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Fine dei giochi

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Alessio Gazzotti, Racconti horror. Le storie raccontate in “Fine dei Giochi” sono solo apparentemente slegate. L’antologia è un percorso, talvolta onirico, che ci accompagna dai sacrifici della Cultura celtica, sino all’agonia delle ultime ore di Vincent Van Gogh. Si rivive lo sbarco (in Normandia?) di un contingente miliare e si assiste al disastro provocato da scienziati schiavi delle proprie macchine. Passando dallo scontro che segnò la fine della Cavalleria per mano dei primi archibugieri spagnoli, a episodi di vita riconducibili alla quotidianità di tutti noi, in ogni occasione sarà possibile riconoscersi nei dubbi e nelle debolezze dei protagonisti. Tutti, alla fine, dovranno affrontare qualcosa che li soverchierà, arrivando alla… “Fine dei giochi”. Terminato il libro, saremo obbligati, ancora una volta, a chiederci se siamo davvero artefici del nostro destino.

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Alessio Gazzotti

FINE DEI GIOCHI

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FINE DEI GIOCHI Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-693-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Marzo 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a personaggi viventi è da ritenersi puramente casuale

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LO SBARCO

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Era ragionevole pensare che quel giorno sarei morto. Non aveva smesso di piovere dalla mattina. Le mani affondavano tra terra, erba, sassi e poi altra terra. Attraverso il frastuono della tempesta il comandante, nascosto chissà dove, ci esortava ad avanzare. Oltre la collina sulla quale stavamo arrancando, una spiaggia: il nostro avversario l’aveva scelta per un attacco via mare. Fummo colti alla sprovvista. Il nostro plotone, quindi, venne coinvolto in una missione suicida. Nel cielo volavano strani gabbiani e, nascosto dal rumore della pioggia, s’udiva lontano il suono del mare. I piedi, chiusi negli stivali, affondavano fino alla caviglia. Le taglie delle divise non prevedevano le mezze misure. Chi portava il 43 e mezzo poteva scegliere tra uno stivale troppo largo, ovvero dolorose vesciche ai piedi, e uno troppo stretto, che stritolava le dita. Avevo scelto le vesciche. Ci aggrappavamo alle piante marittime, usandole come appiglio per trasportare la nostra ponderosa, e forse inadeguata, risposta all’invasione nemica. L’avamposto disponeva di decine di mitragliatrici pesanti, definite “trasportabili” dalle specifiche tecniche, che il dipartimento della difesa teneva in grande considerazione. Non c’erano però i grassi burocrati del dipartimento a trasportare quei monoliti d’acciaio sulla collina. Erano necessari due o, più spesso, tre soldati imprecanti per spingere la

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nostra controffensiva, mentre un paio facevano loro eco tirandola con cinghie, corde, o qualsiasi altra cosa utile per legare e trascinare. Io trascinavo. Il suo peso continuava ad aumentare e non riuscivo a capire se fosse dovuto alla fatica che m’indeboliva le fibre, o al diminuito apporto propulsivo dei miei commilitoni. La terra umida cedeva progressivamente il passo alla sabbia e le mie dita incontravano nel nuovo materiale un appiglio ancor meno sicuro. Il comandante urlò in modo diverso da come aveva fatto sino a quel momento, annunciandoci che eravamo in cima. Fu in quel momento che la terra iniziò a sollevarsi intorno a noi, spruzzando materiale eterogeneo sulle mie mani. Percepivo nei miei compagni una certa concitazione. Il ragazzo che aveva trascinato con me il pezzo di artiglieria decise di sdraiarsi. Si buttò a braccia aperte, andando a finire accanto alla mitragliatrice. Un braccio colpì una delle ruote e, sembrando di gomma, rimbalzò sul suo petto e lì si fermò. Doveva essere stremato dalla fatica, pensai. Spostarsi di poco sarebbe bastato per non ferirsi. Riposarsi era una buona idea. Feci per sdraiarmi accanto al mio compagno ma d’improvviso mi arrestai, sospeso sopra di lui: una parte abbondante della sua divisa non esisteva più; il tessuto era scomparso, insieme alla pelle, ai muscoli e alle ossa. Una granata lo aveva perforato. In quel momento vidi numerosi compagni cadere sotto l’artiglieria nemica, mentre altri erano già caduti, immobili in posizioni casuali. La pioggia di proiettili si aggiungeva a quella incessante che ci gelava le ossa. Felice di essere scampato a quel tiro a segno, saltai dietro al pezzo di artiglieria, che rispondeva con rintocchi di campana ai proiettili che ne colpivano la superficie. Il capitano ci raggiunse, strisciando sulla pancia e, legittimando nello spazio di pochi metri tutti gli esercizi che ci obbligavano a fare ogni

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mattina in caserma e che odiavamo, ci ordinò di scendere subito da quel crinale. Obbedimmo. Scivolammo lungo la duna sabbiosa, trascinati dalle mitragliatrici alle quali rimanevamo appesi con tenacia, scudi improbabili che offrivano riparo emettendo tintinnii metallici. Diversi soldati caddero durante la discesa, prima di raggiungere i piedi della collina: lì scoprimmo che i colpi non potevano nuocerci. L’offensiva a lunga gittata del nemico fendeva fino ad alcuni metri sopra le nostre teste. Esultammo, ma per poco. Le onde color pece mordevano la spiaggia in punti diversi e ve n’era una sempre pronta a imitare quella che si ritirava. Le navi nemiche, atolli in avvicinamento, erano abitate da uomini ragionevolmente certi di morire, proprio come me. Le navi da trasporto aprirono i portelloni prima di raggiungere la spiaggia. Il comandante ci ordinò di prepararci a fare fuoco, ovunque ci trovassimo. Era impensabile trascinare i pezzi di artiglieria, si sarebbero bloccati nella sabbia in balia del fuoco nemico, e noi insieme a loro. In quel punto, almeno, la collina ci copriva le spalle. Mi piazzai nella posizione di tiro e un giovane dai capelli rossi, che giorni prima avevo saputo essere di un paese non lontano dal mio, raccolse con mani incerte la cartucciera, per mantenerla sollevata durante il fuoco. Dovevamo aspettare. Non potevamo sprecare munizioni. La striscia di cartucce sobbalzava, scossa dal tremore del mio compagno. Stavo tremando anch’io?

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Furono secondi, o forse anni. Le navi di fronte a noi si aprivano lente… pensai a qualche guasto nella meccanica. Persino il mare si mostrava ostile, nero e schiumante sotto gli scafi delle barche che, una dopo l’altra, attraccavano sulla riva. Gli spettatori del cielo erano volati via. La pioggia s’intensificò, rimbombando dentro al metallo troppo sottile degli elmetti. Un rumore lontano, prima flebile, poi sempre più forte, sfociò in un latrato bestiale vomitato dalle viscere delle imbarcazioni: i portelloni si schiantarono sul mare, che rispose con spruzzi di spuma grigia. I nemici si lanciarono contro le nostre pesanti postazioni, urlando per scacciare il timore della morte, e i loro stivali, forse anch’essi senza mezze misure, affondavano nella rena fradicia. Permettemmo al nemico di avanzare quanto bastava per il raggio d’azione della nostra potenza di fuoco. Poi iniziò. Non erano esercitazioni, con la supervisione di un istruttore e la certezza che non sarebbe successo niente. Sfiorai il grilletto. Una raffica tagliò a metà i corpi di quelli che, più veloci, erano corsi verso di me, verso la morte. Scaricammo sul nemico le munizioni che avevamo trasportato a fatica. La spiaggia non tardò a coprirsi di corpi, sui quali le onde s’infrangevano: alcuni cadaveri galleggiavano prima verso il mare, poi verso la spiaggia e, infine, verso il mare, inghiottiti dalle onde. Le forze nemiche erano soverchianti. Una mitragliatrice non distante da me venne raggiunta dai soldati. Il mio compagno sparò fino a esser passato a fil di spada. I cecchini facevano fuoco dalle navi, mentre alcuni reparti di fanteria si spingevano fino alle nostre linee e ci finivano all’arma bianca. Come se non bastasse, l’angolo di fuoco della mia mitragliatrice si

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stava abbassando. L’arma si stava inabissando in una sorta di sabbie mobili; non riuscivo a colpire i nemici più lontani. Un gruppo di alleati, esortati dal comandante, lasciò le proprie postazioni per scagliarsi contro il nemico, tentando una specie di manovra d’accerchiamento. La sabbia e la salsedine incepparono presto i grossolani meccanismi delle nostre macchine: una dopo l’altra, le bocche di fuoco restavano mute, aspettando inermi l’aggressione avversaria, asciutte, incapaci di difenderci. La cartucciera si bloccava, floscia, nelle mani tremanti dei soldati, piena di proiettili che, inutili, non avrebbero più fermato la minaccia in avvicinamento. Alcuni infilavano le dita frenetiche nella fessura di caricamento, cercando invano di risolvere, con quella manovra, il guasto meccanico, e venivano finiti sul posto, ancora intenti nel loro disperato tentativo di riparazione. Controbilanciando la macchina col mio peso, tentavo d’impedire che sprofondasse ancora nella sabbia e, intanto, continuavo a mirare a chiunque si avvicinasse, cercando di non colpire i miei compagni, impegnati in estenuanti lotte corpo a corpo. Le forze del nemico, lentamente, si stavano ridimensionando, piegate sotto il nostro fuoco di artiglieria che, parimenti, si stava allo stesso modo estinguendo. D’improvviso i miei colpi finirono. Premetti il grilletto una, due, mille volte. Credei si fosse inceppata come quelle dei miei compagni. Chiesi aiuto al mio compagno. Nessuna risposta. Poi capii. Il ragazzo dai capelli rossi non era più nella sua posizione. Correva. Correva non verso il nemico, compiendo quello che sarebbe stato un ammirevole, seppur irresponsabile, atto di eroismo. Il ragazzo dai capelli rossi filava lungo la linea di fuoco alleata, scansando i commilitoni, i nemici, i corpi caduti, il nostro comandante, passando a

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volte dietro, a volte davanti alle mitragliatrici, abbassandosi appena sotto la linea di fuoco, in preda al panico. I nemici, seppur decimati, continuavano a sciamare contro di noi, contro di me. Impugnai la pistola. Gli spruzzi di acqua salata che arrivavano a bagnarmi la faccia, mescolati alla sabbia, alla terra e alla pioggia, avevano inceppato anche i delicati meccanismi di quell’arma. D’istinto la scagliai contro un soldato che si stava avvicinando, colpendolo in volto. Anch’io fuggii, intralciato dalle sabbie mobili che tentavano d’inghiottirmi. Iniziai a risalire la collina dalla quale, poco prima, eravamo scesi in modo rocambolesco. Uscito dal pantano, presi slancio e mi arrampicai con le ultime forze. Il nemico non aveva più risorse per preoccuparsi di sparare da lontano a un facile bersaglio come me. Alle spalle, quelle che sarebbero potute essere minacce in lingua straniera. Sentivo la voce d’un unico soldato al mio inseguimento: avevamo seriamente intaccato il loro fattore numerico. Continuavo a salire arrancando sulla sabbia: presto avrei incontrato terriccio compatto, che avrebbe aiutato la mia corsa e, purtroppo, quella del mio inseguitore. Ecco le prime piante: le afferrai disperato, le urla alle mie spalle sempre meno frequenti, ma più vicine. Ripeteva parole senza significato. Anche lui esausto, la voce interrotta da un ansimare violento. Quella parete non aveva una pendenza tanto ripida, prima: avevo sbagliato strada. Ero di fronte a un muro, bloccato. Se il mio inseguitore avesse avuto una semiautomatica funzionante, non mi avrebbe permesso d’iniziare la risalita. Le pistole straniere erano sensibili al sale marino come le nostre. Mi girai, pronto ad affrontare il mio aggressore. Un’escoriazione sul suo sopracciglio: era il soldato che avevo colpito con la pistola.

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Nella sua mano un coltello. Un’esplosione, e chiusi gli occhi. Non li aprii, aspettando il fendente mortale. Aspettai ancora. Nulla. Sbirciai attraverso le palpebre strette. Il mio aggressore stava aspettando che lo guardassi prima di finirmi? Nessuno. Intorno a me il deserto. Più in basso, una calma surreale. Alcuni uomini si aggiravano tra le mitragliatrici. Spalancai gli occhi, riconoscendo nelle divise dei superstiti i miei stessi colori. I gabbiani volteggiavano di nuovo. Anche il mare sembrava domato. I rumori sordi delle onde mitigate, sotto agli scafi delle navi disabitate. A terra, un uomo: il soldato che mi stava inseguendo, straziato da un colpo di mitragliatrice. Dai piedi della collina un ragazzo dai capelli rossi mi guardava, tenendo infilato un perno d’acciaio nella bocca di alimentazione della cartucciera, ora non più inceppata.

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ATLANTIDE

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Quel giorno la folla si era radunata intorno alla piramide per assistere al vaticinio. Si sarebbe predetto qualcosa che riguardava la vita di ognuno. Sulla cima della piramide, l’aruspice tendeva qualcosa verso il cielo; dal basso sembrava che aspettasse una mano invisibile a cui porgere il dono. Il popolo non riusciva a vedere il volatile tra le sue mani. L’oracolo lo posò sull’altare dinanzi a sé, raccolse un coltello e, tenendo fermo con una mano l’animale che si dibatteva, sollevò la lama al cielo. Sotto di lui, il mare di folla in silenzio. Calò l’arma sulla creatura: dal basso si sollevò un brusio sommesso. Compì una mantica oscura e poi sollevò gli intestini, mostrandoli al suo pubblico. Tutti trattennero il fiato. Si fidavano di lui. L’oracolo posò le interiora e, con le mani grondanti sangue, fece ampi gesti in una sorta di codice. La folla riconobbe il presagio favorevole e tuonò un grido di gioia. Le urla si levarono dagli anelli più vicini alla base della piramide e si propagarono raggiungendo le file più lontane. Nessuno guardava più la cima del monumento sepolcrale, dal quale l’oracolo era scomparso. La folla abbandonò la piazza, riempiendo la città di urla di gioia. Eros rinunciò a farsi strada tra la folla, lasciandosi trasportare dalla forza soverchiante del flusso che si ramificava nelle vie della città come il delta di un fiume. C’era chi alzava le braccia al cielo intonando canti, chi si gettava nelle

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fontane, chi urlava, persino gli animali che vagavano per le strade sembravano partecipare a quel clima di festa. Due amici che camminavano abbracciati, già ubriachi, quasi travolsero Eros. La compattezza della folla gl’impedì di cadere. Si scusarono, e coinvolsero anche lui in quell’improbabile abbraccio virile, scomparendo subito dopo, come un miraggio, tra migliaia di altre persone festanti. Eros continuò a farsi trascinare, diretto verso una destinazione precisa. Quando il mare di folla si trovava a un bivio, con tutta la forza cercava d’incanalarsi in un vicolo o nell’altro, facendosi strada a spintoni. Al momento opportuno, calcolando i tempi, si buttò in un androne, uscendo dal flusso irrefrenabile. Appena fuori dalla massa venne colto da uno strano tremore, ed ebbe la chiara impressione che la terra sobbalzasse. Individuò nella tensione che ancora aveva nelle gambe la ragione di quello strano fenomeno. Entrò in una porta lì accanto, richiudendosela alle spalle. Non vide i piccoli pezzi di calce, sparsi a terra, caduti non lontano dalla soglia. I poveri mobili non riempivano la stanza, quasi del tutto buia. Davanti a lui, contro il muro, un mucchio di coperte. Da quella collinetta di tessuti stratificati proveniva un mormorio leggero, che il frastuono esterno non riusciva a coprire. Si avvicinò, riconoscendo le parole di una preghiera. Sussurrò qualcosa e il mucchio di coperte cambiò forma. Il volto di una donna anziana fece capolino, sorridendogli. Non era necessario raccontarle della profezia dell’oracolo: la donna aveva sentito le urla di gioia. Eros si chinò ad abbracciare il mucchio di coperte. Erano sicuri che la nefasta profezia del popolo Maya non si sarebbe avverata. Lo aveva detto l’oracolo, e anche loro si fidavano. Il cielo, intanto, si colorava di tonalità innaturali e certi cani, con la coda tra le gambe, correvano in direzione opposta al fiume di gente, intrufolandosi tra le innumerevoli gambe, diretti verso le montagne.

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Psiche, su un balcone del palazzo reale, osservava la gente festeggiare nelle strade. In lontananza, sul molo, era ormeggiata l’intera flotta, e anche da lontano poteva vedere decine di persone indaffarate, salire e scendere dalle navi, simili a formiche, come se stessero organizzando i preparativi per un’imminente partenza. Attraversò la stanza lussuosa e uscì nell’ampio corridoio. Fermò un soldato che stava correndo, ansioso di assolvere qualche importante compito. «Armigero, dov’è mio padre?» gli chiese. Il giovane esitò qualche istante e poi rispose sottovoce: «Al momento è in consiglio con lo Stato Maggiore». Psiche si diresse verso la Sala delle Assemblee, e ringraziò il soldato quando era già lontana, ma abbastanza forte perché lui la udisse. Bussò, ed entrò senza aspettare una risposta. Suo padre era seduto a un tavolo con gli alti ufficiali. Mappe e carte davanti a loro, ed espressioni tese sui volti. Vedendola, il padre abbandonò il simposio e uscì dalla stanza insieme a lei. «Che significa?» chiese la figlia. Il padre non rispose. «Perché hai riunito lo Stato Maggiore? E perché tutta la flotta di Atlantide è al porto e i tuoi uomini stanno lavorando come se dovessero salpare da un momento all’altro?» «Tesoro, te ne avrei parlato a riunione finita». «Di cosa?» «Dobbiamo partire oggi stesso. Sta per succedere qualcosa». «Non hai sentito la predizione dell’oracolo? Ha pronosticato un esito favorevole. Non ci credi più?» «Stavolta non possiamo fidarci di quello che ha detto». Psiche non disse nulla, sul volto le apparve un’espressione cupa. «Aspetta» continuò il padre. Aprì la porta, disse qualcosa agli ufficiali

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che, veloci, abbandonarono la stanza scivolando accanto a loro. Il generale fece entrare Psiche nella Sala delle Riunioni, ora deserta. Dal tavolo erano sparite tutte le carte. Suo padre si avvicinò a un enorme cerchio di pietra scolpito nel muro, tormentandosi la folta barba. Lungo il bordo del cerchio erano scolpite strane figure. «Ricordi quando da bambina t’insegnavo a leggere il calendario Maya, piccola mia? Ti tenevo in braccio per fartelo vedere da vicino, proprio dove mi trovo ora». Il generale scorse la mano in senso orario lungo tutto lo Tzolikin, il ciclo basato su due cerchi più brevi. «Piccola mia, si sono susseguite l’era dell’Acqua, dell’Aria e del Fuoco. La nostra è l’era della Terra. E non saremo gli unici ad assistere alla fine di un’era. Dopo di noi ci sarà l’ultima, quella dell’Oro». «Padre, stai dicendo che l’oracolo ha mentito? Si avvererà la profezia? Atlantide sparirà oggi?» chiese Psiche. Il padre fece una smorfia al bassorilievo. La figlia continuò: «Perché avrebbe dovuto mentire? – e dopo una pausa – Lo hai obbligato tu?». «Tesoro… – la sua voce era meno dolce – due milioni di persone abitano quest’isola, non abbiamo abbastanza risorse per salvare tutti. Alcuni di noi, almeno, potranno farcela, e trovare riparo nel vicino Egitto, o in Grecia». «E hai scelto tu i pochi a cui dirlo, vero? Credi di avere il diritto di decidere chi deve vivere e chi deve morire?» «Ho solo cercato di salvare più persone possibili… quelli con un’imbarcazione…» «Hai mentito al tuo popolo. Si fidano dell’oracolo, si fidano di te!» «Sapevo che avresti reagito così, per questo non te ne avevo parlato… – la voce del generale era triste – ormai è tardi, vieni con me». La figlia non rispose. Dopo una pausa, il generale si sfilò un anello e glielo porse.

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Psiche lo prese, gli occhi pieni di lacrime. Sul gioiello era inciso il simbolo della loro casata, un dragone rampante. Il generale aggiunse: «Se lo mostrerai alle guardie ti faranno salire su qualsiasi nave. Potrai raggiungermi quando vuoi, ma decidi in fretta, non c’è molto tempo». Psiche lo guardò: in quel momento lui fu sicuro che non l’avrebbe più rivista. La figlia corse fuori dalla stanza, lasciandolo solo. Il padre sapeva bene dov’era diretta. Il livello dell’acqua, intanto, aveva raggiunto in modo innaturale le prime case più vicine al porto. La felicità della folla era scomparsa quando si era accorta che l’acqua iniziava a coprire i loro piedi. Eros sentì bussare con violenza alla porta. Pensò fossero ancora i rumori della folla, anche se aveva la netta impressione che l’entusiasmo fosse diminuito. I colpi continuarono: aprì e trovò Psiche, affannata da una lunga corsa. La ragazza spiegò a Eros quanto aveva appreso e lo implorò di seguirlo. Lui si voltò verso l’anziana donna che dormiva nella stanza buia, la quale era convinta che sarebbe andato tutto bene. Psiche non sapeva cosa dire; si limitò a sussurrare: «Tra un’ora sarò davanti al molo 9, recupero l’indispensabile e ti aspetto là». Gli mostrò l’anello. «Questo è il nostro lasciapassare». Eros si limitò ad annuire. In quel momento una tremenda scossa di terremoto li costrinse ad appoggiarsi al muro per non cadere. Si guardarono terrorizzati. Psiche osservò l’anziana donna nella stanza, che nel frattempo si era svegliata e chiamava Eros, per rassicurarsi che stesse bene. Poi si voltò e sparì tra la folla disordinata. I cani avevano iniziato a latrare disperati e continuavano a correre verso le montagne.

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Psiche lo aspettava nel posto concordato, coperta da un mantello nero, per sfuggire alle guardie che, con ogni probabilità, la stavano cercando per ordine del padre. Solo un ciuffo di capelli rossi emergeva dal cappuccio. Il mantello cadeva sulle rotondità appena accennate di una dolce attesa, di norma celate dal suo abbigliamento marziale. L’aspettò inutilmente e, infine, s’allontanò, guardandosi indietro un’ultima volta. Lui la spiava, nascosto, ma non riusciva a vedere le lacrime che le solcavano il viso. Voleva rassicurarsi che almeno lei si mettesse in salvo. La vide, invece, dirigersi nella direzione opposta al porto. Provò a seguirla tra la folla impazzita di terrore, sconvolta dalla furia della natura che iniziava ad abbattersi su Atlantide. Psiche seguiva la stessa strada che quella mattina lui aveva percorso insieme alla gente festante. Cercò di raggiungerla, ma venne bloccato da un gruppo di persone impegnate ad assaltare una carrozza di nobili per derubarli e, forse, ucciderli. Quando riuscì a raggiungere casa sua, lei non c’era più. Trovò la madre nel solito posto e le si avvicinò. L’anziana donna gli porse un piccolo oggetto. Lo raccolse e, vedendo il simbolo del dragone, capì subito l’intento di Psiche. La madre, con uno sforzo, si sollevò a metà dal giaciglio, lo abbracciò, e gli disse addio. Eros, confuso, si rituffò tra la folla bestiale, incerto su quale fosse la cosa giusta da compiere, e si fece strada tra le persone impazzite che cercavano scampo in ogni modo. Chi si era barricato in casa pensando di salvarsi, chi correva senza meta verso la morte, chi si arrampicava sugli alberi in preda al panico e chi, semplicemente, si disperava. A Eros sembrò per un attimo di vedere i due amici che lo avevano urtato quella stessa mattina: uno di loro, fomentato da un istinto brutale, stava colpendo a morte l’altro, disteso al suolo, inerme.

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Mentre correva, sembrava che mani sconosciute dietro di lui cercassero di toccarlo, di afferrarlo, di trascinarlo a terra. Lui si faceva largo con pugni e gomitate, riparandosi da pericoli che percepiva provenire da ogni direzione. Giunto al porto, Eros vide cocche, corvette, fregate e galeoni in balia della furia del mare: alcune imbarcazioni affondavano, ancora attraccate al porto. Certi individui si aggrappavano alle funi delle navi che tentavano di salpare, talvolta affogando. Le polene mostruose incombevano sul molo battuto dalle onde, muti presagi di morte. Eros vide in lontananza una persona correre su una passerella di approdo. Vi fu un primo avvertimento di una guardia armata di spada, poi un secondo: entrambi vennero ignorati. La guardia vibrò un colpo mortale. Prima che il corpo, avvolto da un ampio mantello nero, cadesse in mare, Eros vide risaltare un ciuffo di capelli rossi, agitati dal vento. Fu incapace di urlare. Fu incapace di fare qualunque cosa. Si accasciò a terra, contro il muro del molo 9, proprio dove lei lo stava aspettando poco prima. L’anello gli cadde dalla mano con un rumore metallico. Invece di fermarsi tra le gambe, prese a rotolare tremolante sulle pietre del molo, verso la banchina, per poi cadere in acqua. Pensò a sua madre, al figlio che avrebbe potuto veder crescere e, infine, pensò a Psiche. Eros non si accorse della terra che tremava e si sfaldava sotto di lui, e che si sbriciolava inghiottita dall’abisso. Non si accorse nemmeno dell’acqua che stava invadendo ogni cosa e che era salita sino a sommergergli le spalle, il collo e la bocca.

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Infine tutto divenne nero e Atlantide, silenziosamente, venne sommersa, sprofondando in qualcosa peggiore del niente.

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CAMBIO LETTO

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Credetemi, non è una bella sensazione. Devastante e irrefrenabile, impetuosa come la piena di un fiume, un’orda di bambini m’investe, e invano cerco di trovare riparo tra un comodino e una scaletta: assorbo l’impatto e li faccio defluire, diretti verso la zona giochi, sono invisibile al loro passaggio. Immateriale, non mi scansano ma mi passano attraverso. Ad accoglierli, scivoli, casette, altalene e scatole di palline, tutto rigorosamente di legno, come qualsiasi cosa nel mio campo visivo in questo dedalo che si fa beffe della deforestazione. Sono nella zona notte. Sarebbe stato fantastico se per raggiungerla fosse stato sufficiente percorrere un tratto lineare dal punto A al punto B. E invece no: per raggiungere il punto X sulla mappa mentale di Clara, sul quale lei sta per iniziare l’alacre attività che tra poco andrò a descrivervi, abbiamo attraversato, nell’ordine: la ridente zona Tessili, la gioiosa zona Esterni, la scherzosa zona Illuminazione, la vezzosa Zona Estate e la graziosa Soluzioni per il soggiorno. Mentre mi chiedo perché sono qui e scelgo a caso dal mazzo alcuni tra i motivi che per primi si affacciano alla mia mente – tra i quali pesco la carta della pace coniugale – il mio flusso di pensieri s’interrompe brusco. Ecco l’istinto di sopravvivenza, che mi fa percepire il rapido avvicinamento di una seconda ondata di piccoli teppisti. Questa volta sono preparato. Li scanso, ma nel gesto atletico perdo la precaria presa sulla giacca, indebolita dall’onere di sorreggere la pesante borsa di Clara. La giacca cade e tosto subisce l’irrispettoso calpestio di quei piccoli piedini infilati in scarpe alla moda e oltremodo

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sporche. Realizzo che all’interno di quello che una volta era un mio indumento, è custodito il mio “abbastanza costoso” cellulare, ed è quello il primo momento in cui impreco sommessamente, ma vi avverto che lo rifarò anche dopo. L’orda di ragazzini defluisce, seguita dalla non meno blanda carica di fanteria dei rispettivi genitori che, nel frattempo, si appellano a gran voce all’inesistente buon senso del gruppo di testa in età prescolastica, il quale è in vantaggio di qualche secondo nell’intertempo rilevato alla curva dei letti a castello. «Mi dai il metro?» Come promesso, ecco spiegato l’arcano: al riparo in un’area espositiva, Clara tende il braccio verso di me, facendo cenno con la mano di passarle quello che il commesso della ferramenta ha chiamato “flessometro”. Clara sta contemplando – in uno stato che non è azzardato definire “ipnotico” – l’oggetto dei suoi desideri, ovvero quello che ha deciso essere il giaciglio in cui svegliarsi nei prossimi anni, o meglio, mesi, considerando il precario grado di robustezza dell’oggetto, a una prima occhiata sommaria. Raccolgo una cosa che dovrebbe assomigliare alla mia giacca, cavando dalla tasca il prezioso strumento di misurazione, che Clara afferra rapace per poi accingersi a effettuare misurazioni sul “mobilio unicamente da esposizione”, com’è a più riprese definito dai cartelli ubiquitari appesi in ogni dove. Ammaccature e segni sparsi su ogni superficie tradiscono una pervicace disobbedienza ai chiari moniti delle insegne. I clienti si fanno beffe dei severi comandamenti che vietano di sdraiarsi sui letti, di sedersi sulle poltrone, di accendere le lampadine e d’interagire in qualsiasi modo con le suppellettili che adornano questo dedalo improntato al consumismo. Tali comunicazioni, replicate e tradotte in esotici idiomi su cartelli appesi in punti di snodo strategici, possono così venir disattese anche da chi parla una lingua diversa. Questo clima di tentazione e proibizionismo, studiato a tavolino da esperti del marketing del legno,

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m’induce ad abusare di un pouf abbandonato a se stesso e che ha tutta l’aria di essere stato vittima di numerosi comfort-test non autorizzati, in un recente passato. Clara continua imperterrita a verificare le dimensioni delle doghe, delle spalliere, delle testiere, l’altezza dei piedi… e la immagino apporre quote immaginarie ad altezza, larghezza e profondità di ciascun componente del complemento di arredo dal nome impronunciabile, che comunque resta semplicemente un letto. Sospetto che il nome dell’articolo non significhi “letto” nella lingua parlata alla sede legale della sub-holding proprietaria di questo luogo d’inferno. La foga di Clara nel dimensionare il letto dal nome impronunciabile, mi regala un prezioso margine di manovra prima di finire coinvolto in un dialogo che il buon senso mi suggerisce dovrà essere connotato di tatto e diplomazia. Abbandono il provvisorio nido ricavato nel pouf non più vergine e mi aggiro tra gli scaffali, scansando altri bambini e riflettendo sulla relazione funzionale direttamente proporzionale tra il prezzo degli oggetti e la loro aspettativa di vita, stupendomi di come alcune “cose” che qualche sprovveduto potrebbe definire “mobili” abbiano l’aria di valere meno del cartone da imballaggio con cui verranno recapitati a casa degli acquirenti. In un impeto nostalgico il mio pensiero corre fuori da questo luogo di tortura infestato da mocciosi, per arrivare alla mia auto, abbandonata in una fila del pantagruelico parcheggio del centro commerciale di cui ho dimenticato sia il numero che il colore, per poi arrivare sino a casa e, di preciso, in camera da letto. Penso al nostro bellissimo letto matrimoniale. Testiera e corpo in ottone brunito che ti ci puoi specchiare. Materasso a 800 molle insacchettate una a una per garantire, come descritto nel manuale a corredo, una postura corretta durante il sonno, grazie al quale ho perso la mia abitudine di dormire riverso con un braccio schiacciato sotto al corpo e che ritrovavo insensibile la mattina, come appartenente a un estraneo

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intento a schiaffeggiarmi durante i tentativi di rianimarlo. Lo stesso letto che mi ha assecondato le mattine che rimanevo appisolato cinque minuti in più dopo la sveglia, e quelle volte che i cinque minuti diventavano un’ora, facendomi tardare al lavoro; che mi ha accolto durante i deliri febbrili e che anche stamane è stato testimone discreto del mio scarso entusiasmo all’idea di rinchiudermi qui. Ebbene, il mio pensiero corre al giaciglio che abbiamo a casa e mi fa sorgere spontanea la domanda: “È proprio necessario cambiarlo?” e subito mi rallegro del fatto di non aver esternato questa mia perplessità ad alta voce. Guardo Clara intenta nel suo lavoro, e mi sembra strano che non abbia preso nemmeno un foglietto recante la misura della superficie massima che la nostra stanza da letto mette a disposizione per accogliere il nuovo arrivato. O se la ricorda a memoria, o sta misurando a caso. Clara smette all’improvviso di apporre quote tecnologiche immaginarie prive di supporto cartaceo. Richiude il flessometro spostando la frizione col pollice e la molla, e richiama a sé la fettuccina metallica che si blocca a fine corsa col caratteristico rumore. Si allontana di alcuni passi dal giaciglio e si ferma in una posizione dalla quale può apprezzare l’oggetto nella sua completezza e, poi, si riavvicina. A passi misurati, molto lenti, effettua una marcia a traiettoria ellittica, solenne, intorno al novello totem, estraendo a intervalli regolari la linguetta del metro per poi lasciarla libera di attorcigliarsi ancora. Altri bambini intanto saltellano intorno a me, e mentre il pensiero è tornato dalla breve gita a casa, rifletto sul fatto che questi posti sono come i parchi giochi, con la differenza che si divertono anche gli adulti, tutti tranne me. Clara ha completato il periplo del letto, lo squalo ha smesso di girare intorno alla sua preda: mi aspetto che da un momento all’altro aggredisca le ignare coccinelle che sorridono stampate sulla montagna di cuscini gettati in un disordine accuratamente studiato e corredati,

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ovvio, da un cartello che esorta ad astenersi dal maneggiarli in qualsiasi modo, incluse le battaglie in stile pigiama party. Tutto sembra far presagire una pronta conclusione dell’analisi comparativa del giaciglio e, dalla mia postazione di sicurezza, stringo a me la giacca, pregustando il caffè che mi concederò non appena uscito da questo posto d’inferno – poiché, di certo, il caffè non lo prenderò qui dentro. Anzi, pregusto il momento in cui, ancor prima, inizierò a seguire le frecce che, dopo innumerevoli tentativi di depistaggio in macroaree domestiche piene di oggetti privi d’utilità, mi condurranno al meritato esodo. Sembrando ormai paga delle sue rilevazioni cartografiche, mi avvicino per sentire il responso. So che qualsiasi cosa dirò, in ogni caso, sarà inappropriata. Clara fa scattare il metro un’ultima volta e me lo porge, mentre ho ancora la sua borsa in mano, mi guarda forse per la prima volta oggi e, impassibile, demolisce ogni mia speranza residua. «Non ho preso le misure della camera. Dobbiamo tornare». So che lo aspettavate: questo è il secondo momento in cui impreco sommessamente. Fine anteprima.Continua... Anche in ebook da maggio 2014 a 4,99 euro