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tr. it. Eugenio Garin; Testo latino tratto da: “Fatum et fortuna” Leon Battista Alberti, Intercenales, ed. bilingue a cura di Franco Bacchelli e Luca d'Ascia, Pendragon, Bologna 2003
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Testo latino tratto da: “Fatum et fortuna” Leon Battista Alberti, Intercenales, ed. bilingue a cura di Franco Bacchelli e Luca d'Ascia., Pendragon, Bologna 2003
Leon Battista AIberti
Intercenali: Fatum et Fortuna
Trad. it. di E. Garin
O Filosofo, approvo la tua teoria, secondo cui le menti degli uomini sarebbero durante il sonno
completamente libere e sciolte dal corpo; ma soprattutto io vorrei sentire da te quel bellissimo tuo sogno
intorno al Fato e alla Fortuna. Racconta dunque, ora che non abbiamo nulla da fare, sì che io possa
rallegrarmi con te perché in una cosa tanto grande hai visto più tu dormendo che noi vegliando.
Filosofo. Carissimo, farò come tu desideri: ed ascolterai una cosa degna di ricordo. Ecco: avevo vegliato a
lungo nella notte leggendo le antiche dottrine sul Fato, e pur essendomi piaciute molte tesi di quegli autori,
ben poche tuttavia mi sembravano abbastanza soddisfacenti. Così io andavo meco stesso desiderando
qualcosa di più. Ed ecco che, stanco della veglia, mi coglie un sonno profondo, sì che cominciai a dormire, e
nel sonno mi pareva d’esser collocato sulla cima di un monte altissimo, in mezzo a una folla sterminata
d’ombre di uomini, a quel che sembrava. Di là si poteva mirabilmente guardare intorno tutto il paesaggio; il
monte poi da ogni parte era reso inaccessibile da precipizi e da rupi scoscese, e solo un angusto sentiero vi
giungeva. Intorno al monte, tortuosamente tornando su se stesso, scorreva un fiume rapidissimo e
sommamente vorticoso, e al fiume scendevano senza posa per l’angusto calle innumerevoli legioni di quelle
ombre. Tutto preso dai luoghi e dall’infinita moltitudine delle ombre, rimasi a tal punto vinto dallo stupore,
che non guardai neppure che cosa vi fosse oltre il fiume, e neppure cercai di capire di dove le ombre
venissero sulla cima del monte. Quello che mi stava soprattutto a cuore in quel momento era di cogliere
con la massima precisione le cose straordinarie che apparivano nel fiume: ed erano davvero mirabili. Infatti
appena un’ombra si immergeva nel fiume, subito la si vedeva vestire volto e membra di bambino, e poi, via
via che il nume la rapiva sempre più lungi, ne vedevo crescere la figura nell’età e nelle proporzioni delle
membra. Cominciai allora a domandare: «se in voi, o ombre, v’è traccia d’umanità, se mai siete in qualche
modo propense all’umanità, poiché è proprio dell’umanità istruire gli uomini, ditemi, vi prego, il nome di
questo nume». Mi rispondono allora le ombre: «Ti sbagli, uomo, se quali ti sembriamo alla vista corporea,
tu anche ci ritieni ombre. Siamo infatti, come tu stesso sei, scintille celesti destinate a vita d’uomini». Ed io:
«Felice davvero io sono, se avrò meritato dagli dèi di potervi conoscere più a fondo, poiché mi sembra
divino privilegio comprendere donde deriviate, da quali genitori e in qual luogo». Ma le ombre: «Smetti,
uomo, smetti di andar ricercando, oltre quanto è consentito all’uomo, simili misteri del Dio degli dèi. Sappi
che a te, e a tutte le altre anime racchiuse in un corpo, questo solo è stato concesso: non ignorare
completamente quel che vi cade sotto gli occhi. Per soddisfare dunque in quel che posso il tuo desiderio,
Bios è il nome di questo fiume».
A queste parole rimasi profondamente colpito; poi, riprendendomi, dissi: «Vi prego, dèi celesti, dite in
latino questi nomi perch’io possa meglio intenderli; sono pronto infatti a fare ai Greci tutte le lodi che
vogliono; ma non mi sembra brutto che io ami specialmente la lingua nostra».
Allora le ombre: «In latino quel fiume si chiama Vita ed esistenza mortale; Morte è la sua riva; alla quale chi
giunge, come vedi, subito si dissolve nuovamente in un’ombra». «Mirabile cosa!» risposi «ma come mai
vedo alcuni, non so quali, che stanno su degli otri con la fronte levata alta dall’acqua, mentre altri sono
sbattuti qua e là per tutto il fiume, travolti dalle onde, urtati dai sassi, sì che a stento sollevano il volto.
Perché, dèi buoni, tanta differenza?». E le ombre: «Quelli che tu forse, a causa degli otri, consideri più
sicuri, si trovano invece nel massimo pericolo; il fiume infatti è tutto pieno di scogli acutissimi. Vedi come
quegli otri gonfi di fasto e di pompa, sbattuti dalle onde sugli scogli si spezzino e vengano meno? Infelici
coloro che si affidano agli otri. Vedi come qua e là, nel mezzo della corrente, abbandonati senza alcun
appoggio, siano gettati contro le rocce? Degni di compassione, ben dura è la loro rotta! Se conservano gli
otri infranti, ne sono impacciati; se li lasciano, le onde li trascinano al punto che più non compaiono in alcun
luogo del fiume. Migliore la sorte di quanti, fidando nelle proprie forze fin da principio, nuotano lungo tutto
il corso della vita. Vanno infatti egregiamente quelli che, fiduciosi nella perizia del nuoto ed aiutati da essa,
imparano ora a riposarsi un momento seguendo una navicella o appoggiandosi a qualche tavola trascinata
dal fiume, ora a evitare con sommi sforzi gli scogli, dirigendosi gloriosamente quasi avessero l’ale fino alla
spiaggia. E perché tu afferri la cosa, spinte dalla natura noi siamo con i sommi dèi tutte tese mirabilmente
verso costoro, e bramose, grandemente, per quanto è in noi, di aiutare la loro salvezza e la loro gloria. E voi
mortali a titolo d’onore siete soliti chiamarli industriosi, gravi, zelanti, provvidi, attivi, frugali. Quelli invece
che si compiacciono degli otri, noi non li consideriamo tali da meritare il nostro favore per le loro ricchezze
e per la loro grandezza, che anzi riteniamo degnissime di odio la perfidia, le rapine, l’empietà, la malvagità e
simili scelleratezze di cui quegli otri sono intessuti ».
Allora io: «Godo dunque vivamente del fatto che taluni di proposito si appoggino alle navicelle, ed altri in
esse siedano a poppa, ed altri ancora le riparino quando sono infrante. Coloro infatti che giovano a molti,
che tendono una mano a chi è in difficoltà, che aiutano i buoni, sono degnissimi della lode e della
gratitudine degli uomini, come pure della pietà degli dèi». Allora le ombre: «È retto il tuo sentire, o uomo, e
vogliamo che tu non ignori che quanti vanno sulle navicelle, finché vogliono cose moderate, finché sono
giusti, saggi, onesti, e non cessano di pensar cose degne, godono del favore di tutti gli dèi. Nessuno fra gli
uomini che si agitano nel fiume è più gradito agli dèi immortali di coloro che dentro le navicelle guardano
alla fede, alla semplicità, alla virtù; questa è l’unica cura degli dèi: assecondare i capi delle navicelle che
sanno bene meritare dei costumi e della virtù. E ciò, oltre che per molte altre ragioni, perché essi tutelano
la pace e la tranquillità di molti. Le navicelle che tu vedi, i mortali chiamano imperi: ma ancorché molto
giovino a percorrere egregiamente il fiume, tuttavia non troverai in esse una difesa stabile e costante per
superare i più aspri scogli del fiume. Quando infatti le acque precipitano con un corso difficilissimo, allora le
navi quanto più sono grandi tanto più sono in pericolo, e si spezzano tra gli scogli per l’impeto delle onde.
Avviene molto spesso che esse si rovescino in modo che anche i più abili ed esperti non riescano a nuotare
in mezzo ai rottami e alla folla dei pericolanti. Mentre le imbarcazioni più piccole, afferrate da quelli che le
inseguono, vengono facilmente sommerse, anche se forse sono in questo superiori, che più facilmente
delle grandi navi possono passare fra scoglio e scoglio. Ma la massima capacità ad evitare il naufragio in
ogni tipo di navi l’avranno coloro che nella imbarcazione sono disposti e pronti in modo da provvedere a
ogni evento con l’attenzione, la fede, la diligenza ed ogni cura, senza ricusare di esporsi spontaneamente
per la comune salvezza alle fatiche e ai pericoli. Bada tuttavia che fra i mortali nessuno deve essere ritenuto
più sicuro tra i flutti di quelli che, pur essendo pochissimi, vedi con assoluta sicurezza percorrere il fiume di
qua e di là liberamente guardando, tutti appoggiati a tavole sicure; quelle tavole i mortali chiamano buone
arti». Così le ombre.
Allora io: «Ma come, non è meglio, con l’aiuto della virtù, stare secondo giustizia sopra le navi ad affrontare
tutti i pericoli, invece di percorrere il corso della vita su una sola assicella?». Allora le ombre: «Un animo
grande cercherà anche una navicella piccolissima piuttosto che una tavola isolata: ma un’indole libera e
pacata non a torto rifuggirà quei grandi travagli e i pericoli continui e grandissimi delle navi. Aggiungi che
quelli che si contentano di beni privati considerano gravosissimi i pubblici tumulti e le follie della
moltitudine; del resto è compito ben duro e difficile anche il conservare tra la plebe ignava un giusto
equilibrio, decoro, tranquillità e un dolce ozio. Cose tutte che, se venissero meno, non è facile a dirsi
quanto rapidamente e re e nocchieri, e infine ogni nave, verrebbero a perire. Perciò quelli che siedono al
timone debbono provvedere innanzitutto a che, per colpa o distrazione propria o dei loro, la nave non
debba finir sugli scogli o sul lido, o abbia ad esser gravata da inutile peso, poiché è dovere di un principe
saggio, quando sia necessario, gettar sul lido per alleggerirla, non solo i suoi, ma anche se stesso. Tutte
queste cose che i più considerano dure, quanto meno sono convenienti a una vita sicura e pacata, tanto più
sono disdegnate dagli animi moderati e semplici. Si aggiunga che conviene badare che quel gran numero di
persone che siede a poppa non abbia a condurre la nave in pericolo, o a rovesciarla; senza contare la
preoccupazione che recano ai naviganti quegli scogli non meno pericolosi che duri. Essi strappano infatti il
timone, intaccano i banchi, turbano l’ordine dei remi, e mentre non potrai abbattere se non con la forza i
prepotenti e gl’insolenti, che non senza piccolo rischio e danno hai nella nave, gl’inetti, gl’inutili, i pigri non
ti porgeranno nel pericolo una mano, abbandonati all’ozio, lenti e stanchi nell’azione, sì che la nave che li
accoglie facilmente perisce per il loro peso esiziale ». Così avevano parlato le ombre; ed io meco stesso in
silenzio, non meno mi meravigliavo di quanto avevo sentito, che di quel che vedevo con i miei occhi. Quindi
volgendo lo sguardo al fiume: «Ma chi sono quelli che vedo travagliarsi nelle onde in mezzo alla paglia con
appena il capo fuori dall’acqua? Informatemi, vi prego, di tutto quello che vedo».
Allora le ombre: «Sono fra i mortali i peggiori, sospettosi, astuti, invidiosi, come voi li chiamate; con la loro
perversa natura, coi loro depravati costumi non voglion nuotare, ma si divertono a impedire agli altri di
nuotare. Sono molto simili a quegli altri che vedi portar via con frode ora un otre ed ora una tavola con una
delle mani, mentre l’altra l’hanno impigliata nelle alghe e nel fango sotto l’acqua, cosa di cui non ve n’è più
molesta in un fiume. E tal genere di impedimento fa sì che le mani invischiate rimangano così per sempre;
voi siete soliti chiamare costoro avari e cupidi. Quelli che subito dopo tu vedi poggiare su vesciche vitree
vengon detti adulatori, malvagi e sfacciati. Gli ultimi infine, di cui non si vedono che i piedi e che vengon
buttati qua e là dalle onde come inutili tronchi, dimostrano quello che sono. Son quelli che i filosofi
proclamano diversi da loro piuttosto con le parole e le discussioni che con le abitudini e la vita: sono i
libidinosi, i golosi travolti dalla voluttà, perduti nell’ozio. Ma ormai porgi i supremi onori a quelli che vedi là
separati da ogni folla». Ed io guardando da ogni parte: «In verità non vedo nessuno staccato dalla
moltitudine».
E le ombre: «Come fai a non scorgere quelli che con le ali ai piedi sorvolano così agili e rapidi le onde?». Ed
io: «Mi sembra di vederne appena uno; ma perché devo rendergli onore? Che cosa hanno fatto costoro?».
Allora le ombre: «E ti pare che abbiano scarsi meriti quelli che, semplici e del tutto incorrotti, sono dagli
uomini considerati come divinità? Le ali che portano sono la verità e la semplicità, e gli alati calzari
significano disprezzo delle cose caduche. Giustamente dunque sono considerati divini per queste doti
divine, o anche perché per primi hanno costruito le tavole che vedi galleggiare nel fiume, soccorso
grandissimo per chi nuota, incidendo i titoli delle buone arti su ogni tavola. Questi altri poi, simili agli dèi,
ma che tuttavia non emergono completamente, che non recano intere le ali e non hanno calzari alati, sono
semidei, e degnissimi di onore e di venerazione subito dopo gli dèi. Il loro merito è, sia di aver ampliato le
tavole con l’aggiunta di rottami, sia anche di considerare bellissima impresa la raccolta delle tavole dagli
scogli e dai lidi estremi e il costruirne di nuove in modo simile, e offrir tutti questi loro lavori a coloro che
ancora nuotano in mezzo al fiume. Rendi, o uomo, onore a costoro, rendi loro le debite grazie per avere
offerto un ottimo aiuto con queste tavole al tanto difficile corso della vita».
Così nel sonno mi sembrava di vedere e di udire, e in modo mirabile di esser in qualche maniera annoverato
tra quegli dèi alati. Ma di colpo mi parve di precipitare nel fiume, mentre né tavole né otri, né simili sussidi
aiutavano il nuoto. Ed ecco che mi svegliai, e meco stesso ripensando la visione sognata resi grazie al sonno
per avermi fatto capire con tanta chiarezza il senso del Fato e della Fortuna, se sono nel vero interpretando
la visione. Ho appreso che il Fato non è altro che il corso degli eventi nella vita degli uomini, che trascorre
secondo un proprio ordine. Ho compreso che è più agevole la Fortuna per coloro che al momento della
caduta nel fiume hanno dappresso o intere assicelle o addirittura una nave. Ho capito che al contrario la
Fortuna è dura per noi che cademmo nella corrente quando era necessario superare con un continuo nuoto
l’impeto dell’onda. E tuttavia non ignoreremo che nelle umane vicende vale moltissimo la prudenza e
l’industria.