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Atti del Convegno organizzato dall’Associazione nazionale ex deportati politici e dalla Fondazione Memoria della Deportazione a conclusione del XIII Congresso dell’ANED tenuto all’interno della Risiera di San Sabba Le tragedie del Confine orientale FASCISMO FOIBE ESODO Associazione Nazionale Ex Deportati politici Fondazione Memoria della Deportazione Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004 IT

Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale

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Atti del Congresso ANED 2004. Il file originale risiede sul sito www.deportati.it che contiene numerosi testi online sul tema della deportazione e testimonianze di superstiti.

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Atti del Convegno organizzato dall’Associazione nazionale ex deportati politici e dalla Fondazione Memoria della

Deportazione a conclusione del XIII Congresso dell’ANED tenuto all’interno della Risiera di San Sabba

Le tragedie del Confine orientaleFASCISMO FOIBE ESODO

AssociazioneNazionaleEx Deportatipolitici

FondazioneMemoria

dellaDeportazione

Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004

IT

Gianni
Nota
Fondazione Memoria della Deportazione www.deportati.it
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Atti del convegno organizzato dall’Associazione nazionale ex deportati politici e dalla Fondazione Memoria della

Deportazione a conclusione del XIII Congresso dell’Aned tenuto all’interno della Risiera di San Sabba

Le tragedie del Confine orientaleFASCISMO FOIBE ESODO

AssociazioneNazionaleEx Deportatipolitici

FondazioneMemoria

dellaDeportazione

Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004

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Tipografia Il Guado - Corbetta (MI) 2005

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Pubblichiamo in questo volume i testi integrali delle relazio-ni tenute al Convegno di Trieste sulle tragedie del Confineorientale. Il Convegno ha concluso i lavori del XIII Congresso naziona-le dell’Aned. Gli ex deportati e i loro familiari hanno inteso, con l’iniziati-va presa assieme alla Fondazione Memoria della Depor-tazione, onorare tutte le vittime di quelle tragedie.Prima dell’apertura del Congresso delegazioni di ex deporta-ti hanno deposto corone nei luoghi maggiormente rappresen-tativi della violenza nazifascista e della tragedia del dopo-guerra.

Sono stati così ricordati: la devastazione da parte delle squa-dracce fasciste nel luglio del 1920 della Narodni dom, la Casadel popolo degli sloveni a Trieste, conosciuta col nome diHotel Balkan; le centinaia di vittime civili di etnia slovena ecroata deportate nel campo di concentramento di Gonars(Udine), istituito dal governo fascista nel 1941, immediata-mente dopo l’aggressione alla Jugoslavia; i 71 partigiani fu-cilati a Opicina il 3 aprile 1944; i 4 antifascisti condannati amorte dal Tribunale speciale e fucilati a Basovizza nel 1930; i51 resistenti impiccati, molti dei quali civili, nell’aprile del1944 in via Ghega, come rappresaglia per un attentato allaCasa del soldato tedesco; i 4 impiccati dalla Guardia civilefascista in via D’Azeglio; le migliaia di antifascisti italianiebrei e jugoslavi trucidati nella Risiera di San Sabba, unicocampo di sterminio creato dai nazisti sul territorio italiano.

Corone commemorative dell’Aned sono state quindi depostealla stazione ferroviaria da cui partirono i convogli di depor-tati diretti ai campi di sterminio nazisti in Germania e allafoiba di Basovizza che ricorda uno degli episodi più atroci deltragico dopoguerra al confine orientale.

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PresentazioneGianfranco Maris Presidente dell’Aned e della Fondazione Memoria della Deportazione pag. 7

Il fascismo al confine orientaleAnna Maria Vinci Università di Trieste pag.15

Le minoranze slovene-croate sotto il fascismoMilica Kacin WohinzIstituto di Storia contemporanea di Lubiana pag.33

L’occupazione italiana nei BalcaniTeodoro Sala Università di Trieste pag.53

L’esperienza del Litorale adriaticoEnzo CollottiUniversità di Firenze pag.63

Le deportazioni dalla Risiera di San SabbaTristano Matta Istituto per la Storia del Movimentodi Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia pag.77

L’eredità del fascismo e della guerra:dalle foibe all’esodo dall’Istria

Raoul Pupo Università di Trieste pag.95

Conclusioni Oscar Luigi Scalfaro Presidente emerito della Repubblica pag.118

Indice

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Con questa relazione l’Aned vuole sottolineare anche quel-le che saranno le linee di forza della sua azione culturale

e critica negli anni prossimi.Nella consapevolezza che non sono gli uomini che possonogarantire nel tempo la conoscenza con la loro testimonianza enella consapevolezza che solo la ricerca e la documentazionesono in grado di dare un futuro alla memoria, l’Aned ha costi-tuito la Fondazione Memoria della Deportazione, alla quale isuperstiti viventi dei campi di sterminio hanno destinato, intutto o in parte, l’assegno che hanno ricevuto dalla Germaniacome indennizzo per essere stati “schiavi”.Le sezioni dell’Aned e la Fondazione Memoria della Depor-tazione dovranno avviare, con tutti gli altri Istituti storici del-la Resistenza del nostro Paese una comune attività sul pianodelle storie locali, avvalendosi della guida del Comitato scien-tifico della Fondazione.Ciò si inserirà nella ricca tradizione editoriale dell’Aned po-sta in essere, soprattutto dalla sezione di Torino.Fermo mantenendo, nelle sue forme e nei suoi contenuti, ilproprio agire politico, l’Aned sarà sempre attenta alle cosedel nostro Paese, sviluppando le sue potenzialità informative edidattiche tramite il suo periodico Triangolo Rosso, conti-nuando, così, a fare politica e cultura insieme.

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Gianfranco Maris Presidente dell’Anede della Fondazione Memoria della Deportazione

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Nel suo XIII Congresso nazionale, tenuto a Trieste nel set-tembre del 2004 all’interno del campo di sterminio della

Risiera di San Sabba, l’Associazione nazionale degli ex de-portati politici italiani ha voluto, innanzitutto, rievocare la lot-ta epocale che le donne e gli uomini di Europa furono chiama-ti a combattere dal 1939 al 1945 per impedire che il folle e cri-minale disegno della guerra fascista facesse retrocedere i po-poli in un “ordine nuovo” di schiavitù.La presenza dell’Aned in San Sabba è emblematica della ca-pacità che uomini diversi ebbero di camminare uniti quando lemete della libertà e della giustizia lo richiesero.Ma la nostra presenza in questo sacrario dello sterminio nazi-fascista ha voluto essere anche il ricordo del costo della libertàpagato da questa terra di confine nella temperie di particolarerepressione e di violenza durante e sotto il fascismo, nel qua-dro dell’occupazione militare italiana della Slovenia e dellaCroazia e dell’occupazione tedesca dell’AdriatischesKuestenland. Questa terra fu poi travolta nella tragedia cheportò alle foibe del 1943 e del 1945 e all’esodo lacerantedall’Istria della popolazione italiana colà residente da secoli.I deportati politici italiani intendono rievocare e condannaretutti i massacri e capire tutte le vittime, perché mai, come og-gi, è necessario impegnarsi per far capire che violenza, repres-sione, guerra sono sempre distruzione di pensiero, di civiltà, dilavoro di tutte le donne e di tutti gli uomini che comunque vi-vono e convivono sotto lo stesso cielo.

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La comunità della Venezia Giulia, nei 20 mesi dell’Adria-tisches Kustenland, conobbe la più feroce repressione che i na-zisti abbiano mai imposto alla popolazione dei paesi occupati.La comunità della Venezia Giulia rispose unita, con una lottaeroica di resistenza che non fu seconda a nessuna altra resi-stenza europea, superando le divisioni che le derivavano dallememorie disunite delle violenze del fascismo prima e dell’oc-cupazione militare italiana poi.Questa terra, che era stata divisa dalla violenza fascista e dallaviolenza dell’occupazione militare italiana, ritrovò l’unità nel-la resistenza contro i tedeschi.Nelle strutture di questa vecchia Risiera ha operato un appara-to coercitivo feroce, omogeneo a tutti gli apparati coercitivi dimorte disseminati dal nazismo sul suo territorio e in tutti i pae-si occupati, da Mauthausen a Dachau, da Buchenwald aRavensbrück e ad Auschwitz.La Risiera è soltanto una della tante stazioni di morte aperte intutta Europa per annientare gli uomini e spegnere le luci dellaciviltà e delle culture dei popoli: strutture che hanno dato un-dici milioni di morti solo nei campi di annientamento e di ster-minio dei politici e degli ebrei.Per organizzare questa struttura il grande Reich inviò a Triesteil gruppo più esperto della sua polizia di sicurezza, che si eraformato nell’operazione eutanasia nel 1941 in Germania, sop-primendo 77.000 cittadini tedeschi perché inabili, “rami sec-chi” che pesavano con le loro bocche inutili sulla comunità te-desca in armi, privi, quindi, di ogni diritto alla vita; che si eraformato a Chelmo, a Belzec, a Sobibor, a Treblinka nello ster-mino degli ebrei polacchi: uomini come Otalio Globoknik,Oberhausen, Allers. Qui i partigiani italiani, sloveni e croati, non furono “assassi-nati” perché, se assassinio definissimo la loro morte qui, use-remmo una semantica eufemistica minimizzante.Nella Risiera i partigiani italiani, sloveni e croati furono sgoz-zati, furono finiti con mazze di ferro, furono gasati in camionermeticamente chiusi.

Gianfranco Maris

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E quelli non sgozzati e non finiti con le mazze di ferro furonodeportati per essere eliminati, con il lavoro e con il gas, aDachau, a Mauthausen, a Buckenwald, ad Auschwitz.Un quarto dei deportati politici italiani è caduto qui o da qui èpartito per il suo viaggio verso la morte.Tutti sono nel nostro cuore e nella nostra memoria, che è unvalore solo se diventa una coordinata etica che ci guida e cimuove all’azione e non resta soltanto un ricordo sterile: unacoordinata che ci guida nel nostro presente e nel nostro futuroe nel nostro agire politico quotidiano.Nel suo XII Congresso nazionale, che si tenne nel 2000 nelcampo di sterminio di Mauthausen, l’Aned, volendo trarre dal-la memoria del passato l’indicazione dei valori guida per il no-stro tempo, affrontò in quel suo congresso i temi dei cambia-menti in atto nella società umana e nel mondo e delle tensioniconnesse a questi cambiamenti.Ritenne necessaria una riflessione per capire quale fosse, nel-l’anno 2000, l’agire politico da porre in essere, eticamente fil-trato alla luce della nostra memoria, per affrontare, nella giu-stizia e nella solidarietà, i problemi delle immigrazioni, dellesocietà pluraliste, dei mercati globalizzati, dei diritti fonda-mentali e di cittadinanza di ogni persona.Ancora oggi questi sono problemi vivi e doloranti nei paesi diun Mediterraneo che conosce la morte per annegamento didonne e di uomini e di bambini, che lasciano le loro terre perla fame e che qui non trovano accoglienza.Ma a questi problemi, vivi e doloranti, oggi un altro se ne ag-giunge ancora più lacerante.Il mondo è pieno di lampi e di angoscia per la guerra e per ilterrorismo.Un’angoscia che è andata crescendo dopo l’11 settembre 2001,dall’Afghanistan all’Iraq: un’angoscia che attanaglia il cuoredegli uomini e sembra paralizzare le intelligenze ed ottunderele coscienze, incapaci di imboccare il sentiero della ragione,nonostante l’esperienza e la memoria del massacro della se-conda guerra mondiale.

Presentazione

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Noi ci siamo illusi che quella fosse stata la lezione indimenti-cabile del mai più guerre e non abbiamo saputo impedire lostillicidio di una ininterrotta serie di guerre regionali, di vio-lenze locali, che hanno reso la seconda metà del secolo scorsonon dissimile dalla sua prima metà.Ma l’angoscia di oggi non è quella di prima dell’11 settembre.Oggi l’angoscia ci deriva da una guerra che ben può definirsiil primo conflitto dell’Era globale.Una guerra che ha relegato nella marginalità tutte le violenzeregionali precedenti, che ha ricadute su tutti i popoli tramiteuna strategia mediatica lugubre, di cui il terrorismo, che laguerra globale esprime, si avvale oltre qualsiasi limite di cru-deltà umana, oltre i limiti di tutte le barbarie conosciute.L’origine e lo sviluppo del terrorismo di oggi ripetono esatta-mente i processi di sviluppo della guerra e del terrorismo nazi-fascista.La guerra e le violazioni contro l’umanità, la guerra e il terro-rismo, la guerra e le stragi di Marzabotto e di Sant’Anna diStazzema, la guerra e la Risiera di San Sabba e Mauthausen,la guerra e la scuola di Beslan, la guerra e il metrò di Mosca, ilteatro di Mosca, gli aerei di Mosca, la guerra e i cortilidell’Iraq, gli ostaggi sgozzati, la guerra e le strade di Israele ela stazione di Madrid e la metropolitana di Londra.Non c’è dubbio, il terrorismo è la guerra. Il terrorismo è unasfida mortale che minaccia tutto il mondo. Nella lotta controquesta minaccia è indispensabile essere uniti, non c’è dubbio.Ma tutti debbono avere l’umiltà, prima, e il coraggio, poi, diconfrontarsi e di dialogare e di percepire dove matura, doveavviene l’incubazione che precede l’esplosione del terrorismo.Se le stragi del terrorismo servissero solo per una chiamata al-le armi, significherebbe soltanto che gli uomini retrocedononel buio dei secoli, che si degradano al livello tribale, che nonhanno capito nulla della storia della carneficina della primaguerra mondiale, della carneficina della seconda guerra mon-diale, del terrorismo del nazismo e del fascismo.Le lacrime dell’anima non debbono appannare la capacità di

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capire, di scegliere, di agire tutti insieme. È, questa, la condi-zione perché l’efficacia contro il male comune sia massima.L’Europa con gli Stati Uniti, l’Europa e gli Stati Uniti insiemecon le Nazioni Unite, l’Europa e gli Stati Uniti e le NazioniUnite insieme con i popoli arabi e con l’Islam, per convincerei popoli arabi e l’Islam che hanno un avvenire diverso da quel-lo del fanatismo, per convincerli che l’occidente non vuole im-porre a nessuno i suoi modelli con i bombardamenti, che nonha in animo nessun colonialismo di tipo nuovo per impadro-nirsi delle risorse degli altri popoli.Gli ex deportati politici ritengono che sulla comunità italianaincomba da sempre il nodo delle memorie divise, politicamen-te strumentalizzato a fini mistificatori e di delegittimazionedella Resistenza. Una sorta di anomalia della storia, per cui la Resistenza, laLiberazione, la Repubblica, la Costituzione, tutti i momentifondanti di tutta la comunità nazionale, avrebbero prodotto sol-tanto memorie divise, confliggenti, antagoniste, che impedi-scono il formarsi di un sistema di valori condivisi, i quali sol-tanto sono il motore del sistema politico democratico.Le memorie divise non sono un male marginale che possa es-sere ignorato.Sono un male che affonda le sue radici nella storia, nella re-pressione violenta della libertà per venti anni da parte del fa-scismo, nelle responsabilità del fascismo per gli orrori dellaguerra scatenata, per la sua collaborazione con l’esercito occu-pante che mise a ferro e fuoco il Paese nel corso dell’occupa-zione militare tedesca dal ’43 al ’45.Le memorie divise sono un male che non può essere esorciz-zato come molti pacificatori d’accatto vorrebbero fare, con as-surde equazioni di eguaglianza.I partigiani da una parte e i fascisti dall’altra – dicono – hannooccupato due trincee contrapposte ma simmetriche, gli uni diqui e gli altri di là, tutti uguali comunque.Ed oggi, dopo aver negato che la Resistenza possa essere ri-cordata e celebrata come liberazione per tutti, si vuole addirit-

Presentazione

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tura, con una legge dello Stato, equiparare i collaborazionistifascisti ai militari degli eserciti nella seconda guerra mondialebelligeranti contro il fascismo e contro il nazismo.Non c’è dubbio che queste memorie divise non possono esse-re unite per legge, che non possono mai calpestare la storia, ildiritto, l’etica della responsabilità.Ma non c’è dubbio anche che queste memorie divise perpetua-no contrapposizioni che si riflettono negativamente sull’agirepolitico e sulla vita democratica del Paese.Per questo, proprio qui a Trieste, dove il passato continua apesare più che altrove, abbiamo voluto affrontare questo nododelle memorie divise, che hanno radici lontane e ragioni fortiche perpetuano antagonismi laceranti.Per questo abbiamo avviato, per noi innanzitutto, una rivisita-zione non ideologica di tutti i fatti della storia di questa tor-mentata regione, nella consapevolezza che in tutte le memorievi sono enfasi e silenzi che rendono ciascuna memoria più ri-gida, più tagliente, più antagonista.Non c’è dubbio che la Venezia Giulia ha conosciuto e sofferto,nei primi anni venti del suo nuovo assetto territoriale, dopo laprima guerra mondiale, la repressione di un fascismo di confi-ne intriso di nazionalismo violento, più violento che in qual-siasi altra parte del Paese, che lacerò, negandole addirittura, leminoranze slovena e croata, le quali, nei secoli, hanno semprecostituito, con quella italiana, le componenti essenziali di un’u-nica comunità plurilinguistica che fu sempre, e che avrebbedovuto sempre essere, considerata come la ricchezza di un in-tero territorio.Questo nazionalismo violento e aggressivo usò tutti i mezziper emarginare le minoranze giungendo persino a veri e propricrimini di Stato, alle condanne a morte da parte del Tribunalespeciale fascista ed alla esecuzione dei condannati nel 1930 aBasovizza e nel 1941 ad Opicina.Questa violenza, derivante anche dall’occupazione militare ita-liana della Slovenia e della Croazia nel 1941, raggiunse poi di-mensione di diffuso annientamento della popolazione civile

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Presentazione

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anche sul territorio italiano, con rastrellamenti, esecuzionisommarie e deportazioni.Noi tutti, deportati dal resto d’Italia, che dal 1943 al 1945 sia-mo stati lacerati dai lutti, dalle lacrime, dal sangue delle vitti-me dei fascisti e dei tedeschi, noi che abbiamo preso le armiper combattere i tedeschi e i collaborazionisti fascisti, noi cheabbiamo conosciuto la guerra di annientamento dei civili delleterre dove siamo nati, non possiamo non condannare ciò chel’esercito italiano fu comandato a fare e che ha fatto su altreterre.È lacerante pronunciare la condanna di ciò che ha fatto il tuoesercito, ma è più lacerante tacerlo.Il silenzio non sarebbe solo menzogna. Il silenzio ti priverebbedel diritto di condannare quelli che hanno offeso te e del dirit-to di essere orgogliosi di aver preso le armi contro di loro. Per rispettare la verità storica, debbono essere rivisitate anchele foibe del 1943 e del 1945, per quanto in esse non è ricondu-cibile nessuna misura di ritorsione umanamente spiegabile conle tante violenze patite in precedenza, per quanto in esse vi fuespressione non di ritorsione per antiche offese ma violenzanazionalista di Stato.Nessun uomo potrebbe mai, senza mortificare la sua stessa di-gnità di uomo, sdoppiare la propria coscienza per condannareil nazionalismo violento dell’altro e per assolvere il proprio.È solo nella verità che tutte le memorie si purificano e posso-no sublimarsi; quindi, anche senza mai confondersi, senza maiunirsi, possono incontrarsi nella storia senza più odio in un fe-condo sistema di valori condivisi.Proprio questi temi abbiamo voluto affrontare, a conclusionedel XIII Congresso dell’Aned, con le relazioni di studiosi af-fermati in un Convegno che si è tenuto nel Teatro Miela e cheè stato concluso dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro.Raccogliendo in questo volume le relazioni di questoConvegno gli ex deportati politici intendono portare il lorocontributo, rivolto soprattutto alle giovani generazioni, alla co-noscenza di un periodo tragico della storia del nostro Paese.

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Troppe volte la concatenazione precisa tra prima guerramondiale, fascismo, guerra, dopoguerra e foibe/esodo non

viene delineata con attenzione. Forse bisogna proprio accetta-re che non sempre e non necessariamente di concatenazioniprecise si tratta: fenomeni di continuità e di discontinuità, siintrecciano sempre nel discorso storico che interpreta gli acca-dimenti. Fratture e lacerazioni profonde, rovesciamenti ferocidelle parti sono infatti frequenti sullo sfondo di una perversacontinuità della violenza, che è il connotato essenziale del se-colo trascorso: sono fenomeni e ferite aperte che rappresenta-no altrettanti abissi all’interno dei quali è necessario guardare.Va poi detto che una riflessione che si inarchi lungo tutto ilNovecento giuliano non è mai stata oggetto di seria divulga-zione, fuori da contesti sempre sostanzialmente specialistici.Ognuno ritaglia un pezzetto da vicende ingarbugliate e di ognipezzetto fa una sorta di parentesi: la responsabilità, intendia-moci, non è solo dei mass-media o della propaganda politicaossessionata dalle riletture legittimanti del passato. Anche tragli specialisti manca, io credo, la volontà di rischiare fino infondo un dibattito vero, capace a sua volta di suggerire altrepiste di ricerca per una storia locale che divora frammenti distoria nazionale e internazionale, spezzoni di storia dell’Europaoccidentale e orientale, lacerazioni-simbolo del XX secolo.Così, stabilendo di iniziare col fascismo al confine orientale,ben si può affermare che tale fenomeno resta una nebulosa se

Anna Maria Vinci Università di Trieste

Il fascismo al confine orientale

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non si capisce il contesto da cui è nato: il contesto del disastrobellico e postbellico. Va ricordato che il fronte italiano dellaguerra è dislocato nell’area Nord, Nord-Orientale d’Italia.Qui le distruzioni maggiori, qui gli sconvolgimenti più radica-li, qui l’ammassamento di truppe e la presenza di un poteremilitare come potere che sostituisce e di fatto sovrasta il pote-re civile per un tempo troppo lungo.L’elenco è presto fatto: anni di assalti e ritirate sul Carso, neipaesi del Friuli orientale e nella stessa Gorizia, “occupata” e“liberata” più volte, la rotta di Caporetto, i saccheggi, un veroe proprio terremoto demografico tra evacuazioni, spostamentidi popolazione, fughe, internamenti nelle famose “città di le-gno”, le molte dolorose prigionie: al di qua e al di là del fron-te è “un esilio senza pari”, quello che colpisce la popolazionecivile. Di più: italiani “irredenti” volontari non amati dall’e-sercito dei poveri al fronte; italiani in fuga non amati nella pa-tria italiana affamata e lacera; italiani-cittadini austriaci messidi fronte alla difficile scelta di arruolarsi nell’esercito italianoper “scampare” la prigionia in Russia, sentendo di mettere inpericolo le proprie famiglie e sentendo di tradire una lealtà an-cora viva verso l’Impero.A guerra finita, il senso di spaesamento e l’inquietudine con-trassegnano il ritorno. Molti non tornano perché, di nazionalitànon italiana, si sentono ora stranieri nella loro patria di un tem-po. Ex nemici si ritrovano insieme in uno spazio spaesato. Ilpeso dei morti giovani è sulle spalle delle fasce più deboli dipopolazione (orfani, anziani, vedove). Le ombre lunghe del-l’imbarbarimento dei costumi, della consuetudine alla morte,l’umiliazione di una percezione del sé come frammento senzaumanità di una guerra moderna e mostruosa proprio per que-sta sua modernità entrano nella società con la forza di una con-taminazione che dilaga. I vecchi modi di far politica non reggono più già al terminedella guerra guerreggiata. Il potere delle armate, ad esempio,va al di là della moderazione dello stesso governatore militare,generale Petitti di Roreto, che ha pure il compito dell’ammini-

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strazione civile: il diritto di conquista e conseguentemente didominio assoluto è una pulsione forte. Un costume di vita. Orapiù che mai i prepotenti nazionalismi nati nel tardo Ottocentoall’interno di un Impero come quello austro-ungarico sono for-ti forme di identificazione che sembrano rassicurare e offrireun rifugio, una giustificazione e una speranza mentre perpe-tuano la durezza dello scontro e delle divisioni; le manifesta-zioni di piazza, d’altro canto, rappresentano un continuo auto-riconoscimento, un continuo contarsi, la raffigurazione palesedi un disagio che la dimensione privata non riesce a contenere.Ed è quello della ribellione, del desiderio di palingenesi totale,della critica feroce ad una democrazia inetta, un fenomeno cheattraversa la destra e la sinistra, supera i confini ideologici, me-scola talvolta anche le violenze. Nella Venezia Giulia come al-trove. Molte di quelle manifestazioni-ed è ovvio che qui il dis-corso dovrebbe farsi più lungo-diventano lugubre esibizionedella morte (i numerosi uccisi nella pace guerreggiata), comese l’esperienza appena vissuta dovesse trasformarsi ora in ge-sto di sfida, simbolo di un sacrificio che chiede risarcimenti.Ma bisogna andare oltre. I poteri forti (militari, ma anche eco-nomici) puntano ad una vittoria senza limitazioni, “non muti-lata”, né verso l’esterno né verso l’interno. L’urlo dannunzianoè già nella gola di strateghi ben più solidi.Prospettive di penetrazione economica in un’area resa deboledal crollo dell’Impero austro-ungarico diventano l’ambizionepiù viva di élite locali abituate a muoversi agevolmente all’in-terno di un mondo che ben conoscevano e che forse si illudo-no di poter ricomporre ora con facilità. In tal senso cercano diconvincere gli interlocutori della patria italiana, pronta a vesti-re i panni della grande potenza vincitrice, anche se del tuttoincapace di reggere progetti di conquista ed egemonia econo-mica: i gruppi finanziari ed industriali italiani, del resto nonhanno fiato sufficiente per un’ampia impresa, pur tentati digiocare in qualche modo la partita. Di certo, tutti i miti dell’ir-redentismo sembrano sbattere contro il muro di gomma dellarealtà: un po’ stupisce, ad esempio, il fatto che già nel 1921

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l’élite economica triestina, per bocca di alcuni suoi rappresen-tanti, si interroghi su uno dei cavalli di battaglia dei nazionali-sti più vicini agli ambienti economici locali: la naturale attra-zione del porto di Trieste verso l’entroterra, sotto qualunquecielo e a qualunque condizione. L’idea-mito attraversa il ven-tennio inarcandosi nei discorsi di propaganda. Nel sottofondo,tuttavia, i dubbi appaiono fin da subito: saranno poi i più fer-venti irredentisti di un tempo (da Fulvio Suvich all’alto fun-zionario dello Stato, Iginio Brocchi, capo gabinetto del mini-stro delle Finanze Volpi) a ricucire alle spalle del porto, alme-no fin dove ciò sarà possibile, la trama dei rapporti laceratadalla guerra e non più in grado di funzionare come polmoneper la città. Strana ironia della sorte per quei non pochi ferven-ti patrioti italiani di educazione austriaca: è immediata la tra-sposizione della vecchia immagine del nemico (l’austro-tede-sco) nell’universo dei necessari e stimati collaboratori. Sulla magra realtà di un panorama economico europeo com-pletamente diverso dal passato, in cui la potenza d’Italia puòappunto giocare solo una debole (ma non per questo non peri-colosa) partita a scacchi, tutti i vecchi miti (della guerra, dellavittoria, della romanità) si ripropongono sotto vesti cangianti.Al sogno imperiale di conquista “sulle vie dell’espansione neiBalcani e nel Levante” non si rinuncia, in un’Europa semprepiù divisa: è “Trieste la nuova trincea d’Italia per la sua ne-cessaria espansione verso il mondo danubiano, levantino, bal-canico”. Il bisogno d’ordine e di rapidi riassestamenti economici e so-ciali diventano a questo punto il grimaldello che può essereusato (con diverse responsabilità e a diversi livelli) per frantu-mare il contesto dello Stato liberale e di diritto. I nuovi lin-guaggi della politica puntano ad una continua escalation difantasmi e di paure: il “nemico” esterno proietta la sua ombraminacciosa e vivida all’interno dello Stato italiano. La paura,di fatto, “annusa” un potenziale pericolo, un continuo turba-mento lungo frontiere non ancora definite e fortemente conte-se. Gli sloveni e croati rimasti all’interno del nuovo confine

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nazionale in via di definizione non sono gli avversari di sem-pre, sono le quinte colonne del Regno dei S.H.S. I socialisti aloro volta sono le quinte colonne della rivoluzione sovietica.Le fonti documentarie prodotte dagli Uffici Ito dell’esercito(Informazione truppe operanti) che nel primo dopoguerra han-no anche compiti di sorveglianza sulla popolazione civile of-frono a tale proposito l’esempio più significativo di un lessicodell’esclusione e del sospetto, che non annuncia la pace tra ipopoli. L’immagine che essi disegnano dell’area di frontieraesce dai circoli locali, per giungere ai centri decisionali del-l’autorità governativa. La pace è comunque armata dall’una edall’altra parte: l’idea del nemico che si va costruendo conspezzoni presi da opposti schieramenti ha la forza di un vorti-ce comune, che attrae tutte le parti politiche, tutte le nazionali-tà. Anch’essa serve a ricomporre inquiete identità. Un altro tema che va considerato sia per il confronto tra l’em-pito dei miti di vittoria e di potenza e la “spigolosa ruvidità delrisveglio”, sia in relazione all’inquieto vivere di queste terre èsenza dubbio quello particolarmente contorto della “cittadi-nanza”: il diritto principe da riconoscere alle popolazioni entroi nuovi confini europei, ridisegnati dopo la prima guerra mon-diale. Inutile dire che ogni caso presenta la sua peculiarità eche la stessa definizione di “cittadinanza” aprirebbe qui lun-ghe discussioni. Ma non è su questo terreno che mi voglio ad-dentrare. Per rimanere ancora una volta ancorata ai mille rivo-li delle fonti, è molto utile prendere in considerazione un inte-ro fondo denominato “Cittadinanza” esistente proprio pressol’Archivio di Stato di Trieste. Il Trattato di Saint Germain chedipana (o inizia a dipanare), ad esempio, il contenzioso tranuovo Stato austriaco e potenze dell’Intesa, interessa ovvia-mente anche l’Italia ed in prima battuta il punctum dolens delconfine orientale o quanto meno di una sua parte. Le “clausolerelative alla cittadinanza” determinano alcuni punti fermi(Chiunque abbia la pertinenza in un territorio che faceva par-te dei territori dell’antica monarchia […] acquisterà di pienodiritto, ad esclusione della cittadinanza austriaca, la cittadi-

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nanza dello stato che esercita la sovranità sul territorio pre-detto), ma si coronano poi di una serie di sottili “distinguo”quando quel diritto può diventare tale solo per “elezione”, perscelta: è allora necessario il vaglio di apposite Commissioni.La ratio delle clausole dei Trattati indubitabilmente punta aduna riconfigurazione dei territori dell’ex Impero austro-unga-rico che abbia una sua compattezza etnico-linguistica; già pri-ma della firma dei Trattati (di Saint Germain, e poi quello diRapallo nel novembre del 1920) gli eserciti occupanti, almenoper quel che riguarda proprio l’area al confine orientale, ave-vano provveduto ad epurazioni-espulsioni di persone “di altralingua e razza” non politicamente gradite. È anche vero, tut-tavia, che l’attività di quelle Commissioni, dopo la carica suo-nata dagli eserciti, deve procedere con una nuova cautela. E dicerto ciò accade non perché persone di “altre razze” risultinoora più ben accette. Innanzitutto molte di quelle Commissioniconsultive istituite per circondario e restate in vigore fino al1927 sono composte, contro ogni altisonante proclama, ancheda eminenti personaggi sloveni e croati, scelti tra “i moderati”.In secondo luogo la complicata traduzione burocratica dellenorme del trattato in questione (e dei trattati successivi) impo-ne numerose deroghe, in senso positivo, rispetto agli elenchidegli inclusi nella cerchia dei cittadini italiani: la lentezza esa-sperante delle pratiche, l’ignoranza incolpevole degli interes-sati che non si destreggiano tra codici e codicilli, il numero deiricorsi diretti a diverse autorità istituzionali, forza le maglie diun ingresso che indubbiamente era stato pensato con maggiorrigore selettivo. C’è tuttavia dell’altro: vanno considerati “i vuoti” lasciati dachi si vede rifiutata la domanda di cittadinanza per diritto dipertinenza, elezione o opzione e che possono di certo esserecolmati da altre presenze di nazionalità italiana e non sospettipoliticamente: vi è comunque un reticolo di professioni (ancheminute) che rischia di strapparsi a danno di tutti. I commer-cianti, ad esempio, che a lungo vagano nell’incertezza (siamogià nel 1926) di un conferimento certo di cittadinanza (neces-

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sario per ottenere i passaporti), inevitabilmente interromponoil regolare svolgimento degli affari, che non sono solo affari dicarattere privato. Ancora più significativa la vicenda del clero “allogeno”: nel1923 su 63 domande di cittadinanza, ne vengono respinte 41 ela prefettura, col parere delle Commissioni, crede di aver fattoegregiamente il suo dovere, fino a quando non giunge un ri-chiamo dal ministero dell’Interno, sollecitato da alcuni vesco-vi della Venezia Giulia. È certo già in pieno corso il lungo iterdi riavvicinamento tra il mondo cattolico e il mondo laico esono già in vista le trattative per il Concordato: ciò che colpi-sce in una lettera del vescovo di Pola a Mussolini, del gennaio1923, è l’equivalenza clero/mantenimento dell’ordine, anzi delnuovo ordine nazionale nonché il fiorire degli stereotipi. Lecesure, gli strappi, incidono su un tessuto di autorità ricono-sciute: senza di esse il pericolo non è solo religioso, ma mora-le e politico. “Le popolazioni slave e rurali hanno bensì deidifetti, ma nella loro massa sono buone… ed affezionate ai lo-ro pastori spirituali. I difetti di quelle popolazioni sono noti;serpeggiano in diversi punti il concubinato […], lo spergiuroe soprattutto la vendetta con i rispettivi danni ed assassini[…]. Le masse delle popolazioni slave amano l’ordine e la re-ligione[…] frequentano la chiesa… ascoltano volentieri la pa-rola di Dio”. Il leit-motiv è noto: l’attacco alla rete ecclesiale èrespinto dai vescovi giuliani contendendo all’autorità civileuna parte del suo stesso vocabolario di legittimazione (ordine,pace, nazionalizzazione). Il ministero degli Interni, almeno perquesta volta, chiede cautele alle periferie più riottose ed il pre-fetto della provincia di Trieste, sebbene a malincuore, è co-stretto a segnalare che solo uno dei ricorsi presentati dai 41 sa-cerdoti cui non è stata conferita la cittadinanza italiana è statoaccettato. Per il resto si affida allo stesso ministero degliInterni. La categoria della convenienza e non quella della mo-derazione è quella che si attaglia meglio a definire tali scelte:di fatto il tessuto dei popoli conviventi da secoli sullo stessoterritorio non può essere strappato del tutto. Sullo scenario

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europeo lo sradicamento di intere popolazioni è agli albori: iprimi esperimenti gettano (caso greco-turco), forse, il semeper un futuro non lontano. Ad ogni modo, nel lungo e difficilepercorso che l’idea di “cittadinanza” stava compiendo nel tem-po d’Europa, la pace di guerra degli anni Venti impone pesan-ti freni e inevitabili retrocessioni (dalla cittadinanza alla suddi-tanza), scatena radicalismi violenti, si porta dietro la tentazio-ne dell’omologazione di nazione e di “razza”. Non sono detta-gli che restano chiusi dentro stretti confini.Rispetto alle altre regioni d’Italia, nella Venezia Giulia il fasci-smo conosce dunque un precoce successo, perché sa innestarsicon indubbia abilità politica nei conflitti sociali e soprattuttonazionali che continuavano ad imperversare da decenni in que-st’area e che la guerra rilancia. Soprattutto esso sa fare tesorodel clima di incertezza diffusa, esasperato dalle difficoltà e daimolti fantasmi che una situazione magmatica, come quella ap-pena descritta, suscita.Carattere distintivo del “fascismo di frontiera” è infatti l’epo-pea della “difesa del confine nazionale”, accompagnata dallaforte aggressività contro i nemici esterni ed interni. Le squadre fasciste, guidate dal toscano Francesco Giunta, san-no appunto cogliere questo ribollire della società civile cheben si coniuga con l’acuto senso della “guerra non finita e danon finire” dei poteri militari e con il desiderio di molta partedei ceti dirigenti che temono l’incandescente intreccio di ribel-lione sociale e ribellione nazionale. Sono molte le squadre ar-mate, capaci di spostarsi da Trieste da un capo all’altro dellaregione; raccolgono i disorientati, gli inquieti, masse di perso-ne rifiutate da altri schieramenti. La loro violenza è quella del-la “devastazione”, secondo quanto affermano le stesse fontidell’epoca. Devastazione è una parola forte, un termine milita-re che contiene modelli e tipologie organizzative di caratterebellico. La federazione del fascio di Trieste conta già nel 1921circa 14.000 iscritti: è la più importante d’Italia. Il 13 lugliodel 1920, con l’incendio del Narodni Dom – sede delle princi-pali organizzazioni slave della città e collocata nel centro di

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Trieste – accompagnato da paralleli atti di violenza a Pola ePisino rappresenta una data simbolica di svolta. Quelle fiam-me ritornano nei discorsi di propaganda degli anni successivi esono da subito un’immagine emblematica diffusa dalla stampanazionale. Le fiamme che si elevano dagli edifici, e tutte leoperazioni d’assalto che ne causarono le distruzione, apronocon tutta evidenza lo scenario dell’alleanza in corso tra i nuoviportatori di violenza e parti importati dello Stato, non più dis-poste a rispettare le tradizionali regole della convivenza socia-le e politica. “Dalla Venezia Giulia deve muovere la riscossa.È un Piave perfetto la nostra regione”: è Francesco Giunta cherichiama un mito nazionale forte e insiste ancora: “La VeneziaGiulia ha il posto che nel Medioevo ebbero le marche di confi-ne, contro l’invasione straniera”.Valenza nazionale, valenza simbolica, linguaggio guerresco: lesquadre organizzate da Giunta giocano così le loro carte, inter-pretano così il loro ruolo su una scena locale che vuol esserelaboratorio e insieme modello per tutta l’Italia. Il loro progettoè un coacervo d’idee, ma non è senza idee: sono ideologiecomposite che chiedono insieme ordine e ribellione, gerarchiaed eversione per una nuova idea di nazione e di patria.La dittatura necessaria come “imperio della parte più sanadella nazione sui partiti degenerati, come imposizione neces-saria e violenta dell’ordine”: con queste parole, invece, nonuno squadrista, ma un esponente molto vicino alla borghesiaagraria e industriale friulana, Piero Pisenti, futuro ministro diSalò, sembra sancire la confluenza tra il vecchio ed il nuovo,tentando di tenere a bada la corda pazza della violenza. LoStato forte è la sirena che ormai incanta anche le seconde file.Sono poi queste a gestire la fase successiva dell’assalto, spes-so attraverso percorsi complicati che puntano ad avere nellavecchia guardia nazionalista, più colta e preparata, il riferi-mento privilegiato. Sono proprio questi uomini coloro che con-tribuiscono a rendere solide le basi dello stesso Stato fascista(basti ricordare la figura di Alberto Asquini, allievo di AlfredoRocco) e a rappresentare, nel contempo, l’avanguardia della

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presenza fascista nella stessa Austria e nei Balcani: la meta diuna penetrazione economica e di un controllo politico in quel-l’area non è mai abbandonata, nemmeno negli anni in cui l’al-leanza italo-tedesca trionfa. I ceti medi, intanto, gli avvocati, imedici, gli impiegati, gli insegnanti trovano un varco apertoper rivendicare impieghi e carriere, nella politica “contra bar-baros”, che il primo fascismo sta propalando ai quattro ventiper ottenere spazi e “visibilità”. Il primo fascismo, tra l’altro,sa accodarsi molto bene alla frantumazione di quelle sicurezzesociali che l’Impero aveva saputo dare ad una parte della po-polazione: esso riesce così a solleticare in molti casi le ambi-zioni di alcune categorie professionali (i medici, ad esempio).Dopo la conquista del potere, l’eversione fascista si fa violen-za di Stato, che ha tra i suoi obiettivi prioritari, volendo incar-nare l’idea di forza e di potenza, quello di distruggere l’identi-tà nazionale delle popolazioni slovene e croate, ormai partedella patria italiana: tutto ciò in memoria di antichi contrasti, equindi con un forte senso di rivincita, ma anche in odio versoqualsiasi forma di “diversità” possibile all’interno di uno Statogerarchico e dittatoriale, uscito da una guerra “vittoriosa”.L’omologazione delle “minoranze” avanza, con diversi siste-mi, in tutti gli Stati europei: in Italia, la dittatura dà una parti-colare coloritura a tale meta, che forse rappresenta un progettoimperfetto, ma è pur sempre rivelatore di una mentalità, diun’ideologia. Su questo obiettivo converge sia la legislazionerepressiva applicata contro gli oppositori del fascismo sia unaserie di misure specificatamente mirate alla “bonifica” etnicadella regione, fra le quali si distinguono i provvedimenti diret-ti ad impedire l’uso pubblico della lingua slovena e croata(abolizione della stampa slava, soppressione dell’insegnamen-to in lingua slovena e croata, chiusura dei circoli culturali) ri-tenuti premessa indispensabile per l’assimilazione degli “allo-geni”. Unica cultura, unica lingua: la lingua e la cultura della“civiltà superiore”. Tutto ciò – nella complessa articolazionedella politica antislava – è spesso presentato come un dono, o,se provoca sofferenza, come una sofferenza necessaria.

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Sofferenza necessaria è certo quella dell’italianizzazione deinomi e dei cognomi. Una significativa differenza viene intro-dotta dalla legislazione proprio a tale riguardo. La legge del 10gennaio 1926 prevede che si debbano “restituire” i cognomi informa italiana (cancellando i segni di linguaggi appartenentiad una civiltà “inferiore”), ma che la loro “riduzione” (e ri-scrittura) in italiano sia facoltativa: in realtà è questo un picco-lo esempio che aiuta a capire come agiscano in accordo le or-ganizzazioni fasciste e l’apparato dello Stato, ancora vincolatoal vecchio Statuto Albertino, pur rivisto e “forzato” in più pun-ti. Le autorità istituzionali provvedono alla “restituzione di fat-to e d’autorità” ed esplicitamente si affidano al Pnf per “la ri-duzione” (ed il ricatto verso gli incerti o i ribelli).A tali provvedimenti si accompagna la persecuzione degli ele-menti ritenuti capaci di fungere da coagulo per le comunitànazionali slovene e croate, in primo luogo i preti, i maestri, icapi-villaggio. Infine, la liquidazione del tessuto cooperativo ecreditizio slavo, già in prepotente ascesa in epoca asburgica,frena bruscamente le vive speranze di affermazione sociale de-gli sloveni e dei croati. La borghesia slava della Venezia Giulia(o quello che ne era rimasto, dopo i molti provvedimenti diespulsione e le molte fughe avvenute già alla fine della guerra)viene drasticamente ridimensionata e di fatto sostituita, negliuffici pubblici, nelle professioni e nell’economia privata, da“homines novi” di provata fede italiana, in tutti i casi in cui ta-le operazione è possibile e vantaggiosa. Bisognava infatti ren-dere appetibili, ad esempio, a italiani delle vecchie province lecariche di podestà senza compenso in territori isolati e scomo-di. Bisognava giocare sul filo del rasoio della repressione vio-lenta e del mito della civiltà superiore, tra un modello di esclu-sione ed uno di inclusione condizionata.Nelle campagne e nei piccoli borghi, era più difficile tale ope-razione di sostituzione e, spesso, l’espulsione del ceto dirigen-te o dei ceti medi sloveni e croati ivi esistenti si rivelava soloun ostacolo pesante per il funzionamento delle stesse istituzio-ni. Non mancano del resto tentativi di corruzione, di adesca-

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mento da parte dello Stato fascista; né le comunità slovene ecroate (urbane e contadine) danno tutte compattamente la stes-sa risposta di ripulsa al regime dittatoriale. Cedimenti e com-promessi, adattamenti e consensi non sono rari. L’opposizionenon sempre veste i panni dell’antifascismo “consapevole” (maquanti sono gli antifascismi?). Non va comunque mai dimenti-cato che i sistemi di polizia hanno, lungo il corso del venten-nio, un’azione deterrente di grande rilievo (i moltissimi prov-vedimenti di ammonizione e di confino, le carcerazioni e lecondanne a morte comminate dal Tribunale speciale per la di-fesa dello Stato), mentre vengono creati ad hoc proprio sul fi-nire degli anni Venti altri istituti, come l’Ispettorato specialedel Carso, guidato dal capo fascista Emilio Grazioli, con finidi controllo capillare dell’area periferica urbana: essi riesconoa funzionare molto meglio di tutti gli altri tentativi compiuti,per mezzo delle organizzazioni del Pnf e delle istituzioni stata-li, con particolare riferimento sia alle trasformazioni economi-che indispensabili per il retroterra carsico e per l’Istria pove-rissima sia all’assistenza ed al soccorso dei più miseri.L’esempio di rapporti inusuali tra Stato e società diventa og-getto di consapevole esibizione. E per molti versi tali modellidi comportamento incarnano proprio la modernità di uno statodittatoriale.La carenza di mezzi finanziari blocca poi la maggior parte deiprogetti, mentre la costruzione di miti propagandistici (il mitodi Roma, la potenza salvifica della civiltà latina, ad esempio)non riesce a trasformarsi in modelli di vita da proporre “ai di-versi”: nemmeno l’esaltazione della modernità e della ruralità,spesso indicate come schemi culturali che possano conviveresenza difficoltà, raggiunge risultati duraturi; il disprezzo versogli “allogeni” e le misure repressive smascherano facilmente ilvolto suadente del “fascismo benefico”. Del resto è interessan-te notare come il discorso della snazionalizzazione assumadentro di sé coloriture razziste che dilatano i confini dei vecchistereotipi con nuove tipologie di linguaggio supportate da unapropaganda via via più violenta soprattutto nel momento in

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cui cominciano a soffiare i venti di guerra. Allora il fascismo“bonificatore” non è solo quello che deve migliorare le condi-zioni economiche e morali delle popolazioni allogene ma, ap-punto, alla fine degli anni Trenta è quello che deve “bonifica-re” il territorio al confine e “saturare” quelle terre con “la pre-senza della nostra razza”. Quel lessico politico si avvia a di-menticare la distinzione paternalistica tra il buon popolo con-tadino ed i suoi capi perversi; lo stigma razziale è inscritto nel-l’immagine di truculenta malvagità e bruttura che la stampa ri-manda, soprattutto in determinate occasioni (nel momento del-le plateali celebrazioni dei processi del Tribunale speciale aTrieste, nel 1930 e nel 1941, ad esempio); il determinismo raz-ziale parla, in questi casi, attraverso i corpi dei ribelli condan-nati. Si può ipotizzare una sorta di “razzismo coloniale” nelcaso dei rapporti tra italiani, da una parte, e sloveni e croati,dall’altra: una civiltà superiore contro una “non civiltà”, perconnotare la quale emergono dalla tradizione sedimentata delrazzismo di inizio secolo (in Italia e altrove) gli strumenti ne-cessari. Razza e difesa nazionale, razza e modernità, nel con-testo del confine orientale così prossimo allo scenariodell’Europa orientale: su questi temi, a proposito dei quali hagiustamente insistito Enzo Collotti, molto ancora c’è da inda-gare e sarebbe bene venissero valorizzate pienamente, accantoalle fonti orali, anche le fonti minori per un arco di tempo lun-go (dall’opuscolame propagandistico, alle riviste di varia natu-ra, ai quaderni di scuola, ai giornaletti per ragazzi fino alle pre-diche in chiesa), stabilendo un saldo confronto con la storio-grafia slovena e croata e ricostruendo nel dettaglio l’incrociotra composizione sociale ed etnia nella Venezia Giulia neglianni del fascismo. E ancora: quanto pesano tutti questi “razzi-smi” su un regime generalmente considerato più mite e ma-gnanime rispetto ad altri modelli?In ogni caso, quand’anche si scopra che il corpus ideologicofascista, in relazione al razzismo antislavo, rappresenta solo uncoacervo di idee disorganiche e che le teorie furono spessocontraddette da una realtà ben più complicata, la sua devastan-

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te efficacia è indubbia sul piano dei rapporti tra popoli convi-venti. La permanenza dell’intolleranza e dell’odio ne sono in-diretta testimonianza: i linguaggi aspri della politica, le sceltedi violenza, i processi di denigrazione e di delegittimazionereciproca scavano un’offesa profonda, frutto di una incom-prensione cresciuta a dismisura nell’arco di un secolo, in cui ilfascismo gioca un ruolo decisivo.Si può ben dire a questo punto che la Venezia Giulia si confi-gura come un luogo, in cui sono messi alla prova peculiaritàdiverse e contrastanti dello Stato fascista: la ricerca del con-senso spesso veste i panni della magnanimità del più forte,mentre lascia sempre in mostra l’arma della repressione piùcapillare; la modernità nasconde l’inconsistenza finanziariadel paese; il valore pregnante dei miti mostra la sua forza e lesue belle vesti cangianti, pur restando spesso sulla soglia diuna casa contadina, fuori dalle relazioni e dalle logiche deimondi di paese; “l’uomo nuovo” stenta a crescere; l’arroganzae l’orgoglio nazionalista e imperialista su cui il regime puntamolte delle sue carte non si sciolgono tuttavia come neve alsole soprattutto per la formazione dei giovani italiani, cresciu-ti durante il ventennio. Che il regime crei qui, con tale politica, compatti schieramenticontrapposti è poi un assunto che va discusso: perché l’antisla-vismo non è appunto l’unico strumento di esclusione e di mar-ginalizzazione che esso assume e impone. La disarticolazionedella società civile passa ancora attraverso molti canali ed ètrasversale, spesso, alla contrapposizione nazionale: dopo il1938 tale processo diventa molto evidente. Per avviarmi alle conclusioni, va detto comunque che le co-munità slovene e croate, prova tangibile di “diversità” nonomologate, continuano ad apparire come realtà che hannopunti di riferimento significativi, che fungono da protezione diun’identità comunitaria peculiare: si tratta soprattutto dei sa-cerdoti, coloro che già in epoca austriaca avevano svolto unruolo non da poco nel processo di costruzione dell’identità na-zionale slovena e croata e che, nelle mutate condizioni del ven-

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tennio, cercavano in ogni modo di difenderne princìpi e valori,preservando così anche il legame che li univa al loro popolo dicredenti. La Chiesa cattolica si trova fortemente esposta alle pressionidel regime, soprattutto dopo la firma del Concordato che po-neva su un piano ben diverso, rispetto al passato, i rapporti traChiesa e Stato. Come detto, sono numerosi i sacerdoti slovenie croati mandati al confino, anche prima del 1929; molti altrivengono intimiditi o sottoposti a violenze. Senza dubbio, l’al-lontanamento dell’arcivescovo di Gorizia, e poi quello del ve-scovo di Trieste sta ad indicare che il clima è mutato: quei pre-suli, che con tenacia avevano difeso il diritto naturale deglisloveni e dei croati all’uso della loro lingua, per lo meno nellasfera religiosa, erano osteggiati da una buona parte dello stes-so clero italiano, poiché venivano percepiti come un potenteelemento di contraddizione nelle nuove relazioni di pacifica-zione tra Chiesa e regime. Non è difficile su queste basi un ac-cordo ai vertici delle gerarchie ecclesiastica e politica perespungere personalità incapaci di un’obbedienza supina. Larete ecclesiastica, pur strattonata e lesa in più punti, è tuttaviatenacemente presente sul territorio, nelle aree rurali marginalie povere: gli ambigui risvolti dell’alleanza tra Chiesa e fasci-smo toccano anche queste terre, dove la rivalità tra i due pote-ri comunque preme sotto la coltre delle molte convergenzeideali e dei molti compromessi.Quei nuclei comunitari sloveni e croati sono invece scompagi-nati dalle forti spinte emigratorie, che vanno ben oltre la fasedel primo dopoguerra, verso la Jugoslavia e verso i paesi trans-oceanici (la quantificazione è tuttora di difficile definizione,nonostante l’importanza degli studi prodotti), per motivi poli-tici e/o economici: partono indubbiamente molti giovani, allaricerca di migliori condizioni di vita, ma spesso – si può certoimmaginare – con rabbia e rancori difficili da sopire. Quel con-fine orientale esaltato come barriera inespugnabile, diventa,soprattutto negli anni della grande crisi, un “confine poroso”.I dati del censimento etnico fatto compiere in maniera riserva-

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ta dal governo fascista nel 1939 e basato sulla lingua d’uso,sembrerebbero dimostrare che alla vigilia della seconda guerramondiale la consistenza della popolazione slava presente entroi confini del Regno d’Italia fosse in calo, sia pur in terminicontenuti e diversificati tra città e campagna. L’emigrazione ele politiche dell’odio e dell’esclusione avevano dunque avutoil loro peso; il fatto poi che la stessa fonte rimarcasse, nono-stante tutto, la presenza di circa quattrocentomila alloglotti al-la vigilia della guerra al confine orientale suonava come unaprecisa minaccia per il regime e, nello stesso tempo, come lanon compiuta snazionalizzazione delle popolazioni slave. Allesoglie della guerra, quando il problema delle minoranze nazio-nali diviene l’esca propagandistica che fa scattare la trappoladella guerra in Europa, la paura dei dirigenti e dei “consiglie-ri” del Pnf è molta: “fusione e unificazione della razza […] neiterritori di frontiera”, è la proposta di un ex mazziniano passa-to ormai da tempo nelle file fasciste.Ci vogliono tuttavia politiche di forte impatto, investimenti fi-nanziari significativi per raggiungere l’obiettivo, di un confineche sia anche un “confine razziale”: in questo nuovo modellorazziale fascista, contaminato dalle spinte antisemite ormai inatto sul territorio nazionale, c’è ancora posto per un’idea di as-similazione, stravagante solo in apparenza. Si può ancora pensare, sottolinea l’estensore della relazioneappena citata, ai matrimoni misti, tra donne slave dell’Istria edel Carso, con militari italiani o uomini della Milizia: le donneslave, potenzialmente pericolose per la capacità di trasmetterela lingua nazionale ai figli, sono poste in realtà in questa ge-rarchia sociale al gradino più basso, secondo una concezionedi puro disprezzo e secondo i canoni di una tradizione del “do-minio maschile” corroborata dall’idea della forza virile del-l’uomo militarizzato.Il frutto avvelenato di vent’anni di lacerazioni ed insipienzeviene così lasciato in pasto alle nuove violenze che solo laguerra è in grado di alimentare: una nuova ondata di intolle-ranza che accomuna questa volta slavi ed ebrei scuote fin dal

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1941 (e dall’invasione della Jugoslavia in particolare) la cittàdi Trieste. “Squadroni della morte” si aggirano nello spaziourbano, portando con sé una violenza aggiuntiva rispetto aquella dello Stato, esibita anch’essa secondo i canoni del ter-rore, il terrore di uno Stato tirannico che ha ormai scoperto leformule proprie dello Stato totalitario.Alcuni anni fa ricerche condotte sulla base delle testimonianzeorali, riportavano le espressioni di gioia di uno sloveno cheguardava dalla periferia i bombardamenti su Trieste: un’im-magine icastica e simbolica insieme.Dalla periferia, tenuta lontana e divisa dalla città quasi ad oc-cupare uno spazio simbolico di estraneità e di “non esistenza”si profilava lo spettro della vendetta. Gli slavi, i vicini scono-sciuti o denegati dei piccoli centri interni dell’Istria e di tuttal’area del goriziano, si preparavano a voltare pagina.Basta tuttavia questa osservazione che delinea un contesto pre-ciso a spiegare quanto accadde nel secondo dopoguerra, con ildramma delle foibe e dell’esodo? Secondo me un forte ele-mento di discontinuità si apre nel 1945: la tragedia della guer-ra e dell’occupazione fascista in Jugoslavia, ricordata qui daglialtri relatori, va confrontata con altri progetti di violenza e conaltri abissi d’odio che nessuno volle o fu in grado di controlla-re. “La vendetta” fu spesso solo un pretesto, mentre la viola-zione dei diritti dell’uomo fu una realtà che nessuna promessadi un mondo migliore, in futuro più o meno lontano, potevagiustificare o rendere degna. La necessità di creare dei contestiche spieghino il perché degli accadimenti non deve toglierenulla alla rilevanza di questi ultimi, alle nuove fratture e lace-razioni che tali eventi drammatici aprivano in modo tale che ilpassato veniva capovolto ma con le stesse logiche di disuma-nità. Spiegare non serve, se non c’è questa presa di coscienzache è anche smarrimento.

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L’Italia, vincitrice nella prima guerra mondiale, concluseil proprio processo di unificazione nazionale inglobando

nel contempo circa mezzo milione di popolazione slava nellaVenezia Giulia. La popolazione slava, chiamata ufficialmenteallogena, era composta secondo il censimento del 1910 da cir-ca 327.000 sloveni e 152.000 croati. Assieme ai 34.000 slove-ni della Slavia veneta, già presenti nello stato italiano dal 1866e censiti nel 1921, gli sloveni in Italia erano 360.000 e rappre-sentavano quasi un quarto dell’intero popolo sloveno con al-trettanto territorio. Queste terre (assieme alla città di Zara e alSud Tirolo con circa 200.000 tedeschi) vennero attribuiteall’Italia con il patto di Londra, concluso, con gli alleati, nel-l’aprile del 1915. Con il patto il governo italiano adottò un pro-gramma di espansione che accanto ai motivi nazionali inclu-deva anche ragioni di carattere geografico e strategico. Da ciò,credo, scaturirono tutti i conflitti tra i due popoli e tutte le tra-giche conseguenze, di cui nemmeno oggi ci si rende comple-tamente conto. Per gli sloveni della Slavia veneta la crescitadel numero di sloveni presenti in Italia non influì sulla loro si-tuazione politico-nazionale. Ritenuti ormai assimilati, non ven-ne pertanto loro riconosciuto alcun diritto nazionale. Nel 1934,con un decreto prefettizio, fu loro tolto anche il diritto alla pre-ghiera nella lingua materna. Nel periodo di occupazione militare della Venezia Giulia, tra il

Milica Kacin Wohinz Istituto di Storia contemporanea di Ljubljana

Le minoranze sloveno-croate sotto il fascismo

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novembre 1918 e l’annessione del gennaio 1921, le autoritàitaliane presero numerosi provvedimenti restrittivi, che pena-lizzarono la ripresa della vita culturale e politica della compo-nente slovena e croata. L’ Italia non era preparata ad affrontarei delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati,abitati anche da sloveni e croati che aspiravano all’unione conla propria “madrepatria” e che avevano già compiuto la pro-pria acculturazione socio-politica nel plurinazionale statoasburgico. Nel 1918, finita la guerra, il capo di Stato maggioregenerale Pietro Badoglio diede istruzioni politiche per il tratta-mento della popolazione slava in tre progetti riservati, elabora-ti per ordine del ministro degli Esteri Sidney Sonnino. Da unaparte veniva decisa l’azione concreta mirante alla dissoluzionedel nuovo stato jugoslavo – il Regno dei serbi, croati e sloveni–, dall’altra si forniva alle trattative per la definizione del nuo-vo confine tra i due stati un quadro politicamente italiano del-la regione. Al terzo punto delle istruzioni del 29 novembre sileggeva: “Escluso ogni riconoscimento esteriore dello Statojugoslavo e dei suoi pretesi organi, tale Stato, il suo territorioe i suoi organi in quanto tengono un contegno contrario agliinteressi e ai diritti dell’Italia e dell’Esercito occupante, sa-ranno considerati come nemici coi quali è in vigore un armi-stizio e saranno trattati in conformità”.L’irremovibilità delle delegazioni italiana e jugoslava alla con-ferenza di Parigi ritardò la stabilizzazione dei territori occupa-ti acuendo i contrasti nazionali e costruendo il terreno idealeper l’affermazione del “fascismo di confine”, che coagulò leforze nazionaliste sul piano dell’antislavismo combinato conl’antibolscevismo. L’incendio del Narodni dom a Trieste nelluglio 1920, non fu che il primo atto di una lunga serie di vio-lenze nella Venezia Giulia. Secondo lo storico triestino CarloSchiffrer fu compiuto nell’intento di mettere in difficoltà letrattative; secondo il socialista Aldo Oberdorfer distrusse perun lungo periodo tutti i ponti che esistevano per una conviven-za pacifica tra i due gruppi nazionali. Al comizio elettorale delBlocco nazionale italiano, il primo maggio 1921, il leader fa-

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scista Francesco Giunta si presentò così: “Il mio programmalo conoscete... Per me è iniziato... con l’incendio del Balcan ...Oggi non si tratta solo di vincere la battaglia politica... bensìdobbiamo vincere alle porte orientali d’Italia la battaglia na-zionale... Il nemico sta solo due passi fuori dalle mura dellacittà.”Il trattato di Rapallo, stipulato tra i due stati il 12 novembre1920, non vincolò l’Italia al rispetto delle minoranze slovena ecroata; diede però tutti i diritti alla minoranza italiana inDalmazia rimasta nella Jugoslavia. Più tardi, nel 1923, il mini-stro degli Esteri Carlo Sforza in una lettera a Giovanni Giolittiscrisse: “A Rapallo gli jugoslavi erano sull’orlo della dispera-zione... Con il consenso dei vicini abbiamo trasformato in ita-liani mezzo milione di jugoslavi, ottenendo privilegi specificiper alcune migliaia di italiani rimasti in Dalmazia. Mi chiede-vano precise garanzie per gli slavi in Italia. Rifiutai decisa-mente. Dissi che i nuovi stati devono garantire la tutela delleminoranze ma per uno stato forte come è l’èItalia la garanziasta nella sua propria civiltà e tolleranza. (Avevo enormementesbagliato! Eppure era uno sbaglio fortunato).” Perciò allaCamera, a Roma, i deputati dei partiti democratici protestaro-no chiedendo la reciprocità nel trattamento delle due minoran-ze. Solo dopo questo intervento la Camera dei deputati italianaapprovò un ordine del giorno con cui si assicurava ai gruppietnici slavi il rispetto della propria identità e ampie garanzieper la promozione della propria lingua e della propria cultura.Garanzie verbali vennero offerte da diversi statisti e dallo stes-so sovrano. L’aspetto più rilevante della mozione era senz’al-tro il riconoscimento formale della presenza di una secondaetnia nella Venezia Giulia. Clausole riguardanti la tutela degli slavi nella Venezia Giulianon vennero incluse nemmeno nei successivi atti, nelle con-venzioni di Nettuno del 1925, o nei trattati politici del 1924 edel 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rappor-ti con il potente vicino. L’accordo di amicizia e collaborazionetra l’Italia e la Jugoslavia del gennaio 1924 fu il premio, dicia-

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mo un riconoscimento, alla Jugoslavia per aver ceduto lo Statoindipendente di Fiume all’Italia, ma non arrestò l’azione sna-zionalizzatrice degli jugoslavi in Italia, colpiti proprio alloradalla riforma Gentile che segnò la fine di tutte le scuole in lin-gua slovena e croata nella Venezia Giulia. La politica esteradel fascismo s’incamminò sulla via dell’egemonia adriatica edel revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugosla-vi. Tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalisti-ci, non solo triestini, decisi a espandersi nei Balcani e trovònon pochi consensi nella popolazione italiana della VeneziaGiulia.Nel periodo dell’amministrazione militare e nella prima metàdegli anni Venti gli sloveni ed i croati non opposero resistenza.Essa invece prese a manifestarsi all’interno del movimento ri-voluzionario operaio, al quale gli sloveni avevano aderito mas-sicciamente, nella convinzione che la rivoluzione in Italiaavrebbe risolto con la questione sociale anche quella naziona-le. Tale fatto contribuì a unificare nella definizione di “slavo-comunisti” o “slavo-bolscevichi” i due concetti di “slavo”, ri-ferito all’etnia, e “comunista”, riferito all’ideologia politica,inducendo il fascismo a giustificare contemporaneamente epretestuosamente il terrore contro due avversari. Il fascismocementò le forze nazionaliste italiane della Venezia Giulia ri-chiamandosi all’antislavismo e al ruolo di tutore degli interes-si italiani al confine orientale. Intendeva così identificarsi conl’italianità e a sua volta identificare lo slavismo con l’antifa-scismo. Ancor prima dell’annessione ufficiale, nella regione sierano create le condizioni che poi avrebbero accompagnatotutto il ventennio. Le forze politiche si polarizzarono su basenazionale, il movimento operaio si radicalizzò in gran partenel movimento comunista. A questa radicalizzazione lo avreb-bero portato, secondo le autorità italiane, gli slavi che ancorprima dell’annessione avevano aderito al Partito socialista ita-liano.La politica degli esponenti sloveno-croati della Venezia Giuliafu improntata al lealismo nei confronti dello Stato italiano. I

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cinque parlamentari della lista “jugoslava”, eletti nel 1921 allaCamera dei deputati di Roma, ebbero a dichiarare: “Come ab-biamo il diritto di chiedere la cura più gelosa e il rispetto perquanto attiene la nostra coscienza nazionale, così ne assumia-mo anche tutti gli obblighi, non solo quelli imposti dalle leggi,ma pure quelli derivanti dal fatto della convivenza statale...Vogliamo e ci sentiamo in dovere di essere il ponte di riconci-liazione tra la Jugoslavia e l’Italia, l’elemento spirituale chepossa ravvivare in queste terre i sentimenti di una superioresolidarietà umana.” A questa politica di lealismo rimasero fe-deli anche dopo l’avvento del fascismo. Non aderirono nem-meno all’opposizione dell’Aventino, ritenendo che la comuni-tà sloveno-croata avrebbe dovuto affermare i propri interessinazionali nel rapporto diretto con il popolo italiano e non con ipartiti politici. I politici sloveni, di sentimenti irredentisti edantifascisti, videro nell’appello al principio della lealtà e dellalegalità la sola possibilità di conservare l’identità nazionaledella propria minoranza, anche dopo la soppressione di tutte leproprie istituzioni, compresa la rappresentanza al parlamento,e fecero sentire la propria voce a livello del Congresso dellenazionalità europee. Il Congresso, istituito nel 1924 dalla Legadelle nazioni, adottò nel 1935 il principio di collaborazione inmateria di tutela delle minoranze con tutti, anche con i regimitotalitari, a patto che questi riconoscessero la loro esistenza.Fu il triestino Josip Wilfan a presiedere il Congresso, per tuttala sua durata, appunto per la sua esperienza acquisita nella po-litica minoritaria in un regime totalitario. La storia delCongresso delle nazionalità europee (che ha funzionato sino al1938) è stata purtroppo trascurata nella storiografia europeadel periodo tra le due guerre. Altrettanto nella storiografia ju-goslava. Eppure il Congresso significava, secondo la defini-zione di Wilfan: “l’embrione della futura Europa unita”, chesoltanto oggi si è realizzata. La battaglia parlamentare dei rappresentanti della minoranzasloveno-croata per la tutela dei diritti nazionali, condotta incomune con i deputati della minoranza tedesca dell’Alto

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Adige, non diede alcun risultato, anzi il regime fascista si im-pegnò a fondo, anche per via legislativa, nella snazionalizza-zione di tutte le minoranze nazionali. Durante i governi demo-cratici in Italia queste avevano rinnovato le proprie istituzionidell’anteguerra, comprese le rappresentanze politiche ed am-ministrative. Nel rinnovo delle istituzioni autonome comuniesisteva una garanzia per uno sviluppo libero, in particolarenell’Isontino dove nella rinnovata Dieta straordinaria provin-ciale, presieduta da Luigi Pettarin, il rapporto fra gli italiani egli sloveni era di 6 a 5. Minori erano le prospettive per gli slo-veni a Trieste ed i croati in Istria già nel periodo dei governidemocratici. Con l’avvento del fascismo invece, grazie allaviolenza esercitata da questo con il sostegno delle autorità sta-tali, le prospettive per la minoranza nazionale divennero dram-matiche, poiché la distruzione del patrimonio esistente venivasistematicamente perpetrata sin dal 1922. Le prime a risentir-ne furono proprio le Diete straordinarie di Gorizia e diBolzano. Sino al 1928 nella Venezia Giulia vennero progressi-vamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croa-te, tutte le scuole furono italianizzate, gli insegnanti furono, ingran parte, trasferiti, pensionati o costretti ad emigrare.Vennero posti limiti agli slavi per l’accesso al pubblico impie-go, così come vennero soppresse centinaia di associazioni cul-turali, sportive, giovanili, sociali, professionali, centinaia dicooperative economiche e istituzioni finanziarie, case del po-polo, biblioteche e proibito l’uso pubblico della lingua mater-na. I partiti politici, cioè le associazioni “Edinost” di Trieste edi Gorizia – la prima di matrice nazional-liberale, la secondacristiano-sociale – e tutta la stampa periodica, vennero postifuori legge alla fine dell’anno 1928. E solo in virtù dell’accor-do politico del 1924 con la Jugoslavia, ancora in vigore, mache Mussolini non voleva prolungare, sopravvissero per altridue anni alla soppressione, decretata nel 1926, degli altri parti-ti non fascisti in Italia. Per lo stesso motivo i due deputati slo-veni alla Camera di Roma, Wilfan e Besednjak, non furonoespulsi nel novembre 1926 quando, in conseguenza delle leggi

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speciali per la difesa dello Stato, furono defenestrati tutti i de-putati oppositori e proibiti i loro partiti. Gli sloveni, come an-che i tedeschi, cessarono il proprio mandato alla fine del 1928con la scadenza dell’ultima (XVII) legislatura eletta. I due de-putati non si stancarono mai di esprimere la loro fiducia nellademocrazia del popolo italiano e nella ragionevolezza deglistatisti. Ancora nel novembre 1926, dopo le leggi eccezionali,Wilfan cercò di convincere Mussolini a trasformare la politicadi assimilazione in politica di conservazione della minoranza,argomentando che essa avrebbe favorito gli interessi supremiitaliani aprendo al paese la strada verso i Balcani. Pochi stati-sti italiani, Carlo Schiffrer li definì “mosche bianche”, si ren-devano conto di quanto fosse controproducente la violenza distato. L’ ambasciatore a Belgrado generale Bodrero fu buonprofeta nello scrivere al capo della polizia Crispo Moncada(primo prefetto della Venezia Giulia): “Se continueremo inquesto modo... ci troveremo di fronte a qualche amara delu-sione; il rispetto dei diritti nazionali, invece, avrebbe creatosimpatie anche tra gli sloveni in Jugoslavia e avremmo trovatoin loro un magnifico veicolo di penetrazione nostra nel centroEuropa.” Di uguale parere fu il ministro degli Esteri DinoGrandi. Ogni anno i deputati delle minoranze nazionali sfruttavanol’occasione dell’approvazione del bilancio per attaccare la po-litica del governo. Non si stancarono di attaccare la riformascolastica del 1923 giacché “una conquista culturale raggiun-ta dal nostro popolo dopo mezzo secolo di lotte e di sacrificiimmensi e continui e stata distrutta nel volgere di 24 ore conun decreto-legge... Non si tratta solo di violazione dei dirittinaturali ma bensi violazione dei diritti dell’ umanita”A simili accuse il ministro dell’Istruzione Casati nell’agostodel 1924 rispondeva che esistono “mete politiche perfettamen-te definite, e cioè la snazionalizzazione delle minoranze nazio-nali. Meta... non e forse che tutta la generazione a venire im-pari l’italiano, ma bensì di fare degli alunni degli italiani na-zionalmente coscienti.” Ancora nel 1927 seguirono le parole

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profetiche di Besednjak: “Abolite le nostre scuole e destituiti imaestri ogni famiglia si trasformerà in una scuola, e tutti, ma-dri e padri di famiglia diventeranno maestri che tramanderan-no di generazione in generazione la nostra lingua... e la co-scienza della stirpe. Le leggi degli stati sono mutevoli, i popo-li vivono in eterno”. Nell’ultimo intervento alla Camera, nelmarzo del 1927, Besednjak concluse così: “Resisteremo comenel passato. Se ci siamo difesi vittoriosamente contro la seco-lare germanizzazione austriaca, siate sicuri che... sopportere-mo oggi con successo più sicuro anche il peso della vostra po-litica snazionalizzatrice”. Nel dicembre dello stesso anno con-segnarono al governo un memoriale suddiviso in più capitoliriguardanti tutte le questioni e ben 21 richieste concrete. Tral’altro leggiamo: “Sopprimendo le società non si è soppressoil bisogno di associazione degli slavi che si radunano cionon-dimeno in forma privata e senza controllo alcuno da parte del-lo Stato.” Allora Mussolini ordinò a Francesco Giunta di rice-vere i deputati slavi e, separatamente, i due tedeschi Tinzel eSterbach. Poi, il 10 febbraio 1928, radunò al palazzo delViminale “tutte le autorità che possano apportare elementi digiudizio per la soluzione della questione”. Il testo del verbaledi questa riunione purtroppo non è noto, sono noti solo i suoirisultati, e cioè: nessun ripristino dei diritti nazionali. Eliminata la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle mino-ranze nazionali, queste cessarono di esistere come forza politi-ca e i loro rappresentanti fuoriusciti continuarono ad operarein esilio nel menzionato Congresso delle minoranze europeeed in Jugoslavia, cooperando così all’impostazione di una po-litica generale per la soluzione delle problematiche minorita-rie. L’impeto snazionalizzatore però andò oltre la persecuzione po-litica, nell’intento di arrivare alla “bonifica etnica”, che su sca-la nazionale significava il complesso dei provvedimenti anti-slavi, provvedimenti miranti a semplificare drasticamente lastruttura della società sloveno-croata. Negli archivi centrali diRoma esiste un vastissimo materiale che testimonia l’opera

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del regime sotto diverse terminologie: “assimilazione”, “italia-nizzazione”, “penetrazione”, “nazionalizzazione”, “snaziona-lizzazione”, “bonifica nazionale”, “bonifica etnica”, “bonificamorale” ma anche “epurazione etnica”. Sono termini riportatinei documenti, nelle relazioni dei prefetti e dei gerarchi fasci-sti delle Nuove province, nelle circolari governative riservate,nei progetti, consigli, telegrammi, nelle proposte e nelle richie-ste a livello locale e nazionale. La commissione mista storico-culturale italo-slovena nella relazione finale così definì que-st’opera: “Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nellaVenezia Giulia fu un proprio programma di distruzione inte-grale dell’identità nazionale slovena e croata.”Un primo programma del governo riguardante le Nuove pro-vince è stato riprodotto da Renzo De Felice nella sua storia delfascismo. Si tratta della circolare riservata di Mussolini del 10novembre 1925 nella quale il Duce critica la politica dei go-verni liberali, poiché avrebbero considerato il confine orienta-le soltanto come confine strategico e sarebbero stati perciò fa-vorevoli all’autonomia delle Nuove provincie, accontentando-si di avere lì una popolazione docile e sottomessa, anche seestranea alla nazione. Al contrario il governo fascista “pose abase del suo programma verso le popolazioni allogene... il fat-to che sia per la geografia che per la storia tutte le terre chein seguito alla guerra sono state annesse all’Italia fanno parteintegrale dell’Italia e che soltanto per un’arbitraria e violentaazione di governi stranieri da una parte di tali terre venne invari modi tolto il carattere dell’italianità, il quale ora che loStato italiano ha acquistato la forza del suo diritto, deve esse-re pienamente integrato.” Per realizzare tale programma eranecessario, scondo Mussolini, da una parte reprimere le mani-festazioni anti-italiane, dall’altra invece suscitare nella popola-zione, con adeguate concessioni e atteggiamenti benevoli, ilsenso della convenienza della loro appartenenza all’Italia. La politica del fascismo nei confronti degli slavi appartenentinazionalmente a uno stato debole ed odiato come quello ju-goslavo era diversa da quella prevista nei confronti dei 200.000

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tedeschi del Sud Tirolo/Alto Adige, che avevano alle spalleuna nazione potente. Lo dimostra una diversa circolare diMussolini dedicata all’Alto Adige, anche pubblicata da DeFelice, con la quale veniva pianificata la modifica della strut-tura etnica attraverso l’immigrazione di popolazione italiana,mentre per la Venezia Giulia era prevista la più completa ita-lianizzazione. Così l’italianizzazione dei toponomi, dei cogno-mi e nomi personali sloveni o croati si accompagnava alla pro-mozione dell’emigrazione, a trasferimenti di professionisti edoperai nell’interno del paese e nelle colonie, all’avvio di pro-getti di colonizzazione agricola interna da parte di elementiitaliani, a provvedimenti economici mirati a semplificare dra-sticamente la struttura della società sloveno-croata, eliminan-done gli strati superiori in modo di renderla conforme allo ste-reotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmenteassimilabile dalla superiore civiltà italiana. A tali disegni di più ampio respiro si accompagnava una poli-tica repressiva assai brutale anche perché l’intolleranza nazio-nale si aggiungeva alle misure totalitarie del regime. Dopo loscioglimento di tutte le istituzioni nazionali slave il Popolo diTrieste scrisse in settembre 1927 che le ultime offensive con-tro le istituzioni slave non erano state decise in risposta a co-spirazioni degli allogeni che, a suo parere, gli slavi non eranonemmeno in grado da fare, ma dalla pura esigenza di elimina-re una minoranza per la quale nell’ Italia fascista non c’era po-sto perché la nazione italiana vuole essere armonica, monoliti-ca, con una sola disciplina, senza eccezioni. (Ecco, ad esem-pio, qualche frase o titolo dai programmi dei leader fascisti lo-cali: l’udinese Piero Pisenti elaborò nel 1925 un intero volumeProblemi di confine: il clero slavo; il triestino Giuseppe CobolGigli nel 1927 nella rivista Gerarchia scrisse: “Non esiste unproblema allogeno... ma invece un problema di penetrazioneitaliana fascista, c’è la necessita di affermare in pieno l’auto-rita dello stato...”. Il goriziano Giorgio Bombig: “Di una poli-tica verso gli allogeni non si dovrebbe più parlare; non perchéil problema non esista, ma perché si correrebbe il rischio di

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dare a una popolazione, che per numero è meno di un terzo diquella totale della regione, e per valore morale, politico, so-ciale conta molto meno ancora, un’importanza che certamen-te non merita.”). Nel 1929 nel noto volume Politica di confinedel triestino Livio Ragusin Righi, analizzato da Elio Apih giànegli anni Sessanta, si affermò che al confine orientale nonesisteva alcuna minoranza nazionale, ma soltanto gruppi spar-si di allogeni, di popolazione “che non ha una propria storiane è legata ad alcuna civiltà, come non ha un proprio senti-mento di nazionalità e non ha una cultura nazionale; essa ècostituita da raggruppamenti rurali e vi si nota subito l’assen-za di una classe intellettuale e della più modesta istruzione...Privi di una propria convinzione e di qualsiasi coscienza na-zionale, essi sono sempre guidati o con la forza e l’intimida-zione oppure con le lusinghe e le illusioni. E così le cose do-vrebbero restare anche in futuro.” La soluzione gli sembravasemplice: colonizzazione sull’esempio di Roma antica realiz-zabile in tre fasi: ripulire l’ambiente di tutte le influenze ester-ne, insediamento di funzionari italiani scelti e di militari neicentri più grossi e trasformazione etnica della regione, ossiaassimilazione completa con la diminuzione del numero degliallogeni in seguito al loro trasferimento nell’interno dell’Italia.Il direttorio del Pnf triestino, ossia Carlo Perusino, nel 1930,dopo il primo processo di Trieste contro l’organizzazione clan-destina nazional-rivoluzionaria, che provocò le fucilazioni diquattro patrioti sloveni a Basovizza constato che “la scopertadel complotto e le rivelazioni del processo hanno spazzato leillusioni e le speranze... di una facile opera di assimilazionedegli slavi... Quest’opera di assimilazione ha rivelato in tutti isettori un bilancio meschino se non addirittura negativo: ilproblema etnico della Giulia si riaffaccia nella sua integrità sìda rendere neccesaria un profonda revisione della politica sinqui seguita... L’Italia... deve per forza di cose accettare loscontro di razza”. Proponeva l’azione da svolgersi in due dire-zioni: al di là del confine, in Jugoslavia, per impedire lo svi-luppo del nazionalismo slavo e al di qua del confine, in Italia,

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con misure forti per “bonificare la regione”. Simile era il pro-gramma del segretario del Fascio per l’Istria Giovanni Relliche chiedeva mezzi energici e forti, quali lo sfruttamento dellasituazione economica, cioe l’estrema miseria e l’indebitamen-to dei contadini slavi pretendendo il pagamento in blocco ditutti i debiti. Cosi le proprietà ipotecarie andrebbero all’ incan-to e potrebbero essere comperate a prezzi bassi. Sicuramentequesti programmi sollecitarono il governo che il 14 agosto1931 costitui l’Ente per la rinascita agraria delle tre Veneziecol compito di espropriare le proprietà terriere che si trovava-no in possesso degli allogeni per poi cederle ad agricoltori excombattenti o fascisti. Riguardo la scuola apprendiamo, dalPopolo di Trieste dello stesso periodo, che la popolazione allo-gena ha una forte coscienza nazionale, non ha analfabeti, ognifamiglia ha giornali, almanacchi, romanzi ecc. e che i padrisono in grado di imparitre ai figli l’istruzione elementare, perquesta ragione l’istruzione scolastica viene annullata nelle fa-miglie. La scuola media italiana, invece, secondo la stessa fon-te, educa gli avanguardisti del movimento nazionale sloveno,crea degli intellettuali slavi anziché degli italiani. Dalla scuolaescono apparentemente italianizzati, ma in realtà sono spiri-tualmente pronti a sacrificarsi per la patria slava. Rari sono ineutrali, ancora più rari sono i filoitaliani. Perciò, secondo IlPopolo, “non dobbiamo in nessun costo favorire l’istruzionemedia fra i nostri sloveni... Abbandoniamo... ogni idea di dif-fondere per ora la cultura media e universitaria tra gli slo-veni e concentriamo sull’incontro tutti i nostri sforzi per da-re incremento alla cultura elementare.”Quanto modesti fossero i risultati di questi intenti lo dimostra-no i nuovi programmi elaborati all’inizio del secondo conflittomondiale. Nel 1938 il triestino Angelo Scocchi scriveva:“L’applicazione del criterio linguistico nelle recenti modifica-zioni delle frontiere cecoslovacche... crea un precendente nonfavorevole al nostro Paese... si rende più urgente la necessitàdi provvedere che i nostri confini politici rispondano non sol-tanto ai concetti geografici, storici, economici e strategici, ma

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anche a una realtà linguistica”. Per raggiungere lo scopo pre-vedeva anche di mandare le ragazze slave quali domestichepresso le famiglie italiane, dato che Scondo Scotti erano “ge-neralmente apprezzate per robustezza, laboriosità, ordine, di-sciplina, e quindi tutelarle moralmente e materialmente pres-so i loro padroni a scopo matrimoniale.” Gli ultimi suggeri-menti al Duce li fece il capodistriano Italo Sauro raccoman-dando: “Quello che più importa – premesso che a noi non ne-cessita la pacificazione degli slavi e tanto meno il loro isola-maneto – e l’italianizzazione del confine orientale, giacché fi-no a quando vi saranno gli slavi su questo confine, si avrà ra-gione di temere disordini e perturbazioni... Forza e giustiziasono gli elementi sui quali gli slavi, come i popoli primitivi,fanno poggiare i troni; la forza soprattutto dovrà essere pre-sente per reprimere con la massima severità: con gli slavi laclemenza è debolezza.”L’azione snazionalizzatrice si diresse anche contro la Chiesacattolica giacché fra gli sloveni, dopo l’esilio dei quadri diri-genti e intellettuali, fu il clero ad assumere il ruolo di conser-vare la coscienza nazionale. Riguardo la lingua prescritta nellascuola i sacerdoti sloveni decisero che “non si presteranno maia snazionalizzare bambini sloveni mediante l’istruzione reli-giosa in una lingua straniera” e che “Le autorità statali nonhanno nessun diritto di degradare l’istruzione religiosa a mez-zo per la snazionalizzazione e l’italianizzazione”. Secondo lerelazioni dei prefetti delle Nuove provincie al ministero degliInterni tutto lo slavismo, tutto l’irredentismo, tutta l’opposi-zione alle organizzazioni fasciste e alla penetrazione sarebbestata opera del clero sloveno. Perciò il basso clero divenne og-getto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pres-sioni vennero dirette anche nei confronti della gerarchia eccle-siastica di Trieste e Gorizia, nella quale i nazionalisti italianivedevano una solida forma di austriacantismo e filo-slavismo.Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa diconfine furono la rimozione del vescovo di Trieste AndreaCarlin (nel 1919), dell’arcivescovo di Gorizia Francesco

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Borgia Sedei, nel 1931, e del vescovo di Trieste-CapodistriaLuigi Fogar nel 1936. I loro successori applicarono le direttive“romanizzatrici” del Vaticano, in conformità con quanto avve-niva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunitàalloglotte, come pure nelle realtà europee caratterizzate dallapresenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano adoffrire il minimo di occasioni di ingerenza in materia ecclesia-stica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attornoa Roma, in difesa dei principi cattolici, che la Santa Sede rite-neva minacciati dalla civiltà moderna. Nella Venezia Giuliaquesti provvedimenti comportavano in via di principio l’aboli-zione dell’uso della lingua slovena e croata nella liturgia e nel-la catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma clandestinasoprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzatinella corrente cristiano-sociale. Tale situazione provocò gravitensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi ve-scovi dall’altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modod’intendere il ruolo del clero, al quale gli sloveni attribuivanouna funzione prioritaria nella difesa dell’identità nazionale,che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto diuna deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si forma-rono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stessedi fatto collaborando con il regime ad un’opera di italianizza-zione che investiva ogni campo della vita sociale.D’altro lato il regime fascista cercava il consenso tramite entisociali, culturali e di beneficenza. La fascistizzazione di ampistrati della popolazione delle campagne fu il principale stru-mento per l’assimilazione. Tra gli sloveni le maggiori adesionialle organizzazioni fasciste ci furono negli anni Trenta ed av-vennero soprattutto per la necessità di sopravvivere. Secondole fonti italiane nel 1940 il 49,8% dell’intera popolazione del-la Venezia Giulia aderiva alle organizzazioni fasciste, tra lequali la Gioventù italiana del Littorio-Gil includeva circa il95% dei giovani in età scolare. Il segretario federale del Pnfdella provincia di Trieste Emilio Grazioli scriveva, nel 1933,che nel Carso la rete dei fasci era quasi completata, che di essa

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faceva parte il 45,2% della popolazione e che la penetrazionedel PnfF era costante e decisa; aggiungeva però che l’organiz-zazione dei scolari-Balilla, durante le vacanze estive, non fun-zionava, perché la gioventù era sviata dai genitori e dai sacer-doti, tanto che l’organizzazione registrava una perdita del 79%e quindi il lavoro svolto “non dà quasi nessun frutto”. Ci furono anche esempi di collaborazionismo. All’indomanidella marcia su Roma a Gorizia venne creato il partito fascistasloveno – Vladna stranka (Partito governativo), con il giornaleNova doba – (Epoca nuova), che sosteneva l’allineamentoideologico al fascismo ma non l’assimilazione linguistica.Probabilmente il fascismo aveva avuto il torto di non inserirequalcuno dei rappresentanti di questo partito nella sua lista al-le elezioni politiche del 1924 e fu anche grazie a questo erroreche il Partito governativo scomparve già nel 1925 ed i suoimembri entrarono direttamente nel Pnf. Un diverso tipo di col-laborazionismo fu invece rappresentato dai giovani disoccupa-ti che entravano a far parte della Milizia volontaria per la sicu-rezza dello Stato, specialmente nella legione del Carso. A loroe ai confidenti sloveni erano rivolte in primo luogo le minaccee gli attentati messi in atto dall’organizzazione clandestina na-zional-rivoluzionaria - Tigr (che significa Trieste-Istra- Gorica-Rijeka). È difficile valutare quanti sloveni e croati abbiano ade-rito al partito fascista. Dalle fonti a mia disposizione è possibi-le rilevare soltanto che tra i segretari locali del partito e tra ipodestà ce n’erano ben pochi con un cognome d’origine slo-vena. Che il regime non si fidasse degli allogeni fu del restoconfermato anche da numerosi confidenti, tra cui vi erano mol-ti ex carcerati costretti a tale attività.Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favori-rono un robusto flusso migratorio dalla Venezia Giulia.Emigrarono 105.000 sloveni e croati (il 20%) di cui 70.000 inJugoslavia. Eppure i risultati della politica fascista di confinefurono modesti, soprattutto per la carenza di risorse. La politi-ca snazionalizzatrice riuscì a decimare la popolazione slavanelle città e a proletarizzare la popolazione rurale che però ri-

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mase insediata sulla propria terra. Il risultato più duraturo fuquello di consolidare, agli occhi di sloveni e croati, l’equiva-lenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte di lo-ro al rifiuto di quasi tutto quello che appariva italiano. Analogoatteggiamento fu assunto dagli sloveni e croati in Jugoslavia.Al livello dei rapporti personali, come pure in campo cultura-le, continuarono a sussistere ambiti di convivenza e collabora-zione mantenendo preziosi germi per lo sviluppo dell’antifa-scismo. Ma in linea generale il solco fra i due gruppi naziona-li si approfondì e si svilupparono varie forme di resistenza con-tro l’oppressione fascista, mantenendo i contatti con antifasci-sti italiani in esilio. Ad esempio con il Partito comunistad’Italia, con la Concentrazione antifascista e in special modocon il movimento di Carlo Roselli Giustizia e Libertà che nel1933 pubblicò l’opuscolo Il fascismo e il martirio delle mino-ranze. Attiva fu specialmente la gioventù slovena di orienta-mento nazionalista organizzata clandestinamente nella Tigr ecollegata anche ai servizi jugoslavi e britannici. Questo grup-po di giovani decise di reagire alla violenza con la violenza,sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo. La rispo-sta della corrente radicale nazionalista fu terribile. Si legge neiloro giornali clandestini, per esempio: Non è solo una lotta percose attinenti alla scuola, alla grammatica... ma è innanzituttolotta per il pane, per la salvezza dei patrimoni, per un posto dilavoro nel paese natio... Il governo fascista ha distrutto tuttele passerelle che portavano all’intesa, spingendoci nell’irre-dentismo... Ci atterremo ai metodi rivoluzionari estremi... Lanostra strada è quella di tutte quelle minoranze che sono spro-letarizzate e nazionalmente oppresse... Ci hanno costretto allalotta, ci hanno destinato alla morte, noi però non vogliamomorire: che muoiano loro... Perciò viva l’estrema lotta senzariguardi del popolo sloveno e croato in Italia. Libertà o mor-te... Morte al fascismo”. Negli anni Trenta però incontriamoanche diverse posizioni: “Soltanto in quanto un italiano nellanostra terra s’identifica col fascismo... vale anche contro dilui la lotta rivoluzionaria...”. In ottobre 1935 il Pcd’I invitò

Milica Kacin Wohinz

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“tutti i fautori della Venezia Giulia, tutti i combattenti per lalibertà delle popolazioni slave ad unirsi a noi, a marciare connoi contro il fascismo...”. Seguì il noto Patto di unità d’azionecon il movimento nazional-rivoluzionario dei sloveni e croatidella Venezia Giulia (l’organizzazione Tigr) in cui il Pcd’I ri-affermava il principio del diritto della minoranza slava all’au-todecisione e al distacco dallo stato italiano. Dopo lo scoppiodella seconda guerra mondiale l’organizzazione collaborò conl’Ufficio speciale-SOE (Special Operation Executive), creatoda Winston Churchill e svolse attività propagandistiche e disabotaggio dietro le linee delle forze occupatrici nazi-fasciste.Queste azioni provocarono repressioni durissime. Il Tribunalespeciale per la difesa dello Stato in tre processi penali svoltisia Pola (1929) e a Trieste (1930 e 1941) emanò quattordici pe-ne capitali, di cui dieci eseguite. Dopo l’occupazione della Jugoslavia la lotta di liberazione na-zionale si estese alla popolazione slava della Venezia Giulia, ilche riaprì la questione dell’appartenenza statale di buona partedi questo territorio e rese manifesto il fallimento generale del-la politica italiana sul confine orientale. Con l’occupazionedella Jugoslavia nell’aprile del 1941 l’Italia spostò il suo con-fine orientale dal monte Nevoso al fiume Sava. Con l’annes-sione della provincia di Lubiana incluse nello stato altri350.000 sloveni. La “minoranza slovena” in Italia dunque au-mentò fino a 700.000 persone e rappresentò la metà del popo-lo sloveno. Una documentazione esauriente sulla politica fa-scista nella provincia di Lubiana è stata pubblicata dal collegascomparso Tone Ferenc, mentre dal diario del cappellano mili-tare don Pietro Brignoli: Santa messa per i miei fucilati ap-prendiamo delle crudeli rappresaglie dell’esercito italiano con-tro la popolazione civile. Simili furono le sorti dei croatid’Istria e della Dalmazia annessa all’Italia nel 1941, la lorostoria però viene trattata separatamente da parte della storio-grafia croata. La lotta di liberazione capeggiata dal Partito comunista jugos-lavo trovò fra gli sloveni e croati della Venezia Giulia terreno

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fertile perché aveva fatto proprie le loro tradizionali istanzenazionali tese all’annessione alla Jugoslavia. Contro la popo-lazione slava della Venezia Giulia erano stati adottati provve-dimenti preventivi sin dall’entrata dell’Italia in guerra nell’e-state del 1940, mentre contro il movimento armato di libera-zione le autorità ricorsero ai metodi repressivi già sperimentatinella Jugoslavia, ivi compresi incendi di villaggi e fucilazionidi civili. Tra le regioni d’Italia dell’anteguerra ed anche tra leregioni della Slovenia fu proprio la Venezia Giulia a risentirele più tragiche conseguenze della guerra, ovviamente proprioper la presenza di una forte minoranza slava. Da una ricerca incorso nell’Istituto per la storia contemporanea a Lubliana ri-guardante le vittime della seconda guerra mondiale risulta chedalla Primorska, cioè dal territorio della ex Venezia Giulia cheappartiene allo stato sloveno, nel periodo tra giugno 1940 egennaio 1946 persero la vita 14.700 persone, di cui il 97% dinazionalità slovena. Aggiungiamo le 1.000 vittime apparte-nenti ai paesi sloveni dell’odierna Venezia Giulia (escluseTrieste e Gorizia).Dopo l’armistizio le forze armate e l’amministrazione civileitaliana lasciarono i territori sloveni quasi indisturbati. Solopochi incidenti si sono verificati sull’altopiano carsico. Diversaera la sorte della popolazione italiana autoctona ed immigratadell’Istria e nella provincia di Zara dove già nel settembre del1943, prima dell’occupazione tedesca, iniziarono le tragichevicende denominate “foibe” che nel maggio 1945 si esteseronon solo alle città miste di Trieste, Gorizia e Capodistria maanche all’interno delle repubbliche dello stato jugoslavo. Nonsi tratta infatti di azioni che riguardano solamente i rapportiitalo-jugoslavi, esse coinvolgono anche la discordia tra gli slo-veni e croati stessi, come anche degli altri popoli jugoslavi.Questa prepotenza non era condizionata solamente dai nazio-nalismi o dai problemi di confine e nemmeno quale “resa deiconti”, ma era condizionata anzitutto in funzione dell’avventodi un regime totalitario nel nuovo stato jugoslavo. La menzio-nata commissione storico-culturale italo-slovena così interpre-

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tò questi fatti: “Tali avvenimenti si verificarono in un clima diresa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaionoin larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, acui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare sogget-ti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilitàpersonali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collabo-razionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno diepurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presuntitali, in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’an-nessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo.L’impulso primo della repressione partì da un movimento ri-voluzionario che si stava trasformando in regime, convertendoquindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologi-ca diffusa nei quadri partigiani.” Se il controllo jugoslavo ditutta la Venezia Giulia nel maggio 1945 fu considerato dallapopolazione italiana come il momento più buio della propriastoria, per la minoranza slava, cioè slovena e croata, si trattò diuna duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Statoitaliano.

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Lo stesso rinnovato invito del presidente Ciampi ad una ricon-siderazione dei valori fondativi per la nostra democrazia

derivanti dai fatti di Cefalonia del settembre 1943, si colloca inuna più ampia riflessione storiografica: la natura dell’alleanzaitalo-tedesca, la guerra fascista d’aggressione alla Grecia, la com-plessiva anche se articolata politica d’intervento dei governi diRoma nel settore danubiano-balcanico. E specialmente le conse-guenze corruttrici, i segni cioè di un profondo imbarbarimento,introdotti dai sistemi di gestione politica, amministrativa e milita-re dei territori annessi o occupati. Sin dalla aggressione allaJugoslavia nell’aprile 1941, del resto, Germania e Italia (e gli statiminori coinvolti: Ungheria e Bulgaria) calpestarono ancora unavolta i princìpi del diritto internazionale. La Germania attaccandodall’aria Belgrado senza dichiarazione di guerra:

“Domenica mattina mentre i sacri bronzi invitavano i fede-li alle funzioni religiose, un bombardamento che sorpassain orrore ogni immaginazione è stato scatenato dall’avia-zione tedesca. Un vero diluvio di bombe incendiarie edesplosive ha trasformato la città in un ammasso di rovine ein un focolaio di incendi, mentre tutte le vie di Belgradoerano coperte di cadaveri di bambini, di donne e di vecchi”.

Teodoro SalaUniversità di Trieste

L’occupazione italiana nei Balcani

Centralità dello scacchiere balcanico nella vicenda bellica italiana (1939-1943).

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L’Italia (come i suoi alleati), con le annessioni di ampi territo-ri della Jugoslavia sconfitta, lese il principio che avrebbe impo-sto un trattato di pace per procedere alla delimitazione di con-fini tra ex belligeranti. La fretta con cui il governo di Romaimpose il connubio di amministrazione civile e militare nelleterre conquistate, fu oggetto di critiche da parte degli stessicomandi militari. “Colossale errore” veniva definito quellocompiuto in Adriatico dove “si è voluto, bruciando le tappe,proclamare l’annessione e … successivamente il sollecito pro-cedere verso la normalizzazione”. L’ “errore” veniva denuncia-to anche da osservatori politici operanti nella “provincia” diLubiana.

L’influenza delle questioni balcaniche nei rapporti italo-tedeschi.

Fin dagli accordi politici dell’Asse Roma-Berlino nel 1936,sono ben presenti le prospettive (nelle speranze italiane) di unacomposizione degli interessi italo-tedeschi nell’Europa sudo-rientale. Rimase il grande equivoco dell’atteggiamento diBerlino che, al di là di assicurazioni alquanto generiche circa lospazio riconosciuto all’Italia nell’area, non accettò mai la defi-nizione di atti formali che riconoscessero nei suoi vari aspettila sfera degli interessi italiani nei Balcani. L’occupazionedell’Albania nel 1939 da parte italiana non rappresentò un attodi generica concorrenza nei confronti della Germania quantoun intervento cautelativo per i progetti del governo di Romaverso la Jugoslavia. La disastrosa campagna contro la Greciadall’ottobre 1940 compromise definitivamente la fiducia cheHitler e i suoi potevano nutrire circa la tenuta militare del fasci-smo. Con un sol colpo Berlino dall’aprile 1941, oltre a soccor-rere l’alleato pericolante e ad assestare il colpo di grazia allaGrecia, con l’azione coordinata politico-militare, stabilì unaferrea egemonia su Ungheria, Bulgaria e Romania avendoormai il controllo delle due centrali strategiche, Vienna e Praga.Un dominio sulle risorse umane ed economiche dell’area danu-

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biano-balcanica tanto più essenziale alla vigilia dell’aggressio-ne all’Unione Sovietica.Chi segua gli sviluppi delle relazioni italo-tedesche nello spa-zio balcanico tra la primavera del 1941 e il settembre del 1943deve constatare la progressiva emarginazione della presenzapolitica e militare italiana nel settore sotto la spinta degli inte-ressi tedeschi e della pressione esercitata dai movimenti di libe-razione dalla Grecia, all’Albania, alle regioni jugoslave.

Dall’ “arte dei ripieghi”alla “riduzione alla costa”.

L’Italia entra in guerra contro la Jugoslavia il 6 aprile 1941 sul-l’onda dell’aggressione tedesca, ma nel momento a lei menofavorevole per il logoramento a cui è sottoposta sul frontegreco-albanese. Il concorso italiano – si pensi alle precedentiambizioni belliche di Mussolini – apparve quasi un’operazionedi rincalzo, paragonabile più all’intervento bulgaro e unghere-se che non all’impegno germanico. Notò l’allora comandantedella II armata italiana, Vittorio Ambrosio, in una relazionefinale sulla campagna, come fosse stato necessario usare“un’arte di ripieghi… ricorrere a degli espedienti meno orto-dossi dal punto di vista organico e più imprevedibili, per fron-teggiare con i mezzi disponibili, relativamente scarsi comequantità, e inadeguati come qualità, le sempre nuove esigenze”.È un’osservazione (e una denuncia) che può essere estesaall’intero ciclo di permanenza italiana oltre Adriatico e Jonio.Rientra nel novero degli “espedienti” anche l’uso che i coman-di vollero fare dei cetnici (le formazioni di guerriglieri antico-munisti fedeli al governo monarchico in esilio). Si trattava di farli combattere contro i partigiani di Tito, desti-nati a costituire il nerbo di un vero e proprio esercito di libera-zione praticante la guerriglia ma anche lo scontro in campoaperto: la dispersione in una miriade di presidi su un territoriovastissimo logorava gravemente la macchina militare italiana.Dall’inizio del 1942 il generale Mario Roatta era giunto al ver-

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tice della II armata, la grande unità operante dalla Slovenia alconfine col Montenegro, nel momento in cui venivano decisa-mente rafforzate le competenze dei militari nelle terre annesse.Roatta era un sostenitore convinto della collaborazione con icetnici, fonte questa di aspri contrasti con i tedeschi destinati acrescere tra il 1942 e il 1943. Il generale proponeva a Roma di“sostenere i cetnici tanto da farli combattere contro i comuni-sti, ma non tanto da dare grande ampiezza alla loro azione…lasciare che operino contro i comunisti per contro proprio. Si sgozzino fra di loro”.Il bottino ottenuto (così lo definiva Galeazzo Ciano) – conqui-stato grazie al pesante beneplacito tedesco – fu il più cospicuoterritorialmente parlando, tra le acquisizioni italiane nellaseconda guerra mondiale. Annessa all’Italia buona parte dellaSlovenia con il capoluogo Lubiana, eretta a provincia; ingran-dita a spese della Croazia la vecchia provincia di Fiume; crea-to un governatorato della Dalmazia con le nuove provinceannesse di Spalato e Cattaro, mentre nuove terre venivanoaggiunte al vecchio capoluogo Zara. Incerta la sistemazionepolitica del Montenegro assegnato all’Italia e retto da un gover-natore. Allargati i confini dell’Albania con parte del Kossovo edella Macedonia. Con lo sviluppo dell’insurrezione contro glioccupanti (a partire dal Montenegro già nell’estate del 1941),l’Italia passerà al controllo di larghe fasce del territorio delnuovo stato satellite croato dominato dagli ustascia (rapida-mente Zagabria passerà nell’orbita tedesca). Ai danni dellaGrecia l’Italia procederà all’annessione di fatto della isoleIonie.Già alla metà del 1942 sono evidenti i sintomi crescenti di unadisfatta che in Adriatico, al confine orientale, significherà per-dita di gran parte della Venezia Giulia e sofferenze pesantissi-me per centinaia di migliaia di italiani, ma anche di croati e disloveni di quelle province.Elementi costitutivi di quella incipiente crisi saranno soprattut-to due. Intanto l’insediamento permanente alle porte di Fiumedel comando della II armata significherà il coinvolgimento

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nella risorgente guerra balcanica dello stesso territorio nazio-nale. Le vicende delle truppe d’occupazione nelle nuove pro-vince e nelle terre controllate si ripercuotono più direttamentesul vecchio territorio metropolitano (specialmente nelle pro-vince di Fiume e Pola).Poi: per quanto riguarda in particolare le province di Trieste eGorizia dove vivono oppresse dal fascismo forti comunità slo-vene, la creazione, senza soluzione di continuità rispetto al pre-cedente confine, della “provincia” di Lubiana, crea un unicospazio politico-nazionale in cui, pur tra contraddizioni e divi-sioni interne, tendono ad unificarsi le ragioni esistenziali deglisloveni, la loro ribellione, gli elementi organizzativi di unariscossa che sa di poter contare sul grande schieramento anti-fascista internazionale. Non solo: tra il 1942 e il 1943, la capacità di mobilitazione delFronte di liberazione sloveno (Of) si mostra in grado di pene-trare soprattutto nelle concentrazioni operaie della costa a mag-gioranza italiane.Il nuovo fronte balcanico presenta caratteristiche che lo distin-guono nettamente dagli altri scacchieri (ad eccezione, forse, diquello nell’Unione Sovietica). Intanto le conseguenze nefastesul morale delle truppe che, contro il loro ruolo militare, sivedono coinvolte in una grande e defatigante operazione dipolizia: ne è un segnale significativo l’insistenza della propa-ganda dei comandi che vuol convincere i soldati che quello èun fronte come gli altri, anche se si combatte contro un nemi-co che spesso non si vede, che colpisce e si nasconde. Dovesono numerose le donne in armi.L’altro fenomeno che ha caratteri più prettamente politici èquello che vede lo scollamento tra autorità militari e quellecivili nelle zone annesse (significativi i casi di Zara e Lubiana).I militari accusano i civili (prefetti, questori) di frapporsi conpoco costrutto nelle attività repressive. I civili lamentano lascarsa combattività delle truppe. È notevole il fatto che talipolemiche si manifestino anche al di qua del vecchio confine,nel Goriziano, sin dalla seconda metà del 1942. Cresce in tale

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periodo sul Carso goriziano e triestino un secondo fronte parti-giano, grazie allo sfilamento di nuclei armati dal territorio diLubiana (investito da operazioni draconiane di rastrellamento eantiguerriglia che coinvolgono duramente la popolazione civi-le). Tra il 1942 e il 1943 il tessuto civile delle zone rurali dellaprovincia di Trieste è sconvolto, per cui, a poche decine di chi-lometri dal capoluogo, in centri minori, viene introdotto ilcoprifuoco e sospeso il servizio scolastico.

I prodromi di Cefalonia.

Alla metà del 1943 crescono a Roma le preoccupazioni perun’offensiva diretta degli Alleati contro l’Italia: anche per que-sto motivo si pone la prospettiva se non di uno sganciamentodel settore balcanico almeno di una “riduzione alla costa” (è iltermine tecnico utilizzato dagli alti comandi) cioè di un con-centramento più o meno ampio del contingente militare italia-no lungo la costa adriatica. Certamente, però, allo scadere dellaprimavera 1943, sono dislocati nell’area balcanica 655.000 sol-dati italiani (il 43% dell’intera forza terrestre mobilitata all’e-poca dall’Italia).Nel marzo un rapporto interno dal Comando supremo – caricodi presagi – si domandava:

“Quali ragioni sussistano ancora per giustificare l’im-piego colà di così numerose forze. Le ragioni di ordinepolitico oggi non hanno più valore. Finché potevamotemere l’egemonia della Germania forte in Europa, eralogico mantenersi in Croazia ed in Grecia per impedir-le di installarsi in Adriatico. Ma adesso questo pericolonon esiste più perché anche se essa si affaccia sullasponda orientale di quel mare dovrà in seguito conten-dere questo possesso non a noi, ma ai nostri avversari iquali detteranno essi legge nei Balcani… Sono di mag-gior valore quelle ragioni che consigliano di ridurremolto la nostra occupazione in Balcania… quelle forze

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non potranno essere adeguatamente rifornite per defi-cienze di trasporti e quindi non potranno resistere cheper un tempo assai breve; quelle forze, ancora, sarannoper noi definitivamente perdute senza che con il lorosacrificio abbiano allontanato il pericolo dalla MadrePatria”.

Aprire ai tedeschi le porte dell’Adriatico, sia pure in una notache non sappiamo quanto condivisa a Roma dai vertici milita-ri, e quando in uno scenario diverso si dovevano ancora fare iconti con la sciagurata gestione regia dell’armistizio, prelude-va di fatto alla costituzione di quell’Adriatisches Küstenland,prima tappa di una tragedia nell’Italia nordorientale preparatadal fascismo.Gli estensori della nota di marzo non potevano prevedere lavendetta immane calata dai tedeschi su Celafonia: ma la soli-tudine della divisione Acqui, come quella dei tanti soldatiabbandonati nella penisola balcanica, aveva radici lontane.Dell’intero contingente di catturati e avviati all’internamentoin Germania, più della metà, cioè 393.000, provenivano daquell’area.

Violenza codificata.

Riprendo i termini della repressione messa in atto dall’Italiafascista durante l’occupazione nei Balcani: prelievo di ostag-gi e frequente loro sbrigativa soppressione in caso di rappre-saglia, distruzione o sequestro di beni materiali, incendio dimolti centri abitati, rastrellamenti indiscriminati di civili diogni età e sesso, deportazione di intere fasce di popolazione(il 6% dalla sola provincia di Lubiana), riti giudiziari som-mari nei confronti di semplici sospetti, uccisione di prigio-nieri e di feriti rimasti sul campo dopo i combattimenti. Unesempio soltanto: una relazione del governatore delMontenegro, generale Pirzio Biroli, dava conto il 14 luglio1943 in termini ottimistici dell’esito di una della battaglie più

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note con l’esercito di Tito (Sutjeska: i partigiani riuscirono asganciarsi dal nemico malgrado le fortissime perdite):

“Le formazioni partigiane… infine accerchiate, furonoquasi completamente distrutte… Le perdite nemicheascendono a circa 12.000 morti, giacché la maggiorparte dei prigionieri fu passata per le armi”.

In base agli ultimi studi sull’occupazione si può constatare chel’azione repressiva italiana ebbe sistematicità e fu in certosenso “codificata”. Ne è testimonianza la circolare 3 C emana-ta da Roatta nel 1942 (e riprodotta anche in edizione a stampa),capace di generare una serie assai ampia di disposizioni ancorpiù severe da parte dei comandi sottoposti.Dalla più recente storiografia italiana emerge un dato che appa-re ormai consolidato: i metodi “coloniali” adottati dalle ammi-nistrazioni civili e militari ebbero un carattere di continuità e diomogeneità dalla Grecia, all’Albania, ai territori ex jugoslavi.Non va dimenticato il grande contributo dato anche alla nostrastoriografia dal compianto storico sloveno Tone Ferenc.

Infine una considerazione e un interrogativo. A chi ha denun-ciato l’indubbia crudezza (o la crudeltà) della risposta data daimovimenti di liberazione balcanici agli occupatori va ricorda-to non tanto e solo il primato della violenza subito introdottanella grande area sudorientale dall’intervento armato tedesco eitaliano. Ancora più peso, perché di lunga durata, ebbe, lo ripe-tiamo, il conseguente tratto di imbarbarimento che colpiva vit-time ma anche aggressori.Ci si può interrogare su quanta consapevolezza fosse diffusa trai vertici politici e militari italiani sulla fine dell’avventura bal-canica che significava chiusura fallimentare di un intero ciclodella politica estera nazionale.Un segnale di carattere generale può essere considerato il cita-to rapporto di marzo del 1943. Un altro più settoriale riguardal’Albania ed è una nota del febbraio precedente. Proveniva dalServizio informazioni esercito (Sie): vi si denunciava come

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“L’insofferenza delle popolazioni nei confronti del-l’Italia può oggi dirsi pressoché generale… La presenzadelle truppe italiane sul suolo albanese, che durante laguerra italo-greca tramutarono l’Albania in conteso tea-tro di operazioni, ha radicato nell’animo delle popola-zioni il convincimento che la loro patria costituisca terradi occupazione per l’Italia, e che la creazione del-l’Albania in Stato libero e indipendente sia soltanto unafinzione giuridic … In sostanza gli interessi italiani edalbanesi si dimostrano disassociati, spesso divergenti econtrastanti, così nelle manifestazioni di vita più elevatecome in quelle più umili. La premessa d’ordine spiritua-le, su cui doveva poggiare l’organizzazione politicaimposta all’Albania, si è pertanto dimostrata fallace”.

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Questo mio intervento non si soffermerà in via prioritariasulla ricostruzione di fatti che dovrebbero essere in buona

parte già noti. Vorrei premettere soltanto il minimo di informa-zioni necessarie alla comprensione del discorso. Basandomicome mi pare ovvio e naturale sui molti studi che ho dedicatonei decenni passati all’oggetto di questo intervento, vorrei piut-tosto sviluppare una riflessione sul significato che in una pro-spettiva storica di lungo periodo ha avuto l’esperienzadell’Adriatisches Küstenland, del Litorale adriatico, comemomento culminante della crisi degli assetti politico-territoria-li nell’area del vecchio confine orientale del regno d’Italia sca-turita da un complesso di fattori che denotano di per sé il carat-tere non locale della situazione della quale si tratta: la crisidefinitiva del regime fascista, la sconfitta militare dell’Italiafascista, l’armistizio del settembre del 1943 e la rottura senzapossibilità di recupero dell’alleanza tra Italia fascista eGermania nazista. È bene non perdere mai di vista quello chenoi storici chiamiamo banalmente il contesto, altrimenti tuttigli sviluppi posteriori all’8 settembre del 1943 potrebbero sem-brare un arbitrio del destino o l’irruzione di fattori nuovi senzaalcun rapporto con le vicende pregresse. Come si vedrà facil-mente dalla mia esposizione il germe della situazione che sicreerà nella Venezia Giulia, nell’Istria, nell’area limitrofa dellaSlovenia era tutto interno alle situazioni che sono state illustra-te dagli studiosi che mi hanno preceduto e che si possono sin-

Enzo CollottiUniversità di Firenze

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L’esperienza del Litorale adriatico

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tetizzare in un triplice naufragio delle ambizioni dell’imperia-lismo italiano: della pretesa di imporre la snazionalizzazionedelle popolazioni delle minoranze slovena e croata e la loro ita-lianizzazione forzata; della pretesa di affermare la conquistaterritoriale di porzioni della penisola balcanica a sostegno dellavecchia aspirazione nazionalista di fare del mare Adriatico unmare interno italiano; infine della pretesa di affermare l’ege-monia dell’Italia nella penisola balcanica in concorrenza conl’imperialismo germanico quasi a volere forzare il baricentrodegli equilibri tra le potenze dell’Asse in quel settore strategi-co a favore dell’Italia.Brevissimamente i fatti: all’indomani dell’armistizio italianodel 1943 e della dissoluzione dell’esercito regio, che significòla perdita del controllo delle forze italiane sul territorio entro iconfini dello stato italiano ed anche sul territorio sottoposto adoccupazione militare da parte delle forze italiane (e non solosul territorio ex jugoslavo direttamente annesso nel 1941 alregno d’Italia), la rapida occupazione dell’area della VeneziaGiulia, della provincia di Lubiana e del territorio dalmata daparte della Wehrmacht comportò una riorganizzazione politico-territoriale che, lungi dal rappresentare una soluzione tran-sitoria di breve periodo, preludeva ad un mutamento radicale ein una prospettiva senza scadenze della nuova unità territorialedella quale riviveva la denominazione geografico-amministra-tiva del periodo absburgico di Litorale adriatico.Dal settembre del 1943 all’aprile del 1945 le province diTrieste, Gorizia, Udine, (che fu distaccata dalla regioneVenezia Euganea), Pola, Fiume e Lubiana furono costituitenella speciale Zona d’operazione Litorale adriatico ad analogiadella omologa zona delle Prealpi, in cui furono aggregate leprovince di Trento, Bolzano e Belluno. Caratteristica comunedelle due speciali zone d’operazione era di trovarsi situate inzone di confine del vecchio stato italiano, o in contiguità diret-ta con il Grande Reich, come nel caso della Zona delle Prealpi,o lungo la vecchia frontiera italiana sul versante balcanico.Entrambe le zone rappresentavano sicuro interesse strategico

Enzo Collotti

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per la Wehrmacht, in quanto aree di transito diretto per i rifor-nimenti di truppe e di materiale bellico per il fronte italiano. IlLitorale adriatico in particolare si presentava come area ditransito verso l’intero settore balcanico, oltre che come settoreimmediatamente operativo, già largamente compenetrato daunità partigiane jugoslave, che già molto prima dell’armistizioitaliano del 1943 si erano insediate al di qua del vecchio confi-ne italo-jugoslavo, sicché la loro stessa presenza aveva fattodell’area nordorientale uno degli epicentri della crisi che tra il1942 e il 1943 preluderà al collasso politico-militare del regi-me fascista. L’esistenza del Litorale adriatico fu dal punto divista temporale una creazione di durata relativamente breve,non più di venti mesi. Ma dal punto di vista dell’incidenza sullavita dell’area che ne fu coinvolta fu un’esperienza assai pro-fonda, per la radicalità delle soluzioni proposte dalla presenzadel dominio tedesco, per la radicalità delle emozioni suscitatefacendo riemergere l’illusione di un passato irrevocabilmentetramontato e lasciando ferite aperte che non avrebbero contri-buito neppure a guerra finita alla pacificazione di questi terri-tori. Prescindendo da una ricostruzione cronistica degli eventiche caratterizzarono questa fase della storia della regione milimiterei a richiamare tre complessi di situazioni e di probleminei quali si possono sintetizzare le motivazioni e i caratteridella ristrutturazione imposta dalla gestione tedesca.Queste situazioni possono essere individuate come segue:1) Si tratta di chiarire in primo luogo, al di là delle contingenti

esigenze militari che fornirono il pretesto formale alla crea-zione del Litorale adriatico, la portata e il significato dellasottrazione del territorio alla sovranità italiana, nel caso spe-cifico della Repubblica sociale italiana, nelle sue immediateripercussioni pratiche ma anche dal punto di vista della valu-tazione retrospettiva dell’esperienza del fascismo e in pro-spettiva nell’ottica della realizzazione del Nuovo ordineeuropeo.

2) In secondo luogo si tratta di mettere in evidenza l’analisi deirapporti tra le nazionalità e l’impostazione delle questioni

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etniche che guidò la gestione del territorio da parte delleautorità tedesche in quel misto di operazione nostalgia e dioperazione consenso che ne ispirò politica e propaganda.

3) In terzo luogo si tratta di analizzare le componenti dell’ulte-riore esplosione di violenza che fu scatenata in quest’areadirettamente dalla politica nazista di contrapposizione l’unacontro l’altra delle nazionalità presenti, come se già ilpotenziale di odio e di aggressività accumulato dalla politi-ca di snazionalizzazione del regime fascista e dallo scatena-mento della repressione antipartigiana conseguente all’inva-sione fascista della Jugoslavia non avesse minato alla base lapossibilità di convivenza tra le diverse comunità nazionali.La politica distruttiva del Terzo Reich rappresentò per lepopolazioni dell’area un duro banco di prova al limite disconvolgimenti che rasentarono la guerra di sterminio.

L’aspetto più appariscente della nuova sistemazione data dallaGermania nazista alle speciali Zone d’operazione delle Prealpie del Litorale adriatico fu in termini immediati la sottrazione difatto di queste aree alla sovranità italiana e quindi la loro sepa-razione dall’alleata Repubblica sociale del neofascismo diMussolini rinato dopo l’armistizio all’ombra delle armi tede-sche. Fu rispetto al resto dell’Italia occupata (appunto l’“allea-to occupato” secondo la felice definizione di LutzKlinkhammer che evidenzia i limiti dell’alleanza dopo l’8 set-tembre, molto meno gli oneri dell’occupazione) una cesuraprofonda, una ferita che lese profondamente e per certi aspettiirrevocabilmente il prestigio e la credibilità della Rsi. cometutrice degli interessi dell’Italia.L’annessione di fatto al Terzo Reich fu nel caso specifico delleZone d’operazione dell’Italia settentrionale e nordorientaleconseguenza non solo di generiche aspirazioni espansionisti-che ma più propriamente espressione della reviviscenza di unforte irredentismo austriaco nei confronti dei territori perdutidal defunto impero absburgico alla fine della prima guerramondiale. La pressione di quella che potremmo definire unalobby austriaca all’interno del Grande Reich germanico dopo

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l’Anschluss del 1938 fu determinante nel dare una spinta eobiettivi concreti al generico risentimento e alla volontà di ven-dicarsi dell’Italia che nelle sfere dirigenti naziste circolava giàanteriormente al 25 luglio del 1943 e a maggior ragione dopoil colpo di stato contro Mussolini e l’armistizio del settembre.Comunque la rapidità con la quale fu realizzato l’insediamen-to dell’amministrazione tedesca nell’Alpenvorland e nel-l’Adriatisches Küstenland fornisce la conferma che si trattòdell’attuazione di più antichi progetti, di pressioni che eranoandate aumentando parallelamente alla disfatta militaredell’Italia e alla volontà punitiva che cresceva parallelamenteall’insicurezza che la debole cerniera italiana insinuava rispet-to alle posizioni più avanzate dello schieramento italo-tedescosul fronte balcanico, vale a dire su uno dei fronti principalidestinati a fare da argine alle popolazioni slave e sul piano poli-tico-ideologico al bolscevismo.La contiguità delle Zone d’operazione con regioni limitrofedell’Austria all’interno del Grande Reich germanico, la zonadelle Prealpi rispetto al Tirolo, il Litorale Adriatico rispetto allaCarinzia, è un’altra delle componenti che aiutano a collocare lanuova sistemazione politico-amministrativa in una correttaprospettiva. Nel caso specifico del Litorale adriatico viene dapensare ad un prolungamento meridionale della provinciacarinziana. La nomina ad alti commissari delle due Zone d’o-perazione rispettivamente del Gauleiter del Tirolo Hofer per lePrealpi e del Gauleiter della Carinzia Rainer per il Litoraleadriatico completa il quadro nei suoi aspetti istituzionali con-fermando al tempo stesso il carattere non meramente transito-rio della gestione avviata dopo l’armistizio. Pur non potendoprevedere quale sarebbe stata la forma che avrebbe assunto ildefinitivo incorporamento delle Zone d’operazione del GrandeReich non possiamo non considerare la soluzione amministra-tiva imposta dopo l’8 settembre come una sorta di soluzioneponte verso la definitiva annessione al Grande Reich. La sepa-razione dal resto d’Italia era accentuata dall’estraneità del siste-ma amministrativo alla stessa rete della Amministrazione mili-

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tare (Militärverwaltung) che si sovrappose nel territorio dellaRsi. alla sopravvivenza di una amministrazione italiana. Nelle zone d’operazione non vi fu alcuna sovrapposizione:l’amministrazione civile tedesca si sostituì all’amministrazioneitaliana, la sopravvivenza di alcune cariche tradizionali dell’or-ganizzazione amministrativa italiana (il prefetto, il podestà)ebbe un significato meramente strumentale, in quanto questiorganismi privati totalmente di qualsiasi rango decisionale nonavevano altro ruolo che di fungere da cinghia di trasmissionedella catena di comando gestita direttamente dall’ammini-strazione civile tedesca. L’autonomia del Litorale adriaticorispetto al resto d’Italia fu particolarmente evidente nella sot-trazione alla sovranità italiana dell’amministrazione degliinterni, della giustizia, oltre che, ovviamente, delle competen-ze di carattere militare. Infine, non si può considerare una meracircostanza occasionale o di comodo il fatto che la gestionedell’amministrazione civile fosse affidata in misura quasi tota-le a personale di estrazione austriaca e spesso carinziana, por-tatore quindi di un retroterra politico-culturale particolarmenteidoneo a confluire in un progetto di annessione nel quadroaustro-tedesco.Per fare una serie di esempi significativi, come già altra voltasottolineato: dalla Carinzia proveniva il più stretto collaborato-re di Rainer, il suo vice dr. Wolsegger. Dalla direzione dellapropaganda del Reich per la Carinzia proveniva il dr. Lapper,che assunse la direzione dei servizi propagandisticinell’Adriatisches Küsterland, che ebbero una importanza stra-tegica nel quadro globale della politica tedesca. Dalla Carinziaproveniva il consulente giuridico di Rainer dr. Messiner; que-st’ultimo a sua volta si servì della collaborazione del presiden-te dell’Oberlandsgericht di Graz per organizzare l’amministra-zione della giustizia nell’AK. Dalla Carinzia provenivano iresponsabili della sezione cultura, delle sezioni finanza, econo-mia e lavoro. Walzl, autore dello studio per ora più completosulla composizione dell’amministrazione civile del Litorale,può concludere che “analizzando l’insieme dei capisezione, si

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può dire, a titolo generale, che non ce n’era neppure uno chenon fosse carinziano o che prima dell’impiego a Trieste nonavesse almeno già lavorato in Carinzia”. Austriaco e addirittu-ra nato nella stessa Trieste era uno dei maggiori responsabilidella politica tedesca nell’AK, il capo supremo delle SS e dellapolizia, il generale delle SS Odilo Globocnik, che formalmen-te dipendeva dal capo supremo delle SS e della polizia nel restod’Italia, generale Karl Wolff, ma con un particolare rapporto diautonomia che gli conferiva una particolare autorità sulle forzedi polizia alle sue dipendenze. Era lo stesso Globocnik cheaveva realizzato in Polonia la “soluzione finale”, la cosiddettaAktion Reinhardt, che arrivò a Trieste quasi per punizione,accusato di scorrettezze patrimoniali compiute nell’esecuzionedegli ordini di annientamento della popolazione ebraica inPolonia e il cui zelo persecutorio e repressivo a Trieste si puòinterpretare anche come un modo per farsi riabilitare sul pianoprofessionale agli occhi dei vertici delle SS.L’allentamento dei vincoli con l’Italia era uno dei presuppostiper orientare l’area verso un futuro tutto segnato dall’inseri-mento nel Grande Reich germanico e nel più ampio e ambi-zioso orizzonte del Nuovo ordine europeo. Si ripeterono inquest’area meccanismi tipici del rapporto tra dominatori edominati, specialmente nei confronti delle popolazioni consi-derate di razza inferiore, già collaudati o attuati nelle altre partidell’Europa conquistate dal Terzo Reich. Il carattere e la fun-zione di subalternità attribuiti all’amministrazione e ai collabo-ratori locali furono uno degli aspetti maggiormente visibilidella gerarchia di potere inflessibilmente imposta dagli occu-panti. Va da sé che, nel quadro delle prospettive nuove che sivolevano offrire all’area, una funzione determinante fu attri-buita al dispiegamento di una assai attiva propaganda, che ebbetra i suoi epicentri anche la pubblicazione di un quotidiano inlingua tedesca, la Deutsche Adria-Zeitung (dal 14 gennaio1944 al 28 aprile 1945). Uno dei caposaldi di questa propa-ganda rivolta soprattutto ai delusi dei decenni trascorsi dall’an-nessione della Venezia Giulia all’Italia consistette nel tentativo

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di prospettare la rinascita delle fortune economiche e commer-ciali di Trieste nell’ambito di un nuovo orizzonte, quello imma-ginario del Nuovo ordine europeo, rompendo decisamente conun passato di decadenza, che inevitabilmente veniva identifica-to con la gestione italiana, assunta polemicamente come moti-vo contingente a convalida del processo di separazione in attoanche al di là di reali motivazioni storiche, che non potevanonon collegare la decadenza dell’emporio triestino non soltantoalla cattiva gestione dell’Italia ma anche al venir meno dellecondizioni generali – a cominciare dalla dissoluzionedell’Austria-Ungheria – che aveva sconvolto l’unità del suonaturale hinterland.Il processo di distacco dall’Italia fu il primo passo di un piùcomplesso sviluppo in cui motivi politico-propagandistici siintrecciavano a più elaborati tentativi di analisi teorico-politi-che che miravano a legittimare la presenza e la dominazionetedesca con il retroterra delle conflittualità nazionali che ave-vano infiammato l’intera area del Litorale adriatico. Nell’otticadella propaganda tedesca un motivo privilegiato, destinato aprocurare consensi presso la borghesia e la piccola borghesiatriestina, fu rappresentato dalla proiezione europea che dovevacoprire le mire annessionistiche dell’imperialismo germanico.Il leitmotiv di Trieste “finestra dell’Europa sul Mediterraneo”,che segnò l’esordio del messaggio martellato giorno dopo gior-no dalla Deutsche Adria-Zeitung, era strettamente funzionaleall’inserimento del porto adriatico negli schemi geopoliticitipici dell’imperialismo nazista, nell’intento di sollecitare lacollaborazione dei ceti economici e commerciali locali in unquadro di interessi nazionali ma soprattutto internazionali instridente contrasto con le sorti del conflitto che sembrava ormaiallontanare e non già avvicinare la realizzazione degli obiettividel Nuovo ordine europeo. Ciononostante, la propaganda nazi-sta non rinunciava al tentativo di fare breccia negli interessi deiceti imprenditoriali e assicurativi triestini sollecitandone laconvergenza con quelli del Grande Reich proponendo, dopo ilfallimento del sogno imperiale del fascismo nei Balcani, la pro-

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spettiva del trionfo dell’imperialismo nazista e dell’inserimen-to in una mitica Mitteleuropa come unica possibilità per la rea-lizzazione delle loro aspirazioni.Prima ancora di insediarsi nell’Adriatisches Küstenland,Rainer aveva cercato di motivare l’introduzione di una ammi-nistrazione tedesca fornendo una analisi della situazione dellenazionalità presenti nell’area che tendeva a dimostrare il carat-tere minoritario della componente italiana. Per giungere a que-sto risultato egli sottostimava la presenza degli italiani sia nellaprovincia di Gorizia che nel Friuli e nella stessa area urbana diTrieste, erigendo a nazionalità autonoma i cosiddetti “furla-ner”: una manipolazione storico-concettuale oltre che statisticache doveva servire a rendere attendibile la necessità dell’inter-vento pacificatore della Germania come arbitro tra i quattrogruppi linguistici (furlaner, italiani, serbi, croati) che si conten-devano il controllo del territorio. Coerentemente alla sua pro-posta di riportare la frontiera italiana al confine italo-austriacodel 1914, Rainer assegnava i “furlaner” a un gruppo etnico-lin-guistico diverso dagli italiani, quello degli Alpen-undRätoromanen, secondo una delle tante classificazioni razzialiin uso nel periodo nazista.Caratteristica dominante della situazione delle nazionalità dellaregione erano per Rainer, da una parte il rifiuto generalizzatodella gestione del fascismo, la cui prova fallimentare ultima erarappresentata dal divampare del movimento partigiano slavo;dall’altra la constatazione che gli italiani non rappresentavanola componente maggioritaria della popolazione. Come abbia-mo ripetutamente sottolineato in precedenti studi, la negazionedell’esperienza del passato regime fascista era un tratto comu-ne ad altre fonti della propaganda e della politica nazista, dairapporti del dipartimento per la propaganda alle fonti della MV.Per il Litorale adriatico la teorizzazione più completa e più dra-stica della politica tedesca è contenuta in un ampio documentopubblicato a cavallo tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 aduso interno delle unità militari e di polizia tedesche operantinell’area, in primo luogo come manuale di guerra antipartigia-

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na, ma più in generale come manuale di orientamento storico-politico, in cui la strategia della guerra di annientamento erastrettamente legata all’analisi di carattere storico delle originidella guerra per bande e alle considerazioni politiche e socio-logiche del conflitto delle nazionalità nella regione.L’ufficialità di questo documento, il Bandenkampf in derOperationszone Adriatisches Küstenland, è attestata dal fattoche esso era preceduto da una presentazione a firma del capodelle SS e della polizia dell’area, generale delle SS OdiloGlobocnik.La parte più scontata di questo documento era l’analisi del fal-limento della politica del fascismo, cui veniva addebitata lasopraffazione dei diritti nazionali delle popolazioni slave, comepremessa non priva anche di una certa superiorità razziale neiconfronti degli italiani, per affermare l’inadeguatezza di questiultimi a governare la regione e motivarne una volta di più laseparazione dall’Italia.La rappresentazione esasperata della mescolanza e delle con-flittualità delle nazionalità, l’insistenza appunto sulla loroframmentazione e sul “mosaico etnico” con il quale se ne vole-va simboleggiare la caotica mescolanza, non rispondeva ad esi-genze di carattere storico, era piuttosto funzionale agli obietti-vi della politica nazista e come sempre in primo luogo allalegittimazione della presenza della Germania come fattore epotenza d’ordine. Nella stessa misura in cui si voleva demo-nizzare l’esperienza di governo dell’Italia e sottostimare la pre-senza degli italiani, il Bandenkampf compiva anche il tentativodi recuperare alla collaborazione con i tedeschi la componenteslovena, che era la nazionalità che maggiormente aveva soffer-to l’oppressione fascista. Non si trattava, ovviamente, di unaastratta rivalutazione dei suoi diritti nazionali e culturali, ma diun obiettivo molto concreto: cercare di recidere il legame tra lapopolazione essenzialmente contadina slovena e il movimentopartigiano, facendo leva in primo luogo su un richiamo di clas-se, la difesa della proprietà della terra, con una forte accentua-zione ideologica nel segno dell’antibolscevismo. In questa

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fase, il tentativo di rivalutare la popolazione slovena e di ope-rare una nuova contrapposizione tra sloveni e italiani risponde-va all’ulteriore obiettivo di impedire che dopo l’armistizio del1943 potesse crearsi una saldatura tra il preesistente movimen-to di resistenza sloveno e l’incipiente movimento di resistenzaitaliano.In questo quadro di conflittualità nazionali, storicamente origi-nate dalle annessioni del 1918 e dalla conseguente politica disnazionalizzazione, inasprite dall’aggressione fascista allaJugoslavia ed ulteriormente esasperate dai tedeschi, con l’im-migrazione forzata fra l’altro nella zona, di un consistente inse-diamento cosacco, il Bandenkampf proclamava la lotta senzaquartiere alle bande, ai banditi, alla lotta partigiana. Tutto ciòavveniva in un contesto in cui già operava dall’inizio del 1944la Risiera di San Sabba e in cui, sin dal settembre del 1943 erain atto una vera e propria guerra di annientamento contro ilmovimento partigiano. Da questo punto di vista il Bandenkampf non inventava néinnovava nulla: sistematizzava e codificava, fornendone lecoordinate dal suo punto di vista storico-teoriche, una prassiormai da lunghi mesi già in atto. In quest’area la violenzadella lotta partigiana, ulteriormente inasprita dopo l’armistiziodel 1943 che aveva fruttato ai partigiani un ricco bottino diarmi proveniente dal disciolto esercito italiano, incontrò lareazione di una ancora più feroce controguerriglia. Se il teatrodi guerra italiano visse episodi di grandi massacri e di atroci-tà contro le popolazioni civili, con o senza il pretesto di azio-ni di rappresaglia, nell’area del Litorale Adriatico la violenzadella repressione rasentò i limiti della guerra di sterminio.Almeno sin da quando ebbi a pubblicare quel famigerato ordi-ne d’operazioni emanato nel febbraio del 1944 dal comandan-te militare del Litorale adriatico, il generale delle truppe dimontagna Ludwig Kübler, il cui imperativo era sintetizzatonella formula “Terrore controterrore, occhio per occhio, denteper dente!”, sappiamo che l’area del Litorale adriatico erainclusa nella sfera di competenza delle “istruzioni per la lotta

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contro le bande in oriente” che Hitler aveva emanato il 18 ago-sto 1942 per intensificare la lotta antipartigiana nei territoriinvasi dell’est europeo. Il Litorale adriatico si prospettava cosìcome l’estrema propaggine, al limite del territorio rimastosotto apparente sovranità italiana, dell’immane partita che ilReich nazista aveva aperto per la conquista dello spazio orien-tale e per l’affermazione del Nuovo ordine europeo. La guer-ra di annientamento non prevedeva che si facessero prigionie-ri, implicava l’alternativa drastica della sopravvivenza di unasola delle parti in conflitto, era lotta per la supremazia nonsolo militare ma razziale; l’estirpazione del nemico lasciavadietro di sé una scia infinita di lutti e di distruzioni, incendi edevacuazioni forzate di località, uccisioni e deportazioni in cuii reparti della Wehrmacht non si differenziarono dalle unitàdella polizia e delle SS o dai corpi militari dei collaboratori,come nel caso delle unità cosacche che, ormai ostaggi deitedeschi e non avendo più nulla da perdere, in quanto la lorosopravvivenza dipendeva soltanto dalla vittoria dei nazisti,finirono per investire nella repressione contro i partigiani econtro le popolazioni civili alle quali contendevano il territo-rio, nella quale furono prioritariamente impiegati, tutta la loroforza d’urto e capacità aggressiva e operativa.La puntualizzazione storica di queste vicende non può conclu-dersi senza qualche altra considerazione che riguarda diretta-mente anche il nostro presente. Dobbiamo interrogarci se nelloscatenamento di violenze dell’immediato dopoguerra, la cesu-ra del Litorale adriatico e l’esasperazione dei conflitti e degliscontri armati che vi ebbero luogo non abbia inciso profonda-mente nell’esaltare odi e contrapposizioni. E dobbiamo inter-rogarci sul ruolo di quelle componenti delle comunità naziona-li di quest’area che si sono associate ai tedeschi ed hanno pre-stato in molteplici modi la loro collaborazione. Per quanto ciriguarda ciò vale in particolare per il ruolo svolto dal collabo-razionismo italiano, una componente importante della realizza-zione per fortuna non pervenuta a compimento del progettonazista. Ma quest’ultimo ha avuto proprio il senso di inasprire

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negli animi oltre che nei fatti la contrapposizione tra italiani eslavi, lasciando una eredità che non è ancora del tutto scom-parsa. La convergenza soltanto paradossale dell’ala estrema delnazionalismo italiano con la dominazione nazista negatrice deidiritti e della libertà della nazionalità che si incrociano in que-st’area in funzione dell’odio antislavo, è un fatto con il qualenon sono stati fatti ancora tutti i conti. Nel processo di elabo-razione storica e di costruzione della memoria permangonoancora troppe ambiguità sulle quali riteniamo vada fatta chia-rezza senza concessioni a unilaterali pregiudizi. Fin quando laconvivenza tra le nazionalità di quest’area sarà consideratanella migliore delle ipotesi non una condanna della storia, mauna scelta elettiva in uno spirito di rovesciamento dei valori edei principi del Nuovo ordine che avrebbero voluto imporre ilfascismo e il nazismo non sarà possibile abbattere negli animi,prima ancora che nelle barriere di frontiera, gli ostacoli che sifrappongono all’eguaglianza delle nazionalità e degli individuiche la compongono. Restituire le coordinate storiche di queste laceranti vicende echiamare con il loro nome senza eufemismi e senza tabù i com-portamenti di individui, ceti e gruppi sociali, parti politiche, faparte di un processo di crescita di una coscienza civile demo-cratica, che dalla consapevolezza degli errori, delle violenze edelle ingiustizie del passato deve trarre alimento e ispirazioneper una definitiva inversione di rotta. Se come storici dobbia-mo contribuire a chiarire i termini di questioni scottanti e con-troverse operando le debite distinzioni e chiamando in causatutte le componenti di un processo storico, come cittadini pos-siamo e dobbiamo praticare le opzioni che ci vengono impostedalla nostra coscienza. Dobbiamo cioè prendere parte senzareticenze per la costruzione di un futuro che, senza dimentica-re gli orrori del passato anzi facendo tesoro di quella esperien-za, si apra ad orizzonti nuovi nel rispetto reciproco delle nazio-nalità in nome di una comune umanità e del comune rispettodei diritti umani, così violentemente manomessi nel periododel quale ci siamo occupati.

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Il mio intervento si riallaccia per molti aspetti alle considera-zioni che svolgeva questa mattina Enzo Collotti sulla vicen-

da del Litorale adriatico, per cui dovrò più volte, probabilmen-te, anche fare riferimento alle cose da lui dette, anche se misforzerò di evitare ripetizioni. Tengo conto anche della presen-za di studenti e, quindi, cercherò di non limitarmi solo agliaspetti problematici, ma anche di richiamare sommariamentealcuni dati di fondo fattuali e alcune indicazioni bibliografichesull’argomento che mi è stato assegnato. Non c’è dubbio che la vicenda della Risiera, questo Lager checostituisce per certi aspetti un unicum nella storia del nostroPaese, si colloca pienamente proprio in quel contesto di vio-lenza diffusa, di cui parlava stamattina Enzo Collotti, riferen-dosi sia alla fase precedente all’8 settembre, sia, successiva-mente, alla stessa politica di repressione avviata dai nazistidopo l’occupazione. Va rilevato preliminarmente che le perce-zioni di tale violenza diffusa probabilmente erano diverse(anzi, sicuramente erano diverse) tra la realtà della città diTrieste e quella del circondario. Nel circondario, in ampie areedell’interno della regione, la violenza provocata dallo scontrotra la controguerriglia italiana e l’attività partigiana, conse-guente all’occupazione italiana della Jugoslavia, con tutto ilsuo corollario di rappresaglie, violenze sui civili, deportazioni,istituzione di campi di internamento, era già una realtà triste-mente sperimentata, ma di essa fino all’8 settembre sicura-

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mente la città di Trieste era a conoscenza senza esservi diretta-mente coinvolta. È solo dopo l’instaurarsi della dominazionenazista e l’istituzione della Operationszone AdriatischesKüstenland che anch’essa venne direttamente coinvolta inquella violenza diffusa. Di questa violenza il capitolo Risieracostituisce l’aspetto macroscopico, che si colloca nell’ambitodel sistema di repressione e di controllo poliziesco che i nazi-sti rapidamente crearono, a capo del quale il supremo commis-sario Rainer, Gauleiter della Carinizia, aveva chiamato proprioun altro nazista austriaco, il suo vecchio camerata OdiloLotario Globocnik, il Gruppenführer delle SS già responsabiledella Aktion Reinhard a Lublino, l’operazione di sterminio dioltre 1,7 milioni di ebrei del Governatorato polacco. Una voltanominato Höherer SS – und Polizeiführer del Litorale,Globocnik – com’è noto – fece affluire a Trieste un gruppo di“specialisti”, circa una novantina, molti dei quali avevano pro-prio partecipato alle attività dell’Einsatzkommando Reinhardin Polonia e gestito anche alcuni dei campi di sterminio di quel-la operazione (Sobibor, Belzec, Treblinka), e inoltre, accantoad essi, alcuni militi ucraini che provenivano dal campo polac-co di Trawniki, sede di un centro di addestramento di elemen-ti collaborazionisti aggregati alle SS. Va inoltre ricordato chemolti elementi di primo piano di questo gruppo di specialistiavevano in precedenza preso parte all’“operazione eutanasia”,la cosiddetta Aktion T4, il programma di sterminio degli handi-cappati e dei disabili messo in atto dal regime nazista, cheHenry Friedlander ha efficacemente definito come preludio algenocidio. Proprio a questi burocrati della morte, autentici fun-zionari del crimine di Stato, tra i quali compaiono alcuni tra icriminali di guerra più tristemente noti, come Christian Wirth,venne affidato il compito di gestire il Lager della Risiera di SanSabba destinato in breve a diventare il fulcro della politica direpressione nazista nel Litorale. Dal punto di vista formale San Sabba è definibile come unPolizeihaftlager, cioè un campo di detenzione di polizia e que-sta è la denominazione, per esempio, con cui esso è indicato

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nell’Indice provvisorio dei campi di concentramento dellaCroce rossa internazionale. Si trattava – e questo è il primopunto che voglio mettere in evidenza in questa breve sintesi –di un Lager di tipo particolare, che funzionava come campo“misto”. Presentava, quindi, una complessità particolare che varilevata. Esso era, infatti, utilizzato come centro di raccolta perla deportazione degli ebrei, la deportazione razziale verso icampi di sterminio di Auschwitz, prima, e di Ravensbrück, poi,e quindi da questo punto di vista fungeva prevalentemente dacampo di transito, con le eccezioni che vedremo più avanti.Allo stesso tempo la Risiera funzionava come campo di deten-zione e di polizia per l’imprigionamento, la tortura, l’elimina-zione di esponenti della Resistenza, quindi di partigiani cattu-rati, ma anche di ostaggi civili e anche – vedremo – di altrefigure. Per questa ultima finalità il Lager, come è noto, vennedotato anche di un forno crematorio per l’incenerimento deicadaveri delle vittime, ottenuto mediante la trasformazione del-l’impianto precedente dell’essiccatoio del riso, secondo il pro-getto realizzato da Erwin Lambert, l’esperto delle SS che avevalavorato in precedenza nella costruzione delle camere a gas diHartheim, Hadamar, Treblinka e Sobibor. È questa presenza del forno crematorio a far sì che la Risieracostituisca un unicum in Italia.Essa può essere dunque considerata per queste sue caratteristi-che un “luogo tipico” del sistema di terrore creato dagli occu-patori nazisti per realizzare nel corso del conflitto il loro dise-gno molteplice che mirava, da una parte, alla punizione spieta-ta dei ribelli (dei Banditen, come venivano definiti) e, dall’al-tra parte, allo sfruttamento sistematico e violento della popola-zione civile (mediante la rapina delle risorse economiche e losfruttamento del lavoro coatto) oltre, certo non ultima perimportanza, come si è detto, alla cosiddetta “soluzione finale”della questione ebraica. Direi che la sintesi più efficace che si può leggere di questocarattere complesso della Risiera, secondo me, rimane ancoraquella, formulata a suo tempo da Elio Apih, che compare anche

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nella guida alla Mostra storica distribuita nel Museo dellaRisiera, nella quale l’eminente storico triestino definisce ilLager triestino un microcosmo delle forme e dei modi dellapolitica nazista di repressione e di sterminio, dove ebberoluogo: a) l’applicazione delle principali tecniche di uccisionesu ampia scala, proprie della logica delle SS; b) l’applicazionedella tecnica delle SS per le deportazioni politiche e razziali(clausura, avvio alla stazione per il vagonamento e per l’inol-tro verso i campi maggiori); c) lo sfruttamento della forza lavo-ro dei prigionieri ai fini dell’economia di guerra; d) tutta la pre-senza di quei comportamenti tipici dell’universo concentrazio-nario (tortura, sadismo, corruzione, spionaggio, collaborazio-nismo volontario o coatto), che si vanno determinando in situa-zioni così estreme; e) non ultimo, la Risiera operò come centroper la predisposizione di vere e proprie azioni militari dirastrellamento e di terrore della popolazione civile, nell’areadella Venezia Giulia, dell’Istria, del Fiumano, spesso seguiteanche da depredazione e dall’uccisione dei rastrellati nellaRisiera stessa. Questo carattere complesso (e sottolineo questo aggettivo) delmicrocosmo Risiera è proprio una delle acquisizioni più chiareed inoppugnabili anche dell’inchiesta giudiziaria che vennesvolta all’epoca del processo ed è stata efficacemente sintetiz-zata in questi termini proprio nella sentenza di condanna diOberhauser del 1976. Queste le parole dell’estensore della sen-tenza, il giudice dr. Domenico Maltese: “…appare evidente,pertanto, che il Lager di San Sabba fu per le vittime della per-secuzione razziale prevalentemente un campo di transito, men-tre per le vittime della persecuzione politica o di crimini com-messi in violazione delle leggi e degli usi di guerra rappresen-tò un carcere o un braccio della morte senza processo né giu-dici”. L’ammontare complessivo delle vittime della Risiera, come ènoto, è oggetto di discussione. Sono state proposte stime diver-se che vanno da un minimo di 2000, stabilito in base alle testi-monianze rese all’epoca del processo, fino ad un massimo di

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5000 (cifra che alcuni ritengono improbabile) ipotizzato nelsuo pionieristico studio da Ferruccio Fölkel (La Risiera di SanSabba) sulla base della stima dell’attività del forno crematorio.Il giornalista sloveno Albin Bubnic dedicò molto impegno nel-l’identificazione delle vittime ivi soppresse. Sforzo il cui esitofu solo parziale, poiché consentì di individuare solo un primoelenco di poco più di trecento nomi. Si tratta in massima partedi partigiani e ostaggi, prevalentemente sloveni e croati, maanche di esponenti di primo piano della resistenza italiana, diun limitato numero di ebrei che non vennero deportati e, pervarie ragioni, vennero uccisi in Risiera o di semplici vittimecatturate nei rastrellamenti o in altro modo in città. Se esaminiamo l’utilizzo della Risiera come ingranaggio dellaShoah, dobbiamo ricordare che vi furono imprigionati, in atte-sa dei convogli verso Auschwitz o altri campi del Reich, oltre1450 ebrei, provenienti dalla regione, dal Veneto e dallaCroazia. Tra questi, 700 circa furono i deportati razziali triesti-ni, una ventina soltanto dei quali, come è noto, fece ritorno daicampi della morte. Di 28 ebrei è stata accertata l’uccisioneall’interno del Lager in quanto considerati non in grado diaffrontare il trasporto perché vecchi o malati o perché accusa-ti, in qualche caso, di infrazioni alla disciplina. Va tuttavia tenu-to conto anche del fatto che non tutti gli ebrei triestini deporta-ti ad Auschwitz o in altri campi della morte, transitaronocomunque dalla Risiera. Ve ne furono anche raccolti diretta-mente a Fossoli perché catturati in altre località d’Italia, doveavevano cercato di nascondersi o di fuggire. Le informazioniessenziali per la ricostruzione della deportazione ebraica attra-verso la Risiera sono quelle contenute nei lavori più generali diLiliana Picciotto sulla deportazione ebraica dall’Italia (Il librodella memoria, soprattutto, che l’autrice ha recentementeaggiornato) e di Marco Coslovich sulla deportazione dalLitorale adriatico (I percorsi della sopravvivenza). Ma occorreanche ricordare qui brevemente i lavori di inquadramentogenerale sulla persecuzione degli ebrei triestini di Silvia Bon(Gli Ebrei a Trieste 1930-1945), accanto ad alcune importanti

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memorie di ex deportati a partire da quella degli anniCinquanta di Bruno Piazza (Perché gli altri dimenticano) finoad arrivare a quelle più recenti, come quella di Marta Ascoli(Auschwitz è di tutti), pubblicata alla fine degli anni Novanta. Le retate con cui furono prelevati le donne e gli uomini desti-nati alla deportazione per motivi razziali ebbero inizio imme-diatamente dopo la costituzione del potere nazista a Trieste, il9 ottobre 1943, il giorno di Yom Kippur, e finirono solo nelfebbraio del 1945. Esse coinvolsero la gran parte di quellacomponente della numerosa Comunità ebraica triestina, chenon era riuscita a lasciare la città, non era riuscita ad occultar-si, compresi soprattutto i più deboli, i più indifesi, come, peresempio, gli anziani della Casa di riposo Gentilomo o i mala-ti degli ospedali. Nel puntuale e feroce perseguimento dell’o-biettivo di rendere Judenfrei, cioè priva di ebrei, anche questacittà che era – è il caso di ricordarlo – sede di una delle più fio-renti comunità ebraiche d’Italia. Ma, accanto agli ebrei triesti-ni, transitarono per la Risiera anche, come si è detto, ebrei pro-venienti da altre regioni, in particolare dal Litorale, dal Friuli,dal Goriziano, dall’Istria, da Fiume. E anche alcuni ebrei pre-levati in Veneto, cioè in zone che erano al di fuori dell’area dipertinenza delle attività della polizia e delle SS del Litoraleadriatico. Per i deportati non razziali, invece, per gli uomini dellaResistenza, per gli ostaggi catturati nei rastrellamenti, per i pri-gionieri civili e militari, la Risiera fu solo in parte un Lager ditransito. Come si è detto, in essa questi ultimi patirono anche latortura, l’imprigionamento e in molti, in troppi casi, una morteoscura. È doveroso – ripeto – ricordare che la maggior partedelle vittime proveniva da retate compiute dai nazisti nell’am-bito della repressione dell’attività partigiana, di quellaBandenkampf di cui ci parlava Collotti, da aree dove era moltoviva la resistenza. Quindi dall’Istria, in particolare l’Istria inter-na settentrionale, dalla regione dei Brkini, ma anche dal Friuli,dal Carso e dalla città stessa. Tra essi alcuni tra gli esponentipiù in vista della resistenza slovena, croata ed italiana. Pur con-

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sapevole che si tratta di un’ elencazione parziale, senza far tortoai numerosi altri, è necessario che io ricordi qui qualche nome:i dirigenti comunisti Luigi Frausin, Natale Colarich, VincenzoGigante, Luigia Cattaruzzi, i dirigenti della resistenza slovenaAnton Veluscek, Franc Segulin, Zorko Kovacic, esponentidella resistenza croata come Vera Bratonja, Rudolf Mandic, eanche numerosi esponenti delle altre forze della resistenzapolitiche e militari italiane come Cecilia Deganutti, GiovanniBattista Berghinz, Virginia Tonelli, il giellista Ottorino Pesenti,il democristiano Paolo Reti, come i membri delle missionimilitari inviate a Trieste dal Regno del Sud, guidate dal capita-no Valentino Molina, e dal tenente Rodolfo Sartori. Tutte queste persone scomparvero nel campo della morte rica-vato all’interno del secondo ampio cortile dello stabilimento,dove era ubicato anche il fabbricato che ospitava il forno cre-matorio e dove furono ricavate anche le 17 microcelle che fun-zionarono spesso da anticamere della morte, in ognuna dellequali furono rinchiusi, talvolta per un giorno o per pochi gior-ni, talvolta anche per settimane, anche sei prigionieri per cellain attesa della esecuzione. Gli ebrei e i prigionieri militari o civili che erano destinati,invece, alla deportazione verso il Reich venivano imprigionatinel fabbricato adiacente e nei cameroni in attesa di intrapren-dere il terribile viaggio verso Auschwitz, Mauthausen, succes-sivamente Ravensbrück. Alcuni di loro, al ritorno della depor-tazione hanno potuto testimoniare sugli eccidi avvenuti duran-te la loro permanenza in Risiera. Nel medesimo settore internodel Lager era rinchiuso anche un gruppo di ebrei: in prevalen-za ebrei bosniaci o fiumani (ma ce n’erano anche alcuni trie-stini) che costituivano una sorta di Kommando interno di lavo-ro, addetto ai servizi e ai lavori di fatica. Come giungevano le vittime alla Risiera? Per vie diverse.Molto spesso vi pervenivano trasferiti dalle carceri delCoroneo dove erano stati incarcerati dopo la cattura o, anche,dalle celle di piazza Oberdan, dove avevano sede la Gestapo edil SD-SIPO, ma molti di loro (per questo è quasi impossibile

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quantificarli e identificarli) venivano direttamente dai luoghidove erano stati catturati, trasportati con una corriera ed uccisiimmediatamente al loro arrivo. Nel corso del processo, soprat-tutto dalle testimonianze rese dalle stesse SS ai giudici tedeschiin fase istruttoria, sulle modalità di esecuzione sono emersediverse ipotesi che rispecchiano anche l’intrecciarsi delle diver-se tipologie della violenza: dalla gassazione con i gas di scari-co del mezzo di trasporto, all’abbattimento con corpi contun-denti, all’uccisione (ma meno frequente) con l’uso di armi dafuoco. Le ceneri delle vittime, arse nel forno crematorio, veni-vano scaricate in mare nella vicina baia di Muggia. La parte rimanente dello stabilimento, che non fu adibita acampo di eliminazione, ma prevalentemente a caserme e depo-sito (anche dei beni mobili razziati) fu comunque anche utiliz-zata – nel complesso sistema della Risiera – con finalità evi-dentemente repressive. In essa, oltre ai membri della gruppolocale (R I) della sezione nota come Aktion Reinhard (il repar-to retto da Wirth prima, e da Allers poi, dal quale dipendeval’attività della Risiera) vennero acquartierati infatti, in diversimomenti, anche reparti o battaglioni di soldati italiani sospet-tati di volersi sottrarre all’impiego militare a fianco dei tedeschie considerati non del tutto fidati. È il caso, per esempio, degliuomini del cosiddetto “battaglione Davide” che formalmenteaveva aderito alle forze della Repubblica sociale italiana, unaparte dei quali venne utilizzata dai tedeschi forzatamente comeforza di collaborazione in alcune azioni di rastrellamento oppu-re come guardia allo stabilimento, mentre altri, riusciti a diser-tare, si aggregarono alle forze partigiane, altri ancora furonoavviati alla deportazione. Si tratta, dunque, di esperienze diver-se, come quella di due compagnie di giovani alpini che prove-nivano da Fiume, che furono rinchiusi in Risiera con l’accusadi aver tentato la diserzione. In particolare, fra gli internati diquesto settore va ricordato un folto gruppo di giovanissimilavoratori coatti, poco più che adolescenti, trasferiti in Risieradal Carso nel dicembre del 1944 e costretti ad una forma dimilitarizzazione forzata, vittime inconsapevoli anch’essi di

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quel disegno folle nazista di reperire fino all’ultimo e utilizza-re nella fase finale del conflitto possibili forze ausiliarie o,comunque, strumenti da asservire alla propria condotta dellaguerra.Questo utilizzo della Risiera come campo di detenzione ed eli-minazione, e quindi come strumento repressivo “locale”, nontoglie tuttavia rilievo al ruolo che la medesima ha ricopertocome ingranaggio nell’ambito più generale della deportazioneverso i campi di concentramento del Reich. Si può dire, invece, che essa abbia costituito il fulcro dell’este-so e complesso sistema di violenza, sopraffazione, spoliazionee sfruttamento delle risorse, anche umane, messo in atto daparte nazista nel Litorale, area questa che, come ha messo benein luce nei suoi lavori Marco Coslovich, ha fornito un contri-buto estremamente rilevante al dramma della deportazione ita-liana nel Reich.La pluriennale ricerca di Coslovich infatti ha consentito diidentificare, uno per uno, oltre 8200 deportati nei Lager delReich provenienti dall’area dell’Adriatisches Küstenland. Cifrache comunque rappresenta senza dubbio un dato approssimatoper difetto, sia per la difficoltà di calcolare esattamente ilnumero dei deportati originari dei territori del’Istria e delFiumano ceduti nel dopoguerra e, soprattutto, anche per laeccessiva distanza temporale con cui questa ricerca è stata svol-ta (negli anni ’90) rispetto all’epoca della deportazione. In ognicaso questi deportati identificati costituiscono una percentualeestremamente rilevante, potremmo dire circa un terzo, del tota-le della deportazione stimata dall’Italia verso i Lager nazisti. Ilfatto che la maggior parte di essi siano stati avviati alla depor-tazione senza transitare dalla Risiera, per esempio partendodirettamente dal Coroneo o dalle altre prigioni della zona,come quelle di Gorizia o di Udine, non deve sorprendere. LaRisiera – la cui capienza tra l’altro non poteva per ragioni strut-turali raggiungere quella dei grandi Lager di baracche, macomunque consentì la detenzione di un considerevole numerodi prigionieri (Bubnic identificò i nomi di 525 sopravvissuti,ˇ

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ma altri ne sono emersi successivamente) – era probabilmentedestinata ai casi ritenuti più pericolosi, agli uomini ed alledonne che vi venivano rinchiusi per essere eliminati subito oper essere sottoposti ad un regime carcerario particolarmenteviolento. Lo dimostra indirettamente il fatto che persone cattu-rate dalle SS nella stessa retata siano andate incontro nell’im-mediato ad un destino diverso. Abbiamo qui tra noi oggi l’a-mico Mario Tardivo di Ronchi. Mario e il fratello Giacomo,subito dopo la cattura, furono portati alle carceri del Coroneoper essere poi deportati a Dachau. L’altro loro fratello, Arcù,arrestato nella stessa operazione, scomparve invece nellaRisiera. Del resto dell’esistenza di una gradualità nelle misure repressi-ve, che andavano dalla morte per i dirigenti della Resistenza,per i partigiani catturati con le armi, per gli ostaggi catturati neirastrellamenti, alla deportazione in Germania o anche all’avvioal lavoro coatto per i casi che i nazisti ritenevano più miti, vi èuna precisa conferma proprio nei documenti cui si riferiva que-sta mattina Enzo Collotti e da lui analiticamente studiati già apartire dagli anni Sessanta. Per esempio, il noto ordine delresponsabile della lotta contro le formazioni partigiane delLitorale, generale Kübler, del 24 febbraio 1944 (“Terrore con-tro terrore, occhio per occhio, dente per dente!), citato stamat-tina da Enzo Collotti, prevedeva una distinzione tra la durezzaestrema, che prevedeva l’impiccagione o la fucilazione, e inve-ce, per i casi più miti, soluzioni come l’avvio al lavoro coatto.È evidente che si trattava quindi di una graduazione diversadelle misure repressive, prevista nell’ambito, però, di un unicoprogetto complessivo, se se ne teneva conto anche negli ordinidi portata generale predisposti per l’intera operazione. Non sitrattava probabilmente di una guerra di annientamento, cosìcome era stata realizzata sul fronte orientale, ma evidentemen-te c’era più di un presupposto – ha scritto lo stesso Collotti –perché anche in questa zona si arrivasse a proclamare una lottasenza clemenza contro la Resistenza ma anche contro la popo-lazione civile, che è quindi ampiamente coinvolta.

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Tali principi generali trovarono applicazione, per esempio,nelle due ondate di reclutamenti coatti per l’organizzazioneTodt del marzo e di fine luglio del 1944. Questi massicci reclu-tamenti si accompagnarono infatti a retate ed altre misurerepressive, comprese deportazioni in Germania per quanti cer-cavano di sottrarsi al servizio di guerra. In questo quadro di violenza sistematica e di brutalità senzalimiti non c’è dubbio che quest’ultimo aspetto testé richiama-to, quello del lavoro coatto, costituisca un fenomeno che per ilsuo minor impatto, come ha rilevato Roberto Spazzali, rischiadi scomparire davanti alle tragedie rappresentate dalla Shoah edalla deportazione. Pur tuttavia dal punto di vista storico, a miogiudizio, anch’esso rientra pienamente come variante nel con-testo del sistema scientifico di sfruttamento dell’uomo posto inessere dal nazismo in queste terre e, come tale, va pienamenteanalizzato. Bene ha fatto, quindi, lo stesso Spazzali a colmarequesta lacuna con la sua dettagliata ricerca sul lavoro coatto nelLitorale adriatico (Sotto la Todt. Affari, servizio obbligatoriodel lavoro, deportazioni nella Zona d’operazioni “LitoraleAdriatico” 1943-1945), nella quale ha opportunamente messoin luce il suo carattere di metodologia di controllo radicaledella popolazione da parte degli occupanti tedeschi ed anchel’interdipendenza fra i campi del Sonderauftrag Poll allestitiper la costruzione della linea difensiva fortificata in Istria e lastessa Risiera. Ma, per tornare al tema della deportazione, non c’è dubbio chel’alta incidenza della deportazione dal Litorale adriatico sultotale nazionale sia da porre in stretta relazione con il ruolo cheTrieste ebbe come centro nevralgico della repressione nazifa-scista della resistenza italiana, slovena e croata e, nello stessotempo, al fatto di essere, come dicevo prima, sede di una tra lepiù numerose e vitali comunità ebraiche in Italia. Anche se,certamente, non va dimenticato il fatto che il Centro e ilMezzogiorno d’Italia vennero liberati prima e, quindi, in quel-le regioni l’incidenza della deportazione fu minore anche per-ché più limitato fu il periodo entro cui essa poteva essere rea-

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lizzata. Ciò detto, resta, secondo me, sempre rilevante ed aper-ta la domanda sul perché solo qui abbia operato una struttura direpressione così specifica e così qualificata quale quella messain atto da Goblocnik con il suo peculiare sistema poliziesco,ben analizzato all’epoca del processo per i crimini della Risieradallo storico sloveno Tone Ferenc (La polizia tedesca nellaZona d’Operazioni “Litorale Adriatico” 1943-1945). Questadomanda, che ne implica altre più specifiche (Perché la Risieraa Trieste? Perché un campo della morte in questa città?) ha sol-lecitato diverse risposte nel tempo da parte degli storici che sene sono occupati, da Carlo Schiffrer a Elio Apih, fino aGalliano Fogar, a Enzo Collotti ed altri ancora. Esse si richia-mano soprattutto ai caratteri del quadro politico, sociale e mili-tare di quel tragico periodo, come è stato proprio delineatonegli interventi di questa mattina. Si sono quindi presi in con-siderazione, innanzi tutto, l’inserimento istituzionale di fattodella regione nell’orbita del Reich con l’istituzione del Litoraleadriatico e i disegni di espansione secondo il progetto “neoa-sburgico”, che richiamava oggi Enzo Collotti. Ed il fatto chequesta area fosse geograficamente più vicina al modello dellaguerra ad est che non a quello seguito invece nei Paesi occi-dentali occupati. Si è posta, quindi, attenzione allo specificoruolo svolto dai leader nazisti carinziani nel progetto di crea-zione di questa nuova propaggine del Reich in territorio italia-no. Si sono sottolineati anche gli aspetti militari: in particolareElio Apih ha sottolineato il fatto che l’Adriatico costituiva ilbraccio di mare più vicino al confine del Terzo Reich e, quin-di, quello militarmente più delicato da proteggere, dove qua-lunque attività partigiana, soprattutto quelle che intervenivanosulle vie di comunicazione e di trasporto, costituiva una seriaminaccia. Si è sottolineata anche opportunamente – lo ha fattosoprattutto Silvia Bon – la specificità della questione ebraica inuna città come la nostra che contava una comunità non solonumericamente importante, ma anche dal forte peso economi-co e sociale, che già dopo le leggi razziali del 1938 era statainvestita da tutta una serie di provvedimenti discriminatori che

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mettevano in gioco forti interessi economico-sociali. E di que-sta specificità locale era stata manifestazione evidente proprionell’ultima fase del regime fascista, la creazione del ben notoCentro triestino per lo studio del problema ebraico, fondato daEttore Martinoli. Tutti aspetti, questi fin qui citati, che devono essere correlaticon la specificità della pratica dell’antiguerriglia tedesca, dellaquale l’apparato poliziesco costituiva, come ha rilevato Ferenc,un elemento importante accanto a quello militare rappresenta-to dai reparti della Wehrmacht e delle SS combattenti. Essaoperava in una realtà, quella del Litorale adriatico, in cui agivaun movimento partigiano tra i più radicati ed organizzati, quelmovimento di liberazione jugoslavo, l’Oslobodilna fronta, chesi era organizzato nella regione fin dall’epoca dell’aggressionenazifascista alla Jugoslavia, avviando un progetto di lotta diliberazione nazionale che coinvolgeva ampiamente anche lagestione del territorio, non limitandosi al piano della resistenzamilitare, ma avviando il controllo politico di ampie aree ruralidell’Istria, del Carso, della Carniola e che poneva fortemente indiscussione anche la questione dell’appartenenza nazionale (diquesto parlerà dopo Pupo) della città di Trieste, dell’interaVenezia Giulia. Esso costituiva, quindi, un serio ostacolo a queiprogrammi espansionistici elaborati in particolare dal nazismoaustriaco, di cui ci ha detto Collotti, ed andava quindi schiac-ciato facendo ricorso, come si è detto, ai mezzi più radicali.Da parte mia, ho più volte, sostenuto inoltre la tesi che l’appli-cazione di un metodo di eliminazione dei prigionieri e dei resi-stenti così brutale, così radicale, analogo per certi aspetti (siapure su scala ridotta) a quelli adottati dai nazisti contro i parti-giani polacchi, per esempio, o contro i bolscevichi sul fronteorientale, fosse da mettere in una certa relazione anche conquei pregiudizi razziali, che ha così ben illustrato stamattinaCollotti, con la concezione, cioè, di una collocazione subordi-nata, nel nuovo ordine nazista, dei rappresentanti di queste“razze inferiori”: gli ebrei da eliminare, gli slavi e anche gli ita-liani (i “traditori” italiani) da frazionare, dividere e anche delo-

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calizzare. Questo aspetto, così tipicamente razzistico poi,ovviamente, era aggravato dal fatto che il movimento di riscos-sa nazionale jugoslavo era egemonizzato dai comunisti, ciò cherendeva assolutamente prevalente anche l’elemento della guer-ra ideologica (la guerra contro il bolscevismo), qual era pre-sente sul fronte orientale. Questi a me sembrano i fattori essenziali che dobbiamo tenerepresente per inquadrare in una luce il più possibilmente com-pleta il fenomeno della deportazione, dell’internamento e deimassacri in Risiera, e anche quello della deportazione daTrieste verso i campi di sterminio polacchi e della Germania. C’è un’ultima considerazione che vorrei qui sottoporre allavostra attenzione, avviandomi alla conclusione, e concerne ilpiano storiografico. In questi ultimi anni, certo con il granderitardo che sottolineavo prima, soprattutto a partire dagli anniNovanta, per merito degli studiosi che ho citato, le conoscenzeche noi possediamo sulla vicenda della deportazione dalLitorale adriatico si sono notevolmente accresciute. Credo,soprattutto, che sia stata dedicata giustamente un’attenzionespeciale alla tutela ed alla conservazione della memoria deiprotagonisti e delle vittime di quelle vicende per evitare checon il trascorrere del tempo di essi rimanessero soltanto alcuninomi. Le pagine di storie di vita così pazientemente raccolte,costituiscono oggi un affresco complessivo ed analitico di unavicenda terribile che altrimenti sarebbe stata destinata all’oblio.In questa occasione, sento il dovere di sottolineare il ruolo par-ticolare che ha svolto in proposito il progetto “Ultimo appello”promosso dall’Istituto regionale per la Storia del Movimento diLiberazione, in collaborazione con l’Aned, progetto che sottola direzione di Marco Coslovich ha condotto alla realizzazionedi 50 video-interviste di livello professionale, che costituiran-no una fonte preziosa, oltre che un archivio incancellabile dellamemoria dei deportati (uomini, donne, italiani, sloveni, croati,ebrei, politici e non) dalle nostre terre. Sulla scorta di questoimponente materiale che ammonta ormai ad oltre 90 ore digirato e che è ancora in corso di produzione e di sistemazione,

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è stato già prodotto il documentario Gli anni negati, dedicatoalla deportazione ebraica, che è stato presentato qui a Trieste inoccasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio 2004.Un secondo documentario è ora in corso di realizzazione. Misembrano risultati di rilievo che in questa sede è opportunoricordare e valorizzare, come è altrettanto doveroso riconosce-re le acquisizioni importanti delle ricerche di storia orale con-dotte da Coslovich. Personalmente, tengo particolarmente aevidenziare nei suoi lavori soprattutto l’attenzione e la sensibi-lità dimostrate specificamente nei confronti della deportazionefemminile, attenzione e sensibilità che ci hanno donato, con lasua Storia di Savina, un documento straordinario, un grandelibro di storia, uno spaccato analitico della realtà di queste terrein quei tragici anni, e soprattutto una figura femminile indi-menticabile, non letteraria, ma autentica. Un aspetto che, invece, mi pare sul piano storiografico sia statoun po’ messo da parte e nel quale i lavori di riferimento conti-nuano ad essere ancora oggi quelli importanti, ma ormai inevi-tabilmente un po’ datati, pubblicati da Collotti negli anniSessanta, Settanta e da Tone Ferenc, è quello dello studio deimeccanismi specifici che precedettero la deportazione, cioè lemodalità secondo cui essa venne concretamente decisa e attua-ta. E proprio a causa del permanere di molte lacune da questopunto di vista, che anche Liliana Picciotto ha sottolineato nelsuo lavoro, mi sembra importante segnalare in questa sede ilrecente lavoro che la studiosa tedesca Gabriele Bergner hadedicato alla vicenda dei deportati italiani a Dachau (Aus demBündnis hinter den Stacheldraht. Italienische Häftlinge im KZDachau 1943-1945. Deportation und Lebensbedingungen), nelquale un ampio capitolo è proprio dedicato alla vicendadell’Adriatisches Küstenland. È il caso di ricordare che il KZdi Dachau era il campo di concentramento verso il quale fudiretta proprio la maggioranza dei deportati dal Litorale adria-tico, con 27 trasporti per un totale di 4166 deportati identifica-ti dalla studiosa tedesca. Molti dei quali – tra l’altro – non com-paiono negli elenchi di Coslovich, fatto questo che conferma le

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difficoltà di quantificazione di cui parlavo prima. Segnalo que-sta accurata ricerca perché in essa la Bergner ci offre una primaanalisi dettagliata proprio delle modalità del processo di depor-tazione, dall’arresto al successivo interrogatorio, fino almomento cruciale della decisione circa la destinazione finaledel deportando, fornendoci un quadro analitico degli attoridelle diverse fasi e discutendo, quindi, i criteri di assegnazionealle destinazioni. Un lavoro, dunque, che fornisce per la primavolta un quadro più preciso, almeno per quanto riguarda levicende del Litorale adriatico, circa la “burocrazia” che sovrin-tendeva ai trasporti dei deportati verso i KZ. L’immagine che siricava dalla lettura dello studio della Bergner mette in discus-sione il mito della precisione tedesca. C’è invece parecchiaconfusione, anche sovrapposizione di competenze e, in certicasi, alla fine si scopre che si poteva essere deportati anchesemplicemente per un vago sospetto che non veniva conferma-to da nessuno. Non credo che questo lavoro abbia circolatomolto in Germania, ma vista l’importanza del suo contenutoper lo studio della deportazione italiana, mi sembrerebbe moltoopportuna una sua traduzione italiana.In conclusione sento il dovere, oggi, alla presenza di voi exdeportati, che certo non avete bisogno di alcuna sollecitazionein tal senso – ma l’appello è rivolto soprattutto ai giovani checi ascoltano ed ancor più a tutti i numerosi visitatori che ognianno hanno la sensibilità di includere nel programma di visitealla città una doverosa sosta in Risiera – di sottolineare conforza il valore speciale che la memoria della Risiera, comeluogo di sofferenza, di morte e di deportazione ha non solo perla nostra storia locale, ma per la storia nazionale italiana e perla storia di tutte queste terre di frontiera. Un valore che le deri-va proprio dal fatto che nel complesso quadro di quella violen-za qui perpetrata, che qui ho brevemente cercato di delinearenei suoi aspetti essenziali, sono stati coinvolti uomini e donne,italiani, sloveni, croati, di fede ebraica, di fede cattolica, laici,non credenti, combattenti della Resistenza di diverso orienta-mento politico. Di una resistenza che - non bisogna dimenti-

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carlo –- pur nell’aspetto unificante della lotta contro l’oppres-sione nazifascista, qui era attraversata e caratterizzata da aspredivisioni e da conflitti durissimi che vertevano non solo sulleprospettive nazionali ma anche sociali della lotta di liberazio-ne. E quindi: comunisti, socialisti, osovani, democratici cristia-ni, azionisti, ma accanto a questi anche semplici renitenti allavoro coatto, militari che tentavano di unirsi alle forze parti-giane, ma anche militari che speravano semplicemente di tor-nare a casa, gente che molto spesso si collocherebbe più facil-mente nella cosiddetta “zona grigia” che non nella zona nobiledei triangoli rossi e della resistenza politica, giovani, vecchi,donne e uomini anche rastrellati per caso. Un microcosmo,quello della Risiera, che riproduce quella forzata vicinanza,caratteristica dell’intero universo concentrazionario, tra uomi-ni di fede, di nazionalità e di orientamento politico differente,molto diversi fra loro, ma tutti accomunati dal fatto di essereinnanzi tutto vittime dell’oppressione nazista, accomunatiquindi dall’esperienza di una deportazione brutale, che però èstata – non dimentichiamolo – anche una sorta di brodo di col-tura in cui ha iniziato a delinearsi, al di là delle ideologie e dellefedi diverse, proprio l’idea di un’Europa delle libertà, unita neivalori della democrazia e della tolleranza. Parafrasando il beltitolo delle memorie di una di voi ex deportati, l’Auschwitz è ditutti di Marta Ascoli, voglio chiudere auspicando che noi sipossa operare tutti, nella nostra città e nel Paese, perché lamemoria della Risiera diventi sempre più una memoria di tuttie sempre meno una memoria di parte. Grazie.

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Le foibe e l’esodo dei giuliano-dalmati come eredità delfascismo e della guerra. Lo abbiamo detto e scritto

un’infinità di volte: quella del fascismo è stata una seminadi violenza e di sangue, che la guerra ha poi moltiplicato edilatato su di un’area più vasta, al di là dei confini diRapallo, attraverso il meccanismo della guerra di aggressio-ne, delle occupazioni e delle annessioni. Una semina di vio-lenza che generato un’abitudine alla violenza, esasperatadalle esperienze limite vissute dalla società di frontiera nelperiodo in cui l’area giuliana fu parte della Zona di opera-zioni Litorale adriatico. Anche il raccolto dunque non pote-va essere che di violenza e di sangue. È una conclusione ab-bastanza scontata, strano sarebbe stato se mai il contrario.Tuttavia il problema non è questo. Il problema è quello dicapire se le tragedie delle foibe e dell’esodo rappresentanoveramente e soltanto la conclusione dei processi storici pre-cedenti, e se, in ogni caso, possono venir considerate sola-mente il lascito di morte che il fascismo e la sua guerra han-no trasmesso al dopoguerra.La risposta credo debba essere articolata. Le foibe costitui-scono certamente uno dei picchi delle violenze registratesinell’area giuliana nella prima metà del secolo, ma non certol’unico e nemmeno particolarmente fuori scala rispetto ad al-tri eventi luttuosi che coinvolsero la popolazione civile.

Raoul PupoUniversità di Trieste

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L’eredità del fascismo e della guerra: dalle foibeall’esodo dall’Istria

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Anche senza pensare ai bombardamenti aerei, pensiamo allemigliaia di vittime dell’offensiva tedesca in Istria nell’autun-no del 1943, ovvero alle altre migliaia di uccisi nella Risieradi San Sabba. Senza imbarcarsi in assurde gerarchie del do-lore, possiamo limitarci a notare che siamo in presenza ditragedie più o meno dello stesso ordine di grandezza.L’impatto delle foibe fu enorme, all’epoca e poi ancora perdecenni, fino ad oggi, sul piano delle tragedie individuali efamiliari, sul piano psicologico e su quello politico, ma nonsi è trattato certo di un fenomeno conclusivo: non si può direcioè che abbia alterato sostanzialmente gli equilibri tra i grup-pi nazionali viventi nella regione Giulia.Quanto all’esodo invece, esso appare effettivamente come laconclusione della crisi che si era aperta non con il fascismo,ma nel 1918 – quando la sostituzione dell’impero asburgicocon gli stati nazionali italiano e degli slavi del sud innescòuna seria di spostamenti di popolazione di grandi dimensio-ne – ma che, a dire il vero, era stata preannunciata già neidecenni precedenti al finis Austriae, con l’affermarsi dei na-zionalismi di massa e della conseguente volontà di possessoesclusivo dei territori da parte dei diversi gruppi nazionali.L’esodo quindi fissa un nuovo assetto stabile degli equilibrinazionali nell’area giuliana, ed è conseguenza diretta dellaguerra perduta, con la quale il fascismo disperse dopo pocopiù di un ventennio i frutti della Grande guerra. Tuttavia, seuna qualche punizione territoriale risultava piuttosto ovvia,dal momento che era stata l’Italia ad aggredire la Jugoslavia,la completa scomparsa della presenza italiana dai territori ce-duti era molto meno scontata.Consequenzialità degli avvenimenti ed autonomia dei pro-getti e delle forme di lotta sono dunque i due poli che fissanole coordinate al nostro ragionamento storico. Cominciamoquindi con il vedere sinteticamente quali sono i connotati es-senziali dei due fenomeni di cui ci occupiamo – foibe ed eso-do – e poi vedremo come interagiscono con quelli precedenti.Per foibe intendiamo le violenze di massa, a danno princi-

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palmente, ma non esclusivamente, di italiani, avvenute in dueondate, nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945; eciò a prescindere dalle modalità con cui avvennero le ucci-sioni e le inumazioni. Naturalmente, questo non è l’unico si-gnificato possibile del termine, ma è quello che in sede di ri-costruzione storica ci consente di cogliere le specificità delfenomeno. Il significato letterale infatti, indica una tecnica diassassinio di massa, non specifica dell’area giuliana, e ri-guarda solo una parte delle vittime delle due ondate, e so-prattutto della seconda. Specularmente, il significato estensi-vo che viene frequentemente adottato nel linguaggio politicoitaliano, non più solo di destra, e che copre tutte le vittimeitaliane cadute per mano del movimento di liberazione slove-no e croato nell’area giuliana dal 1943 in poi, ha una valenzaideologica e non storica, e impedisce di comprendere la spe-cificità dei fenomeni verificatisi nei due momenti di violenzedi massa. Quanto ai criteri di lettura di quegli avvenimenti, il punto dipartenza rimane la distinzione proposta ancora alla fine deglianni Ottanta da Elio Apih, fra “scenario” e “sostanza politi-ca” delle stragi1. Dove per scenario si intende il clima di “fu-rore popolare” e di “resa dei conti”, che è ben visibile in en-trambe le fasi: con maggior evidenza nell’autunno del 1943e comunque nel contesto istriano, ma in ogni caso con suffi-ciente chiarezza anche nella primavera del 1945 e nelle areeurbane di Trieste e Gorizia. Da questo punto di vista, gli epi-sodi cruenti e le vendette perpetrate a danno di fascisti, col-laborazionisti del tedeschi e così via, non differiscono so-stanzialmente da tante altre vicende dei dopoguerra europei,nelle fasi cruciali del crollo del potere nazifascista: un crolloche nella regione Giulia avviene non una ma due volte, dopol’armistizio dell’Italia e dopo la cacciata dei tedeschi, e du-plice quindi è anche l’esplosione di violenza. Naturalmente,nel caso giuliano agli antagonismi politici si saldano quellinazionali, perché l’oppressione ha avuto entrambi i caratteri,ed anche perché all’interno del movimento di liberazione slo-

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veno e croato l’animus nazionalista è molto forte: in alcunecircostanze quindi si hanno scoppi di furore nazionale chetravolgono ogni argine. Nello stesso quadro di deragliamentodella violenza, rientrano i casi, tutt’altro che infrequenti, dierrori, eccessi, commistione di rappresaglie politiche e per-sonali, inserimento della criminalità comune, e così via. Tutto questo però, è ancora soltanto lo scenario, il clima po-litico e psicologico entro il quale maturano le stragi, e di persé non è sufficiente a spiegare dimensioni e valenza del feno-meno delle foibe. La sostanza del dramma, come dicevaApih, è riconducibile ad una progettualità politica, che ha la-sciato tracce evidenti. Sono tracce meno clamorose nel 1943,vista la grande confusione della realtà istriana del tempo, maugualmente chiare nelle fonti, che parlano in maniera espli-cita di una repressione pianificata – anche se poi realizzataun po’ alla carlona – dei “nemici del popolo”2. Questa è unacategoria, come sapete benissimo, estensibile a piacere e chenel concreto della situazione jugoslava del tempo indicavatutti gli avversari, reali o anche soltanto potenziali, dal puntodi vista politico e di classe, del movimento di liberazione. Molto più palese è l’importanza del disegno strategico di an-nichilimento di ogni forma di possibile contropotere, o anchesoltanto di nuclei di dissenzienti, nelle vicende della prima-vera del 1945 ed in particolare nei centri urbani: Trieste,Gorizia, Fiume. A questo riguardo, non lavoriamo ormai sol-tanto su ipotesi, derivanti dall’analisi dei comportamenti con-creti delle autorità di occupazione jugoslave, ma possiamoverificarle su di una documentazione che – quantomeno perla parte slovena – è molto ricca e significativa3. Ecco allora emergere piuttosto bene gli elementi portanti delprogetto repressivo. In primo luogo la repressione per cate-gorie, ad esempio gli uomini in armi, che vengono trattatitutti allo stesso modo – tedeschi, soldati della Rsi, combat-tenti del Cvl o del Cil – perché l’unica discriminante è quel-la di essere o meno agli ordini del comando di città dell’eser-cito popolare di liberazione jugoslavo. Chi non risponde a

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quegli ordini è un nemico, e se dice di non esserlo, cioè diessere un antifascista, è ancora peggio, perché viene conside-rato un fomentatore di guerra civile, che va “smascherato”ed eliminato. In questi casi – che fortunatamente non sonomoltissimi, perché non bisogna credere che nelle foibe ci sia-no soprattutto gli antifascisti – vediamo senza ombra di dub-bio un movimento resistenziale che ne divora un altro. Altrecategorie/bersaglio sono alcune piuttosto ovvie – i compo-nenti l’apparato di polizia, i rappresentanti dello Stato italia-no e fascista - altre ancora invece appaiono un po’ meno scon-tate, almeno dal punto di vista dell’antifascismo italiano: adesempio, gli autonomisti fiumani, che vengono colpiti subitoe con grande durezza, proprio perché hanno un’indubbia le-gittimità antifascista, che potrebbe mettere in discussione lapretesa di monopolio dell’antifascismo, che è tipica del fron-te di liberazione sloveno e di quello croato.Ci sono poi altri aspetti significativi da tenere in conto, comela repressione sulla base del semplice sospetto e la larga in-differenza per l’accertamento della responsabilità personali,che rimandano ad un modello d’intervento di matrice stali-niana, che è ben presente nell’operato dei poteri popolari, edancor più nella prassi degli organi di sicurezza di quello cheè oramai il nuovo stato jugoslavo. Non vorrei però in questasede addentrarmi nei dettagli, ma piuttosto sottolineare comenel loro insieme tutti gli elementi rimandino ad alcuni criterigenerali di intervento, la cui comprensione costituisce il no-do centrale sul piano del giudizio storico. Elio Apih parlava di “epurazione preventiva” della societàgiuliana, altri di “presa del potere comunista”4: sono tutti mo-di per dire la stessa cosa. Nella Venezia Giulia non c’è sol-tanto un’occupazione militare, che trova più o meno consen-zienti parti diverse della popolazione, ma – portata dalle baio-nette jugoslave – è in corso una rivoluzione, che si affermacon i modi propri delle rivoluzioni, e cioè con il bagno disangue. È soprattutto – anche se non esclusivamente – san-gue italiano, non solo perché italiana è circa la metà della

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popolazione della regione e la grande maggioranza dei centriurbani, che rappresentano il fulcro della lotta per il potere,ma perché all’interno della componente italiana è largamentediffusa l’ostilità verso il progetto politico di cui i nuovi pote-ri sono i portatori: e cioè, l’annessione del territorio allaJugoslavia socialista. Viceversa, tra la popolazione slovena ecroata, la prospettiva dell’annessione del Litorale e dell’Istriaalla Jugoslavia fa in genere passare in secondo piano le per-plessità, o addirittura le contrarietà, che in altre parti dellaSlovenia e della Croazia sono piuttosto frequenti, nei con-fronti del movimento di liberazione a guida comunista e delregime di stampo stalinista che si sta formando5. Questo ra-gionamento ci porta all’acquisizione storiografica forse piùimportante degli ultimi anni, secondo la quale il fenomenodelle foibe non è pienamente comprensibile se si rimane al-l’interno delle logiche che muovono la storia italiana del tem-po. Bisogna cambiare storia, perché quella che ha copertol’intera frontiera orientale italiana nelle fasi finali del conflit-to è stata la storia della Jugoslavia e del suo movimento par-tigiano, impegnato in una lotta che era ad un tempo guerra diliberazione ed affermazione nazionale, guerra civile e rivolu-zione. Sono quindi le categorie forgiate in quella lotta chetrovano applicazione anche nella Venezia Giulia: una conce-zione dell’antifascismo che rimanda ad un contesto strategi-co radicalmente diverso, vale a dire alla prospettiva di unoscontro a breve distanza con il fronte “imperialista”, secondouna lettura delle relazioni Est-Ovest che anticipa largamenteil clima della guerra fredda e le stesse scelte della politicaestera sovietica6. Ancora, una visione del ruolo egemonicodel partito comunista sul movimento resistenziale, che nonammette alcun altro centro autonomo di produzione di sceltepolitiche. Conseguentemente, una divisione manichea deisoggetti politici, tra “i nostri” e gli altri, che diviene il crite-rio guida per il lancio delle politiche repressive, dirette a sba-ragliare i nemici del passato – gli occupatori – i nemici delpresente – gli oppositori del movimento di liberazione – ed

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anche i nemici del futuro, cioè i soggetti che si potrebbero ri-velare pericolosi per il consolidamento del nuovo ordine.Nella Venezia Giulia naturalmente, questo nuovo ordine pre-senta due facce, tra loro inscindibili: la costruzione del regi-me e l’annessione alla Jugoslavia, e questa duplicità molti-plica dissenzienti e bersagli. Infine, un uso larghissimo dellaviolenza come strumento di elezione per la conquista e il raf-forzamento del potere, che conduce alla liquidazione fisica esu larga scala degli avversari: le stragi della Venezia Giuliapossono sembrare un’unicum nella storia italiana di quei me-si, ma non certo in quella della Jugoslavia, che conosce mas-sacri anche maggiori.Conclusivamente, la tragedia delle foibe appare come preva-lentemente come un fenomeno di violenza dall’alto, che –perlomeno nei suoi intendimenti strategici, perché poi a li-vello di quadri, i piani facilmente si sovrappongono – non hacome obiettivo la “pulizia etnica” della Venezia Giulia dagliitaliani, come spesso viene detto – confondendo fra l’altrocon una certa disinvoltura etnia e nazione – ma in primo luo-go, l’eliminazione di ogni ostacolo sulla via della costruzio-ne del nuovo potere jugoslavo e comunista, e – in secondoluogo – anche l’intimidazione generale del gruppo nazionaleitaliano, non già per forzarlo ad abbandonare il territorio -perché ciò non attiene alle finalità della politica jugoslavanella primavera del 1945 – bensì per mostrare l’inutilità e lapericolosità di qualsiasi forma di opposizione all’annessione.

Veniamo all’esodo, che rispetto alle foibe è un fenomeno me-no cruento, ma di dimensioni incomparabilmente maggiori:al di là delle discussioni abbastanza sterili sulle cifre, quandosi ragiona come minimo di un quarto di milione di persone,più o meno la metà degli abitanti dei territori interessati, èchiaro che si tratta di un fenomeno quantitativamente impor-tante7. È un fenomeno lungo, perché dura oltre dieci anni,concentrato dal 1944 al 1956, ma con alcune partenze primae dopo tali date. È un fenomeno periodizzante – e questo è il

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suo aspetto più significativo – perché la scomparsa quasi in-tegrale del gruppo nazionale italiano da alcune delle sue re-gioni di insediamento storico, rappresenta una frattura epo-cale per l’area alto adriatica, che ha spezzato una continuitàche durava dall’epoca della romanizzazione. Per tutte questeragioni, e per altre ancora, l’esodo è un fenomeno ancora lar-gamente da studiare, sia sul versante della storia politica, so-prattutto per quanto riguarda i meccanismi decisionali jugo-slavi, sia e molto abbondantemente, sul versante della storiasociale. Dal punto di vista storiografico quindi, quello dell’e-sodo è un cantiere aperto, molto più di quanto non lo sia latragedia delle foibe, dove oramai la dimensione prevalentedella ricerca è quella della pietà, cioè del dare risposta perquanto sarà possibile dopo mezzo secolo, alle tante domandedei familiari degli scomparsi. Anche nel caso dell’esodo comunque, possiamo individuareabbastanza rapidamente i suoi tratti cruciali, anche se dob-biamo dire che su alcuni nodi lo stato delle fonti non ci con-sente risposte certe, ma solo ipotesi da verificare.La prima caratteristica importante, è che si tratta di un esodototale: non di tutta la popolazione residente nell’area – e cioèi territori già facenti parte del regno d’Italia e a diverso titolopassati sotto il controllo jugoslavo – ma di un’intera compo-nente nazionale, quella italiana. Quando si parla dell’allonta-namento dell’ 85-90% degli italiani, vuol dire che a prenderela via dell’esilio è stato un gruppo nazionale al completo del-le sue articolazioni sociali, cui si sono aggregati anche nucleidi popolazione slovena e croata la cui dimensione è difficileda definire. È un esodo a tappe, i cui picchi si dispongono a seguito deidue momenti in cui viene decisa la sorte della Venezia Giulia,vale a dire il trattato di pace e il memorandum d’intesa. Il si-gnificato di una scansione del genere è abbastanza trasparen-te. Al di là dello stillicidio continuo di fughe individuali, e dicasi anomali come quello di Zara8, ciò che muove le deci-sioni collettive di esodare, che riguardano intere comunità –

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paesi o addirittura città – non è l’instaurazione del potere ju-goslavo, ma la consapevolezza che tale potere è divenuto de-finitivo. Fino a quando esiste una speranza di cambiamento,la popolazione italiana in genere resiste sulla sua terra, nono-stante l’oppressione cui viene sottoposta sia assai dura findall’inizio. Nel caso della zona B del mai costituito Tlt, que-sta speranza rimane addirittura fino all’autunno del 1953, equindi il “grande esodo” comincia solo successivamente.Viceversa, quando le comunità italiane si rendono conto chela dominazione jugoslava non verrà meno, niente riesce atrattenerle. Le perplessità di De Gasperi e la mancanza distrutture per ospitarli ed anche solo per trasportarli in Italia,non scalfiscono la volontà dei polesani di abbandonare Polaprima dell’entrata in vigore del trattato di pace, tant’è chel’esodo parte in pieno inverno. Le mille angherie cui le auto-rità jugoslave sottopongono gli istriani che hanno optato perla cittadinanza italiana dopo il 1947, riescono solo a ritardareil flusso delle partenze. Gli ultimi dubbi delle autorità italia-ne alla fine del 1953 sull’opportunità di svuotare la zona B,spingono i rappresentanti istriani a chiarire che ritardi nellapredisposizione dell’accoglienza non fermeranno l’esodo, magetteranno soltanto nella disperazione gli italiani che hannodeciso di andarsene. Si tratta quindi di decisioni inarrestabili, ma come vanno in-tese, come frutto di libere scelte o di una pressione espulsivairresistibile? Qui siamo di fronte a quello che costituisceprobabilmente il nodo interpretativo di fondo dell’intera vi-cenda dell’esodo. È un nodo che non può venir risolto rimanendo sul piano for-male, perché è ben vero che contro gli italiani non viene maimessa in opera una legislazione di tipo espulsivo, come ac-cade invece per i tedeschi, nella stessa Jugoslavia ed in altriPaesi europei; ma è vero anche che il meccanismo delle op-zioni fa sì che per provocare l’allontanamento in massa delgruppo nazionale italiano siano sufficienti le pressioni am-bientali, e che queste ci siano state, e ben massicce, ce lo con-

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ferma un’infinità di testimonianze. Tutto questo però non èsufficiente per affermare che l’esodo sia frutto di un disegnopreordinato di espulsione della componente italiana da partedelle autorità jugoslave. Al di là degli indizi contraddittori,per sostenere una tesi del genere dovremmo poter ricostruireil processo decisionale jugoslavo, ma questo oggi non siamoin grado di farlo. Per superare l’impasse, negli ultimi anni siè fatto strada un approccio diverso, potremmo dire di tipofunzionalista, che sposta il discorso dal piano delle intenzio-ni recondite, a ciò che venne detto e a ciò che venne fatto,scoprendo in tal modo che quanto emerge è già sufficienteper delineare una progettualità politica che implicava l’eso-do, anche se attraverso un’evoluzione che non necessaria-mente poteva venir prevista a priori9. Il nucleo dell’analisi ècostituito dallo studio della politica della cosiddetta “fratel-lanza italo-jugoslava”, delle sue ragioni, dei suoi limiti e delsuo fallimento. La prima cosa da notare, è che quella politicaviene elaborata nella seconda metà del 1944, in riferimentoad un gruppo nazionale italiano completamente diverso daquello cui viene poi realmente applicata: e questo perché allafine del 1944 la prospettiva jugoslava è quella di annetteretutta la Venezia Giulia, vale a dire anche Trieste e Mon-falcone, con le loro grandi concentrazioni di classe operaia.In questo caso, quello italiano sarebbe un gruppo nazionaleassai numeroso, con un profilo sociale estremamente interes-sante per un paese come la Jugoslavia, che vive una rivolu-zione bolscevica, ma che di classe operaia ne ha assai poca,e con attitudini politiche abbastanza favorevoli, perché laclasse operaia, anche di lingua italiana, si sta orientando infavore dell’annessione alla Jugoslavia, in quanto patria so-cialista, piuttosto che alla permanenza in Italia, dove è moltodifficile che il socialismo possa affermarsi.Quanto ai contenuti della “fratellanza”, si tratta di una politi-ca fortemente selettiva: una politica cioè, che non si fa illu-sioni sull’atteggiamento delle borghesie urbane portatrici del-l’idea nazionale italiana, ed è pronta a trattarle con grande

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rudezza, ma che crede invece di poter isolare alcuni nucleiconsistenti di popolazione e di classe dirigente italiana, di-sponibili non solo all’annessione, ma anche a vivere tutte letrasformazioni necessarie per adeguarsi alla nuova realtà isti-tuzionale, sociale e politica. Possiamo dire quindi che si trat-ta di una politica in cui fin dal primo momento sono implici-ti un ridimensionamento e una forte trasformazione del grup-po nazionale italiano, ma non necessariamente la sua com-pleta sparizione.Allo stesso problema possiamo guardare anche in termini di-versi: mentre i tedeschi nel dopoguerra vengono tutti espulsi,agli italiani viene offerta invece una seconda opportunità, masolo nella misura in cui si mostrano disponibili a fare propriofino in fondo il modello di rapporti nazionali, sociali e politi-ci proposto dal regime. Ciò significa, fra l’altro, rifiutare l’e-sperienza storica dello stato unitario italiano, culminata ne-cessariamente con il fascismo; significa considerare comepeggior nemico l’Italia del tempo, capitalista e revanscista; einfine significa anche combattere i nemici della Jugoslavia, acominciare dagli stessi italiani che non ne vogliono sapere.Come vedete, si tratta di pretese piuttosto elevate, ma le cosevanno in maniera abbastanza diversa: Trieste e Monfalconenon vengono annesse e di conseguenza, il gruppo nazionaleitaliano in Jugoslavia risulta più piccolo e composto soprat-tutto di ceti urbani e contadini, che si confermano assoluta-mente ostili, sia all’inglobamento nello stato jugoslavo cheal comunismo, mentre soltanto qualche nucleo operaio si mo-stra inizialmente favorevole.Verso chi non ci sta, le autorità popolari applicano immedia-tamente una politica molto dura, che concede solo due pos-sibilità: o piegarsi o andarsene. Quanto invece alla classeoperaia, soprattutto a Fiume e Pola, l’impatto con la realtàdel regime è assolutamente traumatico. Cito solo un episo-dio emblematico: nell’autunno del 1945 i maggiori esponen-ti comunisti italiani di Pirano spediscono a Togliatti una let-tera clandestina, in cui denuciano il nazionalismo slavo e

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chiedono l’autorizzazione a ricostituire il “Cln cospirati-vo”10. Oltre a questo, potremmo citare molti altri episodi,tant’è che fra il 1946 e il 1947 la politica della “fratellanza”è già in crisi, e a confermarlo sta il fatto che da Pola e daFiume gli operai alla fin fine partono per l’esilio come tuttigli altri italiani. Di conseguenza, quando poi nel 1948 sub-entra anche la rottura con il Cominform, che schiera i co-munisti italiani per Stalin contro Tito – e quindi li candidaai campi di rieducazione dell’Isola Calva – la crisi non co-stituisce tanto una svolta, come ha talvolta sostenuto partedella storiografia italiana, quanto piuttosto la pietra tombaledi una politica ormai fallita. A questo punto – siamo alla fine del 1948 – le città maggiorisono già vuote e la popolazione dei territori ceduti ha optatoin blocco per l’Italia. Ciò significa però che la penisola istria-na è in procinto di perdere da un momento all’altro almenola metà della popolazione, e tutte le competenze professiona-li superiori, prefigurando quindi un disastro economico chepotrebbe innescare una reazione a catena, capace di spingereall’esodo anche chi non ha motivazioni nazionali per farlo. È questo probabilmente il motivo principale per cui le autori-tà jugoslave tentano a modo loro di frenare l’esodo. Ci potrebbe essere però anche un’altra ragione. La dimensio-ne assunta dalle opzioni butta competamente all’aria uno de-gli assunti fondamentali non solo della propaganda, ma an-che della cultura politica jugoslava, che è di tipo etnicista: ecioè la convinzione che la maggior parte dell’italianità istria-na sia fittizia, frutto di processi di snazionalizzazione e quin-di facilmente riportabile alla sua origine etnica. Invece, a cla-morosa smentita di tale previsione, e anche di parte dell’im-pianto teorico che aveva supportato le rivendicazioni jugo-slave alla conferenza della pace, tutti i parlanti italiano, edanche molti che lo parlano piuttosto poco, proclamano, nerosu bianco, di essere italiani, al punto di volersene andare.Questo è ritenuto evidentemente intollerabile, tanto intollera-bile che poi per cinquant’anni, e in parte ancora oggi, la sto-

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riografia anch’essa di stampo etnicista ha continuato ad al-manaccare sul problema: ma quanti fra gli esuli erano “real-mente” italiani? È questo un quesito che, nei termini sche-matici in cui viene solitamente posto, è destinato probabil-mente a rimanere senza risposta, perché trascura il fatto piut-tosto banale – già rilevato da Ernesto Sestan fin dal 194411 –che in alcune aree mistilingui dell’Istria interna i processi dinazionalizzazione non avevano ancora coinvolto la generalitàdella popolazione, e che pertanto l’appartenenza nazionalerisultava “non dato di natura ma atto di elezione”, fortementeinfluenzato dalle condizioni politiche del momento. QuandoSestan scrisse queste osservazioni, sotto l’impressione delladebacle italiana e ben consapevole del triste ricordo lasciatodall’Italia fascista, era convinto che – nel caso di un plebisci-to – i nazionalmente incerti avrebbero finito per votare per laJugoslavia. Invece, la durezza del regime jugoslavo riesce làdove la propaganda italiana mai avrebbe potuto arrivare, e leopzioni si trasformano in una sorta di plebiscito con i piedi,in cui una parte imprevedibilmente elevata della popolazioneistriana, al posto della Jugoslavia di Tito sceglie l’Italia diDe Gasperi.Qui il nostro ragionamento può anche concludersi, perché –scomparsa con tutta evidenza qualsiasi possibilità che nucleiconsistenti di popolazione italiana accettino di farsi “jugosla-vizzare” – le poche decine di migliaia di italiani residuali,quelli della zona B, a partire dai primi anni Cinquanta ven-gono trattati come un mero ostaggio nei negoziati con l’Italia.Proviamo allora a rovesciare il punto di vista, non più quellodel potere, ma quello delle vittime, vale a dire, delle motiva-zioni che conducono gli istriani alle decisione di esodare.Non c’è alcun dubbio che, nella memoria, il primo posto ètenuto dalla paura legata ai ricordi delle foibe e rafforzata dalcontinuo stillicidio di violenze che punteggia il dopoguerraistriano: una paura che rappresenta l’aspetto più evidente del-l’oppressione esercitata da un regime, la cui natura totalitariaimpedisce anche ogni libera espressione dell’identità nazio-

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nale. Non è affatto detto però, che in realtà la paura sia statala molla principale dell’esodo: diciamo piuttosto, che influi-sce in maniera diretta nei casi degli espatri clandestini com-binati per salvare la vita, che non sono certo pochi, ma chesoprattutto prepara il terreno in cui matura la scelta dell’eso-do da parte delle comunità.Più sostanziali quindi ci appaiono altri elementi. Il sovverti-mento delle tradizionali gerarchie, che erano ad un tempo na-zionali e sociali, e che avevano visto il gruppo italiano stori-camente egemone in Istria. Allo stesso modo, pesa il ribalta-mento dei rapporti di potere fra città e campagna, che fino aquel momento, avevano visto la dipendenza economica, poli-tica e culturale delle aree agricole dai centri urbani, com’èusuale in Italia. Un altro elemento importante, che vale so-prattutto per la zona B, dove il processo si trascina più a lun-go, è la progressiva eliminazione dei punti di riferimento cul-turali e morali del gruppo nazionale italiano, come gli inse-gnanti e i sacerdoti. Ancora, il peggioramento delle condi-zioni di vita degli italiani a seguito delle scelte politiche edeconomiche del regime. Infine, dobbiamo tenere presente an-che altri aspetti, apparentemente più immateriali, ma non perquesto meno importanti: la negazione dei valori tradizionali,l’imposizione di nuovi criteri di misura del lavoro e del pre-stigio sociale, il sovvertimento di abitudini consolidate dagenerazioni e l’introduzione di nuove regole di comporta-mento – nei rapporti sociali come nella gestione della terra –la necessità di servirsi di una nuova lingua, pressoché scono-sciuta, e di inserirsi in una cultura, che fino ad allora non erastata nemmeno presa in considerazione come tale. Tutti que-sti fattori combinati tra loro e sommati ai precedenti, suscita-no una crescente sensazione di estraneità, rispetto ad unarealtà che sta cambiando velocemente e nella quale c’è sem-pre meno posto per gli italiani. Per descrivere quel tipo di percezione collettiva, la storiogra-fia italiana più recente – e qui il riferimento è soprattutto ailavori di Gloria Nemec12– ha introdotto il concetto di “spae-

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samento”, che è divenuto la chiave interpretativa privilegiatacui far ricorso per comprendere l’atmosfera in cui sono co-stretti a vivere nel dopoguerra gli istriani di lingua, di culturae di sentimenti italiani. Istriani che - anche quando resistonopiù a lungo alle ondate repressive ed alle pressioni politichedel regime – finiscono per sentirsi “stranieri in patria”: que-sta è l’espressione che ricorre più frequentemente nelle fontidella memoria; e si tratta evidentemente di una condizionelacerante, che getta le fondamenta psicologiche per la sceltadell’abbandono del luogo d’origine. Legando quindi assieme– per concludere questa parte del discorso – tutti i diversiaspetti di cui abbiamo fatto menzione vediamo, come attra-verso diverse vie e con ritmi diversi, le comunità italianedell’Istria finiscono per arrivare tutte alla medesima conclu-sione: vale a dire, l’impossibilità di mantenere – nelle condi-zioni offerte dallo Stato jugoslavo – la propria identità nazio-nale. Dove il termine identità nazionale – e questo mi per-metto di sottolinearlo, perché credo sia importante – va inte-so ben oltre la sola dimensione politico-ideologica, ma co-me complesso di modi di vivere e di sentire, secolarmentesedimentati, che danno significato all’esistenza di una comu-nità. È solo muovendo da tale conclusione, che ha senso por-si in maniera non astratta il problema dell’effettiva libertà discelta di cui possono disporre gli italiani di Fiume edell’Istria, al di là del riconoscimento formale del diritto diopzione. Il punto infatti, è costituito dalla valutazione dellealternative concrete a disposizione di chi, in una situazionespecifica, riluttante a prendere la via dell’esilio, e in questosenso con grande chiarezza si è espresso ancora nel 1967Theodor Veiter:

La fuga degli italiani secondo il moderno diritto deiprofughi è da considerare un’espulsione di massa. Èvero che tale fuga si configura come un atto apparen-temente volontario, ma già l’opzione pressoché com-pleta dei sudtirolesi per il trasferimento nel Reich ger-

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manico dopo il 1939 mostra come dietro la volonta-rietà possa esserci una costrizione assoluta e ineludi-bile. Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendodalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzio-ni di natura personale, politica, etnica, religiosa o eco-nomica, o verrebbe costretto a vivere in un regime chelo rende senza patria nella propria patria di origine,non compie volontariamente la scelta dell’emigrazio-ne, ma è da considerarsi espulso dal proprio paese13.

Questa è una conclusione che io mi sento ancor oggi di sot-toscrivere, anzi, della quale sono sempre più convinto, però –logicamente – è soltanto un’opinione su di una materia anco-ra abbastanza fluida.

Ultimo punto: se questi di cui abbiamo parlato sono i trattiessenziali delle foibe e dell’esodo intesi come problemi diinterpretazione storica, cerchiamo conclusivamente di vederein quale rapporto stanno con alcuni dei fenomeni precedentie sui quali si sono soffermate le altre relazioni di oggi.Alcuni legami sono piuttosto trasparenti. Le crisi di violenzadel 1943 e del 1945 costituiscono anche la risposta alle vio-lenze precedenti, quelle legate alla presa del potere fascista,alla politica del regime ed agli orrori delle occupazioni. Nelledue fasi parossistiche delle uccisioni di massa, si chiudonomolti conti che si erano aperti nelle fasi precedenti e ci sonoanche delle sovrapposizioni terribili: parenti di vittime dellefoibe del ’43 diventano durante l’occupazione tedesca perse-cutori degli assassini dei loro congiunti, e poi vittime essistessi della seconda ondata di vendette. Un altro filo di conti-nuità piuttosto noto è quello che unisce le persecuzioni fasci-ste, la conseguente emigrazione politica in Jugoslavia, e laresistenza contro gli italiani: pensiamo ad esempio al ruoloimportante giocato dai “rivoluzionari di professione”,figli diemigrati, nella costruzione del movimento di liberazione inIstria14. Ci sono poi ulteriori connessioni che assumono la

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forma di veri e propri parallelismi, ma che spesso sono sfug-giti, in parte per distrazione degli storici, ma soprattutto per-ché sono caduti vittime di una sorta di rigetto ideologico, chesoprattutto nel discorso pubblico, porta a ritenere incompara-bili i soprusi sofferti dalla parte con cui ci si identifica.Eppure, i parallelismi ci sono, eccome, perché alcuni dei pro-blemi che si pongono nei due dopoguerra sono assai simili, efondamentalmente riconducibili alla resistenza che parte del-la società locale oppone, in forme molto varie, ai progetti deipoteri che assumono il controllo del territorio.Ad esempio, nel 1918 come nel 1945 la priorità assoluta, perl’Italia e per la Jugoslavia, è l’annessione, e ciò comportache le prime vittime della nuova situazione siano coloro oche si oppongono attivamente, o che comunque vengono ri-tenuti capaci di contrastare i progetti annessionisti. Di conse-guenza, le prime categorie ad essere colpite dai provvedi-menti repressivi sono, tanto per cominciare, le autorità cheimpersonano il precedente regime: ma non solo le autoritàdello stato – il che è abbastanza ovvio – ma anche le autoritàreligiose, che di quel regime vengono considerate - a torto oa ragione – essere state espressione e puntello. Nel 1918 ilvescovo sloveno di Trieste si vede la curia devastata (tenetepresente che non ci sono ancora i fascisti), e l’anno dopo ècostretto a scappare a Lubiana, e viene sostituito dall’ordina-rio militare italiano. Con maggior tempestività, nel 1945 ilvescovo italiano di Gorizia viene quasi immediatamente ar-restato dalle autorità jugoslave e poi espulso in Italia. Un se-condo gruppo è costituito, in entrambe le fasi, dai militantidell’idea nazionale sbagliata, che si esprimono – o anche sol-tanto che potrebbero esprimersi – contro i progetti annessio-nisti. Un’ulteriore categoria parallela è rappresentata daquanti occupano professionalmente ruoli di elevato profilostrategico e quindi di potenziale grande pericolosità: non pen-sate solo alle forze di polizia – che è scontato – ma ad esem-pio ai ferrovieri, che vengono epurati con grande rapidità. Einfine, gli intellettuali, razza pericolosissima per antonoma-

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sia e buon diritto: la coscienza nazionale l’hanno inventataloro, come insegnanti la trasmettono alle giovani generazio-ni, come giornalisti la diffondono, come portavoce dell’i-dentità nazionale costituiscono i punti di riferimento per lecomunità in epoca di crisi. Maestri e sacerdoti della naziona-lità sbagliata entrano quindi istantaneamente, dopo la primae dopo la seconda guerra mondiale, nel mirino delle politi-che repressive: di suo, il regime comunista jugoslavo metteràpoi, non subito ma a partire dal 1947, la persecuzione reli-giosa generalizzata.Ci sono anche altri parallelismi storicamente rilevanti, che ri-guardano però non tanto i fatti, quanto la mentalità e i ragio-namenti che stanno dietro alle logiche di violenza. Ad esem-pio, assolutamente comune – ma ovviamente incrociata, avantaggio dei propri connazionali e a danno degli altri –è lanegazione di autoctonia nei confronti degli immigrati recen-ti. Nel primo dopoguerra sono gli slavi immigrati negli ulti-mi decenni dell’impero asburgico, soprattutto in concomi-tanza con la costruzione di grandi infrastrutture ferroviarie,portuali e militari; nel secondo dopoguerra sono i cosiddetti“regnicoli”, cioè provenienti da altre parti d’Italia ed impie-gati soprattutto nella pubblica amministrazione. In entrambii casi, i nazionalisti delle due parti vedono in questi soggetti,che sono decine di migliaia, la prova tangibile di progetti dimodifica degli assetti etnici “naturali” del territorio, e quindicominciano con espungerli dai risultati dei censimenti, percercare poi di farli allontanare rapidamente dal territorio. Un altro parallelismo importante riguarda la negazione di le-gittimità all’espressione pubblica della propria appartenenzanazionale. È una negazione che si concretizza in una norma-tiva molto diversificata nei diversi regimi, ma che si sostan-zia di alcuni atteggiamenti di fondo. Di fronte alla linguastraniera, e nemica, parlata nel luogo sbagliato, scatta il rim-provero: se vuoi parlare slavo – o italiano vent’anni dopo –tornatene a casa tua, perché la casa di chi parla un’altra lin-gua non può essere la stessa della maggioranza.

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Su un altro piano pensiamo ai profughi, che sono fra le vitti-me più evidenti delle oscillazioni della frontiera in un’epocadi nazionalismi di massa: non parlo qui solo dei disagi, dellelunghe odissee e delle umiliazioni che sono tipiche della pro-fuganza, in entrambi i dopoguerra, ma mi riferisco anche del-l’uso politico dei profughi come massa di manovra per lanazionalizzazione di spazi strategici per lo stato. Nel primodopoguerra, molti profughi sloveni dalla Venezia Giulia van-no a Marburg, appena abbandonata dalla popolazione tede-sca, per trasformarla in Maribor, oppure vengono spediti nelPrekmurje ex ungherese, ovvero in Kossovo e Macedonia15.Nel secondo dopoguerra molti profughi istriani che avevanotrovato rifugio a Trieste, vengono insediati in una serie diborghi costruiti appositamente per loro nella striscia di terri-torio che collega Trieste al resto d’Italia e nella quale nonesistevano in precedenza insediamenti italiani16 .Fili di continuità e parallelismi dunque ci sono, più numerosidi quanto generalmente non si creda, tra i due lunghi dopo-guerra giuliani, ma le differenze sono forse ancora più pro-fonde. In primo luogo, troviamo un regime fascista che parlaesplicitamente di “bonifica etnica” degli slavi, e che si impe-gna a realizzarla, ma alla fine del fascismo le comunità slo-vene e croate sono ancora lì, numericamente quasi stabili,anche se impoverite e decapitate della loro classe dirigente.Qualche anno dopo invece, troviamo il regime comunista ju-goslavo, la cui politica ufficiale è quella della “fratellanzaitalo-slava”, ma in capo a dieci anni gli italiani sono spariti.Questo è un bel problema, dal punto di vista interpretativo,che purtroppo è stato a lungo sprecato dall’approccio politi-co e ideologico, che riduceva tutto alla domanda: ma allora,qual era il regime peggiore? Ad una domanda del genere nonpossono che seguire polemiche senza costrutto, ma se inveceutilizziamo questa apparente stranezza, come un grimaldelloper capir meglio la natura dei processi storici, ci accorgiamosubito di alcune differenze importanti.In primo luogo, il crescendo della violenza tra il primo e il

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secondo dopoguerra. Quando abbiamo parlato di eliminazio-ne di elementi ostili, e di epurazione da parte delle autoritàitaliane a partire dall’autunno del 1918, di solito ci si riferi-sce ad arresti, internamenti, licenziamenti ed espulsioni; nel-la primavera del 1945 parliamo invece di uccisioni. Negli an-ni venti i fascisti picchiano, devastano incendiano ed ammaz-zano, nel secondo dopoguerra abbiamo le stragi. Badate be-ne, che non è questione di buona volontà, che non è mai man-cata da nessuna parte: piuttosto, possiamo parlare di un di-verso uso della violenza di massa, che matura all’interno deidue regimi totalitari degli anni Trenta, quello nazista e quellostalinista, che esplode poi durante la guerra all’est – che è finda subito guerra di sterminio – e che prosegue nel dopoguerra,che nell’Europa centrale e balcanica è luogo di stragi terribili.E la Venezia Giulia, come abbiamo visto, verso la fine del con-flitto è tutta dentro quella storia dell’Europa di sud-est.La seconda differenza è legata al diverso grado di totalitari-smo del fascismo italiano e del comunismo jugoslavo. Al fa-scismo non fa certo difetto la disponibilità all’uso della for-za, anzi, le strutture dello stato vengono lanciate nella politi-ca di snazionalizzazione: quello che manca sono le risorse.Mentre gli elementi estremisti preparano velleitari piani diinsediamento di coloni italiani, di fatto, fuori dalle città nonci sono i mezzi per costruire il tessuto nazionalizzatorio:scuole, asili, ricreatori, case del fascio e così via. Manca anche un’analisi corretta del fenomeno nazionale neicosiddetti “popoli senza storia”: il pregiudizio culturale fon-dato sulla superiorità della civiltà latina, porta a non render-si conto che le identità nazionali, una volta che si sono radi-cate, non si lasciano più sradicare, a meno di non sradicareanche le persone. Di conseguenza, il tentativo di riavviare aforza il processo di assimilazione degli slavi è destinato afallire. Infine, il fascismo è un regime conservatore dal punto di vi-sta sociale, e che quindi non ha alcun interesse a buttare al-l’aria le strutture delle società contadina slava. Se mai, al

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contrario, cerca di ripristinare gli assetti tradizionali, fondatisulla dipendenza degli slavi e il paternalismo degli italiani:ma in questo modo, nelle campagne rimangono larghi spaziper assorbire l’impatto del regime. Al contrario, quello co-munista jugoslavo è un regime rivoluzionario, capace di en-trare in tutte le pieghe della società e di porre a tutti, indivi-dui e comunità, l’alternativa senza scampo: o accettare di ve-nire radicalmente trasformati, o sparire.A questo punto allora, credo che possiamo guardare com-plessivamente alle strategie rivolte verso le minoranze da par-te dei due regimi, come a due politiche né ab origine radical-mente espulsive, né – tantomeno – genocide, ma fondamen-talmente di integrazione selettiva: una parte della popolazio-ne va eliminata, l’altra trasformata e quindi assorbita. C’èperò una forte asimmetria. Il fascismo mira a distruggere laclasse dirigente slovena e croata, di formazione abbastanzarecente, in modo che le masse destrutturate siano facile pre-da del processo di italianizzazione. Il primo passo riesce, ilsecondo no, e di conseguenza, sloveni e croati – contraria-mente alle intenzioni – non scompaiono. Il regime di Tito fail contrario: individua all’interno della componente italianauna minoranza e – come abbiamo visto – ne fa l’interlocuto-re della politica della “fratellanza”, che prevede una forma diintegrazione subordinata. Al di fuori di questi italiani “buonie onesti”, ci sono i “residui del fascismo”, per i quali non c’èspazio nella nuova Jugoslavia. I punti di partenza quindi sono diversi, e lo svolgersi degliavvenimenti allarga ulteriormente la forbice, perché le con-dizioni dell’integrazione nella realtà jugoslava risultano trop-po pesanti non solo per gli strati urbani italiani non proletari,che costituiscono il nemico storico e di classe del nuovo re-gime e che erano comunque fuori dalla “fratellanza”, ma an-che per i gruppi sociali incerti, come i contadini, ed alla finfine per la stessa classe operaia.Ecco allora, per concludere il nostro discorso di questa sera,che se noi rinunciamo agli schemi lineari e monocausali di

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lettura della storia giuliana del Novecento – sia che accettia-mo o che respingiamo i loro capisaldi – e li sostituiamo conuna rete di relazioni in cui alcuni fili si intrecciano stretta-mente, ed altri invece si svolgono in maniera autonoma, se-guendo le grandi passioni del Novecento – gli antagonisti na-zionali, le aspirazioni totalitarie, le politiche di potenza – seriusciamo ad entrare con una certa tranquillità in questa di-mensione interpretativa, allora diventa molto più facile nontanto “prendere posizione”, di fronte alle molte tragedie delNovecento alla nostra frontiera orientale (cosa che dobbiamocomunque fare, come cittadini e come democratici), quantopiuttosto capire il senso di quello che è successo. È proprioquesto infatti che agli storici viene giustamente chiesto diprovare a spiegare, anche per limitare i danni di un uso poli-tico della storia talvolta più sensibile alle opportunità del mo-mento, che al bisogno di verità.

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1 Elio Apih, Trieste, Laterza, Bari 1988.

2Vedi ad esempio il rapporto del capitanoZvonko Babic-Zulja al Centro informa-tivo regionale per il litorale croato el’Istria, della seconda metà di ottobre del1943, pubblicato in Raoul Pupo, RobertoSpazzali, Foibe, Bruno Mondadori,Milano 2003, pp.58-61.

3 Vedi al riguardo le fonti consultabilipresso l’Archivio della repubblica diSlovenia, largamente utilizzate in parti-colare da Nevenka Troha nei suoi nume-rosi contributi dedicati al problema dellefoibe; in lingua italiana vedi in particola-re Fra liquidazione del passato e costru-zione del futuro. Le foibe e l’occupazionejugoslava della Venezia Giulia, in Foibe.Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, a cura di Giampaolo Valdevit,Istituto regionale per la Storia del

Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia,Marsilio, Venezia 1997.

4 Vedi in particolare Giampaolo Valdevit,Foibe. L’eredità della sconfitta, in Foibe.Il peso del passato, cit.5 Vedi al riguardo i riferimenti presenti inKatja Colja, Il collaborazionismonell’Adriatisches Küstenland: la vicendadei domobranci (1943-1945), in MartaVerginella, Alessandro Volk, Katja Colja,Storia e memoria degli sloveni delLitorale. Fascismo, guerra e resistenza,Istituto regionale per la Storia delMovimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1994.

6 Vedi al riguardo le indicazioni presentiin Roberto Gualtieri, Togliatti e la politi-ca estera italiana. Dalla Resistenza altrattato di pace 1943-1947, Editori

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Riuniti, Roma 1995; GiampaoloValdevit, Il dilemma Trieste. Guerra edopoguerra in uno scenario europeo,Istituto regionale per la Storia delMovimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Libreria EditriceGoriziana, Gorizia 1999; Raoul Pupo,Guerra e dopoguerra al confine orienta-le d’Italia (1938-1956), Del Bianco,Udine 1999.

7 Per una panoramica generale sul feno-meno dell’esodo, mi permetto di rinviareal mio Il lungo esodo. Istria: le persecu-zioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano2005. Per una ricostruzione in alcunitratti datata, ma assai puntuale, vediCristiana Colummi, Liliana Ferrari,Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia diun esodo. Istria 1945-1956, Istituto regio-nale per la Storia del Movimento diLiberazione nel Friuli-Venezia Giulia,Trieste 1980. Per una prospettiva compa-rativa vedi Esodi. Trasferimenti forzati dipopolazione nel Novecento europeo,Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli2000, a cura di Marina Cattaruzza,Marco Dogo, Raoul Pupo.

8 Per una ricostruzione dettagliata delladistruzione di Zara e delle sue motivazio-ni vedi Oddone Talpo, Dalmazia. Unacronaca per la storia, pp.1360-1429 e,con ampia documentazione fotografica,Oddone Talpo, Sergio Brcic, …Vennerodal cielo, Campobasso 2000. Per un’in-terpretazione alternativa vedi A.Seferovic, Le fortezze volanti sopraZara, serie di sei articoli pubblicati sulquotidiano di Zara “SlobodnaDalmacija”, nei giorni 19, 20, 21, 23, 24e 25 ottobre 1984.

9 Marina Cattaruzza, L’esodo istriano:questioni interpretative, in “Ricerche diStoria Politica”, I (1999), pp. 27-48;Raoul Pupo, Il lungo esodo, cit.

10 Cfr. la Relazione sugli ultimi avveni-menti nella Venezia Giulia e sulle condi-zioni dei comunisti già membri delle sezio-ni locali del Partito Comunista Italiano,inviata clandestinamente a Togliatti nel-l’autunno del 1945. Il testo della relazione

è stato pubblicato su “Tempi e culture”, I(1997), n. 2, pp. 33-46.

11 Ernesto Sestan, Le argomentazioni e lepretese del dott. Smodlaka, in Id., VeneziaGiulia. Lineamenti di una storia etnica eculturale, ora ripubblicato a cura e conpostfazione di Giulio Cervani, DelBianco, Udine 1997, pp.183-187.

12 Gloria Nemec, Un paese perfetto.Storia e memoria di una comunità inesilio. Grisgnana d’Istria 1930-1960,LEG, Gorizia 1998; Ead., The Re-defini-tion of Gender Roles and FamilyStructures among Istrian PeasantFamilies Faced with Urban Society inTrieste (1954-1964), in “Journal ofModern Italy”, Special Issue Genderand the Private Sphere in Italy Since1945 (vol. 9,1 Maggio 2004); Ead., Unlungo spaesamento. L’esperienza dei ce-ti rurali nel movimento dell’esodo dallazona B, in “Qualestoria”, XXXI (2003),2, pp. 46-55.

13 Theodor Veiter, Soziale Aspekte der ita-lienische Flucthtlinge aus den adriati-schen Kustengebieten, in Theo MayerMaly, Albert Nowak, Theodor Tomandl,Festschrift fur Hans Schmitz, Wien-Munchen 1967, vol. II, p. 280.

14 Vedi al riguardo Ljubo Drndic, Le armie la libertà dell’Istria 1941-1943, EDIT,Fiume 1981

15 Cfr. Aleksej Kalc, L’emigrazione slove-na e croata dalla Venezia Giulia fra ledue guerre ed il suo ruolo politico, in“Annales”, VI (1996), n. 8.

16 Vedi al riguardo l’ampio studio diSandi Volk, Esuli a Trieste. Bonifica na-zionale e rafforzamento dell’italianità sulconfine orientale, Kappa Vu, Udine 2004.

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Oscar Luigi Scalfaro Presidente emerito della Repubblica

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Un saluto a tutta l’assemblea. Desidero rivolgere un rin-graziamento per essere stato invitato al presidente

dell’Aned, il senatore, avvocato Gianfranco Maris.Ero già stato invitato ad un’altra assemblea, che si è svolta aMauthausen qualche anno fa e che non dimentico. Mi avvici-no sempre a questi momenti della storia pieni di sofferenzacon un enorme rispetto e come uno dei tanti che, se oggi vi-ve in un regime di libertà – sempre migliorabile, sempre per-fettibile, soprattutto se c’è il contributo di tutti quelli che cre-dono nella libertà –, è perché ci sono state persone che han-no pagato con la vita o che hanno pagato con sacrifici, soffe-renze e offese alla propria dignità umana Vorrei anche ringraziare pubblicamente il Santo padre per ilmessaggio che ha inviato per mezzo del vescovo che siamoandati a ringraziare. Infine vorrei rivolgere un ringraziamen-to ai professori che si sono assunti il compito non facile dispiegare queste vicende storiche. La storia è il racconto divicende che sono avvenute e il racconto storico si componedi due momenti: i fatti e il commento dei fatti medesimi. Lostudio dei fatti è importantissimo, anche se le interpretazioniinvero possono variare molto, a seconda delle molteplici len-ti che si usano. Provo una grande riconoscenza nei confronti degli storici.Da non molto tempo sono stato eletto – e senza alcun meritopresidente dell’Istituto nazionale per la Storia del Movimentodi Liberazione in Italia, al quale fanno capo decine di profes-sori di università, cattedratici di prima fascia o di seconda fa-scia, giovani ricercatori. Così mi sono ritrovato in mezzo a

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Conclusioni

loro, io che non ho cattedre…! Ho studiato legge, mi sonolaureato, ho fatto il magistrato per qualche tempo e poi la po-litica mi ha assorbito del tutto: da 59 anni! Il grande merito di questo congresso dell’Aned e del conve-gno conclusivo è a mio parere, quello di rivedere con sereni-tà tutta la storia. Nessuno presume di essere infallibile, tuttisappiamo di certi silenzi colpevoli che spesso nel passato cisono stati. Siamo in epoca in cui taluni hanno una vocazionea cercare di drizzare la storia: spostare i fatti come vorrem-mo che fossero avvenuti. Non lo dobbiamo e non lo possia-mo fare. Vi potrei raccontare che da Capo dello Stato ho fatto visite diStato, in tutti i paesi che facevano parte dell’impero sovieti-co, e devo dire che la richiesta che tutti avanzavano era dientrare a far parte dell’Europa. Mi ricordo di aver detto a piùdi un Capo di Stato: “Scusi se siete nati in Europa siete euro-pei, non chieda a noi di diventare quello che siete già”. “No,ma noi vogliamo far parte di questa Comunità Europea, diquesta Unione Europea”. Si trattava di popoli che avevanoconosciuto il potere totalitario e avevano paura, non si senti-vano tranquilli. Da qualche tempo questa richiesta è scematafortemente perché l’Europa pare sicura e non è in pericoloimmediato, salvo il terrorismo…Durante questi incontri ricordavo spesso che là dove eranogiunti i Romani vi erano arrivati con le armi. Così spesso di-cevo: “Presidente, io rappresento l’ultimo discendente di queiRomani che sono venuti a casa vostra con le armi in pugno”.Le reazioni sono state belle, commoventi e mi si faceva nota-

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re che l’impero romano aveva portato con sè anche il dirittodi Roma e, per così dire, la civiltà classica. Io sono solito di-re che la Roma dei Cesari aveva giuristi, filosofi, pensatori,oratori, scienziati, aveva tutto, letterati, poeti, tutto! Ma Romanon ha mai detto né scritto “noi facciamo una guerra preven-tiva”, mai!Abbiamo dovuto arrivare a queste decadenze per avere chi ciparla della guerra preventiva. La guerra preventiva è contro ildiritto internazionale ed è contro l’etica umana.I calcolatori ci sono sempre, non parlo di quelli che sannobene la tavola pitagorica, no, parlo dei voltagabbana! Costorosi trovano nella loro acqua quando c’è un dominio che schiac-cia, perché a un certo momento si mimetizzano, pronti a mu-tare ancora se capita. Poi, ci sono i paurosi, quelli che hannopaura della stessa loro ombra, “i don Abbondio”, per usare itermini che ci insegnava la letteratura italiana quando anda-vamo a scuola. C’è una frase di Manzoni quando descrivedon Abbondio che è formidabile e ognuno ci può mettere ladata che vuole. “Don Abbondio guardava due che erano incontrasto, si schierava col più forte, però guardava il più de-bole con l’aria di dire ‘perché non sei più forte tu? Io mischiererei con te”. Adesso voi metteteci la data e i nomi chevolete e avrete il don Abbondio aggiornato.Di fronte a questa realtà, ci sono i forti, i forti che soffrono,che pagano, che combattono, che cadono, si ribellano e nonsi arrendono: sono sempre una minoranza.Occorre che noi guardiamo con una certa serenità l’umanitàdella quale facciamo parte, della quale condividiamo anche i

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Conclusioni

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difetti, perché anche noi non siamo immuni dai germi di cer-te malattie. Quindi, non sconcertiamoci, questa è la realtà umana: è sem-pre solo una minoranza che ha coraggio, che si ribella, che siribella al sopruso, che è capace di reagire e di lottare. Un errore che spesso si commette è quello di dire chi vincela guerra ha ragione e diventa giudice di quello che è sconfit-to. È una bestemmia giuridica paurosa, perché il giudice de-ve essere almeno al di sopra e al di fuori delle parti.Infatti possiamo forse dire che il vincitore sia infallibile?Noi siamo qui, in questo convegno, per condannare ciò che èmale da chiunque sia fatto e comunque sia fatto, per schie-rarci con ciò che è buono, anche se l’ha fatto quello che sischiera come avversario. Siamo qui per condannare il male,anzitutto quello che è stato fatto dalla nostra parte, per impe-gnarci a non ripeterlo mai più, perché questi errori diventanofonte di altri errori, di altri mali, i mali generano altri mali,nasce una catena che non si riesce a spezzare.Io ho fatto per quattro anni il ministro dell’Interno durantegli anni segnati dal terrorismo. Certo, parlo del terrorismointerno che ho vissuto direttamente e che un ministrodell’Interno ha il dovere di prevenire, ha il dovere di punire,ma ogni volta che entravo in Consiglio dei ministri dicevo:vogliamo studiare questa malattia? Altrimenti noi, la poli-zia, siamo in prima linea, però siamo come quei medici checercano di curare un male senza sapere che origini ha. Avreipreferito che gli Stati Uniti dopo la caduta delle torri, che hacausato tanti morti e tante tragedie,avessero iniziato, magari

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con l’appoggio di altri a istituire delle commissioni di stu-dio vero per trovare le ragioni di fondo del terrorismo. Senon si avvia questo studio non si risolverà mai nulla, perchéla violenza richiama altra violenza. Noi siamo qui per difen-dere la storia vera. La storia è la vita dell’umanità, è il cam-mino dell’uomo e nessuno può mutarla a proprio piacere,nessuno può rileggerla per cambiarla, la storia non tollera“emendamenti”!Dobbiamo invece accettare la pagine bianche e nere della no-stra storia perché solo se accettiamo le radici come sono, al-lora siamo forti credibili.Oggi tutto ci richiama alla pace. Voi, che siete stati nei cam-pi di sterminio nazisti ci parlate sempre e solo di pace. Se iomi sono alzato al Senato e ho detto “no alla guerra”, l’ho det-to anche per il merito del mio amico Maris che mi ha fattopiù volte avvicinare a voi. A Mauthausen, un paio di anni fa,al vostro congresso c’era una prima fila soltanto di donne conquel fazzoletto al collo che rappresenta ore di tragedia e peruna donna significava certamente sofferenza maggiore, la di-gnità e il riserbo offesi. La pace è un diritto della persona, come è un diritto la sicu-rezza. Solo la pace può generare la sicurezza, per questo vo-gliamo il dialogo. Il dialogo, sempre!Vogliamo dire un “no” senza eccezioni alla guerra. Devo dirvi che quando sono uscite le prime note di quellache dovrebbe essere la Costituzione europea, che ha moltecose buone senza dubbio, ho però notato che in un mondodove i focolai di guerra, i luoghi dove gli uomini si ammaz-

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Conclusioni

zano ancora sono più di trenta, non c’è stato il coraggio discrivere qualcosa di simile alle dichiarazioni del dicembre’48, fatte dalle Nazioni Unite, dove l’articolo 1 dice: “tuttigli esseri umani nascono liberi ed eguali in diritti e in digni-tà”. Nascono! Sapete cosa vuol dire “nascono”? vuol dire checiascuno di noi nasce libero, vuol dire che non deve dire gra-zie a nessuno.Si sarebbe dovuto scrivere: tutti gli esseri umani hanno dirit-to alla pace, la pace è un diritto naturale. Invece non si è scrit-to, perché si è instillato il germe della guerra preventiva. Allora, certamente siamo per il dialogo e per la pace. Il pri-mo articolo della Proclamazione dei Diritti dell’Uomo – fini-sce con un termine che è formidabile: parla di fratellanza. La fratellanza non è comunione di vita soltanto, non è un la-vorare insieme, non è un camminare insieme come un popo-lo, nelle gioie e nelle sofferenze, nelle sconfitte e nelle vitto-rie, fratellanza è un vincolo di sangue e l’umanità, di qualun-que colore abbia la pelle, qualunque pensiero abbia in testa,purché non sia contro un altro fratello, in qualunque religio-ne creda o non creda in nulla, ha una fratellanza nella carne,nella capacità di pensare, nella capacità di amare.Per questa fratellanza c’è questo incontro, per questa fratel-lanza c’è questa battaglia. Siamo impegnati in prima lineaper la pace, per la libertà, per la democrazia.

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Il XIII Congresso dell’Aned nella Risiera di San Sabba

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Il XIII Congresso dell’Aned nella Risiera di San Sabba

Il Congressonazionaledell’Aned erastato precedutoda un “percorsodella memoria”sui luoghi dovemaggiormente si è manifestatala barbarienazifascista e inquelli dove sonoavvenuti i tragicifatti deldopoguerra.

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Una delegazionedell’Aned hadepositato corone ecartelli che ricordavanoquegli eventi nel luogodove sorgeva la NarodiDom, la Casa dellacultura slovenaincendiata daglisquadristi fascisti nel1920; a Gonars(Udine) dove tra il1941 e il 1943 venneistituto da parte delgoverno fascistaitaliano un campo diconcentramento persloveni e croati. Al Poligono di Opicina(5 antifascisti fucilati)e al monumento chericorda i 71 cadutiitaliani e sloveni; aBasovizza (4 slovenifucilati) e a Trieste aricordo dei numerosieccidi compiuti: in viaGhega, dove venneroimpiccati 57 ostaggi,in via D’Azeglio dovefurono impiccati 4partigiani, e allaRisiera di San Sabba.

A conclusione diquesto pellegrinaggiola delegazionedell’Aned, guidata dalpresidente Maris, hareso omaggio almonumento nazionaledella foiba diBasovizza.

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Il convegno al teatro Miela a Trieste sulle tragedie del confine orientale

Il presidente dell’Aned Gianfranco Maris e Oscar Luigi Scalfaro che ha concluso i lavori.

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Pubblichiamo in questo volume i testi integrali delle relazioni tenute alConvegno di Trieste sulle tragedie del Confine orientale. Il Convegnoha concluso i lavori del 13° Congresso Nazionale dell’ANED tenutoall’interno della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazi-sta in Italia. Gli ex deportati e i loro familiari hanno inteso, con l’ inizia-tiva presa assieme alla Fondazione Memoria della Deportazione, ono-rare tutte le vittime di quelle tragedie.Prima dell’apertura del Congresso delegazioni di ex deportati hannodeposto corone nei luoghi maggiormente rappresentativi della violen-za nazifascista e della tragedia del dopoguerra. Corone commemora-tive sono state deposte dagli ex deportati anche alla foiba di Basovizzache ricorda uno degli episodi più atroci del tragico dopoguerra al con-fine orientale.

Presentazione di: Gianfranco Maris;Relazioni di: Anna Maria Vinci "Il fascismo di confine nella VeneziaGiulia", Milica Kacin "Le minoranze slave sotto il fascismo", TeodoroSala "L'occupazione italiana nei Balcani", Enzo Collotti "L'esperienzadel Litorale adriatico", Tristano Matta "Le deportazioni dalla Risiera diSan Sabba" Raoul Pupo "L'eredità del fascismo e della guerra (dallefoibe all'esodo dall'Istria)".Conclusioni di: Oscar Luigi Scàlfaro.

Allegato al numero 3-4 (novembre 2005) di Triangolo Rosso