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GALWAY, IRLANDA IL MITO CELTICO Non si puo ` dire che Galway sia una bella citta `. Almeno se di una citta ` siamo abituati a valutare le opere d’arte, i pa- lazzi, le vie. Galway e ` tutta di case basse e grigie, con i tetti spioventi sormontati da comignoli sottili e cosı ` estesi in lar- ghezza da sembrare assurdi muri supplementari, sbarra- menti aerei a non si sa che cosa. La piazza piu ` grande, Eyre Square, e ` in realta ` una distesa erbosa, verdissima, appena concava, chiusa su di un lato dalla stazione ferroviaria e su- gli altri da case a due piani e da alberghi. Le strade adiacen- ti, William Street, Shop Street, Mainguard Street, sono co- munissime strade di negozi e grandi magazzini. Il porto e ` molto meno vasto e trafficato di quanto ci si immagina: soltanto i due pontoni mobili sono possenti, e solenni quando si chiudono, simili alle mura di un castello costrui- to di ferrame. Mary e io arrivammo a Galway nell’estate del 1981, da Dublino. Per tutto il giorno, il cielo era stato coperto da una compatta distesa di nuvole, salvo all’estremo occidente, dove sull’orizzonte era rimasta una stretta cintura azzurra che dai finestrini del treno in corsa avevamo visto man ma- no diventare rosa pallido, scarlatta, viola, e poi di colpo di- latarsi e farsi di un blu ghiacciato, metallico. Quando il tre- no la sera si fermo ` alla stazione di Galway, l’impressione fu di aver raggiunto quell’estremo occidente di sereno e di freddo, di essere davvero a contatto con la sostanza dell’o- ceano. Quasi battendo i denti, cercammo lı ` intorno un al- Terre del mito p. 013

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GALWAY, IRLANDA

IL MITO CELTICO

Non si puo dire che Galway sia una bella citta. Almeno sedi una citta siamo abituati a valutare le opere d’arte, i pa-lazzi, le vie. Galway e tutta di case basse e grigie, con i tettispioventi sormontati da comignoli sottili e cosı estesi in lar-ghezza da sembrare assurdi muri supplementari, sbarra-menti aerei a non si sa che cosa. La piazza piu grande, EyreSquare, e in realta una distesa erbosa, verdissima, appenaconcava, chiusa su di un lato dalla stazione ferroviaria e su-gli altri da case a due piani e da alberghi. Le strade adiacen-ti, William Street, Shop Street, Mainguard Street, sono co-munissime strade di negozi e grandi magazzini. Il porto emolto meno vasto e trafficato di quanto ci si immagina:soltanto i due pontoni mobili sono possenti, e solenniquando si chiudono, simili alle mura di un castello costrui-to di ferrame.

Mary e io arrivammo a Galway nell’estate del 1981, daDublino. Per tutto il giorno, il cielo era stato coperto dauna compatta distesa di nuvole, salvo all’estremo occidente,dove sull’orizzonte era rimasta una stretta cintura azzurrache dai finestrini del treno in corsa avevamo visto man ma-no diventare rosa pallido, scarlatta, viola, e poi di colpo di-latarsi e farsi di un blu ghiacciato, metallico. Quando il tre-no la sera si fermo alla stazione di Galway, l’impressione fudi aver raggiunto quell’estremo occidente di sereno e difreddo, di essere davvero a contatto con la sostanza dell’o-ceano. Quasi battendo i denti, cercammo lı intorno un al-

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bergo: alcuni erano chiusi, altri avevano la hall troppo inpenombra; allora non mi piaceva prenotare le camere; delresto non potevo permettermi alberghi di lusso o di buonnome, e negli altri annunciare con anticipo il mio arrivo misembrava un’ostentazione. L’American Hotel era sul latonord di Eyre Square, un edificio a due piani, una sottile in-segna al neon, una scala interna di legno, camerette da pen-sionato studentesco. Ma avevamo un letto a due piazze, siapure scarse, una doccia, un tavolino: bastava questo perchenei nostri discorsi l’American Hotel diventasse entro pochigiorni la « casa ».

Fin dalla prima sera, quando Mary si mise a dormire, ioscesi nel pub al piano terreno, guardai un po’ di televisione,un telegiornale, uomini politici che parlavano con enfasi, eimparai con l’aiuto della ragazza che serviva al banco a di-stinguere tra le birre chiare, le rosse e le scure. Provai unapinta di Guinness: il boccale che la ragazza mi porse avevail colore e persino l’aroma del caffe, di grani di caffe maci-nati, acidulo senza acidita, una consistenza appena cremo-sa, un sapore amaro e allettante. A berne un’altra, l’effettonon fu di ebbrezza, ma di scivolamento verso un sonno pie-no di sogni quieti.

Ero arrivato. Ero nella terra di confine, di fronte all’o-ceano, dove avrei potuto trovare quello che cercavo: dovepotevano ancora raccogliersi leggende sull’incanto delle on-de e dell’erica, sulle metamorfosi di uomini in animali e dianimali in divinita, sui viaggi magici fuori dal tempo e dal-lo spazio: una terra abitata ancora da un popolo di spiriti,in ogni piega delle sue spiagge, dei suoi boschi e delle suecase stesse, o che almeno non si vergognava di esso, e amavarievocarlo nelle proprie canzoni. Non si sarebbe detto,quella sera, in quel pub fuligginoso, per compagni dei vec-chi afflitti dal catarro e in bilico sugli sgabelli dopo la loro

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quinta, sesta pinta di Guinness, ma ero nell’ultima patriadei Celti, nel paese dove gli ultimi Druidi avevano alzatole loro preghiere alla Luna e alle Querce e avevano coman-dato alla pioggia, alle nuvole e ai venti.

Che avrei dovuto partire per la costa occidentale dell’Ir-landa se volevo conoscere davvero i fondamenti della civiltaceltica, avevo cominciato a pensarlo dopo il primo contattoche ebbi con tracce lasciate da essa. Fu in un villaggio delleAlpi Marittime, a mille metri d’altitudine sul mare: lı miopadre aveva comperato una casa: l’aveva ricostruita, am-pliata, circondata di alberi da frutta, cespugli di ortensiee di rose. Per qualche tempo, fece coltivare due terrazze apatate e pomodori, venivano grandi come una mano strettaa pugno e rossi come un cuore. La casa era sul bordo di unapineta scoscesa, presa a volo da folate improvvise di unanebbia bianchissima, distante un chilometro dal paese. Ionon ci salivo quasi mai. Avvenne per caso, un giorno cheero stato a colazione con i miei: nel pomeriggio, visitandoper la prima volta il colle dove sorge la parte antica del vil-laggio, semidiroccata da un terremoto, appresi di una vocelocale secondo cui quei luoghi erano stati sacri ai Druidi, isacerdoti dei Celti, con cui i Liguri, avversari feroci dei Ro-mani, avevano accettato di allearsi e man mano di fondersi.Chi fossero davvero i Celti, i Druidi, quale fosse la loro re-ligione, che divinita invocassero e perche, non ne sapevonulla, allora. Ma mi attrasse subito il segreto di una civiltacancellata, di dei e di dee senza piu nome e volto, di cuisoltanto intuivo il legame con gli elementi, le costellazioni,le energie continuamente in movimento che attraversano lanatura. Cominciai da basilari notizie storico-geografiche.Le Alpi Marittime dovevano essere state l’estremo confineorientale in cui sopravvisse il druidismo, osteggiato e perse-guitato dai Romani. Poi caddero i santuari della Gallia,

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della Britannia. I Romani, proclamandosi nemici dei sacri-fici umani praticati dai Druidi, in realta ne avversavano lavisione dell’universo, che in seguito avrei scoperto magica emetamorfica, animistica ed eroica. Li ritenevano rivali chenon era possibile assimilare, e dunque, con il loro tetro, te-tragono pragmatismo, li sterminarono. I sacerdoti celtici,per sfuggire alle persecuzioni, si ritirarono via via a occiden-te, nelle brughiere umide dell’Armorica, tra i fiordi delGalles, in Scozia, in Irlanda, sino a farsi eremiti alle Aran,le tre isole disalberate al largo della baia di Galway. Ancoraoggi, la lingua dei Celti, il Gaelico, questa lingua che sem-bra arcaica e perennemente bambina, adatta a formularimagici e ad ardue sequenze musicali, in grado di gareggiarecon il vento e le onde, si parla in tutta Europa soltanto lı.

Salii piu spesso alla casa sulle Alpi Marittime. Interroga-vo i vecchi del villaggio: sapevano tutto sulle migrazioni deicinghiali, i loro eterni nemici, ma poco o nulla sui Druidi.Passavo le giornate ad annotare i colori del cielo, i nomi de-gli arbusti e dei fiori, le direzioni del vento, la velocita dellenuvole e della nebbia. I Celti avevano percorso quei sentieria precipizio tra i ginepri e i rovi, avevano raccolto le bacchedell’agrifoglio e quelle sacre del vischio, avevano cantato leloro misteriose preghiere forse dove adesso era la cucina, lasala da pranzo, il camino. Ma vi avevano lasciato traccetroppo labili, indistinguibili ormai da quelle dei ricci e de-gli scoiattoli sul terreno. Cosı, mentre mi interrogavo suiCelti e sul significato della loro civilta, diveniva piu forteil richiamo dell’altro confine: mi trovavo sul Mediterraneo,sulle Alpi Marittime, dove la presenza di riti druidici nonaveva lasciato altro che una memoria nebulosa, irricostrui-bile, e favoleggiavo di quell’estremo Occidente, l’Atlantico,le coste del Connemara, le isole Aran, dove l’anima celticadoveva avere ancora una voce, un linguaggio.

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