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Chroniques italiennes web 27 (1/2014) EXEMPLUM E CONTROESEMPIO NELLE LETTERE DI BERNARDO TASSO I. Bernardo Tasso, nato forse a Venezia, più probabilmente a Bergamo nel 1493, si avviò alla carriera di cortigiano dopo una formazione in ambito padovano entrando al servizio del conte Guido Rangone nel 1525. Nel 1528, senza che i motivi ne siano noti 1 , passò a quello della principessa Renata di Francia, che si accingeva a sposare il duca Ercole II d’Este. Nel 1532 si mise alle dipendenze di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e imparentato con Carlo V. Le numerose peregrinazioni da lui compiute negli anni successivi e fino alla morte, sopraggiunta nel 1569, permettono di definirlo come un «intellettuale itinerante» 2 . Nel 1542, dopo un breve 1 Sappiamo soltanto che nelle lettere XXVII e XXVIII del primo volume, il Tasso sconsigliò al Rangone di lasciare il servizio di Venezia e lo redarguì per non averlo ascoltato. Cfr. Li due libri delle lettere di M. Bernardo Tasso intitolati a Monsig. D’Aras. Con gratia e privilegio del Sommo Pontefice Paolo III e dell'IIlustriss. Senato Vinitìano per anni dieci, in Vinegia, nella bottega d’Erasmo di Vincenzo Valgrisi. MDLXLIX. Adoperiamo la seguente ristampa: TASSO Bernardo, Li tre libri delle lettere, alli quali nuovamente s’è aggiunto il quarto libro, ristampa anastatica dell’edizione Giglio, 1559, a cura di D. RASI, Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 2002 (d’ora in poi abbreviato in Lettere, I), pp. 62-69. 2 Formula presa in prestito a G. Arbizzoni, curatore della voce Bernardo Tasso in «Autografi di letterati italiani» dir. da M. MOTOLESE e E. RUSSO, in Il Cinquecento, t. II, a cura di M. MOTOLESE, P. PROCACCIOLI e E. RUSSO, con la consulenza paleografica di A. CIARALLI, Roma, Salerno Ed., 2013, pp. 345-358 e corroborata dalla confessione dell’interessato: «la mia lunga e quasi continua peregrinazione, la quale a guisa di corriero

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Chroniques italiennes web 27 (1/2014)

EXEMPLUM E CONTROESEMPIO NELLE LETTERE DI BERNARDO TASSO

I. Bernardo Tasso, nato forse a Venezia, più probabilmente a Bergamo nel 1493, si avviò alla carriera di cortigiano dopo una formazione in ambito padovano entrando al servizio del conte Guido Rangone nel 1525. Nel 1528, senza che i motivi ne siano noti1, passò a quello della principessa Renata di Francia, che si accingeva a sposare il duca Ercole II d’Este. Nel 1532 si mise alle dipendenze di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno e imparentato con Carlo V. Le numerose peregrinazioni da lui compiute negli anni successivi e fino alla morte, sopraggiunta nel 1569, permettono di definirlo come un «intellettuale itinerante»2. Nel 1542, dopo un breve

1 Sappiamo soltanto che nelle lettere XXVII e XXVIII del primo volume, il Tasso sconsigliò al Rangone di lasciare il servizio di Venezia e lo redarguì per non averlo ascoltato. Cfr. Li due libri delle lettere di M. Bernardo Tasso intitolati a Monsig. D’Aras. Con gratia e privilegio del Sommo Pontefice Paolo III e dell'IIlustriss. Senato Vinitìano per anni dieci, in Vinegia, nella bottega d’Erasmo di Vincenzo Valgrisi. MDLXLIX. Adoperiamo la seguente ristampa: TASSO Bernardo, Li tre libri delle lettere, alli quali nuovamente s’è aggiunto il quarto libro, ristampa anastatica dell’edizione Giglio, 1559, a cura di D. RASI, Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 2002 (d’ora in poi abbreviato in Lettere, I), pp. 62-69. 2 Formula presa in prestito a G. Arbizzoni, curatore della voce Bernardo Tasso in «Autografi di letterati italiani» dir. da M. MOTOLESE e E. RUSSO, in Il Cinquecento, t. II, a cura di M. MOTOLESE, P. PROCACCIOLI e E. RUSSO, con la consulenza paleografica di A. CIARALLI, Roma, Salerno Ed., 2013, pp. 345-358 e corroborata dalla confessione dell’interessato: «la mia lunga e quasi continua peregrinazione, la quale a guisa di corriero

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periodo di disgrazia presso il principe, ottenne di essere sollevato da tutti i doveri di corte e poté in tal modo ritirarsi con la famiglia a Sorrento, forse verso l’inizio del 1543, in modo da portare avanti la composizione del suo Amadigi. Ma questa pausa dedicata all’otium letterario fu di breve durata e il Sanseverino lo richiamò con sé in Piemonte all’inizio del 1544. Il figlio, Torquato, frutto del matrimonio con Porzia de’ Rossi, gli nacque nel marzo dello stesso anno mentre si trovava ancora nel nord Italia.

Un probabile spartiacque è costituito dalla data del 1547, quando, in seguito al tentativo del viceré spagnolo d’introdurre l’Inquisizione spagnola nella città partenopea, il Sanseverino si schierò fra gli oppositori e dovette successivamente optare per il campo francese3. Dal momento in cui la notizia del suo cambiamento di alleanza pervenne a Napoli, i suoi beni furono sequestrati insieme a quelli del Tasso, considerato anch’egli un traditore per averlo seguito. Inizia a questo punto la seconda parte più movimentata ed infelice della vita del segretario. Fallito il tentativo di persuadere il re francese, Enrico II, ad una nuova conquista del regno di Napoli, tornò a Roma nel 1554 dove lo raggiunse il solo Torquato4. L’anno 1556 si rivelò particolarmente infausto in quanto fu duramente colpito dalla morte improvvisa della moglie rimasta nel regno di Napoli e perché buona parte della sua dote venne assegnata per metà ai cognati e per metà al governo imperiale. Dopo aver perso tutti i suoi beni, l’ormai navigato cortigiano vide quindi sfumare anche quelle poche rendite su cui poteva contare. Nell’agosto, la guerra con gli Spagnoli lo costrinse a lasciare Roma. Riparò a Pesaro presso la corte di Guidobaldo II della Rovere e furono quegli gli anni del distacco doloroso e acrimonioso dal principe di Salerno. Il suo soggiorno presso la raffinata corte urbinate fu comunque allietato dalla possibilità di mettere l’ultima mano al suo Amadigi. Per sovrintendere alla stampa si recò a Venezia verso la fine del 1558 e accettò la nomina a

or questa, ora quell’altra parte del mondo mi faceva andar cercando», cfr. Lettere I, LXXXII, pp. 148-153, che riecheggia in tal modo il sentimento di stanchezza espresso dall’Ariosto nel celebre verso 99 della prima Satira: «di mercé degno è l’ir correndo in posta». 3 Per maggiori ragguagli su questa parte della biografia di Bernardo Tasso, cfr. D. FRATANI, «De courtisan à ‘caval vecchio’: Bernardo Tasso dans la tourmente de l’histoire napolitaine», in PART[h]Enope, Naples et les arts/ Napoli e le arti, a cura di C. FAVERZANI, Berne, Peter Lang, 2013, pp. 143-172. 4 Bernardo non riuscì a far uscire moglie e figlia dai confini del regno di Napoli.

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cancelliere dell’Accademia della Fama. Non rimase molto a lungo nell’incarico e dopo il fiasco commerciale dell’opera o il successo editoriale ̶ a seconda delle interpretazioni5 ̶ ricominciò a girovagare in cerca di nuovi protettori. Ottenne un impiego presso gli Este, poi presso i Gonzaga al cui servizio si spense dopo un altro periodo di ininterrotti e logoranti spostamenti6.

II. Nel contempo letterato e cortigiano, il Tasso compose e pubblicò

numerose opere poetiche, elegie, odi, egloghe, sonetti pastorali, poesie d’amore coniugale, sonetti amorosi e canzoni dal 1531 fino alla morte7. La

5 I pareri divergono in proposito: Williamson (E. WILLIAMSON, Bernardo Tasso, versione italiana di D. ROTA, Bergamo, Centro Studi tassiani, 1993 (stampa 1994)) evoca un favore del pubblico tale da necessitare una nuova stampa dell’Amadigi, mentre Dionisotti («Amadigi e Rinaldo a Venezia», in La ragione e l’arte. Torquato Tasso e la repubblica veneta, a cura di G. DA POZZO, Venezia, Il cardo editore, 1995, p. 14) sottolinea invece l’insucesso del romanzo: «L’insucesso dell’Amadigi fu in parte causato dalla mole dell’opera e da un’ambizione troppo ostentata e però anche troppo stanca, inferiore alla mira. I lettori che non erano mai sazi allora dell’originario Amadigi in semplice prosa, a buon mercato, non erano attratti da un libro costoso, in cui la materia stessa era artificiosamente rielaborata per un diverso pubblico di oziosi letterati. Questi a loro volta erano pronti a rilevare i punti deboli, in tanta mole di quell’artificio». Sulla scorta del capitolo dedicato dalla Mastrototaro all’insuccesso dell’Amadigi (in M.C. MASTROTOTARO, Per l’orme impresse da Ariosto, tecniche compositive e tipologie narrative nell’ ‘Amadigi’ di Bernardo Tasso, Roma, Aracne, 2006, pp. 99-104) un riassunto esaustivo della situazione e delle posizioni dei diversi critici intervenuti nel dibattito (Foffano, Williamson, Bongi, Dionisotti, Mastrototaro) è effettuato da R. MORACE, Dall’ ‘Amadigi’ al ‘Rinaldo’, Bernardo e Torquato Tasso tra epico ed eroico, Alessandria, Dell’Orso, 2012, p. 33, n. 75. Rimane il fatto che se in una sua lettera al Duca di Parma (in A. RONCHINI, Lettere d’uomini illustri conservate in Parma nel R. Archivio di Stato, volume primo, Parma, dalla Reale Tipografia, MDCCCLIII, p. 607), B. Tasso esprime la necessità d’immettere altri duemila volumi sul mercato, nessuna traccia di questa seconda pubblicazione sussiste nei cataloghi odierni e la situazione finanziaria dell’autore non sembra esser migliorata in conseguenza. 6 Per una biografia più completa, cfr. E. WILLIAMSON, Bernardo Tasso, cit., pp. 25-133. Si possono consultare anche A. SOLERTI, Vita di Torquato Tasso, vol. I., La vita, Torino-Roma, Loescher, 1895, cap. I-IV; P. D. PASOLINI, I genitori di Torquato Tasso. Note storiche raccolte da P.D.P., Roma, Loescher, 1895; S. BARBIERI, Ombre e luci sulla vita e sulla poesia di Bernardo Tasso, Bergamo, Scuola Tipografica Patronato San Vincenzo, 1972; R. AGNES, «Bernardo Tasso» in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. BRANCA, UTET, Torino, 1974, 2° edizione, vol. IV, pp. 248-251. 7 Verso la fine della vita, mentre sta a Mantova presso i Gonzaga, non pubblica più, ma si dedica alla composizione del Floridante che sarà poi terminato dal figlio Torquato. Una

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sua esperienza poetica culminò con la pubblicazione di tre libri di poesie intitolati Amori8 a cui seguirono un quarto libro (1555)9 e, nel 1560, un quinto libro di Rime10. Il Tasso redasse pure due raccolte epistolari pubblicate a Venezia nel 1549 e nel 156011, nonché un romanzo cavalleresco intitolato L’Amadigi di Gaula (1560) che rappresenta l’ultima sua opera di una certa entità12 e l’epilogo di una carriera interamente svoltasi all’ombra delle corti. L’incessante attività letteraria attestata da una costante presenza di sue lettere nelle antologie coeve13 nonché, più tardi, il successo o per lo bibliografia del poema è fornita da R. MORACE, Dall’ ‘Amadigi’ al ‘Rinaldo’, cit., pp. 330-331. Vedasi anche Bernardo e Torquato TASSO, Floridante, edizione critica, a cura di V. CORSANO, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006. 8 Il primo nel 1531, il secondo (comprendente une riedizione del precedente) nel 1534 e il terzo nel 1537. Cfr. B. TASSO, Rime, a cura di D. CHIODO e V. MARTIGNONE, Torino, Res, 1995, I. 9 Inserito in una raccolta che riproponeva i primi tre: I tre libri degli Amori di M. Bernardo Tasso e nuovamente dal proprio Autore si è aggiunto il Quarto Libro, per addietro non più stampato, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLV. 10 Divisa in cinque libri, quest’edizione comprende l’intera produzione poetica precedente del Tasso a cui si aggiungono i Salmi e le Odi. Rime di Messer Bernardo Tasso divise in cinque Libri nuovamente stampate. Con la sua Tavola per ordine di Alfabetto. Con privilegio, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLX. 11 Delle lettere di M. Bernardo Tasso, secondo volume, nuovamente posto in luce, con gli argomenti per ciascuna lettera e con la tavola. Con privilegio del Sommo Pontefice Pio III, & dell'Illustrissimo Senato veneto, & d'altri Principi. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLX. Ricorriamo all’edizione più recente: TASSO B., Lettere, II, ristampa anastatica dell’edizione Giolito 1560, a cura di A. CHEMELLO, Sala Bolognese (BO), Arnaldo Forni editore, 2002, ormai abbreviata in Lettere, II. 12 Ma non l’ultima in assoluto, poiché nel 1559 il Tasso recitò all’Accademia veneziana un discorso che fu pubblicato nel 1562: Ragionamento della poesia, Vinegia, Giolito de’ Ferrari, 1562. 13 Novo libro di letere scritte da i più rari auttori et profesori della lingua volgare italiana. Con grazia e privilegio, in Venetia, per Paulo Gerardo, MDXLIIII; Lettere di diversi eccellentiss. huomini raccolte da diversi libri, tra le quali se ne leggono molte non più stampate. Con gli argomenti per ciascuna delle materie di che elle trattano e nel fine annotatione e tavole delle cose più notabili, a utile degli studiosi, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito De Ferrari et Fratelli, MDLIIII; D. ATANAGI, De le lettere di tredici huomini lllustri Libri Tredici: Gli autori: Il Vesc. Di Bàius. Il Sanga. Il Guidiccione. Il Vescovo di Verona. M. Francesco de la Torre. Il Sadoleto. L' Ardinghello. M. Marcant. Flaminio. Il Giovio. Il Tasso. M. Annibàl Caro. M. Claudio Tolomei. M. Paolo Sadoleto, Vesc. di Carpentras, in Venetia, l'anno MDLIIII; De le lettere di tredici huomini illustri libri tredici. Gli autori. Il Vesc. di Baius. Il Sanga. Il Guidiccione... Stampati in Roma per Valerio Dorico et Luigi fratelli, nel mese di marzo 1554; Lettere di diversi autori eccellenti. Libro primo, nel quale sono tredici autori illustri & il fiore di quante altre belle lettere si

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meno la notorietà del suo romanzo cavalleresco gli assicurarono un posto rilevante nell’ambiente letterario cinquecentesco. Fu peraltro cortigiano e diplomatico ben integrato e stimato nel mondo delle corti europee; gli indici dei destinatari dei due epistolari comprovano la sua frequentazione di re, principi, papi e dell’imperatore Carlo Quinto, così come quella dei massimi esponenti dell’aristocrazia italiana, della gerarchia ecclesiastica e del mondo letterario14.

sono vedute fin qui. Con molte lettere del Bembo, del Navagero, del Fracastoro, & d'altri famosi Autori non più date in luce. Con privilegio, in Venetia, appresso Giordano Ziletti, all'insegna della Stella, M. D. L.VI; Lettere di XIII huomini illustri, nelle quali sono due libri di diuersi altri auttori et il fiore di quante belle lettere, che fin'hora si sono uedute; con molte del Bembo, del Nauagero, del Fracastoro, del Manutio, & di altri famosi auttori non piu date in luce, in Venetia, per Francesco Lorenzini da Turino, 1560; Lettere di XIII huomini illustri. Nellequali sono due libri di diuersi altri auttori, et il fiore di quante belle lettere, che fin'hora si sono vedute; con molte del Bembo, del Nauagero, del Fracastoro, del Manutio, & di altri famosi autori non piu date in luce, in Venetia, per Comin da Trino di Monferrato, 1561; Lettere di 13 huomini illustri, nellequali sono due libri di diuersi altri auttori, con l'aggionta d'alcune altre uenute in luce. Et il fiore di quante belle lettere, che fin'hora si sono vedute, in Venetia, per Comin da Trino di Monferrato, 1564; Lettere di XII huomini illustri, alle quali oltra tutte l’altre fin qui stampate, di nuovo ne sono state aggiunte molte da THOMASO PORCACCHI, in Vinetia, presso Giorgio de' Cavalli, MDLXV; Lettere di XIII huomini illustri: allequali oltra tutte l'altre sin qui stampate, di nuouo ne sono state aggiunte molte da Tomaso Porcacchi, in Venetia, appresso gli heredi di Giouan Maria Bonelli, 1571; Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini et eccell. ingegni. Scritte in diverse materie. Fatta da tutti i libri fin'hora stampati. Libro primo. Con un Discorso Della Commodità dello scrivere, di M. BERNARDINO PINO [Marca tipografica di Andrea Muschio], in Venetia, MDLXXIIII; Lettere di XIII huomini illustri, alle quali oltra tutte l'altre fin qui stampate, di nuouo ne sono state aggiunte molte da Tomaso Porcacchi, in Venetia, appresso Iacomo Vidali, 1576; Lettere di XIII huomini illustri, alle quali oltra tutte l'altre fin qua stampate, di nuouo ne sono state aggiunte molte. Da Tomaso Porcacchi, in Venetia, appresso Camillo de' Franceschini, 1582; Lettere di XIII huomini illustri, allequali oltra tutte l'altre fin qua stampate, di nuouo ne sono state aggiunte molte da Tomaso Porcacchi, in Venetia, appresso Fabio & Augustin Zoppini fratelli, 1584; Scelta di lettere di diversi Eccellenti Scrittori, disposta da BARTOLOMEO ZUCCHI, Da Monza; parte prima [-terza]. Ne la quale sono le più belle Lettere che insin qui si siano vedute, con moltissime non ancora uscite in luce, in Venetia, appresso la Compagnia Minima, MDXCV. Citiamo solo le antologie apparse nel Cinquecento. Per tutte quelle successive, cfr. D. FRATANI, «Bibliografia di Bernardo Tasso», a cura di D. FRATANI con la collaborazione di M. CASTELLOZZI, in Line@editoriale, in corso di stampa. 14 Fra i quali Pietro Bembo, Claudio Tolomei, Giambattista Guarini, Lodovico Dolce, Giambattista Giraldi, Dionigi Atanigi, Vittoria Colonna e Sperone Speroni. Si vedano Lettere, II, p. XXVII e l’ Indice dei destinatari.

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III. Le raccolte epistolari del «famoso padre», benché recentemente ripubblicate, non hanno particolarmente attirato l’attenzione dei critici odierni, che non vi hanno ricercato se non qualche testimonianza relativa alla vita o all’opera del nostro. Esse appaiono invece come documenti interessanti e istruttivi non solo per indagare la figura o l’operato di Bernardo Tasso, ma anche per meglio cogliere la situazione degli intellettuali nel sistema delle corti cinquecentesche e i modi di vita connessi al loro statuto.

Il primo dei due epistolari fu stampato a Venezia nel 1549 e copre tutto il periodo che va dal 1525 all’anno di pubblicazione, ossia quello della sua attività diplomatica più intensa. Le lettere che lo compongono sono spesso di carattere molto formale, sprovviste di riferimenti – i deittici spaziali o temporali sono quasi sempre assenti ̶ e non aiutano a capire il contesto della redazione15. Alcuni elementi di carattere storico sono attestati e affidabili, ma nell’insieme la strategia scelta privilegia l’esposizione di un modus scribendi a scapito di una testimonianza epocale o personale, così come appare d’altronde dai titoli scelti per alcune edizioni16. L’originalità di questa raccolta risiede da una parte nell’alternanza fra lettere personali e lettere scritte per conto altrui17 e dall’altra nel suo aspetto alquanto modellizzante che tenta di trasformare ogni singolo testo in exemplum di saper scrivere. Ma, di là di queste caratteristiche, risulta patente la volontà di presentare al pubblico lettere degne di «qualche loda», nonostante diminutio

15 Con qualche eccezione alla regola perché, nonostante non sia datata, la serie di lettere dedicate alla campagna militare del Monferrato abbonda di notazioni dettagliate che permettono di situarle cronologicamente. Cfr. Lettere, I, CXLVI sgg. 16 Il frontespizio dell’edizione del Sansovino nel 1570 riporta: Le lettere di M. Bernardo Tasso, Utili non solamente alle persone private, ma anco ai Secretari de Principi, per le materie che vi si trattano, e per la maniera dello scrivere. Le quali per giuditio de gli intendenti sono le più belle e correnti dell’altre. Di nuovo ristampate, rivedute e corrette con molta diligenza. Lo stesso titolo fu ripreso nel 1578 per un’altra edizione: Le lettere di m. Bernardo Tasso vtili non solamente alle persone priuate, ma anco a secretarij de prencipi, per le materie che vi si trattano, & per la maniera dello scriuere. Di nuouo ristampate, riuedute & corrette con molta diligenza. In Venetia, appresso Giovanni de' Picchi & fratelli, 1578; poi ancora ma più brevemente nel 1580: Le lettere di m. Bernardo Tasso. Vtili (sic) non solamente alle persone priuate, ma anco a Secretarii de Prencipi, di nuouo ristampate, riuedute & corrette con molta diligenza, in Venetia, appresso Domenico Cavalcalupo, 1580. 17 Sono 91 le lettere scritte per lo più in nome di un suo protettore.

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personae e excusationes siano reiterate nelle dediche18. Vedasi ad esempio quella al principe di Salerno:

E che potrete voi a quelli rispondere, che diranno che queste lettere mie povere sono d’invenzione? e che quella povertà eziandio con perfetto artificio ben ordinare e disporre non ho saputo? che io non avrò secondo la varietà delle materie variato gli stili; e quelle con parole, con locuzioni, con figure, con numeri e con altri ornamenti del dire di maniera vestite, che non paiono una vecchia rimbambita, inghirlandata e con la gonna fregiata di più colori? Come da quegli altri mi difenderete, che diranno che non hanno né elezione, né copia di belle parole, che non hanno gravità, piacevolezza, né arguzia? che talora senza metafore, senza comparazioni, senza sentenze e senza l’altre varie figure del parlare, quasi nella primavera sterile e nudo prato si dimostrano19?

Il volume si segnala ugualmente per la ricchezza delle tipologie epistolari proposte al lettore. Difatti, oltre alle scontate lettere di ragguaglio e/o di negotium, praticamente d’obbligo nel libro di un segretario, il nostro sembra voler percorrere l’intera gamma delle possibilità offertegli dal genere e dà prova d’inventività nell’esibire missive dai contenuti più svariati, siano essi letterari, diplomatici, storici, amichevoli, educativi, di cortesia, di ringraziamenti, di raccomandazioni, di rimproveri, di consolazione e così via. Vi include anche delle familiares20, cioè scritti il più delle volte diretti ad amici o familiari e trattanti d’interessi privati, con una volontà simile a quella del Bembo di aprire il campo dell’epistolario alla maggior varietà possibile di materie e di stili e ciò malgrado il rifiuto opposto in proposito da alcuni suoi pari21. Quest’edizione è pure segnata da una profonda vena

18 Verosimilmente, per curare la propria immagine sia presso il pubblico sia presso la corte in cui veniva ospitato. Una stessa ambizione di promozione poetica presiedeva alla pubblicazione del Libro primo degli Amori. Cfr. G. FERRONI, «Note sulla struttura del ‘libro primo degli Amori di Bernardo Tasso’ (1531)», in Studi Tassiani, LV (2007), pp. 39-74: p. 40. 19 Lettere, I, Al sig. principe di Salerno, p. 9. 20 Il vocabolo viene qui usato per designare una tipologia epistolare diversa dalle varianti quali la «lettera faceta» o «amorosa». Cfr. G. MORO, «Selezione, autocensura e progetto letterario: sulla formazione e la pubblicazione dei libri di lettere familiari nel periodo 1542-1552», in Quaderni di retorica e poetica, I, (1985), 1, pp. 69-70. 21 A cominciare dall’amico, Sperone Speroni, che ricusa di fornire sue lettere famigliari per un volume di prossima pubblicazione: «La stampa è cosa totalmente contraria alla profession che vuol fare una lettera famigliare, la quale a guisa di monaca o di donzella dee

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moralizzatrice, volentieri didattica, che pervade la maggior parte delle lettere, specie quelle relative all’attività professionale del cortigiano. Dalla loro lettura emerge in particolare la nozione di «virtù», intesa come un insieme di competenze professionali e di valori umani necessari a costruire ed a consolidare la propria reputazione nella società. In questo contesto, il Tasso insiste su delle qualità come l’amicizia, la fedeltà e l’onestà rivendicando in tal modo per se stesso la qualifica di uomo «virtuoso», aggettivo da cui trapela anche un sentimento di superiorità intellettuale e morale sottinteso che lo conduce a prodigare consigli e ammonimenti al suo entourage onde mettere in rilievo le proprie mansioni che, secondo lui, vanno ben oltre quelle di un semplice segretario e si avvicinano invece a quelle del «consigliere» dei principi così come lo poteva ancora concepire Castiglione.

Nel 1542 per esempio, il Tasso viene calunniato presso il

protettore22. Una volta fugati i sospetti, gli scrive una lunga epistola23 in cui i rimproveri per la credulità si alternano ai consigli sul comportamento da mantenere in simili casi. Illustrata da numerose metafore alla maniera dei grandi scrittori latini cui si ispira, un’esplicita critica dell’accaduto percorre l’insieme del testo che si conclude con una recisa condanna dell’imprudenza del principe richiamato ai suoi obblighi nei confronti di un fedele cortigiano dall’iterazione del verbo «dovere» e del sostantivo «prudenza»:

ne’ quali errori [di corruzione] eziandio ch’io fussi caduto, degno era che avendo rispetto alla mia travagliata, lunga e faticosa servitù, aveste fatto come amorevole nutrice, la qual il fanciulletto caduto prima solleva e poi riprende. Il musico le corde discordanti non subito rompe e gitta via, ma ora tirandole, ora allentandole le accorda all’armonia; così voi con una amorevole riprensione dovevate corregermi e provar di tornarmi buono; non di subito privarmi de la grazia vostra [...] anzi dovevate con il velo della vostra prudenza coprire la mia indegnità [...]. Non doveva vostra Eccellenza lasciare aperte l’orecchie alle parole de gli uomini maligni e

stare ascosa senza esser vista, se non a caso; et chi la mostra a bello studio trammuta lei dal suo essere naturale». Ibid., p. 70. 22 Lettere, I, LXXVII, pp. 135-136, Al cavalier Tasso: «le calunnie sono quelle istesse che v’è stato scritto; i calumniatori uomini sono che più tosto invidiano la mia dignità che amino il bene del Sig. Prencipe». 23 Lettere, I, LXXXI, pp. 143-148.

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invidiosi [...]. Dovevate aprir le orecchie della prudenza e udire le parole della verità nuda e semplice.

Il linguaggio qui adoperato riecheggia, probabilmente non a caso, le formulazioni adottate nel Cortegiano24 e, pur lasciando trasparire tra le righe l’alto concetto che il letterato ha di sé stesso e della sua funzione di modello di comportamento, questa presa di posizione, per quanto negativa sia, testimonia della fedeltà senza servilismo del cortigiano nei confronti del proprio mecenate.

Altri scritti rendono conto a loro volta del suo intento di dedicarsi ad un’attività spiccatamente didattica, reinterpretando in tal modo le posizioni assunte nel trattato del Castiglione25. Verso la fine della propria carriera, in un contesto storico ben preciso, quello del servizio del Sanseverino presso Enrico II e della guerra di Toscana prima del disastro di Marciano26, si rivolge per esempio al nobile napoletano insistendo sulla necessità per un signore di poter far assegnamento su pareri alieni da ogni adulazione:

Signor mio Eccellentissimo, si suol dire che un Prencipe non ha bisogno de cosa alcuna più che di persona che gli dica il vero; e massime in questo così corrotto e infelice secolo; e vo’ che sappiate che il fedele e prudente servidore è quasi colonna saldissima e sostegno de l’onor del Padrone e al

24 Cfr. L. MULAS, «Funzioni degli esempi, funzione del ‘Cortegiano’», in La Corte e il ‘cortegiano’, a cura di C. OSSOLA, Centro Studi Europa delle corti, Roma, Bulzoni Ed., 1980, pp. 97-117. 25 B. CASTIGLIONE, Il Libro del cortegiano, Milano, Garzanti, 1987, IV, 5, pp. 368-369: «Il fine adunque del perfetto cortigiano […] estimo io che sia il guadagnarsi […] talmente la benivolenza e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo de despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viziosa ed indurlo al camin della virtù». 26 La lettera non è datata, però fin dalle prime righe alcuni accenni a Piero Strozzi, comandante delle truppe franco-senesi a Marciano, al cardinale du Bellay incaricato da Enrico II di negoziare un’alleanza con Giulio III, nonché all’ambasciatore, rappresentante ufficiale del re e rivale del cardinale, lasciano capire che è posteriore al 1552, anno in cui il Sanseverino passò nel campo francese, e anteriore alla battaglia di Marciano avvenuta nell’agosto del 1554. Difatti, al momento in cui venne redatta, il segretario del principe di Salerno s’interrogava: «circa il loco dove [F. Sanseverino] si possa trattenere per servizio del Re e de l’impresa, non volendo il Papa che venga in Roma». Cfr. Lettere, II, XLV, pp. 126-131.

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contrario l’adulatore machina da ruinare e precipitare la dignità e la gloria sua […]. Questo mi basta avervi scritto per sodisfare così al debito come all’affezione ch’io porto a Vostra Eccellenza, rendendomi certo che non le debbia despiacere ch’io abbia fatto più tosto ufficio di fedele e veritevol servidore, che d’adulatore e bugiardo27.

Con tutte le precauzioni oratorie d’uso, il Tasso mette ivi in dubbio l’opportunità per il principe di recarsi a Siena. Per motivi poco chiari, sembra che la riputazione del nobile sia messa a repentaglio e il cortigiano si sforza d’illustrargli il pericolo e di raccomandargli la massima prudenza. La raccolta epistolare si trasforma quindi a tratti in un vero e proprio manuale d’institutio principis, pur delineando in filigrana l’immagine che l’autore vuole diffondere di sé, quella di un «buon segretario». Si tratta forse e soprattutto di pubblicizzare ante litteram la rappresentazione lusinghiera di un consigliere capace di guidare i principi che lo ascoltano sul piano politico28 come su quello morale, suggerendo loro le decisioni migliori da prendere nel loro interesse e anche per il bene comune. Desideroso di presentarsi come un modello di virtù, il «famoso padre» si porge come un gentiluomo nel pieno senso della parola, non solo letterato di fama, ma anche cortigiano, diplomatico e onorato padre di famiglia. La prudenza, la saggezza e le competenze ostentate nelle lettere contribuiscono alla creazione di un modello etico non meno dei valori di moralità e di religiosità rivendicate fra le righe fin dalle prime pagine dell’edizione valgrisiana29. Nel quadro di una precisa strategia epistolare, destinata a rilanciare la propria immagine pubblica attraverso la preparazione congiunta di una nuova raccolta epistolare e di un romanzo cavalleresco, i testi proposti al pubblico sono destinati a diffondere sulla scena del «mondo» un autoritratto altamente gratificante.

27 Cfr. Lettere, II, XLV, pp. 126-131. 28 Si leggano in proposito i dispacci diplomatici al momento della battaglia di Pavia con i suoi strascichi militari (Lettere, I, II, pp. 22-23, sgg.), del sacco di Roma (Lettere, I, XIV, pp. 40-41, sgg.), della discesa di Lautrec nel Sud della penisola (Lettere, I, XVII, pp. 46-47, sgg.) e della campagna contro i Francesi nel Monferrato (Lettere, I, CXLV, pp. 264-266, sgg.). 29 Cfr. D. FRATANI, «Témoignages historiques et comptes rendus diplomatiques: l’ouverture du recueil épistolaire de Bernardo Tasso», in Studi Tassiani, LIII (2005), [i.e. 2008], pp. 7-38.

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IV. Il secondo volume, composto di 198 lettere e pubblicato presso Giolito nel 1560, esibisce invece un’immediata differenza rispetto al precedente perché essenzialmente incentrato sulla vita personale dello scrittore dopo la rottura col principe di Salerno. Propone infatti delle tipologie epistolari ben diverse che lasciano ampio spazio alle comunicazioni di carattere privato e ad informazioni sulla vita quotidiana del cortigiano30 come pure a considerazioni autobiografiche circa le difficoltà finanziarie riscontrate nella seconda metà della sua esistenza, con la confisca dei beni napoletani, la morte della moglie e la separazione dalla figlia. Pubblicato lo stesso anno dell’Amadigi, esso rappresenta ugualmente il laboratorio in cui, insieme a letterati illustri come Sperone Speroni o meno noti come Girolamo Molino e Fortunio Spira, il Tasso procede all’elaborazione e alla revisione del romanzo cavalleresco.

Rispetto alla fortuna editoriale del primo libro, questa raccolta non conobbe la stessa ricezione favorevole da parte del pubblico italiano. Difatti, mentre quello godette di un’eccezionale longevità ̶ dal 1549 al 2002, si contano all’incirca31 ventotto riedizioni32 ̶ il secondo invece fu ristampato una volta sola nel 1574. La disparità di successo va spiegata con il loro contenuto: mentre il carattere retorico, linguisticamente molto forbito, del primo volume lo qualificò rapidamente per una riutilizzazione come modello di scrittura già dal 1570, i vari scritti che riguardano la composizione, poi la revisione dell’Amadigi, il carattere più intimo, più informativo del secondo, i riferimenti a luoghi, eventi, persone ben precise fanno sì che i testi che lo compongono non risultino più leggibili alcuni anni dopo la pubblicazione quando i ricordi del pubblico cominciano a svanire.

All’origine di questo divario si trovano, almeno in parte, i drammatici eventi a cui abbiamo accennato nella biografia sommaria del nostro, cioè la nomina a viceré di Pedro de Toledo, il suo tentativo d’istaurare a Napoli l’Inquisizione spagnola33, l’insurrezione dei Napoletani 30 Lettere, II, p. XXII: «Le lettere del Secondo volume tendono ad essere connotative, sono sature di informazioni concrete, legate ad una dimensione tutta familiare e personale, dove i nomi, i luoghi, i fatti, la cronologia, hanno una immediata referenzialità, dove i nessi sono precisi e concreti, rinviano ad un tempo storico, a consuetudini esistenziali quotidiane: la guerra, la malattia, l’economia familiare, gli spostamenti, i bisogni primari, ecc.». 31 Un inevitabile margine d’imprecisione è dovuto all’irreperibilità di alcune delle edizioni. 32 Per la storia delle edizioni del primo volume, si veda Lettere, I, pp. XVII-XIX. 33 Cioè una Inquisizione strettamente dipendente dal potere politico e in grado d’istruire processi e confiscare beni. Cfr. J. C. D’AMICO, «Charles Quint, Pedro de Tolède et les émeutes napolitaines de 1547», in Fra Italia e Spagna. Napoli crocevia di culture durante

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e l’accettazione da parte del Sanseverino dell’incarico di rappresentante del ceto nobiliare presso l’imperatore. È probabile che lo stesso Tasso abbia la sua parte di responsabilità in questa catena di eventi che lo condusse poi a girovagare ramingo da una corte all’altra, in quanto indusse decisamente il principe a recarsi presso la corte imperiale in uno scritto in cui risaltano i termini di «reputazione», «dignità», «gloria» e «onore»:

[…] come potrete voi con scusa che abbia né del ragionevole né dell’onesto ricusar questa andata? dalla quale dipende la riputazione, il beneficio e la salute universale di questo regno […] Qual più onorata occasione e degna dell’intelletto e della grandezza vostra, vi potea portar la fortuna, di questa? […] potrete mostrar la grandezza dell’animo vostro, con sodisfazione e beneficio della patria vostra, di tutto questo regno e con vostra reputazione e dignità […] qual beneficio può esser maggior di questo, donde depende la conservazione dell’onor, delle facultà e della vita? […] Chi adunque non potrà dire che voi non siate perfettamente glorioso34?

Il Sanseverino scelse di ascoltare il Tasso35 probabilmente perché i suggerimenti che gli dava corrispondevano ai suoi sentimenti e in particolar modo all’antagonismo che lo opponeva da diversi anni al rappresentante del potere spagnolo. Si sa che la missione fallì36 e quali ne furono le concretissime conseguenze per il principe e il suo segretario, cioè l’esilio per entrambi, la separazione dalla famiglia e delle condizioni di vita precarie con un’incessante ricerca di nuovi protettori per il Bergamasco.

il vicereame, a cura di P. CIVIL, A. GARGANO, M. PALUMBO, Napoli, Liguori, «Critica e letteratura», 98, 2011, p. 22. 34 Lettere, I, CCCVII, pp. 501-506. 35 Mentre l’altro segretario del principe invece, Vincenzo Martelli, pur non essendo stato consultato, si era pronunciato recisamente contro simile iniziativa dopo un’attenta osservazione della realtà europea coeva e, in particolare, degli effetti della Riforma sugli equilibri politici, sociali e religiosi della Germania da cui era sortita, nel 1547, la battaglia di Mühlberg nel corso della quale le truppe imperiali avevano sconfitto i protestanti della lega di Smalcalda. L’evento coincise precisamente con la rivolta dei Napoletani, in tal modo che le tensioni dell’area germanica non potevano non apparire come una prefigurazione della situazione del Sud Italia. 36 Per i particolari dell’episodio, Cfr. D. FRATANI, «De courtisan à “caval vecchio”, cit., pp. 143-172.

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Furono proprio queste svariate difficoltà che determinarono il tono autobiografico della seconda raccolta epistolare, con una presenza quantitativamente significativa di familiares: sotto forma di ringraziamenti per chi lo aiutò a corrispondere con la moglie, di «consolatorie» come quella scritta alla sorella in occasione della morte di Porzia, di deplorazioni della sentenza emessa contro di lui, ma anche di «defensorie», in altri termini di perorazioni a difesa delle proprie posizioni indirizzate ad eminenti personaggi della corte spagnola37. In questi scritti, Bernardo sollecita la loro intercessione in modo da ottenere il regale perdono, presentandosi come un virtuoso costretto dalle circostanze a seguire il protettore e come una vittima dell’ingiusto rigore dei giudici, nonché di una «maligna fortuna». Sono testi retoricamente molto elaborati comprendenti un esordio, una breve narratio vitae, un’argomentazione e una perorazione seguita da una conclusione, arricchiti da metafore38, aforismi, massime e sentenze, formule di captatio benevolentiae, nonché anafore tese a suggerire un confiteor39 e interrogativi retorici:

Era io, Signor Eccellentissimo, vassallo ligio di Sua Maestà? aveale io giurato fede o omaggio? avea forse conspirato contra la sua persona propria? Se non, con che giustizia vogliono a me e a’ miei figliuoli dar quella istessa punizione che dispongono le leggi contra chi fosse in sì infame e detestabile error caduto? Non sa ciascuno che il giusto giudice dà il castigo secondo il peccato? e se così è, merito io quella istessa pena che meriterebbe uno di questi scelerati40?

Essi sono preceduti da altri testi destinati ad esponenti della nobiltà spagnola suscettibili di ottenere dalle autorità la revoca, o per lo meno l’attenuazione, 37 Ruy Gomez, principe d’Eboli (Lettere, II, CLXXIV, pp. 558-567), Antoine Perrenot de Granvelle, vescovo di Arras (Lettere, II, CLXXV, pp. 567-574) e Consalvo Perez, cancelliere di Sua Maestà presso il consiglio di stato (Lettere, II, CLXXVI, pp. 574-579). 38 Lettere, II, CLXXIV, pp. 564: «Né per altro la natura, prudentissima madre di tutte le cose, avendo creato il re de le api di forma più grande, più vaga e più leggiadra di loro, l’ha privato di quel pungente aculeo di che esse armate diffendono le ricchezze loro, che per darci a divedere (sic) che al principe l’esser clemente si convenga». 39 Lettere, II, CLXXV, pp. 571: «Io confesso d’esservi andato [a capitular col re di Francia] [...] confesso d’aver [...] de l’invitto imperadore con la lingua e la penna disservito, come correndo io quella fortuna, era necessitato di fare. Confesso medesimamente d’aver al re di Francia, in ricompensa del danno e de la perdita mia, caso che conquistasse il regno, un officio dimandato». 40 Lettere, II, CLXXIV, pp. 558-567.

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della condanna che priva i figli dell’eredità materna41. Tutti sviluppano una stessa tonalità patetica nell’opporre regolarmente l’innocenza dei figli alla crudeltà di un destino fieramente avverso e la propria fedeltà al rigore dei giudici42 in modo da suscitare la compassione dei lettori. Il ricorso ad un lessico adeguatamente drammatico è destinato ad insistere sulla crudeltà della sorte toccatagli e sulla necessità di aiuto in cui si trova. Oltre alle normali, per non dire banali, richieste d’intercessioni43, il poeta ricorre pure ad una vera e propria strategia editoriale consistente nel pubblicare le sue domande d’aiuto in modo da porre sotto i riflettori i destinatari, costringendoli così indirettamente a rispondergli e, nella misura del possibile, a soccorrerlo per non sfigurare sulla «scena del mondo». Un esempio palese è quello della lettera ad Amerigo Sanseverino, parente di Ferrante dunque e amico del Tasso, in cui la motivazione fa capolino alla fine del resoconto dei tormenti patiti:

Io so che voi ch’avete un animo nobile e generoso [...] non solo piangerete con un vostro servidore le sue infelicità, ma procurarete con ogni forza che chi deve, vi doni rimedio [...]44.

Al di là di questo accorgimento, l’autore si rivolge certo a diverse persone, ma tutte suscettibili di conoscersi almeno di nome, in modo da tessere una vera e propria ragnatela epistolare destinata ad invischiare i suoi illustri corrispondenti in una rete di domande incrociate, incitando in tal modo ognuno di loro ad aiutarlo per non essere poi tacciato d’avarizia rispetto agli altri. Strategia epistolare è pure far figurare i loro nominativi in un’opera di cui prevede la pubblicazione, poiché il loro inserimento nella cornice di un

41 Si vedano le lettere a Battista l’Olmo (LXVIII, pp. 196-199), al cardinale di Trento (LXIX, pp. 200-204) e al duca d’Alba (LXX, pp. 204-207). 42 Lettere, II, LXX, pp. 204-207: «La prego dunque quanto posso che si contenti d’aver per raccomandata l’innocenza di questi poveri figliuoli, basti d’avergli privati de le facultà del padre, che ora volerli ancora privare di quel poco antifato che gli è solo rimasto per sostegno de la vita loro [...] e perché i giudici sono più tosto inchinati al beneficio de la corte [...] che a usar equità, supplico Vostra Eccellenza che con la sua auttorità voglia rimediare a questo diffetto». 43 Cfr. per esempio, Lettere, II, LXVIII, pp. 196-199; LXIX, pp. 200-204; LXX, pp. 204-207; LXXIII, pp. 220-223; LXXIV, pp. 223-225. 44 Lettere, II, LIX, pp. 159-163. Il «chi deve», già menzionato due volte, allude chiaramente al principe, così come tutte le accuse velate contenute nel testo.

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sodalizio letterario di alto livello costituisce una forma di ringraziamento pubblico a qualche donatore, come lo fu ad esempio il Duca della Rovere:

mentre [...] mi trovavo a Pesaro, dove da quel cortese e magnanimo principe sono stato onoratamente molti mesi trattenuto [...] dall’obbligo ch’io ho all’eccellentissimo Signor Duca suo fratello, in me nacque un ardentissimo desiderio d’onorar Vostra Eccellenza [Giulia Estense della Rovere]45.

o a chi, probabilmente46, intercedette in suo favore come il cardinale di Trento:

Io non voglio offerirle per tanta grazia altro ricompenso, perché la qualità del mio stato presente nol sopporta e essa non si muove a queste opere di cortesia e di beneficienza con speranza d’averne altro premio che quello che gli dà l’opinione de’ prudenti giudici e la conscienza sua d’aver fatto un atto pieno di pietà e di virtù. Del quale ne farò quell’onorato testimonio a’ posteri che potranno gli scritti miei47.

L’ambiguità di questa nuova raccolta epistolare del 1560 proviene quindi dal suo duplice scopo48; vi è difatti da una parte la volontà dell’autore di riaffermarsi sulla scena intellettuale del suo tempo allorché l’ultima sua pubblicazione risaliva a cinque anni prima49, dopo un periodo infausto in cui, effettivamente, la sorte si era accanita su di lui ̶̶ senza contare il probabile discredito derivatogli dalla condanna che gli era stata inflitta nel 1552 dalle autorità spagnole ̶ e dall’altra quella di perorare la sua causa

45 Lettere, II, A la Illustrissima Signora Donna Giulia Estense Da La Rovere, pp. LXVII-LXIX. 46 In realtà non sappiamo se il prelato intervenne presso i potenti della corte spagnola, ma data l’accurata revisione-selezione del volume di cui testimoniano le lettere rinviate all’oscurità degli archivi, è assai probabile che i ringraziamenti vengano pubblicati a ragion veduta. 47 Lettere, II, LXIX, pp. 200-203. 48 Triplice in realtà se si contano anche gli scritti che testimoniano della gestazione dell’Amadigi in modo da funzionare da introduzione al romanzo ̶ che il Tasso non scrisse mai, lasciando questa cura a Lodovico Dolce ̶ o per lo meno da pubblicità per la futura pubblicazione. 49 Si tratta del quarto libro de gli Amori: I tre libri degli Amori di M. Bernardo Tasso e nuovamente dal proprio Autore si è aggiunto il Quarto Libro, per addietro non più stampato, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLV.

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«sulla scena del mondo», onde conquistare la benevolenza di eventuali altri mecenati in grado di assicurargli una situazione migliore di quella, alquanto precaria, conosciuta negli ultimi anni. In certi scritti di questo epistolario parzialmente autobiografico, il vecchio cortigiano50 denuncia peraltro insistentemente la propria povertà con l’acrimonia di chi ha perso tutto e non riesce ad ottenere riparazione. La presenza di tali testimonianze dettagliate dei propri imbarazzi finanziari appare poco usuale rispetto a quanto si stampava all’epoca. Difatti, alcune lettere destinate al principe di Salerno o a persone del suo entourage più immediato51 menzionano, all’inizio con un certo riserbo, poi in modo sempre più netto, il suo stato di miseria, finanziaria ma anche affettiva, imputandone la responsabilità al principe.

Quelle che alludono alla precarietà della sua situazione costituiscono

un corpus di una trentina di testi52 disseminati fra il 1554 e il 1557, ossia gli anni dell’esilio successivo ai tumulti napoletani, quelli più difficili, quando non drammatici, per il cortigiano. La più emblematica di tutte è forse la LXII in cui, dopo avec tracciato il quadro degli eventi anteriori, sintetizza in poche parole il proprio pietoso stato:

50 Una vecchiaia su cui insiste Dionisotti in: «Amadigi e Rinaldo a Venezia», cit., p. 13. 51 Cfr. Lettere, II, XLV, pp. 126-131; XLIX, pp. 137-140; LX, pp. 163-165; LXV, pp. 177-180; CXLVIII, pp. 481-484. 52 Veramente esplicite in proposito sono le Lettere, II, XXXVI, pp. 104-107; XXXVII, pp. 108-113; XL, pp. 118-120; XLIII, pp. 122-123; XLIV, pp. 124-125; XLIX, pp. 137-140; LI, pp. 142-144; LIX, pp. 159-162; LX, pp. 163-165; LXI, pp. 165-167; LXII, pp. 168-172; LXIII, pp. 172-173; LXIV, pp. 174-176; LXV, pp. 177-180; LXVI, pp. 180-186; LXVIII, pp. 196-199; LXIX, pp. 200-204; LXX, pp. 204-207; LXXIII, pp. 220-223; LXXIV, pp. 223-225; LXXVII, pp. 241-243; CLXII, pp. 519-521; CLXXIV, pp. 558-567; CLXXV, pp. 567-576; CXLVIII, pp. 481-484; CL, pp. 486-490; CLIV, pp. 498-504; CLVII, pp. 508-510; CLXXIX, pp. 583-587; CXC, pp. 613-617; CXCII, pp. 619-621. I riferimenti segnalati col grassetto indicano che le lettere fanno parte di ambedue i corpus, quello che rievoca i propri drammi e descrive la sua attuale e precaria condizione e quello delle lettere in cui il principe di Salerno viene messo in stato d’accusa. Risulta difficile far prova di maggiore precisione in quanto più e più scritti alludono ad una «malvagia fortuna», espressione diventata praticamente topica in questa seconda raccolta. Es: LXXV, pp. 226-227; LXXIX, pp. 245-246; LXXXIV, p. 263; LXXXVI, p. 267; CXVI, pp. 339-341; CXVIII, p. 348; CXXXVIII, p. 447; CXLI, pp. 456-457; CXLIII, p. 467; CXLIV, p. 472; CLI, p. 491; CLII, p. 497.

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[...] son rimasto vecchio, povero, anzi mendico, abbandonato da ogni soccorso umano, in arbitrio de la mia nemica fortuna che non si sazia né si stanca di piagarmi di continuo l’animo con acutissime punte e con un figliuolo, il quale non avendo come onestamente nutricare, accresce la miseria mia e con una figliuola femina, la quale per non aver il modo né di maritarla, né di farla monaca, mi traffige di continuo l’animo [...]. [...] Dura cosa è da prospero e felice stato in tanta miseria cadere che si combatta con la fame53.

La consistenza numerica di tale corpus appare indubbia se si considera che questa tipologia occupa approssimativamente un terzo dell’intero volume. La tematica sviluppatavi incide non poco sull’immagine che il Tasso vuole diffondere di sé stesso. Uno studio del vocabolario di questi scritti e anche di alcuni successivi, mette in risalto la predominanza di una tonalità affettiva, compassionevole in primis per sé stesso. La maledizione della sua malvagia fortuna ricorre all’incirca una quarantina di volte54 e si accompagna alla frequente deprecazione delle sue sciagure55. Il più concreto pendant di questa situazione è reso invece da termini quali «miseria», «necessità», o «estrema necessità» e «ruina» o ancora dagli aggettivi «povero» e «misero», talvolta esemplificati con espressioni verbali come «perduta la facultà», «perdute le mie comodità»56 o «mendicando il vivere». La deplorazione di quanto ha lasciato nell’avventura napoletana e delle sue conseguenze attuali ricopre un campo semantico assai vasto e il grado di presenza di questa terminologia è relativamente elevato, poiché si conta addirittura quasi una cinquantina di occorrenze57. Qua e là, dal 1553 in poi, elementi ancora più materiali quali l’evocazione di somme precise ̶ che si 53 Lettere, II, LXII, pp. 168-172. 54 Le espressioni che s’incontrano più frequentemente sono «maligna fortuna» o le varianti «maligno destino», «malignità della mia fortuna», «adversa fortuna», «nemica fortuna» e compaiono fra la lettera XXXVI datata del 1° di agosto del 1553 e la CXCIV del 10 luglio 1560. 55 Anche in questo caso, fra la lettera XXXVII del 6 settembre 1553 e la CXC del 17 novembre 1559, vocaboli come «miserie» (XXXVII, pp. 108-113); «disgrazie» (LIX, pp. 159-162); «calamità» (LX, pp. 163-165); «adversità» (LXII, pp. 168-172); o «fastidi» (LXXXIV, pp. 263-265) ed altri ancora, sono presenti all’incirca più di venticinque volte. 56 O ancora «perdita ch’io ho fatta», Lettere, II, CLVII, pp. 508-510. 57 Che includono pure vocaboli come: «spese» ( LIX, pp. 159-162); «ruina» (LX, pp. 163-165); «elimosina» (CI, pp. 303-306); «fame» (CLVII, pp. 508-510); ed espressioni quali «consumarmi negli interessi e nelle usure» (CL, pp. 486-490); «morir di fame» (CLIV, pp. 498-504); e numerose altre dello stesso stampo.

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tratti dell’antifato perso, dell’eredità di Porzia de’ Rossi, del pagamento della provvigione che gli versava ancora il Sanseverino58, del suo ammontare, o ancora di quanto gli rimane per vivere dopo aver pagato i debiti più urgenti59 ̶ emergono dallo spoglio lessicale effettuato completando in tal modo il quadro a tinte fosche delineato dall’autore. Le allusioni ai figli fanno appello alla compassione del lettore tramite un’aggettivazione particolarmente espressiva in formule quali «poveri figliuoli», «sfortunati figliuoli» o «misero figliuolo» o ancora «figliuolino di dodici anni» ̶ in cui la carica affettiva del termine viene intensificata dall’uso del diminutivo ̶ ma, contrariamente a quanto potrebbe sembrare ad una prima lettura, non si riscontrano più delle altre voci elencate precedentemente60. Più sorprendente ancora, nonostante l’amore proclamato per la moglie, la deplorazione per la sua morte è quantitativamente circoscritta ad una quindicina di locuzioni disseminate in lettere redatte nel 155661 e semplicemente ricordate in seguito nelle suppliche spedite alla corte spagnola o ai potenti suscettibili di aiutarlo. Si osservi in proposito che uno dei verbi più ripetuti di quegli anni è proprio «supplicare». Lo strazio provocato dalla morte della consorte, così come le lamentele sulla propria malvagia fortuna, sembrano placarsi dopo che il poeta ha trovato riparo presso Guidobaldo della Rovere62.

Un altro gruppo di una dozzina di lettere63, più diluito nel tempo poiché copre il periodo che va dal 1554 al ’58, riguarda le relazioni con 58 Le modalità di riscossione della provvisione sono chiaramente evidenziate in lettere ad amici come Vincenzo Laureo. Cfr. Lettere, II, CX, pp. 325-326. 59 Nel secondo volume, più di una trentina di formule alludono alle proprie difficoltà finanziarie: «mille e cinquecento ducati» (LVI, pp. 180-186); «cinque milla scudi» (LXXVII, pp. 241-243); «il pagamento della mia provisione» (CX, pp. 325-326); «settantacinque scudi d’oro» (CXXXVI, p. 444); «quattordici scudi» (CXLVIII, pp. 481-484) e così via. 60 I lemmi relativi ai figli sono limitati ad una trentina di occorrenze. 61 Il dolore del poeta si esprime essenzialmente negli scritti compresi fra il febbraio del 1556 e il luglio dello stesso anno. Escludiamo dal conteggio tre ricorrenze che sembrano riferirsi più alle perdite subite che non al dolore per il decesso dell’amata consorte: «perduta la mia carissima moglie» (LX, pp. 163-165); «perduta la moglie» ( CLIV, pp. 498-504 e CXC, pp. 613-617). 62 Anche se la dolorosa separazione dal principe di Salerno si produce nel 1558, diverse lettere testimoniano di un miglioramento delle sue condizioni di vita già dall’inizio del ‘57. Cfr. Lettere, II, LXXXVIII, pp. 269-271; XC, pp. 274-276; XCII, pp. 277-281. 63 Sono le Lettere, II, XLV, pp. 126-131; XLIX, pp. 137-140; LIX, pp. 159-162; LX, pp.

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Ferrante Sanseverino, testimonia in particolar modo del deterioramento delle relazioni fra i due uomini e mette in rilievo il rancore covato dal segretario.

Così la lettera XLV, probabilmente redatta nel 1544, prima a menzionare uno screzio, accumula le sentenze e altre massime con le quali redarguisce il destinatario e termina con un accenno ai concretissimi risultati aspettati: «[…] aspetto con altrettanto bisogno quanto desiderio di veder con effetti l’affezione che mi portate»64.

Dieci anni più tardi, quella del 1°giugno 1554 (XLIX), sempre rivolta al principe di Salerno, appartiene ad una tipologia difficile da definire perché a metà strada fra sollecitazioni e rimproveri. Difatti, inaugura l’elenco delle suppliche che conducono il suo autore ad un atteggiamento di «accattonaggio letterario»65 in cui ironia e preghiera si alternano:

Io rendo infinite grazie a l’Eccellenza vostra de l’amorevole consiglio ch’ella mi dà [...] e s’io non avessi più bisogno d’aiuto ne l’esecuzione che di consiglio ne la deliberazione, io sarei di già ridotto a quella vita e in quella patria dove voi ora mi persuadete ch’io mi ritiri […]. [...] supplico [Vostra Eccellenza] come cristiano, come cavaliero, come principe grato che voglia proveder tosto a le necessità presenti, le quali sono tali che non mi danno un’ora di quiete66.

Altre richieste pressanti ritmano poi questa corrispondenza e segnano come altrettante tappe il deteriorarsi del legame col nobile napoletano tramite un graduale processo di drammatizzazione col quale il letterato rappresenta sulla «scena del mondo» lo spettacolo della propria sventura. La lettera LX del 18 febbraio 1556, inviata ad Amerigo Sanseverino, comporta accenti patetici che, pur denunciando l’abbandono subito, non lo fanno ancora esplicitamente:

163-165; LXV, pp. 177-180; CXLVIII, pp. 481-484; CL, pp. 486-490; CLIV, pp. 498-504; CLVII, pp. 508-510; CLXXIX, pp. 583-587; CXC, pp. 613-617; CXCII, pp. 619-621. Di norma questi testi associano lamentele sulla propria sorte e denuncia dell’ingratitudine del Sanseverino, cosicché la maggior parte di loro appartengono anche al primo corpus. 64 Lettere, II, XLV, pp. 130-131. 65 Espressione coniata da BONGI Salvatore, Annali di Gabriel Giolito de' Ferrari da Trino di Monteferrato, stampatore in Venezia […], vol. II, Roma, pp. 104-105 e ripresa da Dionisotti nel suo «Amadigi e Rinaldo a Venezia», cit., p. 23. 66 Lettere, II, XLIX, p. 137.

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[...] pensate Signor mio qual vita sia la mia e in che stato d’infelicità e di miseria si ritrovi questo povero e infelice vostro servitore. [...] se le mie disgrazie non trovano compassione in chi la deve avere, e in un certo modo, è cagione di tutte queste mie calamità, io dirò che non è né pietà, né gratitudine in uomo del mondo. [...] Io prego Dio che a me dia pazienza e a chi deve pensiero di proveder a le mie sciagure. [...] chi non ha compassione de le mie miserie non è uomo e chi non avrà memoria de’ miei servizi, sarà ingratissimo67.

Mentre nella successiva, destinata a Ferrante Sanseverino, le recriminazioni si precisano e cominciano a prendere il sopravvento sulle preghiere. Ora, il Tasso lo accusa di essere responsabile delle sue disgrazie:

La cagione perché sia caduto in questa miseria non vi deve esser nascosta, poi che è manifesta a tutto il Mondo. Io mi trovo in stato che chi non ha compassione di me non ha spirito né di pietà, né di virtù alcuna in sé, e se in voi è ancora una minima parte di quella grandezza e generosità d’animo di quella gratitudine che con tanti onorati esempi avete mostrata verso i vostri servidori, n’averete ancor voi pietà e cercarete di sollevarmi dal fondo di questa miseria, dove io per servizio vostro sono caduto68.

Questi accenti di riprovazione lasciano il posto ad una virulenta critica e ad accuse in una nuova lettera ad Amerigo. Dopo la morte della moglie, forse avvelenata dai propri parenti69, il segretario polemizza sull’atteggiamento del padrone in una vera e propria litania di rimostranze, elencando le proprie lagnanze circa il silenzio epistolare, la lunghezza del suo servizio, le diverse perdite subite e l’assenza del dovuto compenso:

Io ho scritto [...] un’infinità di lettere al Signor Principe e a voi, né mai d’alcune di quelle né da voi, né da Sua Eccellenza ho avuta risposta alcuna, il ché accresce di maniera la miseria e infelicità de lo stato mio, ch’io sono in quell’ultimo grado di disperazione che può esser uomo vivente. Non sperava io dal Signor Principe, il quale ho servito ventiquattro anni con tanta lealità e per lo quale ho perduto quanto avea con tanti miei pericoli e fatiche onoratamente guadagnato, sì fatto guiderdone, che non lo merita la

67 Lettere, II, LIX, p. 159. 68 Lettere, II, LX, pp. 163-165. 69 Lettere, II, LIX, pp. 159-162.

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mia servitù, la mia fede, né si conviene a prencipe che sia tenuto in opinione del mondo per signor virtuoso e grato70.

Il comportamento del principe viene palesemente denunciato col ricorso al sostantivo «ingratitudine», nonché più velatamente tramite l’evocazione di quello che non è o non è più, cioè «grato e virtuoso»71. La scelta lessicale del passo contribuisce pure ad instaurare un atmosfera di pathos tramite altri sostantivi densi di significato come «miseria» (due volte), «infelicità», «disperazione» (due volte) e «ruina» che, insieme ad un’aggettivazione pregnante72 e all’evocazione della sorte dei figli e del decesso di Porzia, concorrono alla drammatizzazione dello scritto. A dir vero, la parola «teatralizzazione» sarebbe forse più esatta perché il nostro ricorre al tema del «mondo», cioè di un pubblico. Evocato già fin dalla dedica del primo volume73 e di nuovo in varie lettere74, questo pubblico sottaciuto, implicito, anche nei discorsi di altri letterati75, torna alla ribalta nell’aperta denuncia che, nonostante l’iniziale preterizione, occupa il centro della lettera: 70 Lettere, II, LXV, pp. 177-180, spedita da Roma ad una data ignota, ma comunque posteriore al 13 febbraio 1556, cioè alla morte della moglie, e anteriore alla sua partenza dalla città vaticana nel 1557. Gli stessi termini o quasi ricorrono nella lettera ad Angelo Papio dell’aprile 1558 in Lettere, II, CXLVIII, pp. 481-484. 71 Un identico binomio lessicale ricompare qualche rigo più in là, ma in una frase affermativa questa volta: «così lo prego [Dio] che inspiri Sua Eccellenza a guiderdonare i miei servizi con quella liberalità d’animo che deve un grato e virtuoso Prencipe [...]». Cfr. Lettere, II, LXV, p. 179. 72 Ibid.: «infelice» (moglie), «total» (ruina), «miseri» (figliuoli). 73 Lettere, I, dedica al Sig. Prencipe di Salerno, p. 7: «io sarò pronto così a sodisfare al vostro desiderio […] pur che il mondo conosca che più dai vostri comandamenti sforzato, che dal mio proposito persuaso, a ciò fare risoluto mi sia». 74 Si vedano, per esempio, Lettere, I, XXIII, p. 57; I, LXXVII, pp. 135-136; LXXXI, pp. 143-148; XCIII, pp. 167-170; CXXIV, pp. 224-225; CCXL, pp. 417-418; Lettere, II, LX, p. 164; CLVII, pp. 508-510; CXXVI, p. 579. 75 A. F. DONI, La libraria, Venezia, Giolito, 1550, c. 13v, citée par QUONDAM A., Le «carte messaggiere», p. 46: «i duo libri di lettere che nuovamente sono usciti fuori del Tasso, m’hanno fatto quasi ripigliar la disputa de’ titoli tradotti, perché leggendole le mi son parute in lingua toscana e non bergamasca né italiana; e per non saper dire quel che meritano simil buone lettere, le lascerò nel giudicio del mondo, che gnene darà quelle lodi che se gli convengono dello stile, dottrina, sentenze, giudizio e invenzione»; Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, Libro primo, in Vinegia, in casa de’ figliuoli di Aldo, 1543, p. 2: «mi sono imaginato di raccogliere e fare stampare alcune lettere d'uomini prudenti, scritte con eloquenza in questa lingua volgare italiana [ ... ]. Però mi persuado che gli auttori di queste lettere non avranno a male ch'io dimostri al mondo i fiori dell'ingegno loro con utilità comune, perché così

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Io non voglio rimproverar, connumerando a Sua Eccellenza i servizi miei, perché sarebbe più debito suo di rimunerargli, che ufficio mio di ricordarlegli. Sua Eccellenza lo sa, lo sa Vostra Signoria, lo sa il Mondo, al quale quasi comedia recitata in un teatro, è manifesto la fedeltà de la mia servitù76.

Il gioco teatrale prende forma in tal modo su più livelli, prima di tutto con la selezione del testo fra quelli destinati alla pubblicazione77 ̶ e sappiamo oggi78 che per costruire questa sua raccolta, il Bergamasco ha operato delle porgeranno ardire all'industria di quei che sanno: e quei che non sanno, loro averanno obligo, potendo da questi essempi ritrarre la vera forma del ben scrivere». 76 Lettere, II, LXV, p. 179. 77 Numerose lettere vengono espunte in particolar modo dal secondo volume che include anche scritti recenti o molto recenti. Cfr. Lettere, II, pp. XVI-XXI in cui A. Chemello, citando G. Moro (Op. cit., p. 67), parla di «manipolazione sistematica». 78 Gli archivi conservano le tracce di decine di lettere espunte, talvolta per motivi diplomatici, nel senso largo della parola, talvolta a causa del carattere particolarmente segreto dei dispacci in questione come avvenne, per esempio, con la corrispondenza in cifra durant la missione a Parigi degli anni immediatamente successivi alla vicenda napoletana. Altri scritti vennero censurati per motivi di opportunità, quando non di opportunismo politico, come nel 1558 quando il duca d’Urbino si riavvicinò alla corte spagnola. Nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, tutte queste missive escluse dal circuito pubblico furono integrate nell’edizione dei tre volumi di lettere realizzata da Giuseppe Comino a Padova fra il 1733 e il 1751: Delle lettere di M. Bernardo Tasso, corrette, e illustrate. Volume primo, Con la vita dell'Autore scritta dal Sig. Anton-Federigo Seghezzi, e con la giunta de'Testimoni più notabili, e degl'Indici copiosissimi. In Padova, 1733, presso Giuseppe Comino. Con licenza de’ Superiori e privilegio dell’Eccellentissimo senato veneto per anni X; Delle Lettere di M. BERNARDO TASSO, Secondo volume. Molto corretto, e accresciuto. Si è aggiunto anche in fine il Ragionamento Della Poesia, Dello stesso autore. In Padova. MDCCXXXIII. Presso Giuseppe Comino, Con licenza de' Superiori, e Privilegio; Delle Lettere di M. BERNARDO TASSO, Accresciute, corrette, e illustrate, volume terzo, contenente le Famigliari, per la maggior parte ora la prima volta stampate, e alcune di TORQUATO suo figliuolo pur esse finora inedite. Si premette il Parere dell'Abate PIERANTONIO SERASSI intorno alla Patria de suddetti. In Padova. MDCCLI. Appresso Giuseppe Comino. Con licenza de' superiori (d’ora in poi abbreviato in Com. 3). Nel 1869, il Campori preparò una nuova raccolta di inediti: Lettere inedite di BERNARDO TASSO precedute dalle notizie intorno la vita del medesimo, per cura di G. CAMPORI, Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1869. Nel 1871, il Portioli a sua volta s’interessò alle lettere censurate del cortigiano: Lettere inedite di BERNARDO TASSO, a cura di A. PORTIOLI, Mantova, Tip. Eredi Segna editrice, 1871. Altre due edizioni vennero alla luce nel 1895: Lettere inedite di BERNARDO TASSO, a cura di G. BIANCHINI, Verona-Padova, Fratelli Drucker Librai Editori, MDCCCXCV, e Lettere inedite di Bernardo e

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scelte drastiche, lasciando numerosi testi nel circuito della corrispondenza privata ̶ poi con questo appello al giudizio e all’obbrobrio del mondo, nonché di Dio:

[...] lo sa Iddio a cui non si può nascondere il secreto de’ nostri cuori, il quale sì come ha visto che né con più fede, né con più affezione si poteva servire un Prencipe di ciò, che ho fatto io lui, così lo prego che inspiri Sua Eccellenza a guiderdonare i miei servizi con quella liberalità d’animo che deve un grato e virtuoso Prencipe, o a me dia pazienza per sopportare tanto torto e modo da proveder a le mie necessità.

Non contento di stigmatizzare l’avarizia del protettore, procede pure ad una vera e propria messa in scena di un dramma di cui egli è il protagonista e il Sanseverino l’antagonista attraverso l’opposizione fra l’irreprensibilità dell’uno e la scorrettezza dell’altro:

Pensate Signor mio, in che stato di miseria io mi ritrovo e se ho bisogno di consolazione e d’aiuto; e vi prometto che più mi dà molestia l’ingratitudine ch’usa il Signor Prencipe verso me che tutte queste altre perdite e adversità mie. Una sola soddisfazione d’animo mi resta, la quale è la candidezza de la mia coscienza, fedele testimonio de le mie operazioni, che non pensai mai se non a servirlo e onorarlo, ne la quale non sento rimordimento alcuno né pur una minima macchia di sospizione che turbi la sua nettezza.

In questo contesto, la coppia di voci antinomiche «ingratitudine» e «fedeltà» contribuisce alla rappresentazione quasi plastica di un autoritratto di devoto e fedele servitore, ingiusta vittima della sorte e della malvagità umana.

Volontà di teatralizzazione risulta pure ed infine questa scelta di rivolgersi non al principe direttamente, ma ad un suo parente ed amico, in modo da far pressione su di lui. In altri termini, questo testo costituisce un vero e proprio ricatto letterario in quanto minaccia implicitamente il Sanseverino di diffamarlo agli occhi di tutti e non solo in seno alla propria famiglia. Qui Bernardo imita dunque l’Aretino, ricorrendo alla penna per

Torquato Tasso. Saggio di una bibliografia delle lettere a stampa di Bernardo Tasso, Bergamo, Fr. Bolis, 1895. Il catalogo della biblioteca Angelo Mai a Bergamo indica anche altre opere più recenti, ma bisognerebbe controllare se si tratta di lettere totalmente inedite o di alcune di quelle pubblicate fra Sette e Ottocento.

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flagellare, rendendo pubblica la sua infamia, un principe che non sovviene più ai suoi bisogni.

Nella lettera CXLVIII del 14 aprile 1558, spedita all’amico Giovanni

Angelo Papio, il rapporto di servizio fra il Tasso e il Sanseverino non è ancora definitivamente rotto, perché la lettera tratta del pagamento di una provvigione. Questa risulta insufficiente a coprire le spese necessarie alla stampa dell’Amadigi, ragion per cui le accuse contro l’ex mecenate si fanno più pungenti e la scelta dei vocaboli denota una forte esasperazione di cui il «mondo», sempre presente in filigrana, è chiamato a testimone:

S. Papio, dura cosa è l’aver servito ventisei anni de la mia più utile età un prencipe tanto onoratamente, come sa il mondo che ho fatto io, l’aver perduta tanta facultà, moglie e figli in servizio suo e vedermi in vecchiezza in stato che mi bisogni con questo misero figliuolo andar mendicando il vivere e abbandonato da chi mi dovrebbe aiutar col sangue se bisognasse79.

Si noti en passant che il Tasso sembra qui considerare che gli ultimi suoi anni di attività furono adoperati in favore del principe, poiché menziona non più ventiquattro anni di servizio come nel 1556, bensì ventisei. non esita quindi a contraddirsi rispetto a quanto scriveva nei dispacci a destinazione dei grandi della corte spagnola o di chi lo poteva favoreggiare presso Filippo II80, in cui affermava invece di aver interrotto ogni rapporto di servizio col ribelle, già dall’epoca del suo soggiorno romano nel 1554, probabilmente allo scopo di ottenere la revoca del bando e la restituzione degli averi:

[...] tosto che l’Eccellentissimo S. Duca d’Alba mosse guerra a sua Santità, avendo già al mio partir di Francia rinunziati a tutti i negozi del Prencipe, restituite le ciffre e solutomi di attender a vivere e a li studi miei, mi partì da Roma81. [...] non volendo essere ostinato nel male, [...] restituendogli le ciffre e a tutti i suoi negozi rinunziando, me ne venni a Roma e posto che mi sia alquanto di tempo, non avendo altro modo da sostentare questa povera vita,

79 Lettere, II, CXLVIII, pp. 482-483. 80 Si tratta delle lettere a Ruy Gomez, principe d’Eboli (II, CLXXIV, pp. 558-567), a Antonio Perrenot di Granvelle, monsignor d’Arras (II, CLXXV, pp. 567-574) e a Consalvo Perez, cancelliere di Sua Maestà (II, CLXXVI, pp. 574-579). 81 Lettere, II, CLIV, pp. 498-504.

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con la provisione trattenuto, ch’egli m’aveva assignata, gli son più tosto stato servitor di nome che d’effetti, il che esser vero si può facilmente consocere, avendo egli, come tutta la corte romana sa, mentre ch’io vivea in Roma, tenutovi un agente»82.

Ricorrente in più testi83, la denuncia dell’ingratitudine del principe:

I miei nuovi fastidi causati dall’ingratitudine del Prencipe, il quale del tutto dimenticatosi della mia lunga e fedel servitù e non attendendomi ciò che a bocca e con lettere e con testimonio di vive voci m’aveva promesso e deveva osservarmi, m’ha posto in necessità in questa età e dopo l’averlo servito venticinque anni, di pigliar nuova servitù con questo Eccellentissimo Duca, certo con onoratissima condizione84.

funge anche da sfondo all’evocazione della propria situazione finanziaria in cui vengono ostentate addirittura delle cifre85 che testimoniano dell’intrusione nelle familiares di elementi quanto meno materiali. Anche se il poeta non adotta il tono della satira o dell’invettiva e si colloca più volentieri sul terreno della propria virtù rivendicata fin dalla prima raccolta e infine mal ricompensata, la stigmatizzazione dell’avarizia dei potenti, fa eco a quelle dell’Aretino86, dell’ Ariosto o di Berni.

Nella lettera CL, in cui si rivolge a Vincenzo Laureo, il 10 giugno del 1558, il Tasso reitera le lamentele sulla propria situazione finanziaria alludendo ai suoi debiti, alle spese a cui andrebbe incontro se si recasse ad

82 Lettere, II, CLXXIV, pp. 558-567; cfr. anche CLXXV, pp. 567-574. 83 Accanto a quelli già citati, si vedano anche Lettere II, CXLVIII, pp. 481-484: «Io so le sue spese e le sue necessità e ciò che potria far Sua Eccellenza se le fosse caro e mi tenesse in quella stima che voi mi scrivete [...]»; e CL, pp. 486-490. Cfr anche in proposito la nota 96. 84 Com.3., 36, Al molto eccellente sig. mio osservandissimo, il sig. Speron Speroni, pp. 132-134. La lettera è datata 7 novembre 1558, in un momento quindi in cui il Tasso poteva annoverare ventisei anni di servizio presso il Sanseverino e non venticinque. 85 Lettere, II, p. 483: «Io di questi pochi danari ho pagato alcuni creditori importuni», «non mi sono rimasti più che quattordici scudi», «Sua eccellenza mi promise cento scudi d’aiuto». 86 Il quale Aretino fu per un tempo stipendiato dal Sanseverino. Cfr. R. COLAPIETRA, I Sanseverino di Salerno, mito e realtà del barone ribelle, Salerno, Laveglio ed., 1985, pp. 178-179.

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Avignone a salutare il principe e alla recente soppressione della pensione versatagli fino ad allora :

Che posso io più sperare da lui se trecendo scudi che m’aveva consignati con fede di notari sovra la provisione de la sua compagnia, con certe colorate scuse si ha ritolti87?

Dopo aver in tal modo dipinto a tinte fosche il quadro della propria povertà, giunge alla conclusione di aver pagato il proprio debito e di esser di conseguenza libero di accettare una proposta, molto verisimilmente quella fattagli dal duca d’Urbino proprio in quel periodo:

Io son certo d’aver pagata tutta l’obligazione ch’io gli aveva con aver perduta la facultà, la moglie, la quiete de l’animo e de la mia vecchiezza e fatta perdere a’ miei poveri figliuoli la robba de la madre […] per seguir la sua fortuna e che questo atto sia di tanta forza che, essendo io libero d’ogni obligo di fedel servitore, oblighi lui come grato padrone al remunerarmi e a l’emenda del danno mio88.

Sotto pretesto di accuse, questo scritto, come il precedente89, tende in realtà a motivare il prossimo cambiamento di alleanze dal partito francese a quello spagnolo, nonché ad addossare al principe la responsabilità di una situazione che lo stesso Tasso aveva, almeno in parte, personalmente causata. Difatti, nel luglio dello stesso anno, la sua decisione è finalmente presa poiché in un suo scritto a Benedetto Varchi ha cura di giustificare nuovamente le proprie esitazioni e il mutamento di dedicatario dell’Amadigi90 con una lunga

87 Lettere, II, CL, pp. 486-490. Il voltafaccia del Sanseverino ricorda per altro un precedente dissenso fra i due uomini per un motivo analogo, quando duecento ducati ̶ proventi della cancelleria affidata al segretario ̶ sarebbero stati trattenuti dal principe per sopperire allo stato disastroso delle proprie finanze. Cfr. COLAPIETRA R., I Sanseverino di Salerno..., cit., pp. 179-180. 88 Lettere, II, CL, p. 488. Questo passo sottintende un rapporto di cortigianeria inteso in termini di debito e di credito, d’altronde esplicitato in altre lettere come la CLIV (p. 499). 89 Lettere, II, CXLVIII, pp. 482-483. 90 Tale ribaltamento corrisponde allora ad esigenze nel contempo materiali e politiche. Coll’offrire il suo romanzo a Filippo II di Spagna, alleato del duca d’Urbino, il Tasso sperava di assicurarsi la benevolenza del monarca e di rimediare al problema della confisca dei beni di Porzia, in modo da uscire dallo stato di povertà in cui si trovava e da assicurare, almeno in parte, il futuro del figlio. Senza contare che tale scelta non poteva in alcun modo essergli rimproverata.

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recapitulatio del servigio presso il principe e dei sacrifici consentiti in nome della dovuta fedeltà:

Signor mio, io non poteva senza grandissimo biasimo e senza giustissima nota d’ingratitudine, avendolo servito ventitre91 anni ne la prospera fortuna e trovandomi beneficiato da lui, abandonarlo ne l’adversa […]. Onde per non mancar a l’onor mio, volsi perder tanta facultà, abbandonar la moglie sovra tutte le cose del mondo amata, i figliuoli piccioli, tant’altre cose […] sperando pur, che avendo io con questo atto non solo pagata tutta l’obligazione che io aveva a Sua Eccellenza, ma di debitore che io le era, di molto maggiore obligo divenuto suo creditore92.

Nell’ultima lettera al nobile napoletano, la CLVII datata 5 agosto 1558, il divorzio appare ormai ineluttabile e il Tasso richiede il proprio congedo. Organizzata come le precedenti attorno ai concetti antitetici di «devozione» da una parte e d’«ingratitudine» dall’altra, essa ostenta accenti pietosi con la scelta di termini come il sostantivo «fame» o il verbo «mendicare» usato per il figlio, che gli conferiscono un pathos per altro confermato dalle testimonianze di una reale povertà, e si conclude su una nota amara non esente da vanità che esprime la consapevolezza del vecchio segretario circa il proprio valore:

voi avrete goduto le fatiche de la mia gioventù e altri comprarà un caval vecchio, per tenerlo per riputazione in stalla93.

***

V. Alla fine di un’analisi, seppur sommaria, di queste familiares, si

palesa che lo scopo di alcune di loro è di costringere l’ex mecenate a ripagare i suoi debiti o presunti tali, facendo pressione su di lui tramite la «scena del mondo», ossia tramite quel pubblico numeroso che aveva assicurato il successo e la longevità della raccolta del 1549. La

91 Trattandosi di una lettera spedita nel luglio del 1558, il conteggio degli anni di servizio sembra decisamente fluttuante. A meno che, a seconda dei destinatari, il Tasso includa o escluda il periodo intercorso dal soggiorno romano (1554) in poi. L’ipotesi viene corroborata dalla lettera CLVII, indirizzata al principe, in cui il servizio preso in considerazione raggiunge addirittura i ventisette anni. 92 Lettere, II, CLIV, pp. 498-504. 93 Lettere, II, CLVII, pp. 508-510.

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teatralizzazione che contraddistingue le lettere le trasforma in denunce. Il Tasso si erige così a giudice e vittima del principe di Salerno nell’implicita rappresentazione di un processo fittizio in cui si rivolge all’imputato così come ai testimoni nominalmente indicati nell’intestazione delle medesime: Amerigo Sanseverino, Giovanni Angelo Papio, Vincenzo Laureo e Benedetto Varchi. In realtà poi, con la pubblicazione della raccolta, è l’insieme dei suoi lettori che viene invitato a compatire la sua sorte e quella dei figli, nonché a biasimare il comportamento del principe, rappresentato come un mostro d’ingratitudine e d’indifferenza, mentre il Tasso cura invece di sé: «un’immagine tutta disegnata a lettere maiuscole»94, con un autoritratto di onesto e fedele servitore i cui valori morali risaltano per contrasto con l’atteggiamento del precedente protettore. Quest’opposizione tra un modello d’uomo virtuoso ingiustamente abbattuto dal destino ed una caricatura di nobile freddo e indifferente conferisce alla raccolta la sua tensione emotiva, ma deve essere compresa per quello che è, cioè una manovra dell’autore che fa leva sulla sua notorietà per ricorrere a un tentativo d’estorsione. Alla stregua di quella del flagello dei principi, la strategia epistolare messa in atto dal nostro tende a rovesciare l’abituale rapporto di dipendenza fra cortigiano e signore per far pesare su quest’ultimo il potere dello scritto onde ricavarne qualche sussidio.

Ma di là della vendetta personale e della possibilità di ottenere qualche aiuto, la costruzione letteraria di un ritratto lusinghiero per sé95 e infamante per il Sanseverino96 potrebbe anche ricoprire un’altra funzione. 94 Espressione mutuata da A. Chemello, in Lettere, II, p. LI. 95 Si vedano sopra tutte le citazioni in cui il cortigiano fa esplicitamente menzione della sua fedeltà, della sua lealtà, della sua prudenza, del suo onore, dei numerosi anni passati a servire il Sanseverino e così via. Nella recapitulatio della lettera CLVII, espone anche (nuovamente) tutti i sacrifici consentiti in favore del principe : «io aveva consumato gli amici, impegnate le robe, perduto il credito, sofferto di molti disagi» e sottolinea le proprie qualità: «vi ho servito ventisette anni con quella fede e con quell’amore che si devrebbe servir a Dio» prima di concludere che: «non merivata già questo guiderdone la mia leale e lunga servitù, né la perdita ch’io ho fatta per seguire la vostra fortuna». 96 Si vedano in particolare le svariate allusioni all’ingratitudine del nobile napoletano già citate, nonché Lettere II, CL, p. 487 : «[...] più vergogna mi sarebbe a lasciar tanti amici che, cortesissimamente, m’han sovvenuto ne le mie avversità, che lasciar il servizio del Prencipe, il quale con tanta ingratitudine ha riconosciuta la mia lunga e fedele servitù e non solo non ha ricompensato ma ne anco mostrato d’aver desiderio di ricompensare in parte il grave danno mio». Nella CLIV (p. 498), egli taccia addirittura l’ex protettore d’«ingratissimo signore» ed evoca: «l’ingratitudine del Principe [...] che mi lasciava morir di fame». Nella CLVII (p. 509), lo accusa direttamente: «Dio giustissimo giudice delle

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Ad una lettura più globale della raccolta, i passi qui citati sembrano completare le «defensorie» in cui il letterato implora la clemenza delle autorità spagnole per ottenere la revisione della condanna e la restituzione dei beni. Per riuscire nel suo intento, aggiungerebbe allora alla propria descrizione di devoto servitore, innocente proprio per via della sua condizione di sudditanza, una magistrale imputazione del protettore, in modo da far risaltare i propri meriti e da sottolineare l’iniquità della duplice pena da lui subita, cioè l’abbandono del Sanseverino da una parte e la perdita dei propri averi dall’altra. Si tratta di un modo assai abile di atteggiarsi a vittima addossando al nobile napoletano la responsabilità del passaggio al servizio di Enrico II.

Il Bernardo Tasso del secondo volume appare quindi ben diverso

dall’exemplum di moralità e di saper vivere rappresentato dal primo epistolario. Il cortigiano dall’esemplare cursus honorum ha ceduto il posto ad un intellettuale spregiudicato, perfettamente conscio del potere della propria penna e forse ispirato dal modello aretiniano. Nonostante tali macroscopiche divergenze, vi è forse comunque ancora un punto comune ai due volumi che spiegherebbe anche il suo risentimento. Alludiamo alla rigidezza di un probabile codice d’onore ̶ stando a quel che il nostro lascia trapelare della propria personalità nei suoi scritti epistolari ̶ che non ammette trasgressioni e non può non risentirsi profondamente di quanto considera come un vero e proprio tradimento. Anche se, a ragion veduta97, egli aveva la sua parte di responsabilità in quel comune naufragio, unito alla disperazione in cui si trova, il suo stato d’indigenza lo conduce a reclamare e a minacciare chi giudica responsabile delle sue disgrazie. Per farsi un’idea più precisa dell’indole di questo scrittore prolifico, sarà necessario estendere l’analisi della sua prosa all’insieme delle lettere inedite e in particolare a nostre operazioni, non avrà piacer che facciate andar mendicando questo povero e infelice figliuolo e che voi abbiate, a guisa di fuoco, con l’ingratitudine vostra arso tutto il frutto col quale deveva sostentare la vita sua». Alla luce di queste righe e di altre dello stesso tenore, appare possibile ed anche probabile che il Tasso, perfettamente a conoscenza delle finanze e della vita dell’ex mecenate, regoli dei conti che noi ignoriamo ma che potrebbero giustificare la sua indignazione. 97 In realtà, il Tasso era almeno in parte responsabile e il suo errore risale al momento in cui, in opposizione a Vincenzo Martelli, aveva insistito presso il principe affinché accettasse la nomina ad ambasciatore della città presso l’imperatore. Per maggiori precisioni sull’episodio, cfr. FRATANI D., «De courtisan à “caval vecchio”, cit., pp. 143-172.

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quelle relative al governatorato di Ostiglia. Nel frattempo, ci dobbiamo limitare a concludere che, nonostante la finezza di sentimenti che pervade buona parte dell’epistolario fra primo e secondo volume, non solo le tipologie variano molto dall’uno all’altro, ma che perfino l’immagine di sé tramandata, seppur simile a prima vista, non regge ad un’analisi approfondita e si rivela in realtà alquanto diversa e sorprendente. A meno che l’esibizione di un rancore covato a lungo non palesi soltanto un’altra sfaccettatura dell’umanità del poeta-cortigiano.

Dominique FRATANI Université Bordeaux III – Michel de Montaigne

Appendice – Lettere trascritte

Le lettere sottostanti sono state selezionate per evidenziare il cambiamento di tono che intercorre fra primo e secondo volume. Difatti, se in quella indirizzata a Guido Rangone, il Tasso procede ad un autoritratto d’uomo virtuoso, devoto ed amorevole servitore del conte a cui non esita a dispensare consigli e, quando necessario, rimproveri, nella successiva invece, scritta all’amico Vincenzo Laureo, trasmette di sé stesso un’immagine alquanto diversa in un testo assai più prosaico del precedente. Volume I° Lettera XXVIII: a Guido Rangone Illustre Signor mio. Non senza dispiacere ho intesa la causa che vi muove e la vostra deliberazione di partirvi da quella eccelsa Repubblica. La causa è assai leggiera, la deliberazione poco prudente; e se non è maggior causa ne l’animo vostro, ne l’ambizione e nelle speranze, le quali il più delle volte gli animi nostri sogliono ingannare; a parlarvi chiaro, voi ancora ne sarete tenuto per leggiero. Mi duole estremamente che le lettere mie non siano state di tanta auttorità appò voi che vi abbiano fatto mutare opinione; il che doveva fare, se non la prudenza de le loro ragioni, almeno la sincerità della mia fede. Piacemi che sforzato, non volontario è stato il mio consiglio, che altrimenti di fedele e amorevole, arrogante e temerario forse giudicato ne sarei. Et perché conosciate che io sono più pronto a

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servirvi che non sono stato a consigliarvi, vi dico, che io ho parlato col Gran Maestro e con la maggior reputazione e dignità vostra che io ho potuto, attaccato la prattica. Desidererei più tosto che il loro bisogno avesse pregato voi, che la vostra volontà pregato loro. E perché vedo la qualità del negozio e conosco la maniera di queste genti, dubitando, non succedendovi con quella reputazione che vorreste il vostro desiderio, non diate più tosto la colpa alla mia negligenza e alla mia fede, che al poco bisogno e giudizio loro, per levarvi ogni sospizione che v’avesse potuto portare ne l’animo l’aver io cercato di rimovervi da questa opinione, vi prego quanto più caramente posso che vogliate mandare un uomo alla corte per questa prattica, al quale tutto quell’aiuto, quel consiglio, quel favore, che potrà darli la mia poca auttorità, darò io tanto volentieri, quanto volentieri vorrei che non me n’avesse data occasione. Fatelo Signor mio: così Dio vi ponga in cuore ciò che più d’utile e d’onore vi debba arrecare. Ma poi che una volta ho i termini della vergogna trapassati, non mi curo che mi tenghiate per presontuoso, se di nuovo, e contra vostra voglia, vi ricorderò le parole che disse Cicerone a Lentulo, sperando che l’auttorità, la prudenza e il consiglio d’un tanto uomo, in ogni età maravigliosissimo, dal vostro proposito vi possa rimovere; le quali sono tali: «Non sono quegli uomini nel governo della Repubblica famosi da laudare, i quali quasi ostinati stanno di continuo in una opinione; ma sì come è proprio del nocchiero alle voglie della tempesta ubidire, eziandio che li vieti di pigliare il porto, fin tanto che il vento prospero e il mar piano, mutata la vela, ve lo conducano, così è cosa indegna d’un uomo prudente piuttosto un cominciato camino con pericolo seguitare, che per un altro caminando aggiungere alla meta del suo desiderio». Tale o simile è la sentenza delle parole sue, le quali, se col giudizio della ragione considererete, del nocchiero voi, della nave la vostra volontà facendo, forse ne caverete qualche frutto. Il che, se averrà, io sarò contento quella obligazione, ch’io non ho potuto avere a me, averla a Cicerone. State sano e perdonate a la mia libera natura. Di San Germano98. Volume II Lettera CL: A M. Vincenzo Laureo Io ebbi le di vostra Signoria de li cinque del presente, piene d’una infinita affezione, di molta prudenza e quasi una vera imagine d’un animo tutto composto di virtù. S’io volesse ringraziarvi sempre che da voi ricevo piacere o beneficio 98 Lettera spedita dalla corte francese alloggiata allora a Saint Germain, dove il conte lo aveva incaricato di negoziare un eventuale passaggio alle dipendenze del re di Francia. Il periodo preciso non è determinato, ma la lettera va situata comunque dopo l’agosto del 1528, perché nella XXIII il Tasso allude alla morte di Lautrec sopraggiunta il 16 dello stesso mese.

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saria di mestieri ch’io di continuo tenesse la penna in mano, poi che voi con continuati uffici di cortesia e d’amorevolezza a questo fare m’obligate; ma perché so che a ciò non vi move speranza di premio ma solo sovrabbondanza di virtù, affine che il mio obbligo sia sempre integro e il vostro merito sempre maggiore, non possendo pagarvi con gli effetti, non vo manco pagarvi con le parole. Io ringrazio Monsignor Illustrissimo de la cortese e liberale profferta che Vostra Signoria mi fa in nome suo e son certo che, se le molte spese estraordinari di quest’anno lo consentissero, che l’offerta sarebbe maggior e conforme a la grandezza de l’animo suo e voglio averle quell’obbligo, considerata la qualità dei tempi, che se m’avesse donato mille scudi; e tant’è maggiore la mia obligazione quanto che nullo mio merito, né servizio fatto a Sua Signoria Illustrissima, a ciò fare l’ha potuto movere. Volesse Dio che questi cento scudi fossero bastanti a condurmi in Avignone99, ch’or ora mi porrei in camino. Ma con che onore mi potrei io partir d’Italia, e specialmente di qui, senza pagar i miei debiti? Lascio di dirvi che non stampando il mio poema adesso, sarei constretto di ritornar per sì lungo camino in Italia con grandissima spesa fra pochi giorni. Più vergogna mi sarebbe a lasciar tanti amici che, cortesissimamente, m’han sovvenuto ne le mie avversità che lasciar il servizio del Prencipe, il qual con tanta ingratitudine ha riconosciuta la mia lunga e fedele servitù e non solo non ha ricompensato ma ne anco mostrato d’aver desiderio di ricompensare in parte il grave danno mio. Signor mio, chi meglio di voi sa l’obbligo del Signore e del Padrone? s’io credessi ch’il partirmi dal servizio del Principe, dovesse porre in disputa l’onor mio, non ne parlarei, perché come voi meglio di me sapete, dice Tullio ne gli Offizi, che l’uomo non debba cosa fare de la qual stia in dubbio, se è ben fatta o no. Io son certo d’aver pagata tutta l’obligazione ch’io gli aveva con aver perduta la facultà, la moglie, la quiete de l’animo e de la mia vecchiezza e fatta perder a’miei poveri figliuoli la robba de la madre, che deveva esser sostegno de la vita loro, per seguir la sua fortuna, e che questo atto sia di tanta forza, ch’essendo io libero d’ogni obligo di fedel servitore, oblighi lui come grato padrone al remunerarmi e a l’emenda del danno mio. Che posso io più sperare da lui, se trecento scudi che m’aveva consignati con fede di Notari sovra la provisione de la sua compagnia, con certe colorate scuse si ha ritolti? E se la scusa è vera, perché gli ha lasciati a Ferante Pagano? Se la magnanimità di questo Prencipe100 e la cortesia di questi gentiluomini amici miei, non m’avessero sovvenuto, come avrei io fatto quest’anno calamitoso, nel quale hanno avuto fatica di viver i ben ricchi? Debbo io più lungamente col volto ogni or rosso di vergogna andar affrontando questo e quello e consumarmi ne gli interessi e ne l’usure per vivere? Io conosco che all’età mia, non si conviene nova servitù, la quale non può esser senza fatica di corpo e di 99 Dove risiedeva allora il principe di Salerno dopo essersi messo al servizio del re di Francia. 100 Guidobaldo II della Rovere, duca d’Urbino.

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mente. So bene che mi parrebbe strano dove soleva esser il primo e il più onorato ne la casa del Prencipe, aver da onorarne molti che sarebbono presso al Padrone in più stima e di più auttorità ch’io non sono. Considero che per ragion d’età la mia servitù non può esser sì lunga che possa sperare remunerazione con la qual mio figliuolo possa sostentar quel grado di gentiluomo nel quale l’ha fatto nascer Dio, ma manco male è far così che sfacciatamente aggravare di continuo gli amici, senza speranza di poter pagar il debito. Che posso io sperar d’un Prencipe, che da che parte d’Italia, non s’è degnato di risponder ad alcuna lettera mia? il qual sol col mostrar con chi parla di me d’amarmi oltremodo e di tenermi in molta stima, cerca di pascermi di vento. Io so che gli pareria esser sgravato d’un grandissimo peso qual’ora intendesse ch’io avessi cominciata nova servitù e se lo recarebbe a grandissima ventura non avendo egli più bisogno di me. Io aspettarò la risposta de l’ultime lettere ch’io scrissi e dapoi mi risolverò e secondo la risposta, o accettarò o ricusarò la profferta di Sua Signoria Illustrissima101 assicurandola che in qual si voglia stato, in qual si voglia fortuna conoscerò l’infinito obligo che io ho a Vostra Signoria e procurerò d’esserle grato. In questo mezo non mancate di conservarmi ne la solita grazia di Monsignor Illustrissimo e vostra e tenetemi per raccomandato a Mons. di Villars, così Dio d’ogni vostro desiderio vi faccia contento. Di Pesaro, il X di giugno, del MDLVIII.

101 Il Tasso allude alla proposta che gli venne fatta nel 1558 di passare al servizio del duca d’Urbino.