci depredate dai pirati e le portava sulle piazze dove

scarseggiavano.

Se la nobile e pura immagine di Eugénie lo accompagnò durante il primo viaggio,

come l'immagine della Vergine che i marinai spagnoli collocano sulle navi, e se attribuì i

primi successi alla magica influenza dei voti e delle preghiere di quella dolce fanciulla, più

tardi, le negre, le mulatte, le bianche, le giavanesi, le almee, le orge di ogni colore e le

avventure che ebbe in diversi paesi cancellarono completamente il ricordo della cugina, di

Saumur, della casa, della panchina, del bacio carpito nel corridoio. Ricordava solo il

giardinetto chiuso da vecchi muri, perché lì era incominciato il suo rischioso destino; ma

rinnegava la famiglia: lo zio era un vecchio cane che lo aveva derubato dei gioielli;

Eugénie non occupava né il suo cuore né i suoi pensieri, occupava solo un posto negli

affari come creditrice della somma di seimila franchi. Questo genere di vita e queste idee

spiegano il silenzio di Charles Grandet. Nelle Indie, a Saint-Thomas, sulla costa dell'Africa,

a Lisbona e negli Stati Uniti, lo speculatore aveva assunto, per non compromettere il suo

nome, lo pseudonimo di Sepherd. Carl Sepherd poteva senza rischio mostrarsi ovunque

infaticabile, audace, avido, come un uomo che, deciso a fare fortuna quibuscumque viis ,

abbia fretta di finirla con l'infamia per rimanere un'onest'uomo durante il resto dei suoi

Honore De Balzac – Eugenie Grandet

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giorni. Con questo sistema la sua fortuna fu rapida e brillante. Nel 1827 quindi, tornò a

Bordeaux sul bel brigantino MarieCaroline, appartenente a una ditta commerciale realista.

Possedeva un milione e novecentomila franchi in tre solidi barili pieni di polvere d'oro,

dalla vendita dei quali a Parigi contava di guadagnare un sette o otto per cento. Su quel

brigantino viaggiava anche un gentiluomo onorario di camera di Sua Maestà il re Carlo X,

M. d'Aubrion, un buon vecchio che aveva fatto la sciocchezza di sposare una donna di

mondo, e il cui patrimonio era nelle Antille. Per sopperire alle prodigalità di Mme

d'Aubrion, era andato a vendere i suoi terreni. M e Mme d'Aubron, della casa d'Aubrion

di Buch, il cui ultimo signore era morto prima del 1789, ridotti a una ventina di migliaia di

lire di rendita, avevano una figlia piuttosto brutta che la madre voleva maritare senza

dote, poiché le sue entrate le consentivano a mala pena di vivere a Parigi. Era un'impresa il

cui successo sarebbe sembrato problematico a tutte le persone di un certo ambiente,

malgrado l'abilità che si attribuisce alle donne di mondo. Perciò la stessa Mme d'Aubrion

quasi disperava, guardando la figlia, di riuscire ad affibbiarla a qualcuno, fosse anche un

uomo con la mania della nobiltà. Mlle d'Aubrion era una signorina lunga, magra, gracile,

con una bocca sdegnosa, sulla quale scendeva un naso troppo lungo, grosso in punta,

colorito allo stato normale, ma completamente rosso dopo i pasti, una specie di fenomeno

vegetale che era tanto più sgradevole in quanto quel naso si trovava in mezzo a un viso

pallido e annoiato. Insomma, Mlle d'Aubrion era come poteva desiderarla una madre di

trentotto anni che, ancora bella, continuava ad avere delle pretese. Ma, per

controbilanciare simili svantaggi la marchesa d'Aubrion aveva dato alla figlia un'aria

molto distinta, l'aveva sottoposta a un regime che per il momento conservava il naso su

una gradazione di colorito ragionevole, le aveva appreso l'arte di abbigliarsi con gusto,

l'aveva dotata di modi piacevoli, le aveva insegnato quegli sguardi malinconici che

interessano un uomo e gli fanno credere di essere sul punto di incontrare l'angelo

vanamente cercato; le aveva mostrato come muovere il piede per farne ammirare la

piccolezza nel momento in cui il naso aveva l'impertinenza di arrossire; insomma Mme

d'Aubrion aveva fatto sulla figlia un buon lavoro. Grazie a maniche larghe, corsetti

mentitori, abiti gonfi e ben guarniti, e a un bustino strettissimo, ella aveva ottenuto dei

prodotti femminili così insoliti che, per l'istruzione delle madri, avrebbe dovuto esporli in

un museo. Charles si legò molto a Mme d'Aubrion, precisamente come Mme d'Aubrion

voleva legarsi a lui. Molte persone sostengono addirittura che, durante la traversata, la

bella Mme d'Aubrion non trascurò alcun mezzo per catturare un genero così ricco.

Quando sbarcarono a Bordeaux, nel giugno del 1827, M., Mme e Mlle d'Aubrion e Charles

scesero nello stesso albergo e partirono insieme per Parigi. Il palazzo d'Aubrion era pieno

di ipoteche, Charles doveva liberarlo. La madre aveva detto che sarebbe stata felice di

cedere il suo piano rialzato al genero e alla figlia. Non condividendo le fisime di M.

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d'Aubrion sulla nobiltà, ella aveva promesso a Charles Grandet di ottenere dal buon Carlo

X un'ordinanza reale che lo autorizzasse, lui Grandet, a portare il nome d'Aubrion, a

prenderne il blasone, e a succedere, in cambio della costituzione di un maggiorasco con

trentaseimila lire di rendita, ad Aubrion nel titolo di signore di Buch e marchese

d'Aubrion. Riunendo le loro fortune, vivendo in buon accordo, grazie ad alcune sinecure,

si potevano mettere insieme a palazzo d'Aubrion oltre centomila lire di rendita. «E quando

si hanno centomila lire di rendita, un nome, una famiglia, quando si va a corte poiché io vi

farò nominare gentiluomo di camera, si diventa ciò che si vuole,» diceva Mme d'Aubrion a

Charles. «Perciò potrete diventare, a vostra scelta, relatore al consiglio di stato, prefetto,

segretario d'ambasciata, ambasciatore. Carlo X ama molto d'Aubrion, si conoscono fin da

bambini.» Inebriato di ambizione da questa donna, Charles, durante la traversata aveva

accarezzato tutte queste speranze che gli erano state presentate da una mano abile e sotto

forma di confidenze da cuore a cuore. Convinto che gli affari di suo padre fossero stati

sistemati dallo zio, si vedeva installato nel faubourg Saint-Germain, l'aspirazione di tutti,

dove all'ombra nel naso paonazzo di Mlle Mathilde, sarebbe riapparso quale conte

d'Aubrion. Esaltato dalle fortune della Restaurazione, che aveva lasciato vacillante,

conquistato dallo smalto delle idee aristocratiche, la sua ebbrezza cominciata sul battello

continuò a Parigi, dove decise di fare il possibile per arrivare a quell'alta posizione che la

suocera egoista gli faceva intravedere. Sua cugina non era quindi per lui che un punto

nello spazio di questa brillante prospettiva. Rivide Annette. Da donna di mondo, Annette

gli consigliò vivamente di contrarre quel matrimonio, e gli garantì il proprio appoggio in

tutte le sue ambiziose imprese. Annette era felice di far sposare una signorina brutta e

noiosa a Charles, che il soggiorno nelle Indie aveva reso molto seducente: il colorito era

più abbronzato, i modi erano diventati più decisi, arditi, come lo sono quelli degli uomini

abituati a risolvere, a dominare, a riuscire. Charles respirava meglio a Parigi vedendo che

poteva sostenervi un ruolo. Des Grassins avendo saputo del suo ritorno, del suo

imminente matrimonio, della sua ricchezza, andò a trovarlo per parlargli dei trecentomila

franchi con i quali avrebbe potuto saldare i debiti del padre. Trovò Charles in compagnia

del gioielliere al quale aveva ordinato il regalo di nozze per Mlle d'Aubrion, e che era

venuto a fargli vedere i disegni. Malgrado i magnifici diamanti che Charles aveva portato

dalle Indie, le montature, l'argenteria, i gioielli solidi e futili della giovane coppia

ammontavano a più di duecentomila franchi. Charles ricevette des Grassins, che non

riconobbe, con l'impertinenza del giovane di mondo che, nelle Indie, aveva ucciso quattro

uomini in quattro differenti duelli. M. des Grassins era già venuto tre volte. Charles lo

ascoltò con distacco; poi gli rispose, senza aver ben capito ciò che gli aveva detto: «Gli

affari di mio padre, non sono i miei. Vi sono obbligato, signore, per l'interesse che vi avete

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dedicato ma del quale non posso approfittare. Non ho messo insieme col sudore della

fronte quasi due milioni per gettarli in pasto ai creditori di mio padre.»

«E se, di qui a qualche giorno, il vostro signor padre fosse dichiarato fallito?»

«Signore, di qui a qualche giorno io mi chiamerò conte d'Aubrion. Capite bene che

la cosa mi sarebbe del tutto indifferente. Del resto, voi sapete meglio di me che, quando un

uomo ha centomila lire di rendita, suo padre non fallisce mai,» aggiunse spingendo

cortesemente il signor des Grassins verso la porta.

All'inizio del mese di agosto di quell'anno, Eugénie era seduta sulla panchina di

legno dove il cugino le aveva giurato eterno amore, e dove ella veniva a fare colazione

quando era bel tempo. La povera fanciulla si compiaceva in quei momenti, nell'aria fresca

e lieta del mattino, di riandare con la memoria ai grandi, ai piccoli avvenimenti del suo

amore, e alle catastrofi che lo avevano accompagnato. Il sole rischiarava il bel muro tutto

crepato, quasi in rovina, che per ordine della bizzarra ereditiera non si poteva toccare,

anche se Cornoiller ripeteva spesso alla moglie che prima o poi qualcuno ci sarebbe

rimasto sotto. In quel momento il fattorino della posta bussò, consegnò una lettera a Mme

Cornolller, che andò in giardino gridando: «Signorina, una lettera!» La porse alla padrona

dicendole: «È quella che aspettavate?»

Queste parole risuonarono con tanta forza nel cuore di Eugénie, da echeggiare

davvero fra le mura del cortile e del giardino.

«Parigi! È sua! È tornato!»

Eugénie impallidì, e per un momento tenne fra le mani la lettera senza aprirla. Era

troppo turbata per riuscire a dissuggellarla e a leggerla. La grande Nanon rimase in piedi,

le mani sulle anche, e la gioia sembrava le uscisse come una fumata dalle pieghe del volto

bruno.

«Avanti, leggete, signorina...»

«Ah! Nanon, perché torna a Parigi, quando è partito da Saumur?»

«Leggete e lo saprete.»

Eugénie apri la lettera tremando. Ne cadde un mandato sulla banca Madame des

Grassins e Corret, di Saumur. Nanon lo raccolse.

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«Mia cara cugina...»

«Non sono più Eugénie,» pensò lei; e sentì una stretta al cuore.

«Apprenderete...»

«Mi dava del tu!»

Incrociò le braccia, senza aver più la forza di leggere, mentre gli occhi le si

riempivano di lacrime.

«È morto?» chiese Nanon.

«Non avrebbe scritto!» disse Eugénie.

E lesse tutta la lettera che segue:

«Mia cara cugina, apprenderete, credo, con piacere, il successo delle mie imprese.

Voi mi avete portato fortuna, sono tornato ricco, e ho seguito i consigli di mio zio. Ho

appena appreso da M. des Grassins la notizia della sua morte e di quella della zia. La

morte dei genitori è nell'ordine naturale, e a noi tocca succedergli. Spero che ormai vi siate

fatta una ragione. Niente resiste al tempo, io ne sono una prova. Si, mia cara cugina,

purtroppo per me il tempo delle illusioni è passato. Che volete! viaggiando attraverso

molti paesi, ho riflettuto sulla vita. Sono partito che ero un ragazzo, ritorno uomo. Oggi

penso a molte cose alle quali un tempo non pensavo. Voi siete libera, cugina, e io sono

ancora libero; nulla impedisce, in apparenza, la realizzazione dei nostri progetti; ma sono

troppo leale per nascondervi la mia situazione. Non ho dimenticato che non mi

appartengo; mi sono sempre ricordato, durante le mie lunghe traversate, della panchina di

legno ..»

Eugénie si alzò come se fosse stata su dei carboni ardenti, e andò a sedersi sui

gradini del cortile.

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«... Della panchina di legno sulla quale abbiamo giurato di amarci per sempre; del

corridoio, della sala grigia, della mia camera nella mansarda, e della notte in cui, con

delicatezza, mi avete reso più facile l'avvenire. Sì, questi ricordi mi hanno dato coraggio, e

mi sono detto che voi pensavate sempre a me, come io pensavo a voi, nell'ora stabilita fra

di noi. Avete guardato le nuvole alle nove? Sì, vero? Perciò, non voglio tradire un'amicizia

che per me è sacra; no, non devo ingannarvi. Si tratta, in questo momento, per me, di

un'unione che soddisfa tutte le idee che mi sono fatto sul matrimonio. L'amore, nel

matrimonio, è una chimera. Oggi, l'esperienza mi dice che bisogna sottostare alle leggi

della società e riunire nel matrimonio tutte le convenienze volute dal mondo. Ora, c'è fra

noi una differenza d'età che, forse, potrebbe pesare di più sul vostro avvenire, cara cugina,

che sul mio. Non voglio parlare dei vostri costumi né della vostra educazione né delle

vostre abitudini che sono quanto mai lontani dalla vita di Parigi e non si accorderebbero

per nulla con i miei progetti. Ho in mente di tenere un elevato tenore di vita, di ricevere

molta gente, e credo di ricordare che voi amate una vita dolce e tranquilla. No, sarò franco,

e lascerò a voi giudicare la mia situazione; avete diritto di conoscerla e di giudicarla. Oggi,

possiedo ottantamila lire di rendita. Questa fortuna, mi permette di imparentarmi con la

famiglia d'Aubrion, la cui erede, una giovane di diciannove anni, mi porta in dote il suo

nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di camera di Sua Maestà e una posizione

fra le più brillanti. Vi confesserò, cara cugina, che non amo affatto Mlle d'Aubrion, ma con

questo matrimonio assicuro ai miei figli una posizione sociale i cui vantaggi saranno un

giorno incalcolabili: le idee monarchiche riacquistano sempre più favore. Perciò, fra alcuni

anni, mio figlio, divenuto marchese d'Aubrion, con un maggiorasco di quarantamila lire di

rendita, potrà prendere nello stato quel posto che riterrà più conveniente. Abbiamo il

dovere di pensare ai nostri figli. Vedete, cugina mia, con quanta schiettezza vi espongo lo

stato del mio cuore, delle mie speranze, della mia fortuna. È possibile che, da parte vostra,

voi abbiate dimenticato le nostre puerilità dopo sette anni di lontananza; io non ho

dimenticato né la vostra indulgenza né le mie parole; me le ricordo tutte, anche quelle

dette con leggerezza, alle quali un giovane meno coscienzioso di me, con un cuore meno

giovane e meno onesto, non dedicherebbe nemmeno un pensiero. Dicendovi che intendo

solo fare un matrimonio di convenienza, e che mi ricordo ancora dei nostri amori da

ragazzi, penso di rimettermi interamente a vostra discrezione, di rendervi arbitra della mia

sorte, e di dirvi che, se dovessi rinunciare alle mie ambizioni sociali mi contenterei

volentieri di quella pura e semplice felicità di cui mi avete offerto immagini tanto

toccanti...»

«Tan ta ta. - Tan ta ti. Tin ta ta. - Tun! - Tun ta ti. - Tiun ta ta... ecc.» aveva

canticchiato Charles Grandet sull'aria di Non più andrai, mentre firmava:

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«Vostro devoto cugino,

CHARLES.»

«Per mille fulmini! questo significa comportarsi bene,» si disse. Poi aveva preso il

mandato, e aveva aggiunto queste righe:

«P.S. - Unisco alla lettera un mandato sulla banca des Grassins di ottomila franchi

all'ordine vostro, pagabile in oro e comprendente capitale e interessi della somma che

avete avuto la bontà di prestarmi. Aspetto da Bordeaux una cassa contenente degli oggetti

che mi permettete di offrirvi a testimonianza della mia eterna riconoscenza. Potete

spedirmi con la diligenza il mio nécessaire a palazzo d'Aubrion, rue HillerinBertin.»

«Con la diligenza!» disse Eugénie. «Una cosa per la quale avrei dato mille volte la

vita!»

Disastro spaventoso e totale. La nave affondava senza lasciare nemmeno un relitto,

sul vasto oceano della speranza. Vedendosi abbandonate, certe donne vanno a strappare

l'amante dalle braccia di una rivale, lo uccidono e fuggono in capo al mondo, sul patibolo

o nella tomba. Questo è bello, non v'è dubbio; il movente di un simile delitto è una

sublime passione che mette in imbarazzo la giustizia umana. Altre donne abbassano il

capo e soffrono in silenzio; se ne vanno morenti e rassegnate, piangono e perdonano,

pregano e ricordano fino all'ultimo anelito. Questo è amore, amore vero, l'amore degli

angeli, l'amore fiero che vive del suo dolore e ne muore. Fu ciò che provò Eugénie dopo

aver letto quella orribile lettera. Alzò lo sguardo al cielo, pensando alle ultime parole della

madre, che, come certi moribondi, aveva penetrato il futuro con occhio acuto e lucido; poi

Eugénie, ricordando quella morte e quella vita profetica, misurò con un colpo d'occhio il

suo destino. Ella non doveva fare altro che spiegare le ali, tendere verso il cielo, e vivere in

preghiera fino al giorno della liberazione.

«Mia madre aveva ragione,» disse piangendo. «Soffrire e morire.»

A passi lenti lasciò il giardino e andò in sala. Contrariamente alle sue abitudini, non

passò dal corridoio; ma in quel vecchio salone grigio ritrovò il ricordo del cugino, sul

camino dove stava un certo piatto del quale, insieme con la vecchia zuccheriera di Sèvres,

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ella si serviva tutte le mattine per la colazione di Charles. Quella mattinata doveva essere

importante e piena di avvenimenti per lei. Nanon le annunciò il parroco. Questo

sacerdote, parente dei Cruchot, stava dalla parte del presidente de Bonfons. Qualche

giorno prima, il vecchio padre Cruchot lo aveva convinto a parlare a Mlle Grandet, in un

senso puramente religioso, dell'obbligo che ella aveva di contrarre matrimonio. Vedendo il

parroco, Eugénie pensò che venisse a prendere i mille franchi che ella dava ogni mese ai

poveri, e disse a Nanon di portarle il denaro; ma il parroco sorrise.

«Oggi, signorina, vengo a parlarvi di una povera ragazza alla quale si interessa tutta

la città di Saumur, e che, per mancanza di carità verso se stessa, non vive cristianamente.»

«Mio Dio! signor parroco, mi trovo in un momento nel quale mi è impossibile

pensare al prossimo, sono troppo occupata da me stessa. Sono molto infelice, e il mio

unico rifugio è la chiesa, che ha un seno abbastanza grande per contenere i nostri dolori e

sentimenti tanto fecondi ai quali possiamo attingere senza tema di prosciugarli.»

«Ebbene, signorina, occupandoci di questa fanciulla ci occuperemo di noi.

Ascoltate! se volete il vostro bene, non avete che due vie da seguire: o lasciare il mondo o

accettarne le leggi; obbedire al vostro destino terreno o al vostro destino celeste.»

«Ah! la vostra voce mi parla in un momento in cui volevo sentire una voce. Sì, è Dio

che vi manda, signore. Dirò addio al mondo e vivrò per Dio nel silenzio e nella

solitudine.»

«Su una decisione così drastica, figlia mia, bisogna riflettere a lungo. Il matrimonio

è vita, il velo è morte.»

«Ebbene, la morte, la morte subito, signor parroco!» disse lei con uno slancio

spaventoso.

«La morte? Ma voi avete grandi obblighi verso la società, signorina. Non siete forse

la madre dei poveri ai quali date abiti, legna d'inverno e lavoro d'estate? La vostra grande

ricchezza è un prestito che bisogna restituire, ed è in questo senso che voi l'avete

santamente accettata. Seppellirvi in un convento, sarebbe egoismo; e non dovete nemmeno

restare nubile. Eppoi, sareste capace di amministrare da sola la vostra immensa fortuna?

Forse la perdereste. Vi trovereste coinvolta in mille cause e sareste tormentata da difficoltà

inestricabili. Credete al vostro pastore: uno sposo vi sarà utile, voi dovete conservare ciò

che Dio vi ha dato. Vi parlo come a una pecorella diletta. Voi amate troppo sinceramente

Dio per non fare il bene della vostra anima in mezzo al mondo, del quale siete uno dei più

begli ornamenti e al quale date edificanti esempi.»

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In quel momento, Mme des Grassins si fece annunciare. Veniva spinta dalla

vendetta e da una grande disperazione.

«Signorina...» disse. «Ah! c'è il signor parroco... Allora taccio, venivo per parlare

d'affari, ma vedo che siete occupata.»

«Signora,» disse il parroco, «vi lascio il campo libero.»

«Oh! signor parroco,» disse Eugénie, «tornate fra poco, il vostro appoggio mi è

indispensabile in questo momento.»

«Sì, povera figliola,» disse Mme des Grassins.

«Che volete dire?» chiesero Mlle Grandet e il parroco.

«Credete che non sappia del ritorno di vostro cugino, del suo matrimonio con Mlle

d'Aubrion?... Una donna sta sempre con le orecchie dritte.»

Eugénie arrossì e non disse nulla; ma decise di fingere in futuro quella impassibilità

che era una caratteristica di suo padre.

«Ebbene, signora,» rispose con ironia, «senza dubbio le mie orecchie non sono

dritte, non capisco. Parlate pure davanti al signor parroco, voi sapete che è il mio

confessore.»

«Insomma, signorina, ecco quello che mi scrive des Grassins. Leggete.»

Eugénie lesse la lettera seguente:

«Mia cara moglie, Charles Grandet è tornato dalle Indie, è a Parigi da un mese...»

«Un mese!» si disse Eugénie lasciando cadere la mano che teneva la lettera. Dopo

un momento riprese a leggere.

«... Ho dovuto fare anticamera due volte prima di poter parlare al futuro conte

d'Aubrion. Sebbene tutta Parigi parli del suo matrimonio e le pubblicazioni siano fatte...»

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«Mi ha scritto dunque nel momento in cui...?» si chiese Eugénie.

Non terminò la frase, non gridò come avrebbe fatto una parigina: «Mascalzone!»

Ma anche se non esternato, il disprezzo non fu meno profondo.

«... Questo matrimonio è lungi dall'essere concluso; il marchese d'Aubrion non darà

sua figlia al figlio di un bancarottiere. Ero andato a dirgli quanto, suo zio e io, ci eravamo

preoccupati degli affari del padre, e a informarlo delle abili manovre con le quali siamo

riusciti a tenere tranquilli i creditori fino a oggi. Quel piccolo impertinente ha avuto la

sfacciataggine di rispondermi, a me che, per cinque anni, mi sono dedicato giorno e notte

ai suoi interessi e al suo onore, che gli affari del padre non erano i suoi! Un legale avrebbe il

diritto di chiedergli da trenta a quarantamila franchi di onorari, l'uno per cento sulla

somma dei debiti. Ma, pazienza, i creditori vantano ancora legittimamente un milione e

duecentomila franchi, e io farò dichiarare il fallimento di suo padre. Mi sono imbarcato in

quest'affare sulla parola di quel vecchio marpione di Grandet, e ho fatto delle promesse a

nome della famiglia. Se al signor conte d'Aubrion interessa poco il suo onore, a me

interessa molto il mio. Quindi spiegherò ai creditori la mia posizione. Tuttavia ho troppo

rispetto per Mlle Eugénie, con la quale, in tempi più felici, avevamo pensato di legarci, per

passare all'azione prima che tu le abbia parlato di questa faccenda...»

A questo punto, Eugénie restitui con freddezza la lettera senza finire di leggerla.

«Vi ringrazio,» disse a Mme des Grassins, «vedremo.»

«State parlando come vostro padre,» disse Mme des Grassins.

«Signora, dovete versarci ottomilacento franchi in oro,» le disse Nanon.

«È vero; fatemi il favore di venire con me, Mme Cornoiller.»

«Signor parroco,» disse Eugénie con un nobile sangue freddo che le veniva da ciò

che stava per dire, «sarebbe peccato se rimanessi in stato di verginità nel matrimonio?»

«È un caso di coscienza del quale non conosco la soluzione. Se volete sapere ciò che

ne pensa nella somma De matrimonio il celebre Sanchez, potrò dirvelo domani.»

Uscito il parroco, Mlle Grandet salì nello studio del padre e vi passò la giornata da

sola senza nemmeno scendere all'ora di cena, malgrado le insistenze di Nanon.

Ricomparve la sera, all'ora in cui cominciavano ad arrivare i soliti frequentatori della casa.

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Mai la casa dei Grandet era stata così piena di gente come in quella serata. La notizia del

ritorno e dello sciocco tradimento di Charles si era sparsa in tutta la città. Ma, la curiosità

dei visitatori per quanto fosse acuta, rimase insoddisfatta. Eugénie, che se l'era aspettato,

non lasciò trapelare sul volto calmo alcuna delle crudeli emozioni che l'agitavano. Assunse

un'espressione ridente per rispondere a coloro che vollero dimostrarle il loro interesse con

sguardi o parole malinconiche. Insomma seppe dissimulare la propria infelicità sotto i veli

della buona educazione. Verso le nove, le partite finivano, e i giocatori lasciavano i tavoli,

regolavano i conti, discutevano sulle ultime mani di whist e andavano a raggiungere gli

altri che conversavano. Nel momento in cui tutti si alzarono per andarsene, ci fu un colpo

di scena che fece scalpore a Saumur, e successivamente nel circondario e nelle quattro

prefetture limitrofe.

«Restate, signor presidente,» disse Eugénie a M. de Bonfons, quando lo vide

prendere il bastone.

A queste parole, non ci fu alcuno in quella numerosa compagnia che non si sentisse

turbato. Il presidente impallidì e dovette sedersi.

«I milioni al presidente,» disse Mlle de Gribeaucourt.

«È chiaro, il presidente de Bonfons sposa Mlle Grandet,» esclamò Mme d'Orsonval.

«Ecco la migliore mano della serata,» disse padre Cruchot.

«È un bello schleem,» disse il notaio.

Ognuno disse la sua, ognuno fece una battuta, tutti vedevano l'ereditiera in cima ai

suoi milioni come su un piedestallo. Il dramma cominciato nove anni prima giungeva alla

fine. Dire al presidente, davanti a tutta Saumur, di restare, non era come annunciare che

voleva sposarlo? Nelle piccole città, le convenienze vengono osservate in modo così

rigoroso, che una infrazione del genere equivale alla più solenne delle promesse.

«Signor presidente,» gli disse Eugénie con voce emozionata, «io so ciò che vi piace

di me. Giurate di lasciarmi libera per il resto della mia vita, di non ricordarmi mai i diritti

che il matrimonio vi darà su di me, e la mia mano è vostra. Oh!» riprese vedendo che

l'altro si buttava in ginocchio, «non ho finito. Non voglio ingannarvi, signore. Porto nel

cuore un sentimento inestinguibile. L'amicizia sarà il solo sentimento che potrò accordare

a mio marito: non voglio offenderlo e nemmeno contravvenire alle leggi del mio cuore.

Voi avrete la mia mano e il mio patrimonio solo a prezzo di un immenso servizio.»

«Sono pronto a tutto,» disse il presidente.

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«Ecco un milione e mezzo di franchi, signor presidente,» disse lei tirando fuori dal

seno un'attestazione per cento azioni della Banca di Francia, «partite per Parigi, non

domani, non questa notte, ma in questo preciso istante. Recatevi da M. des Grassins, fatevi

dare i nomi di tutti i creditori di mio zio, riuniteli, pagate tutto ciò che grava sulla

successione, capitale e interessi al cinque per cento dal giorno in cui fu contratto il debito

fino a quello del rimborso, infine fatevi rilasciare una ricevuta generale compilata in buona

forma da un notaio. Voi siete magistrato, mi fido di voi per quest'affare. Voi siete un uomo

leale, un galantuomo; sulla vostra parola io sarò disposta ad affrontare i pericoli della vita

al riparo del vostro nome. Noi avremo l'uno per l'altra una reciproca indulgenza. Ci

conosciamo da tanto tempo, siamo quasi parenti, non vorrete certo rendermi infelice.»

Il presidente cadde ai piedi della ricca ereditiera, ansimando per la gioia e

l'angoscia.

«Sarò il vostro schiavo!» le disse.

«Quando avrete la ricevuta, signore,» riprese lei gettandogli un'occhiata gelida, «la

porterete con tutti i titoli di credito a mio cugino Grandet, e gli consegnerete questa lettera.

Al vostro ritorno, io manterrò la mia parola.»

Il presidente capì che doveva Mlle Grandet a un dispetto amoroso; si affrettò quindi

a eseguire gli ordini con la massima prontezza, per evitare che fra i due amanti

intervenisse una riconciliazione.

Quando M. de Bonfons se ne fu andato, Eugénie si lasciò andare su una poltrona e

scoppiò in lacrime. Tutto era consumato. Il presidente prese la diligenza e arrivò a Parigi

l'indomani sera. La mattina del giorno seguente andò da des Grassins.

Il magistrato convocò i creditori nello studio del notaio presso il quale erano

depositati i titoli di credito, e nessuno mancò all'appello. Benché fossero dei creditori,

bisogna rendere loro giustizia: furono puntuali.

Il presidente de Bonfons, a nome di Mlle Grandet, pagò il capitale e gli interessi

dovuti. Il pagamento degli interessi fu per l'ambiente commerciale di Parigi uno degli

avvenimenti più sbalorditivi dell'epoca. Quando la ricevuta fu registrata e des Grassins

compensato per il suo lavoro con la somma di cinquantamila franchi assegnatagli da

Eugénie, il presidente si recò a palazzo d'Aubrion, e vi trovò Charles che stava rientrando

nel suo appartamento dopo una sfuriata del suocero. Il vecchio marchese gli aveva detto

che avrebbe avuto sua figlia solo quando tutti i creditori di Guillaume Grandet fossero

stati pagati.

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Per prima cosa il presidente gli consegnò la lettera che segue:

«Cugino,

Il signor presidente de Bonfons si è incaricato di rimettervi la quietanza liberatoria

di tutte le somme dovute da mio zio e quella con la quale riconosco di aver ricevuto tali

somme da voi. Mi hanno parlato di fallimento! Ho pensato che forse il figlio di un fallito

non avrebbe potuto sposare Mlle d'Aubrion. Sì, cugino, avete ben giudicato la mia

mentalità e i miei modi: io non sono fatta per il mondo, non ne conosco i calcoli e le

usanze, e non saprei darvi i piaceri che voi volete trovarvi. Siate felice, secondo le

convenzioni sociali alle quali sacrificate il nostro primo amore. Per rendere completa la

vostra felicità non posso offrirvi altro che l'onore di vostro padre. Addio, avrete sempre

un'amica fedele in vostra cugina,

EUGÉNIE.»

Il presidente sorrise udendo l'esclamazione di quell'ambizioso nel momento in cui

ricevette l'atto autenticato.

«Ci comunicheremo reciprocamente i nostri matrimoni,» gli disse.

«Ah! voi sposate Eugénie. Bene, sono contento, è una brava ragazza. Ma allora,»

soggiunse, colpito a un tratto da un'idea illuminante, «è ricca?»

«Aveva,» rispose il presidente con un'aria ironica, «fino a quattro giorni fa, quasi

diciannove milioni; oggi ne ha solo diciassette.»

Charles guardò il presidente come inebetito.

«Diciassette... mil...»

«Diciassette milioni, sì, signore. Sposandoci, Mlle Grandet e io mettiamo insieme

una rendita di settecentocinquantamilalire.»

«Caro cugino,» disse Charles riprendendosi, «potremo spalleggiarci l'un l'altro.»

«D'accordo,» disse il presidente. «Ecco, inoltre, una cassetta

che devo consegnare personalmente a voi,» aggiunse mettendo sul tavolo il

cofanetto che conteneva il nécessaire da toeletta.

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«Ebbene, caro amico,» disse la signora marchesa d'Aubrion entrando senza far caso

a Cruchot, «non preoccupatevi per ciò che vi ha detto il povero M. d'Aubrion, che si è

lasciato montare la testa dalla duchessa di Chaulieu. Ve lo ripeto, nulla impedirà il vostro

matrimonio...»

«Nulla, signora,» rispose Charles. «Il debito di tre milioni che un tempo aveva mio

padre è stato saldato ieri.»

«In denaro?» chiese lei.

«Integralmente, interessi e capitale, e io farò riabilitare la sua memoria.»

«Che stupidaggine!» esclamò la suocera. «Chi è questo signore?» disse all'orecchio

del genero, quando si accorse di Cruchet.

«Il mio agente d'affari,» le rispose Charles a bassa voce.

La marchesa salutò con fare altezzoso M. de Bonfons e uscì.

«Ci stiamo già spalleggiando,» disse il presidente prendendo il cappello. «Addio,

cugino.»

«Si burla di me, questo cacatoa di Saumur. Avrei voglia di cacciargli sei pollici di

ferro nel ventre.»

Il presidente era uscito. Tre giorni dopo, M. de Bonfons, di ritorno a Saumur, fece le

pubblicazioni del suo matrimonio con Eugénie. Sei mesi più tardi veniva nominato

consigliere al tribunale reale di Angers. Prima di lasciare Saumur, Eugénie fece fondere i

gioielli che per tanto tempo erano stati cari al suo cuore, e insieme con gli ottomila franchi

del cugino ne fece fare un ostensorio d'oro che donò alla parrocchia nella quale aveva

tanto pregato per lui! Comunque ella divise il suo tempo fra Angers e Saumur. Il marito,

che in una circostanza politica aveva dato prova di lealismo, diventò presidente di sezione

e in capo a qualche anno primo presidente. Attese con impazienza le rielezioni generali

per poter avere un seggio alla Camera. Ambiva a diventare pari, e allora...

«Allora, il re diventerebbe suo cugino,» diceva Nanon, la grande Nanon, Mme

Cornoiller, borghese di Saumur, quando la padrona le comunicò a quali altezze era

chiamata. Tuttavia, il signor presidente de Bonfons (alla fine aveva abolito il patronimico

Cruchot) non poté realizzare nessuno dei suoi progetti ambiziosi. Morì otto giorni dopo

essere stato eletto deputato di Saumur. Dio che vede tutto e non colpisce mai a caso, lo

punì senza dubbio per i suoi calcoli e per la scaltrezza giuridica con la quale aveva redatto,

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accurante Cruchot, il contratto di matrimonio in virtù del quale i due futuri sposi cedevano

l'uno all'altro, nel caso in cui non avessero figli, l'universalità dei loro beni, mobili e immobili,

nessuno eccettuato o riservato, in proprietà assoluta, dispensandosi anche dalla formalità

dell'inventario, senza che l'omissione del detto inventario possa essere opposta ai loro eredi o aventi

causa, intendendo che la detta donazione sia ecc. Questa clausola spiega il profondo rispetto

che il presidente ebbe sempre per la volontà, per la solitudine di Mme de Bonfons. Le

donne elogiavano il signor primo presidente come un uomo fra i più delicati, lo

compativano e arrivavano spesso a mettere sotto accusa il dolore, la passione di Eugénie, e

lo facevano con ipocrisie crudeli come sanno fare le donne nei confronti di una donna.

«Bisogna che la signora presidentessa de Bonfons stia proprio male per lasciare solo

il marito. Povero donnino! Guarirà presto? Ma che cosa ha, una gastrite, un cancro? Perché

non si fa visitare da qualche medico? Da un po' di tempo ha messo su un colorito

giallastro; dovrebbe andare a consultare qualche celebrità a Parigi. Come può non

desiderare un bambino? Dicono che ami molto il marito; perché, nella sua posizione, non

gli dà un erede? È spaventoso, sapete; e se la causa fosse un capriccio, sarebbe riprovevole.

Povero presidente!»

Dotata di quell'intuito che una creatura solitaria sviluppa attraverso le continue

meditazioni e la visione acuta con cui percepisce le cose che rientrano nella sua sfera,

Eugénie, abituata dall'infelicità e dalla sua ultima educazione a indovinare tutto, sapeva

che il presidente desiderava la sua morte per ritrovarsi padrone di quella immensa fortuna

accresciuta per giunta dalle eredità dello zio notaio e dello zio prete, che Dio aveva voluto

chiamare a sé. La povera reclusa aveva pietà del presidente. La Provvidenza la vendicò dei

calcoli e dell'infame indifferenza di uno sposo che rispettava, come la più forte delle

garanzie, la passione senza speranza di cui si nutriva Eugénie. Dare la vita a un figlio, non

sarebbe stato come distruggere le speranze dell'egoismo, le gioie dell'ambizione

vagheggiate dal primo presidente? Dio gettò dunque mucchi d'oro alla sua prigioniera, cui

l'oro era indifferente e che aspirava al cielo, che viveva, pia e buona, fra santi pensieri, che

in segreto soccorreva sempre gli infelici. Mme de Bonfons rimase vedova a trentatré anni,

con una rendita di ottocentomila lire, ancora bella, ma come lo è una donna che si avvicina

alla quarantina. Il viso è bianco, riposato, calmo. La voce è dolce e contenuta, i suoi modi

sono semplici. Ella ha la nobiltà del dolore, la santità di una persona che non si è

macchiata l'anima a contatto con il mondo, ma anche la rigidità della vecchia zitella e le

abitudini meschine che derivano dalla limitata vita di provincia. Malgrado le sue

ottocentomila lire di rendita, vive come aveva vissuto la povera Eugénie Grandet, accende

il fuoco in camera sua nei giorni in cui un tempo suo padre le permetteva di accendere il

camino in sala, e lo spegne secondo il programma in vigore quando era giovane. Va vestita

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sempre come sua madre. La casa di Saumur, casa senza sole, senza calore, sempre

all'ombra, malinconica, è l'immagine della sua vita. Ella accumula con cura le entrate, e

forse sembrerebbe parsimoniosa se non smentisse i maldicenti usando nobilmente la sua

ricchezza. Fondazioni pie e caritatevoli, un ospizio per vecchi e scuole cristiane per i

bambini, una biblioteca pubblica con un ricco fondo, testimoniano ogni anno contro

l'avarizia che le rinfacciano certe persone. Le chiese di Saumur devono a lei degli

abbellimenti. Mme de Bonfons, che, per burla, chiamano signorina, ispira in genere, un

rispetto religioso. Questo nobile cuore, che batteva solo per i sentimenti più teneri, è

soggetto ai calcoli dell'interesse umano. Il denaro finisce per trasmettere le sue tinte fredde

a questa vita celeste e infondere diffidenza per i sentimenti a una donna che era tutta

sentimento.

«Non ci sei che tu a volermi bene,» diceva a Nanon.

La mano di questa donna cura le piaghe segrete di tutte le famiglie. Eugénie si avvia

verso il cielo accompagnata da un corteo di buone azioni. La grandezza della sua anima

annulla le piccolezze della sua educazione e le abitudini contratte in gioventù Ecco la

storia di questa donna, che non appartiene al mondo pur standoci in mezzo; che, fatta per

essere una sposa e madre magnifica, non ha né un marito né dei figli né una famiglia. Da

qualche giorno, si parla di nuovo di matrimonio. La gente di Saumur si occupa di lei e del

marchese di Froidfond, la cui famiglia comincia a circuire la ricca vedova come un tempo

avevano fatto i Cruchot. Nanon e Cornoiller, si dice, appoggiano il marchese; ma niente è

più falso. Né la grande Nanon né Cornoiller hanno abbastanza cervello per capire le

corruzioni del mondo.

Parigi, settembre 1833