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Geografia · stanzialmente una “geografia regionale” a vocazione idiogra‐ fica, suscettibile di nutrire una “geografia generale” a voca‐ zione nomotetica: ciò che, in

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1 Genealogia del pensiero inclusivo in geografia 

La geografia ha tentato di dar conto, nel corso di lunghi seco‐li, del progetto umano di abitare la terra, un progetto aperto e  scientificamente mai concluso.  

Come  si  pone  la  nostra  disciplina  di  fronte  al  tema  che specificamente  qui  ci  occupa,  le  “geografie  disuguali”? Che cosa ha prodotto e produce  la ricerca su queste problemati‐che  e  come  tutto  ciò  si  trasferisce nell’educazione, nei per‐corsi formativi, nelle concrete pratiche didattiche? Se ci sof‐fermiamo  sulla  ricerca,  come qui  siamo  costretti  a  fare per ragioni contingenti, diciamo pure che ad un primo sguardo, l’interrogazione sopra le “geografie disuguali” non appare tra le preoccupazioni maggiori della disciplina.  

Ma questa sarebbe una  risposta  fin  troppo  leggera, come solo uno  sguardo  superficiale può  suggerire. Di  fatto, esiste una  filiera  significativa  molto  sensibile  alle  problematiche della diseguaglianza dei territori. Una  filiera certo minorita‐ria ma neppure tanto sotterranea, che marca la disciplina fin dal suo consolidamento istituzionale, a cavallo del Novecen‐to, e dopo l’eclisse dell’età dei nazionalismi e dei totalitarismi novecenteschi nel Vecchio Continente, trova sviluppi plurimi a partire dal secondo dopoguerra, per un impulso congiunto 

 *  Professore  ordinario  di  Geografia,  prorettore  vicario  dell’Università 

IULM di Milano.  

Geografia Verso la costruzione di territorialità  

inclusive  

di Angelo Turco*  

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ANGELO TURCO 

proveniente dalle Americhe e dall’Europa.  Proviamo a tracciare una mappa di questa tradizione di ri‐

cerca,  evocando  brevemente  come  “antefatto”  l’importante battaglia epistemologica che  si è giocata al  tempo di quella che, sulla scia del seminale  lavoro di Capel  (1987) possiamo chiamare “istituzionalizzazione disciplinare”, e facendo qual‐che cenno essenziale alle ramificazioni che a tale “antefatto” si  richiamano  in modo più o meno esplicito. Recupereremo la traccia di due “fabbriche” del pensiero geografico che han‐no sviluppato punti di vista originali e forti sul tema delle i‐dentità  inclusive, con  l’avvertenza che  si  tratta di un primo tentativo se non di sistematizzazione, almeno di ricognizione di una tradizione di ricerca troppo spesso considerata – e va‐lutata – più per  il suo contenuto  ideologico‐politico che per la sua portata scientifico‐analitica1. Intendiamoci: non che le “fabbriche”  del  pensiero  inclusivo  rifiutino  il  proprio  patri‐monio etico e  le proprie  fonti di  ispirazione  ideologica; esse ne rivendicano, anzi,  il valore  ideale e, appunto, politico. Di più,  questa  rivendicazione  costituisce  il  ferro  di  lancia  per consolidare  il processo di  legittimazione  sociale della disci‐plina, ritenuto peraltro troppo debole da questa tradizione di ricerca. Resta  tuttavia  il  fatto che  la critica  stenta nel corso del tempo a riconoscere un genuino valore epistemico alle ri‐cerche  in parola,  impoverendo  in qualche modo  il processo di legittimazione scientifica della Geografia. 

Si tratta di una questione  importante che vedremo emer‐gere a più riprese nel prosieguo. Essa investe centralmente il tema del “questionnement” e dunque della problematica qua‐le matrice  autentica  di  innovazione  conoscitiva  (Raffestin, 1976), di  immaginazione  scientifica  e di  costruzione  sociale della realtà. Non è affatto un caso del resto che nella vicenda qui esaminata i due tipi di processo – di legittimazione scien‐tifica  l’uno e di  legittimazione sociale  l’altro – si  intrecciano in  modi  plurimi  nell’esperienza  di  diversi  protagonisti 

 1. In specie, per questa ricognizione ho preso in considerazione solo in‐

direttamente la geografia tedesca (ad esempio attraverso il posizionamen‐to di Hartshorne), che risulta peraltro non senza legami con la tradizione francofona, qui considerata: cfr. ad esempio, Ginsburger, 2015.   

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

dell’edificazione di una geografia dell’inclusione. A cominciare W.  Bunge,  forse  il  più  radicale  innovatore  nell’esplorazione territoriale delle disuguaglianze, nel contempo ritenuto da au‐torevoli studiosi il fondatore stesso della geografia quantitati‐va.  

Alla  luce  di  un’analisi  per  lungo  tempo  dominante,  che oggi può e – a mio modo di vedere – deve ritenersi una sorta di  stereotipo a cui  si può  riservare al più un valore  storico‐critico piuttosto che di solidità interpretativa, ciò può appari‐re sorprendente: anche se difficilmente ci si è interrogati sui contenuti  e  la genealogia di  tale  sorpresa. Come  che  sia,  la faccenda  è  davvero  sorprendente, ma  solo  in  parte  e,  per l’appunto, se si resta in superficie. Di fatto, Bunge ha coltiva‐to un’esigenza di legittimazione sociale attraverso il processo di legittimazione scientifica della disciplina. Quest’ultima si è rivelata insufficiente, per Bunge; per altri si è rivelata inade‐guata; per Bunge ancora, come per molti, si è rivelata addirit‐tura controproducente dal punto di vista dell’impegno in di‐rezione di una territorialità inclusiva; a qualcuno, infine e per fermarci qui, è apparsa perfino congrua: per tutti, R. Brunet, il  creatore della  corematica2  e  fondatore di  riviste di punta come L’Espace géographique o,  in campo cartografico, Map‐pemonde. Ma in ogni caso, la legittimazione scientifica è stata un potente fattore di coscientizzazione. Per quella via, infat‐ti, si è costruita la consapevolezza che, alla fine, era sul piano della legittimazione sociale, e quindi della problematizzazio‐ne, che si giocava la partita e non sul piano di una credibilità scientifica oltretutto affidata a metodologie quantitative che, guidate da  informazioni raccolte  in  funzione di obiettivi di‐segnati dagli interessi egemonici, finiscono per rafforzarne le ragioni. Sul modello di Bunge, seppure  in  larga misura  indi‐pendentemente da Bunge, questa è stata  l’esperienza di stu‐diosi come D. Harvey o come, in Italia, G. Dematteis3.     

 2.  La  corematica  è  la  branca  della  disciplina  che  si  occupa 

dell’individuazione di modelli regionali (corèmi) dotati di una qualche co‐erenza economico‐politica, culturale, sociale. 3. Il primo, A. di un testo fondamentale per coloro che, allora, essendo 

attratti  dalla  “rivoluzione  quantitativa”  furono  chiamati  “neopositivisti”  

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ANGELO TURCO 

2 L’antefatto: una battaglia epistemologica al tempo 

dell’istituzionalizzazione  

Tra  l’ultimo quarto del XIX sec. e  il primo del XX, nel corso del processo di  istituzionalizzazione, si affrontano due posi‐zioni  paradigmatiche  principali  nel  seno  della  disciplina4. Una che chiamerei genericamente  “positivista” e  l’altra che, in modo  del  tutto  provvisorio  e  circospetto,  chiamerei  “es‐senzialista” (FIG. 1). 

FIGURA 1. L’istituzionalizzazione disciplinare: uomini e posizioni 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 (Harvey, 1969); il secondo, protagonista del primo tentativo di sistematiz‐zazione della materia nel nostro paese (Vagaggini e Dematteis, 1976), do‐po alcune esperienze di ricerca empirica basate o ispirate ai modelli geo‐metrico‐quantitativi, introdotti in Italia da E. Bonetti, di cui diremo in se‐guito. 4. Per un inquadramento storico del periodo tra Otto e Novecento, per 

l’Italia, rinvio in aggiornata sintesi a Vecchio (2012). 

 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

Il paradigma positivista, di impronta comtiana, assume la “realtà” – ossia l’universo empirico da indagare – come “data” all’interno  delle  istituzioni  operanti,  soprattutto  politiche, ma anche economiche e più ampiamente culturali e sociali. Dal  punto  di  vista  epistemologico,  questo  significa  porre l’interrogazione scientifica – ciò che indaghiamo, ciò di cui ci occupiamo – su un piano che assume le configurazioni strut‐turali dei processi sociali senza sostanzialmente metterne in discussione  i  fondamenti. Ciò  conduce  ad  affrontare  i  pro‐blemi  in un quadro  interpretativo  funzionale all’assetto esi‐stente. 

Le  grandi  figure  del  paradigma  positivista  sono  sostan‐zialmente  tre:  F.  Ratzel  (1844‐1904),  P.  Vidal  de  la  Blache (1845‐1918)  e  H.  Mackinder  (1861‐1947).  Si  tratta  di  figure troppo note per soffermarci su di esse. Diciamo solo, per si‐tuarle meglio all’interno del discorso che  stiamo  svolgendo, che ciascuna di queste personalità mostra un aspetto del pa‐norama positivista, che appare così come una posizione pa‐radigmatica non compatta ed omogenea, ma assai complessa. 

Il positivismo ratzeliano,  in effetti, si connota come “am‐bientalista”: ciò è ben noto, e si motiva in estrema sintesi, per il ruolo attribuito ai  fattori naturali nel condizionare  i com‐portamenti umani. La  geografia umana,  in buona  sostanza, consisterebbe  nella  spazializzazione  di  tali  comportamenti, che  sarebbero perciò determinati dall’ambiente  fisico, nella sua  accezione più  ampia. Per questa  ragione,  il positivismo ratzeliano  è  detto  anche  “determinismo”.  Inutile  insistere sulla  critica  al positivismo  ambientalista e  sulla povertà del suo  fondamento  teorico.  Ricordiamo  solo  che  quest’ultimo affonda le sue radici in una tradizione multisecolare del pen‐siero occidentale, sulla  cui tenace continuità ha scritto pagi‐ne illuminanti M. Pinna (1988). 

Il  positivismo  vidaliano,  dal  suo  canto,  potrebbe  essere qualificato  come  “storico”:  ciò  spinge  a  porre  l’accento  sul ruolo della “contingenza” nell’analisi dei fatti sociali  e quindi sulla  funzione  della  storia  nella  organizzazione  di  risposte “puntuali” ad eventi (ad esempio un’innovazione tecnologica, una  rivoluzione  politica,  un  cambiamento  istituzionale)  e circostanze  (ad  esempio un mosaico pedologico, un  tipo di clima) che  sono dunque  sempre  in qualche modo  “locali” e 

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ANGELO TURCO 

temporalmente definite. È perciò che la geografia di Vidal si definisce solitamente “regionale”: perché offre la spiegazione dell’agire umano come  insieme di  fatti di  localizzazione:  in‐tendo, combinazioni locali di eventi e circostanze transcalari. L’insieme di tali fatti di localizzazione offrirà poi allo studio‐so i materiali empirici per procedere a delle generalizzazioni che  consistono  da  un  lato  –  e  sempre,  e  comunque  – nell’organizzare delle descrizioni coerenti del mosaico regio‐nale, opportunamente perimetrato; dall’altro  lato – ed even‐tualmente  –  consistono  nel  ricavare  per  induzione  da  una collezione più o meno ampia di “casi”  locali descritti e spie‐gati, delle “leggi” di portata universale. 

Come si può agevolmente constatare, di là da qualche dif‐ferenza di sfumature e di linguaggio, la comune appartenen‐za paradigmatica non comporta  sostanziali divergenze  sulla “natura” del prodotto scientifico  in Ratzel e  in Vidal:  la spa‐zializzazione  (localizzazione,  regionalizzazione)  è  l’esito primo  e  fondamentale nell’ottica di  entrambi. La  loro  è  so‐stanzialmente una “geografia regionale” a vocazione idiogra‐fica,  suscettibile di nutrire una  “geografia  generale”  a  voca‐zione nomotetica: ciò che,  in definitiva, sistematizzerà Har‐shorne qualche decennio più tardi sancendo il trionfo del pa‐radigma positivista. 

La perfetta compatibilità epistemologica delle posizioni di Ratzel  e Vidal, peraltro  spesso presentate  come  antitetiche, viene mostrata dall’opera di Mackinder, che utilizza nei suoi studi moduli descrittivi e supporti argomentativi  ispirati sia alla  declinazione  “ambientalista”  che  “storicista”  del  para‐digma positivista. Valga per tutti la sua opera maggiore, dove l’Heartland  è  definito  sia  in  termini  di  “posizione”5,  che  di “contingenza”, emblematizzata quest’ultima dall’ascesa della Germania sullo scacchiere europeo. 

Il paradigma essenzialista, al contrario di quello positivi‐sta, assume la realtà come uno “stato di cose” che si determi‐na per l’effetto di forze che agiscono in un modo o in un al‐tro, combinandosi  localmente  in un modo o  in un altro. La  5.  Secondo  ispirazioni  risalenti  addirittura  a Ritter  e  al  suo  “magismo 

continentale” (Turco, 2017). 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

geografia essenzialista è autoconsistente, priva di fondamen‐ti,  e  dunque  tanto  aleatoria  nella  sua  costituzione,  quanto trasformabile nella sua evoluzione, in dipendenza dalle forze che agiscono, dalle  ideologie che  le animano, dagli  interessi che le guidano. Costituzione ed evoluzione degli spazi come campi di  forze,  sono  le preoccupazioni  che orientano  la  ri‐cerca,  con  una  forte  propensione  a  “capire  per  cambiare”, nella prospettiva di un fortissimo impegno verso il mutamen‐to sociale in senso egualitario.  

Ciò che differenzia pertanto  il paradigma essenzialista da quello positivista, non sono tanto le teorie e men che meno i metodi di indagine, quanto le problematiche. Queste ultime non sono soltanto  l’esito di una propensione esistenziale, di una “metafisica  influente”, di una scelta  ideologica. Esse co‐stituiscono anche il punto di partenza della catena logica che porta  alla  scoperta  scientifica,  come  ammonisce  Popper (Turco,  1987). La  loro  formulazione, come ha puntualizzato con forza Raffestin (1976), non solo dichiara la posizione del ricercatore  rendendone  espliciti  i  presupposti, ma  orienta  i suoi percorsi di ricerca, disegnando  le traiettorie secondo  le quali –  foucaultianamente – è  “il punto di vista” che  finisce per “fare la cosa”.  

Una costellazione di personalità eterogenee conferisce, se non una  forma definita, certo una robusta sostanza al para‐digma essenzialista in Geografia. Si tratta di studiosi di diver‐sificata  formazione  culturale, poco organici  al mondo  acca‐demico dove si va affermando con decisione il paradigma po‐sitivista,  anche  se  spesso  intrattengono  rapporti  personali con esponenti universitari. Si tratta altresì di personaggi che, in coerenza con il loro paradigma, sono fortemente proiettati non  solo nell’analisi dello  “stato di  cose”, ma nel  suo  cam‐biamento attraverso l’impegno politico. Quest’ultimo disegna un perimetro vasto, tra anarchismo e socialismo, con una for‐te contestazione dei poteri costituiti e delle forme autoritarie del suo esercizio. In questa stessa scia, si sviluppa una critica del  capitalismo,  inteso  in modo più o meno  esplicito  come fonte e, al tempo stesso, beneficiario dei modi di produzione e distribuzione della  ricchezza, nelle  sue proiezioni  territo‐riali.  

Ancora richiamando la FIG 1., vorrei rammentare le perso‐

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ANGELO TURCO 

nalità di E. Reclus (1830‐1905), di P.A. Kropotkin (1842‐1821), di A. Ghisleri (1855‐1938), infine di R. Luxemburg (1871‐1919), a riprova della diffusione assolutamente paneuropea del pa‐radigma  essenzialista  in  geografia6.  Neppure  qui  possiamo soffermarci  sui contenuti  scientifici dell’opera di questi  stu‐diosi, se non per dire che il problema della “spazializzazione” dei fatti sociali è visto in modo differente. Prevale certamente il senso di una spazialità modellata dalla società. Ma in alcu‐ni è evidente il possesso del concetto di territorialità, ossia di una forma spazializzata dell’azione sociale che, divenuta ter‐ritorio e in quanto tale – quindi oltre i fatti di natura –, non solo  si  riflette  sulla  società ma  produce  società.  È  l’idea  di territorio come esito e, insieme, condizione dell’azione socia‐le, giunta a formulazione esplicita nella seconda metà del se‐colo scorso (Turco, 1988). 

È certo R. Luxemburg,  secondo alcuni  la mente più bril‐lante  che  si  sia  applicata  alla  critica  del  capitalismo  dopo Marx, ad essersi  spinta più avanti  sul  terreno  sopra eviden‐ziato. E  ciò,  anche  se paradossalmente  forse proprio  lei  sia stata  la personalità meno consapevole di portare un contri‐buto  a  una  disciplina  chiamata  “Geografia”.  La  teoria dell’accumulazione di R. Luxembourg, infatti, mette il luce la centralità del  territorio nella genesi e nello  svolgimento dei processi  sociali.  Il modo di produzione  capitalistico,  con  la sua  finalità  ultima,  l’accumulazione,  per  un  verso  produce squilibri territoriali e dunque, anche solo per quella via, dise‐guaglianze  sociali.  Per  altro  e  ancor  più  importante  verso, tuttavia, il processo accumulativo, per sua natura perpetuo e mai concluso, rischia proprio perciò di andare in crisi. A cau‐sa di stagnazione o di sovraccumulazione, il capitale tradisce la sua funzione e, cosa ancor più grave, finisce col perdere la sua natura: riprodursi, vale a dire produrre capitale attraver‐so  se  stesso. È così che,  in assenza di nuove opportunità di investimento,  di  nuove  risorse  (materiali  e  simboliche)  da 

 6. Sulla componente anarchica del paradigma essenzialista rimando  in 

sintesi a Ferretti (2007); su Ghisleri, rinvio per tutti a Quaini (1989) e Casti (2001). Per possibili connessioni di entrambi questi paradigmi con la figu‐ra e l’opera di Cattaneo, cfr. Quaini (1997). 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

sfruttare, il capitale evita la crisi attraverso una strategia geo‐grafica  e  cioè  facendo  dello  squilibrio  territoriale  che  esso stesso crea ed alimenta, una risorsa. E ciò, perché nei territo‐ri squilibrati (arretrati, sottosviluppati) si creano sacche con‐sistenti  di  economia  non  capitalistica  da  sfruttare,  in  un continuum che  la saturazione delle aree sviluppate e  la  loro omologazione capitalistica renderebbe altrimenti impossibile da praticare7.  

3 Digitazioni vidaliane in Francia    

Il  cerchio  in  qualche modo  si  salda  con  la  “geografia  della guerra”, apparsa fin dagli anni ’10 del secolo scorso. In prepa‐razione del conflitto e  in previsione della sua  fine,  infatti,  il paradigma positivista – che di fatto aveva già vinto  la batta‐glia dell’istituzionalizzazione all’interno della disciplina – af‐ferma una sua  legittimità a far valere  le proprie competenze nella gestione delle ipotesi e dei tavoli di pace. Il sapere geo‐grafico,  come  hanno messo  in  luce  gli  studi  di Ginsburger (2010), viene dunque posto al servizio della politica, seppure con risultati deludenti, ed oltretutto in un’età di nazionalismi imperanti che prepara fin da subito, si può dire, le condizioni per  lo  scoppio  del  secondo  conflitto mondiale. Ciò  rappre‐senta  un  effettivo  salto  di  qualità  nell’affermazione  di un’identità professionale del geografo,  in precedenza  consi‐derato come un “maestro” e cioè come un tecnico della  for‐mazione geografica degli allievi a scuola, ed altresì come un esperto di esplorazioni geografiche. Queste ultime, associate alle  cartografie  di  ogni  tipo  prodotte  prima  e  dopo  il  loro svolgimento,  hanno  avuto  il  ruolo  che  sappiamo  nello  svi‐luppo del colonialismo. E non è un caso, del resto, che pro‐

 7. Ho provato ad ipotizzare un’estensione della teoria di R. Luxemburg 

attraverso la mobilitazione dei concetti di “territorialità configurativa” e di “territorialità ontologica” quali “geografie non capitalistiche” a cui pertan‐to  il capitale potrebbe volgersi nei periodi di crisi, segnatamente sovrac‐cumulative (Turco, 2015a e 2015b).  

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ANGELO TURCO 

prio  per  una  questione  di  identità  non  solo  scientifica, ma professionale,  si  dispiega  la  “battaglia  delle Annales”,  tutta interna al paradigma positivista a dominante storicista (Sou‐beyran, 1995). 

Dopo una lunga battuta d’arresto, una ripresa del dibattito si ha nel secondo dopoguerra, grazie a sensibilità maturate in vari  luoghi e  forme differenziate soprattutto durante  il con‐flitto. Nella Francia degli anni  ’40, con una geografia  salda‐mente vidaliana, affidata al prestigio della monografia regio‐nale, si affaccia la figura di uno studioso militante, dapprima marginale, poi centrale nel mondo accademico:  Jean Dresch (1905‐1994). Impegnato politicamente nelle fila di quello che allora era il Partito Comunista più forte dell’Europa occiden‐tale, J. Dresch è un allievo di E. De Martonne (1873‐1955), fi‐gura maggiore della geografia francese e genero di Vidal de la Blache: ha perciò una  formazione  eminentemente geografi‐co‐fisica. È però allievo anche di A. Demangeon (1872‐1940), come ricorda J. Beaujeu‐Garnier (1995). Non stupisce dunque che  egli  sia  un  fautore  dell’unità  della  disciplina,  imperso‐nando  quella  che  per  decenni  sarà  la  dottrina  disciplinare prevalente in Francia e, per sua influenza, nel mondo.  

Dresch è un agguerrito critico del colonialismo, tema che ‐specialmente  con  la  questione  algerina  –  rende  particolar‐mente acuta la coscienza dei geografi (Y. Lacoste et al., 1978).  Egli  decostruisce  l’imperialismo  francese  attraverso  l’analisi del  capitalismo  coloniale:  un  tema  alquanto  inedito  nelle preoccupazioni  disciplinari  (Dresch,  1952).  Suoi  allievi,  del resto, e di P. George, sono i giovani geografi che si distinguo‐no nell’impegno anticolonialista (Bataillon, 2006; Semmoud, 2014; Deprest, 2009). Ma come lui, altri “geografi comunisti” esercitano  importanti ruoli  istituzionali nella geografia fran‐cese: valgano per tutti Jean Tricart (1920‐2003), anch’egli ge‐ografo  fisico, e soprattutto  il già citato Pierre George  (1909‐2006).  

In un clima saldamente attestato, è vero, sull’ideologia di‐sciplinare vidaliana, alquanto conservatrice sul piano metodo‐logico,  si profilano orizzonti di apertura verso nuove proble‐matizzazioni  della  disciplina,  che  costituiscono  l’essenziale della spinta innovante della Geografia in Francia: basterà pen‐sare a figure come J. Suret‐Canale, con i suoi immensi e pro‐

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

fondissimi studi sull’Africa subsahariana (Suret‐Canale, 1958, 1962, 1972), oppure come Y. Lacoste.        Autore di un  libro molto  importante dedicato  alla geo‐grafia del  sottosviluppo  (Lacoste,  1965), Lacoste acquista  ri‐nomanza mondiale negli anni ’70 con la pubblicazione di un libro che getta una  luce nuova sulla guerra del Vietnam e le strategie  territoriali  dello  Stato Maggiore  americano  (Laco‐ste, 1976). La geografia e la guerra: una storia antica. Ma rivi‐sitata  in  un  contesto  internazionale  fortemente  critico  nei confronti delle dottrine che affermano  il diritto  (e,  secondo le retoriche del tempo, il dovere) degli USA di farsi “gendar‐me del mondo”. Quelle esperienze di studio, di riflessione, di militanza “civile” prim’ancora che politica, spiegano la genesi di quella che forse rappresenta a tutt’oggi l’impresa scientifi‐ca più articolata e ricca di questo pur prolifico autore: la rivi‐sta Hérodote,  fondata nel  1976 e giunta ormai  felicemente a superare il 40° anno di vita.  

Come s’è accennato poco sopra, la seconda via verso la le‐gittimazione sociale, procede dalla legittimazione scientifica. È la strada intrapresa da R. Brunet, una personalità eminente della  geografia  francese,  che  interpreta  la  sensibilità  critica come impegno politico che un ricercatore deve affermare so‐prattutto con  le  sue pratiche di  studio. Queste devono  ren‐dersi in qualche modo coerenti con la tradizione disciplinare: e non a caso Brunet chiamerà Reclus  il grande centro di  ri‐cerca creato a Montpellier nel 19828. La ricerca, inoltre, deve essere  rigorosa,  e  in  ciò  aiutano  fortemente  le metodologie quantitative, anche se la loro funzione è sempre e comunque strumentale  rispetto  al disegno  conoscitivo:  è  la  filosofia di fondo che ispira L’Espace Géographique, la rivista fondata da Brunet,  di  cui  s’è  parlato,  che  ha  acquistato  in  brevissimo tempo, una rinomanza internazionale. Infine, la ricerca deve essere  “attiva”,  secondo gli  intendimenti di un  libro  famoso 

 8. Reclus è  in  realtà  l’acronimo di  “Réseau d’Etude des Changements 

dans  les  Localisations  et  les  Unités  Spatiales”,  un  GIP  (Groupement  d’Interêt Public), appoggiato alla Maison de  la Géographie, di cui si men‐zionano almeno due grandi collezioni:  la Géographie Universelle e  l’Atlas de France.  

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ANGELO TURCO 

(George et al., 1964), ossia deve sforzarsi di assumere su di sé la  responsabilità del cambiamento, dando  indicazioni anali‐tiche applicabili alle interpretazioni che stanno alla base del‐le  politiche  territoriali  ed  alle  azioni  che  le  sostanziano:  è uno dei sensi più profondi della corematica9.  

Ma  si  capisce  poco  dell’esperienza  quantitativistica  in Francia  se  non  si  prende  in  considerazione  l’influenza  di‐rompente  dei  cosiddetti  franco‐canadesi,  studiosi  francesi che hanno insegnato e fatto ricerche in Canada, dove hanno potuto  assorbire  con  più  facilità  l’esperienza  statunitense, particolarmente di Brian Berry. Figure di spicco  sono certa‐mente J.‐B. Racine ed H. Raymond che hanno provato, in un libro celebre, a coniugare le “buone ragioni” del quantitativi‐smo con  la tradizione disciplinare, senza tradirne  le radici10. A rinforzo di tale posizione, Racine e Raymond pensano suc‐cessivamente  un  libro  composto  con  il  loro maestro,  (Hi‐snard, Racine, Raymond, 1981), che rappresenta uno dei testi più lucidi sulla “rivoluzione quantitativa”11. I franco‐canadesi svilupparono mescolanze fermentanti in Svizzera (la sede u‐niversitaria di Racine era Losanna), con studiosi come C. Raf‐festin, A. Bailly, G. Nicolas‐Obadia, non meno che in Francia, dove  andavano sorgendo reti di riflessione, la più nota ed in‐fluente delle quali resta senza dubbio il Groupe Dupont.  9. E ciò almeno nelle intenzioni di Brunet. Tuttavia la corematica di fatto 

è stata oggetto di valutazioni contrastanti. L’approccio della “sinistra”, e cioè degli  esponenti  della  corrente  legittimizzatrice  di  impronta  sociale,  è  al‐quanto severa nei confronti della corematica, che per parte sua ha avuto un grande successo, non solo a livello mediatico, ma anche universitario e per‐sino  scolastico.  Se  ne  vedano  analisi  ed  applicazioni  particolarmente  su Mappemonde. 10. Questo  libro è stato  tradotto e pubblicato  in  italiano  (Racine e Ra‐

ymond,  1983) da A. Turco e G. Zanetto, con un’introduzione dei curatori fortemente  impegnata a  sottolineare questo aspetto di  transizione  senza rotture. 11. Di questo  libro dovevo  fare una  recensione, ma mi venne  il dubbio 

che si trattasse di un’opera troppo importante per una “semplice” resocon‐to. Esposi questo dubbio ad A. Celant, che allora si occupava del BSGI – e si accingeva a pubblicare,  insieme  con A. Vallega, un  libro  che  faceva  il punto sul pensiero geografico italiano: una rarità per quei tempi (Celant e Vallega, 1984 ). Attilio convenne con me, e mi stimolo a scrivere un artico‐lo, che fu poi pubblicato (Turco, 1982). 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

4 Esperienze italiane, echi di Spagna 

Il movimento  critico  in  Italia  si  è  sviluppato,  caratteristica‐mente, a partire da una duplice presa di coscienza delle pra‐tiche legittimizzatrici: sul piano scientifico e sul piano socia‐le. Fondamentali  sono  state, nell’esperienza  italiana, due  fi‐gure che non esiterei a definire di passeurs: A. Vallega (1934‐2006) e G. Dematteis. Il primo ha favorito con le sue ricerche non meno che con le sue pratiche di coinvolgimento e di in‐coraggiamento, la crescita di una coscienza critica di giovani geografi  che  negli  anni  ’70  apparivano  fortemente  insoddi‐sfatti  delle  impostazioni  disciplinari,  dei  temi  e  degli  esiti delle ricerche. Questi giovani ritenevano che  i  limiti da essi stigmatizzati fossero dovuti a una scarsa capacità di spingere l’analisi in profondità, a carenze metodologiche, ad ambigui‐tà diffuse dell’ideologia disciplinare. Tra queste ultime, si se‐gnala la mitologia intorno all’unità della disciplina, in un pe‐riodo  in  cui  forse  solo  il  Dipartimento  di  Geografia dell’Università di Padova  risultava  fedele  a questa  imposta‐zione. Ma  si  segnala anche  la pretesa di valutare  la bravura dei ricercatori, la loro dignità scientifica, dalla varietà dei te‐mi trattati, piuttosto che dallo spessore dei risultati ottenuti. Senza omettere di citare un maestro come E. Bonetti  (1910‐2005),  che ha diffuso  in  Italia  i modelli di  localizzazione di von Thünen, Weber, Christaller, Lösch12, parliamo di studiosi  12. Della bibliografia di Bonetti, su questi temi, mi limito a citare Bonetti 

(1961, 1964, 1967). Nel volume che P. Pagnini, sua allieva, volle dedicargli in omaggio, si rinvengono i saggi di Vallega, Celant, Lando, Turco, Zanet‐to,  tra  i  “neopositivisti”; ma anche di G. Dematteis, che cominciava a  ri‐flettere  sulle  “metafore  della  terra”  (Dematteis,  1985)  e  F.  Farinelli,  che neopositivista certo non è mai stato, e che  in quella occasione contribuì con quella  che a mio giudizio appare  come una  cose migliori  che abbia scritto fino ad oggi. Al Colloquio svoltosi all’Università di Trieste  l’1‐2  lu‐glio 1982, che diede origine al volume in questione (Pagnini, 1985), parte‐cipò anche Peter Haggett, all’epoca uno dei più noti esponenti della “nuo‐va geografia”. Del resto, fu proprio la celebre Collana diretta da Gambi per FrancoAngeli ad ospitare la traduzione integrale del Christaller (1980), per la cura di P. Pagnini. Se posso aggiungere un ricordo personale, dirò che ho iniziato la mia carriera di geografo a Trieste, risultando vincitore di un  

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ANGELO TURCO 

come Gabriele Zanetto, Fabio Lando, Attilio Celant, Nedim Vlora, Paola Pagnini, Piero Landini, Angelo Turco. Questi per massima parte non erano affatto innamorati delle metodolo‐gie quantitative, che non hanno cessato di considerare come strumentali rispetto ad una teoresi forte, ed hanno praticato solo  per  una  parte  limitata  del  loro  impegno di  studio:  se‐guendo in ciò un modello proposto da personalità del calibro di C. Raffestin o di H. Capel, che vedremo13. 

Vario e non qui rievocabile fu il destino scientifico di que‐sti  studiosi,  che  allora  furono  chiamati  “neopositivisti”  con una tonalità polemica da parte dei loro coetanei, a loro volta chiamati  (si)  “storicisti”, pur desiderosi di cambiamento ma attestati  su  altre  posizioni,  certamente  più  aperte  alle  pro‐blematiche che ci occupano. Ispiratore e padre nobile di que‐sto movimento  fu  certamente Lucio Gambi  (1920‐2006), un grande studioso che ha rotto molti argini della tradizione di‐sciplinare  italiana,  in  avvitamento  su  se  stessa nel  secondo dopoguerra e giunta ormai esangue di  fronte a  fenomeni e‐pocali come  il movimento studentesco del  ’68, del  tutto  in‐capace di capire la voglia di cambiamento che stava attraver‐sando  il  Paese.  Questo  gruppo,  sotto  l’ala  tanto  sapiente quanto discreta di Dematteis (a sua volta sensibile alle istan‐ze  della  legittimazione  scientifica  del  quantitativismo)  ha riunito personalità di grande spessore da Massimo Quaini a Pasquale Coppola  (1943‐2008), a Franco Farinelli,  riuscendo in un arco di tempo relativamente breve, a dare corso ad una produzione  importante  e  di  ragguardevole  impatto14,  esal‐tando  i  temi  altrove  ignorati  o  appena  accennati dell’inclusione sociale, della giustizia spaziale, degli equilibri regionali. A ciò si affiancano iniziative quali la costituzione di un  gruppo  di  “Geografia Democratica”  (Cavallo,  2007)  e  la  concorso di assistente  insieme a G. Battisti, bandito dall’Istituto di Geo‐grafia diretto da E. Bonetti. I libri che allora studiammo, per quel concor‐so, includevano oltre a “La teoria delle località centrali”, proprio “L’analyse quantitative en géographie” di Racine e Raymond, appena pubblicato. 13. Sul rapporto di collaborazione tra Turco e Zanetto, in questo partico‐

lare quadro, rinvio a Turco, (2016a). 14. Basterà pensare ai libri di Quaini (1974, 1975, 1979) alcuni tradotti in 

diverse lingue. 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

fondazione di una rivista, che per la sua vita breve ebbe no‐me  “Herodote  Italia”15,  dal  nome  della  consorella  francese  fondata da Y. Lacoste16.    

La  geografia  critica  spagnola  appare  intimamente  legata alla fine del franchismo e all’avvento della democrazia (Gar‐cia Ramon,  2005).  Si  tratta di  un panorama  complesso,  tra ramificazioni,  sensibilità  e  inclinazioni metodologiche  plu‐rime. Ma  certamente  la  personalità  più  influente  in  questo quadro variegato è quella di H. Capel autore di una produ‐zione scientifica e divulgativa sterminata17. Capel sperimenta in una forma esemplare, si può dire, l’esperienza della doppia legittimazione,  scientifica e  sociale. Da una parte, c’è  il  suo sforzo di illuminare gli aspetti salienti della storia ed episte‐mologia del pensiero geografico moderno:  il suo  libro  in ar‐gomento, universalmente celebre, ha avuto molte edizioni an‐che  in  Italia  (Capel,  1987).  Questa  tensione  verso l’enucleazione di elementi forti della disciplina, si esprime in‐tanto sul versante dell’analisi quantitativa, specie nell’ambito della  geografia  urbana,  uno  dei  campi  d’elezione  di  Capel. Come nota N. Benach, Capel  fu  “tra  i primi a mostrare una sensibilità nei confronti della geografia quantitativa”, ma allo stesso tempo, si rendeva cosciente di un “contenuto ideologi‐co  occulto  di  quelle  investigazioni,  che  ignoravano  le  rela‐zioni sociali di produzione” (Benach, Carlos, 2016, p. 23). Ciò del resto accadrà  in diverse esperienze anglosassoni, come vedremo. Ma c’è un secondo, non meno importante aspet‐to, che marca  la vicenda di Capel, che  si  svolge caratteri‐sticamente  nell’ambito  dell’organizzazione  culturale:  col‐ 15. Proprio  sulla  titolazione della  rivista, poggiando  evidentemente  su 

basi più solide di dissidio, si consuma il disaccordo che mina senza rime‐dio  il senso di quell’esperienza (cfr.  la polemica tra Quaini e Farinelli su RGI e l’intervento di Turco, 2006). 16. Sarà P. Coppola a curare  la pubblicazione italiana di “La géographie 

ça sert d’abord à faire la guerre” nel 1977 con il titolo “Crisi della geografia, geografia  della  crisi”,  sempre  nella  collana  di  Gambi,  la  quale  si  pone quindi come una sorta di piattaforma aperta alle innovazioni e al dialogo disciplinari in quel periodo.  17. Ci  si può  fare un’idea delle  tematiche  che  stanno maggiormente  a 

cuore a Horacio, a partire dalla  selezione bibliografica di Nuria Benach, una delle sue allieve più brillanti ed impegnate (N. Benach, 2015).  

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ANGELO TURCO 

lane,  riviste,  organizzatore  infaticabile  di  piccoli  seminari tematici  e di grandi  convegni  internazionali. Ancor oggi,  la piattaforma di Geocritica, da lui creata, può essere considera‐ta come il portale geografico più vasto e articolato del mon‐do. Su Geocritica vengono pubblicati articoli  in  tutte  le  lin‐gue neolatine: ciò che testimonia  la volontà di non dare per scontata né  l’egemonia culturale della geografia anglosasso‐ne,  né,  tantomeno,  la  sua  definitiva  vittoria. Una  tematica, questa, alquanto sentita in Spagna (Garcia Ramon, 2012).     

5 W. Bunge: un precursore con un ampio seguito nel 

mondo anglosassone    Nel  1962  apparve, nella  collezione dei Lund  Studies  in Geo‐graphy, un libro dal titolo quanto mai illuminante: Theoreti‐cal Geography.  L’Autore  era  un  tale William  Bunge  (1962). Un  libro che a qualcuno poté apparire eccentrico. Per altri, un testo fondatore, tanto difficile quanto appassionante: “for‐se  il  testo  seminale  della  rivoluzione  quantitativa”  (Cox, 2001).  

Per  quel  che mi  riguarda,  se  posso  annotare  un  ricordo personale,  fui  impressionato  dalla  sua  illustrazione  di  cosa diventava  il  famoso  “k”  di  Chistaller  (un  parametro,  una grandezza  fissa)  nella  teoria  di  Lösch  (una  variabile,  una grandezza mobile). Un passaggio essenziale per comprende‐re il salto dalla geometria  che, con le sue relazioni di quanti‐tà, non spiega nulla del fatti sociali, alla topologia, che con le sue relazioni di qualità “spiega” – o perlomeno prova a spie‐gare – quella che nella “teoria della localizzazione”, puntando all’individuazione di “regioni”, diventò l’assunto fondamenta‐le – e certo più affascinante – di quella che allora si chiamò “nuova  geografia”  o  anche  “geografia  quantitativa”. Questo assunto recita più o meno così: “regione” è un’area (un peri‐metro,  un’estensione)  nella  quale  risultano minimizzate  le disomogeneità, le quali, viceversa, risultano massimizzate nei 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

confronti dell’esterno. Un punto di partenza per un  campo sterminato di  ricerche per  la  “nuova  geografia”18, ma  anche un punto di arrivo nella riflessione del nostro Autore. 

W. Bunge (1928‐2013), come capita a molti, incontra abba‐stanza  tardi e  solo casualmente  la geografia, diventando un brillante allievo di R. Hartshorne (1899‐1992), forse il geogra‐fo più conosciuto al mondo al tempo del loro incontro, negli anni  ’50. Ma questa “strana coppia”, come si esprime Barnes (2016), non dura molto:  alla  fine del decennio,  la  rottura  è consumata. Hartshorne è il massimo assertore della geografia come scienza idiografica, una “scienza descrittiva interessata alla descrizione e interpretazione di casi unici” (Hartshorne, 1939, p. 449). Bunge che nel frattempo ha meditato la serrata requisitoria di Schaefer (1953) contro l’uniqueness, dunque la scienza  idiografica, segue ormai  la sua strada e approda, co‐me abbiamo visto, ai risultati più avanzati cui la geografia sia pervenuta in quanto scienza nomotetica, impegnata nella ri‐cerca di leggi generali. Pur operando in una Università (allo‐ra)  alquanto  periferica,  (Università  di Washington,  Seattle) diventa un elemento di spicco del gruppo che si chiamò “Mi‐chigan  Interuniversity  Community  of Mathematical Geogra‐phers”, estendendo i suoi interessi alla cartografia, campo che  

18 Ho  avuto  la  fortuna di poter discutere  infinite  volte questo  assunto “sistemico” con J.‐B. Racine, a Losanna, Ginevra e altrove, soprattutto per le  implicazioni che esso generava. Voglio  ricordarne due,  tra  le più pre‐gnanti:  la prima, è  che  la  regione non è più  statica, né esprime  solo un processo di consolidamento, ma è dinamica, governata dal cambiamento; la seconda è che  la teoria regionale non si sviluppa più per via induttiva, ma deduttiva, mentre  il  focus  si  sposta dalla  “regione”  come  oggetto di studio, alla “regionalizzazione”, cioè il processo che descrive il dinamismo degli assetti regionali. È questo spostamento di focus che coglie A. Vallega (1982, per  tutti). Come  si  “misurano”  omogeneità  e disomogeneità,  cioè quale apparato quantitativo descriva adeguatamente queste due connota‐zioni sintetiche ma fondamentali degli assetti regionali, resta problematico e costituisce, per l’appunto, l’oggetto primario di ricerca in geografia regio‐nale:  è  ciò  a  cui  si  è  dedicato  Racine  per  anni,  portando  avanti  anche l’esplorazione  di  concetti  di  derivazione  biologica  come  l’allometria. Quest’ultima misura il rapporto tra la crescita del tutto e quella delle sue parti: una chiara declinazione dell’equilibrio spaziale. A mia conoscenza, il  primo  ad  introdurre  in  ambito  geografico  questo  concetto  è  stato  S. Nordbeck (1965), che ricostruisce anche gli antecedenti.  

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andavano  allora  sondando  in  profondità  studiosi  come W. Tobler e T. Hagerstrand19. 

La maturazione di Bunge, che provoca un distanziamento così radicale dal suo Maestro, è dettata da un genuino amore per la scienza e dalla convinzione che quest’ultima non si dà senza elaborazione teorica. Ci troviamo di fronte dunque, ti‐picamente,  ad  un  processo  di  legittimazione  scientifica  di una disciplina geografica percepita come molto decaduta. Ma è alla  legittimazione sociale che Bunge si volge, dopo  i suoi fondamentali  apporti  alla  “rivoluzione  quantitativa”,  diven‐tando un attivista di spicco per i diritti civili e contro la guer‐ra in Vietnam. A causa del suo burrascoso rapporto con le i‐stituzioni accademiche, Bunge è alla fine costretto a lasciare l’Università.  Egli  tuttavia  non  rigetta  la  passata  esperienza, ma sviluppa un punto di vista conciliativo tra i due ordini di legittimazione, esattamente come proveranno a fare in Fran‐cia R. Brunet e, in Italia, G. Dematteis. L’originalità della po‐sizione di Bunge nasce dalla consapevolezza che  le metodo‐logie quantitative sono in grado di scardinare i vecchi ordini, costruendone  di  nuovi  e  rendendoli  visibili  attraverso  una cartografia appropriata: scientifica e, al tempo stesso, imma‐ginativa. Per quanto tutto questo non vada da sé, non sia au‐tomatico, il potere strumentale delle metodologie matemati‐che resta  formidabile nelle mani di chi sa servirsene. E per‐ché dunque non servirsene nella lotta contro le diseguaglian‐ze, le discriminazioni, la violenza della guerra, della miseria, dell’infanzia tradita? Il suo “periodo astratto”, come dichiara in un  testo  lucido  e  appassionato, non  è dissociato dal  suo proprio  presente, ma  viene messo  al  servizio  di  quella  che Bunge chiama “la logica della vita” (Bunge, 1979). È a questo punto che  lo  studioso  intraprende, come gli esploratori che hanno  fatto  la  geografia  dei millenni  passati,  e  da  perfetto geografo dunque,  le “spedizioni” che mettono  insieme  le  in‐formazioni, i dati, le interpretazioni idonee a riconfigurare la 

 19.  Il  Discussion  Paper  n.  12  (1968)  della  Michigan  Interuniversity 

Community of Mathematical Geographers, dedicato a  “The Philosophy of cartography”  rappresenta  una  pietra miliare  nell’evoluzione  storica  del pensiero cartografico, anche per le implicazioni tecniche che comportava. 

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realtà,  integrando  nella  cognizione  geografica  ciò  che  i  di‐scorsi dominanti non dicono e, cartograficamente, gli sguardi egemonici non vedono. E di cui, conseguentemente, non solo la politica (politics), ma le politiche (policies) non si curano. 

È  in questo complesso quadro epistemologico ed  intima‐mente personale  che  trova  la  sua  genesi  Fitzgerald  (Bunge, 1971), uno dei grandi libri che mantengono la Geografia con‐temporanea  in un solco degno della sua plurimillenaria  tra‐dizione. Ed è da qui, da un attivismo anti‐militarista accorato e documentalmente severo che trae motivazione e significato quel  Nuclear  War  Atlas  (1988)  che  nullifica  attraverso  la mappatura  degli  sfregi  territoriali  provocati  in  ipotesi  dalla bomba ogni  ragione che possa dirsi “atomica”. 

La figura e l’opera di W. Bunge hanno avuto un’influenza senza  pari  sulla Geografia  contemporanea.  Particolarmente nel mondo anglosassone,  si profilano e  si consolidano posi‐zioni  articolate  e  fermentanti  di  una  Geografia  “radicale”, sempre più decisamente disposte a mescolare impegno intel‐lettuale ed attivismo politico contro l’ingiustizia e la disegua‐glianza spaziali. Queste posizioni sono animate da  figure di spicco come E. Soja, M. Watts e, soprattutto, R. Peet20; si e‐sprimono attraverso pubblicazioni sterminate, riviste scienti‐fiche, prese di posizioni “civili”, interventi sui media, sia vec‐chi che, sempre più, nuovi, iniziative editoriali21. Resta da os‐servare che, di là dal pensiero spaziale critico, tutte le elabo‐razioni teoriche degli ultimi 70 anni, si può dire, si sono mi‐surate con  lui. Ciò vale,  infine, anche per  la cartografia, che Bunge ha influenzato ed influenza sul piano della duplice le‐gittimazione,  sia  scientifica  (risalente  al  “periodo  astratto”) che sociale22.   

 20. Studioso di  ispirazione marxista,  tanto prolifico quando profondo, 

Autore di libri famosi (Peet, 1977, 1998, 2007), a volte apertamente icastici (Peet, 2009), Peet è stato  il  fondatore ed animatore  instancabile di Anti‐pode, una rivista di punta del pensiero spaziale radicale. Tra i più completi e metodologicamente interessanti studi critici su R. Peet, segnalo Benach (2012). 21. Desidero ricordare, negli Stati Uniti, almeno la collana “Geographies 

of Justice and Social Transformation”, della University of Georgia Press. 22. All’ispirazione di Bunge si richiamano sia gli ambiti della cartografia 

 

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ANGELO TURCO 

6 Fabbriche del pensiero geografico inclusivo:  

due esempi     

La geografia dell’inclusione, chiamata ora critica, ora radica‐le, si può declinare attraverso esperienze molteplici, per sin‐goli paesi, come abbiamo visto  (Francia, Spagna,  Italia), ov‐vero per grandi aree culturali come esemplifica il caso di W. Bunge per il mondo anglosassone. Ma la geografia della legit‐timazione sociale, come preferisco chiamarla, sviluppa anche una vocazione internazionalistica marcata, attraverso network relazionalmente  laschi, ma  dai  potenti  e  convergenti  effetti comunicativi.  Delle  “fabbriche  del  pensiero”,  in  buona  so‐stanza,  imperniate  su  alcuni  temi portanti,  e  alimentate da personalità di disparata origine e formazione talora anche as‐sai differente, non sempre collegati tra loro da relazioni isti‐tuzionali  o  comunque  sistematiche,  che  tuttavia  coniugano attività di studio, militanza civile e comunicazione pubblica. Vorrei presentare brevemente due esempi di queste “fabbri‐che del pensiero”,  incernierate  sui  temi della  “giustizia  spa‐ziale” e del “lavoro come contropotere”. 

6.1. L’INGIUSTIZIA SPAZIALE E LE SUE RADICI/IMPLICAZIONI  STORICHE, SOCIALI E FILOSOFICHE 

Il tema della giustizia spaziale e della necessità di restaurarla ove violata, mobilita lungo sentieri disparati alcune delle in‐telligenze  più  acute  e  percussive  della  scena  disciplinare mondiale. Anzi,  a  giudicare  dai  big  data,  dai  social media, dalla app economy,  la Geografia di questi  studiosi è  la Geo‐grafia tout court 23. 

 istituzionale  (come  ad  esempio  l’americana  Library  of  Congress  che  ha un’importante sezione cartografica con connesse attività)   sia quei veri e propri  “movimenti” che  sono  le cartografie  radicali  impegnate nel coun‐termapping.  Per  un  esempio  dell’intensa  attività  di  questi  gruppi,  cfr. http://www.an‐atlas.com/. 23. Le conferenze di David Harvey registrate su You Tube sono viste da 

centinaia e centinaia di migliaia di persone. La prima  lezione del video‐ 

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È certamente D. Harvey  la  figura che  inaugura questo  fi‐lone di preoccupazioni con un suo  libro divenuto presto ce‐lebre24. Anche qui, ci troviamo di  fronte a uno studioso che muove dall’esigenza di  rileggittimare  la disciplina  sul piano scientifico, approdando a un’opera che per molti divenne una referenza inaggirabile. Già nel titolo, del resto, Explanation in Geography, dichiara  la sua posizione epistemica, distanzian‐dosi da Hartshorne non solo e non tanto sul piano dei “temi” (la  geografia  regionale  non  viene  messa  in  discussione), quanto ben più sostantivamente su quello degli “scopi” della disciplina,  che  ,  secondo Hartshorne, pur descrivendo e  in‐terpretando, non avrebbe nulla da  “spiegare”, appunto. Ma, di nuovo,  il picco tecnico e razionalistico della riflessione di Harvey (1969), marca anche lo slittamento verso la legittima‐zione sociale, come mostra  la ricostruzione visiva che ne dà Sarmento (2016). Harvey diventa così un  leader  intellettuale riconosciuto non solo nell’ambito della geografia critica, ma dell’arco ampio delle scienze sociali, al punto da essere noto più come filosofo, urbanista e sociologo che come geografo25. 

 corso su “Reading Marx Capital”, è stata cliccata, nel momento in cui scri‐vo, da 458.000 persone (https://www.youtube.com/watch?v=gBazR59SZXk). Milton Santos è sta‐ta  una  vera  star  della  televisione,  con  seguitissime  interviste  in  tutto  il mondo. Il documentario sulla globalizzazione ispirato alla sua opera e co‐struito  sulle  sue  dichiarazioni  pubbliche  è  stato  cliccato  790.000  volte (https://www.youtube.com/watch?v=‐UUB5DW_mnM). Le  raffinatissime lezioni  svolte  in questi ultimi anni da Augustin Berque all’Université de Corse Pasquale Paoli, sono seguite on line da migliaia di persone (si veda ad esempio, sull’esprit du lieu:  https://www.youtube.com/watch?v=8XJYhtFAXOg).  24. Si tratta di Harvey (1973), tradotto in molte lingue (tra cui l’italiano; 

l’ultima traduzione a mia conoscenza è in lingua turca, nel 2013) e citatis‐simo in ambito pluridisciplinare. 25. Del  resto,  se pensiamo all’Italia,  i  suoi  libri  sono  tradotti a cura di 

studiosi di varia provenienza disciplinare, ma non geografi. E del resto, nel nostro paese mai nessun geografo si è veramente misurato non dico con l’opera, ma con momenti significativi della riflessione di Harvey, se si ec‐cettuano  riferimenti puntuali  in  taluni  studiosi, come Dematteis e qual‐cuno dei suoi allievi tra i quali ricordo almeno F. Governa. Abbiamo pro‐vato a fare un’operazione più mirata, in Italia, in occasione della pubblica‐zione del  suo ultimo  libro  (Harvey, 2014), con una manifestazione orga‐ 

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Lo  studioso  anglo‐americano  accentua  progressivamente  le sue  posizioni  in  senso  marxista,  ma  resta  fedele  a un’impostazione di fondo che vede la giustizia sociale (la lot‐ta alle disuguaglianze,  l’accesso ai beni e servizi,  la pratica dei diritti oltre il loro riconoscimento formale) realizzarsi attraver‐so  lo spazio geografico e, per converso,  l’ingiustizia sociale a‐limentarsi nello  spazio  geografico. È   dunque nel  territorio che si radicano  le strategie del capitalismo,  lo spatial  fix di‐venta  un  elemento  fondamentale  dei  processi  accumulativi ed è eminentemente per via geografica che l’“enigma del ca‐pitale”  si  fa  storia  sulla carne viva delle  società  sistematica‐mente commodificate (Harvey, 2010). 

Da tutt’altre prospettive converge sulla giustizia territoria‐le M.  Santos  (1926‐2001),  geografo  brasiliano  che  rivendica sempre orgogliosamente  la propria appartenenza disciplina‐re.  Figlio  della  piccola  borghesia  afrodiscendente  bahiana, Milton sperimenta le contraddizioni di una delle società più inegualitarie del mondo  in uno dei Paesi più  squilibrati del pianeta  dal  punto  di  vista  territoriale. Giornalista,  politico, professore universitario, è costretto all’esilio dal regime mili‐tare, preoccupato dai suoi orientamenti sempre più marxisti. Durante il suo lungo soggiorno in Francia, conosce J. Tricart, P. George, B. Kayser,  consolidando  il  suo orientamento per una geografia critica, capace di interrogarsi, in via prelimina‐re,  sulla natura della  territorialità. La  sua posizione concet‐tuale è originale e forte, un pensiero che riflette tre caratteri‐stiche  icasticamente  indicate  da  J.  Lévy  (2007):  osservatore militante,  teorico  nomade,  intellettuale  impegnato. Milton, così, concettualizza lo spazio come “un insieme indissociabi‐le,  solidale e allo  stesso  tempo contraddittorio di  sistemi di oggetti e di sistemi d’azione, nei quali si edifica la storia”. Se dunque non si dà storia (non si comprendono i fatti umani) senza geografia, questa  è  strettamente  collegata  alle  “tecni‐che”, vale a dire  “un  insieme di mezzi  strumentali e  sociali, per mezzo dei quali l’uomo realizza la sua vita, producendo e creando  lo  spazio  geografico”  (Santos,  2006). Ogni  spazio,  nizzata presso  la Società Geografica Italiana nel 2015 (Albanese, 2016), di cui il Bollettino ha pubblicato tempestivamente gli Atti (Turco, 2015b). 

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continua  l’A.,  si  presenta  come  una  “forma‐contenuto”  e l’una non esiste senza  l’altro,  laddove si  fondono processo e risultato,  funzione e  forma, passato e  futuro, oggetto e sog‐getto, naturale e sociale. 

Su queste basi,  si  edifica una  “teoria  sociale  critica”,  che prende in carico un mondo di luoghi, il luogo essendo ogget‐to di una “ragione globale” e di una “ragione locale”, in con‐vivenza dialettica. Ma è precisamente questa convivenza che rischia di disintegrarsi con  la  trasformazione della globaliz‐zazione  in  globalitarismo.  Relativamente  a  quest’ultimo grande tema,  la visione di Santos può essere sintetizzata di‐cendo che  la globalizzazione è un  fatto  in  sé positivo, di a‐pertura al mondo, ma se acquista – come con la regia neoli‐berista acquista – il profilo di un progetto globaritario, cam‐bia natura poiché si regge sulla dominazione, sull’esclusione o,  quando  va  bene,  sull’accesso  condizionale  ai  benefici,  di qualsiasi tipo essi siano (Santos, 2001)26.    

Affascinante e quanto mai complessa, l’opera di A. Berque sembra avere poco a che fare con i temi della giustizia terri‐toriale.  Si  tratta  però,  in  buona misura,  di  illusione  ottica, dovuta  alle modalità  di  problematizzazione  di  Berque  e  al suo specifico linguaggio (Berque, 1990, 2014). Questo studio‐so, intanto, conosce Marx, ma le sue fonti di ispirazione sono altre: da una parte,  filosofi, cartografi, poeti, moralisti, geo‐grafi‐viaggiatori  d’estremo  oriente  (Cina, Giappone, Corea); dall’altra parte, Heidegger; dall’altra parte ancora, la filosofia greca antica; infine, la cultura araba.  

Nel suo vasto orizzonte intellettuale, Berque non si pone il problema  delle  legittimazioni,  assumendo  una  concezione dichiaratamente filosofica della geografia, una disciplina che si interessa ontologicamente alla costruzione del mondo uma‐no,  al  luogo  dell’abitare  e  alle  condizioni  dell’abitante. Prim’ancora di altre questioni concernenti la costruzione “og‐gettuale”  e  “metodologica”  del  sapere  geografico,  viene  il  ri‐spetto di questa missione ‐ripeto ontologica‐ della disciplina. 

Abitare‐la‐terra è cosa profondamente diversa dallo stare‐ 

26 Per un’intelligente applicazione di queste concettualizzazioni, rinvio in Italia a Pollice e Urso (2014). 

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al‐mondo;  implica non  solo un’azione  (a conferma che  fon‐damentalmente  la  geografia  incorpora  sempre,  in  qualche modo, una teoria dell’azione), ma, ancor più, una responsabi‐lità nei confronti dell’ecumene (Berque,  1987). Questo A. ha sviluppato  riflessioni  fondamentali  sulla  complessità  dello spazio geografico, in particolare sul tema delle configurazioni della territorialità, come il luogo, il paesaggio, l’ambiente. Ma è  forse nella  critica  della modernità  che  si  condensa  il  suo contributo alla ricerca delle condizioni di  ingiustizia territo‐riale.  La  tragedia  della  modernità,  precisamente,  consiste nella perdita del senso cosmico dell’esistenza umana, in una “acosmia” che nel mentre scinde l’uomo dalla biosfera di cui è  indissolubilmente  parte,  frammenta  l’agire  territoriale  in una serie di azioni disconnesse e prive di coerenza, che crea‐no contesti geografici dove vale per un verso la legge del più forte e, per altro verso, l’incapacità di vedere di là dagli effetti immediati. 

6.2. LA POLITICA COME CONTROPOTERE E IL LAVORO COME DIGNITÀ  

Lavoro  e potere: un binomio  inscindibile nel pensiero  geo‐grafico critico. Ma come si articola questa relazione, quali ne sono  i fondamenti  logici,  le declinazioni storiche,  le scale di dispiegamento?  Richiamiamo  la  riflessione  di  due  grandi studiosi su questi temi: Doreen Massey (1944‐2016) e Claude Raffestin. 

“Geografa radicale, femminista, teorica e attivista politica, ammirata in tutto il mondo per i suoi lavori su spazio, luogo e potere”: così apriva il Guardian (22/3/2016) il suo ricordo di Doereen Massey, bello e  toccante anche  se  tutt’altro che di circostanza. Studiosa di Marx, Doreen  innesta sulle sue pro‐prie  sensibilità  culturali  e  politiche  le  letture marxiane  di Gramsci e di Althusser, ma di fatto il suo approccio è profon‐damente geografico. Il lavoro nelle sue determinanti geogra‐fiche è il campo nel quale si distingue Massey negli anni ’70‐80 e culmina nella sua teoria della “divisione spaziale del la‐voro” (1984). La quale, infatti, diventa lo strumento apparen‐temente  rozzo, ma estremamente performante, attraverso  il quale  il  capitalismo mantiene  la  sua  stabilità  creando e ali‐mentando  continuamente    squilibri:  con  ciò  elaborando  su 

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GEOGRAFIA: VERSO LA COSTRUZIONE DI TERRITORIALITÀ INCLUSIVE 

altro piano una teoria dello sviluppo capitalistico sulla scia di Rosa Luxembourg.  

In una seconda fase, Doreen coglie il senso profondamen‐te problematico dell’asserzione di Marx in ordine al “tempo” che, nello sviluppo capitalistico, prende  il sopravvento sullo spazio. È ciò che  la porta ad elaborare  il concetto  si  “senso globale del luogo”, come recita il titolo di un suo celebre arti‐colo (Massey, 1991), dove il problema non è solo quello della coesistenza dialettica di  locale e globale, come postulato da Santos, ma è quello non meno  intrigante della  “estroversio‐ne”  del  luogo,  una  estroversione  bidirezionale,  beninteso, dove  il  luogo per un verso si definisce attraverso  la compat‐tazione di  frammenti eterogenei di mondo27; per altro verso “esplode” nel mondo con la sua topìa, come nell’esempio del‐la City di Londra, un luogo, appunto, che è capace di impri‐mere al mondo i propri ritmi, regole, interessi, logiche.  

Ho  iniziato  col  ricordo  del Guardian  perché  alla  notizia della morte di Doreen, che non ho mai conosciuto personal‐mente ma ho  sempre ammirato per  la  sua  tenacia e  la pro‐fondità delle sue intuizioni, volevo scrivere a mia volta un ri‐cordo, per qualcuna delle nostre riviste che magari me  lo a‐vesse  chiesto. Avevo appuntato  il  titolo:  It’s politics,  stupid! La politica come pratica governamentale, ma anche come im‐pegno personale. Dove serve: tra i minatori messi all’angolo da M.  Tatcher,  nell’amministrazione  londinese,  in  Nicaragua, nel Venezuela di Hugo Chavez, con i movimenti Occupy. 

Nell’itinerario  di D. Massey,  spicca  l’analisi  della  produ‐zione e riproduzione delle disuguaglianze sul ed attraverso il territorio. La divisione spaziale del lavoro e la costruzione di un  “senso  del  luogo  estroverso”  rappresentano  forse  i  due campi  d’impegno  più  rappresentativi.  Ma  vorrei  ricordare almeno due ulteriori significativi scandagli di questa studio‐sa. Il primo concerne le discriminazioni di genere, più o me‐

 27. Nel linguaggio semplice e diretto di Doreen, il luogo sei tu (l’essenza 

del luogo è la tua posizione), vestito così e così, portandoti letteralmente addosso “frammenti di mondo” con abiti che provengono da un arco am‐pio  che  va  dall’Asia  orientale  all’America  Latina,  passando  per  l’Africa (Massey, 1994, Cap. 6). 

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no esplicite ed evidenti, ma sempre potenzialmente esplosive (Massey, 1994). Il secondo riguarda il linguaggio, l’attenzione per  i modi d’espressione che  rendono possibile  instaurare e perpetuare  la dominazione,  attraverso  la parola manipolata (Massey, 2015).  

“Geografo  italiano di  lingua  francese” come egli  stesso  si definisce, C. Raffestin è certamente lo studioso più noto, nel nostro Paese, tra gli stranieri citati in questo saggio. E la sua notorietà è dovuta  soprattutto al  suo  “Per una geografia del potere”, tempestivamente tradotto e pubblicato da G. Corna Pellegrini nella sua collana Unicopli (Raffestin, 1981)28. È per‐ciò che Claude è considerato eminentemente un geografo po‐litico, autore oltretutto di un saggio sulla geopolitica tra i più originali  e noti  in  tema  (Raffestin, Lopreno, Pasteur,  1995). Ma si capirebbe assai poco del pensiero di questo autore   se non  si  partisse  da  un  assunto,  ampiamente  dimostrato  in Raffestin e Bresso  (1979),  secondo  il quale  “fondamento del potere è il lavoro”. Questo assunto è riproposto con nettezza sin dalle prime pagine della geografia del potere di Raffestin, anche se spesso viene semplicemente registrato e non messo, come  invece dovrebbe, nel circolo del ragionamento dall’A., per dare sostanza geografica ad almeno due punti qualifican‐ti della teoria del potere di Foucault, a cui Raffestin si ispira. La prima, afferma che il potere non si possiede ma si esercita: e  il  lavoro, appunto, non è “una cosa”, ma un “atto” che ac‐quista il suo senso proprio in una “relazione”, che fondamen‐talmente può essere simmetrica o dissimmetrica. La seconda, afferma che ogni potere genera un contropotere, che non so‐lo è resistenza, ma ben più profondamente è strategia per sa‐nare o almeno attenuare le dissimmetrie relazionali al fine di portarle nell’alveo della simmetria. 

La concettualizzazione di Raffestin contiene nuclei di svi‐luppo di vasta portata. Claude ha  riflettuto  sulle matemati‐che geografiche,  incidendo sul punto di vista degli approcci 

 28. La Collana diretta da Corna Pellegrini,  al pari di quella diretta da 

Gambi, svolse in quegli anni un ruolo di confronto aperto e di dialogo co‐struttivo, tra i geografi impegnati nel rinnovamento disciplinare sul terre‐no sia della legittimazione scientifica che sociale. 

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quantitativi (Tricot, Raffestin, Bachmann,  1974); ha espresso il  più  lucido  richiamo  alla  nostra  disciplina  sulla  centralità della  problematica  nel  processo  di  elaborazione  scientifica (Raffestin, 1976). Ma è la sua concezione del lavoro che forni‐sce non  solo  il quadro ontologico all’abitare umano che di‐venta processo di territorializzazione, ma il significato costi‐tutivamente etico della territorialità, una costruzione irrevo‐cabilmente  umana:  il  prodotto  e  la  condizione  del  lavoro umano di cui nessun potere può pensare di appropriarsi sen‐za affrontare le conseguenze di un’operazione illegittima, an‐corché, spesso, formalmente legale (Turco, 2016b).    

7 Tra didattica e ricerca 

 Il tema delle geografie diseguali, nel nostro Paese, è stato certo presente  fino  ad ora nell’insegnamento  secondario, ma  forse meno di quanto desiderabile. Del  resto, anche all’Università, l’insieme di questi temi è poco trattato: e ciò, nonostante che nel discorso pubblico  la geografia entri attraverso  i suoi  rap‐presentanti  “critici”, come  in precedenza osservato, piuttosto che per altri argomenti e circostanze. 

Il  tema del Convegno annuale dell’AIIG, dunque, è qual‐cosa di più e di diverso da un argomento ben scelto. Esso rap‐presenta una vera e propria svolta, destinata ad avviare, ci si augura, un più deciso orientamento della sensibilità collettiva verso le tematiche che occupano la scena informativa. Ponen‐do con forza l’idea che la territorialità è un elemento cruciale del nostro pianeta e che  il  territorio è  il  frutto più prezioso del  lavoro umano:  l’uomo non potrebbe essere quello che è, e, di  conseguenza,  fare quello  che  fa,  senza  il  suo  impegno nel creare sue proprie geografie, interpretando creativamente i dati di natura ed agendo intelligentemente su di essi. 

L’approccio  critico  a  questi  temi,  intanto,  recupera  alla tradizione disciplinare una filiera di pensiero troppo a lungo trascurata  che pone,  accanto  ai grandi geografi  riconosciuti della memoria accademica (FIG. 1), dei personaggi di notevo‐lissimo spessore  intellettuale e politico. Ma soprattutto, sol‐

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levano  questioni  cruciali  come  la  giustizia  spaziale,  la  crisi ambientale,  la dignità  territoriale,  il  lavoro,  il potere,  le di‐namiche  del  capitalismo,  dalle  cui  proiezioni  territoriali,  ci piaccia o non ci piaccia, dipende il benessere di tutti noi e il destino stesso di miliardi di esseri umani. 

Non è certo il caso di insistere sulle benefiche ricadute di‐dattiche di questo  impegno  formativo della  “geografia nelle scuole”. Vorrei notarne rapidamente tre, tra le molte. 

La prima riguarda una rinnovata possibilità di dialogo con i ragazzi. I banchi di scuola, con la geografia critica, non sono altro dalla discussione  familiare, dall’esperienza quotidiana, dalla preoccupazione costante di “comprendere” per non far‐si  espropriare del proprio  futuro. La  seconda ha  a  che  fare con  ciò  che  possono  raccontare  ai  nostri  ragazzi  le  nuove tecnologie visuali: “il passato non è un tempo, è una posizio‐ne”. E nulla più delle geografie disuguali sono capaci di rac‐contarcelo. Magari in Sudafrica, magari con un drone29. 

Infine,  si  tratta  di  restaurare  il  nesso  tra  formazione  ed impegno civile, per la nostra disciplina, che serve si a fare la guerra, ma è fondamentalmente al servizio della pace. Stabi‐lendo  condizioni  durevoli  di  convivenza.  È  qui  che  appare con  tutta  la  sua  forza  il  tema  profondo  della  cittadinanza come accesso alla  territorialità. E quindi del  territorio come welfare  secondo  la  riflessione di L. Mazza  (2015). E  ancora, delle  configurazioni  geografiche  come  “beni  comuni”:  pae‐saggio, luogo, ambiente: disposizioni non appropriative aper‐te  alla  fruizione di  tutti: preziose,  libere, universali  (Turco, 2014). 

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 29 Rinvio alla forte esperienza di ricerca e documentazione in: 

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