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novelle di antonio ortalli
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Dialoghi su frammenti d’archivio, novelle di Antonio Ortalli tratte
da storie vere recuperate nell’archivio parrocchiale di Varsi
Fotoritocchi di Flavio Nespi
Indice:
Il capitano dei briganti
La caccia agli “animali malefici”
La frana catastrofica
L’Arciduchessa a Varsi
Una beffa dei carbonari in Val Ceno
Il capitano dei briganti
Il parroco di Rocca, Don Pellegrino, era
particolarmente agitato in quel giorno di
primavera dell’anno di grazia 1806, come
spesso accadeva quando ricordava un suo
parrocchiano assai stimato, di cui, in quei
giorni, attendeva notizie con trepidazione.
Si trattava del capitano Gaspare dei Lamberti,
fatto prigioniero dai soldati del generale Junot.
Quest’ultimo, celebre ufficiale francese, era
stato scelto dall’imperatore Napoleone come
amministratore dei territori di Parma e
Piacenza, a febbraio, per sedare
definitivamente, in modo a suo dire esemplare,
la rivolta scoppiata nelle valli del Taro e del
Ceno e nelle confinanti valli piacentine.
“L’hanno condotto con altri ribelli in Piemonte,
nella Val Chisone per processarlo” disse Don
Pellegrino rivolgendosi a Don Raffaele,
arciprete di Varsi, suo ospite in visita a Rocca
come vicario foraneo.
“Non nutro più speranza per lui” continuò
“temo che gli sarà riservata la stessa sorte di
Don Giovanni e di Don Matteo, giustiziati
senza pietà per aver benedetto gli insorti.
Questi francesi non si fermano di fronte a
nulla! Hanno incendiato villaggi, fucilato gli
abitanti trovati con le armi, condannato al palo
o alla berlina come briganti tanti nostri
valligiani” sbottò, infine, alzando le braccia al
cielo come colpito da un fulmine.
“Si calmi” fu il pacato, ma deciso invito del
quasi ottantenne arciprete di Varsi.
“Non tutti i ribelli sono stati giustiziati: è
probabile che condannino il capitano,
alle ingenti spese dell’armata napoleonica che
saccheggia ovunque transita”.
“Ma, parlando con il senno di poi” disse Don
Raffaele con l’amaro in bocca “come
pensavano di poter conquistare la fortezza di
Bardi, così ben munita per ogni assalto? Senza
esperienza di cose guerresche, armati di vecchi
archibugi, di falci, forche ed altri attrezzi da
lavoro, per loro non c’era speranza.
“Forse si erano illusi” intervenne allora Don
Pellegrino “ a causa delle notizie ingigantite
nell’eco, della ribellione parallela della valle
del Taro e di quelle piacentine, con la
“liberazione” di Salsomaggiore e di Scipione a
come tanti altri, al carcere duro”.
“Gaspare non è una persona qualunque:” riprese Don
Pellegrino
“infatti è stato scelto come comandante da tutti i
ribelli della Val Ceno. Del resto, di un capo ha le
qualità e specialmente l’ascendente. Suo padre, il
vecchio Antonino e sua madre Teresa, sono molto
fieri di lui”.
A queste parole Don Raffaele ricordò gli incontri con
il capitano, ospite della comunità di Varsi in
circostanze significative e festose. Lo rivide
sorridente andando con la mente ad un recente
passato, in veste di padrino al battesimo del piccolo
Gaspare, Melchiorre, Baldassarre, figlio di una sua
parente.
Don Pellegrino, riprese più quietamente dopo la
pausa:
“ li hanno chiamati “briganti” ma erano solo dei
ribelli disperati contro Napoleone all’apice del potere
e della gloria in un’Europa tutta genuflessa ai suoi
piedi”.
“Ho saputo” intervenne Don Raffaele
“da amici di Bardi, che questi cosiddetti “briganti”
provenivano dalla
mia Val Lecca, da Boccolo, dalla Val Noveglia….
“Non c’è da meravigliarsi” riprese Don Pellegrino
“che i nostri montanari costretti, d’un tratto, ad
adattarsi a un mondo nuovo, opposto al precedente, si
siano ribellati. Il governo francese ha infatti imposto
il reclutamento forzoso dei giovani, la requisizione
dei raccolti e degli animali, l’aumento delle tasse per
far fronte
resta incerta”.
A questo punto, si fermò: aveva sentito bussare alla
porta: era Maria, abitante a Varsi, parente del
capitano:
“Don Pellegrino” disse con voce velata e commossa,
restando sulla soglia
“ il maire di Varsi mi ha ufficialmente comunicato,
stamane, che Gaspare è morto. Probabilmente, si
mormora, di stenti e di percosse nella fortezza di
Finestrelle, dove era stato rinchiuso in attesa del
processo. Ora non mi resta che recare la triste notizia
ai Lamberti”.
“Sarà un momento difficile! E’ opportuno che venga
anch’io”. Disse sottovoce e scosso Don Pellegrino.
dicembre e, a capodanno, di Pellegrino ad
opera del loro capo l’ormai celebre “Generale
Mozzetta” così soprannominato perché, ad ogni
soldato francese catturato, faceva mozzare due
dita della mano destra rendendolo inabile alla
guerra”.
“Invece” continuò Don Pellegrino “ i ribelli
della Valceno hanno semplicemente assediato
per una settimana, dal primo al sette gennaio, la
fortezza di Bardi, suonando spesso le campane
a martello con l’intento di radunare il popolo e
di coinvolgerlo nella lotta, ma invano.
“Tutto si è risolto, in breve, in una catastrofe”
intervenne Don Raffaele “ ho letto gli ordini
dell’Imperatore, resi noti dal generale
Junot….Fate bruciare cinque o sei paesi, fate
fucilare una sessantina di persone, procedete
con degli esempi estremamente
severi….”.allora Don Pellegrino di nuovo alzò
la voce, ripetendo la sua antifona antifrancese:
“ e, infatti, hanno incendiato, rubato, distrutto,
ucciso e fatto dei prigionieri, la cui sorte, come
quella del capitano,
La caccia agli “animali malefici”
Il signor Gaspare, ricco proprietario terriero di
Golaso e stimato podestà di Varsi, s’avviò deciso
alla casa canonica per incontrare l’arciprete Don
Luigi, suo congiunto, in quel tardo pomeriggio di
metà febbraio del 1842.
Lo scopo della visita era semplice: avvisare il
Vicario dell’intenzione di confermare il
reclutamento, tra i numerosi e valenti cacciatori
della zona, di due esponenti del clero: Don
Girolamo di Varsi e Don Giuseppe di Tosca.
L’arciprete accolse il podestà con grande affabilità:
“entra pure, sono felice che tu sia venuto a
trovarmi”.
Il signor Gaspare, dopo brevi convenevoli, espose
in sintesi e con chiarezza il problema che
affliggeva molti abitanti del comune:
“a causa delle abbondanti nevicate” incominciò,
“numerosi lupi, da alcuni anni, assalgono e
sbranano le capre e le pecore creando gravi
problemi ai già miseri contadini. Le prime
uccisioni di questi ‘animali malefici’, di cui sono a
conoscenza risalgono al marzo di circa sei anni fa
quando Giovanni di Tosca, con l’aiuto di altri
quattordici esperti cacciatori, ne freddò due in un
bosco del monte Barigazzo. Stando al rapporto
presentatomi con la richiesta del premio, Giovanni
scoprì in una radura sopra Tosca due lupi che dopo
aver sbranato un caprone, lo stavano velocemente
divorando. Egli cautamente si avvicinò armato di
un nodoso bastone ma i lupi, pur percependo la sua
presenza, spinti dalla fame non fuggirono, anzi
continuarono avidamente e con ferocia il
Recentemente a ‘Verdera’ un gruppo di Contile e,
nella selva del Pizzo d’Oca un gruppo di otto
cacciatori di Tosca con sei battitori hanno in totale,
con grande destrezza, ucciso ben quattro lupi
dall’aspetto molto feroce.
Il problema per me podestà è questo: il
commissario ducale di Borgotaro ritiene che sia
eccessivo il numero di cacciatori che si aggirano
nei boschi del nostro comune, armati di archibugio,
con il pretesto di uccidere gli ‘animali malefici’.
Molti, infatti, approfittano dell’emergenza per
cacciare di frodo tutta la selvaggina disponibile.
Volendo evirate questi abusi il comandante dei
pasto. Allora Giovanni, un po’ preoccupato, corse a
Tosca a chiedere aiuto. Un nutrito gruppo di battitori
e di cacciatori accerchiò il bosco riuscendo a snidare e
ad abbattere i lupi. Il compenso premio fu di 24 lire.
Il terzo lupo sempre nel ’36 fu ucciso nei boschi della
‘Bavosa’ in località detta ‘la Fontana’.
Accerchiato da ben 38 cacciatori, tiratori infallibili,
tra cui anche il tuo confratello Don Giuseppe, parroco
di Tosca, per il lupo non ci fu via di scampo.
Nel rigidissimo inverno dell’anno seguente, in un
bosco di faggi di alto fusto sul monte Dosso, fu ucciso
un altro di questi ‘animali malefici’ di grossa taglia,
con i denti logori e il pelo irto e grigio dall’età di sei o
sette anni. Girolamo di Pessola lo abbatté con una
palla d’archibugio in mezzo al cranio: ricevette il
premio di 12 lire nuove da spartire con gli altri 10
cacciatori del suo gruppo. Nel’38, Francesco di Tosca
ne trascinò uno fino alla sua abitazione
dall’impressionante pelo grigio irto dopo averlo
colpito tra i faggi del Barigazzo. In questi ultimi tre
anni c’è stato un crescendo di volontari nelle varie
frazioni: tutti alla ricerca di un premio in denaro.
Ricordo con esattezza l’avventurosa e stimolante
caccia sulla vetta del rio Goletta in località ‘Ronc
dona’. Là, tra i faggi, Giuseppe di Rocca uccise la sua
preda e conquistò le nove lire di premio.
dragoni chiede i nomi dei componenti le squadre e
mi ordina di dimezzarne il numero.
Io vorrei confermare, con tua licenza, il parroco di
Tosca e Don Girolamo di Varsi, due persone
pienamente affidabili.”
“Va bene” rispose l’arciprete
“concedo la licenza considerato che si tratta di un
servizio alla comunità…però non indurre troppo in
tentazione i miei preti…. Potrebbero anch’essi
uccidere qualche leprotto per le ‘penitenze
invernali'”!
La frana catastrofica
Don Antonio, priore di Pessola, s’avviò con passo
deciso verso la canonica di Varsi.
Il freddo era intenso, in quel giorno d’inizio
febbraio del 1856.
Ad aprirgli la porta fu il gioviale arciprete Don
Giuseppe, originario di Tosca.
Subito con squisita cordialità ed affabilità invitò
il confratello ad entrare e ad accomodarsi presso
il piccolo e nero camino. Don Antonio aveva il
volto serio, teso e sofferente di chi ha trascorso
giorni e notti nel dolore e nell’angoscia.
“Sono passato da Lei, Arciprete, per
comunicarle” iniziò dopo esenziali convenevoli:
“Che scenderò con il vetturale del paese a Parma.
Intendo presentare a Sua Altezza Reale la
duchessa reggente Luisa Maria un dettagliato
memoriale con lo scopo, considerate le
interminabili angustie della mia popolazione, di
ottenere dal Governo un congruo sussidio per le
più impellenti necessità e di trattare poi della
ricostruzione della Chiesa distrutta”.
“Quando alcuni giorni fa sono salito nella zona di
Pessola” disse allora l’Arciprete “ e ho potuto
vedere, anche se da lontano, l’immane
smottamento, sono rimasto senza parole!”
“Tutto iniziò il giorno più funesto della mia vita:
il 14 gennaio scorso” sussurrò con un sospiro,
quasi gli mancasse il fiato, Don Antonio “ Una
frana terribile e immensa scese con velocità
impressionante verso il torrente Pessola dalla
cima del Dosso distruggendo tutte le opere
dell’uomo: case, stalle, fienili, campi coltivati.
Gli spaventati abitanti spontaneamente accorsero
in tutta fretta alla Chiesa e trovarono me intento a
togliere e portare in salvo i sacri arredi, dopo aver
celebrato l’ultima S.Messa in quel santo ed amato
luogo ed aver consumato tutte le ostie
“Dove celebra le sacre funzioni?” chiese ancora
l’Arciprete.
“Per il momento ho scelto l’Oratorio della “Casa
Grande”. Proporrò di costruire la nuova Chiesa in
alto, in luogo sicuro, circondandola di abitazioni,
che sostituiscano quelle crollate”.
“Da parte mia, come Vicario foraneo” concluse
l’Arciprete “ho avvisato il Vescovo chiedendo
aiuti urgenti. Spero in una prossima risposta
generosa”.
consacrate. Insieme tentammo di rincuorarci sperando
di trovare rifugio e soccorso nelle vicine ville da dove
però sentimmo giungere agghiaccianti grida per
sciagure simili alle nostre. Già verso le dieci
antimeridiane gli abitanti della zona si trovarono
spettatori impotenti ed atterriti dalle orribili crepe
presenti ovunque si posasse il loro sguardo.
Quando velocemente calò la lugubre sera invernale
nessuno ebbe più il coraggio non solo di entrare, ma
anche semplicemente di avvicinarsi alla propria
abitazione per paura di crolli improvvisi.
Insieme con me, una parte di questi sventurati abitanti
si sistemò presso le case della “Corticella” nella
speranza di un rifugio sicuro. Ma la mattina del giorno
seguente vedemmo purtroppo che anche là, sebbene in
misura più ridotta, il pericolo era presente.
Cira trenta famiglie furono costrette, in breve tempo,
ad abbandonare tutto, peregrinando con il lutto nel
cuore alla ricerca di ospitalità nelle ville più sicure”.
“Quando crollò la bella Chiesa di Pessola a tre navate
e con cinque altari?” Chiese l’Arciprete.
“In capo a quattro giorni” rispose mesto Don Antonio
“La Chiesa era già in parte crollata: le crepe della parte
ancora in piedi erano impressionanti. Il sacro luogo di
preghiera costruito circa due secoli prima dai nostri
devoti antenati non esisteva più. Anche la torre di
pietra cadde il giorno 28 dello scorso mese”.
“E la canonica?” s’interessò l’Arciprete. “Il rustico
della canonica alzato dalle fondamenta solo un anno fa
con camere, cantine e granaio rovinò in pochi giorni.
Anch’io ora sono ospite dell’uno e dell’altro”.
L’Arciduchessa a Varsi
Presso la “porta del lago” di Varsi, proprio là,
dove passava la pubblica via, regnavano
intensi il fermento e l’agitazione.
Il podestà e i notabili della zona, parati per le
grandi occasioni, si scambiavano le
recentissime indiscrezioni trapelate dal messo
portaordini giunto da Pellegrino, dove
l’arciduchessa Maria Luigia aveva trascorso la
notte con il suo seguito.
Impassibile e discostato era, invece, l’arciprete
dottor Don Giuseppe con cotta candida e
mozzetta paonazza, segno distintivo della sua
carica di vice vicario foraneo. Stava infatti
mentalmente ripassando il discorso di
benvenuto tutto incentrato sull’onore toccato a
Varsi, nella sua storia, per la visita di due
sovrani: Ottavio Farnese nel passato e, ora
l’arciduchessa Maria Luigia, delizia dei
popoli, inclita prole della casa imperiale
d’Austria, a cui erano indirizzati gli omaggi, i
voti augurali e i doni delle autorità e del
popolo di Varsi, così come recitava
l’iscrizione latina esposta presso l’oratorio al
centro del paese.
L’Arciprete inoltre si chiedeva preoccupato se
la Sovrana avrebbe gradito il suo dono, che
tanto impegno gli era costato nelle ricerche
d’archivio. Si trattava di un manoscritto:
“Storia della Comune di Varsi”, in cui,
seguendo lo schema abbozzato nel “liber
censualis”, tracciava brevemente la storia del
paese, attingendo da importanti documenti.
Finalmente, verso mezzogiorno, l’attesa,
sempre più nervosa, fu interrotta dall’arrivo
del drappello a cavallo, che precedeva le
carrozze.
“Perché” rispose il parroco con sollecitudine
“Gambon era il soprannome del mezzadro dei
conti feudatari, proprietari del terreno”.
Là, gli esperti contadini del paese, eseguendo
gli ordini del Podestà avevano preparato un
cosiddetto “padiglione”: una specie di grossa
capanna coperta con i rami dei salici, che
circondavano il lago.
La Sovrana e il seguito si sedettero per il
pranzo.
Rivolgendosi al parroco e al podestà del
comune signor Michele di Pessola,
L’arciprete strinse il libro tra le mani e si avvicinò con
gli altri notabili.
La giovane trentenne, avvenente Sovrana discese
lentamente, con movenze ricercate e solenni dalla
carrozza, sorridendo benignamente ai suoi sudditi
soggiogati ed ammutoliti per l’inconsueto spettacolo.
L’Arciprete, facendosi interprete dei voti delle autorità
e di tutto il popolo diede il benvenuto con le parole di
circostanza così accuratamente studiate e ripassate
nella lunga attesa. Poi, inchinandosi, pregò la Sovrana
di degnarsi di accettare, come dono, l’umilissimo libro
di ricerca storica da lui preparato con diligenza e
passione.
L’Arciduchessa amabilmente rispose:
“E’ un omaggio a noi gradito, perché ci permette di
conoscere la storia di un paese del nostro Ducato”.
Presso la Sovrana spiccava tra tutti, per il suo tratto
signorile, il conte Neippberg: alto, elegante
nell’uniforme di generale, aveva una banda scura, che
gli copriva l’occhio destro.
Tutto il corteo, con la dama d’onore, l’aiutante di
palazzo e altri paggi, rampolli della nobiltà, s’avviò
lentamente, tenendo la sinistra, verso l’ampio spazio,
ancora verdeggiante in quella limpida mattina di
settembre, alla parte opposta del piccolo, ma pittoresco
lago, che rifletteva, nelle sue tranquille acque,
l’imponente e imminente profilo del monte Dosso
“Perché” chiese l’aiutante di palazzo all’Arciprete
“questo luogo è chiamato, come ho appena udito,
“prato Gambon”?
nervi. Ora, invece, trascorsi alcuni mesi di lutto,
sembra essersi ripresa”.
Non poteva sapere l’Arciprete che circa un mese prima
la Sovrana si era unita, in seconde nozze, al conte
Neippberg, regolarizzando con un matrimonio
morganatico, celebrato in gran segreto, una situazione
irregolare.
“Non riesco ancora a capacitarmi” continuò a
bisbigliare l’Arciprete
“Che Maria Luigia sia qui, in carne ed ossa, al lago di
Varsi”.
Tutto, sebbene l’ambiente fosse rustico,evocava il
lusso di corte: la cucina molto raffinata, il servizio alla
francese, le vivande presentate nella maniera più
elegante e fantasiosa, il pane bianco di ottima qualità.
“Mi pare di sognare” sussurrò di nuovo il parroco al
podestà, molto a disagio tra tutti quei nobili cortigiani.
l’Arciduchessa disse con condiscendenza:
“Vogliano lor signori accomodarsi tra i miei
commensali, come graditi ospiti”.
“Quale insperato onore!” pensò l’Arciprete
inorgoglito, ma nello stesso tempo un poco
intimorito, nonostante la sua lunga
frequentazione delle case nobiliari.
“Sono stato invitato dalla figlia
dell’Imperatore d’Austria: una Sovrana che ha
frequentato le corti più celebri d’Europa e gli
uomini più potenti della terra”. Borbottò tra
sé.
“Ricordo” disse il Podestà, quasi bisbigliando
nel timore di essere udito, rivolgendosi
all’Arciprete “Che quando nacque il figlio di
Napoleone e dell’Arciduchessa, allora
imperatrice dei francesi, noi di Pessola con
alcuni giovani di Varsi, per festeggiare
l’avvenimento ed eseguire gli ordini ricevuti
dalle autorità, accendemmo dei grandi fuochi,
detti “falò” sul monte Dosso”.
L’Arciprete, anch’egli con un fil di voce
sussurrò:
“Mi avevano riferito che la recente morte del
marito ex imperatore, l’aveva profondamente
scossa, si sussurrava che era molto dimagrita e
sofferente di
Di nuovo, la Sovrana ricevette altri doni
d’omaggio dalle mani dell’Arciprete: alcuni
minerali del luogo e antiche medaglie trovate
in alcuni scavi.
Poi, quasi processionalmente, tutti si recarono
nella chiesa parrocchiale di San Pietro, dove
l’Arciduchessa e il suo seguito assistettero
devotamente al rito della Benedizione
Eucaristica.
L’Arciprete intimamente soddisfatto per la
buona riuscita della visita, si fece coraggio e
chiese alla Sovrana se desiderasse conoscere il
luogo dove, secondo le sue ricerche, era stata
sepolta un'Imperatrice.
All’assenso benevolo dell’Arciduchessa il
parroco, sentendosi di nuovo protagonista e al
centro dell’attenzione, puntò il dito verso
l’altare della cappella della Beata Vergine del
Rosario, dicendo:
“Ecco il luogo della pietra sepolcrale, sotto cui
sono racchiuse le ceneri di Ageltrude moglie
di Guido e madre dell’Imperatore Lamberto:
secondo una scheda presente nell’archivio
Vescovile di Piacenza, fu sepolta qui a Varsi
L’Arciprete si intrattenne, per lo spazio di due ore,
discorrendo amabilmente, informandosi delle più
minute cose e dirigendo la parola ora da uno ora
all’altro commensale.
L’Arciprete pensò: “Questa è un’esperienza, che
nessuno dei miei confratelli può vantare!”.
Terminato il pranzo il corteo si avviò lentamente verso
il paese.
In attesa, presso l’oratorio della Beata Vergine del
Dosso, detta volgarmente della Canala, c’era tutto il
clero della zona in cotta come nelle solenni cerimonie
religiose.
Là,troneggiava la scritta di omaggio e benvenuto:
“MARIAE ALOISIAE SEMPER AUGUSTAE,
DELICIAE POPULORUM,
DOMUS AUSTRIACAE, INCLITAE PROLI,
OMEN, TRIBUTA ET VOTA PODESTAS,
POPULUSQUE VARSII”.
nell’899.
Il parroco, ancora una volta, rimase
profondamente colpito dall’evidente interesse
dell’Arciduchessa per tutto ciò che la
circondava.
Conclusa così la visita, la Sovrana, dopo i
ringraziamenti di rito e le elargizioni ai poveri,
si avviò verso Bardi, tra l’emozione grande
degli abitanti che avevano vissuto, in quell’11
settembre 1821, un’esperienza
indimenticabile.
Una beffa dei carbonari in Val Ceno
Il Vescovo di Piacenza aveva stabilito, tra le uscite
programmate per l’agosto 1825, nell’ambito della
visita pastorale, di recarsi a Varsi, importante chiesa
plebana della Valceno.
In preparazione dell’avvenimento, era stato
organizzato, nella sede vicariale, un solenne triduo
di predicazione tenuto dai reverendi padri di S.Maria
di Campagna per il popolo e per lo stuolo di
adolescenti, di giovani e non più giovani candidati a
ricevere il sacramento della cresima.
Complessivamente erano 362!
Con tutto il suo seguito scortato da un drappello di
guardie d’onore, Mons. Vescovo, da “Galla”, salì al
castello di Goloso, dove, ospitato con magnifico
trattamento, alloggiò durante gli otto giorni di
permanenza necessari per visitare, con l’aiuto dei
segretari, tutte le parrocchie dipendenti da Varsi.
L’illustre Arciprete del capoluogo: Don Giuseppe,
dottore in teologia e in “Utroque Iure”, come di
solito amava qualificarsi sottoscrivendo gli atti
“manu propria” era, in quel periodo, costretto a letto
da una lunga infermità.
Il nobile Vescovo, con un atto di squisita
condiscendenza, si recò a trovarlo nella sua
abitazione. Quando fu introdotto nella stanza
dell’ammalato, esauriti i cerimoniosi convenevoli,
disse:
“il suo medico mi ha riferito che lei, ora, si avvia
alla fase di convalescenza”.
La risposta dell’Arciprete, pur nell’emozione per
l’inatteso e grande onore della visita, non fu priva di
una sottile punta di sarcasmo, che l’alto prelato, al
momento, non seppe spiegarsi:
“de visu” sulla sua salute, sono venuto per avere,
come suo superiore, dei chiarimenti di prima mano,
a proposito dei guai causati a lei proprio da questi
cospiratori del ‘21”.
“Ci siamo, dovevo aspettarmelo” pensò Don
Giuseppe
“ecco il tanto temuto “redde radionem”.
Ma, nulla lasciando trasparire all’esterno, anzi
ostentando grande calma, rispose:
“Mi hanno usato per una beffa, forse sapendo che
sono un tradizionalista. Una beffa, ripeto, che non
meritavo e che mi ha addolorato non poco, perché
studiata ad arte con la collaborazione di un giovane,
che io, come precettore, avevo allevato con ben altri
principi!”.
“La sacra scrittura c’insegna che:”maledictus homo,
qui confidat in nomine”, maledetto l’uomo che
confida nell’uomo e, celiando, aggiungo io,
specialmente nel medico. Dopo le esperienze di una
vita, pongo la mia fiducia solo nel Signore: però, si, è
vero, mi sento meglio”, concluse sorridendo.
Il Vescovo riprese la parola cambiando discorso con
precisa intenzione:
“Ieri sera, durante la cena, il mio generoso anfitrione
di Golaso, sempre ben informato, mi ha riferito che la
nostra augusta sovrana Maria Luigia, nella fausta
ricorrenza del suo giorno onomastico, ha mostrato la
sua clemenza nei confronti dei carbonari condannati
nel’23 per crimini di stato, tra questi anche due della
Val Ceno che lei, Arciprete, conosce: il notaio di
Bardi e l’esattore di Varano, attualmente rinchiusi nel
castello di Compiano per scontare otto anni di
prigione. Anche a loro è stata posta l’alternativa o di
abbandonare la patria per tutto il resto della rimanente
condanna o di continuare la reclusione, con il
condono, in questo caso, di tre ani di pena”.
“Quale è stata la scelta dei due prigionieri?” sbottò
l’Arciprete oscurandosi in volto e sobbalzando sul
letto nel tentativo di sedersi.
“Sono rimasti nel forte di Compiano”.
Fu la concisa risposta del Vescovo, che, subito dopo
un’imbarazzante pausa di silenzio, riprese:
“Lei ha già inteso, da questa mia premessa, che oltre
alle informazioni
“Per la sensibilità e la gentilezza dimostrata dal conte
e l’invitai a pranzo. Accettò di buon grado e
m’informò, come fosse cosa di nessun conto, di aver
convocato presso la mia abitazione il signor notaio di
Bardi per trattare affari…A questa notizia, datami con
eccessiva disinvoltura, un poco mi allarmai e gli
spiegai che, secondo alcune voci circolanti a Bardi, il
notaio risultava affiliato una di quelle società segrete,
forse la Carboneria, di cui alcuni stati erano infetti.
Ma il mio ospite, meravigliandosi per l’importanza da
me attribuita alle dicerie, mi rassicurò che, per quanto
lo riguardava, doveva trattare solo affari: un credito di
suo padre per una partita di frumento venduta ad un
conoscente del notaio”.
“Non ebbe mai il sospetto di essere strumentalizzato
proprio dal suo ex allievo?” chiese il Vescovo
sorpreso e con un tono di velato rimprovero:
“Solo all’inizio, per un attimo” rispose sinceramente
l’Arciprete
Allora il Vescovo, assumendo un atteggiamento
d’impaziente attesa, disse:
“Mi racconti, con animo sincero, come davanti al
suo confessore, quello che veramente accadde”:
“Nell’ottobre del 1820” incominciò allora
l’Arciprete
“stavo celebrando la S.Messa nella mia Chiesa,
quando vidi, genuflesso in fondo, dove la luce delle
candele non arrivava a rischiarare adeguatamente,
un giovane dall’aspetto e dagli atteggiamenti
signorili. Terminato il rito si presentò in sacrestia e
subito, con gioia, lo riconobbi: era il conte
Francesco, originario di Reggio, ma residente,
allora, a Parma presso uno zio: era stato mio
discepolo quando, come precettore, avevo dimorato
nella casa dei suoi genitori, dal 1807 al 1812”.
“Come mai era venuto fino a Varsi?” chiese
incuriosito il Vescovo.
“E’ proprio la domanda che gli posi, dopo i primi
convenevoli. Con grande naturalezza mi rispose che,
essendosi recato in un paese vicino, aveva sentito il
desiderio di venirmi a trovare. Fui molto contento”
proseguì l’Arciprete.
Una vera e propria seduta di rivoluzionari, che
avevano tramato contro il governo della nostra
amata e legittima sovrana.
Nel giugno del ’22 fui convocato dal giudice e
raccontai nell’udienza quello che ora ha udito dalle
mie labbra”.
“Le sono grato, Arciprete,” disse amabilmente il
Vescovo
“di aver fatto luce su di un episodio che, sarò
sincero, raccontato da alcuni malevoli, mi aveva non
poco turbato. Ora devo partire” disse alzandosi “per
recarmi alla chiesa di Metti”.
“Spero proprio” pensò l’Arciprete
“che non ci sia qualche reprimenda scritta, per me,
da parte di questo vescovo, che lascia dappertutto
grata memoria”.
“poi prevalse l’affetto e la stima che io nutrivo per lui
e per la sua famiglia:.
“Il Notaio” proseguì “arrivò dopo pranzo e chiese di
potersi appartare in una stanza con il conte per
discutere l’affare del frumento. Allora li accompagnai
in un luogo appartato dove chiacchierarono sottovoce
per circa un’ora e, quando ne uscirono, si misero a
discutere di prezzi a voce alta.
Seppi poi che era stata una diabolica messinscena e
che il conte, nella sua venuta a Varsi, aveva fatto
tappa a Varano per incontrare l’esattore del luogo,
altro fervente carbonaro.
Nella mia canonica si era quindi tenuta