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L'ANTICRISTO Maledizione del Cristianesimo 1888

Friedrich Nietzsche - L'Anticristo

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L'Anticristo. Maledizione del Cristianesimo (Der Antichrist) è un libro di Friedrich Nietzsche pubblicato originariamente nel 1895. Fu in realtà scritto nel 1888, ma i suoi contenuti controversi spinsero Franz Camille Overbeck e Heinrich Köselitz a posticipare la sua pubblicazione.Il filosofo annuncia nell'introduzione che si starebbe rivolgendo a quei pochi che possano comprenderlo («Questo libro è riservato a pochissimi»)[2]. L'etica di Nietzsche in quest'ultimo periodo è legata alla volontà di potenza, che è considerato altra cosa rispetto alle speculazioni che ne farà il nazismo o alle falsificazioni della sorella Elisabeth nel libro omonimo.[3]Nietzsche accorpa come Cristianesimo ogni forma di male sociale per il quale il mondo soffre e quello morale da cui è oppresso l'uomo. San Paolo utilizzò le masse e gli oppressi per arrivare al potere e così cercano di fare, quando Nietzsche scrive, i socialisti. Questi il filosofo tedesco li liquida con disprezzo come cristiani. Il Cristianesimo avrebbe costruito una metafisica del mondo dietro al mondo venendo poi rincorso dal Romanticismo e dall'idealismo tedeschi.Arthur Schopenhauer, che durante la giovinezza Nietzsche aveva scelto come educatore, sarebbe un nemico della vita, un cristiano (la noluntas, la negazione della vita come prassi del nichilismo). Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Schopenhauer sono solo due facce della stessa medaglia. Anche il nuovo corso della Germania dominata dal nazionalismo e dalle paure xenofobe sarebbe il prodotto del potere delle masse e quindi ancora una volta della religione cristiana. Tutto è inquadrato nell'ambito dello stesso fenomeno.L'unico vero "cristiano" sarebbe Gesù Cristo (poiché il Cristianesimo sarebbe un rovesciamento dell'insegnamento iniziale, l'anticristo coincide con il promulgatore di quello) un uomo morto in croce e non risorto, secondo il parere del filosofo. Il Cristo di Nietzsche è diretta filiazione dal protagonista de L'idiota, romanzo di Fëdor Dostoevskij, come I demoni, da cui è invece ripresa (sempre ne L'Anticristo) la teoria che identifica nella forza e l'importanza di un dio il riflesso di quella del suo popolo.L'analisi considera poi tutta una serie di episodi e frasi della Bibbia che evidenzierebbero la volontà dei ceti sacerdotali ebraici di tenere lontano l'uomo dal sapere, alimentando falsità e superstizione. Una religione come il Buddhismo sarebbe molto più realistica del Cristianesimo in quanto essa non insegna la lotta contro il peccato ma quella contro il dolore e sarebbe più tollerante.In chiusura presenta il Codice di Manu, uno dei testi sacri dell'Induismo come esempio di una legislazione modello di una civiltà aristocratica strutturata in caste e promulga la Legge contro il Cristianesimo.

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L'ANTICRISTO Maledizione del Cristianesimo

1888

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Traduzione condotta sull'originale tedesco «Der Antichrist», in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vi, 3. Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1969. Traduzione di Paolo Santoro

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Introduzione

Il nodo teorico fondamentale fifeIl'Anticristo (terminato nel settembre del 1888 e pubblicato nel 1895) è la connessione essenziale tra la morale (il cristianesimo, la religione...) e il nichilismo. Tale connessione è estranea al senso comune, agli occhi del quale l'affermazione dei valori morali appare come il contrario del nichilismo, e l'uomo religioso come l'antitesi del ni­chilista: il senso comune consente che tra coloro che fanno professione dì virtù e sono considerati anime pie, possono bene trovarsi degli impostori e dei Tartufe, e viceversa ammette che perfino in una vita immorale può na­scondersi una tensione ideale, una pietà religiosa, per guanto sviata e stra­volta dai suoi fini naturali, ma ciononostante ritiene che la verità morale e la menzogna, il bene e il male, l'ideale e il nulla restino in sé due concetti inconciliabilmente opposti tra i quali nessuna confusione è possibile. Per il senso comune, anche se storicamente non è sempre facile distinguere i buo­ni dai cattivi, la convinzione dalla malafede, l'altruismo dall'interesse per­sonale, filosoficamente l'opposizione tra morale e nichilismo sembra indi­scutibile: al punto che, perfino se paradossalmente tutti i virtuosi avessero mentito, da ciò non si potrebbe ancora dedurre che la vita morate è menzo­gna, ma soltanto che essa è difficile, e forse impossibile. L'eventuale im­possibilità storica dell'ideale morale non comprometterebbe tuttavìa affat­to la sua identità concettuale, anzi sotto certi aspetti costituirebbe la mi­gliore salvaguardia della sua purezza.

Sono proprio queste certezze del senso comune, che Nietzsche scardina; e non dal punto di vista empirico, fenomenologico, storico, ma secondo un 'ottica filosofica. Per Nietzsche la morale, l'ideale, il dover-essere è menzogna, nichilismo, impostura: perfino se paradossalmente tutti i vir­tuosi fossero stati in buonafede, da ciò si dovrebbe dedurre soltanto che essi sono stati tutti incondizionatamente nichilisti. Il suo rifiuto della mo­rale, del cristianesimo, della religione, non è storico, ma innanzitutto filo­sofico ed essenziale; non si basa tanto sull'esame dei danni recati dalla mo­rale, ma investe il concetto stesso di valore. / deplorevoli effetti della mo­rale e della religione sono già tutti impliciti nella loro origine: esse non pos­sono produrre nessun guasto maggiore della loro stessa esistenza.

Il valore, nel puro senso kantiano di «dover-essere», è ciò che conta in­dipendentemente dal fatto di essere, dalla sua realtà storica: anzi, il suo statuto concettuale si fonda proprio sull'ir-realtà. L'ideale è per definizio­ne qualcosa che vale a prescindere dalla realtà, dal processo storico: esso apre un ambito che sta al di sopra dell'effettualità, e che consente appunto di esprimere su questa un giudizio, una valutazione, una sentenza. La mo­rale si costituisce come tale nella misura in cui assume una distanza nei confronti della realtà ed è proprio questo movimento di allontanamento dall'effettuale che Nietzsche considera come nichilistico. Esso non è un aspetto, ma è la sostanza stessa della moralità: perciò la critica di Nietzsche investe il nocciolo stesso della questione. Nessuna morale è possibile fin-

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tanto che permane una completa aderenza alla vita, come negli animali: il distacco da questa aderenza, implicito nella posizione morale, è nichilistico in primo luogo perché deprezza e svaluta immediatamente ciò da cui si se­para, cioè la realtà, anche quando esprime su di essa un giudizio positivo. Il nichilismo è indipendente dalla positività o dalla negatività dei giudizi: esso consiste nel movimento che si arroga una super-realtà da cui giudicare la vita, e così limitarla, condizionarla, distruggerla. In un senso più pro­fondo, questa super-realtà è nichilistica nella sua sostanza stessa, perché sa benissimo di non potersi affermare e mantenere a livello fattuale, empiri­co, vitale: essa si spaccia per ideale perché non è reale, pone un al di là, perché non ha la forza di essere qui e ora, parla di una «vita vera» trascen­dente o futura, perché è stata sconfitta nell'unica vita esistente.

La morale nasce, secondo Nietzsche, dalla pretesa di conservare e di mantenere in vita ciò che è stato condannato dalla storia, ciò che è «mala­to», «maturo per il tramonto», fallito sul piano dei fatti, creando un nuo­vo ambito per definizione distinto dalla realtà, che è appunto quello dell'i­deale, del dover-essere, del valore: a questo viene così attribuita l'astrazio­ne, l'atemporalità, l'impersonalità, la validità universale. Con tali attributi la morale cerca di tutelare e di sottrarre alla morte le esperienze che cessa­no di essere vitali: quando esse erano davvero viventi, non c'era alcun biso­gno di affermarne il valore.

Neil 'Anticristo Nietzsche prende in esame, per esempio, il concetto mo­rale di Dio come sommo bene e mostra che l'impostura e il nichilismo non consistono soltanto nell'affermazione della sua esistenza, ma sono già im­pliciti nella sua concezione. Il suo ateismo è perciò il più radicale che si possa immaginare, perché investe il concetto stesso di Dio: «Noi neghiamo Dio in quanto Dio... Se ci dimostrassero questo Dio dei cristiani ci saprem­mo credere ancor meno» (par. 47). Il Dio originario degli Ebrei era l'e­spressione di una naturale potenza del popolo ebraico: esso era perciò con­cepito antropomorficamente come padre e re, potente e vendicativo. Quando questa potenza vien meno, invece di abbandonarne il simbolo, i preti ebraici iniziarono un processo di moralizzazione e di purificazione del concetto di Dio che trova il suo coronamento nel cristianesimo. Moralità e purezza vengono attribuiti a Dio come reazione olfatto che esso non è più reale: il concetto morale di Dio si fonda perciò sulla sua morte: «Il nulla divinizzato, la volontà del nulla santificata in Dio!» (par. 18).

Il cristianesimo è, secondo Nietzsche, la prosecuzione e lo sviluppo del­l'ebraismo: Paolo di Tarso e i primi cristiani, non potendo sopportare la morte di Gesù, ne stravolgono l'insegnamento in senso morale, introdu­cendovi la prospettiva del peccato, della colpa, dell'aldilà, che era estranea al Gesù storico: alla base del cristianesimo sta dunque un risentimento nei confronti della realtà, della vita, dell'essere che si manifesta appunto nella superfetazione morale che lo contraddistingue. Il cristianesimo è perciò la più nichilistica di tutte le religioni: la sua origine sta nel progetto di spac­ciare la sconfitta storica di Gesù, la sua morte ignominiosa sulla croce, in una vittoria, in un «altro» mondo.

Perciò il cristianesimo e la morale sono connessi per Nietzsche con la de­bolezza, la malattia, la decadenza: essi non sopportano la morte di Dio, il naturale declino ed esaurimento delle esperienze, la fine di un'epoca, per­ché non sono in grado di creare realtà, di dar vita ad esperienze originali, di inaugurare nuove età. Essi preservano un passato privo di vita, perché non possono rinascere. Fintanto che le esperienze sono attuali, esse non hanno affatto bisogno di quel sovrappiù che è fornito dall'affermazione

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verbale della loro verità e della loro moralità: quando vien meno il naturale piacere che è la loro ragion d'essere e che le accompagna, è tempo di ab­bandonarle; la morale è invece il tentativo di conservarle, trasformandole in verità e in dovere: la funzione del prete è appunto quella di nascondere, con la sanzione del loro valore, la loro fine storica. La religione e la morale implicano perciò un'impostura essenziale: l'affermazione della verità o della santità di alcunché significa «il prete mente...» (par. 55). Ciò che è reale è «modesto»: ogni proposizione valutativa è viceversa una dichiara­zione implicita d'impotenza e di nichilismo.

È dunque Nietzsche un apologeta del potere, del fatto compiuto, della prova di forza? un ammiratore incondizionato del successo, dell'effettuali­tà più brutale, dell'arbitrio? propone un'obbedienza totale al più forte, a chi vince, a chi prevarica sui deboli, sui poveri, sugli umili? il suo disprezzo per la morale, per la religione, per il cristianesimo implica l'elogio della violenza e della barbarie?

Questa interpretazione, da qualsiasi parte avanzata, non comprende nul­la di Nietzsche e del suo pensiero: Nietzsche non è un filosofo dell"identità (del potere, dell'essere), ma un filosofo dell 'opposizione (della differenza, del divenire)1. Il cristianesimo è dal tv secolo la religione dei vincitori, del potere, dello Stato ed è in quanto tale che Nietzsche la combatte. L'opposi­zione della morale e del cristianesimo al «mondo» e alla politica è una pseudo-opposizione che cela una sostanziale connivenza: la morale è il mezzo su cui i preti costituiscono il loro potere, «tiranneggiano le masse e formano le mandrie». Il progetto storico del cristianesimo consiste appun­to in una gigantesca mistificazione per cui i più nichilisti, i più impotenti, i meno capaci di creare, diventano padroni del mondo in nome di entità tra­scendenti che essi stessi gestiscono e amministrano,

Questo progetto concepito da Paolo di Tarso ha potuto essere realizzato solo mediante un 'enorme impostura, la quale ha falsificato e capovolto ogni aspetto della realtà e lo stesso concetto di realtà. Poiché sul piano del­la realtà — che per Nietzsche è differenza, divenire, movimento continuo — i preti cristiani avrebbero avuto senz'altro la peggio, essi ne hanno fatto a meno: animati da un rancore, da un risentimento, da un odio profondo e radicale nei confronti di essa, hanno fondato il loro potere su astrazioni (il concetto di Dio come sommo bene...), su deliri (il peccato...), su fantasie (l'aldilà...) che richiedono uno sforzo continuo, un impegno costante di energie per poter essere mantenute. «I preti hanno sempre avuto bisogno della guerra» (par. 48), del fanatismo e dell'indignazione, poiché solo me­diante uno stato permanente di allarme, di sovraeccitazìone, di isterismo, provocato e sostenuto dal sangue dei martìri e dalle fobie degli individui più emotivi e meno razionali, era possibile tenere lontane le masse dalla realtà. La logica dell'odio, lo spirito di fazione, la mentalità della vendet­ta, introdotte da Paolo, sono indispensabili al successo storico del cristia­nesimo. Nietzsche mostra così /'artificiosità, il malessere, il carattere deri­vato e reattivo dell'identità, del potere, dell'essere, e viceversa la naturali­tà, la potenza, la dimensione originaria e primaria della differenza e del di­venire: egli sta dalla parte del più forte, perché pensa che tale sia la vita non lo stato, la differenza non l'identità.

Nietzsche è perciò il filosofo di un'opposizione forte, non delle opposi-

' Per una lettura dell'intera opera di Nietzsche in questa chiave rimando al mio saggio «Nietzsche e l'opposizione eccessiva» (in Il Verri, n. 9, marzo 1975).

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zioni deboli: tali gli appaiono il socialismo, l'anarchismo, il femminismo... Questi movimenti rappresentano, a suo avviso, la continuazione laica della morale cristiana, così come la filosofia è la continuazione della teologia. Promettono tutto, ma non mantengono nulla; nascono e si sviluppano da uno stato di profondo malessere nei confronti della realtà, e trasformano questa situazione morbosa in un privilegio e perfino in un dovere: sono privi di una forza autonoma e vivono di risentimento, di compassione, di indignazione; reclamano «diritti uguali» per tutti e così aboliscono in par­tenza la loro differenza; sono quindi movimenti rinunciatari che si accon­tentano di promesse e di speranze, che hanno nei confronti della vita un at­teggiamento proiettivo, perché pongono l'essenziale sempre altrove, in un futuro che non si realizzerà mai. La stessa rivendicazione di un diritto pre­senta, dal punto di vista di Nietzsche, un aspetto ingenuo o ipocrita: infatti nessun diritto sarà mai riconosciuto se non ha la potenza di farsi riconosce­re; se ha questa potenza, il fatto di presentarsi soltanto come «diritto» lo indebolisce anziché rafforzarlo.

Il pensiero nietzscheano rifiuta così alla radice il concetto di ideologia, di verità pratica, di teoria al servizio dell'azione. L'idea tipicamente ebrai­ca e cristiana del libro che cambia la vita, ereditata e fatta propria dal so­cialismo (in cui gli intellettuali prendono il posto dei preti) si fonda su un completo capovolgimento del naturale rapporto tra l'esperienza e il libro, tra la vita e la teoria: essa attribuisce surrettiziamente al libro e ai suoi in­terpreti privilegiati, l'autorità di sottrarre i lettori e i seguaci al loro presen­te e alla loro realtà, imponendo a questi, leggi, precetti, comportamenti privi di ogni rapporto con le loro esigenze concrete. Nietzsche contrappone alla Bibbia il codice di Manu, che gli sembra del tutto privo di preoccupa­zioni morali e pedagogiche: a differenza del Vangelo, esso non si attende la sua realizzazione dal futuro, ma è esso stesso intimamente legato alla real­tà del popolo che lo ha prodotto. I libri programmatici, parenetici, ideolo­gici invece chiedono al futuro ciò che non hanno, cercano di nascondere la loro irrealtà chiedendo la vita degli altri: essi sono come «vampiri» che succhiano il sangue di chi presta loro ascolto.

A simili imposture è, secondo Nietzsche, preferibile «l'idiozia» del Gesù storico o il quietismo pessimistico dei buddhisti. Anch'essi sono espressio­ne della decadenza, cioè non amano la realtà, che provoca in loro uno sta­to di profonda sofferenza, ma almeno non reagiscono ad essa, non creano il mondo fittizio e morboso della teologia e della morale; anzi si sottraggo­no alla realtà con l'accettazione incondizionata di tutto, con la eliminazio­ne di ogni lotta. La «buona novella» insegna appunto la fine di ogni oppo­sizione, di ogni dialettica: Gesù non nega mai, non contraddice mai, non giudica mai; perciò i suoi seguaci, a cominciare dagli Evangelisti e da Pao­lo, hanno tradito nel modo più indegno il significato della sua vita. Non di­versamente il buddhismo si difende dal dolore mediante un edonismo quie­tistico che elude ogni contrasto, ogni dovere, ogni costrizione. Nietzsche considera questa mancanza di opposizione assai più sana della falsa oppo­sizione reattiva della morale e del cristianesimo: per quanto nasca da una debolezza radicale, almeno non si spaccia per altro da quello che è, e con questa modestia ritrova un rapporto naturale con la realtà da cui la morale è per definizione esclusa: «la beatitudine non viene promessa, non viene vincolata a condizioni: è l'unica realtà» (par. 33), qualcosa di dato, di im­mediatamente presente, un modo di vivere, che non rimanda ad altro che a se stesso, non una fede o una dottrina.

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Come «l'idiozia» di Gesù è differente dalla morale cristiana, pur essen­do entrambe aspetti della decadenza, così lo scetticismo filosofico è diffe­rente dal nichilismo inconfessato dalla morale, pur muovendosi entrambi nello spazio aperto dalla morte di Dio. Ma mentre la morale nasconde que­sta morte con l'elaborazione di un concetto sempre più astratto e più puro di Dio, lo scetticismo riconosce apertamente l'irreversibilità di questa si­tuazione e apre così la strada a quell'oltrepassamento del cristianesimo, della decadenza, del nichilismo che Nietzsche stesso rappresenta.

La morale infatti reagisce alla morte di Dio, alla generale inversione e confusione di tutti i valori che ne segue, perché è debole, perché essendo essa stessa priva di realtà, spera di mettere al sicuro Dio e i valori, allonta­nandoli quanto più è possibile dall'esperienza concreta della vita, affer­mando la differenza di Dio e la purezza del volere. In questo modo la fede e la purezza suppliscono alla mancanza di realtà. Lo scetticismo, al contra­rio, non ha paura di ammettere la morte di Dio, la relatività e l'impurità di tutto, perché contiene in nuce una realtà che oltrepassa tutto ciò che è stati­co, fisso, immobile: questa realtà è chiamata da Nietzsche vita, istinto, vo­lontà di potenza; da Freud inconscio o pulsione. Più filosoficamente po­trebbe essere definita opposizione eccessiva.

Queste considerazioni permettono a Nietzsche di interpretare il processo storico e filosofico dell'età moderna in modo profondamente originale e fecondo. Il movimento che da Lutero e dalla Riforma protestante porta a Leibniz, a Kant, alla filosofia tedesca acquista un significato restaurativo e regressivo: la rivolta del mondo tedesco contro Roma è la rivincita antisto­rica della teologia e della morale nei confronti dello scetticismo veramente progressivo ed essenzialmente creativo del Rinascimento italiano (Machia­velli...). La grande tradizione filosofica tedesca a cavallo tra il '700 e V800 non è altro che la continuazione laica della teologia protestante: essa è tan­to più ipocrita quanto meglio nasconde il tarlo segreto, la debolezza fonda­mentale da cui nasce. Perciò Nietzsche sostiene che bisogna essere più duri contro i protestanti che contro i cattolici e definisce il filosofo «il criminale dei criminali».

L'importanza fondamentale dell'Italia e della sua cultura nella storia universale moderna consiste nel fatto che in questo paese Dio è morto pri­ma e in modo più definitivo che in qualsiasi altro luogo: paragonando in un frammento postumo del 1887 i caratteri nazionali-popolari degli Stati europei Nietzsche definisce il genio nazionale italiano come «il più libero», «il più fine», «il più ricco». La libertà consiste nella mancanza di condizio­namenti metafisici, ovvero nell'aperto riconoscimento del carattere tempo­rale, politico di questi; la finezza nella secolare abitudine alla tendenziosi­tà, per cui parole e azioni hanno argutamente altro senso da quello che ap­parentemente significano; la ricchezza nella capacità di spiegare la più grande varietà di mezzi nella creazione di uno spettacolo urbano e sociale (rinascimentale, manieristico, barocco).

Lo scetticismo è tuttavia solo un punto dipartenza: esso consente l'eser­cizio del sospetto, implica lo smascheramento delle imposture, impedisce i movimenti retrogradi e oscurantisti, ma non deve fissarsi in una regola, in una legge, in un principio. Se ciò avviene, la ricaduta nella metafisica è ine­vitabile: in Italia la degenerazione metafisica dello scetticismo è il qualun­quismo. L'Italia qualunquistica, rassegnata e rinunciataria è certamente la più estranea e lontana dalla «volontà di potenza» di Nietzsche. La con­cezione nietzscheana dell'«eterno ritorno» non ha nulla a che fare con la ripetizione del passato, con l'immutabilità della situazione storico-socia-

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le, con la negazione del nuovo: questa interpretazione, attribuita nel Così parlò Zarathustra al «nano», è espressamente rifiutata da Nietzsche. «L'e­terno ritorno» non è una legge storica, ma un movimento della volontà che vuole appropriarsi anche del passato, per sottrarlo alla metafisica e all'i­dentità. L'umanismo italiano, secondo cui l'uomo non cambia mai, è quanto di più alieno si possa immaginare dal pensiero di Nietzsche, che è costantemente preoccupato della possibilità dell'altro, del differente, del­l'opposto. Tale preoccupazione si manifesta, per esempio, nel concetto di Ubermensch, che non significa affatto «l'uomo superiore», e nemmeno il «superuomo», bensì l'oltre-uomo, l'oltrepassamento dell'uomo, quale è pensato dalla metafisica come dotato di una identità e quindi irrimediabil­mente costretto nella prigione di una «natura», di una «condizione» da cui non può liberarsi. Da questo punto di vista L'Anticristo è ancora soltanto una premessa a quella opera dedicata alla volontà di potenza che Nietzsche non riuscì a scrivere.

MARIO PERNIOLA

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Prefazione

Questo libro è riservato a pochissimi. Forse nemmeno uno di essi è anco­ra nato. Può darsi che siano coloro che comprendono il mio Zarathustra: come potrei mai confondermi con quelli per i quali già oggi crescono orec­chie? — Solo il posdomani mi si addice. C'è chi viene al mondo, postumo.

Le condizioni alle quali mi comprendono, e allora per forza comprendo­no, — le conosco anche troppo bene. Uno deve essere inflessibile fino alla durezza nelle cose dello spirito, per sopportare anche soltanto la mia serie­tà, la mia passione. Uno dev'essere avvezzo a vivere sui monti — a vedere sotto di sé il meschino ciarlare dell'epoca sulla politica e sull'egoismo dei popoli. Uno dev'essere divenuto indifferente, né deve mai domandare se la verità serva, se per qualcuno essa diventi sorte ineluttabile... Una predile­zione della forza per domande di cui nessuno oggi ha il coraggio; il corag­gio del proibito; la predisposizione al labirinto. Una esperienza di sette so­litudini. Nuove orecchie per nuova musica. Nuovi occhi per il lontanissi­mo. Una nuova coscienza per verità fin qui rimaste mute. E volontà per l'economia in grande stile: conservare intatti la propria energia, il proprio entusiasmo... e rispetto di sé; l'amore di sé; l'incondizionata libertà verso se stessi...

Ebbene sì! Questi soli sono i miei lettori, i miei lettori predestinati: che importa il resto! — il resto è solo l'umanità — All'umanità uno deve essere superiore per forza, per altezza d'animo, — per disprezzo...

FRIEDRICH NIETZSCHE

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1.

— Guardiamoci in faccia. Noi siamo Iperborei, — noi sappiamo abba­stanza bene quanto in disparte viviamo. «Non per terra, né per acqua tro­verai la via che mena agli Iperborei»: già Pindaro sapeva questo di noi. Al di là del nord, del ghiaccio, della morte — la nostra vita, la nostra felici­tà... Noi abbiamo scoperto la felicità, noi sappiamo la strada, noi trovam­mo la via fuori da interi millenni di labirinto. Chi l'ha trovata altrimenti? — Per caso l'uomo moderno? — «Io non so uscire, né entrare; io son tutto ciò che non sa uscire né entrare» — sospira l'uomo moderno... Di questa modernità noi fummo malati, — della pace marciscente, del vile compro­messo, di tutta la virtuosa immondezza del moderno sì e no. Questa tolle­ranza e largeur di cuore, che «perdona», perché tutto «comprende», è sci­rocco per noi. Meglio viver tra i ghiacci, che tra le moderne virtù e altri venti meridionali!... Fummo abbastanza coraggiosi, non risparmiammo né noi, né altri: a lungo, tuttavia, ignorammo dove portasse il nostro corag­gio. Divenimmo tristi, ci si disse fatalisti. Il nostro Fatum — era la pienez­za, la tensione, l'accumulazione delle energie. Eravamo assetati di lampi e d'azioni, rimanemmo lontanissimi dalla felicità dei deboli, dalla «rasse­gnazione»... Una burrasca era nella nostra aria, la natura, che noi siamo, si oscurò — perché noi non avevamo una strada. Formula della nostra feli­cità: un solo sì, un solo no, una linea diretta, una meta...

2.

Che cosa è buono? — Tutto ciò che nell'uomo accresce il senso di poten­za, la volontà di Potenza, la potenza stessa.

Che cosa è cattivo? — Tutto ciò che discende dalla debolezza. Che cosa è felicità — La sensazione del fatto che la potenza cresce, che

una resistenza viene vinta. Non appagamento, ma più potenza; non pace in assoluto, ma guerra;

non virtù, ma valentia (virtù .nello stile del Rinascimento1, virtù scevra da ipocrisia morale).

Primo principio del nostro amore per gli uomini: i deboli e i malriusciti devono soccombere. E bisogna anche dar loro una mano in tal senso.

Che cosa è più nocivo di un qualunque vizio? — La compassione attiva verso tutti i malriusciti e i deboli — il cristianesimo...

1 Nietzsche usa qui la parola italiana virtù, presa evidentemente nel significato latino di vir-tus; quest'accezione è praticamente sconosciuta all'uso italiano moderno di «virtù», tale ter­mine è tuttora l'unico che traduca il tedesco Tugend, contrapposto dal nostro A. alla virtù nel senso rinascimentale (N.d.T).

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3.

Non che cosa deve prendere il posto dell'umanità nella successione delle creature, è il problema che io qui pongo (— l'uomo è una fine —): bensì quale tipo d'uomo si deve allevare, si deve volere, in quanto di maggior va­lore, più degno di vivere, più certo di un futuro.

Questo tipo di maggior valore è già esistito abbastanza spesso: ma come caso fortunato, come eccezione, mai in quanto voluto. Anzi esso è stato addirittura particolarmente temuto, è stato finora quasi il temibile per ec­cellenza; — e dalla paura fu il tipo opposto ad esser voluto, allevato, rag­giunto; l'animale domestico, la bestia da gregge, l'uomo bestia malata, — il cristiano...

4.

L'umanità non rappresenta uno sviluppo verso il migliore, o il più forte o il superiore, così come oggi si crede. Il «progresso» non è altro che un'i­dea moderna, vale a dire una idea sbagliata. L'europeo di oggi rimane, nel suo valore, profondamente al di sotto dell'europeo del Rinascimento; svi­luppo ulteriore non è assolutamente, per chissà quale necessità, elevazione, crescita, rafforzamento.

In un altro senso vi è nei più disparati angoli della terra e a partire dalle più diverse civiltà un continuo successo di casi isolati, attraverso i quali si manifesta, di fatto, un tipo superiore: un qualcosa che in rapporto all'u­manità nel suo insieme è una sorta di superuomo. Simili casi fortunati di grande riuscita sono stati sempre possibili e forse sempre lo saranno. E perfino intere generazioni, stirpi, popoli possono, in determinate circo­stanze, rappresentare un siffatto caso vincente.

5.

II cristianesimo non va adornato e azzimato: esso ha condotto una guer­ra senza quartiere contro questo superiore tipo umano, ha proscritto tutti gli istinti fondamentali di questo tipo, ha distillato da quegli istinti il male, l'uomo cattivo, — l'uomo forte come tipicamente riprovevole, come «l'uomo reprobo». Il cristianesimo si è schierato dalla parte di tutto ciò che è debole, miserabile, malriuscito; ha fatto un ideale della contraddizio­ne contro gli istinti conservativi della vita forte; persino delle nature spiri­tualmente più forti esso ha pervertito la ragione, insegnando a sentire i massimi valori della spiritualità come peccaminosi, come fuorviami, come tentazioni. L'esempio più deplorevole: la rovina di Pascal, il quale credette al guastarsi della propria ragione a causa del peccato originale, mentr'essa era guastata solo dal suo cristianesimo! —

6.

È uno spettacolo doloroso, orribile, quello che mi sta di fronte: ho tirato via il velame dalla degenerazione dell'uomo. Questa parola, sulle mie lab­bra, è al riparo almeno da un sospetto: quello di racchiudere un'accusa morale dell'uomo. Essa è detta — vorrei sottolinearlo ancora una volta — in senso scevro da ipocrisìa morale: e ciò fino al punto che quella degenera­zione viene da me avvertita più sensibilmente proprio là dove finora si ane-

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lava, con la massima consapevolezza, alla «virtù», alla «divinità». Intendo degenerazione, già lo si indovina, nel senso di décadence: io affermo che tutti i valori in cui l'umanità compendia in questo momento la sua idealità suprema sono valori di décadence.

Chiamo un animale, una specie, un individuo degenerati, quando hanno perso i propri istinti, quando scelgono, quando preferiscono, ciò che li danneggia. Una storia dei «superiori sentimenti», degli «ideali dell'umani­tà» — e può essere che sia io a doverla raccontare — sarebbe a un dipresso anche la spiegazione del perché l'uomo sia così degenerato.

La stessa vita vale per me in quanto istinto di crescita, di durata, di accu­mulazione di energie, di potenza: dove la volontà di potenza manca, è il declino. Affermo che a tutti i massimi valori dell'umanità questa volontà manca — che valori di decadenza, valori nichilisti imperano sotto i nomi più santi.

7.

Il cristianesimo è detto religione della compassione. — La compassione si contrappone agli affetti tonici, quelli che accrescono l'energia del senti­mento vitale: essa ha un effetto deprimente. Quando si compatisce si perde forza. Col compatire la perdita di energia, che già di per sé il dolore arreca alla vita, si accresce e si moltiplica ancora. Il soffrire stesso diventa, attra­verso il compatire, contagioso; in certi casi si può giungere ad una perdita complessiva di vita e di energia vitale assurda in proporzione al quantum della causa (— è il caso della morte del Nazareno). Questa è la prima consi­derazione; ma ve n'è un'altra più importante. Posto che si misuri la com­passione in base al valore delle reazioni che essa suole suscitare, appare in una luce ancora e assai più chiara il carattere deleterio di essa in ordine alla vita. La compassione intralcia totalmente la legge dell'evoluzione, che è legge della selezione. Essa conserva ciò che è maturo per la fine, oppone re­sistenza a vantaggio dei diseredati e dei condannati dalla vita, essa conferi­sce alla vita stessa, attraverso l'abbondanza di malriusciti di ogni specie che conserva in vita, un aspetto grigio e precario. Hanno osato chiamare virtù la compassione (— in ogni morale aristocratica è tenuta per debolez­za —); sono andati oltre, hanno fatto di essa la virtù, substrato e origine di ogni virtù — questo però, cosa che non dobbiamo mai perdere di vista, dal punto di vista di una filosofia che era nichilista, che sulla propria insegna recava scritta la negazione della vita. Schopenhauer era nel suo diritto al­lorché affermava che per mezzo della compassione la vita viene negata, resa più degna di negazione, — compatire è la praxis del nichilismo. È il caso di ripeterlo: questo istinto deprimente e contagioso ostacola quegli istinti che tendono alla conservazione della vita e al suo incremento di va­lore: sia come moltiplicatore della miseria, che come conservatore d'ogni miserabile, esso è uno strumento primario per l'accrescimento della déca­dence — la compassione induce al nulla!... Uno non dice il «nulla»: dice invece «al di là»; oppure «Dio»; oppure «la vera vita»; o nirvana, reden­zione, beatitudine... Questa innocente retorica, del regno dell'idiosincrasia morale religiosa, appare subito assai meno innocente, appena ci si rende con­to di quale inclinazione qui si celi sotto il mantello di sublimi parole: una ten­denza antivitale. Schopenhauer era ostile alla vita: per questo la compas­sione divenne per lui virtù... Aristotele, com'è noto, vedeva nella compas­sione una condizione morbosa e pericolosa della quale uno farebbe bene a liberarsi di quando in quando con un purgativo: egli intende la tragedia co-

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me una purga. Dal punto di vista dell'istinto vitale si dovrebbe in effetti cercare un mezzo per vibrare una stoccata ad un tale pericoloso e morboso accumulo di compassione quale è quello rappresentato dal caso Schopen­hauer (e purtroppo anche da tutta la nostra décadence letteraria e artistica da San Pietroburgo a Parigi, da Tolstoj a Wagner): affinché scoppi... Nul­la è più malsano, in mezzo alla nostra malsana modernità, che la compas­sione cristiana. Esser medico qui, qui essere inesorabile, qui affondare il coltello — questo tocca a noi, questo è il nostro modo d'amare gli uomini, è così che noi siamo filosofi, noi Iperborei!...

8.

È necessario dire chi avvertiamo come nostra antitesi — i teologi e tutti quanti hanno in corpo sangue di teologo — l'intera nostra filosofia... Bi­sogna aver visto la sorte funesta da vicino, o meglio, bisogna averla prova­ta su di sé, bisogna per essa aver quasi raggiunto l'annientamento per non ammettere più alcuno scherzo in proposito (uno scherzo è, ai miei occhi, il libero pensiero dei nostri signori naturalisti e fisiologi, — a loro manca la passione in queste cose, il soffrire di esse —). Quell'avvelenamento arriva molto più lontano di quanto si pensi: ho ritrovato l'istinto teologico della alterigia in tutti i luoghi in cui oggi ci si sente «idealisti», — ovunque, in virtù di una superiore provenienza, si accampi il diritto di guardare alla realtà con superiorità e distacco... L'idealista, né più né meno che il prete, ha tutti i grandi concetti in mano (— e non solo in mano!), e li gioca con benevolo disprezzo contro 1'«intelligenza», i «sensi», gli «onori», il «vive­re bene», la «scienza»..., egli vede cose del genere sotto di sé, come forze dannose e seduttrici, al di sopra delle quali «lo spirito» aleggia nel suo pu­ro per-sé: — come se umiltà, castità, povertà, in una parola la santità non avessero finora arrecato alla vita infinitamente più danno di chissà quali orrori e vizi... Il puro spirito è pura menzogna... Fino a quando il prete passerà ancora per una superiore specie d'uomo, questo negatore, denigra­tore, avvelenatore di professione della vita, non vi sarà risposta alla do­manda: che cosa è verità? Uno ha già capovolto la verità quando il consa­pevole avvocato del nulla o della negazione passa per rappresentante della «verità»...

9.

A questo istinto di teologo muovo guerra: ho trovato la sua impronta ovunque. Chi ha nel corpo sangue di teologo si pone sin dall'inizio in mo­do distorto e disonesto davanti a ogni cosa. Il pathos che da ciò si sviluppa prende il nome di fede: chiudere una volta per tutte gli occhi su ciò che ci sta davanti per non soffrire dell'aspetto di un'inguaribile falsità. Ci si fa per conto nostro una morale, una virtù, una santità di quest'ottica difetto­sa per tutte le cose, si lega la buona coscienza al falso-vedere, — si preten­de che nessun'aIlrcr specie di ottica possa più aver valore, dopo aver reso la propria sacrosanta con i nomi di «Dio», «redenzione», «eternità». Ho sco­vato ancora l'istinto del teologo in ogni luogo: è la forma di falsità più dif­fusa, quella veramente sotterranea, che esista sulla faccia della terra. Ciò che un teologo percepisce come vero, deve essere falso: se ne può trarre quasi un criterio di verità. È il suo più profondo istinto di conservazione a proibire che in un punto qualsiasi la realtà venga onorata o anche solo prenda la parola. Fin dove arriva l'influsso teologico il giudizio di valore è

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776 L'ANTICRISTO [10-11)

capovolto, i concetti di «vero» e «falso» sono necessariamente capovolti: ciò che è dannosissimo alla vita, prende qui il nome di «vero», ciò che la eleva, l'accresce, l'afferma, la giustifica e la fa trionfare, è chiamato «fal­so»... Se accade che dei teologi, attraverso la «coscienza» di principi {op­pure di popoli —) riescano a stendere la mano fino al potere, non c'è dub­bio su che cosa, in sostanza, puntualmente si determina: la volontà della fi­ne, la volontà nichilista aspira alla potenza...

10.

I Tedeschi capiscono subito quando dico che la filosofia è corrotta da sangue di teologi. Il parroco protestante è nonno della filosofia tedesca, il protestantesimo stesso il suo peccatum originale. Definizione del prote­stantesimo: la semiparalisi del cristianesimo — e altresì della ragione... È sufficiente pronunciare la parola «seminario di Tubingen» per capire che cosa la filosofia tedesca, in sostanza, è — una insidiosa teologia... Gli Sve-vi sono i migliori bugiardi della Germania, mentono con innocenza... Don­de l'esultanza che all'apparire di Kant percorse il mondo erudito tedesco, formato per tre quarti da figli di parroci e d'insegnanti —, donde la con­vinzione tedesca, che ancora oggi trova un'eco, che con Kant cominciasse una svolta verso il meglio... L'istinto del teologo, nell'erudito tedesco, in­dovinò quel che era ormai nuovamente possibile... Era l'aprirsi di una via traversa verso il vecchio ideale; il concetto di «mondo vero», il concetto della morale come essenza del mondo (— due maleficentissimi errori, i più malefici che esistano!) ritornavano ad essere, grazie ad una scepsi scaltra-mente-sagace, se non dimostrabili, perlomeno non più confutabili... La ra­gione, il diritto della ragione non arriva così lontano... Si era fatto della realtà una «apparenza»; si era elevato a realtà un mondo completamente inventato, quello dell'essere... Il successo di Kant non è altro che un suc­cesso da teologi: Kant fu, al pari di Lutero, una pastoia di più al piede del­la già di per sé non salda rettitudine tedesca...

11.

Ancora una parola contro Kant moralista. Una virtù deve essere una no­stra invenzione, una personalissima legittima difesa e necessità nostra: in ogni altro senso essa è solo un pericolo. Ciò che non condiziona la nostra vita, le è di danno: una virtù determinata solo da un senso di rispetto per il concetto di «virtù», come voleva Kant, è dannosa. La «virtù», il «dovere», il «bene in sé», il bene col carattere dell'impersonalità e della universale va­lidità — chimere in cui si esprime il declino, l'ultimo spossamento della vi­ta, la cineseria koenigsberghese. Le più profonde leggi della conservazione e della crescita comandano il contrario: che ciascuno si inventi la sua virtù, il suo imperativo categorico. Un popolo va in sfacelo quando confonde il proprio dovere col concetto di dovere in generale. Nulla corrode più pro­fondamente, più intimamente di ogni dovere «impersonale», di ogni sacri­ficio dinanzi al Moloch dell'astrazione. — Che non si sia sentita la perico­losità per la vita dell'imperativo categorico di Kant!... Solo l'istinto del teologo l'ha protetto! — Un'azione, alla quale l'istinto della vita sospinge, trova nel piacere la dimostrazione di essere un'azione giusta e quel nichili­sta dai visceri cristiano-dogmatici considerava il piacere un'abiezione... Che cosa distrugge più in fretta che lavorare, pensare, sentire senza un'in­tima necessità, senza una scelta profondamente personale, senza gusto?.

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L'ANTICRISTO [12-13] 777

come un automa del «dovere»? È questa, né più né meno, la ricetta della décadence, o addirittura dell'idiotismo... Kant diventò idiota. — E questo sarebbe il contemporaneo di Goethe! Questo ragno tristemente fatale fu reputato il filosofo tedesco, — e ancora è considerato tale!... Mi guardo bene dal dire che cosa penso dei Tedeschi... Kant non ha forse visto nella Rivoluzione francese il trapasso dalla forma inorganica a quella organica dello Stato? Non si è forse domandato se esista una congiuntura che non possa assolutamente essere spiegata se non mercé una propensione morale dell'umanità, in modo che con essa, una volta per tutte, sarebbe dimostra­ta la «tendenza dell'umanità al bene»? Risposta di Kant: «Questa congiun­tura è la rivoluzione». L'istinto sbagliato in tutto e per tutto, la controna­tura come istinto, la décadence tedesca come filosofia — questo è Kantl —

12.

Metto da parte un paio di Scettici, che rappresentano nella storia della filosofia il tipo umano più degno: il resto non conosce i più elementari re­quisiti della rettitudine intellettuale. Tutti, nessuno escluso, si comportano come donnette, questi grossi fanatici e bestie rare — prendono i «bei senti­menti» per argomenti, il «petto in fuori» per un mantice della divinità, la convinzione per un criterio di verità. Infine ancora Kant, con «teutonica» innocenza, ha tentato di render scientifica questa forma di corruzione, questa carenza di coscienza intellettuale, col concetto della «ragion prati­ca»: a tale scopo inventò espressamente una ragione, in presenza della qua­le non ci si dovrebbe curare della ragione, e allorquando cioè la morale, — la sublime esigenza del «tu devi» si fa sentire. Se consideriamo che presso quasi tutti i popoli il filosofo non è altro che un ulteriore sviluppo del tipo sacerdotale, questo frammento dell'eredità pretesca, questa opera di falsa­ri davanti a se stessi non susciterà più sorpresa. Allorché si hanno sante in­combenze, ad esempio, quella di rendere migliori, di salvare, di redimere gli uomini, allorché si porta la divinità in petto e si è portavoce d'imperati­vi oltre mondani, ci si trova già, con una simile missione, al di sopra di ogni valutazione meramente razionale; — si è addirittura già santificati da un siffato mandato, ci si pone già come esemplari d'un ordine più alto!... Che se ne fa un prete della scienza] Egli sta troppo in alto per queste cose! — E il prete ha dominato] Ha statuito il concetto di «vero» e di «non ve­ro»!...

13.

Non sottovalutiamo questa circostanza: noi stessi, noi spiriti liberi, sia­mo già una «trasvalutazione di tutti i valori», una dichiarazione di guerra e di vittoria in carne e ossa a tutti i vecchi concetti di «vero» e «non vero». Le idee più preziose vengono scoperte per ultime; ma le idee più preziose sono i metodi. Tutti i metodi, tutte le premesse della nostra attuale scienti­ficità hanno avuto per millenni contro dì sé il più profondo disprezzo: a ca­gione di essi si era tagliati fuori dal commercio con le persone «rispettabi­li», — si passava per «nemici di Dio», per dispregiatori della verità, per «indemoniati». Quanto a mentalità scientifica eravamo dei Ciandala... Abbiamo avuto contro di noi l'intero pathos dell'umanità — il suo concet­to di ciò che deve essere verità, di ciò che deve essere servire la Verità: ogni «tu devi» era fino ad oggi diretto contro di noi... I nostri oggetti, le nostre pratiche, la nostra cauta, silente, guardinga maniera — tutto ciò a quell'u-

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manità appariva completamente indegno e spregevole. — Potremmo alfine domandarci, con un certo fondamento, se non fosse stato invero un gusto estetico, quello che ha tenuto l'umanità in una così lunga cecità: essa pre­tendeva dalla verità un effetto pittoresco, pretendeva parimenti dall^uomo della conoscenza che egli agisse vigorosamente sui sensi. La nostra riserva-tezza per lunghissimo tempo era contraria al suo gusto... Oh, come colsero bene tutto ciò, questi tacchini di Dio. —

14.

Ci siamo ravveduti. Siamo diventati più modesti in ogni cosa. Non deri­viamo più l'uomo dallo «spirito», dalla «divinità», l'abbiamo rimesso tra gli animali. Egli è per noi l'animale più forte, perché il più astuto: la sua spiritualità ne è una conseguenza. D'altra parte ci opponiamo ad una vani­tà, che vorrebbe farsi sentire di nuovo anche a questo punto: come se l'uo­mo fosse stato la grande intenzione recondita dell'evoluzione animale. Egli non è affatto un coronamento della creazione: ogni creatura è su un identi­co gradino della perfezione accanto a lui... E dicendo questo, diciamo an­cora troppo: l'uomo è, relativamente parlando, l'animale peggio riuscito, il più infermiccio, quello più pericolosamente sviato dai propri istinti — cionondimeno, certo, anche il più interessante!. A proposito degli animali, Descartes per primo, con encomiabile audacia, ha osato pensare l'animale come machina: tutta la nostra filosofia si affanna intorno alla dimostrazio­ne di questa tesi. Logicamente noi non mettiamo da parte l'uomo, come ancora fece Descartes: proprio ciò che oggi è capito dell'uomo, non oltre­passa il punto in cui egli è visto come macchina. In passato si conferiva al­l'uomo il «libero arbitrio» come sua dote derivante da un ordine superiore: noi oggi gli abbiamo preso perfino la volontà, nel senso che con questo no­me non è più lecito intendere una facoltà. 11 vecchio termine «volontà» ser­ve solo a designare una risultante, una specie di reazione individuale la quale segue necessariamente a una quantità di stimoli in parte contraddi-centisi, in parte concordanti: — la volontà non «agisce» più, non «muove» più... Una volta si vedeva nell'esser cosciente dell'uomo, nello «spirito» la prova della sua superiore origine, della sua divinità; per perfezionare l'uo­mo gli si consigliava di ritrarre in sé i sensi alla maniera della tartaruga, di sospendere ogni relazione con ciò che è terreno, di deporre la spoglia mor­tale: in questo caso sarebbe rimasto di lui l'importante, il «puro spirito». Anche a questo proposito abbiamo cambiato idea: il divenire coscienti, lo «spirito», r vppresenta per noi addirittura il sintomo di una relativa incom­piutezza dell'organismo, come un tentare, un brancolare, uno stringere il vuoto, come un affaticamento nel quale viene senza bisogno consumata molta energia nervosa, — noi neghiamo che alcunché possa essere reso perfetto fintanto che viene fatto ancora coscientemente. Il «puro spirito» è una pura scempiaggine: sottraendo sistema nervoso e sensi, la «spoglia mortale», facciamo male i conti — nient'altro!...

15.

Né morale, né religione nel cristianesimo toccano un punto qualsiasi del­la realtà. Cause puramente immaginarie («Dio», «anima», «io», «spirito», «libero volere» — anche «non libero»); effetti puramente immaginari («peccato», «redenzione», «grazia», «punizione», «remissione dei pecca­ti»). Un commercio tra esseri immaginari («Dio», «spiriti», «anime»);

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L'ANTICRISTO [16] 779

un'immaginaria scienza della natura (antropocentrica; completa mancanza del concetto di cause naturali); un'immaginaria psicologia (puri e semplici autofraintendimenti, interpretazioni di piacevoli e spiacevoli sentimenti co­muni, ad esempio degli stati del nervus sympathicus, con l'aiuto del lin­guaggio mimico dell'idiosincrasia moral-religiosa, — «pentimento», «ri­morso», «tentazione diabolica», «la vicinanza di Dio»); un'immaginaria teleologia («il regno di Dio», «il giudizio universale», «la vita eterna»). Questo mondo di pura finzione si differenzia, e molto in peggio, dal mon­do dei sogni, per il fatto che quest'ultimo rispecchia la realtà, mentre quel­lo falsifica, svaluta, nega la realtà. Soltanto dopoché il concetto di «natu­ra» fu escogitato come concetto antitetico a «Dio», la parola «naturale» dovette necessariamente equivalere a «riprovevole», — tutto quel mondo fittizio affonda le radici nell'odio per ciò che è naturale (— la realtà! —), esso è l'espressione di un profondo malessere di fronte al reale... Ma in tal modo tutto risulta spiegato. Chi è l'unico ad avere dei motivi per trarsi fuori con le menzogne dalla realtà? Colui che di essa soffre. Ma soffrire della realtà vuol dire essere una realtà fallita... La preponderanza dei senti­menti di piacere su quelli sgradevoli è la causa di quella immaginaria mora­le e religione: ma una tale preponderanza dà la formula della décadence...

16.

All'identica conclusione porta necessariamente una critica del concetto cristiano di Dio. — Un popolo che ha ancora fede in se stesso ha pure an­cora il suo proprio Dio. In esso venera le condizioni grazie alle quali si af­ferma, le proprie virtù; proietta il proprio autocompiacimento, il proprio senso di potenza in un essere a cui poter rendere grazie per tutto questo. Chi è ricco vuole dare; un popolo fiero ha bisogno di un Dio per fare sacri­fici... La religione, entro tali premesse, è una forma di gratitudine. Si è ri­conoscenti per se stessi: perciò si ha bisogno di un Dio. — Un simile Dio deve poter giovare e nuocere, deve poter essere amico e nemico, — lo si ammira nel bene come nel male. La castrazione contronatura di un Dio in un Dio unicamente del bene qui sarebbe al di fuori di ogni ideale. Il Dio cattivo è necessario quanto quello buono: non dobbiamo certo la nostra esistenza alla tolleranza, alla filantropia... Che cosa mai importerebbe di un Dio che non conoscesse ira, vendetta, derisione, astuzia, violenza, al quale magari non fossero neppure noti gli incantevoli ardeurs della vittoria e dell'annientamento? Non si riuscirebbe a comprendere un Dio siffatto: a che scopo lo si dovrebbe avere? — Certamente, quando un popolo sta per tramontare; quando sente definitivamente dileguarsi la fede nel futuro, la propria speranza di libertà; quando integra nella sua coscienza la sottomis­sione come prima utilità, le virtù dei sottomessi come condizioni per la sus­sistenza, allora anche il suo Dio deve mutarsi. Così esso diventa sornione, pavido, modesto, esorta alla «pace dell'anima», al non-phi-odiare, all'in­dulgenza, all'«amore» sia per l'amico che per il nemico. Moraleggia conti­nuamente, striscia nella caverna di ogni virtù privata, diventa Dio per chiunque, diventa uomo privato, cosmopolita... Una volta rappresentava un popolo, la forza di un popolo, tutto ciò che v'è di aggressivo e di asseta­to di potenza nell'anima di un popolo: ormai non è più che il buon Dio... In realtà non esiste una diversa alternativa per gli dèi: o essi sono la volon­tà di potenza — e pertanto saranno dèi del popolo — oppure invece l'inet­titudine alla potenza — e allora diventano per forza buoni...

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17. Allorché decade in qualsiasi forma la volontà di potenza, si ha-anche

puntualmente un'involuzione fisiologica, una décadence. La divinità della décadence, mutilata nelle sue virtù e nei suoi istinti più virili, diventa a quel punto, per forza di cose, Dio dei regrediti fisiologici, dei deboli. Costoro non chiamano se stessi i deboli, si definiscono «i buoni»... Ora si compren­de, senza che ci sia più bisogno di farvi cenno, in quali momenti della sto­ria la finzione dualistica di un Dio buono e di uno cattivo diventi possibile. Col medesimo istinto col quale degradano il loro Dio a «bene in sé», i sot­tomessi cancellano le buone qualità dal Dio dei loro vincitori; essi si vendi­cano sui propri padroni trasformandone il Dio in diavolo. — Il buon Dio, così come il diavolo: entrambe creazioni della décadence. — Come si può ancor oggi concedere tanto alla scempiaggine dei teologi cristiani, da de­cretare con essi che l'evoluzione del concetto di Dio da «Dio d'Israele», da Dio del popolo al Dio cristiano, al compendio di ogni bene sia un progres­so! — Eppure perfino Renan lo fa. Come se Renan avesse diritto alla scempiaggine! Ma se salta agli occhi il contrario! Quando le premesse della vita ascendente, quando tutto ciò che è forte, coraggioso, dominatore, su­perbo viene soppresso dal concetto di Dio, quando passo dopo passo esso si degrada a simbolo di bastone per gli stanchi, di ancora di salvezza per chiunque sia sul punto di annegare, quand'esso diviene dio-dei-poveri, dio-dei-peccatori, dio-dei-malati par excellence, l'attributo di «salvatore», di «redentore» viene in certo qual modo a costituire il residuo come attributo divino in generale: che cosa vuol dire siffatta metamorfosi? Una simile ri­duzione del divino? — Indubbiamente: in tal modo «il regno di Dio» si è esteso. Una volta comprendeva solo il suo popolo, il suo popolo «eletto». Nel frattempo, proprio come il suo popolo, se ne andò in paesi stranieri, a vagabondare: da quel momento non ha avuto più pace in nessun posto: fi­no a che infine divenne di casa ovunque, il grande cosmopolita, — fino a che vide passare dalla sua il «grande numero» e metà della terra. Ma il Dio del «grande numero», questo democratico tra gli dèi, non divenne, ciono­nostante, un orgoglioso dio pagano: egli rimase giudeo, rimase il Dio del cantuccio, il Dio di tutti gli angoli e posti scuri, di tutti gli insalubri alloggi del mondo intero!... Il suo regno mondiale, oggi come allora, è un regno d'oltretomba, un ospizio per vecchi, un regno da seminterrato, un regno da ghetto... Ed egli stesso, poi, così esangue, così gracile, così décadent... Perfino i più esangui tra gli esangui ebbero ancora il dominio su di lui, i si­gnori metafisici, gli albini del concetto. Essi andarono tessendo tanto a lungo intorno a lui che, ipnotizzato dai loro movimenti, si mutò lui stesso in ragno, in un metafisico. A quel punto — sub specie Spinozae — riprese a tessere fuori di sé il mondo, a quel punto si trasfigurò in una sostanza sempre più esile e pallida, divenne «ideale», divenne «puro spirito», diven­ne «absolutum», divenne «cosa in sé»... Decadenza di un Dio: Dio diven­ne «cosa in sé»...

18.

Il concetto cristiano di Dio — Dio come divinità dei malati, Dio come regno, Dio come spirito — è uno dei concetti più corrotti di Dio mai rag­giunti al mondo; addirittura esso rappresenta forse, nel processo di degra-

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dazione del tipo divino, l'indice del livello più basso. Dio degenerato a contraddizione della vita, invece che esserne la trasfigurazione e l'eterno sii In Dio la dichiarazione di ostilità alla vita, alla natura, alla volontà di vive­re! Dio, la formula per ogni diffamazione dell'«al di qua», per ogni men­zogna dall'«al di là»! Il nulla divinizzato, la volontà del nulla santificata in Dio.

19.

Il fatto che le razze forti del nord-Europa non abbiano respinto lontano da sé il Dio cristiano non fa davvero onore alle loro doti religiose — per non parlare del gusto. Con un simile morboso e decrepito frutto della dé-cadence avrebbero dovuto farla finita. Ma su di loro pesa la maledizione per non essersi sbarazzati di esso: queste hanno dato asilo in tutti i loro istinti alla malattia, alla vecchiaia, alla contraddizione, — da quel momen­to non hanno più creato alcun Diol Quasi duemila anni e non un solo nuo­vo Dio! Ma ancora e sempre, e come se esistesse di diritto, come un ultima­tum e un maximum della capacità di dar forma a dèi, del creator spiritus nell'uomo, questo miserando Dio del monotono-teismo cristiano! Questa ibrida creazione-zero della decadenza, concetto e contraddizione, in cui ogni istinto di décadence, ogni codardia e lassezza dell'anima si trovano ratificati! —

20.

Con la mia condanna del cristianesimo non vorrei essere stato ingiusto verso una religione affine, per numero di seguaci addirittura prevalente: il buddhismo. Entrambe, in quanto religioni nichiliste, vanno messe insieme — sono religioni della décadence, — entrambe sono distinte l'una dall'al­tra nel più singolare dei modi. Il critico del cristianesimo è profondamente grato agli eruditi indiani del fatto che ora sia possibile confrontarle tra lo­ro. — Il buddhismo è cento volte più realistico del cristianesimo — incarna il retaggio del porre-problemi freddamente e obiettivamente, viene dopo un movimento filosofico della durata di centinaia di anni; il concetto di «Dio», al suo primo apparire, è già quasi spazzato via. Il buddhismo è l'u­nica religione veramente positivista che la storia ci offra; già nella sua teo­ria della conoscenza (un rigoroso fenomenalismo —), esso non dice più «lotta contro il peccato», bensì, dando pienamente ragione alla realtà, «lotta contro il dolore». Esso si è già lasciata alle spalle — ciò lo distingue profondamente dal cristianesimo — l'autoimpostura dei concetti morali, — esso si pone, per dirla con le mie parole, al di là del bene e del male. — I due dati di fatto fisiologici sui quali si fonda e che fa oggetto di osservazio­ne, sono: primo, una estrema eccitabilità dei sensi che si esprime sotto for­ma di raffinata capacità di soffrire, secondo, una ipersensibilità, un vivere fin troppo a lungo in concetti e procedure logiche, al di sotto del quale l'i­stinto personale ha sofferto a vantaggio dell'«impersonaIe» (— due situa­zioni che almeno alcuni tra i miei lettori, gli «obiettivi», conosceranno, co­me me, per esperienza). Si è instaurata una depressione a causa di questi condizionamenti fisiologici: il Buddha la affronta igienicamente. Per de­bellarla pratica la vita all'aperto, la vita errabonda; la moderazione e la scelta nell'alimentazione; la cautela con tutti gli alcolici; la prudenza, in pari tempo, verso tutti gli affetti che producono bile, che riscaldano il san-

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gue; nessuna preoccupazione né per sé, né per gli altri. Egli richiede imma­gini acquietanti o rasserenanti — inventa mezzi per disabituarsi alle altre. Per lui la bontà, l'esser buoni apportano salute. La preghiera, così come l'ascesi, sono bandite; nessun imperativo categorico, nessuna costrizione in genere, neppure all'interno della comunità conventuale (— se ne può sempre uscire —). Tutti questi sarebbero mezzi per intensificare quella estrema eccitabilità. Proprio per questo egli non esige nemmeno la lotta ai dissidenti; a nient'altro il suo insegnamento si oppone maggiormente che al sentimento della vendetta, dell'avversione, del ressentiment (— «non con l'ostilità ha termine l'ostilità»: è il commovente ritornello di tutto il bud­dhismo...). E questo a ragion veduta: proprio quegli affetti, in rapporto all'intento principale dietetico, sarebbero del tutto insalubri. Lo sfinimen­to intellettuale di cui egli è testimone, e che si esprime in una fin troppo grande «obiettività» (indebolimento cioè dell'interesse per l'individuo, per­dita del peso maggiore, dell'«egoismo») egli lo combatte riportando rigo­rosamente alla persona anche gli interessi più intellettuali. Nella dottrina di Buddha l'egoismo diviene un dovere: la regola «una sola cosa necessaria», «come liberarti dal dolore» disciplina e circoscrive l'intera dieta spirituale (— possiamo forse ricordare quell'Ateniese, il quale mosse guerra alla pu­ra «scientificità», Socrate, che anche nel regno dei problemi innalzò a mo­rale l'egoismo della persona).

21.

Un clima molto mite, una grande dolcezza e liberalità nei costumi, l'as­senza di militarismo sono i presupposti del buddhismo; nonché la circo­stanza che le classi in cui il movimento ha il suo focolare sono quelle supe­riori e persino colte. Si tende alla serenità, alla placidità, all'assenza di de­sideri quale meta suprema, e si attinge questa meta. 11 buddhismo non è una religione nella quale uno semplicemente aneli alla perfezione: il perfet­to è la norma. —

Nel cristianesimo sono gli istinti dei soggiogati e degli oppressi a venire in evidenza: sono i ceti infimi quelli che cercano in quello la propria salvez­za. In esso la casistica del peccato, l'autocritica, la inquisizione di coscien­za vengono esercitate come occupazione, come espedienti contro la noia; in esso l'affetto verso un potente, chiamato «Dio», viene tenuto continua­mente vivo (mediante la preghiera); in esso la vetta più alta è considerata irraggiungibile, dono, «grazia». In esso manca pure la sfera pubblica; il nascondiglio, il luogo oscuro è cristiano. In esso il corpo viene disprezzato, l'igiene respinta come sensualità; la Chiesa si oppone perfino alla pulizia (— la prima misura cristiana, dopo la cacciata dei Mori, fu la chiusura dei bagni pubblici, e la sola Cordova ne possedeva 270). Cristiano è un certo gusto per la crudeltà verso di sé e verso gli altri; l'odio per i dissenzienti; la volontà di perseguitare. Immagini fosche ed eccitanti vengono messe in ri­salto; le condizioni più agognate, designate con i termini più elevati, sono epilettoidi; la dieta è selezionata in modo tale da favorire fenomeni morbo­si e da sovreccitare i nervi. Cristiano è l'odio mortale per i signori della ter­ra, per i «nobili» — e insieme una occulta, segreta rivalità (— il «corpo» viene lasciato a loro, si vuole solo l'«anima»...). Cristiano è l'odio per lo spirito, per l'orgoglio, il coraggio, la libertà, per il libertinage dello spirito; cristiano è l'odio per i sensi, per le gioie dei sensi, per la gioia in generale...

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L'ANTICRISTO [22-23] 783

22.

Allorquando questo cristianesimo lasciò il suo terreno originario, i ceti infimi, i bassifondi del mondo antico, allorquando partì in cerca di poten­za tra le genti barbare, non ebbe più come sua premessa uomini stanchi, ma gente interamente inselvatichita e dilacerata, — l'uomo forte sì, ma malriuscito. Qui l'insoddisfazione di se stessi, il soffrire di se stessi non è, come presso i buddhisti, una smisurata sensibilità e capacità di soffrire, bensì, al contrario, uno strapotente desiderio di nuocere, di dar sfogo al­l'interiore tensione in comportamenti e idee malevoli. Per aver ragione dei barbari, il cristianesimo aveva bisogno di concetti e valori barbarici: tali sono il sacrificio del primogenito, il bere sangue nella Cena Eucarestica, il disprezzo dello spirito e della cultura; la tortura in tutte le forme, dei sensi e non dei sensi; la grande fastosità del culto. Il buddhismo è religione per uomini di età tarde, per razze ingentilite, mansuefatte, oltremodo spiritua­lizzate, che troppo facilmente sono sensibili al dolore (— l'Europa non è nemmeno lontanamente matura per esso —): lì il buddhismo riconduce al­la pace e alla serenità, alla dieta nello spirito, ad un certo indurimento nel fisico. Il cristianesimo vuole dominare su belve predatrici', il suo espediente è farne dei malati, — la ricetta cristiana per ammansire, per la «civilizza­zione», è l'infiacchimento. Il buddhismo è una religione per la conclusione e per la stanchezza della civiltà, il cristianesimo non ne trova nemmeno una dinanzi a sé, — in certi casi la fonda.

23.

Il buddhismo, lo torno a dire, è cento volte più freddo, più veritiero, più oggettivo. Esso non ha più bisogno di rendere il proprio soffrire, la pro­pria capacità di soffrire rispettabili per mezzo dell'interpretazione del pec­cato, — dice semplicemente ciò che pensa, «io soffro». Per il barbaro, in­vece, soffrire non è in sé e per sé alcunché di decoroso: gli occorre una in­terpretazione per confessare a se stesso che soffre (il suo istinto lo indirizza piuttosto verso la negazione della sofferenza, verso una muta sopportazio­ne). In questo caso la parola «diavolo» fu un bene: esisteva un nemico strapotente e terribile, — non c'era bisogno di vergognarci di patire per un siffatto avversario.

Il cristianesimo ha, nel fondo, alcune finezze che appartengono all'O­riente. Innanzitutto sa che è in sé del tutto irrilevante che una cosa sia vera, sa invece che è della massima importanza in che misura essa sia creduta ve­ra. La verità e la fede nella verità di qualche cosa: due sfere d'interesse del tutto estranee l'una all'altra, sfere quasi antitetiche — all'una e all'altra si giunge per vie fondamentalmente diverse. Esser sapienti a questo riguardo — in Oriente sta quasi in ciò la saggezza: così è per i brahmani, per Plato­ne, per ogni iniziato alla sapienza esoterica. Se, per esempio, vi è della feli­cità nel credersi redenti dal peccato, non è necessario che come premessa di ciò l'uomo sia in peccato, ma che si senta peccatore. Ma se in generale è ri­chiesta principalmente la fede, allora si deve gettare il discredito sulla ra­gione, sulla conoscenza, sulla ricerca: la via della verità si muta nella stra­da proibita. — Una robusta speranza è uno stimolante alla vita molto più grande di qualsiasi determinata felicità realmente sopravveniente. Chi sof­fre va sostenuto con una speranza che non possa venir contraddetta da al­cuna realtà, — che non venga estinta da un adempimento: una speranza ol-

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tremondana. (Proprio a cagione di questa capacità di tener calmo lo sven­turato, la speranza era ritenuta, presso i Greci, il male dei mali, il male ve­ramente perfido: esso era in fondo al vaso del male.) — Affinché l'amore sia possibile, Dio deve essere persona; affinché gli istinti più bassi" possano aver voce in capitolo, Dio deve esser giovane. Per l'ardore delle femmine s'ha da mettere in mostra un bel santo, per quello dei maschi una Maria. Il tutto in base alla premessa che il cristianesimo vuole affermarsi su un terre­no sul quale i culti afroditici o adonici hanno già determinato il concetto di culto. L'esigenza della castità rafforza la veemenza e l'interiorità dell'istin­to religioso — essa rende il culto più caldo, più fanatico, più appassionato. — L'amore è quella condizione in cui il più delle volte l'essere umano vede le cose come non sono. La forza dell'illusione è qui al suo apice, così pure la potenza molcente, quella che trasfigura. Nell'amore si sopporta più del­l'ordinario, si tollera tutto. Si trattava di inventare una religione in cui si potesse amare: in tal modo uno si butta alle spalle il peggio della vita — non Io vede più per niente. — E questo è quanto riguarda le tre virtù cri­stiane, fede, carità, speranza: io le chiamo le tre accortezze cristiane. — Il buddhismo è troppo tardivo, troppo positivista per essere ancora avveduto a questo modo.

24.

Io sfioro qui soltanto il problema dell'origine del cristianesimo. La pri­ma tesi per la sua soluzione suona così: il cristianesimo è da intendere esclusivamente a partire dal terreno sul quale è cresciuto — esso non è un movimento avverso all'istinto ebraico, è la sua stessa conseguenza, una conclusione ulteriore nell'agghiacciante logica di quello. Per dirlo con la formula del Redentore: «la salvezza viene dagli Ebrei». — La seconda pro­posizione dice: il tipo psicologico del Galileo è ancora riconoscibile; soltan­to tuttavia nella sua completa degenerazione (che è ad un tempo mutilazio­ne e sovrapposizione di tratti estranei —) esso ha potuto servire all'uso che se ne è fatto, al tipo cioè, di un redentore dell'umanità. — Gli Ebrei sono il popolo più considerevole della storia mondiale perché essi, posti davanti alla questione se essere o non essere, hanno scelto, con una consapevolezza assolutamente sinistra, l'essere ad ogni costo: questo costo fu la falsifica­zione di ogni natura, di ogni naturalezza, di ogni realtà, dell'intero mondo interiore non meno che dell'esteriore. Essi si trincerano contro tutte le con­dizioni alle quali, fino a quel momento, ad un popolo era possibile vivere, era consentito vivere: crearono, estraendola da se stessi, un'antitesi concet­tuale alle condizioni naturati, — in maniera irreversibile essi hanno, nel­l'ordine, rovesciato la religione, il culto, la morale, la storia, la psicologia nella contraddizione ai loro valori naturali. Un'altra volta ci imbattiamo nello stesso fenomeno, e in proporzioni indicibilmente ingrandite, anche se solo come copia: in confronto al «popolo dei santi», la Chiesa cristiana de­pone ogni pretesa d'originalità. Appunto perciò gli Ebrei sono il popolo più segnato dal destino nella storia del mondo: nella loro influenza postu­ma essi hanno reso falsa l'umanità in misura tale che ancor oggi il cristiano può aver sentimenti antiebraici senza vedere se stesso come Vultima risul­tante dell'ebraismo.

Nella mia Genealogia della morale ho per la prima volta presentato in maniera psicologica l'antitesi concettuale di una morale aristocratica e di una morale del ressentiment, la seconda delle quali scaturisce dal no alla prima: ebbene, questa è in tutto e per tutto la morale giudaico-cristiana.

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Per poter dire no a tutto ciò che su questa terra rappresenta il movimento ascendente della vita, l'essere ben riuscito, la potenza, la bellezza, l'autoaf­fermazione sulla terra, l'istinto del ressentiment, fattosi genio, dovette in­ventare un altro mondo dal quale quell'assenso alla vita apparisse come il male, come il riprovevole in sé. Esaminato psicologicamente, il popolo ebreo è popolo dalla tenacissima forza vitale che, ove si venga a trovare in una situazione impossibile, volontariamente, con la profondissima saggez­za dell'autoconservazione, si schiera a favore di tutti gli istinti della déca-dence, — non in quanto da essi dominato, ma intuendo in essi un potere con il quale ci si può imporre contro «il mondo». Gli Ebrei sono il contra­rio di ogni decadenti hanno dovuto recitarne la parte fino all'illusione di esserlo, con un non plus ultra del loro genio di attori, hanno saputo porsi alla testa di tutti i movimenti di décadence (— così il cristianesimo di Paolo —), per farne qualcosa che è più forte di qualsiasi partito assertore della vita. La décadence è, per il tipo d'uomo che nel giudaismo e nel cristianesimo tende alla potenza, tipo sacerdotale, solo un mezzo: questa specie d'uomini ha un interesse vitale nel rendere malato il genere umano e nel capovolgere in un significato esiziale per la vita e denigratorio per il mondo i concetti di «buono» e «cattivo», di «vero» e «falso».

25.

Quale storia tipica di ogni snaturamento dei valori di natura, la storia d'Israele è impagabile: mi riferirò a cinque fatti di essa. In origine, soprat­tutto al tempo della monarchia, anche Israele stava con tutte le cose nel giusto rapporto, vale a dire in quello naturale. Il suo Javeh era l'espressio­ne della coscienza di potere, del piacere di sé, della speranza in se stessi: da lui si aspettava vittoria e salvezza, con lui ci si affidava alla natura, che elargisse ciò di cui il popolo abbisogna, — innanzi tutto la pioggia. Javeh è il Dio d'Israele e per conseguenza il Dio della giustizia: tale è la logica di ogni popolo che ha potenza e ne ha una buona coscienza. Nel culto festivo si esprime questo duplice aspetto dell'autoaffermazione di un popolo: esso è grato per i grandi destini grazie ai quali emerse, esso è grato in rapporto al volgersi dell'annata e ad ogni evenienza fortunata nell'allevamento del bestiame e nella coltivazione dei campi. — Questo stato di cose rimase an­cora a lungo l'ideale, anche dopo essere stato soppresso in maniera triste: l'anarchia all'interno, gli Assiri all'esterno. Ma il popolo continuò a consi­derare come massima prospettiva ideale quella visione di un re che è buon soldato e giudice severo: soprattutto la conservò quel profeta tipico (vale a dire critico e satirico dell'attualità) che era Isaia. — Ma ogni speranza ri­mase vana. Il vecchio Dio non poteva più nulla di ciò che poteva una volta. Si sarebbe dovuto lasciarlo andar via. Che cosa accadde invece? Se ne mo­dificò il concetto, — se ne snaturò il concetto: a questo prezzo lo si tratten­ne. — Javeh Dio della «giustizia», — non più una sola cosa con Israele, un'espressione del senso di sé di un popolo: ormai solo un Dio a determi­nate condizioni... La sua nozione diviene uno strumento nelle mani di agi­tatori clericali, i quali, a questo punto, spiegano ogni evento fortunato co­me ricompensa, ogni infortunio come punizione per la disobbedienza a Dio, per un «peccato»: quella mendacissima procedura interpretativa d'un presunto «ordine morale del mondo», in virtù del quale il concetto dato in natura di «causa» ed «effetto» è una volta per tutte capovolto. Solo dopo che, con premio e castigo, si è eliminata dal mondo la naturale causalità, si ha bisogno di una causalità contronatura: a questo punto, in fatto di con-

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tronatura, tutto il resto è logica conseguenza. Un Dio che esige — in luogo di un Dio che aiuta, che porta consiglio, che in fondo è la parola per ogni felice ispirazione dell'animo e della fiducia in se stessi... La morale, non più espressione delle condizioni di vita e di crescita di un popolo, non più il suo più profondo istinto vitale, ma diventata astratta, diventata antitesi al­la vita, — morale come radicale intristirsi della fantasia, come «cattivo sguardo» su tutte le cose. Che cosa sono la morale giudaica, quella cristia­na? Il caso defraudato della sua innocenza; la sventura insudiciata con l'i­dea di «peccato»; — lo star bene come pericolo, come «tentazione»; l'indi­sposizione fisiologica avvelenata dal tarlo della coscienza...

26.

Falsato il concetto di Dio; falsato il concetto della morale — il ceto sa­cerdotale ebraico non si fermò a questo. L'intera storia d'Israele non servi­va più: e allora via anche quella! — Questi preti hanno portato a termine quel capolavoro di falsificazione a documento del quale ci sta dinanzi una buona parte della Bibbia: con impareggiabile irrisione di ogni tradizione, di ogni realtà storica, essi hanno tradotto in chiave religiosa il proprio pas­sato di popolo, e cioè hanno fatto di esso passato uno stupido meccanismo di salvezza a base di colpa contro Javeh e di punizione, di devozione verso Javeh e di ricompensa. Percepiremmo con maggior dolore questo atto estremamente obbrobrioso di falsificazione della storia, se millenni d'in­terpretazione ecclesiastica di essa non ci avessero reso quasi ottusi alle esi­genze dell'onestà in hìstorìcis. E i filosofi hanno assecondato la Chiesa: la menzogna dell'«ordine morale del mondo» pervade tutto lo sviluppo della filosofia anche di quella moderna. Che significa «ordine morale del mon­do»? Che esiste, una volta per tutte, una volontà divina riguardo a ciò che l'uomo deve fare o non fare; che il valore di un popolo, di un individuo si misura in base alla sua maggiore o minore obbedienza al volere divino; che la volontà di Dio si rivela essere, nei destini di un popolo o di un individuo, dominante, vale a dire castigatrice e compensatrice secondo il grado di ob­bedienza. — La realtà, al posto di questa miseranda bugia, è questa: una specie parassitaria di uomo, che prospera solo a spese di tutti gli organismi sani della vita, il prete, abusa del nome di Dio; a uno stato di cose di cui il prete stabilisce il valore di tutto, dà il nome di «regno di Dio»; chiama «volere divino» i mezzi in forza dei quali un tale assetto viene raggiunto o tenuto in piedi; misura con freddo cinismo i popoli, le epoche, gli individui a seconda che abbiano giovato o si siano opposti allo strapotére dei preti. Guardateli all'opera: nelle mani dei preti ebraici l'epoca grande della storia d'Israele è divenuta un'età di decadenza; l'esilio, la lunga sventura si è mu­tata in una perpetua punizione per quel periodo di grandezza — un perio­do in cui il prete era ancora nulla... Delle possenti figure della storia d'I­sraele affermatesi come totalmente libere hanno fatto, all'occorrenza, dei meschini leccapiedi bigotti o dei «senza Dio»; hanno semplificato la psico­logia di ogni grande evento nella formula di idioti: «obbedienza o disobbe­dienza a Dio». — Un passo più in là: la «volontà di Dio» (vale a dire le condizioni per la conservazione del potere sacerdotale) deve essere cono­sciuta — a tale scopo si richiede una «rivelazione». In parole più chiare: è necessaria una grande falsificazione letteraria, viene scoperta una «Sacra Scrittura» — essa viene resa di pubblica ragione con ogni pompa ieratica, con giornate di penitenza e grida di lamento sul lungo «peccato». La «vo­lontà divina» era definita da un pezzo: tutto il malanno consiste nell'esser-

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si allontanati dalla «Sacra Scrittura»... Già a Mosè era stato rivelato il «volere di Dio»... Che cos'era accaduto? Con rigore, e con pedanteria, fi­no ai grandi e ai piccoli tributi che gli si dovevano pagare (— non vanno di­menticati i pezzi più saporiti della carne: giacché il prete è un gran mangia­tore di bistecche)... il prete aveva messo in chiaro una volta per tutte ciò che vuole avere, «qual è la volontà di Dio». Da quel momento in poi tutte le cose della vita sono ordinate in guisa tale che il prete sia ovunque indi­spensabile; in tutte le naturali occorrenze della vita, nascita, matrimonio, malattia, morte, per non parlare poi del «sacrificio» (il pasto), compare il sacro parassita a snaturarle: per dirla con le sue parole, a «santificare»... Poiché questo bisogna capire: ogni costume naturale, ogni naturale istitu­zione (Stato, ordine giudiziario, matrimonio, assistenza dei malati, dei po­veri), ciascuna esigenza ispirata dall'istinto della vita, insomma tutto ciò che ha il proprio valore in sé, viene reso attraverso il parassitismo del prete (o dell'«ordine morale del mondo») radicalmente privo di valore, opposto al valore: ha bisogno di una sanzione a posteriori, — si rende necessario un potere avvalorante, il quale neghi in ciò la natura, il quale appunto in tal modo soltanto crei un valore... Il prete svaluta, dissacra la natura: è solo a questa condizione che egli esiste. — La disobbedienza verso Dio, vale a di­re verso il prete, verso «la legge», riceve a questo punto il nome di «pecca­to»; i mezzi per «riconciliarsi con Dio» sono, come si conviene, mezzi con i quali la soggezione al prete è assicurata ancor più radicalmente: il prete so­lo «redime»... Riesaminandoli in senso psicologico i peccati divengono in­dispensabili in ogni società organizzata clericalmente: essi sono le vere e proprie leve del potere, il prete vive dei peccati, egli ha bisogno che si «pec­chi»... Principio supremo: «Dio perdona a colui che fa penitenza» — in parole povere: a colui che si sottomette al prete. —

27.

Su un terreno in tal guisa falso, in cui ogni natura, ogni valore naturale, ogni realtà avevano contro di sé gli istinti più profondi della classe domi­nante, crebbe il cristianesimo, forma fino ad oggi insuperata di mortale av­versione contro la realtà. Il «popolo santo», che aveva tenuto da parte solo valori da preti, solo parole da preti per ogni cosa, e aveva, con un rigore di conclusione da far paura, separato da sé come «profano», come «mon­do», come «peccato» tutto ciò che altrimenti ancora esisteva in fatto di po­tenza sulla faccia della terra — questo popolo produsse per il proprio istin­to un'ultima formula, logica fino all'abnegazione: sotto l'aspetto di cri­stianesimo esso annientò anche l'ultima forma di realtà, il «popolo santo», il «popolo degli eletti», la stessa realtà ebraica. Il caso è di prim'ordine: il piccolo movimento insurrezionale, che viene battezzato col nome di Gesù di Nazareth, è ancora una volta l'istinto ebraico, — vale a dire, l'istinto del prete che non sopporta più il prete come realtà, l'invenzione di una forma ancor più astratta di esistenza, di una visione del mondo ancor più irreale di quanto imponga l'organizzazione di una Chiesa. Il cristianesimo nega la Chiesa...

Se quella non fu l'insurrezione contro la Chiesa ebraica — «Chiesa» pre­sa proprio nel senso in cui noi oggi prendiamo questa parola, io non vedo contro che cosa fu diretta la rivolta, come istigatore della quale è stato in­teso ovvero malinteso Gesù. Fu un'insurrezione contro «i buoni e giusti», contro «i santi di Israele», contro la gerarchia della società — non contro la sua corruzione, ma contro la casta, il privilegio, l'ordine, la formula; fu

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788 L'ANTICRISTO [28-29]

l'incredulità negli «uomini superiori», il no pronunciato contro tutto ciò che era pretesco e teologico. Ma la gerarchia che in tal guisa, anche se per un solo istante, veniva posta in discussione, era la palafitta sulla quale an­cora sussisteva, nel mezzo delle «acque», il popolo ebraico — l''ultima pos­sibilità faticosamente conquistata di durare, il residuum della sua singolare esistenza politica: attaccare questa fu come attaccare il più profondo istin­to di un popolo, la più tenace volontà popolare di vivere mai esistita sulla faccia della terra. Questo santo anarchico che riscosse il popolino, i reietti e «peccatori», i dandola dell'ebraismo alla contestazione dell'ordine do­minante — con un linguaggio, se si deve prestar fede ai Vangeli, che ancor oggi condurrebbe in Siberia, era un delinquente politico, appunto nella mi­sura in cui delitti politici erano possibili in una comunità assurdamente apolitica. Questo lo portò alla croce: ne è prova l'iscrizione sulla croce. Egli morì per sua colpa — sebbene spesso sia stato sostenuto, è completa­mente infondato dire che egli sia morto per colpa d'altri. —

28.

Una questione completamente diversa è se egli fosse cosciente di una si­mile opposizione, — o se di lui non sia stata percepita che questa opposi­zione. E qui per la prima volta tocco il problema della psicologia del reden­tore. — Confesso che di pochi libri mi è così difficoltosa la lettura come quella dei Vangeli. Queste difficoltà sono ben diverse da quelle alla prova delle quali la dotta curiosità dello spirito germanico ha celebrato uno dei suoi trionfi più indimenticabili. È remoto il tempo in cui anch'io, al pari d'ogni giovane erudito, assaporavo con la sapiente lentezza d'un filologo raffinato l'opera dell'incomparabile Strauss. Avevo allora vent'anni: ades­so sono troppo serio per queste cose. Che mi importa delle contraddizioni della «tradizione»? Ma come si fa, poi, a chiamare «tradizione» delle leg­gende di santi! Le storie di santi sono la letteratura più ambigua che ci sia: applicare ad esse il metodo scientifico, quando non esistano altri documen­ti, mi pare senza speranza in partenza — una pura oziosità da eruditi...

29.

Ciò che a me importa è il tipo psicologico del redentore. Esso potrebbe pure essere contenuto nei Vangeli a dispetto dei Vangeli, quantunque muti-Iato o sovraccaricato di tratti estranei: allo stesso modo in cui quello di Francesco d'Assisi è conservato nelle sue leggende nonostante le sue leg­gende. Non la verità a proposito di ciò che ha fatto, ha detto, di come esat­tamente è morto: bensì la questione se il suo tipo sia ancora affatto imma­ginabile, se sia «tramandato»? — I tentativi che conosco di leggere tra le righe dei Vangeli addirittura la storia di un'«anima» mi sembrano prove di una riprovevole faciloneria psicologica. Il signor Renan, questo Pulcinella in psychologicis, ha tirato in ballo, per la sua spiegazione del tipo Gesù, i due concetti meno pertinenti che si possano dare al riguardo: il concetto di genio e il concetto di eroe («héros»). Ma se c'è qualcosa di poco evangeli­co, questo è il concetto di eroe. Esattamente il contrario di ogni lotta, d'o­gni sentirsi-in-battaglia è qui divenuto istinto: qui diventa morale l'incapa­cità di opporre resistenza («non opporti al male» è la parola più profonda dei Vangeli, in un certo senso la loro chiave), la beatitudine nella pace, nel­la dolcezza, nel non poter-essere-ostili. Che vuol dire «buona novella»? La vita vera, la vita eterna è trovata — non viene promessa, è qui, è in voi: co-

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L'ANTICRISTO [30-31] 789

me vita nell'amore, nell'amore senza sottrazioni o esclusioni, senza distac­co. Chiunque è figlio di Dio — Gesù non pretende assolutamente nulla per sé solo — come figlio di Dio, ognuno è uguale all'altro... Fare di Gesù un eroe! — E che razza di equivoco è poi la parola «genio»! L'intero nostro concetto, l'idea di «spirito» nella nostra cultura non ha, nel mondo in cui Gesù vive, alcun senso. Parlando con il rigore del fisiologo qui tutt'al più sarebbe appropriata un'altra parola, la parola: idiota. Noi conosciamo uno stato di eccitabilità morbosa del senso del tatto, che rabbrividisce e ar­resta davanti a qualsiasi contatto, allo stringere oggetti solidi. Il lettore porti un tale habitus fisiologico alla sua logica estrema — come odio istin­tivo contro qualsiasi realtà, come fuga nell'«inafferrabile», nell'«inconce-pibile», come riluttanza ad ogni formula, ad ogni nozione di tempo e di spazio, contro tutto quanto sia fisso, costume, istituzione, chiesa, come es­ser-di-casa in un mondo che nessuna specie di realtà può più sfiorare, in un mondo ormai solo «interiore», un «vero» mondo, un mondo «eterno»... «Il regno di Dio è in voi»...

30.

L'odio istintivo per la realtà: conseguenza di una esasperata capacità di sofferenza ed eccitabilità, la quale non desidera più assolutamente essere «toccata», avvertendo troppo profondamente ogni contatto.

L'esclusione istintiva di ogni avversione, di ogni inimicizia, d'ogni limite e distanza nel sentire: conseguenza di una esasperata capacità di sofferenza ed eccitabilità, la quale avverte già subito come malessere intollerabile (cioè come dannoso, come sconsigliato dall'istinto di conservazione) ogni contrastare, ogni dover-contrastare, e conosce la beatitudine (il diletto) so­lo nel non opporre più resistenza, più a nessuno, né al male, né alla malva­gità, — l'amore come unica, come ultima possibilità di vita...

Questi sono i due fatti fisiologici, sui quali, dai quali è cresciuta la dot­trina della redenzione. Io la chiamo una sublime evoluzione dell'edonismo su base del tutto patologica. Il parente più prossimo di essa, se pure con una grossa aggiunta di greca vitalità e forza nervosa, rimane l'epicureismo, la dottrina di redenzione del paganesimo. Epicuro, tipico décadent: da me per la prima volta riconosciuto tale. — La paura del dolore, anche dell'in-finitamente piccolo tra i dolori — non può assolutamente culminare altro che in una religione dell'amore...

31.

Ho dato in anticipo la mia risposta al problema. Presupposto di essa è che il tipo del redentore non ci è conservato se non in una forma fortemen­te travisata. Questo travisamento è in sé e per sé molto verosimile: per tan­te ragioni un tipo del genere non poteva rimanere però integro, scevro di aggiunte. Tanto il milieu nel quale questa strana figura si mosse deve aver lasciato tracce su di lui, quanto, e ancor più, la storia, il destino della pri­ma comunità cristiana: di tutto questo il tipo venne, retroattivamente, ad arricchirsi con tratti che risultano comprensibili solo in conseguenza della guerra e per scopi di propaganda. Quello strano mondo malato in cui ci fanno entrare i Vangeli — quasi un mondo da romanzo russo, in cui sem­brano darsi convegno feccia della società, disturbi nervosi e idiozia «infan­tile» — deve in ogni caso aver reso grossolano il tipo: specialmente i primi discepoli tradussero prima nella propria rozzezza questo essere completa-

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mente immerso in simboli e nella inafferrabilità per cominciare a capirne qualcosa, — per loro il tipo poteva darsi solo dopo un suo inserimento in forme più note... Il profeta, il Messia, il giudice a venire, il maestro di mo­rale, il taumaturgo, Giovanni Battista — altrettante occasioni per frainten­dere il tipo... Infine non sottovalutiamo il proprium d'ogni grande venera­zione, dichiaratamente settaria: essa cancella nell'essere venerato i tratti e le idiosincrasie originali, spesso penosamente strane — addirittura non le vede. Bisognerebbe rimpiangere che nelle vicinanze di questo interessantis­simo décadent non abbia vissuto un Dostoevskij, voglio dire qualcuno che sapesse percepire proprio l'affascinante attrattiva di una simile mistura di sublime, malattia e infantilismo. Un'ultima osservazione: in quanto tipo di décadence, questo tipo potrebbe essere stato davvero di una poliedricità e contraddittorietà particolare: una possibilità del genere non è da escludere completamente. Ciò malgrado tutto fa pensare il contrario: in quel caso proprio la tradizione dovrebbe essere stranamente fedele e obiettiva: ab­biamo tuttavia ragione per pensare il contrario. Frattanto c'è una contrad­dizione patente tra il predicatore della montagna, del lago e dei prati, la cui apparizione fa l'effetto di un Buddha su un terreno tutt'altro che indiano, e quel fanatico dell'attacco, nemico mortale dei preti e dei teologi, che la malizia di Renan ha magnificato come «le grand maitre en ironie». Per quanto mi riguarda, non dubito che solo dallo stato di eccitazione della propaganda cristiana possa essersi riversata sul tipo del maestro l'abbon­dante quantità di bile (e perfino di esprit): conosciamo a sufficienza la mancanza di scrupoli di tutti i settari nell' apprestarsi la propria apologia a partire dal proprio maestro. Quando la prima comunità ebbe bisogno, contro i teologi, di un teologo che giudicasse, che litigasse, che imperver­sasse, malignamente cavilloso, si creò il proprio «Dio» secondo la propria necessità: allo stesso modo gli mise in bocca senza esitazione anche quei concetti del tutto anti-evangelici come «avvento», «giudizio universale» e ogni sorta di aspettative e di promesse temporali, dei quali ora non poteva fare a meno. —

32.

Io mi oppongo, lo torno a dire, a che si inserisca il fanatico nel tipo del redentore: il vocabolo impérieux, che Renan usa, annulla già da solo il ti­po. La «buona novella» è appunto che non ci sono più antitesi; il regno dei cieli appartiene ai fanciulli; la fede che qui si fa sentire non è una fede con­quistata, — esiste, è dall'inizio, è per così dire una fanciullezza spirituale di ritorno. È familiare perlomeno ai fisiologi come fenomeno conseguente al­la degenerazione, il caso della pubertà ritardata e non integrata nella for­mazione organica. — Una fede del genere non va in collera, non rimprove­ra, non si difende: non porta «la spada», — essa non presenta affatto in che misura potrebbe un giorno separare. Non dà prova di sé, né con mira­coli, né con ricompense e promesse, né tantomeno «attraverso la Scrittu­ra»; essa stessa è ad ogni istante il proprio miracolo, la propria ricompen­sa, la propria prova, il proprio «regno di Dio». Questa fede non formula neppure se stessa — vive, si oppone alle formule. Indubbiamente la contin­genza dell'ambiente, della lingua, della preparazione determina un certo ambito di idee: il primo cristianesimo adopera solo concetti giudaico-semi-tici (— tra questi il mangiare e il bere nell'eucarestia; un concetto così ma­lamente abusato dalla Chiesa, come tutto ciò che è ebraico). Ma si badi be-

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ne a vedere in ciò qualcosa di più che un discorso mimico, una semeiotica, un'opportunità di discorrere per metafore. Proprio il fatto che nessuna pa­rola viene presa alla lettera è, per quest'antirealista, la condizione prelimi­nare per potere, in genere, parlare. In mezzo a Indiani si sarebbe servito dei concetti del Sankhya, tra i Cinesi di quelli di Laotse, — senza notarvi differenza alcuna. — Con una certa approssimazione nell'espressione, si potrebbe definire Gesù un «libero spirito» — egli non se ne fa nulla di tut­to quanto è fisso: la parola uccide, tutto ciò che è fisso uccide. Il concetto, l'esperienza «vita», così come lui la conosce, si oppone, per lui, a qualsiasi specie di parola, formula, legge, credenza, dogma. Egli parla solo di ciò che è intimo — tutto il resto, l'intera realtà, l'intera natura, la lingua stessa hanno per lui solo il valore di un segno, di una metafora. — A questo pun­to non è nemmeno in alcun modo capir male, benché sia grande la seduzio­ne presente nel pregiudizio cristiano, intendo dire ecclesiastico: un tale sim­bolismo par excellence sta fuori da ogni religione, da ogni concetto di cul­to, da ogni storia, da ogni scienza naturale, da ogni esperienza del mondo, da ogni conoscenza, da ogni politica, da ogni psicologia, da ogni libro, da ogni arte — il suo «sapere» consiste appunto soltanto nella pura follia che qualcosa di simile esista. La cultura non gli è nota nemmeno per sentito di­re, non gli è necessaria alcuna lotta contro di essa, — non la nega... Lo stesso vale per lo Stato, per l'intero ordine e l'intera società civile, per il la­voro, per la guerra — egli non ha mai avuto una ragione per negare «il mondo», egli non ha mai avuto sentore del concetto ecclesiastico di «mon­do»... Il negare è appunto la cosa che gli è del tutto impossibile. — Così pure è assente la dialettica, è assente il pensiero che una fede, una «verità» possa venir provata con argomenti (— le sue prove sono «luci» interiori, interiori sensazioni di diletto e autoconferme, nient'altro che «prove di forza» —). Una simile dottrina non è nemmeno in grado di contraddire; essa non concepisce neppure che esistano, che possano esistere altre dottri­ne; non riesce nemmeno a immaginarsi un giudicare in senso contrario... Ove si imbatta in esso, con la più profonda partecipazione compiangerà la sua «cecità», — dal momento che essa vede la «luce» —, ma non farà obiezioni...

33.

Nell'intera psicologia del «Vangelo» manca il concetto di colpa e di pu­nizione; similmente quello di ricompensa. Il «peccato», qualsivoglia rap­porto di distacco tra Dio e uomo, è abolito, — e appunto attesta è la «buo­na novella». La beatitudine non viene promessa, non viene vincolata a condizioni: è Vunica realtà — il resto è figura per parlarne...

La conseguenza di una siffatta situazione si rispecchia in una nuova pra­tica; la pratica propriamente evangelica. Non una «fede» contraddistingue il cristiano: il cristiano agisce, egli si distingue attraverso un diverso agire: nel non opporre resistenza a colui che gli fa del male, né con la parola, né in cuor suo: nel non far differenza tra forestieri e indigeni, tra Giudei e non Giudei («il prossimo» è propriamente il compagno di fede, l'Ebreo). Nel non adirarsi con nessuno, nel non umiliare nessuno: nel non farsi né vedere, né implicare in tribunali («non giurare»): nel non dividersi dalla propria donna in nessun caso, neppure in quello di comprovata infedeltà. — In sostanza un unico principio, tutte conseguenze di un solo istinto.

La vita del Redentore non fu altro che questa pratica, — anche la sua

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morte non fu nulla di diverso... Egli non aveva più bisogno di formule, di un rito per la comunicazione con Dio — nemmeno della preghiera. Ha chiuso la partita con tutta la dottrina ebraica della penitenza e della ricon­ciliazione; sa che solo con la pratica di vita l'uomo si sente «divino», «bea­to», «evangelico», in ogni momento «figlio di Dio». Non I'«ammenda», non «la implorazione del perdono» sono strade verso Dio: la pratica evan­gelica sola conduce a Dio, essa è appunto «Dio»! — Ciò che si toglieva di mezzo col Vangelo era l'ebraismo dei concetti di «peccato», «remissione del peccato», «fede», «redenzione mediante la fede» — l'intera dottrina ecclesiastica ebraica era negata dalla «buona novella».

L'istinto profondo di come uno debba vivere per sentirsi «in cielo», per sentirsi «eterno», mentre comportandosi in qualsiasi altro modo uno non si sente affatto «in cielo»: questa sola è la realtà psicologica della «reden­zione». — Una nuova regola di vita, non una nuova fede...

34.

Se c'è una cosa che io intendo di questo grande simbolista è che egli pre­se come realtà, come «verità», solo realtà interiori, — che intese tutto il re­sto, tutto quanto è naturale, temporale, spaziale, storico solo come segno, come occasione per parabole. La nozione di «figlio dell'uomo» non è una persona concreta, che faccia parte della storia, qualcosa di singolare, irri­petibile, bensì una realtà «eterna», un simbolo psicologico affrancato dalla nozione di tempo. Altrettanto dicasi ancora una volta, e nel senso più alto, del Dio di questo simbolista tipico, del «regno di Dio», del «regno dei cie­li», dello stato di «figli di Dio». Niente è più anticristiano delle ottusità ec­clesiastiche di un Dio come persona, di un «regno di Dio» a venire, di un «regno dei cieli» nell' al di la', di un «figlio di Dio» seconda persona della Trinità. Tutto ciò è — mi si perdoni l'espressione — il classico pugno nel­l'occhio — e in che occhio! — quello del Vangelo; un cinismo storico mon­diale nello scherno del simbolo... Eppure è evidente dove si va a parare con le figure del «padre» e del «figlio» — non per tutti evidente, lo ammetto: con la parola «figlio» si esprime {'immissione di tutte le cose in un senso onnicomprensivo di trasfigurazione (la beatitudine), con la parola «padre» questo sentimento stesso, il senso dell'eternità, della compiutezza. — Mi vergogno a rammentare quel che la Chiesa ha fatto di questo simbolismo: non ha forse piantato una storia d'Anfitrione sulla soglia della «fede» cri­stiana? E un dogma della «immacolata concezione» o coronamento?... Ma in tal modo è essa ad aver macchiata la concezione... Il «regno dei cieli» è uno stato dell'anima — non qualcosa che viene «oltre la terra» o «dopo la morte». Il concetto della morte naturale manca de! rutto nel Vangelo: la morte non è un ponte, un trapasso, essa manca in quanto appartiene ad un mondo del tutto diverso, di pura parvenza, utile solo per figure simboli­che. L'«ora della morte» non è un concetto cristiano — l'«ora», il tempo, la vita corporea e le sue crisi non esistono affatto per il maestro della «buo­na novella»... Il «regno di Dio» non è qualcosa che uno si aspetti; non ha un ieri e un dopodomani, non giunge tra «mille anni» — è un'esperienza di un'anima; esiste in tutti e in nessun luogo...

35.

Questo «lieto nunzio» morì come visse, come aveva insegnato — non per «redimere gli uomini», ma per dimostrare come s'ha da vivere. È la pratica del vivere che egli lasciò in retaggio all'umanità: il suo contegno di-

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nanzi ai giudici, dinanzi alla soldataglia, agli accusatori e ad ogni sorta di calunnia e di derisione, — il suo contegno sulla croce. Non resiste, non di­fende il suo diritto, non fa un passo per allontanare da sé il peggio, anzi, lo provoca... E prega, soffre, ama con coloro, in coloro che gli fanno del ma­le... Le parole rivolte al ladrone sulla croce racchiudono l'intero Vangelo. «Questi è stato in verità un uomo divino, un "figlio di Dio!"», dice il la­drone. «Se tu senti questo» — risponde il redentore — «allora sei in para­diso, allora sei anche tu un figlio di Dio...» Non difendersi, non andare in collera, non attribuire responsabilità... Anzi non resistere nemmeno al malvagio — amare anche lui...

36.

— Solo noi, noi spiriti liberati, possediamo il presupposto per intendere qualcosa che diciannove secoli hanno frainteso — questa rettitudine dive­nuta istinto e passione, che alla «menzogna sacra» ancor più che a qualsia­si altra fa la guerra... Si è stati indicibilmente distanti dalla nostra amore­vole e prudente neutralità, da quella educazione dello spirito con la quale sola diventa possibile cogliere così strane, così delicate cose: in ogni tempo si volle, con spudorato egoismo, solo il proprio tornaconto, la Chiesa è stata edificata sulla negazione del Vangelo...

Chi andasse in cerca di indizi del fatto che dietro il grande gioco dei mondi, muove le dita un'ironica divinità, troverebbe un non piccolo appi­glio nel gigantesco punto interrogativo che ha nome cristianesimo. Che l'u­manità sia inginocchiata davanti all'antitesi di ciò che era l'origine, il sen­so, la giustezza del Vangelo, che nell'idea di «Chiesa» essa abbia santifica­to proprio ciò che il «buon nunzio» sentiva sotto di sé, dietro di sé — inva­no si cerca una forma più grande di ironia storico-mondiale. —

37.

— La nostra epoca è fiera del proprio senso storico: come ha potuto pre­star fede all'assurdità che al principio del cristianesimo stia la grossolana fola di un taumaturgo e redentore, — e che tutto quanto è spirituale e sim­bolico sia solo uno sviluppo posteriore? Viceversa: la storia del cristianesi­mo—e cioè dalla crocefissione in poi — è la storia del fraintendimento gradualmente sempre più rozzo di un originario simbolismo. Con l'esten­dersi del cristianesimo a masse ancor più vaste, ancor più primitive, a cui sempre più sfuggivano le premesse dalle quali il cristianesimo è nato, creb­be la necessità di volgarizzarlo e di imbarbarirlo — esso ha ingollato dottri­ne e riti di tutti i culti sotterranei dello imperium romanum, l'assurdità di ogni specie di ragione malata. 11 destino del cristianesimo consiste nella ne­cessità che la stessa sua fede dovesse farsi così malata, così bassa e volgare, quanto malati, bassi e volgari erano i bisogni che dovevano con essa venir soddisfatti. Sotto forma di Chiesa è la stessa barbarie malata che finalmen­te va ad assommarsi al potere — la Chiesa, questa forma di odio mortale per ogni rettitudine, per ogni elevatezza dell'anima, per ogni educazione dello spirito, per ogni franca e benevola umanità. — I valori cristiani — i valori nobili: per primi noi, noi spiriti liberati, abbiamo ripristinato questa grandissima antitesi di valore fra quelle esistenti! —

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38.

— A questo punto non riesco a reprimere un sospiro. Vi sono giorni in cui mi assale un sentimento nero più della più nera malinconia — il di­sprezzo per l'uomo. E per non lasciare alcun dubbio su che cosa, su chi io disprezzi: è l'uomo di oggi, l'uomo del quale io sono per fatalità contem­poraneo. L'uomo di oggi — il suo alito immondo mi mozza il fiato... Ver­so il passato sono, al pari d'ogni soggetto conoscente, estremamente tolle­rante, il che significa magnanimo nel dominio di me stesso. Si chiami esso «cristianesimo», «fede cristiana», «Chiesa cristiana», passo attraverso il mondo manicomiale di interi millenni con tetra circospezione — mi guardo bene dal ritenere l'umanità responsabile per le proprie malattie mentali. Ma il mio sentimento si ribalta, prorompe appena metto piede nell'epoca moderna, nel nostro tempo. Il nostro tempo sa... Ciò che prima era solo patologico, oggi è divenuto indecente — esser cristiani oggi è indecente. E qui comincia il mio disdegno. — Mi guardo in giro: non una sola parola è rimasta di ciò che una volta aveva nome «verità», nemmeno più sopportia­mo che un prete anche solo pronunci la parola «verità». Anche se mode­stissima è la nostra aspirazione alla rettitudine, oggi dobbiamo sapere che un teologo, un prete, un papa ad ogni frase che dice, non solo sbaglia, ma mente — che non è loro più consentito di mentire per «innocenza», per «ignoranza». — Anche il prete sa, bene quanto chiunque altro, che non vi è più alcun «Dio», alcun «peccatore», alcun «redentore», — che «libero arbitrio», «ordine morale del mondo» sono menzogne: la serietà, il pro­fondo autosuperamento dello spirito non consentono più a nessuno di non sapere a questo riguardo... Tutti i concetti della Chiesa sono riconosciuti per quello che sono, la più malvagia falsificazione di moneta che esista, in­tesa a svilire la natura, i valori di natura; il prete stesso è riconosciuto per quello che è, la più pericolosa specie di parassita, l'autentico ragno veleno­so della vita... Noi sappiamo, la nostra coscienza oggi sa — guanto esatta­mente valgono, a che cosa servivano le sinistre invenzioni dei preti e della Chiesa, con le quali è stato raggiunto quello stato di autodenigrazione del­la umanità, che può renderne nauseante la vista — le nozioni di «al di là», «giudizio universale», «immortalità dell'anima», la stessa «anima» sono strumenti di tortura, sono sistemi di crudeltà in forza dei quali il prete di­venne padrone, restò padrone... Tutti lo sanno: eppure tutto rimane come prima. Dove è finito l'ultimo brandello di decenza, di rispetto per se stessi, quando perfino i nostri uomini di Stato, specie di uomini del resto spregiu­dicatissimi e anticristiani da cima a fondo nelle loro azioni, ancor oggi si chiamano cristiani e s'accostano all'eucarestia?... Un giovane principe alla testa dei suoi reggimenti, splendida espressione dell'egoismo e della autoe­saltazione del proprio popolo — che senza la minima vergogna, si profes­sa cristiano!... Di chi è dunque negazione il cristianesimo? Che cosa vuol dire «mondo»? Essere soldato, giudice, patriota; difendersi; tenere al pro­prio onore; volere il proprio tornaconto; essere orgogliosi... La pratica d'ogni istante, ogni istinto, ogni valutazione che divenga azione è oggi an­ticristiano: che razza di filiazione deforme della falsità deve essere mai l'uomo moderno, se malgrado ciò non ha vergogna di chiamarsi ancora cristiano!...

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39. — Torno indietro, narro la storia genuina del cristianesimo. — Già la

parola «cristianesimo» è un equivoco, — in realtà è esistito un solo cristia­no, e quello è morto sulla croce. Il «Vangelo» è morto sulla croce. Quello che da quel momento in poi si chiama «Vangelo» era già il contrario di ciò che egli aveva vissuto: una «mala novella», un Dysangelium. È sbagliato fino all'assurdo vedere in una «fede», per esempio nella fede nella reden­zione ad opera di Cristo, il contrassegno del cristiano: solo la pratica cri­stiana, un vivere come visse colui che morì sulla croce è cristiano... Ancora oggi una vita del genere è possibile, per certi uomini perfino necessaria: il cristianesimo vero, quello originario sarà possibile in ogni tempo... Non un credere, bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere... Gli stati della coscienza, una qualsiasi fede, un tener-per-vero, ad esempio, sono — ogni psicologo lo sa — proprio del tutto irrilevanti e di quinto ordine rispetto al valore degli istinti: per dirla con più rigore, l'inte­ra nozione di causalità intellettuale è falsa. Ridurre Tessere-cristiani, la cri­stianità ad un tener-per-vero, ad una mera fenomenalità della coscienza, si­gnifica negare la cristianità. In realtà non sono affatto esistiti dei cristiani. Il «cristiano», ciò che da due millenni ha nome cristiano, non è altro che un fraintendimento psicologico di se stessi. A guardare con più attenzione, in lui dominavano, malgrado ogni «fede», solo gli istinti — e che istinti] — La «fede» fu in tutti i tempi, ad esempio per Lutero, solo un mantello, un pretesto, una cortina, dietro la quale gli istinti facevano il loro gioco, — un'astuta cecità sul dominio di certi istinti... La «fede» — già la chiamai la peculiare astuzia cristiana — si parlò sempre di «fede», si agì sempre e solo per istinto... Nel mondo mentale del cristiano non compare nulla che abbia anche soltanto sfiorato la realtà: viceversa abbiamo riconosciuto nell'odio istintivo contro ogni realtà l'elemento, l'unico elemento traente alla radice del cristianesimo. Che cosa ne consegue? Che qui, anche in psychologicis, l'errore è radicale, vale a dire che determina l'essenza, è cioè sostanza. Eli­minate di qui un solo concetto e sostituitelo con un'unica realtà — tutto il cristianesimo rotolerà nel nulla! — Visto dall'alto, questo singolarissimo tra tutti i fatti, una religione non soltanto condizionata da errori, ma in­ventiva e perfino geniale solo in dannosi errori, solo in errori che avvelena­no la vita e il cuore, questa religione rimane uno spettacolo per gli dèi — per quelle divinità che sono al tempo stesso filosofi, e in cui, ad esempio, io mi sono imbattuto in quei famosi dialoghi di Nasso. Nell'istante in cui il disgusto abbandona quelle (— e noi! —), sentono gratitudine per lo spetta­colo del cristiano: il miserevole piccolo astro che ha nome terra, merita, non foss'altro che per questo curioso caso, una occhiata divina, una divina partecipazione... In altre parole non sottovalutiamo il cristiano: egli, falso fino all'innocenza, è di gran lunga superiore alla scimmia, — parlando di cristiani una nota teoria sulla evoluzione diventa un puro complimento...

40.

— La sorte del Vangelo si decise con la morte, — pendette dalla «cro­ce»... Soltanto la morte, quella infamante morte inaspettata, soltanto la croce, che in generale era riservata unicamente alla canaille — soltanto questo paradosso tra i più tremendi mise i discepoli di fronte al vero enig­ma: «chi era costui? che cosa è stato tutto ciò?». — Il sentimento scosso e

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offeso fin nel più profondo, il sospetto che una simile morte potesse essere la confutazione della loro causa, il terribile interrogativo «perché proprio in questo modo?» — si comprende anche troppo bene questo stato d'ani­mo. Tutto, in quel quadro, doveva essere necessario, avere un significato, una ragione, un'altissima ragione; l'amore di un discepolo non conosce il caso. Solo allora il baratro si aprì: «chi lo ha ucciso? chi era il suo nemico naturale?» — questa domanda proruppe come un fulmine. Risposta: l'e­braismo al potere, la sua classe più alta. Da quel momento in poi ci si sentì ribelli contro l'ordine, in seguito si intese Gesù come un ribelle contro l'or­dine. Fino a quel momento questo tratto guerriero, questo tratto di dissen­so, di renitenza, era assente nella sua figura; anzi, egli ne era stato la con­traddizione. Evidentemente la piccola comunità non ha capito proprio la cosa principale, l'esemplarità di questa maniera di morire, la libertà, la su­periorità sopra ogni senso di ressentiment: — un sintomo di quanto poco, in genere, essa capiva di lui! In sé e per sé, con la propria morte, Gesù non poteva voler nient'altro che dare pubblicamente la prova più forte, la di­mostrazione del proprio insegnamento... Ma i suoi discepoli erano ben lungi dal perdonare quella morte, — la qual cosa sarebbe stata evangelica nel senso più alto; o dall'offrirsi addirittura ad una uguale morte con soave e ridente pace di cuore... Proprio il più antievangelico dei sentimenti, la vendetta, venne nuovamente alla superficie. Per niente al mondo la cosa poteva concludersi con quella morte: ci volevano «rivincita», «giustizia» (— eppure, che cosa ci può essere di più antievangelico che la «rivincita», la «punizione», il «pronunciare una sentenza»!). Ancora una volta veniva alla ribalta l'aspettativa popolare di un messia; si concentrò Io sguardo su un momento storico: il «regno di Dio» viene a giudicare i suoi nemici... Ma in tal modo tutto è equivocato: il «regno di Dio» come atto finale, co­me promessa! Ma proprio il Vangelo era stato l'esistenza, l'adempimento, la realtà di quel «regno». Proprio una morte simile appunto era questo «regno di Dio»... Solo a quel punto tutto il disprezzo e tutta l'amarezza contro farisei e teologi vennero attribuiti al tipo del maestro —fecero di lui in tal modo un fariseo e un teologo! D'altra parte la selvaggia venerazione di queste anime completamente sconvolte non tollerava più la perequazio­ne evangelica di ognuno a figlio di Dio, che Gesù aveva insegnato: la loro vendetta consistette nel levare Gesù in alto senza alcuna misura, nello stac­carlo da sé: proprio come una volta gli Ebrei, per vendetta contro i loro ne­mici, avevano allontanato da sé il loro Dio e l'hanno levato in alto. L'uni­co Dio e l'unico figlio di Dio: ambedue prodotti del ressentiment...

41.

— E da quel momento si affacciò un problema assurdo: «come poteva Dio permettere ciò!». Ad esso la mente turbata della piccola comunità tro­vò una risposta francamente e spaventosamente assurda: Dio offrì suo fi­glio come vittima per la remissione dei peccati. In questo modo, d'un sol colpo, per il Vangelo fu la fine! Il sacrificio espiatorio, e nella sua forma invero più ripugnante e più barbara, il sacrificio dell'innocente per i pecca­ti dei colpevoli! Quale tremendo paganesimo! — Gesù aveva abolito persi­no il concetto stesso di «colpa», egli ha smentito ogni abisso fra Dio e uo­mo, ha vissuto questa unità del Dio fatto uomo come la sua «buona novel­la»... E non come privilegio! — A partire da quel momento si trapassò gradualmente nel tipo del redentore: la dottrina del giudizio e del ritorno,

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la dottrina della morte come morte sacrificale, la dottrina della resurrezio­ne, con cui è raggirato l'intero concetto di «beatitudine», l'intera ed unica realtà del Vangelo, — a vantaggio di uno stato posteriore alla morte!... Con quella impudenza da rabbino che lo contraddistingue in ogni cosa, Paolo ha logicizzato come segue questa concezione, questo sconcio di con­cezione: «Se Cristo non è risorto da morte, allora la nostra fede è vana». — E d'un colpo si fece del Vangelo la più spregevole di tutte le promesse ir­realizzabili, la spudorata dottrina dell'immortalità personale... Paolo in persona la insegnò inoltre come ricompensai...

42.

Ora si vede che cosa ha termine con la morte sulla croce: un nuovo ini­zio, del tutto originario, per un buddhistico movimento di pace, per una effettiva, non solamente promessa, felicità in terra. Poiché questa rimane — già l'ho messo in rilievo — la fondamentale differenza tra le due religio­ni della décadence: il buddhismo non promette, ma mantiene, il cristianesi­mo promette tutto, ma non mantiene nulla. — Alla «buona novella» seguì da presso la peggiore di tutte: quella di Paolo. In Paolo s'incarna il tipo opposto al «buon nunzio», il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell'odio! Che non ha sacrificato all'odio questo disangelista? Innanzitut­to il redentore: egli lo inchiodò alla sua croce. La vita, l'esempio, la dottri­na, la morte, il significato e il diritto dell'intero Vangelo — nulla esistette più, quando questo falsario per odio comprese che cosa solo poteva servir­gli. Non la realtà, non la verità storica... E ancora una volta l'istinto sacer­dotale degli Ebrei commise un identico, grande crimine contro la storia, — tirò semplicemente un tratto di penna sull'ieri, sull'avant'ieri del cristiane­simo, si inventò una storia del primo cristianesimo. C'è di più: falsificò an­cora una volta la storia d'Israele, affinché apparisse come la preistoria del suo agire: tutti i profeti hanno parlato del suo «redentore»... Più tardi la Chiesa falsificò perfino la storia della umanità, facendone la preistoria del cristianesimo... Il tipo del redentore, la dottrina, la pratica, la morte, il senso della morte, perfino il «dopo» della morte — nulla rimase intatto, nulla rimase anche soltanto simile alla realtà. Paolo spostò semplicemente il peso di tutta quell'esistenza dietro tale esistenza — nella menzogna del Gesù «risuscitato». Fondamentalmente la vita del redentore non poteva servirgli per niente, egli aveva bisogno della morte sulla croce e di qualco­s'altro ancora... Prendere per sincero un Paolo, che ebbe per patria la sede principale dell'illuminismo stoico, allorché con un'allucinazione si fabbri­ca la prova del vivere-ancora del redentore, o prestar fede a quanto ci rac­conta sul fatto che egli stesso ha avuto quella allucinazione, sarebbe una vera niaiserie da parte di uno psicologo: Paolo voleva il fine, quindi volle anche i mezzi... Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti, tra i quali aveva diffuso la sua dottrina. — La potenza era il suo bisogno: con Paolo ancora una volta il prete mirò alla potenza — egli poteva utilizzare soltanto idee, teorie, simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano greggi. Quale cosa Maometto si limitò a prendere tardi a prestito dal cri­stianesimo? L'invenzione di Paolo, il suo espediente per la tirannide dei preti, per accozzare greggi: la credenza dell'immortalità — vale a dire la dottrina del «giudizio»...

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43.

Quando uno colloca il peso della vita non nella vita, ma nelP«al di là» — nel nulla —, ha tolto alla vita in generale il suo peso. La grande menzo­gna dell'immortalità personale distrugge nell'istinto ogni ragione, ogni na­tura; tutto ciò che negli istinti è benefico, propizio alla vita, garante del­l'avvenire, suscita a quel punto diffidenza. Vivere in modo che il vivere non abbia più alcun senso, diventa allora il «senso» della vita... A che sco­po senso della comunità, a che scopo poi gratitudine verso l'origine e gli antenati, a che scopo collaborare, aver fiducia, promuovere e proporsi un bene comune?... Altrettante «tentazioni», altrettante deviazioni dalla «ret­ta via» — «una sola cosa è necessaria»... Che ognuno, in quanto «anima immortale», abbia uguale rango di ogni altro, che nell'insieme di tutte le creature la «salvezza» di ogni individuo possa pretendere un'importanza eterna, che piccoli bigotti e per tre quarti pazzi possano immaginarsi che per loro vengano costantemente infrante le leggi di natura — non si mar-chierà mai con abbastanza disprezzo una simile dilatazione all'infinito nel­la spudoratezza, di ogni specie d'egoismo. Eppure a questa miserabile piaggeria della vanità personale deve la sua vittoria il cristianesimo — con ciò appunto esso ha convertito a sé tutti i malriusciti, tutti quanti rimugi­nano la rivolta, i malridotti, tutta la feccia e i rifiuti dell'umanità. La «sa­lute dell'anima» — in parole povere: «il mondo gira intorno a me»... Il ve­leno della dottrina «uguali diritti per tutti» — il cristianesimo lo ha semi­nato nel modo più radicale; il cristianesimo ha fatto una guerra mortale ad ogni senso di rispetto e di distacco fra uomo e uomo, vale a dire alla pre­messa di ogni innalzamento, di ogni crescita della cultura: col risentimento delle masse ha forgiato la sua arma principale contro di noi, contro tutto ciò che è nobile, sereno, magnanimo sulla terra, contro la nostra felicità in terra... L'«immortalità» accordata a qualunque Pietro e Paolo è stata fino ad oggi il massimo, il più malvagio attentato alla nobile umanità. — E non sottovalutiamo la sinistra fatalità insinuatasi dal cristianesimo fin nella po­litica! Nessuno oggi ha più il coraggio di rivendicare diritti particolari, di­ritti di primato, un senso di rispetto per sé e i propri pari — un pathos della distanza... La nostra politica è malata di questa mancanza di coraggio! — L'aristocraticismo dei sentimenti venne minato, fin da sottoterra, dalla menzogna della parità delle anime; e se la credenza nelle «priorità della maggioranza» fa e farà rivoluzioni — è il cristianesimo, non v'è dubbio, sono valutazioni cristiane quello che ogni rivoluzione traduce in sangue e delitti! Il cristianesimo è un'insurrezione di tutto ciò che striscia sulla terra contro ciò che sta in alto: il Vangelo dei «bassi» rende bassi...

44.

— Quale testimonianza della corruzione già intollerabile all'interno del­la prima comunità, i Vangeli sono inestimabili. Ciò che Paolo condusse a termine più tardi, col cinismo logico di un rabbino, non fu tuttavia che il processo di decadenza iniziato con la morte del redentore. — Non si potrà mai leggere con abbastanza prudenza questi Vangeli; nascondono le loro difficoltà dietro ad ogni parola. Riconosco, e ciò vada a mia giustificazio­ne, che proprio per questo per uno psicologo essi sono un piacere di pri-m'ordine, — come antitesi d'ogni ingenua depravazione, come raffina­mento par excellence, come virtuosismo in fatto di pervertimento psicolo-

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gico. I Vangeli sono una cosa a parte. Nemmeno la Bibbia regge al con­fronto. Siamo tra Ebrei: primo punto fermo, per non perdere qui comple­tamente il filo. L'autodissimulazione del «sacro», la quale qui tocca fran­camente la genialità, mai raggiunta tra libri e tra gli esseri umani, se non per approssimazione, questa falsa coniazione di parole e gesti come arte non è l'intervenire fortuito di una qualche particolare dote di natura, di una qualche tempra d'eccezione. Qui ci vuole razza. Nel cristianesimo, in quanto arte di mentire santamente, è l'intera ebraicità, un plurisecolare esercizio e tecnica ebraica della massima serietà, a raggiungere l'ultima maestria. Il cristiano, quest'ultima ratio della menzogna, è ancora una vol­ta l'ebreo — anche tre volte... La volontà fondamentale di applicare sol­tanto concetti, simboli, atteggiamenti verificati dalla prassi del sacerdote, il rifiuto istintivo di ogni altra prassi, di ogni altro genere di prospettiva di valore e d'utilità — questa non è soltanto tradizione, questa è eredità. L'u­manità intera, financo i migliori cervelli delle epoche migliori — (escluso uno, che forse è soltanto un essere disumano —) si sono lasciati ingannare. Si è Ietto il Vangelo come libro dell'innocenza... neanche un lieve accenno alla maestria con cui qui si è recitato. — Certo, ci fosse dato vederli, anche solo di passaggio, tutti questi mirabolanti bacchettoni e santi ad arte, la questione sarebbe chiusa — e proprio perché io non leggo una parola senza veder gesticolare, la faccio finita con loro... Non sopporto, in loro, una certa maniera di alzare gli occhi al cielo. Per fortuna, per la maggior parte della gente, quei libri non sono altro che letteratura. Non ci si deve lasciar fuorviare: «Non giudicate!» dicono, ma mandano all'inferno tutti coloro che ostacolano loro il passo. Lasciando che sia Dio a giudicare, sono loro stessi a giudicare; glorificando Dio, glorificando se stessi; si danno grandi arie di lottare per la virtù, di combattere per la supremazia della virtù men­tre pretendono proprio le virtù delle quali loro sono capaci — anzi, di cui hanno bisogno proprio per rimanere in alto. «Noi viviamo, moriamo, ci sacrifichiamo per il bene» (— «verità», «la luce», «il regno di Dio»); in ve­rità fanno ciò di cui non possono fare a meno. Di quel loro tirare avanti ipocrita, di quel sedere in un canto, di quel vegetare come ombre nell'om­bra, si fanno un dovere: come un dovere appare la loro vita di umiltà, in quanto umiltà è una prova in più di devozione... Ah questa dimessa, casta, misericordiosa specie d'impostura! «La virtù medesima deporrà a nostro favore»... Si leggano i Vangeli come libri di seduzione con morale: la mo­rale viene messa sotto sequestro da questa gentucola — essi sanno qual è l'importanza della morale! Con la morale l'umanità viene egregiamente menata per il nasol — 11 fatto è che qui la più consapevole presunzione da eletti recita la parte della modestia: essi hanno messo se stessi, la «comuni­tà», i «buoni e giusti» una volta per tutte da una parte, da quella della «ve­rità» — e il resto, «il mondo», dall'altra... Questa fu la più calamitosa spe­cie di megalomania mai esistita finora sulla terra: una piccola prole defor­me di impostori e baciapile cominciò ad arrogarsi i concetti di «Dio», «ve­rità», «luce», «spirito», «amore», «saggezza», «vita», pressappoco come sinonimi di se stessa per delimitare così il «mondo» rispetto a sé; piccoli Ebrei al superlativo, maturi per ogni sorta di manicomio, rovesciarono i valori in generale in direzione di se stessi, quasi che solo il cristiano fosse il senso, il sale, la misura, e anche il giudizio finale di tutto il resto... L'intera iattura fu resa possibile solo dal fatto che nel mondo già esisteva una specie affine, affine per razza, di mania di grandezza, quella giudaica: appena il baratro tra Ebrei ed ebreo-cristiani si fu aperto, a questi ultimi non rimase altra scelta che applicare essi stessi contro gii Ebrei gli stessi sistemi di au-

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toconservazione che l'istinto giudaico suggeriva, mentre gli Ebrei fino a quel momento li avevano applicati contro tutto ciò che non era ebreo. Il cristiano è solo un ebreo di confessione «più libera». —

45.

— Presento un paio di saggi di ciò che questa gentucola si è messa in te­sta, di quello che ha messo in bocca al proprio maestro: semplici professio­ni di fede di «anime belle». — «E se taluni non vi vogliono ricevere né ascoltare, allontanatevi da loro e scuotete la polvere dai vostri piedi, per fare testimonianza contro di loro. Io vi dico: in verità, Sodoma e Gomorra nel giudizio finale saranno trattate meno duramente di una simile città» (Marco 6, 11). — Com'è evangelico]...

«E se taluno scandalizzerà uno dei piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse scagliato in mare» (Marco 9, 42). — Com'è evangelico!...

«Se il tuo occhio ti dà scandalo, strappalo; è meglio per te entrare, con un occhio solo, nel regno di Dio, che avere due occhi ed essere gettato nel fuoco dell'inferno; dove il verme non muore e il fuoco non si spegne mai» (Marco 9, 47). — Non è precisamente all'occhio che si allude...

«In verità vi dico, qui ci sono alcuni che non gusteranno la morte prima di vedere il regno di Dio giungere con forza» (Marco 9, 1). — Si mente be­ne, leone...

«Chi mi vuol seguire, rinneghi se stesso e prenda la sua croce sopra di sé e mi segua. Perché...» (Nota di uno psicologo. La morale cristiana è con­futata dai suoi perché: i suoi «motivi» confutano, — questo è cristiano), (Marco 8, 34). —

«Non giudicate, affinché non siate giudicati. Con la misura con cui voi giudicherete, si farà giudizio di voi» (Matteo 7, 1). — Che concezione della giustizia, di un giudice «giusto»!...

«Se voi amate coloro che vi amano, quale ricompensa riceverete per que­sto? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se vi comportate da amici coi vostri fratelli, che cosa fate di strano! Non fanno così anche i pubblica­ni?» (Matteo 5, 46). — Principio dell'«amore cristiano»: in fin dei conti vuol essere pagato bene...

«Ma se voi non perdonate agli uomini le loro colpe, anche vostro Padre non perdonerà a voi» (Matteo 6, 15). — Molto compromettente per il det­to «padre»...

«Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato» (Matteo 6, 33). — Tutto ciò: cioè cibo, vestiario, tutto quan­to è più necessario nella vita. Un errore, a dir poco... Subito dopo Dio ap­pare in qualità di sarto, perlomeno in certi casi...

«Rallegratevi allora e saltate: perché ecco, il vostro premio in cielo è grande. Lo stesso fecero i vostri padri ai profeti» (Luca 6, 23). Branco di svergognati] Già si paragonano ai profeti...

«Non sapete che voi siete il tempio di Dio, e che lo spirito di Dio abita in voi? Se taluno guasterà il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio, che voi stessi siete, è santo» (Paolo i Corinzi, 3, 16). — Non si di­sprezzerà mai abbastanza roba del genere...

«Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo? E se il mondo deve essere giudicato da voi, non siete voi idonei abbastanza a giudicare cose minori?» (Paolo i Corinzi 6, 2). Purtroppo non è solo il discorso di uno psicopatico... Questo spaventoso impostore prosegue testualmente: «Non

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sapete, che noi giudicheremo gli angeli? Quanto più dunque giudicheremo dei beni temporali!»...

«Non ha Dio cambiato in follia la saggezza di questo mondo? Poiché, non avendo il mondo con la sua saggezza riconosciuto Dio nella sua sag­gezza, è piaciuto a Dio di rendere beati, con una folle predicazione, coloro che credono in lui... Non sono eletti molti saggi secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili. Ma ciò che è folle agli occhi del mondo, fu eletto da Dio, per svergognare i saggi; e chi è debole agli occhi del mondo fu elet­to da Dio per svergognare chi è forte. E chi agli occhi del mondo è ignobile e disprezzato fu eletto da Dio, e chi non è niente, per rendere niente chi è qualche cosa. Affinché al suo cospetto nessuna carne si vantasse» (Paolo i Corinzi 1, 20 ss.). — Per intendere questo passo, testimonianza di primissi­mo ordine sulla psicologia di ogni morale da Ciandala, si legga la prima dissertazione nella mia Genealogia della Morale: in essa, per la prima vol­ta, veniva messa in luce la contrapposizione tra una morale nobile e una morale da Ciandala nata sul risentimento e sulla sterile vendetta. Paolo fu il maggiore fra tutti gli apostoli della vendetta...

46.

— Che cosa ne consegue? Che uno fa bene a calzare i guanti quando leg­ge il Nuovo Testamento. La vicinanza di tanta sozzura quasi lo impone. Vorremmo intrattenere rapporti coi «primi cristiani» altrettanto poco co­me con gli ebrei polacchi: non che si abbia anche una sola obiezione contro di loro... Solo che entrambi non mandano buon odore. — Invano ho scru­tato nel Nuovo Testamento alla ricerca anche di un solo tratto simpatico; nulla vi è in esso che sia libero, mite, franco, leale. L'umanità qui non è nemmeno cominciata, — gli istinti di pulizia sono assenti... Solo cattivi istinti nel Nuovo Testamento, e non c'è coraggio nemmeno per questi cat­tivi istinti. Tutto qui è vigliaccheria, è tutto un chiuder gli occhi e un truf­farsi da sé. Qualsiasi altro libro divien pulito, quando si è letto appunto il Nuovo Testamento: per dare un esempio, lessi con rapimento, immediata-mete dopo Paolo, quel burlone di Petronio, estremamente accattivante e insolente, del quale si potrebbe dire ciò che Domenico Boccaccio scrisse al duca di Parma a proposito di Cesare Borgia: «è tutto festo»2. — Immor­talmente sano, immortalmente sereno e ben riuscito... Questi piccoli bacia­pile si sbagliano infatti nell'essenziale. Essi aggrediscono ma tutto ciò che viene da loro attaccato è per ciò stesso ragguardevole. Un «primo cristia­no» non contamina colui che aggredisce... Al contrario: è un onore avere contro di sé i «primi cristiani». Non si può leggere il Nuovo Testamento senza provare simpatia per ciò che in esso è bistrattato — per non parlare della «saggezza di questo mondo», di cui uno sfacciato smargiasso cerca invano di fare scempio «con una folle predicazione»... Ma financo i farisei e gli scribi ci guadagnano di fronte a una simile controparte: per essere odiati in modo così indecente, devono pur aver avuto un qualche valore. Ipocrisia — sarebbe questo un rimprovero che i «primi cristiani» potrebbe­ro lecitamente avanzare? — In fin dei conti erano privilegiati: tanto basta, l'odio dei Ciandala non ha bisogno di altri motivi. Il «primo cristiano» — come pure l'«ultimo cristiano» temo, che forse arriverò a vedere — è, per l'infimo istinto ribelle a tutto ciò che è privilegiato — egli vive, egli com­batte sempre per «pari diritti»... A ben guardare, non ha scelta. Se si vuo-

In italiano nel testo (N.d.T.).

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le, per noi stessi, essere «eletti da Dio» — oppure un «tempio di Dio», op­pure «giudici degli angeli», — ogni altro principio di elezione, fondato, per esempio, sulla rettitudine, sullo spirito, sulla virilità e sulla fierezza, sulla bellezza e libertà di cuore, è semplicemente «mondo» — il male in sé... Morale: ogni parola sulle labbra di un «primo cristiano» è una bugia; ogni azione che egli compie, una falsità istintiva — tutti i suoi valori, tutti i suoi obiettivi sono dannosi, ma colui che egli odia, ciò che egli odia, ha va­lore... Il cristiano, il cristiano-prete in particolare, è un criterio di valori... Devo aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento emerge appena una sola figura a cui si debba rendere onore? Pilato, il governatore romano. Pren­dere sul serio un affare tra Ebrei — è qualcosa di cui non riesce a rendersi conto. Un ebreo di più o di meno — che importa?... La nobile ironia di un romano al cui cospetto vien fatto un abuso spudorato della parola «veri­tà», ha arricchito il Nuovo Testamento dell'unica parola che abbia valore — che è la critica, l'annientamento stesso di quello: «che cos'è la veri­tà!»...

47.

— Non è il fatto che non ritroviamo alcun Dio nella storia, né nella na­tura, né dietro alla natura a differenziarci, — bensì il fatto che noi perce­piamo ciò che venne venerato come Dio, non come «divino», ma come mi­serabile, assurdo, dannoso, non solo come errore, ma come crimine contro la vita... Noi neghiamo Dio in quanto Dio... Se ci dimostrassero questo Dio dei cristiani, ci sapremmo credere ancor meno. — In una formula: deus qualem Paulus creavit, dei negatio. — Una religione come il cristiane­simo, che non viene in alcun punto a contatto con la realtà, che va imme­diatamente all'aria appena la realtà afferma il proprio diritto anche in un solo punto, deve per forza essere nemica mortale della «sapienza monda­na», intendo dire della scienza, — essa troverà buoni tutti i mezzi coi quali l'educazione dello spirito, la schiettezza e la severità nelle questioni di co­scienza dello spirito, la nobile freddezza e libertà dello spirito possano ve­nir avvelenate, denigrate, diffamate. La «fede», come imperativo è il veto contro la scienza, — in praxi, la menzogna ad ogni costo... Paolo compre­se che la menzogna — «la fede» — era indispensabile; la Chiesa, più tardi, comprese di nuovo Paolo. — Quel «Dio» che Paolo si inventò, un Dio che «fa scempio» della «sapienza mondana» (nel senso più restrittivo, le due grandi avversarie d'ogni superstizione, filologia e medicina), non è, in real­tà, altro che la risoluta decisione in questo senso dello stesso Paolo: chia­mare la propria volontà «Dio», thora, questo è ebraico in guisa primordia­le. Paolo vuole far scempio della «sapienza mondana»: suoi nemici sono i buoni filologi e medici di scuola alessandrina; a loro fa la guerra. In effetti non si è filologi e medici senza essere al tempo stesso anche anticristiani. Infatti, come filologi guardiamo dietro i «sacri libri», come medici dietro l'imbastardimento fisiologico del cristiano tipico. Il medico dice «inguari­bile», il filologo «imbroglio»...

48.

— Abbiamo veramente capito la famosa storia che sta all'inizio della Bibbia, — a proposito della dannata paura di Dio di fronte alla scienza*!... Non l'abbiamo capita. Questo libro di preti par excellence ha inizio, come si conviene, con la grande difficoltà interiore del prete: per lui c'è solamen-

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te un grande pericolo, di conseguenza per «Dio» c'è solamente un grande pericolo. —

Il vecchio Dio, tutto «spirito», tutto sommo sacerdote, tutto perfezione, va a spasso nel suo giardino: solo che si annoia. Contro la noia lottano in­vano perfino gli dèi. Che cosa fa lui? Inventa l'uomo, l'uomo è diverten­te... Ma, guarda un po', anche l'uomo s'annoia. La pietà di Dio per l'uni­ca miseria che tutti i paradisi comportano, è sconfinata: tosto egli creò an­che altri animali. Primo passo falso di Dio: l'uomo non trovò divertenti gli animali — dominava su di loro, non voleva essere neppure «animale». — Allora Dio creò la donna. E in effetti a quel punto con la noia fu finita, — ma anche con qualcos'altro! La donna fu il secondo passo falso di Dio. — «La femmina è per sua natura serpente, Eva» — ogni prete lo sa; «ogni malanno al mondo viene dalla femmina» — anche questo sa ogni prete. «Da essa viene quindi anche la scienza»... Solo attraverso la donna l'uomo apprese ad assaggiare i frutti dell'albero della conoscenza. — Che cosa era successo? Il vecchio Dio fu preso da una dannata paura. L'uomo stesso era divenuto il suo più grande passo falso, egli si era creato un rivale, la scien­za rende simili a Dio, — per preti e dèi è finita quando l'uomo diventa scientifico! — Morale: la scienza è il proibito in sé, — essa sola è proibita. La scienza è il primo peccato, il seme di tutti i. peccati, il peccato originale. La morale è soltanto questo. — «Tu non devi conoscere»: — il resto conse­gue da ciò. — La dannata Paura non impedì a Dio di essere furbo. Come ci si difende dalla scienza? Per lungo tempo questo divenne il suo primo problema. Risposta: fuori l'uomo dal paradiso! La felicità, l'ozio induco­no a pensare — tutti i pensieri sono cattivi pensieri... L'uomo non deve pensare. — E il «prete in sé» inventa il bisogno, la morte, il pericolo mor­tale della gravidanza, ogni sorta di miseria, vecchiaia, fatica, la malattia soprattutto — nient'altro che strumenti della lotta contro la scienza! Il bi­sogno non consente all'uomo di pensare... E a onta di ciò, che orrore! L'o­pera della conoscenza s'innalza torreggiante, invadendo il cielo, oscurando gli dèi — che fare? — Il vecchio Dio inventa la guerra, divide i popoli, fa sì che gli uomini si annientino a vicenda (— i preti hanno sempre avuto biso­gno della guerra...). La guerra — grande guastafeste della scienza, tra l'al­tro! Incredibile! La conoscenza, V emancipazione dal prete, avanza perfino a dispetto delle guerre. — E al vecchio Dio si presenta una decisione estre­ma: «l'uomo è divenuto scientifico, — non c'è altro da fare, bisogna anne­gar loì»...

49.

— Mi avete capito. L'inizio della Bibbia contiene l'intera psicologia del prete. — Il prete conosce solo un grande pericolo: la scienza — la sana no­zione di causa ed effetto. Ma la scienza prospera totalmente solo in condi­zioni fortunate — bisogna aver tempo, bisogna avere spirito in eccedenza, per «conoscere»... «Dunque bisogna rendere l'uomo infelice» — questa, in ogni tempo, fu la logica del prete. — Già si indovina che cosa, innanzi­tutto, coerentemente a questa logica, è venuto con ciò al mondo: il «pecca­to»... È l'invenzione del concetto di colpa e punizione, dell'intero «ordine morale del mondo» a porsi contro la scienza — contro l'affrancamento dell'uomo dal prete... Non fuori, ma dentro di sé deve guardare l'uomo; non deve, come il discente, guardare con sagacia e prudenza nelle cose; non deve in generale guardare per nulla: deve soffrire... e deve soffrire in guisa tale da aver sempre bisogno del prete. — Basta coi medici! Un salva-

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tore ci vuole. — Il concetto di colpa e di castigo, ivi compresa la dottrina della «grazia», della «redenzione», del «perdono» — menzogne da cima a fondo e senza alcuna realtà psicologica — sono inventate apposta per di­struggere il senso di causalità dell'uomo: sono l'attentato contro il concet­to di causa ed effetto! — E non un attentato col pugno, col coltello, con sincerità nell'odio e nell'amore! Ma partendo dagli istinti più vili, più sub­doli, più bassi! Un attentato da preti! Un attentato da parassiti! Un vampi­rismo di livide sanguisughe del sottosuolo!... Quando le naturali conse­guenze di un'azione non sono più «naturali», ma vengono attribuite dal pensiero agli spettri concettuali della superstizione, a «Dio», agli «spiriti», alle «anime», come conseguenze puramente «morali»; come premio, casti­go, avvertimento, mezzi educativi, allora la premessa della conoscenza è distrutta — allora si è commesso il più grande crimine contro l'umanità. — Il peccato, ripeto, questa forma autolesionista, par excellence dell'uomo, è inventato per rendere scienza, cultura, ogni innalzamento e nobiltà del­l'uomo, impossibili; il prete domina grazie all'invenzione del peccato. —

50.

— A questo punto non mi sottraggo ad una psicologia della «fede», dei «credenti», a beneficio, come è giusto, proprio dei «credenti». Se ancora oggi non mancano coloro che ignorano fino a che punto l'esser «credenti» sia indecente — ovvero un sintomo di décadence, di volontà di vivere spez­zata —, lo potranno sapere già domani. La mia voce raggiunge anche i du­ri d'orecchio. — Pare, a meno che io non abbia sentito male, che tra cri­stiani esista una sorta di criterio di verità che chiamano «prova di forza», «La fede rende beati: dunque essa è vera.» — Si potrebbe qui anzitutto ob­biettare che proprio la beatitudine non è dimostrata, ma unicamente pro­messa: la beatitudine vincolata alla condizione del «credere» — si deve di­ventare beati, poiché si ha fede... Ma che avvenga di fatto ciò che il prete promette al credente per un «al di là» inaccessibile ad ogni controllo, in che modo si è dimostrato questol — La pretesa «prova di forza» dunque è soltanto, in fondo, nuovamente la credenza che non manchi l'effetto che dalla fede ci si ripromette. In una formula: «Io credo che la fede renda beati — quindi essa è vera». — Ma in tal modo siamo già alla fine. Questo «quindi» sarebbe l'absurdum stesso preso a criterio di verità. — Ma sup­poniamo, con una qualche condiscendenza, che la beatitudine mediante la fede sia dimostrata (non solo desiderata, non solo promessa dalla alquanto sospetta bocca d'un prete): la beatitudine, — o detto più tecnicamente, il diletto — potrebbe mai essere una dimostrazione di verità? Lo è tanto po­co, che quasi è presente la prova contraria, o comunque il massimo del so­spetto contro la «verità», laddove sensazioni di diletto entrano nel discorso a proposito della questione «che cosa è vero». La prova del «diletto» è una prova per «diletto» — niente di più; da dove, per tutto al mondo, sarebbe assodato che proprio i giudizi veri fanno più piacere che i falsi, e che, in conformità ad una prestabilita armonia, portino necessariamente con sé sentimenti piacevoli? — L'esperienza di ogni spirito severo e profondo per natura insegna Vopposto. Abbiamo dovuto conquistarci la verità passo su passo; per essa abbiamo dovuto rinunciare a quasi tutto quello a cui di so­lito è attaccato il cuore, il nostro amore per la vita, la nostra fiducia in es­sa. Ci vuole grandezza d'animo per questo: il servizio della verità è il più duro dei servizi. — Che significa allora essere retti nelle cose dello spirito? Che uno è severo con il proprio cuore, che disprezza i «bei sentimenti», che

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d'ogni sì e d'ogni no si fa un caso di coscienza! — La fede rende beati: quindi mente...

51. Che in certi casi la fede renda beati, che la beatitudine non faccia ancora

di un'idea fissa un'idea vera, che la fede non muova le montagne, ma anzi collochi montagne dove non ce ne sono: un rapido giro per un manicomio illumina a sufficienza in proposito. Non un prete, certo, che quello, per istinto, nega che la malattia sia malattia, il manicomio manicomio. Al cri­stianesimo la malattia è necessaria, pressappoco come alla grecità è neces­saria un'esuberanza di salute — rendere malati è la vera intenzione recon­dita dell'intero sistema di procedure di salvezza della Chiesa. E la Chiesa stessa — non è forse il manicomio cattolico come ideale ultimo? — La ter­ra in generale come manicomio? — L'uomo religioso, così come lo vuole la Chiesa, è un tipico decadenti il momento in cui una crisi religiosa s'im­possessa di un popolo, è contrassegnato ogni volta da epidemie nervose; il «mondo interiore» dell'uomo religioso assomiglia, fino a esser scambiato con esso, al «mondo interiore» dei sovreccitati e degli esauriti; gli stati d'a­nimo «altissimi» che il cristianesimo ha sospeso sull'umanità come valori di tutti i valori, sono forme epilettoidi — la Chiesa ha proclamato santi in majorem dei honorem solo mentecatti o grandi impostori... Io mi sono una volta permesso di definire tutto il training cristiano della penitenza e della redenzione (che oggi si studia nel modo migliore in Inghilterra) come una folte circulaire prodotta metodicamente, come si conviene, su un terre­no già predisposto, vale a dire infermiccio nelle sue radici. Nessuno è libe­ro di diventare cristiano: al cristianesimo non si viene «convertiti» — si de­ve essere abbastanza malati per questo... A noi altri, a noi che abbiamo il coraggio della salute e anche del disprezzo, a noi è lecito disprezzare una religione che ha insegnato a fraintendere il corpo, che non vuole sbarazzar­si delle superstizioni dell'anima, che fa dell'insufficiente nutrizione un «merito», che nella salute combatte una specie di nemico, di diavolo, di tentazione, che si è data ad intendere che si possa portare in giro una «ani­ma perfetta» in un cadavere di corpo, ed ebbe bisogno di predisporsi, a tal fine, una nuova nozione della «perfezione», un modo di essere esangue, malaticcio, fanatico-idiota, la cosiddetta «santità» — santità che in se stes­sa null'altro è che una serie di sintomi di un corpo impoverito, snervato, inguaribilmente devastato!... Il movimento cristiano, in quanto movimen­to europeo, è sin dall'inizio un movimento collettivo di elementi di scarto e di rifiuto d'ogni sorta: — essi, col cristianesimo, aspirano alla potenza. Es­so non esprime il declino di una razza, è un aggregato di forme di décaden-ce che si ammassano e si cercano da ogni dove. Quello che il cristianesimo rese possibile non è, come si crede, la corruzione dell'antichità medesima, della antichità nobile: non si contraddirà mai con sufficiente durezza l'i­diotismo erudito che ancor oggi sostiene cose del genere. Al tempo in cui gli strati malati e degenerati dei Ciandala si cristianizzarono in tutto Yim-perium, proprio il tipo opposto era presente, la nobiltà nella sua forma più bella e più matura. Il grande numero prese il sopravvento; il democratici­smo degli istinti cristiani vinse... Il cristianesimo non era «nazionale», non era legato alla razza — si rivolgeva a ogni sorta di diseredati della vita, ave­va ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla base la rancune dei mala­ti, ha indirizzato l'istinto contro i sani, contro la salute. Tutto quanto è

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ben fatto, orgoglioso, esuberante, la bellezza innanzitutto, gli fa male agli occhi e alle orecchie. Ancora una volta rimando all'ineffabile parola di Paolo. «Quel che è debole per il mondo, folle per il mondo, quel che per il mondo è ignobile e oggetto di disprezzo, Dio lo ha prescelto»: questa era la formula, in hoc signo vinse la décadence. — Dio sulla croce — ancora non è chiara la spaventosa riserva mentale rappresentata da questo simbolo? — Tutto ciò che soffre, tutto ciò che pende da una croce, è divino... Noi tutti pendiamo dalla croce, quindi noi siamo divini... Noi soli siamo divini... Il cristianesimo è stato una vittoria, una mentalità più nobile andò per esso in rovina, — il cristianesimo è stato fino a questo momento la più grande sciagura dell'umanità. —

52.

Il cristianesimo si contrappone anche ad ogni buona costituzione intel­lettuale — esso è in grado di servirsi solo della ragione malata come ragio­ne cristiana; si schiera con tutto ciò che è idiota, pronuncia una maledizio­ne contro lo «spirito», contro la superbia dello spirito sano. Poiché la ma­lattia fa parte dell'essenza del cristianesimo, anche il tipico stato d'animo cristiano, «la fede» deve essere una forma di malattia, tutte le vie diritte, leali, scientifiche alla conoscenza devono venir rifiutate dalla Chiesa come vie proibite. Già il dubbio è peccato... La completa mancanza di limpidez­za psicologica nel prete — tradita dallo sguardo — è una manifestazione conseguente alla décadence — se si osservano le donne isteriche, o anche, per altro aspetto, bambini di costituzione rachitica, si potrà notare con quanta regolarità la falsità istintiva, il gusto di mentire per mentire, l'inca­pacità di uno sguardo e di un passo diritto siano espressione di décadence. «Fede» vuol dire non voler sapere ciò che è vero. Il pietista, il prete di am­bo i sessi, è falso perché è malato: il suo istinto esige che la verità non si af­fermi in alcun punto. «Ciò che è malato è buono; ciò che deriva dalla pie­nezza, dall'esuberanza, dalla potenza, è cattivo: così sente il credente. La soggezione alla menzogna — da questa io riconosco il teologo predestina­to. Altro contrassegno del teologo è la sua incapacità in ordine alla filolo­gia. Per filologia qui, in un senso assai generale, si deve intendere l'arte di leggere bene — di saper cogliere i fatti, senza falsarli con l'interpretazione, senza perdere, nell'ansia di capire, la prudenza, la pazienza, la finezza. Fi­lologia come ephexis nell'interpretazione: che si tratti, poi, di libri, di noti­zie di giornale, di destini o di avvenimenti meteorologici, — per non parla­re della «salute dell'anima»... La maniera in cui un teologo, non importa se a Berlino o a Roma, interpreta una «parola della Scrittura» o un'espe­rienza vissuta, per esempia una vittoria del patrio esercito, sotto la supe­riore illuminazione dei salmi di Davide, è sempre talmente temeraria, che un filologo ci perde la testa. E che cosa dovrebbe fare poi quando dei pieti-sti e altre vacche di Svevia sistemano con il «dito d'Iddio» la misera mo­notonia e la fumosa stanzuccia della propria esistenza come un miracolo di «grazia», di «provvidenza», di «esperienze evangeliche»! La più mode­sta dissipazione di spirito, per non dire di decenza, dovrebbe pur portare questi esegeti a convincersi della assoluta puerilità e indegnità di un simile abuso della divina destrezza di mano. Anche con una particella esigua nel sangue di devozione religiosa un Dio che ci cura a tempo debito dal raf­freddore o che ci ordina di salire in carrozza proprio nell'attimo in cui si scatena un acquazzone, dovrebbe risultare così assurdo che, quand'anche

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esistesse, lo si dovrebbe eliminare. Un Dio come servitore, come postino, come lunarista — in sostanza una parola sola per la più stupida specie di caso fortuito... La «divina provvidenza», quale ancor oggi se la immagina all'incirca una persona su tre nella «colta Germania», sarebbe una tale obiezione contro Dio che non se ne potrebbe immaginare una più forte. E in ogni caso è un'obiezione contro i Tedeschi!...

53. — Che dei martiri siano una prova a favore della verità di una cosa è co­

sì poco vero che io negherei che un martire abbia mai avuto qualcosa a che fare con la verità. Già nel tono col quale un martire getta in faccia al mon­do la sua presunzione di verità, si esprime un così scarso grado di rettitudi­ne intellettuale, una tale ottusità per la questione della verità, che non si ha mai bisogno di confutare un martire. La verità non è cosa che uno ha e un altro non ha: a proposito della verità possono pensarla così tutt'al più dei contadini o degli apostoli-contadini alla maniera di Lutero. Si può stare certi che, a seconda del grado di coscienziosità nelle cose dello spirito, la modestia, la discrezione a questo proposito diventano sempre maggiori. Esser sapienti in cinque cose, e rifiutare con mano delicata di esserlo in al­tre... La parola «verità», come ogni profeta, ogni settario, ogni libero pen­satore, ogni socialista, ogni uomo di chiesa la intende, è una dimostrazione perfetta che nemmeno si è dato ancora l'avvio a quella disciplina dello spi­rito e a quel superamento di sé che necessitano per trovare una qualsiasi piccola verità, quanto piccola essa sia. Le morti di martiri, sia detto per in­ciso, sono state nella storia una grande sciagura: esse seducevano... La conclusione di tutti gli idioti, ivi comprese femmine e popolo, che abbia importanza quella causa per la quale qualcuno affronta la morte (o che, come il primo cristianesimo, genera addirittura epidemie di desideri di morte) — questa conclusione è divenuta un'indicibile remora per l'indagi­ne, per lo spirito d'indagine e di prudenza. I martiri danneggiarono la veri­tà... Anche oggi si richiede solo una certa durezza di persecuzione per pro­curare ad un settarismo, per quanto in sé irrilevante, un nome onorevole. Come? fa differenza per il valore di una causa il fatto che qualcuno per es­sa rinunci alla vita? — Un errore divenuto onorevole è un errore con una attrattiva seducente in più: credete che noi vi daremmo, signori teologi, l'occasione di fare i martiri per le vostre bugie? — Si confuta una causa de­ponendola rispettosamente sul ghiaccio — nello stesso modo si confutano anche i teologi... Nella storia del mondo la stupidità di tutti i persecutori fu proprio questa: essi dettero alla causa avversaria l'apparenza della rispetta­bilità — le fecero dono del fascino del martirio... Ancora oggi la femmina si inginocchia davanti ad un errore, perché le hanno detto che per esso qualcuno morì sulla croce. La croce è dunque un argomento! — Uno solo ha detto su tutto ciò la parola che da millenni si sentiva necessaria — Za­rathustra.

Segni di sangue scrissero sulla via che percorrevano e la loro stoltezza in­segnò che con il sangue si proverebbe la verità.

Ma il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena anche la più pura dottrina in delirio e odio dei cuori.

E quand'anche uno attraversasse il fuoco per la propria dottrina — che cosa dimostra ciò! È vero piuttosto che dal proprio rogo viene la propria dottrina.

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54.

Non lasciamoci fuorviare: i grandi spiriti sono degli scettici. Zarathustra è uno scettico. La forza, la libertà derivante da vigore e da eccesso di vigo­re dello spirito si dimostrano mediante la scepsi. Gli uomini che abbraccia­no una convinzione non hanno alcun rilievo per tutto ciò che è fondamen­tale in fatto di valore e di non-valore. Le convinzioni sono prigioni. Non vedono abbastanza lontano, non vedono al disotto di sé: ma per poter dire la propria a proposito di valore e di non-valore, uno deve veder cinquecen­to convinzioni sotto di sé — dietro di sé... Uno spirito che voglia grandi cose, che voglia anche i mezzi per esse, è necessariamente uno scettico. La libertà da ogni sorta di convinzioni, il saper guardare liberamente è ele­mento costitutivo della forza... La grande passione, fondamento e potenza del suo essere, ancor più illuminata, ancor più tirannica di quanto lo sia egli stesso, ne impegna intero l'intelletto; essa rende privi di scrupoli; essa gli dà perfino il coraggio dei mezzi empi; in certi casi gli concede delle con­vinzioni. La convinzione come strumento: molte cose si raggiungono solo mediante una convinzione. La grande passione ha bisogno di convinzioni e le usa, non si sottomette a quelle — essa si conosce sovrana. — Viceversa: il bisogno di fede, di un qualcosa di non condizionato da sì e no, il carlyli-smo, se mi si consente un termine, è un'esigenza della debolezza. L'uomo della fede, il «credente» d'ogni tipo è necessariamente un uomo tributario, — uno che non sa porre se stesso come scopo, che non sa affatto porre sco­pi a partire da se stesso. Il «credente» non si appartiene, egli può solo esse­re mezzo, egli deve essere adoperato, ha bisogno di qualcuno che lo usi. Il suo istinto rende l'onore più alto ad una morale della autorinuncia: tutto lo induce ad essa, la sua furbizia, la sua esperienza, la sua vanità. Ogni ti­po di fede è di per sé una espressione di autorinuncia, di autoalienazione... Se si considera come la grande maggioranza abbia bisogno di un regolatore che la leghi e la fissi dall'esterno, e come la costrizione, in un senso più alto la schiavitù, sia la sola e ultima condizione grazie alla quale l'uomo di vo­lontà debole, e ancor più la donna, prosperino: ci si renderà conto di quel che significa anche la convinzione, la «fede». L'uomo fedele a una convin­zione ha in essa la sua spina dorsale. Il non vedere tante cose, il non esser imparziale su alcune cose, essere uomo di parte da capo a piedi, avere un'ottica rigida e vincolata in tutti i valori — soltanto a queste condizioni una simile specie d'uomo può affatto esistere. Essa è per ciò stesso però l'opposto, l'antagonista di ciò che è verace — della verità... Il credente non è affatto padrone di avere una coscienza circa la questione «vero» e «non vero»: essere onesto a questo proposito sarebbe subito la sua fine. La pato­logica condizionatezza della sua ottica fa dell'uomo convinto un fanatico — Savonarola, Lutero, Rousseau, Robespierre, Saint-Simon, — il tipo op­posto allo spirito forte, allo spirito liberato. Ma l'atteggiarsi maestoso di questi spiriti infermi, di questi epilettici del concetto fa effetto sulla grande massa, — i fanatici sono pittoreschi, l'umanità preferisce veder gesticola­re, piuttosto che sentire ragioni...

55.

— Un passo avanti nella psicologia della convinzione, della «fede». Già da tempo è stata da me posta sul tappeto la questione se le convinzioni non siano dei nemici della verità più pericolosi delle bugie (Umano, troppo

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umano, i, af. 483). Stavolta vorrei porre la domanda decisiva: tra menzo­gna e convinzione sussiste un'antitesi? — Tutti lo credono; ma che cosa non credono tutti! — Ogni singola convinzione ha la propria storia; i pro­pri precorrimenti; i propri tentativi ed errori: essa diviene convinzione, do­poché per un lungo tempo non lo è stata, dopo esserlo stata a stento ancor più a lungo. Come? Non potrebbe, tra queste forme embrionali di convin­zione, esserci anche la menzogna? — A volte è solo necessario uno scam­bio di persone: ciò che nel padre era ancora bugia, diviene convinzione nel figlio. — Io chiamo bugia il non voler vedere qualcosa che si vede, il non voler vedere qualcosa così come lo vediamo: non ha importanza il fatto che la menzogna si verifichi dinnanzi o senza testimoni. La bugia più co­mune è quella con cui si mente a se stessi; il mentire ad altri è caso relativa­mente eccezionale. — Ora, questo non voler vedere ciò che si vede, questo non voler vedere così come si vede è a un dipresso condizione prima per tutti quelli che in qualsiasi senso sono partito: l'uomo di fazione diviene di necessità bugiardo. La storiografia tedesca, ad esempio, è convinta che Roma fosse il dispotismo, che i Germani abbiano portato nel mondo lo spirito di libertà: che differenza c'è tra questa convinzione e una menzo­gna? Quando, di istinto, tutti i partiti, e anche gli storici tedeschi, si riem­piono la bocca con le grandi parole della morale, com'è possibile stupirci, che la morale sussista ancora quasi in virtù del fatto che qualsivoglia uomo di partito ne ha bisogno ad ogni momento? — «Questa è la nostra convin­zione: la professiamo dinanzi a tutto il mondo, viviamo e moriamo per es­sa — onore a tutti quanti nutrono delle convinzioni!» — perfino sulla boc­ca di antisemiti ho udito parole siffatte. Al contrario, signori miei! Un an­tisemita non diventa per nulla più rispettabile solo perché mente per princi­pio... I preti, che in queste cose sono più fini e comprendono benissimo l'obiezione che sta nel concetto di convinzione, vale a dire di falsità tale per principio, poiché utile allo scopo, hanno preso dagli Ebrei la furbizia di in­serire a questo punto i concetti di «Dio», «volere divino», «rivelazione di­vina». Anche Kant era sulla stessa strada, col suo imperativo categorico: la sua ragione si fece così pratica. — Vi sono questioni in cui la decisione su verità e non verità non compete all'uomo; tutte le supreme questioni, tutti i supremi problemi di valore trascendono l'umana ragione... Comprendere i limiti della ragione — questo solo è veramente filosofia... A che fine Dio dette all'uomo la rivelazione? Dio avrebbe fatto qualcosa di superfluo? L'uomo da se stesso non può sapere che cosa è buono e cattivo, per questo Dio gli insegnò la sua volontà... Morale: il prete non dice bugie — in cose come quelle di cui discorrono i preti, la questione del «vero» e del «non ve­ro» non esiste; queste cose non permettono affatto di mentire. Giacché per mentire uno dovrebbe poter decidere, che cosa qui sia vero. Ma appunto questo l'uomo non può fare; il prete è così solo portavoce di Dio. — Un si­mile sillogismo pretesco non è in alcun modo solo giudaico e cristiano; il diritto alla menzogna e la furbizia della «rivelazione» sono proprie del ti­po-prete, sia dei preti della décadence, che dei preti del paganesimo (— pa­gano è chiunque dica sì alla vita, colui per il quale «Dio» è la parola per il grande sì a tutto). — La «legge», la «volontà di Dio», il «libro sacro», l'«i-spirazione» — tutte parole solo per le condizioni in cui il prete giunge al potere, con le quali egli sostiene il proprio potere — questi concetti stanno a fondamento di tutte le organizzazioni ecclesiastiche, di tutte le strutture di dominio sacerdotali o filosofico-sacerdotali. La «sacra menzogna» — comune a Confucio, al codice di Manu, a Maometto, alla Chiesa cristiana:

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non manca in Platone — «La verità esiste»: queste parole, dovunque udi­te, significano il prete mente...

56.

— In definitiva importa il fine per il quale si dicono menzogne. Che nel cristianesimo i «santi» scopi siano assenti è la mia obiezione contro i suoi mezzi. Soltanto scopi cattivi: avvelenamento, calunnia, negazione della vi­ta, disprezzo del corpo, la degradazione e l'autodenigrazione dell'uomo mercé la nozione di peccato — dunque anche i suoi mezzi sono cattivi. — Con una sensazione opposta leggo il codice di Manu, opera incomparabil­mente spirituale ed elevata che sarebbe un peccato contro lo spirito anche solo nominare d'un fiato con la Bibbia. Lo si intuisce subito: esso ha una vera filosofia dietro di sé, in sé, non soltanto un giudaismo fetido di rabbi­nismo e di superstizione — esso è pane per i denti anche del più esigente tra gli psicologi. E non dimentichiamo la cosa più importante, la sua differen­za fondamentale rispetto a qualsiasi specie di Bibbia: con esso sono le clas­si nobili, i filosofi e i guerrieri, a tenere in balia loro la moltitudine: dap­pertutto valori nobili, un senso di perfezione, un assentire alla vita, un trionfante senso beato di sé e della vita — il sole batte su tutto il libro. — Tutte le cose contro le quali il cristianesimo scatena la sua inesauribile vol­garità, la procreazione per esempio, la donna, il matrimonio, qui vengono trattate seriamente, con venerazione, con amore e fiducia. Ma come si fa a mettere in mano a donne e bambini un libro che contiene espressioni abiet­te di questo genere: «per via del meretricio ciascuno si abbia la propria femmina e ciascuna il suo proprio maschio... è meglio sposare che soffrire la lascivia»? E si può esser cristiani fintantoché la nascita dell'uomo è cri­stianizzata, vale a dire sporcata con l'idea della immaculata conceptiol... Non conosco un libro in cui vengono dette sulle donne tante cose tenere e miti come nel codice di Manu; quei vecchi canuti e quei santi hanno una maniera forse insuperata d'essere gentili verso le donne. «La bocca di una donna — vi si dice a un certo punto — il seno di una fanciulla, la preghiera di un bambino, il fumo del sacrificio sono sempre puri.» Altrove: «Non vi è nulla di più puro che la luce del sole, l'ombra di una vacca, l'aria, l'ac­qua, il fuoco e l'alito di una fanciulla». Un ultimo brano — anch'esso for­se una santa menzogna: — «tutti gli orifizi del corpo al disopra dell'ombe­lico sono puri, tutti quelli al disotto sono impuri. Solo nella fanciulla l'in­tero corpo è puro».

57.

Cogliamo l'empietà dei mezzi cristiani in flagranti, commisurando il fine cristiano allo scopo del codice di Manu — portando alla luce questo gran­dissimo contrasto di scopi. Il critico del cristianesimo non si può esimere dal rendere spregevole quest'ultimo. — Un codice del genere di quello di Manu nasce come ogni buon codice: ricapitola, cioè, l'esperienza, la sag­gezza, la morale sperimentale di lunghi secoli, esso conclude, non crea più nulla. La premessa per una codificazione di questo genere è l'intuizione che i mezzi per procurare autorità ad una verità conquistata lentamente e a caro prezzo sono sostanzialmente diversi da quelli con i quali se ne darebbe dimostrazione. — Un codice non racconta mai l'utilità, i motivi, la casisti­ca nella preistoria di una legge: ciò andrebbe a scapito appunto del tono imperativo di essa, del «tu devi», del presupposto per cui si obbedisce.

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Esattamente qui sta il problema. — Ad un certo momento nella evoluzione d'un popolo, Io strato più avveduto di esso, cioè quello che guarda più in­dietro e più lontano, dichiara chiusa l'esperienza secondo la quale si deve — vale a dire si può vivere. La sua meta è riportare dai tempi del cimento e della brutta esperienza il raccolto più ricco e completo possibile. Ciò che di conseguenza va innanzi tutto scongiurato è l'esperimentare ancora oltre, il protrarsi dello stato fluido dei valori, il saggiare, scegliere, criticare valori in infinitum. A ciò viene opposto un doppio muro: intanto la rivelazione, cioè l'affermazione che la ragione di quelle leggi non sarebbe di provenien­za umana, non sarebbe stata cercata e trovata lentamente e in mezzo a er­rori, sibbene che essa, essendo di origine divina, sarebbe intera, compiuta, senza storia, un dono, un prodigio, semplicemente trasmessa. Poi la tradi­zione, cioè l'affermazione che la legge sarebbe esistita già da tempi anti­chissimi, che revocarla in dubbio sarebbe contrario alla devozione religio­sa, un delitto contro i progenitori. L'autorità della legge ha la sua base nel­le tesi: è stato Dio a darla, sono stati gli antenati a viverla. — La superiore logica di un simile procedimento risiede nell'intenzione di reprimere, passo su passo, la coscienza della vita che si è riconosciuta giusta (vale a dire di­mostrata mediante un'esperienza enorme e finemente vagliata): in modo da raggiungere il completo automatismo dell'istinto — premessa, questa, per ogni genere di maestria, per ogni sorta di perfettibilità nell'arte di vive­re. Fissare un codice alla maniera di Manu vuol dire consentire da quel mo­mento ad un popolo di divenire maestro, di divenire perfetto — di ambire alla massima arte vitale. A tal fine esso deve esser reso incosciente: questo lo scopo d'ogni santa bugia. — L'ordinamento per caste, la legge suprema, dominante, è soltanto la ratifica di un ordinamento naturale, legalità natu­rale di prim'ordine, sopra la quale nessun arbitrio, nessuna «idea moder­na» ha potestà. In ogni società sana spiccano, condizionandosi a vicenda, tre tipi che fisiologicamente gravitano in modo disuguale, ognuno dei quali ha la sua propria igiene, il suo proprio ambito di lavoro, la sua propria specie di senso della perfezione e di maestria. La natura, non Manu, discri­mina, gli uni dagli altri, i prevalentemente spirituali, i prevalentemente for­ti di muscoli e di temperamento e chi non eccelle né nell'una né nell'altra cosa, i mediocri — questi ultimi come grande numero; i primi come eletti. La casta più in alto — io la chiamo: i pochissimi — essendo perfetta, ha anche i privilegi dei pochissimi: tra questi vi è quello di impersonare sulla terra la felicità, la bellezza, la bontà. Solo agli uomini più spirituali è per­messa la bellezza, il bello: solo in essi la bontà non è debolezza. Pulchrum est paucorum hominum: il bene è un privilegio. Per contro, nulla può esser loro meno permesso che le brutte maniere, o uno sguardo pessimista, un occhio che imbruttisca — addirittura sdegno per l'apparenza complessiva delle cose. Lo sdegno è privilegio dei Ciandala; così pure il pessimismo. «Il mondo è perfetto» — così parla l'istinto dei più spirituali, l'istinto che dice di sì: — «l'imperfezione, il sotto-di-noi d'ogni specie, la distanza, il pathos della distanza, lo stesso Ciandala fanno pure parte di questa perfezione». Gli uomini più spirituali, essendo i più forti, trovano la propria felicità là dove altri troverebbero la propria rovina: nel labirinto, nella durezza verso se stessi e verso gli altri, nel tentativo; il loro diletto è l'autodominio: l'a­scetismo in loro diventa natura, bisogno, istinto. Il compito difficile è per loro privilegio: il giocare con fardelli che schiacciano altri, un ristoro... Conoscenza — una forma di ascetismo. — Essi sono la più onorevole spe­cie d'uomini: questo non esclude che essi siano la più serena, la più amabi­le. Essi dominano non perché vogliono, ma perché sono, non sono padroni

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d'esser secondi. — I secondi: questi sono i custodi del diritto, i tutori del­l'ordine e della sicurezza, sono i nobili guerrieri, è il re soprattutto, in quanto espressione massima del guerriero, del giudice e del conservatore della legge. I secondi sono gli esecutori dei più spirituali, ciò che è più vici­no ad essi, ciò che a quelli appartiene, ciò che toglie loro tutta la grossura del lavoro del dominare — il loro seguito, la loro mano destra, la loro mi­gliore scolaresca. — In tutto ciò, lo ripetiamo, non v'è alcunché d'arbitra­rio, alcunché di costruito; ciò che è diverso, è costruito — è allora che si fa scempio della natura... L'ordinamento per caste, la gerarchia, formula sol­tanto la legge somma della stessa vita; la distinzione dei tre tipi è necessaria per la conservazione della società, per render possibili i tipi superiori e più alti — la disuguaglianza dei diritti è appunto la condizione perché i diritti in generale esistano. — Un diritto è un privilegio. Ciascuno nel proprio modo di essere ha pure il suo privilegio. Non sottovalutiamo i privilegi dei mediocri. Vieppiù si avvicina al vertice, la vita diventa più dura — il fred­do aumenta, la responsabilità aumenta. Una cultura elevata è una pirami­de: può reggersi solo su una base larga, ha innanzitutto come sua premessa una mediocrità fortemente e sanamente consolidata. L'artigianato, il com­mercio, l'agricoltura, la scienza, la maggior parte dell'arte, in una parola l'intero compendio dell'attività professionale, si accordano pienamente so­lo con una misura media nel potere e nell'ambire: cose del genere sarebbe­ro fuori posto in mezzo a delle eccezioni, l'istinto che le è proprio contrad­direbbe sia l'aristocraticismo che l'anarchismo. Vi è una determinazione naturale ad essere pubblica utilità, ruota, funzione: non la società, ma solo la specie di felicità di cui la grande maggioranza è capace, fa di costoro del­le macchine intelligenti. Per il mediocre, è una felicità esser mediocre; l'ec­cellere in una sola cosa, il sapere specialistico, è un istinto naturale. Sareb­be totalmente indegno di uno spirito più profondo vedere già nella medio­crità in sé un'obiezione. Essa è addirittura la prima condizione necessaria perché possano esistere delle eccezioni: una civiltà elevata è da essa condi­zionata. Quando l'uomo eccezionale tratta con dita più delicate proprio i mediocri piuttosto che se stesso e i pari suoi, ebbene, questa non è solo gentilezza di cuore — è semplicemente il suo dovere... Chi, della marma­glia d'oggigiorno, odio di più? La marmaglia socialista, gli apostoli dei Ciandala, che minano l'istinto, la gioia, il senso di soddisfazione che prova il lavoratore per il suo piccolo essere — che lo rèndono invidioso, che gli insegnano la vendetta... L'ingiustizia non sta mai in diritti ineguali, sta nella pretesa di «pari» diritti... che cosa è cattivo? Ma l'ho già detto: tutto ciò che deriva da debolezza, invidia, vendetta. — L'anarchico e il cristiano hanno una sola radice.

58.

In effetti, lo scopo per il quale si mente comporta una differenza: secon­do che, così facendo, si conservi o si distrugga. Si può istituire una perfetta equazione tra il cristiano e 1''anarchico: il loro scopo, il loro istinto tende solo alla distruzione. La prova di questa tesi va solo desunta dalla storia: essa la contiene con sconcertante chiarezza. Abbiamo appena conosciuto una legislazione religiosa, il cui scopo era «eternizzare» una grande orga­nizzazione della società, la condizione suprema perché la vita prosperi; il cristianesimo ha trovato la propria missione nel farla finita proprio con una organizzazione simile, perché in essa la vita prosperava. In quella il ri­cavato, in fatto di ragione, da lunghi periodi d'esperimento e d'incertezza

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stava per essere investito per un lontanissimo profitto e stava per essere portato a casa il raccolto più grosso, più abbondante, più completo possi­bile: in questa invece il raccolto venne avvelenato nel corso della notte... Ciò che si ergeva aere perennius, Vimperium romanum, la più importante forma d'organizzazione raggiunta, in condizioni difficili, fino ad allora, al cui confronto tutto quanto è venuto prima e dopo è abbozzo informe, ciar­pame, dilettantismo, — codesti santi anarchici si sono fatti un «punto di devozione» di distruggere, d'annientare «il mondo» vale a dire Vimperium romanum, finché non rimanesse pietra su pietra — finché perfino i Germa­ni e altri zotici ne potessero aver ragione... Il cristiano e l'anarchico: en­trambi décadents, entrambi incapaci di agire altrimenti che disgregando, avvelenando, intristendo, succhiando sangue, entrambi istinto d'odio mor­tale contro tutto ciò che consiste, che è imponente, che ha durata, che pro­mette avvenire alla vita... Il cristianesimo fu il vampiro dell'imperium ro­manum — nel giro di una notte esso ha disfatto l'immensa intrapresa dei Romani, di conquistare il terreno per una grande civiltà che ha durata. An­cora non è chiaro? Vimperium romanum che noi conosciamo, che la sto­ria della provincia romana sempre meglio ci fa conoscere, questa ammire­volissima opera d'arte di grande stile, era un inizio, la sua struttura era cal­colata per misurarsi coi millenni — fino ad oggi non si è costruito mai, neanche mai sognato di costruire in egual misura sub specie aeternil — Quell'organizzazione era salda quanto basta per sopportare cattivi impera­tori: la casualità delle persone non può avere alcun peso in cose del genere — primo principio di ogni architettura. Essa non era però solida abbastan­za per la più corrotta specie di corruzione, per il cristiano... Quest'occulto groviglio di vermi, che in mezzo a notte, nebbia e ambiguità si avvicinò furtivamente ad ogni individuo e da ognuno succhiò la serietà per le cose vere, l'istinto in genere per le realtà, questa accozzaglia vile, effeminata e sdolcinata ha, passo su passo, estraniato le «anime» da quella costruzione immensa — quelle nature preziose, virilmente nobili, che nella causa di Roma ravvisavano la propria causa, la propria serietà, il proprio orgoglio. La furtività da bigotti, la clandestinità da conventicola, torbidi concetti, come inferno, come sacrificio dell'innocente, come unio mystica nel bere sangue; soprattutto il fuoco, lentamente attizzato, della vendetta, della vendetta dei Ciandala — questo signoreggiò Roma, lo stesso genere di reli­gione al quale Epicuro aveva fatto la guerra nella sua forma prenatale. Si legga Lucrezio, per capire che cosa ha combattuto Epicuro: non il pagane­simo, ma «il cristianesimo», intendo dire la corruzione delle anime per mezzo dei concetti di colpa, pena e immortalità. — Egli combatteva i culti sotterranei, l'intero cristianesimo latente — negare l'immortalità allora era già una vera redenzione. — Ed Epicuro avrebbe vinto, ogni spirito rag­guardevole nell'impero romano era epicureo: in quella apparve Paolo... Paolo, l'odio dei Ciandala contro Roma, incarnato, fatto genio; il giudeo, l'eterno giudeo par excellence... Ciò che egli intuì fu come, con l'aiuto del piccolo movimento settario dei cristiani, si poteva, al margine dell'ebrai­smo, appiccare un «incendio mondiale», come, col simbolo di «Dio in cro­ce», si poteva raggruppare, in una forza immensa, tutto ciò che soggiace, che è segretamente ribelle, l'intero retaggio di macchinazioni anarchiche nell'impero. «La salvezza viene dagli Ebrei.» — Il cristianesimo come for­mula per superare — e per assommare — i culti sotterranei d'ogni sorta, quelli di Osiride, della Gran Madre, di Mitra, per esempio: in questa intui­zione sta il genio di Paolo. Il suo istinto era in questo così sicuro che, con una brutale violazione della verità, egli mise in bocca, e non solo in bocca,

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al «salvatore» di sua invenzione, le immagini con cui quelle religioni di Ciandala affascinavano — che ne fece un qualcosa che anche un sacerdote di Mitra poteva capire... Questo fu il suo momento di Damasco: egli capì di aver bisogno della credenza nell'immortalità per svalutare «il mondo», che il concetto di «inferno» avrebbe ancora avuto il sopravvento su Roma — che con l'«al di là» si uccide la vita... Nichilista e cristiano: si corrispon­dono tra loro, e non soltanto si corrispondono...

59.

L'intero lavoro del mondo antico per nulla: non trovo parole per espri­mere il mio sentimento davanti a qualcosa di così mostruoso. — E in consi­derazione del fatto che il suo era lavoro preparatorio, che quella gettata con granitica presunzione era appunto solo l'infrastruttura di un lavoro millenario, l'intero senso del mondo antico fu vano!... A che scopo i Gre­ci? A che scopo i Romani? — Tutte le premesse per una civiltà colta, tutti i metodi scientifici erano già là, si era già affermata la grande, l'incompara­bile arte di ben leggere — questo presupposto per la tradizione della cultu­ra, per l'unità della scienza; la scienza della natura, unita con la matemati­ca e la meccanica, era sulla migliore delle strade — il senso dei fatti, l'ulti­mo e più prezioso di tutti i sensi, aveva le sue scuole, la sua tradizione vec­chia ormai di secoli! Ci rendiamo conto di ciò? Tutto l'essenziale era tro­vato, per potersi accingere al lavoro: i metodi, si deve dirlo dieci volte, so­no l'essenziale, anche la cosa più difficile, anche quella che ha più a lungo contro di sé abitudini e pigrizie. Ciò che noi oggi, con assoluto autodomi­nio, — poiché noi tutti abbiamo ancora in qualche modo nel nostro sangue i cattivi istinti, quelli cristiani — ci siamo riconquistati, lo sguardo aperto alla realtà, la mano prudente, la pazienza e la serietà nelle più piccole cose, l'intera rettitudine della conoscenza — esisteva già! già più di duemila anni fa! E per di più il tatto e il gusto buono e fine! Non come addestramento mentale! Non come educazione «tedesca», con maniere da villani! Ma co­me corpo, come gesto, come istinto — in una parola, come realtà... Tutto invanol Nel giro di una notte, nulla più che un ricordo! — Greci! Romani! La nobiltà dell'istinto, il gusto, la ricerca metodica, il genio dell'organizza­zione e dell'amministrazione, la fede, la volontà d'avvenire umano, il grande sì a tutte le cose visibile nella forma di imperium romanum, visibile a tutti i sensi, lo stile grande non più solo arte, ma diventato realtà, verità, vita... E non seppellito nel giro di una notte per un evento naturale! Non calpestato da Germani e altri plantigradi! Devastato invece da astuti, oc­culti, invisibili, anemici vampiri! Non vinto — solo dissanguato!... La na­scosta sete di vendetta, l'invidia piccina diventa padrona). Tutto ciò che è miserevole, che soffre di sé; che è travagliato da cattivi sentimenti, l'intero mondo da ghetto dell'anima, d'un colpo portato in alto\ — Non v'è che da leggere un qualsiasi agitatore cristiano, sant'Agostino per esempio, per ca­pire, per fiutare che razza di immondi compari sono in tal modo venuti a galla. C'inganneremmo in tutto e per tutto se si presumesse nei capi del movimento cristiano un qualche difetto d'intelletto: sono avveduti, oh se sono avveduti fino alla santità, i signori Padri della Chiesa! Ciò che manca loro è ben altro. La natura li ha trascurati — essa dimenticò di donar loro una dote modesta di istinti rispettabili, decenti, puliti... Detto in confiden­za, questi non sono nemmeno dei maschi... Quando l'Islam disprezza il cristianesimo, ha mille volte ragione di farlo: l'Islam ha dei maschi per pre­supposto...

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60. Il cristianesimo ci ha carpito con frode la messe della civiltà antica; più

tardi ci ha di nuovo defraudato la messe della civiltà dell'Islam. Il meravi­glioso mondo della civiltà moresca di Spagna, a noi in fondo più affine, più eloquente al senso e al gusto, che Roma e la Grecia, venne calpestato — non dico da quali piedi — perché? Perché era debitore della sua nascita a istinti nobili, virili, perché diceva sì alla vita anche con le rare e raffinate delizie della vita moresca!... Più tardi i cavalieri crociati combatterono qualcosa, davanti a cui meglio sarebbe convenuto loro prostrarsi nella pol­vere, — una civiltà al cospetto della quale persino il nostro secolo dician­novesimo dovrebbe apparirci molto povero, molto «tardo». — Certo, vo­levano far bottino: l'Oriente era ricco... Ma siamo giusti! Le crociate — al­ta pirateria, niente di più! — L'aristocrazia tedesca, in sostanza aristocra­zia di Vikinghi, venne a trovarsi in tal modo nel proprio elemento: la Chie­sa sapeva anche troppo bene in che modo si tiene la nobiltà tedesca... L'a­ristocrazia tedesca, in ogni tempo gli «Svizzeri» della Chiesa, sempre al servizio di tutti i cattivi istinti della Chiesa — ben pagata però... La Chiesa ha condotto proprio con l'ausilio di spade tedesche, di sangue e coraggio tedeschi, la propria guerra di mortale inimicizia contro tutto ciò che su questa terra è nobile! — Intervengono a questo punto parecchie dolorose questioni. L'aristocrazia tedesca è quasi assente nella storia della cultura superiore: il motivo s'intuisce... Cristianesimo, alcool — i due grandi stru­menti di corruzione... A dire il vero, di fronte a Islam e cristianesimo non dovrebbe proprio esserci scelta, come di fronte ad un arabo e ad un ebreo. La decisione è data, nessuno è qui più padrone di scegliere. O uno è Cian-dala, o non lo è... «Guerra all'ultimo sangue con Roma! Pace, amicizia con l'Islam»: così sentiva, così agì quel grande spirito, il genio tra gli impe­ratori tedeschi, Federico il. Come? un tedesco deve essere prima genio, pri­ma libero spirito per avere un decoroso sentire? — Non riesco a rendermi conto come mai un tedesco abbia potuto avere un sentire cristiano...

61.

Qui è d'uopo rifarsi a un ricordo ancora e cento volte più penoso per dei Tedeschi. I Tedeschi hanno defraudato l'Europa dell'ultima grande messe di cultura che essa avrebbe potuto raccogliere, — quella del Rinascimento. Si comprende, si vuole intendere, che cosa fu il Rinascimento? La trasvalu­tazione dei valori cristiani, il tentativo, intrapreso con tutti i mezzi, con tutti gli istinti, con tutto il genio, di condurre alla vittoria i valori antitetici, i valori aristocratici... Fino a questo momento c'è stata solo questa grande guerra, fino a questo momento non c'è stata proposizione di problemi più decisiva di quella del Rinascimento, — il mio problema è il suo proble­ma —; non vi fu mai, neppure forma d'attacco più radicale, più diretta, più duramente sferrata su tutto il fronte e contro il centro! Attaccare nel punto decisivo, nella sede stessa del cristianesimo, metter lì sul trono i va­lori aristocratici, intendo dire immetterli negli istinti, nelle più riposte ne­cessità e brame di coloro che là appunto sedevano... Vedo dinanzi a me una possibilità di un incanto e di una seduzione di colori del tutto ultraterreni: essa mi pare risplendente di raffinata bellezza in ogni fremito, mi par che in essa sia all'opera un'arte così divina, diabolicamente divina, che invano si

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frugano i millenni alla ricerca di una seconda possibilità del genere; vedo uno spettacolo così ricco di significato e insieme così mirabilmente para­dossale, che tutte le divinità dell'Olimpo vi avrebbero trovato spunto per una immortale risata — Cesare Borgia Papa... Mi capite? Ebbene sì, que­sta sarebbe stata la vittoria, alla quale oggi io anelo: — con quella il cristia­nesimo sarebbe stato eliminato] Che avvenne? Un frate tedesco, Lutero, venne a Roma. Questo frate, con nel sangue tutti gli istinti vendicativi di un prete fallito, a Roma tuonò contro il Rinascimento... Invece di com­prendere con la più profonda gratitudine il prodigio accaduto, il supera­mento del cristianesimo nella sua sede, — da quello spettacolo il suo odio intese di trarre il suo solo nutrimento. — Lutero vide la corruzione del pa­pato, mentre era palmare precisamente l'opposto: la vecchia corruzione, il peccatum originale, il cristianesimo non sedeva più sul seggio del papa! Bensì la vita! Bensì il trionfo della vita! Bensì il grande sì a tutte le cose al­te, belle, audaci!... E Lutero ripristinò la Chiesa: la aggredì... Il Rinasci­mento — un evento senza senso, un grosso invano! — Ah, questi Tedeschi, quanto ci son già costati! Invano — questa fu sempre Vera dei Tedeschi. — La Riforma; Leibniz; Kant; e la cosiddetta filosofia tedesca; le guerre di li­berazione; l'impero — ogni volta un invano in cambio di qualcosa che già esistesse, di qualcosa d'irrevocabile... Questi Tedeschi, lo riconosco, sono i miei nemici: disprezzo in loro ogni specie di sudiceria di concetti e di valo­ri, ogni specie di codardia davanti a qualsiasi onesto sì e no. Da quasi un millennio a questa parte, hanno intricato e imbrogliato tutto quello su cui hanno messo le mani, essi hanno sulla coscienza tutte le mezze cose — tre ottavi di cose! — di cui l'Europa è malata — essi hanno pure sulla coscien­za la più immonda specie di cristianesimo che esista, la più insanabile, la meno confutabile, il protestantesimo... Se non ci sbarazzeremo del cristia­nesimo, la colpa sarà dei Tedeschi...

62.

— Con ciò sono alla conclusione e pronuncio il mio giudizio. Condanno il cristianesimo, levo contro la Chiesa cristiana l'accusa più spaventosa che mai sia uscita dalla bocca di un accusatore. Essa è per me la suprema tra tutte le corruttele immaginabili, essa ha avuto la volontà della estrema pos­sibile corruttela. La Chiesa cristiana, con la sua depravazione, non lasciò nulla d'intatto, essa ha fatto d'ogni valore un non-valore, di ogni verità una menzogna, d'ogni rettitudine un'infamia dell'anima. Che osino par­larmi ancora delle sue benemerenze «umanitarie»! Il sopprimere una qual­siasi miseria andava contro la sua più profonda utilità: essa visse di mise­rie, essa creò miserie per perpetuare se stessa... Il verme del peccato, per esempio: solo la Chiesa ha arricchito l'umanità con questa miseria! — L'«uguaglianza delle anime davanti a Dio», questa falsità, questo pretesto per le rancunes d'ogni anima vile, questo esplosivo concettuale, il quale al­la fine si è fatto rivoluzione, idea moderna e principio di decadimento per l'intero ordine sociale — è dinamite cristiana... Benemerenze «umanitarie» del cristianesimo! Far crescere dalla humanitas un'autocontraddizione, un'arte dell'autolesionismo, una volontà di menzogna ad ogni costo, una avversione, un disprezzo per tutti i buoni e retti istinti! — Queste sarebbe­ro le benedizioni del cristianesimo, per me! — Il parassitismo come unica prassi della Chiesa; che col suo ideale anemico di «santità» beve fino all'ul­tima goccia ogni sangue, ogni amore, ogni speranza di vivere: l'ai di là co­me volontà di negazione d'ogni realtà; la croce quale segno di riconosci-

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mento per la più sotterranea congiura mai esistita — contro salute, bellez­za, costituzione bennata, coraggio, spirito, bontà dell'anima, contro la vi­ta medesima...

Questa eterna accusa al cristianesimo io voglio scrivere su tutti i muri ovunque siano muri — possiedo caratteri per far vedere anche i ciechi... Io chiamo il cristianesimo unica grande maledizione, unica grande intima per­versione, unico grande istinto di vendetta, per il quale nessun mezzo è ab­bastanza velenoso, occulto, sotterraneo, piccino — io lo chiamo unico im­perituro marchio d'abominio dell'umanità...

E noi computiamo il tempo a partire dal dies nefastus con cui questa ca­lamità principiò — dal primo giorno del cristianesimo! — Perché non piut­tosto dai suo ultimo! — Da oggi! — Trasvalutazione di tutti i valori!

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818 L'ANTICRISTO [LEGGE CONTRO IL CRISTIANESIMO]

LEGGE CONTRO IL CRISTIANESIMO

Data nel dì della salute, nel primo giorno dell'anno uno (— il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)

Guerra mortale contro il vizio: il vizio è il Cristianesimo

Prima proposizione. — Viziosa è ogni specie di contronatura. La più viziosa specie d'uomo è il prete: egli insegna la contronatura. Contro il prete non si hanno motivi, si ha la prigione.

Seconda proposizione. — Partecipare ad un ufficio divino è un attentato alla pubblica mo­ralità. Si deve essere più severi contro i protestanti che contro i cattolici, più severi contro i protestanti liberali che contro quelli di stretta osservanza. Il delittuoso dell'esser cristiani cre­sce vieppiù ci si avvicini alla scienza. Il criminale dei criminali è quindi il filosofo.

Terza proposizione. — 11 luogo esecrando in cui il cristianesimo ha covato le sue uova di basilisco sia distrutto pietra su pietra e sia il terrore di tutta la posterità quale luogo abomine­vole della terra. Su di esso si allevino serpenti velenosi.

Quarta proposizione. — La predicazione della castità è istigazione pubblica alla controna­tura. Ogni disprezzo della vita sessuale, ogni contaminazione della medesima mediante la no­zione di «impurità» è vero e proprio peccato contro il sacro spirito della vita.

Quinta proposizione. — Chi mangia alla stessa tavola di un prete sia proscritto: con ciò egli si scomunica dalla retta società. Il prete è il nostro Ciandala — lo si deve mettere al bando, affamare, menare in ogni specie di deserto.

Sesta proposizione. — Si chiami la storia «sacra» col nome che merita in quanto storia ma­ledetta; le parole «Dio», «salvatore», «redentore», «santo» siano usate come oltraggi, come epiteti da criminali.

Settima proposizione. — Il resto è conseguenza.

L'Anticristo