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Recensione del Fidelio eseguito alla Scala
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L’
Opera
«Fidelio» delle attualità alla ScalaLuca Chierici 8 dicembre 2014 Commenti chiusi
Serata inaugurale della Stagione 201415. Daniel Barenboim ha diretto con
successo Fidelio: è anche il suo commiato dall’incarico scaligero. La regìa
di Deborah Warner ambienta l’opera in una struttura industriale, senza
forse essere particolarmente innovativa. Applauditissimi Anja Kampe e Peter
Mattei
di Luca Chierici | Foto BresciaAmisano © Teatro alla Scala
INAUGURAZIONE DELLA STAGIONE D’OPERA 201415 al Teatro alla Scala era caratterizzata quest’anno da
almeno due avvenimenti che influivano sulle scelte di programma: il termine dell’incarico di Daniel Barenboim
quale direttore musicale e la vicinanza temporale con la prossima programmazione di spettacoli coincidenti con la
presenza di un evento straordinario come Expo, fatto questo che indebolisce un poco il ruolo della festa tradizionale del
sette dicembre. Per il suo addio – speriamo non definitivo – Barenboim ha scelto un tema che gli sta molto a cuore e che
è in parte legato alle sue attività in corso e future a Berlino, concentrate sulla creazione dell’Accademia che prende il suo
nome e quello di Edward Said. Tra i motivi che hanno portato nel 1999 alla creazione dell’Orchestra Divan e poi
dell’Accademia vi è quello della fratellanza dei popoli ma anche del rapporto tra musica e politica. In tal senso Barenboim
ha scelto per l’inaugurazione di quest’anno l’opera che più e meglio si lega a quest’ultimo contesto, sia perché Fidelio
nasce sulla scia delle pièce à sauvetage nate nella Francia di fine secolo, sia perché la revisione finale dell’opera data al
1814, su incoraggiamento del Principe Lichnowsky e a un anno da quel Congresso di Vienna che ristabilirà un assetto non
certo libertario nell’Europa sconvolta dall’avventura napoleonica. Ideali libertari e restaurazione si scontrano dunque nel
Fidelio con una evidenza che non passa certo inosservata.
Frutto di versioni concepite in anni differenti, con ben quattro Ouverture che complicano le scelte, Fidelio è un’opera che
si può prestare a diverse letture, tanto che in questi ultimi anni alcuni grandi direttori hanno cercato di spezzare una
consuetudine felice che si era assestata anche sulla esecuzione della cosiddetta Leonora n.3 prima della scena finale del
secondo atto. Pagina sinfonica di fascino sommo, la Leonora n.3 contribuiva grandemente a convogliare tutta l’attenzione
sull’atto secondo, anzi ad anticipare lo scioglimento del dramma ponendo l’ascoltatore in un determinato stato d’animo
che aumentava la trepidante attesa del grande Finale. Alla Scala chi fu spettatore di una recita straordinaria diretta da
Leonard Bernstein nel 1978 sa bene cosa significava quella straordinaria accumulazione di tensione che portava il
pubblico, al termine della Leonora n.3, a manifestare un entusiasmo quale raramente si udiva in teatro. Poi le letture di
Muti, più ispirate a un ideale cherubiniano, o quelle di Abbado, ancora più prosciugate e “cameristiche” avevano
contribuito a illuminare sotto altre prospettive il capolavoro beethoveniano.
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La scelta da parte di Daniel Barenboim di rinunciare alla Leonora n.3 ma di iniziare l’opera non con la tradizionale
Ouverture bensì con la Leonora n.2 ha costituito una nuova piccola rivoluzione nella tradizione interpretativa del Fidelio
e ha contribuito a orientare l’attenzione su altri aspetti, dimostrando ancora una volta come i grandi capolavori rivelino
nuove sfaccettature a seconda dei differenti punti di vista. La Leonora n.2, preceduta dall’inno nazionale che questa volta
Barenboim non si è dimenticato di eseguire, comunicava un senso di turbamento che ci poneva in guardia nei confronti
delle parti più cupe del secondo atto, e bene ha fatto Barenboim nel proporre un percorso che differiva visibilmente da
tutto ciò che era stato fatto in precedenza, prediligendo tempi lenti e meditati. Di contro veniva da Barenboim dato ampio
spazio all’atmosfera di schermaglia amorosa tra Marzelline e Fidelio, che trova un primo risultato espressivamente
straordinario nel famoso Quartetto, forse la pagina musicale in tutto il repertorio nella quale i contenuti risultano assai
più profondi e sublimi di quanto il testo non riveli in realtà. Di grande effetto è stata secondo noi tutta la resa dei lati più
oscuri dell’opera, culminanti nell’ambientazione nei sotterranei del carcere all’inizio dell’atto secondo. L’oppressione da
parte del Tiranno ma anche la splendida rappresentazione dell’amor coniugale – tema carissimo a un Beethoven che non
approdò mai a un rapporto definitivo con una donna – venivano seguiti da Barenboim con una attenzione e una
sensibilità tutte particolari che sono state colte dal pubblico, entusiasta dall’inizio alla fine per la proposta del direttore.
La regia di Deborah Warner, per la quale tutti si aspettavano meraviglie, ha condiviso solo in parte la chiave di lettura di
Barenboim e ha indugiato molto sull’aspetto di contemporaneità della tirannia e del carcere ricordando da vicino le
tristissime situazioni che si sono verificate nel nostro mondo durante gli ultimi quindici anni, dalle guerre in Afghanistan
alla Siria, dalle prigioni di Guantanamo al conflitto libico e via dicendo. Purtroppo il materiale a disposizione di un regista
che voglia ambientare questa tematica in epoca moderna è davvero troppo abbondante e lo spettatore non può che
provare sconforto nel pensare che gli avvenimenti narrati in un’opera di duecento anni fa non siano per nulla lontani da
una realtà odierna che supera anche i limiti della fantasia. L’assetto voluto dalla regista non diceva però nulla di nuovo
rispetto a tante altre realizzazioni del passato, né le scene di Chloe Obolensky hanno cambiato granché nei confronti di
quelle più tradizionali che hanno da sempre giocato sulla presenza di grandi mura incombenti e di porte che si
richiudevano ineluttabilmente a limitare la libertà dei prigionieri.
La prigione di Pizzarro era una vecchia struttura industriale che era troppo colma di certi particolari scenici che
preferiremmo dimenticare, come l’abbondanza di utensili moderni e di moderne strutture di delimitazione (le reti di
plastica arancione), persino il mocio per lavare i pavimenti. La scena di liberazione finale è sembrata completamente
fuori dalle righe, comunicando una euforia che si trasformava in baccano (e qui purtroppo anche la mano di Barenboim si
è rivelata piuttosto pesante) e gli operai che festeggiavano la liberazione finale dei prigionieri ricordavano piuttosto uno
sciopero ben riuscito o la festa tradizionale per la conclusione di un importante lavoro pubblico, situazioni ben lontane da
quelle richieste dal libretto. Unica idea di rilievo si è rivelata quella – non sappiamo quanto effettivamente voluta – di
accecare gli spettatori con la forte luce di una torcia elettrica che Pizzarro usa nel momento in cui scende nei sotterranei
della prigione per assassinare Florestan: effetto che rendeva bene l’idea di quanto dolorosa possa essere la visione di una
luce così forte da parte di chi è rimasto per mesi imprigionato nell’oscurità, sorta di tortura che siamo certi venga
impiegata anche oggi in più di un luogo di detenzione.
* * * *
Fidelio non è un’opera di tradizione italiana per la quale l’apporto dei singoli cantanti possa essere valutato solamente in
base a considerazioni belcantistiche. Si tratta però di un lavoro nel quale l’apporto vocale e scenico da parte dei
protagonisti è pur sempre molto importante, anzi più difficile ancora da soddisfare proprio perché ai cantanti vengono
richieste doti di recitazione non comuni.
Parte del cast non si è rivelato particolarmente felice sotto il profilo puramente vocale: della pur applauditissima Anja
Kampe, che ha fatto rimpiangere la Meier di qualche anno fa, non è piaciuto un timbro a volte vibrato e di faticosa
emissione nella regione grave che mal si adattava alle richieste del segno, così come il Florestan di Klaus Florian Vogt, che
non ha riscosso un particolare successo, lasciava molto a desiderare come qualità di emissione. Di non particolare rilievo
la Marzelline di Mojca Erdmann e il Pizzarro di Falck Struckmann, più di spicco il Jaquino di Florian Hoffmann, mentre
una sicura professionalità ha sostenuto gli esiti del Rocco di Kwangchul Youn. Applauditisismo è stato anche quel
fuoriclasse di Peter Mattei, che si è presentato in giaccone sportivo e cravatta come improbabile Don Fernando, e il
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sempre bravissimo coro diretto da Bruno Casoni. Tutto ciò ha portato alla realizzazione di uno spettacolo che verrà
ricordato soprattutto per la visione di un Barenboim sempre più coinvolto in quella musica che evoca espressamente temi
di grande impegno umanitario.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tagged: Falck Struckmann Klaus Florian Vogt Mojca Erdmann
L'autore: Luca Chierici
Nato a Milano nel 1954, dopo la maturità classica e gli studi di pianoforte e teoria si è laureato in Fisica. Critico musicale per Popolare Networkdal 1978 e per Il Corriere Musicale dal 2012, è autore di numerosi articoli di critica discografica e musicale, di storia della musica e musicologia,programmi di sala e note di lp e cd per importanti riviste di settore e case discografiche. Ha condotto Il terzo anello per Radiotre e haimplementato il data base musicale per Radio Classica. Ha pubblicato per Skira i volumi dedicati a Beethoven, Chopin e Ravel nella collana diStoria della Musica. Ha collaborato alla Guida alla musica sinfonica edita da Zecchini e ha tenuto diversi cicli di lezioni di Storia della musicapresso alcuni licei milanesi. Appassionato di tecnologia, ha formato nel corso degli anni una biblioteca digitale di quasi 100.000 spartiti e una
collezione di oltre 70000 registrazioni live. Nel 20072008 ha collaborato al progetto di digitalizzazione degli spartiti della Biblioteca del
Conservatorio di Milano.
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