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Forte era il silenzio

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Racconto di Stefano Curreli

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Quel giorno Chretien si svegliò di soprassalto, come avesse ricevuto una secchiata d’acqua in faccia. Subito gli occhi spalancati nella camera silenziosa. Era estate, e il caldo ti svegliava tutto ad un tratto, ma quel giorno, nonostante la bella stagione, un risveglio così, d’impatto, era da dirsi e da giudicare cosa strana, soprattutto se si pensava ai lentissimi e pigri risvegli invernali a combattere contro il dolce torpore del caldo delle coperte. Dalle fessure della persiana filtrava luce matura. Doveva essere già metà mattina. Il sapore del sangue in bocca gli fece ricordare di quale brutta gengivite soffriva. Era luglio, forse i primi di agosto. Chi se ne frega di ricordarsi che giorno è, quando si ha da due settimane – tre al massimo – finito con la scuola. Dato l’esame di maturità, un sessantatré, ma amen e chi si è visto si è visto, finito e non se ne parla più. E per l’università ne parliamo dopo ferragosto, tanto le iscrizioni scadono i primi di settembre, che poi anche se scadono chi ne ha voglia di pensarci, al massimo ci si fa un anno in casa a meditare sulla propria vita e sul proprio futuro. Chretien ci pensò sul letto, ma non era proprio nei suoi piani, pensare alla scuola appena sveglio; l’avrebbe fatto più avanti, magari proprio a fine estate. Scacciò così quel pensiero, rimpiazzandolo con Marica Berdien. Che corpo, gente, roba da evitare di focalizzare i particolari o si diventa pazzi a stare a casa a fantasticarci, in una mattinata d’estate. La sveglia sul comodino distrusse le sue convinzioni riguardo al fatto che era mattina, e appena vide che erano le 15:12 sì catapultò in piedi.

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«Non è possibile, è pomeriggio, sono le tre passate. Ma che cazzo ho in testa?» Non era sua abitudine parlare da solo quando nessuno lo sentiva. Capitava al padre. Roba che a volte lo scorgeva far dei lavori nel garage e lo sentiva parlare da solo, e questa cosa lo infastidiva parecchio, la trovava una cosa davvero stupida. Ma stavolta lo fece anche lui, scandendo le parole, pronunciandole in maniera espressiva, come se qualcuno potesse sentirlo. Ma nessuno lo sentì. Pensò a dove potevano essere i suoi genitori, e Alberto, suo fratello maggiore, perché almeno lui non l’aveva svegliato? E per pranzo, perché nessuno l’ha degnato di un “Ehi, Chretien, dai, è pronto, svegliati, ghiro”? No, nulla di tutto ciò, l’avevano lasciato lì, a dormire, fino al pomeriggio. Cercò di rammentare a che ora si era addormentato il giorno prima, cos’aveva fatto, ma non se ne ricordò. O forse sì, era andato al Tobia Pub con Matti e Giulio, e poi verso le due del mattino erano tornati, e… No, quello era successo due giorni prima. Ieri era rimasto a casa – finalmente, ora si era ricordato – perché dopo il mare era troppo stanco, e dopo cena si era coricato a vedere un po’ di tv, e verso le dieci – dieci e mezzo al massimo – aveva preso sonno. Fece il calcolo istantaneamente: aveva dormito diciassette ore! Scattò in piedi. «Ma com’è possibile?» Stavolta non lo pronunciò come se fosse stato davanti a qualcuno. Anzi, lo farfugliò, con aria spaesata, e fece quasi per risedersi nel letto, ma camminò confuso e pensieroso, con una mano tra la folta chioma castana, verso il bagno.

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«Chi c’è in casa?» gridò. Ma a rispondere fu soltanto l’eco della sua voce che rimbalzava da una parete di una stanza a quella di un’altra, e passando per il corridoio tornava alle sue orecchie. Brutta storia. Arrivato al bagno sputò sul lavandino, saliva rossastra, sangue. Quella gengivite non passava mai, neanche col dentifricio testato da odontoiatri e ricercatori. Era una rogna. Niente di allarmante, si capisce, ma fastidiosa, soprattutto la mattina, che ci si svegliava con quello sgradevole sapore in bocca. Per il resto, durante la giornata si dimenticava pure di averla. Si sciacquò la bocca fin quando il sapore svanì, si diede una rinfrescata alla faccia e, attraversando il corridoio, andò in cucina, si affacciò in salone, sbirciò dalla finestra al cortile, ma nessuna anima viva si presentò alla sua vista. Fu lì che iniziò a pensare che forse poteva essere successo qualcosa di grave. E se qualcuno fosse dovuto correre all’ospedale? Era l’unica spiegazione possibile. Forse era morta la madre, o il padre. Quella pressione era spesso alta, ed era forse a rischio infarto. O forse Alberto, in macchina, mentre stava andando a lavoro. O forse era semplicemente troppo paranoico. Era forse una novità? Cercò il suo cellulare. Tornò in camera, lo trovò, sul comodino, lo prese. Dopo decine di tentativi senza che nessuno rispondesse, né al cellulare della madre, né a quello del padre, né a quello di Alberto, Chretien stabilì che era successo davvero qualcosa di grave, sicuramente una brutta disgrazia. Avesse avuto la patente avrebbe preso la seconda macchina e li avrebbe raggiunti all’ospedale, ma chissenefrega – pensò –

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se è successo qualcosa di grave posso prenderla comunque. In guerra, in amore e – aggiunse – nelle disgrazie familiari è tutto ammesso. Si mise una canottiera e un paio di pantaloncini – le ciabatte le aveva già ai piedi da quando era sceso dal letto – e andò di corsa verso il garage. Impaziente di aspettare la salita automatica della serranda, quando arrivò a meno di un metro si inchinò e entrò. Si raggelò, stupito da ciò che vide. Tutte le macchine erano lì, non solo entrambe quelle dei genitori, ma anche quella di Alberto. Cos’era successo? Dov’erano andati? A fare una scampagnata al parco di fronte? Ma che assurdità erano quelle? Uscì in strada. Chiedere al signor Bardi era la cosa più saggia. Quello lì vedeva tutto e sapeva tutto, non gli sfuggiva mai nulla. Un vedovo pettegolo che da sempre, Chretien, aveva detestato, si rivelò in quel momento la persona più utile che potesse esserci al mondo. Suonò il campanello. Aspettò. Nessuna risposta. Suonò nuovamente, facendo attenzione ora a sentire se aveva premuto bene. Nessuna risposta, ancora e ancora. Si attaccò al campanello ma nessuno rispose mai. Eppure sembrava fosse in casa, le tende aperte, la macchina in strada. Maledizione, quello era proprio un giorno no. Si mise a correre in strada, verso il parco, obiettivo: chiedere informazioni a qualcuno. Un brivido gli percorse la schiena, fino alle gambe. Ora il terrore lo stava incalzando pian piano, accelerò la corsa. Quando si ritrovò all’ingresso del parco, il quale distava circa trecento metri da casa sua, realizzò che non aveva incontrato anima viva. Si girò e vide il suo isolato, così distante, così deserto. Nessuno in tutto il quartiere. Neanche il giorno della finale dei mondiali era successo qualcosa del

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genere. E non ci pensò tanto per dire, ma ci ragionò davvero, perché due anni prima era uscito, il giorno della finale, lui che non lo seguiva il calcio, neanche quando giocava la nazionale, ed erano quasi deserte, le strade. Ma non così, senza nessun’anima. No, così non le aveva viste mai. Si rimise a correre; entrò nel parco. «Dove siete? Cos’è successo?» Gridò con la pelle d’oca in tutto il corpo. Il viso gli si corrucciò, voleva piangere, Chretien, diciannove anni, diplomato da pochissime settimane. Un rumore attirò la sua attenzione, in lontananza. Un brusio, forse un motore, in lontananza. Qualcuno era forse in macchina. Seguì il rumore, veniva dalla parte est del parco. Entrò dentro, lo percorse e, una volta arrivato al centro, andò verso destra. Lo sentì svanire, cambiò allora direzione, lì, ecco, ora lo stava raggiungendo, era sempre più forte. Uscì dalla parte del parco delle altalene e percorse una viuzza, quella di casa di Giulio, e dopo la discesa il rumore si fece sempre più forte, era davvero un motore. La macchina era forse parcheggiata. Girò l’angolo, veniva da una mezza serranda aperta. Con in corpo un timore misto alla voglia di scoprire chi era quell’unica persona che era rimasta nel quartiere, si inchinò, ma la delusione si impadronì di lui. Quello non era il rumore di una macchina, ma attrezzi da meccanico accesi, di un’officina che si era pure dimenticato che c’era, lì, dove ora si trovava. «Ma vaffanculo, Gugnari» disse Chretien, ricordandosi il nome del meccanico che pensava di aver rimosso da quando aveva otto anni e andava a farsi gentilmente, se non le dispiace, mi perdoni, gonfiare le ruote della bicicletta col

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compressore. E si stupì pure, di ricordarsene l’esistenza, ma ancor di più il nome. Uscì dall’officina e, costernato, ma ancor più terrorizzato, proseguì verso la piazza della chiesa. A un certo punto pensò che forse era un sogno. Chi ci avrebbe creduto, a sentire una storia simile? Neanche se lo scrivevi in un racconto, o se lo proponevi come sceneggiatura di un film. Che poi qualche film del genere l’aveva pure visto, Io sono leggenda. Fece un sorrisino, quasi come se fosse il momento di sorridere se si pensa una sciocchezza, perché pensò, giustamente, che Io sono leggenda aveva un senso se tutti erano spariti dalla città. Ma lì non c’era alcun senso apparente, e non c’erano stati gli zombie, così, in una notte, niente di niente, anche volendo trovare spiegazioni strambe. E poi perché proprio lui, l’unico a essere rimasto? Mentre arrivava nella piazza pensò che, così come si era svegliato quel giorno, non si sarebbe mai sognato di svegliarsi, così di colpo come gli era successo, se non in una situazione in cui era accaduto qualcosa di strano. Poi pensò agli alieni, a cui non credeva perché forse tutte le cose che dicono di loro sono cazzate di mitomani complottisti, ma che qualcosa in internet ogni tanto andava a cercarla e qualcosa forse poteva anche essere vera. E poi, come un’illuminazione, pensò che forse era morto, e che quello era l’inferno, e… No – tornò in sé, logico e razionale com’era di natura – non c’era niente che poteva spiegare questa follia logicamente. Ogni tesi era assurda, nulla lo rassicurava, e il terrore lo avvolgeva sempre di più, tant’è che a un certo punto, appena arrivato nella piazza – indiscutibilmente vuota – gli sembrò quasi di svenire, come

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un abbassamento di pressione, ma forse era l’inizio di un attacco di panico, che comunque riuscì a dominare. Mentre si girava intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno – come se poi ci fosse pure bisogno di accertarsene – il suono delle campane lo fece sobbalzare, e per un attimo venne pure rapito dal pensiero che se le campane stavano suonando doveva pur farle suonare qualcuno, ma poi in un frangente di millesimo di secondo realizzò che erano decenni ormai che le campane suonavano da sole, programmate con chissà quale marchingegno. Bene, nulla sembrava più essere sensato. Cosa fare dunque in un mondo in cui non c’è più nessuno? Guardò il campanile, segnava le 16 in punto. Il sole splendeva alto e imponente, e la giornata era inequivocabilmente tra le più belle che si possano desiderare. Così, assuefatto di paura e fradicio di assurdo, Chretien, presa la via principale, si diresse verso la fine del quartiere, deciso ad arrivare a piedi al centro della città. Ci avrebbe messo una mezz’ora scarsa, forse con passo svelto anche soltanto un quarto d’ora, ma ci sarebbe arrivato e avrebbe trovato qualcuno. Non era possibile arrivare lì e trovarci il deserto. No, sarebbe stato davvero troppo. Non poteva essere sparita tutta la gente dal mondo. Forse da un quartiere era possibile – non fu molto convinto neanche di questo – ma da tutto il mondo no, non scherziamo. Sarebbe stata la fine dell’umanità, quelli della ruota, dell’età del ferro, degli antichi romani, degli egiziani, di Gesù, dello sbarco nella luna. Finito tutto così? «Naaa,» bisbigliò stretto tra i denti, «non può essere». Sentì dentro di sé una forza, una speranza. Corse deciso, tra

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le macchine parcheggiate ai lati della strada, i negozi aperti, alcune delle porte spalancate. Sembrava tutto normale, non era avvenuta nessuna catastrofe. Tutto era come sempre, tranne che la gente era sparita. Pensò anche che forse avevano fatto evacuare per via di qualche catastrofe incombente, o di qualche epidemia. Ma subito si ricredette. I genitori non l’avrebbero mai lasciato lì, e poi tutti sarebbero scappati in macchina, avrebbero lasciato il disordine nelle strade. Lì invece sembrava tutto in ordine, e le macchine parcheggiate regolarmente ai propri posti, solo qualcuna in doppia fila, ma quelle ci son sempre. Fu quando arrivò al campo di calcio che la paura smise di scherzare e fece sul serio. Nessun’anima viva neanche al centro della città. «Ma dove siete finiti?» gridò Chretien, con le mani ai lati della bocca per far risonanza. Ma a rispondere fu sempre l’eco della sua stessa voce. Fu lì che realizzò che neanche gli uccelli erano rimasti a fargli compagnia, neanche i cani – non ne aveva incontrato neanche uno da casa sua a lì – niente di niente. Il panico lo buttò a terra. Gemette e pianse, con le mani tra i capelli, come un pazzo, disperato, terrorizzato da quella stupenda giornata di sole. Le gote gli si erano arrossite un po’, durante la camminata. Dopo un tempo indefinito si rialzò, riprendendo a camminare confusamente. Fu poco prima del tramonto, ormai a parecchi chilometri da casa sua, che accusò la fame. Non aveva mangiato nulla, in tutto il giorno, e aveva soltanto alternato pianti a momenti di apatia totale, in cui camminava come un automa, senza personalità né sentimenti.

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Poche decine di metri più avanti si ricordava che c’era un panificio. Se la gente è sparita dopo le prime ore della scorsa notte, pensò, il pane hanno fatto in tempo a farlo. Non dovette aspettare di trovare il pane nelle ceste come ovviamente trovò quando entrò nel panificio, per capire che la risposta alla sua domanda era positiva, poiché mentre lo raggiungeva pensò che era stato uno stupido ad avere certi dubbi, poiché visto che i negozi erano tutti aperti, la gente doveva essere sparita quella mattina, e non di notte. Si mangiò qualche panino all’olio, più per esigenze fisiologiche che per piacere, e continuò a camminare fino a quando, col buio che ormai era calato da parecchio tempo, si accasciò in prossimità di un’isoletta di traffico con l’erba soffice e incolta, addormentandosi. Il giorno dopo si risvegliò stanco, come se non avesse chiuso occhio, confuso come mai era stato e con la sensazione di non aver fatto sogni, lui che ne faceva sempre a decine e che te li raccontava, poiché li ricordava per filo e per segno che solo Dio sa come faceva. Camminò fino alla città vicina, una ventina di chilometri, quasi senza accorgersene, ritrovandosi a una nuova notte, e riaddormentandosi in un’altra superficie soffice. Non piangeva neanche più, Chretien; solo rideva, delle volte, dopo alcuni giorni – o forse erano passate settimane? – che un giorno rise a squarciagola per un cartello che il vento aveva mosso così, di punto in bianco; e anche la pioggia aveva la sua comicità. E se pensava a quanti giorni erano passati da quando era partito da casa sua per quel viaggio così lungo, nelle città deserte, neanche poteva più darsi una risposta esatta. Forse due mesi? O di più? Forse un anno?

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Nutrirsi non era un problema. I negozi erano aperti, si sa. E anche se pane non poteva più mangiarne, così duro come ormai lo trovava, poteva sempre aprire pacchi di biscotti negli scaffali, merendine, e ogni schifezza possibile e immaginabile, tutte per sé. Grandi risate allietavano le sue giornate, da morire dal ridere, a volte dal buttarsi persino a terra, fino a quando i crampi non gli consigliavano di calmarsi e di tornare serio. Tutto ormai faceva ridere un sacco, le foglie mosse dal vento, il silenzio assoluto, le nuvole. Ma poi all’improvviso arrivavano quei momenti, certi giorni, in cui gli sembrava, in lontananza – chissà a causa di quali giochi di luce – di scorgere una sagoma umana, e allora tornava serio, con la speranza di incontrare qualcuno. Ma poi si avvicinava, e la sagoma prendeva le sembianze di quella che era, sempre tutto tranne che un’altra persona, e Chretien deglutiva, terrorizzato, con in bocca il sapore del sangue di quella brutta gengivite. E allora era meglio ridere e non ricordarsene, che si stava tutti soli senza sapere neanche perché, a impazzire di solitudine.