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Dispensa n. 9a del corso di PLANETOLOGIA (Prof. V. Orofino) FORMAZIONE PLANETARIA: UN POSSIBILE MODELLO A. CENNI DI FORMAZIONE STELLARE Università del Salento Corso di Laurea Magistrale in Fisica A.A. 2011-2012 Ultimo aggiornamento: Agosto 2011

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Dispensa n. 9a del corso di

PLANETOLOGIA

(Prof. V. Orofino)

FORMAZIONE PLANETARIA:

UN POSSIBILE MODELLO

A. CENNI DI FORMAZIONE STELLARE

Università del Salento

Corso di Laurea Magistrale in Fisica

A.A. 2011-2012

Ultimo aggiornamento: Agosto 2011

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1. Introduzione

Esiste un processo evolutivo che parte dai grani di polvere interstellare e porta

a corpi di dimensioni enormemente più grandi, quali gli asteroidi ed i nuclei cometari

o addirittura i pianeti. Si tratta del processo di formazione planetaria, a sua volta

strettamente connesso con quello di formazione stellare. Nella presente dispensa verrà

descritto quest’ultimo processo, con particolare riguardo al ruolo in esso giocato dalle

particelle di polvere. Il processo di formazione planetaria, in cui i grani di polvere

giocano un ruolo ancor più decisivo, sarà invece trattato nella dispensa successiva.

2. Collasso gravitazionale di una nube molecolare

E’ ormai ben noto che le stelle si formano a causa del collasso gravitazionale

di enormi nubi di gas e polvere interstellare. Il collasso può essere dovuto o ad un

fatto completamente spontaneo (Shu, 1985; Scoville et al., 1986) o anche a

perturbazioni esterne prodotte dal passaggio della nube nei bracci a spirale della Via

Lattea, o dall’esplosione di vicine supernovae (Mueller e Arnett, 1976; Cameron e

Truran, 1977).

Per capire come ciò accada è meglio dapprima chiarirsi le idee riguardo alle

forze che agiscono in prevalenza nel mezzo interstellare, e cercare di vedere in che

modo la loro combinazione possa condizionare l’evoluzione della materia diffusa in

strutture più o meno compatte.

Indubbiamente uno dei protagonisti della vicenda è il campo gravitazionale. In

assenza di altri effetti, l’azione che il campo gravitazionale esercita su una nube

diffusa è essenzialmente aggregante, cioè le particelle che costituiscono la nebulosa

tendono ad avvicinarsi sempre più le une alle altre e la nube occupa un volume

sempre più piccolo.

E’ importante notare che la forza gravitazionale è l’unica di tipo attrattivo che

agisce sulla contrazione. Tutti gli altri effetti che prenderemo in esame sono, invece,

di natura disgregante e, prime fra tutte, le forze di pressione. Infatti il mezzo

interstellare è essenzialmente costituito di gas, che data l’estrema rarefazione può

essere considerato in ottima approssimazione un gas perfetto. La pressione del gas

tende evidentemente ad opporsi alla contrazione.

Altri processi che possono essere descritti mediante effetti di pressione sono

quelli associati a fenomeni di turbolenza. Si definiscono come “moti turbolenti” quelli

che coinvolgono singole parti di nube che si urtano e si rimescolano tra loro in modo

estremamente disordinato generando dei vortici. Si definisce “vortice” una massa di

gas in movimento cui è associato un momento angolare che tende a conservarsi o ad

essere parzialmente scambiato con altri vortici limitrofi.

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La trattazione di tali moti turbolenti è assai complessa soprattutto a causa del

fatto che i vortici hanno scale enormemente grandi (dell’ordine delle frazioni di

parsec o maggiori) e velocità tipiche estremamente elevate (di qualche chilometro al

secondo). Tuttavia, almeno qualitativamente, si può dire che l’insieme dei vortici si

muove in modo disordinato analogo a quello delle particelle di un gas. Queste ed altre

proprietà meno intuitive permettono di trattare l’insieme dei vortici come un gas

perfetto cui si possono associare tutte le grandezze termodinamiche caratteristiche. Si

può quindi parlare di una pressione esercitata dal gas dei vortici.

Oltre alla pressione del gas e a quella dei vortici, esiste anche una componente

legata al campo magnetico interstellare, largamente diffuso nella Galassia, e del quale

peraltro non è ben nota l’origine. Consideriamo una nube molecolare posta in una

regione dove è presente un campo magnetico e supponiamo che essa collassi sotto

l’azione della forza di gravità. Su ciascuna particella carica della nube, che si muove

con velocità v , si esercita una forza di Lorentz pari a BvqFL

(dove q è la carica

della particella e B il vettore induzione magnetica). Tale forza vincola il moto della

particella e influenza la dinamica del collasso. In effetti, siccome la nube è costituita

da particelle cariche, per la proprietà della conservazione del flusso magnetico, il

numero di linee di forza presenti nella nube deve restare inalterato. Pertanto se la nube

si contrae, le linee di forza si avvicineranno tra di loro e la densità di energia

magnetica aumenterà opponendosi ad una ulteriore contrazione della nube. Al campo

magnetico è così associabile una pressione che non è però isotropa come quella

termica, ma dipende dalla configurazione delle linee di forza, in quanto tende ad

opporsi al collasso perpendicolarmente alle linee di forza, mentre parallelamente il

collasso è poco ostacolato1.

Si noti, che la percentuale di particelle ionizzate in una nube molecolare è

molto bassa, essendo circa pari a 10-7 per una nube con una densità di 104 cm-3 (de

Jong et al., 1980). Tuttavia, sebbene la forza di Lorentz agisca soltanto sulle particelle

ionizzate, essa coinvolge indirettamente anche quelle neutre attraverso un

trascinamento dovuto ad una sorta di attrito tra le due componenti chiamato

“diffusione ambipolare” (Shu et al., 1987).

Trascurando per il momento gli effetti del campo magnetico interstellare, le

condizioni sotto le quali una nube inizia a collassare per autogravitazione possono

essere studiate in buona approssimazione esaminando le condizioni per l’equilibrio

idrostatico ed usando per esse il teorema del viriale. Quest’ultimo stabilisce in

sostanza che se U è l’energia di autogravitazione e K l’energia cinetica totale

(comprendente il moto di agitazione termica, la rotazione, etc.), la nube si espande, è

in equilibrio o collassa a seconda che la grandezza X = U + 2K sia positiva, nulla o (

1): In realtà, secondo Shu et al. (1987), la presenza di onde di Alfven, generate da processi di turbolenza, è in grado di ostacolare il collasso anche parallelamente al campo magnetico.

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negativa. Il problema del collasso può allora essere studiato partendo da una

situazione in cui X è negativa ma molto vicina a zero (cioè da una piccola

perturbazione rispetto all’equilibrio) ed analizzando l’evoluzione successiva del

sistema. Quindi:

U + 2K 0 . (1)

Se v è la velocità media delle N particelle di massa media m che compongono la

nebulosa, si ha che:

22

2

1

2

1MvNmvK

con M massa totale della nube; inoltre, circa l’energia gravitazionale si può assumere:

R

cMGU

2

dove R è il raggio della nube, c è un fattore numerico dell’ordine dell’unità, detto

“fattore di forma”, mentre G è la costante gravitazionale. Per questo dalla (1) la

condizione perché il collasso, iniziato a causa dell’instabilità gravitazionale del gas,

possa continuare è che subito dopo l’inizio del collasso la nebulosa acquisti un raggio:

2 kT

mMG

v

cMGR , (2)

dove T è la temperatura del gas e k la costante di Boltzmann.

Naturalmente la condizione (2) deve verificarsi durante tutto il tempo in cui

dura il collasso; perciò, se la temperatura varia, la variazione deve essere tale da

rispettare sempre la diseguaglianza. In caso contrario il collasso si arresta.

Ora all’inizio del collasso la nube è estremamente rarefatta e risulta in generale

trasparente alla radiazione nel visibile. Così la contrazione può avvenire a temperatura

praticamente costante (addirittura leggermente decrescente) perché, almeno fino a

quando la temperatura non è molto elevata, l’emissione infrarossa della polvere e la

diseccitazione degli ioni Si+ e C+ del gas, con conseguente emissione infrarossa, è

sufficiente a smaltire nello spazio l’energia termica dovuta alla liberazione di energia

gravitazionale: in altre parole il processo di scambio termico tra le particelle della

nube non è significativo, per cui l’equilibrio termico con l’ambiente non dipende

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molto dallo stato della nube medesima ad un certo istante. Questa fase del collasso

prende il nome di “collasso isotermo”. Se rappresentata su di un piano log T - log

(dove è la densità della nebulosa), l’evoluzione del sistema è descritta da una curva

molto simile ad una retta, praticamente indipendente dalle condizioni iniziali (v. fig.

1). Poiché allora il secondo membro della (2) resta costante, ne consegue che, una

volta iniziato il collasso, la (2) sarà sempre più valida e quindi il collasso tenderà

asintoticamente alla caduta libera della materia verso il centro della nube senza che la

resistenza delle forze di pressione possa riuscire a fermarla.

L’aumento ulteriore della densità, però, fa si che ad un certo punto (quando è

aumentata di tre o quattro ordini di grandezza, tanto per fissare le idee) la nube non

sia più trasparente alla radiazione UV e visibile ma opaca. Accade cioè che il gas

diventa sufficientemente addensato da rendere il meccanismo di acquisizione di

energia termica molto più efficiente a causa dell’elevato numero di collisioni tra

particelle. Al contrario di quel che avveniva prima, i fotoni UV non riescono più a

penetrare nella nube per formare gli ioni Si+ e C+ che sono i principali responsabili del

raffreddamento della nube stessa; quest’ultima tende pertanto a scaldarsi. D’altronde

la polvere è a temperatura molto bassa (Td << Tg in quanto gli scambi termici tra

gas e polvere sono trascurabili in questa fase), e quindi emette poca energia. In altre

parole la nube intrappola efficacemente l’energia che le viene continuamente fornita

dal campo gravitazionale.

Fig. 1 - Evoluzione iniziale di una nube protostellare in fase di collasso.

Da questo punto in poi l’evoluzione della nube viene meglio descritta da un

“collasso adiabatico” piuttosto che da uno isotermo, cioè lo scambio di calore con

l’esterno è trascurabile rispetto agli scambi interni tra le particelle (v. fig. 1). In tal

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caso, eliminando nella (2) il raggio tramite la densità, si trova che la condizione per il

proseguimento del collasso diventa:

3

1

3

2

Mk

mGT . (3)

Pertanto, poiché il collasso avviene in modo adiabatico 1 T , la condizione

perché il collasso si prolunghi è che sia - 1 1/3, cioè 1.33. Se risulta

maggiore di 1.33, l’aumento di temperatura tende a riportare verso l’equilibrio il

rapporto pressione/gravitazione ed il collasso è destinato prima o poi ad arrestarsi.

Il parametro dipende dall’abbondanza percentuale di idrogeno molecolare ed

atomico ma è comunque pari circa ad 1.5 (è infatti compreso tra il valore = 1.7 per

un gas monoatomico e = 1.4 per un gas biatomico); per questo motivo l’unico modo

per far si che il collasso continui è che la nebulosa riesca in qualche maniera ad

aumentare la propria efficienza di dissipazione dell’energia termica accumulata

durante il collasso adiabatico. In questo contesto la presenza dei grani di polvere è

fondamentale per garantire la continuazione del processo di contrazione. Ciò in

quanto, quando la densità della nube supera i 106 cm-3, gli scambi termici tra gas e

polvere diventano efficienti (Leung, 1985), sicché i grani si riscaldano ad opera delle

collisioni con gli atomi e le molecole del gas e riemettono questa energia sotto forma

di radiazione infrarossa. Tale energia viene così perduta dalla nube dal momento che

questa è trasparente nell’infrarosso. Ma la polvere favorisce il collasso anche in un

altro modo. I grani di polvere hanno masse di molti ordini di grandezza superiori a

quelle delle particelle del gas (circa 10-12 g contro 10-24 g) e quindi non riescono ad

essere sostenuti, come gli atomi e le molecole, dalla pressione del gas. Per effetto

della forza gravitazionale che tiene unita la nube, essi cominciano così a “precipitare”

verso il centro della nube stessa e nel fare ciò comunicano anche al gas circostante

una componente di moto verso l’interno; in questo modo il processo di collasso della

nube viene alquanto facilitato.

Così l’instabilità iniziale determina il collasso di una massa di gas e polvere

pari a 103 104 M; questa nel contrarsi si frammenta in unità minori, dell’ordine di

una massa solare (Coradini et al., 1980). Ciò avviene perché le rapide compressioni

della nube generano fluttuazioni di pressione che agitano il gas, creando, come già

visto, vortici di diverse dimensioni. Si creano così regioni in cui esiste una

disomogeneità nella densità del gas e nella concentrazione delle particelle e, laddove

questa è sufficientemente grande, il gas comincia a ricadere su se stesso dando luogo

alla frantumazione della nube in frammenti che collassano ciascuno con un proprio

moto di rotazione poiché conservano il moto dei vortici originari. Tale

frammentazione della nube agevola il collasso in quanto facilita grandemente la

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perdita di energia per irraggiamento a causa della maggiore superficie radiante. Si noti

che il collasso di ciascun frammento avviene a velocità diverse; in particolare è più

rapido al centro che alla periferia, come dimostrano misure spettroscopiche su alcune

nubi molecolari della nostra Galassia. Queste misure riguardano righe spettrali di

molecole prese a diverse profondità quali, ad esempio quella del CO nello strato più

interno e dell’H2CO negli strati più superficiali. Si nota che le righe del CO

presentano un allargamento Doppler maggiore di quello dell’H2CO, quindi significa

che la velocità delle prime particelle è maggiore (Scoville e Wannier, 1979).

Tutto ciò vale ignorando l’effetto del campo magnetico galattico. Quando si

tiene in considerazione la resistenza che tale campo oppone al collasso della nube,

tramite la forza di Lorentz, si trova che la nube inizialmente a simmetria sferica,

durante il collasso assume ben presto una forma ellissoidale (v. fig. 2). Se indichiamo

con L la misura dell’asse maggiore dell’ellissoide, è stato provato (Mastel, 1985) che

quando risulta:

2

1

0

0 3

G

BLL c

(4)

(dove B è il campo magnetico interstellare, la densità di massa iniziale, mentre è

una costante numerica adimensionale dell’ordine dell’unità), il collasso continua

nonostante la resistenza del campo magnetico intrappolato nella nube. In caso

contrario il campo magnetico riesce ad arrestare la contrazione.

Fig. 2 Modifica del campo magnetico galattico durante il collasso di una nube interstellare.

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Nella (4) si può assumere n(H2)m(H2)10-21 g/cm3 (Myers, 1985),

mentre B20120G (Troland et al., 1986; Crutcher e Kazes, 1983). Si trova così

che Lc è al più dell’ordine di qualche decina di parsec. Siccome diverse nubi hanno

dimensioni superiori a tale valore, queste possono collassare spontaneamente, dando

luogo a stelle senza che il campo magnetico riesca ad opporsi efficacemente alla

contrazione. Per quelle che hanno dimensioni inferiori, invece, c’è bisogno che il

collasso sia in qualche modo favorito dall’esterno.

Come già accennato, una possibilità è che la compressione che si verifica nel

mezzo interstellare quando esso attraversa uno dei fronti d’urto che risiedono nei

bracci a spirale della Galassia agisca nel senso di provocare il collasso di una massa

che sia già prossima alla condizione di innesco del collasso, a causa di precedenti

attraversamenti dei bracci (Gratton, 1978). Durante tali attraversamenti le nubi sono

fortemente compresse e se superano il limite di instabilità condensano in masse

dell’ordine di quelle stellari.

Un’altra possibilità è che il collasso sia innescato da fronti d’urto dovuti

all’esplosione di vicine supernovae (Cameron, 1976). Tale ipotesi, alternativa

all’innesco dovuto all’attraversamento dei bracci, rende anch’essa conto del fatto che

le stelle si formino nei bracci perché le stelle massicce, che danno luogo alle

supernovae, hanno vita breve (pari a 87 1010 anni) e quindi esplodono nei bracci.

Naturalmente le due ipotesi non si escludono a vicenda e i due meccanismi di

innesco del collasso gravitazionale potrebbero benissimo agire contemporaneamente

nel processo di formazione delle stelle.

Le varie fasi del collasso gravitazionale descritte in questo paragrafo sono

illustrate in fig. 3.

3. Formazione del disco protoplanetario

Come si vede dalle figg. 3e e 3f, al termine della prima fase di collasso di una

nube molecolare, si formano concentrazioni di massa più piccole che ruotano, alle

quali si può associare un momento angolare J. Se si considera un frammento, ovvero

una nebulosa protostellare di forma sferoidale di massa M, raggio R, e velocità

angolare , questo risulta dotato, infatti, di un momento angolare: J = k M R2 , con k

coefficiente opportuno che tiene conto della distribuzione non uniforme della massa.

Se si sostituiscono i valori opportuni, si vede che il valore di J è in genere abbastanza

elevato e la sua conservazione ostacolerebbe la formazione di materia attorno alla

futura stella e quindi la formazione di un eventuale sistema planetario. Infatti, durante

il collasso, la nebulosa protostellare, per la conservazione di J, aumenterebbe la sua

velocità di rotazione, espellendo una grande quantità di materiale dalla zona

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equatoriale (Pichet et al., 1996) e favorendo così la formazione di sistemi binari o

multipli. E’ ormai certo che circa i 2/3 delle stelle di tipo solare si raggruppano in

sistemi di questo tipo (Duquennoy e Mayor, 1991), mentre stelle singole sono solo

una minoranza, di cui il Sole presumibilmente fa parte2. Tuttavia essendo interessati

alla formazione del Sistema Solare, ossia di un sistema stellare singolo invece di uno

binario o multiplo, occorre ipotizzare la presenza di qualche meccanismo in grado di

smaltire il momento angolare della nube protostellare (ma non troppo, altrimenti si

potrebbe formare una stella senza pianeti). Il meccanismo, in realtà, non è unico, ma

varie cause concorrono alla sottrazione di momento angolare all’oggetto centrale.

Fig. 3 – Fasi iniziali della formazione del Sistema Solare. (a): Stelle massicce con una breve vita delimitano i bracci. (b): Un’esplosione di supernova crea un’instabilità che provoca la concentrazione di nubi di gas e polvere ad alta densità. (c): Le forze gravitazionali provocano la contrazione della nube a cui si oppone la pressione interna. (d): Se la nube possiede una massa sufficiente la gravità domina e la nube collassa. (e): La nube originaria si frantuma in diversi frammenti. (f): Ogni frammento possiede un suo moto di rotazione (da Cameron, 1976).

(

2 ): Il fatto che esistano tanti sistemi multipli non implica che i pianeti debbano essere rari. In

effetti un pianeta può formarsi anche in un sistema doppio, a patto che orbiti o vicino ad una delle due stelle, o lontano da entrambe (Boss, 1995). In quest’ultimo caso, perché si abbiano orbite stabili occorre che la distanza stella-pianeta sia almeno quattro volte maggiore della separazione tra le due stelle compagne (Doyle et al., 2000).

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La prima causa è evidente; infatti già la frammentazione appena discussa porta

ad una distribuzione del momento angolare totale della nube nei diversi frammenti che

successivamente collassano in stelle. Inoltre non tutto il frammento in fase di collasso

gravitazionale partecipa alla formazione stellare. La materia circumstellare residua

porta con sé un’altra frazione di momento angolare.

Infine la materia circumstellare viene in gran parte spazzata via dal vento

stellare, che compare nelle ultime fasi del collasso gravitazionale della protostella (v.

paragrafo successivo); d’altra parte anche l’interazione del campo magnetico

dell’oggetto centrale con la materia carica circostante è causa di dissipazione di

momento angolare. Infatti, contraendosi la nebulosa trascina con sé le linee di forza

del campo magnetico, cui sono legate le particelle ionizzate del meno denso mezzo

circostante (ma anche quelle neutre, a causa della diffusione ambipolare). Quindi la

nebulosa, cedendo momento angolare al mezzo circostante, rallenta il suo moto di

rotazione, favorendo il collasso verso il centro di una grande quantità di gas e polvere,

che andrà a formare la protostella. Quando la nube protostellare diventa

sufficientemente densa, il processo di dissipazione dell’energia rotazionale si ferma e

di conseguenza anche J si stabilizza su di un valore praticamente costante nel tempo.

Per questo l’ulteriore contrazione della nube protostellare causa un aumento della

velocità angolare, che dà luogo dapprima ad un appiattimento della struttura ed in

seguito porta all’instaurarsi dell’instabilità rotazionale della parte centrale della nube

stessa.

Per esaminare più in dettaglio il fenomeno sopra accennato, si consideri un

volumetto di massa m ad una distanza R dal centro della nube di massa M. Nel corso

del collasso sul volumetto agisce sia la forza gravitazionale:

FG = 2R

GmM (5)

sia la forza centrifuga:

322

22 cos

cosRMk

mJRmFc

(6)

(dove è la latitudine), forza che deriva evidentemente dalla rotazione del volumetto

intorno all’asse della nube.

La (6), che è stata ottenuta ricordando l’espressione del momento angolare J =

k M R2 , mostra che la resistenza opposta al collasso gravitazionale dalla forza

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centrifuga è via via crescente man mano che ci si sposta dai poli (dove Fc = 0)

all’equatore della nube (v. fig. 4). Ne consegue che durante il collasso, la nube si

schiaccia fortemente ai poli assumendo la forma di un ellissoide con una forte

concentrazione di gas e polvere in prossimità del centro. Tale accumulo di materia

dovuto alla più elevata velocità di contrazione nella regione centrale, dà luogo ad un

oggetto, il core della nube protostellare, la cui rapida evoluzione procede

indipendentemente dal resto della nube, dando alla fine origine alla protostella.

Fig. 4 – Effetto della rotazione sul collasso gravitazionale di una nebulosa.

Poiché il momento angolare del nucleo centrale in pratica si conserva, dalla

(5) e dalla (6), dove stavolta M è la massa del core, si vede che durante il collasso la

forza centrifuga, proporzionale ad 1/R3, cresce più rapidamente di quella

gravitazionale proporzionale solo ad 1/R2. Quando queste due forze diventano uguali

in modulo, si verifica quella che viene detta “instabilità rotazionale” (Bakouline et al.,

1975). Evidentemente tale fenomeno riguarda principalmente le regioni equatoriali

del core (0), dove come si vede dalla fig. 4, la forza centrifuga è parallela ed

opposta ad FG. In queste regioni la distanza Rc dal centro necessaria affinché

l’instabilità si manifesti, si ricava dall’eguaglianza della (5) con la (6) che dà:

32

2

GMk

JRc (7)

Quando R = Rc la forza centrifuga bilancia esattamente la forza gravitazionale,

annullandone gli effetti e causando l’instaurarsi dell’instabilità rotazionale3. E’ a

( 3

): Ad esempio nel caso del Sistema Solare l’instabilità rotazionale dovrebbe essere apparsa quando il raggio del core della nebulosa protostellare era circa uguale a 40 UA (Natta, 2000) ovvero quasi pari alla distanza media di Plutone dal Sole.

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questo punto che comincia, principalmente dalle regioni equatoriali, una perdita di

materia che va a formare il cosiddetto “disco protoplanetario”. Tale disco si trova

immerso in una regione costituita da quella parte dell’inviluppo ellissoidale che non

ha partecipato direttamente alla formazione della protostella e del disco, ma che,

cadendo su questi ultimi, incrementa la loro massa. A sua volta la materia del disco,

spiralizzando lentamente verso la protostella, va ad accrescere ulteriormente la massa

di quest’ultima; per questo motivo il disco protoplanetario è anche detto “disco

d’accrescimento”. Al di là dell’inviluppo ellissoidale, in cui gas e polvere sono in

caduta sull’oggetto centrale e sul disco, esiste poi un inviluppo più esterno quasi

statico che di fatto non partecipa al processo di formazione stellare ma che rimane

legato alla nube molecolare d’origine.

Si noti che, secondo alcuni autori, l’instabilità rotazionale non è necessaria

per la formazione del disco, nel senso che il collasso gravitazionale di una nube in

rotazione più o meno rapida porta necessariamente e molto rapidamente (in un tempo

dell’ordine dei 105 – 106 anni) alla formazione di una struttura molto appiattita in

direzione perpendicolare all’asse di rotazione, ossia, di fatto, ad un disco. In effetti,

siccome qualunque oggetto celeste in contrazione è dotato di momento angolare non

nullo, a causa della conservazione di tale grandezza, il collasso gravitazionale avviene

sempre (v. fig. 4) verso un piano piuttosto che verso il punto centrale (Greaves, 2005).

Secondo questo punto di vista il raggio esterno del disco non sarebbe determinato

dalla (7), ma assumerebbe valori più alti (fino a 800 – 1000 UA) vincolati solo dalla

presenza di stelle vicine che con la loro perturbazione gravitazionale potrebbero

strappare le parti esterne del disco, determinandone in tal modo il bordo esterno. Per

esempio nel caso del Sole il disco possedeva probabilmente un raggio esterno di 40 –

50 UA a causa del passaggio di una stella vicina che avrebbe troncato il disco

protoplanetario (Greaves, 2005). In realtà si ha ragione di pensare che il Sole sarebbe

nato in un ammasso contenente stelle molto massicce che avrebbero concluso la loro

breve vita contemporaneamente con la formazione del Sole.

4. Dissipazione del momento angolare dell’oggetto centrale

All’epoca della formazione del disco, l’oggetto centrale si trova in una

condizione di quasi equilibrio idrostatico e può essere pertanto considerato una stella

a tutti gli effetti, anche se alcuni autori preferiscono usare il termine “protostella” a

causa del fatto che al suo interno non si sono ancora innescate le reazioni

termonucleari di fusione dell’idrogeno in elio.

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In questa fase la stella continua a perdere momento angolare. In effetti

l’accrescimento dell’oggetto centrale da parte del disco avviene lungo le linee del

campo magnetico stellare. Quest’ultimo non ruota in maniera solidale con la stella,

ma la sua rotazione può essere tale da far assumere alle proprie linee di forza

configurazioni più favorevoli all’eiezione di materia (nelle regioni polari) piuttosto

che all’accrescimento. Questo spiega perché oggetti giovani presentino violenti getti

intermittenti di materia in direzione dei poli stellari. Questi getti sottraggono, quindi,

altro momento angolare al sistema stella disco (si noti che questo meccanismo

favorisce l’eiezione delle particelle più veloci, in quanto la forza di Lorentz è

proporzionale alla velocità della particella, e quindi concorre a eliminare in maniera

preferenziale le particelle con maggiore momento angolare).

Occorre ricordare, infine, che il campo magnetico stellare si accoppia al

materiale carico presente nel disco e trasferisce a quest’ultimo parte del momento

angolare dell’oggetto centrale. Supponiamo che un campo magnetico a dipolo, più

intenso di quello attualmente presente nel Sole, sia legato alla stella. La materia

parzialmente ionizzata, trascinando con sé il campo, ne modifica la struttura a dipolo:

poiché la velocità angolare della struttura costituita dal disco e dall’inviluppo

circostante è più bassa di quella della stella, le linee di forza si avvolgono a spirale. In

questo processo esse frenano la rotazione della protostella e accelerano la rotazione

della struttura (v. fig. 5). Quando il frenamento della stella diventa importante,

l’instabilità rotazionale sparisce, la fuoriuscita di materia dal disco protoplanetario

cessa e quest’ultimo si distacca dalla stella (Bakouline et al., 1975).

La presenza di una cavità nella parte centrale del disco di accrescimento (Meyer

et al., 1997) è predetta dai modelli di accrescimento magnetosferici, nei quali il campo

magnetico stellare distrugge la parte interna del disco fino a distanze di qualche raggio

stellare; l’accrescimento della stella però continua ad efficienza ridotta, perché, come

proposto da Kenyon et al. (1996), il campo magnetico può incanalare materia del disco

verso l’oggetto centrale, lungo le linee di forza.

I calcoli mostrano che, a seconda che si tratti di una stella di massa moderata

(e quindi relativamente fredda) oppure molto massiva (e quindi calda), l’efficacia di

questo processo di frenamento dell’oggetto centrale differisce a causa dell’esistenza

nelle stelle fredde di una zona convettiva sottostante alla fotosfera che quelle calde

invece non possiedono.

Se il mantello della protostella è sede di moti di convezione, le linee di forza

magnetiche possono penetrare profondamente all’interno e situarsi praticamente nel

cuore della stella. Al contrario se non c’è convezione, le spire si trovano di fatto

all’esterno, ossia nel disco protoplanetario stesso. In queste condizioni accade che

l’accelerazione della rotazione del disco è troppo rapida e di breve durata, sicché

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questo si disgrega senza che la stella riesca a trasferirgli una massa apprezzabile. Così

il disco protoplanetario non ha il tempo di formarsi e la rotazione della stella resta

rapida. Occorre precisare che la teoria appena illustrata (Hoyle, 1960) non è che

un’ipotesi di lavoro, verosimilmente ben fondata, ma pur sempre da verificare.

Bisogna inoltre notare che, come si vede dalla (7), quanto più alto è il

momento angolare della nube, tanto più grande è la distanza dal centro alla quale si

manifesta l’instabilità rotazionale e tanto più grande è quindi la quantità di materia

che non partecipa al collasso verso il centro. In caso quindi di momento angolare

relativamente elevato, il disco protoplanetario sarebbe sufficientemente massiccio.

Fig. 5 – Probabile struttura del campo magnetico in prossimità della stella. (a): Visione schematica laterale della stella, del disco e dell’inviluppo protoplanetario; (b): Visione schematica dall’alto (da Bakouline et al., 1975).

In conclusione, quindi, il collasso gravitazionale di una nube molecolare dà

luogo, a seconda delle condizioni iniziali, alla formazione di una stella di massa

piccola o intermedia circondata da un disco di gas e polvere oppure di una stella

massiccia in genere priva di disco.

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5. Le stelle di presequenza

Come è noto, le stelle per così dire “mature”, quelle cioè che hanno già dato

l’avvio alla fusione nucleare dell’idrogeno nel loro nucleo, sono dette “stelle di

sequenza principale”. Tutte le stelle che non hanno raggiunto ancora questa fase sono

invece chiamate “stelle di presequenza”.

Stelle di presequenza di massa compresa tra 2 e 10 M sono note come “Ae/Be

di Herbig” mentre quelle di massa inferiore (come il nostro Sole) sono denominate “T

Tauri”. Stelle di massa superiore a 10 M sono alquanto rare ed evolvono molto

rapidamente, rendendo il loro studio nella fase di presequenza molto complicato.

Sembra ormai evidente, anche grazie ad osservazioni dirette, che molte T Tauri siano

circondate da un disco di polvere (Burrows et al., 1996). La questione è invece ancora

dibattuta per le stelle Ae/Be di Herbig. Immagini a lunghezze d’onda millimetriche

rivelano la presenza di strutture a disco “scampanato” rotanti attorno alle stelle Ae di

Herbig di massa non troppo elevata (Mannings e Sargent,1997; 2000); queste strutture

sembrano essere ciò che rimane del disco di accrescimento e si pensa che siano

l’ambiente ideale per la formazione planetaria (Bouwman et al., 2003). Non è

altrettanto chiaro se ciò avvenga anche per le più massive Be di Herbig (vedi ad

esempio Bouwman et al., 2003; Elia et al., 2003). Questo perché l’evoluzione delle

stelle di massa superiore è molto veloce e potrebbe essere anche più rapida della

formazione del disco stesso.

5.1 Le stelle T Tauri

Le stelle di tipo T Tauri (indicate da ora in poi con l’acronimo TTS) sono stelle

molto giovani per le quali è ancora in corso la contrazione gravitazionale. In generale

le TTS hanno età compresa tra 105 e 108 anni e massa compresa tra 0.5 e 3.0 M, sono

circondate da materia calda e perdono massa attraverso venti stellari con velocità

tipiche dell’ordine di 100 km/s. Infatti durante la sua evoluzione una stella, prima che

inizi la combustione dell’idrogeno, attraversa una fase di grande instabilità con forte

emissione di vento stellare.

Generalmente le TTS hanno classi spettrali che variano dalla A alla M. Un

oggetto che passa attraverso la fase di TTS, può perdere fino a 0.4 M prima di

diventare stella di sequenza principale (Kaufmann, 1990).

Le TTS sono generalmente stelle variabili con periodo irregolare: l’oggetto

archetipo T Tauri mostra una luminosità nel visibile che varia tra 13 mag e 9 mag

anche se raramente scende sotto 10 mag. Le TTS si trovano nello stato evolutivo nel

quale forti venti stellari disgregano la nebulosa che le avvolge.

Tra la fase di T Tauri e la fusione dell’idrogeno (diverse decine di milioni di

anni) accadono i seguenti due eventi:

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a) evoluzione rotazionale: sostanzialmente si verificano i meccanismi di perdita di

momento angolare già esposti;

b) deplezione del deuterio e del litio: la fusione nucleare di queste due specie avviene

prima che le stelle di piccola massa diventino di sequenza principale; tuttavia l’entità

della deplezione del litio non è ancora del tutto compresa (Bouvier, 1994).

5.2 Le stelle Ae/Be di Herbig

Le stelle Ae/Be di Herbig (HAEBE) presentano variabilità fotometrica con

periodo irregolare. La variabilità di questi oggetti è evidentemente dovuta allo stato

evolutivo nel quale si trovano, caratterizzato da forte instabilità. Le HAEBE possono

essere suddivise in due categorie: quelle (dette “embedded”) che si trovano ancora nel

residuo della nube da cui si sono formate, il quale è responsabile di parte dell’eccesso

infrarosso osservato; e le HAEBE “isolated”, cioè non oscurate dalla nebulosa

protostellare, per le quali l’eccesso proviene esclusivamente dalla materia

circumstellare residua.

Poiché le HAEBE isolated sono lontane dalle regioni di formazione stellare, si

suppone che queste siano più evolute delle corrispondenti embedded.

Gli spettri di alcune HAEBE isolated, ottenuti dal satellite astronomico ISO,

presentano forti somiglianze con quelli delle comete appartenenti al nostro Sistema

Solare. Lo spettro della stella HD 100546 presenta ad esempio una grande varietà di

bande di stato solido, attribuibili a vari materiali sia cristallini che amorfi, la maggior

parte delle quali è anche presente nello spettro della cometa Hale-Bopp (Crovisier et

al.,1997; Malfait et al., 1998; Lellouch et al., 1998).

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