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Giallo Milano

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Giancarlo Bosini, giallo. In una Milano tra realtà e fantasia, l’architetto Luigi Bellotti, docente della Facoltà di Architettura, indaga sulla scomparsa della collega Irene, ripescata cadavere nelle acque del Naviglio Grande. In uno scenario che va dalle prime rivendicazioni studentesche alla strategia della tensione, Bellotti scoprirà che i motivi della morte di Irene hanno radici molto lontane nel tempo. Ma non è tutto, le sue indagini lo porteranno a scoprire molto di più. Ma qualcuno trama nell’ombra per nascondere o distruggere verità scomode. Il romanzo, pur attingendo da alcuni fatti storici, è un’opera di totale fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.

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In uscita il 29/4/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2016

(3,99 euro)

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GIANCARLO BOSINI

GIALLO MILANO

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GIALLO MILANO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-983-8 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Aprile 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Ringrazio Ettore Sala per la consulenza dialettale e per

l’interesse dimostrato durante la stesura del romanzo.

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CAPITOLO 1

L’INCIPIT Apro gli occhi. Ho un gran mal di testa e la bocca impastata. Sono pentito per aver accettato l’invito di De Cristoforis. «Stasera dobbiamo festeggiare il mio cinquantesimo compleanno», mi diceva solo ieri. «Ceniamo assieme, poi ci facciamo il giro delle birrerie dell’alzaia e vediamo di rimorchiare.» Abbiamo rimorchiato. Sì! Matteo una moretta che potrebbe essere sua figlia e io questa cefalea che non se ne vuole andare. «Bevine ancora uno», insisteva riempiendomi il bicchiere. «… E vedi di lasciarti andare qualche volta, sei sempre così bacchettone! Fatti un cazzo di sorriso ogni tanto!» Matteo ha sempre bevuto un po’ troppo, ma da qualche tempo, dopo che si è bruciato sulla piazza per delle discutibili attribuzioni fatte al Caravaggio, sembra voler fare il pieno ogni giorno. Poi verso la mezzanotte è andato a imboscarsi chissà dove con la sua giovane conquista. «Ci vediamo domani!» mi ha detto e io, oramai sfatto, me ne sono tornato a casa seguendo con lo sguardo perso la corrente del navi-glio, quasi fosse la scia di sassolini di Hansel e Gretel. Credo di aver vomitato sotto qualche lampione, nascosto alla vista dei pochi passanti da una leggera coltre di nebbiolina. Arrivato a casa, la luce delle scale non funzionava. Il solito guasto. Detesto il buio. Mi angoscia. E poi avevo la sensazione che dietro di me ci fosse qualcuno. Ho fatto tre piani quasi di corsa, col cuore che mi batteva come un tamburo. Ma non mi sono voltato. Mi sono

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chiuso in casa e ho sprangato la porta. Ho guardato dallo spioncino. Fuori nessuno. Solo il buio. Poi mi sono buttato sul letto sprofon-dando in un sonno agitato. Poco fa, lo scampanellare della sveglia sul comodino come ogni giorno mi ha svegliato. Non ho più il fisico per certe cose, penso. Mi preparo un caffè. Devo cercare di rimettermi in sesto. Più tardi mi devo vedere in facoltà con il preside Ranzoni e non voglio arriva-re a pezzi. Fortunatamente ho ancora un paio d’ore davanti. Sono già sulla porta quando squilla il telefono. «Luigi!» mi dice come una fucilata la voce non più giovane di mia madre. «Lascia la chiave sotto lo zerbino che passo a prenderti la roba da lavare, così ti porto le cose che ti ho stirato e ti sistemo un po’ la casa.» «Va bene, ma sai che non è necessario. Faccio io.» «Fai tu! Fai tu! E poi lasci tutto in disordine. Non puoi continuare a vivere così, oramai hai quasi quarant’anni. Ma quand’è che ti trovi una fidanzata? Sai che prima di morire vorrei vederti sposato e ma-gari vedere anche dei nipotini.» «Per ora sto bene così. Mi basta il mio lavoro.» «Ti basta il tuo lavoro! Ti basta il tuo lavoro! Non sai dire altro. E passa a trovare tuo padre qualche volta. Continua a non stare bene, gli farebbe piacere una tua visita. Luigi, ma ci sei ancora? Scommet-to che hai passato la notte in bianco. La tua schiena, vero? Fatti ve-dere da uno specialista. Non puoi continuare così.» Quando esco decido di prendere il battellino che dal Vicolo dei La-vandai, proprio sotto casa mia, arriva alla darsena di Porta Ticinese per poi imboccare la cerchia interna fino ad arrivare quasi a destina-zione. Potrei andare alla Stazione di Porta Genova e prendere il tram. Il tragitto sarebbe più veloce, ma con il battellino il percorso sarà molto più piacevole e avrò il tempo per riposare ancora un po’ cullato dall’impercettibile rollio. Attraverso una leggera nebbiolina vedo un capannello di persone accalcate contro la balaustra in pietra del naviglio. Guardano tutti in giù.

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Guardo in giù anch’io. Proprio a pochi metri da casa mia i sommoz-zatori dei pompieri hanno appena ripescato dal Naviglio Grande il corpo di una giovane donna. Sembra sia annegata la sera prima. Ha una sciarpa rossa al collo e i suoi occhi sbarrati, di un bel verde sme-raldo, pare quasi vogliano invocare aiuto. La scena mi provoca un certo turbamento. Se solo fossi rincasato qualche minuto prima o qualche minuto dopo, forse avrei potuto fare qualcosa per lei. Da studente me la cavavo benino in acqua e un’estate mi ero messo a fare il bagnino per raggranellare qualche spicciolo. Un giorno avevo persino salvato un ragazzo che stava an-negando. Ma ieri non rientravo nei disegni del destino di quella ra-gazza trascinata fin qui da chissà dove. Quando salgo sul battellino, sull’alzaia vedo che un sacerdote le sta dando l’ultima benedizione. Riconosco don Iginio, il parroco della vicina chiesa di San Gottardo. Per motivi di studio, per qualche tempo ho frequentato quella chiesa e ho avuto modo di fare una certa amicizia con quel sacerdote che cercava di convincermi ad avvicinarmi alla fede, sostenendo che ri-conosceva in me i principi del buon cristiano. Ma io, adottato in te-nera età da una famiglia agnostica, in realtà non so nemmeno quali siano i valori del buon cristiano. In famiglia invece mi dicono che sono un comunista, ma io, a dir la verità, non so neppure cosa sia il comunismo, anche se don Iginio mi diceva che Gesù Cristo è stato probabilmente il primo comunista della storia. Sul battellino mi sembra di essere su di una tradotta militare. È pie-no di studenti, tutti vestiti allo stesso modo, con addosso una specie di Montgomery di tela verde militare. Mi sembra che lo chiamino Eskimo o qualcosa del genere. Un mio allievo, Marco, mi ha spiega-to che fra i giovani è di moda perché il prezzo è accessibile a tutte le tasche e quando fa freddo scalda molto, mentre quando la temperatu-ra è più mite si può togliere la fodera di pelo sintetico. La maggior parte di quei ragazzi a tracolla ha un tascapane militare zeppo di li-bri, la nuova moda che con quattro soldi tutti si possono permettere andando a fare acquisti alla Fiera di Senigallia, un mercatino delle pulci che negli anni Venti era agli occhi dei milanesi così ricco e vivace che venne assimilato all’omonima fiera annuale della città di

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Senigallia. Un luogo dove è possibile trovare bancarelle di artigiana-to, libri, musica, abbigliamento e roba vecchia. Solo in pochi hanno ancora i libri tenuti assieme da una cinghia ela-stica. Quando il battellino raggiunge via Senato, il canale si fa più stretto e anche le sue ripe. Tutte le volte che passo di qui non posso fare a meno di pensare che proprio in questo punto, in una mansarda, abi-tava Veronica, che è stata per me molto importante e di cui non so più nulla da molti anni. Avevamo avuto una storia breve, ma molto intensa. Poi senza neppure rendercene conto ci siamo persi. Ho pen-sato molto a lei in questi anni, ma oramai sono rassegnato al fatto che non riuscirò più a vederla, vuoi perché è passato troppo tempo da allora, vuoi per la mia paura di cercarla. Alzo lo sguardo. Dalla finestra della mansarda sporgono dei panni stesi. Arrivo alla facoltà. Scopro che gli studenti sono tutti fuori dai can-celli. Sono in sciopero. È in corso una specie di comizio. Un ragazzo col megafono, arrampicato sulla cancellata, sta spiegando le loro rivendicazioni con un irritante linguaggio infarcito di slogan e di “cioè”. «Compagni, vogliamo il voto politico! Ci dobbiamo rifiutare di se-guire i programmi. Non c’è la minima relazione tra le materie appre-se singolarmente a livello teorico e la pratica di quella che sarà la nostra professione. Cioè, quello che si studia non serve a nulla se non viene inserito in un lavoro complessivo che comprenda l’applicazione di più discipline. Cioè quello che ci impongono è un retaggio della vecchia scuola borghese. Adesso i tempi sono cambia-ti. Compagni, dobbiamo combattere contro chi non lo vuole ricono-scere perché teme di perdere la propria posizione di privilegio. Nelle fabbriche gli operai si stanno già muovendo per difendere i loro di-ritti. Noi studenti vogliamo più libertà politica nelle scuole e nelle università. Vogliamo il diritto all’assemblea. Vogliamo sostituire le materie con delle ricerche che abbraccino simultaneamente più di-scipline. Cioè, il lavoro deve essere di gruppo allo stesso modo di quello che si fa fuori dall’università, nel mondo reale. Vogliamo e-

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stendere l’orario dei corsi fino a sera tardi, in modo da permettere anche ai lavoratori di poter studiare. Cioè, vogliamo che i docenti la smettano di seguire schemi preconfezionati dal ministero e si con-vincano che l’istruzione deve essere attualizzata in funzione dei cambiamenti sociali di questo preciso momento storico. Dobbiamo seguire le orme dei nostri compagni francesi che già dalla primavera hanno deciso di dire basta a questo sistema corrotto.» Superato lo sbarramento vado dal preside Ranzoni che mi ha chia-mato l’altro giorno perché aveva bisogno di parlarmi. «Un brutto momento, eh Bellotti», mi dice quando mi riceve, «ma d’altronde, con quello che è già successo oltralpe, me lo aspettavo che capitasse anche da noi. Avrà visto anche lei. Avrà letto anche lei i giornali. Avrà già visto cosa succede nelle università di Roma. Non mi facevo illusioni, sapevo che sarebbe successo anche qui. La con-testazione è un virus contagioso. Pensi che in alcune facoltà molti docenti hanno preso le parti di quegli scalmanati. Bellotti, non avrà intenzione di farlo anche lei?» Lo rassicuro. Gli spiego che per me la scuola e l’università vanno benissimo così. Che le nostre facoltà, con tutti i pregi e i difetti, han-no sfornato e continuano a sfornare decine di professionisti di gran-de prestigio mondiale. No, sono assolutamente convinto che, anche se non è perfetto, il nostro sistema universitario sia un ottimo siste-ma. Non potrei mai pensarla come quei ragazzi là fuori, gli dico. «Bene Bellotti. È questo che volevo sentirmi dire da lei. Ma venia-mo a noi. L’ho chiamata per parlarle di un lavoro per l’Arcivescovado. Vogliono restaurare la chiesa di Santa Maria Rossa di Crescenzago e in particolare ricostruire il rosone centrale, sostitui-to con una trifora negli anni Venti. Lei dovrebbe seguire tutti i lavo-ri.» Sono contrario a questi tipi d’intervento, ma oramai il danno è stato fatto, penso riferendomi ai restauri degli anni Venti, e peggio di così non si può più fare. Ricostruire il rosone non restituirà alla chiesa la sua autenticità, servirà solo a trasformarla nel simulacro di se stessa, ma in questo momento non posso permettermi di rifiutare un lavoro, per cui decido di accettare l’incarico.

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«Bene!» mi dice Ranzoni. «Ero certo che non avrebbe rifiutato. A-desso dovrà incontrarsi con monsignor Almirato per la firma del contratto di lavoro. Le ho già fissato un appuntamento.»

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L’INCARICO In coda con altri passeggeri salgo sul battellino che mi porterà al la-ghetto di Santo Stefano, poi farò le ultime centinaia di metri a piedi fino al luogo dell’appuntamento. Subito mi lascio alle spalle il vicolo in cui abito, dedicato ai lavan-dai, anche se a lavare nel piccolo canale che lo percorre ci andavano le donne. Un angolo sospeso tra presente e passato, in cui, sotto a una curvilinea tettoia in coppi, le lavandaie utilizzavano cenere e soda per lavare i panni sui lastroni di pietra che si immergono nell’acqua. Un’attività che fino a pochi decenni fa le donne del rione svolgevano per le famiglie più benestanti quando ancora nelle case non esistevano le lavatrici. Sono sempre affascinato da questi percorsi d’acqua, grandi e piccoli, realizzati in tempi in cui la vita a Milano era parecchio diversa da quella di oggi. Arrivando alla darsena di Porta Ticinese, formata dove prima esiste-va il laghetto di Sant’Eustorgio, non posso fare a meno di stupirmi di come questo piccolo porto possa essere fin dal secolo scorso il maggior porto fluviale del Paese e uno dei più importanti porti na-zionali per le merci. Già da allora erano migliaia i natanti che ogni anno vi entravano e uscivano, risalendo il Lago Maggiore per rag-giungere la vicina Svizzera o scendendo fino al bacino del Po per far giungere le merci fino a Venezia e da lì addirittura oltremare. Giunto a Santo Stefano mi incammino verso la vicina sede dell’Arcivescovado. L’ingresso del palazzo si affaccia su una piazza in cui troneggia la fontana del Piermarini, la più antica di Milano. L’edificio mostra una facciata non uniforme. Il piano terra, con una serie di finestre rettangolari, è intonacato e dipinto col tipico giallo di Milano, mentre il piano superiore è in mattoni a vista con finestre ad arco di epoca viscontea. I vescovi non abitarono questo palazzo per lungo tempo, ritornarono solo quando l’arcivescovo Guidantonio Arcimboldi lo fece ricostrui-

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re verso la fine del Quattrocento, molto tempo dopo le devastazioni del Barbarossa. Attraversato un imponente portale di pietra con due fiancate sovra-state da teste leonine, vengo bloccato da un usciere. Gli dico del mio appuntamento con monsignor Almirato. Subito alza un telefono, parlotta un po’ a voce bassa, poi, indican-domi la strada, mi riferisce che il monsignore mi sta aspettando nel suo ufficio. Mi ritrovo così in un cortile che in parte conserva ancora i caratteri-stici porticati quattrocenteschi e sui quali si apre un imponente sca-lone. Salgo al primo piano dove, tra una successione di stanze deco-rate da soffitti lignei, si trova l’ufficio di Almirato. Un giovane sacerdote mi sta aspettando. Mi chiede di seguirlo. Poi mi prega di attendere un momento. Lo vedo sparire in una porta e subito dopo riuscirne. «Monsignore l’aspetta!» mi comunica mentre mi fa cenno di entrare. Rimango colpito. A ricevermi c’è un uomo che ha superato abbon-dantemente la settantina. Più che un ecclesiastico sembra un ban-chiere. Viso da squalo, capo rasato, naso affilato, sguardo tagliente, abito gessato, cravatta blu. Noto che ha al dito un vistoso anello d’oro con incastonato un gros-so rubino e come unico segno di fede un piccolo crocifisso in legno che gli pende dal collo. Mi invita a sedermi. «Sono contento che Ranzoni sia riuscito a convincerla ad accettare l’incarico», mi dice subito. «Mi ha parlato molto bene di lei. Mi ha raccontato della sua grande esperienza. La persona più adatta per seguire i lavori che riporteranno la chiesa a quello si pensa potrebbe essere stato il suo aspetto originario. Dico “potrebbe”, perché docu-mentazioni certe non ce ne sono. Non le nascondo che personalmen-te sono molto contrario a questo intervento. Del rosone, che fino agli anni Venti era possibile vedere al di sopra del portale centrale, non ci sono elementi per dire che fosse già presente all’epoca dell’edificazione. Ma il vescovo non ha voluto sentire ragione. Ha molto insistito che l’intervento venisse fatto, essendo molto devoto a questa piccola chiesa che, come lei già saprà, fu edificata attorno al 1140 in onore della Santa Vergine Maria.»

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«Sì, ne sono al corrente», gli confermo. «Costruita sulle rovine di una cappella del decimo secolo, dedicata alla Madonna, che si tro-vava sulla via che da Milano portava a Bergamo e a Venezia.» «Esatto e di quella chiesetta alcune strutture murarie sono tuttora esistenti. La nuova chiesa venne chiamata da subito Santa Maria Rossa, probabilmente per il colore dei mattoni della facciata e dell’interno. Fu opera della comunità dei canonici che si era stabilita nell’attuale zona di Crescenzago per volere dell’arcivescovo di Mi-lano Robaldo. L’arcivescovo volle si costituisse una canonica in cui i sacerdoti potessero condurre vita in comune sotto la guida di un preposto, ispirandosi alla regola di Sant’Agostino. Ben presto da quella comunità, la prima insediatasi nei territori di Milano, ne ebbe-ro origine altre per filiazione, tra cui quella di Santa Maria Bianca di Casoretto, distante solo pochi chilometri. L’appoggio di Urbano III e la beatificazione dei canonici Albino e Tommaso, testimoniano l’importanza e il prestigio di quella comunità.» «So che sotto al pavimento sono state rinvenute alcune cavità sepol-crali che portano a pensare che realmente nel 1322 potesse esserci stato sepolto Matteo Visconti», gli faccio notare sfoggiando la mia preparazione in materia. «Corretto anche questo», mi risponde Almirato. «Le faccio i miei complimenti per la sua evidente conoscenza della storia di Milano.» «Fa parte del bagaglio di nozioni che deve avere chi svolge il mio lavoro», gli faccio notare. «Bene! Oggi di Santa Maria Rossa colpisce il suo insieme dal punto di vista artistico, ma anche la particolarità dei cicli pittorici in cui vengono raffigurati alcuni episodi della vita di Maria, tra cui quello dell’annuncio della sua morte da parte dell’arcangelo Michele. Una scena tratta da un racconto dei vangeli apocrifi, rarissima nella storia dell’arte.» «Però la chiesa è giunta fino a noi con non poche alterazioni», faccio notare. «È vero. A partire dal Quattrocento venne ampiamente rimaneggiata con una serie di modifiche. In particolare i canonici vollero aggiun-gere la cappella di Santa Caterina, vergine e martire. La devozione a Caterina fu importata dai crociati che ne conobbero il culto in Terra

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Santa. Non si esclude che al loro seguito ci fossero anche alcuni sa-cerdoti provenienti proprio dalla prepositura di Crescenzago e que-sto spiegherebbe il perché di quella realizzazione. Nonostante una lapide commemorativa testimoni che la cappella è stata fondata nel 1503, in realtà non ha origine nota e potrebbe essere databile prima di quell’anno. Il suo affresco centrale, raffigurante religiosi al co-spetto della Vergine, mostra lo stile inconfondibile del Bergognone. Coi restauri degli anni Venti furono sostituiti, con le attuali monofo-re, il rosone centrale e i due oculi laterali che sovrastavano ciascun portale. In quell’occasione, attraverso il discialbo delle più recenti intonacature, sono stati riportati alla luce dei cicli a fresco, di epoca medievale, di grande valore storico e artistico. Così non escludiamo che durante i suoi interventi possa incappare in qualche altra scoper-ta. In tal caso, prima di prendere qualsiasi iniziativa, la pregherem-mo di segnalare a noi la cosa, perché per questi lavori sono stati stanziati dei finanziamenti pubblici a livello diocesano e quindi dob-biamo rispettare precise scadenze, altrimenti corriamo il rischio che vengano sospesi chissà per quanto o addirittura revocati.» «Certo. Capisco!» commento. «Non dovrà partire da zero», mi dice. «Tutte le pratiche per la So-printendenza sono già state fatte dal suo predecessore, l’architetto Irene Papandrea, una ragazza molto giovane, ma di grandissimo ta-lento, che purtroppo ha dovuto lasciare l’incarico per una partenza improvvisa. Ma adesso abbiamo una certa fretta di iniziare i lavori. Sa, è proprio per via delle scadenze legate ai finanziamenti. Senza quelli non si fa niente. Il progetto è già stato depositato. Ora lei do-vrà farlo eseguire e controllare che tutto sia fatto nel modo migliore. Ci fidiamo di lei. Eccolo qui. Se lo studi pure con calma. E queste sono tutte le perizie tecniche che l’architetto Papandrea aveva richie-sto a un collega strutturista. Come potrà vedere, non vengono segna-late particolari situazioni di rischio o di sofferenza.» «Vedo che anche l’analisi preventiva delle superfici a vista non ha segnalato alcun problema», osservo. «Fortunatamente sì», commenta Almirato. «Santa Maria Rossa gode di ottima salute e lei potrà lavorare in tutta tranquillità. Almeno così mi hanno assicurato. Questo invece è il suo contratto con la nomina

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a direttore dei lavori. Porti pure tutto via e se lo guardi con attenzio-ne. Se reputerà anche lei che non ci sono problemi tecnici e se le andranno bene le nostre condizioni, firmi pure, in modo da poter iniziare i restauri al più presto. Come potrà vedere, lavorerà con la Dagoberto Realizzazioni Ecclesiastiche; sono sicuro che si troverà bene. So che già avete collaborato in altri importanti restauri e che quindi opererete con grande affiatamento.» Quando ci salutiamo, mons. Almirato mi porge la mano. Io mi graf-fio con il suo anello. Chissà perché ho la sensazione che in quell’uomo ci sia qualcosa di sfuggente. Qualcosa che non riesco a mettere a fuoco. Guardo il sangue sulla mia mano. Ripenso al suo viso da squalo. Per un attimo ho la percezione di essere stato la sua preda.

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LA RICHIESTA DI DE CRISTOFORIS Matteo è il mio unico vero amico. Quando l’ho conosciuto, subito ci siamo sentiti in sintonia, anche se di affinità ne abbiamo poche. Il bianco e il nero. Il gigione e l’introverso. Ci siamo incontrati la prima volta qualche anno fa al Palazzo delle Stelline a una conferenza sul Romanico-Lombardo. Lui era uno dei relatori. Non mi ero trovato completamente d’accordo su alcune teorie e al termine l’avevo avvicinato per discutere su due o tre punti della sua relazione. Dovevamo ancora cenare, per cui mi propose di andare con lui in un ristorantino lì vicino, in modo da poter parlare in tutta tranquillità. Si era subito dimostrato un gran chiacchierone e tra un bicchiere e l’altro siamo subito passati al tu. Mi aveva colpito la sua cordialità, ma soprattutto il gran numero di bicchieri vuoti che aveva lasciato sulla tavola alla fine della cena. Parlando del mio lavoro, gli avevo raccontato che in quei giorni sta-vo facendo delle ricerche alla chiesa di San Gottardo per una dispen-sina che volevo scrivere per il corso di storia dell’arte. «Conosco molto bene quella chiesa», mi disse. «Se vuoi domani ci andiamo assieme, magari ti posso dare qualche dritta.» Così il giorno dopo ci siamo rivisti. Matteo è stato molto disponibi-le. Poi dall’arte siamo passati ad altri argomenti. De Cristoforis, no-nostante l’apparenza un po’ vanesia, si è mostrato un tipo molto par-ticolare, in grado di metterti a tuo agio e molto disponibile all’ascolto. Una specie di guru che sa sempre un po’ di tutto, che ti aiuta ad aprire gli occhi e anche a guardare dentro te stesso. Ma tutto ciò senza mai pretendere di darti un consiglio. Verso sera, visto che eravamo ancora dalle parti di Porta Ticinese, mi ha proposto di concludere piacevolmente la giornata con un ape-ritivo al battello bar ormeggiato dove il Naviglio Pavese nasce dalla Darsena.

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Da quella volta ci siamo rivisti frequentemente e l’aperitivo sul bat-tello è diventato quasi una consuetudine. Abbiamo scoperto che a tutti e due piace quel piccolo frammento di città, dove da qualche tempo, alla sera, decine di ragazzi hanno ini-ziato ad affollarsi nelle vecchie osterie che si affacciano sui canali, negli studi degli artisti o nelle moltissime botteghe artigiane. Si respira un’atmosfera vagamente parigina che ha sostituito quella che, fino a pochi decenni fa, era caratterizzata dalla Milano popola-re, con i suoi personaggi singolari, le lavandaie con la schiena piega-ta e i suoi trani, ritrovo di grandi bevitori e sfaccendati. Quando questa sera sono arrivato, Matteo era già lì, con un paio di boccali appena svuotati e una mezza scura tra le mani. Dopo che mi sono seduto di fronte a lui, mi chiede come va dopo la sbornia dell’altra sera. «Diamine! Quella è cosa brillantemente superata», gli dico facendo un po’ lo sbruffone. «Sono invece perplesso per la piega che sta prendendo la protesta degli studenti all’università. Adesso quei ra-gazzi si sono messi anche a fare sciopero. Ma è pazzesco! Capirei se fossero degli operai. Ma uno studente che fa sciopero blocca solo la sua istruzione, danneggia solo se stesso. Sai cosa ti dico, penso che siano solo dei ragazzi viziati che cercano di creare un po’ di scompi-glio e si divertono a giocare ai rivoluzionari. Ma non vorrei che la cosa gli prendesse troppo la mano!» «Cazzo! Luigi», mi dice De Cristoforis, «ma possibile che tu debba sempre vivere chiuso nel tuo mondo assieme solo ai tuoi dannati studi? Cazzo! Fuori le cose non stanno ferme. La società è in rapido cambiamento e quella degli studenti è una cosa seria. Possibile che non te ne sia accorto?» «A dire il vero no! Mi sembrano solo dei piantagrane.» «Sono sicuro di non sbagliare», prosegue Matteo, «se sostengo che qui siamo di fronte a una grande rivolta spontanea che lascerà il suo segno. Quei ragazzi ce l’hanno con la società tradizionale. Rivendi-cano soprattutto la liberalizzazione dei costumi, legandosi alla batta-glia per i diritti civili e al rifiuto dei principi capitalistici. Penso che i giovani stiano cercando di affermare una propria cultura infrangendo la grande rigidità di questa società. Sicuramente hanno dei disagi che

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lo Stato e gli adulti faticano a comprendere. Da qui probabilmente partono le loro rivendicazioni. È chiaro che hanno come nemico co-mune il principio dell’autorità. Come hai potuto vedere con i tuoi stessi occhi, stanno contestando la “vecchia università” e la maggior parte delle istituzioni, i valori tradizionali e la società dei consumi e giustamente criticano tutti i privilegi.» «Ma, da quel che ho sentito, anche la famiglia viene messa in di-scussione. Diamine! Questo proprio non lo capisco e mi fa imbufali-re!» «Sì, è vero. Contestano anche la famiglia e la novità è che stanno attuando forme di protesta fino a ora sconosciute, come l’occupazione delle scuole e delle università. In molti casi ci sono già stati scontri con la polizia. Insomma, credo che stiamo assistendo alla nascita di un movimento contro-culturale, una rivolta generazio-nale nella quale si riconosce un’intera classe giovanile. Una rivolta che vuole mettere al centro dell’attenzione valori che fino a poco tempo fa erano stati interesse di pochi. Luigi», conclude De Cristo-foris, «mi sa che siamo di fronte a degli eventi che separeranno per sempre il passato dal futuro.» «Diamine! Bella frase», gli dico, «ma che questa volta tu abbia ra-gione è tutto da vedere. Comunque ti comunico che da oggi ho rice-vuto un nuovo incarico. Mi hanno chiesto di seguire i lavori di re-stauro della chiesa di Santa Maria Rossa a Crescenzago. Un lavoro più che altro di routine. Ma sai una cosa? L’interessante è che po-trebbe esserci la possibilità di scoprire qualche inedito durante i la-vori.» «Cazzo! Luigi, se dovesse succedere, mi devi chiamare immediata-mente. Dopo la faccenda del Caravaggio ho bisogno di qualcosa di clamoroso per dimostrare che non sono un ciarlatano procacciatore di bufale come vorrebbero far credere. Adesso quella storia è diven-tata la mia spina nel fianco. Come ben sai, i primi decenni della vita artistica di Caravaggio sono rimasti per secoli avvolti nella nebbia. Tempo fa ho deciso di iniziare alcune ricerche su quel suo primo periodo in Lombardia. Sua madre aveva sborsato un capitale per pa-gargli gli studi artistici nella bottega del Peterzano. Cazzo, da qual-

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che parte dovevano pur esserci dei disegni fatti da lui in quegli an-ni.» «Questo è certo, ma è come cercare un ago in un pagliaio», osservo. «È vero! Ma sulla base di questa mia riflessione ho voluto avviare una lunga indagine che è terminata, dopo aver passato al setaccio il Fondo Peterzano del Castello Sforzesco, nel ritrovamento di alcune opere che avrebbero potuto essere sue. Dopo di che, la prima cosa che ho fatto è stata quella di mettere a punto un metodo per la loro analisi. Ho iniziato a confrontare le prime opere che il Caravaggio ha realizzato a Roma e a Napoli, in modo da individuare il canone geometrico da lui ideato quando era allievo del Peterzano e che se-condo me non ha mai abbandonato per tutta la vita. Una sorta di DNA identificabile in tutti i suoi dipinti. Successivamente, in base ai criteri stilistici, ho estrapolato dai disegni conservarti al Castello un certo numero di opere che per analogie posturali erano riconducibili ai grandi quadri della maturità del Maestro. Le ho divise in più gruppi. In uno ho cominciato a identificare i volti, i corpi e le scene che il Merisi avrebbe poi realizzato nelle sue opere. Utilizzando il metodo del confronto è risultato che una cinquantina di disegni, fra quelli da me selezionati, sono stati applicati nelle sue opere di età più matura. Questa scoperta per me è più che sufficiente per attribui-re quelle opere al grande maestro lombardo. Invece mi hanno messo al bando dalla comunità scientifica perché sostengono che la mia è un’altra bufala all’italiana. Dicono che si tratta solo di una mia abile strategia per mettermi in mostra, dato che, quando il primo cornuto che passa sostiene di aver scoperto un Caravaggio, subito viene por-tato in trionfo come una star. Cazzo! Ma per me è solo invidia pro-fessionale.»

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CAPITOLO 2

IL SOPRALLUOGO Il sopralluogo non è una semplice visita, è qualcosa di più comples-so; un atto tramite il quale si interroga un luogo e lo si riscopre. Il sopralluogo può durare poche ore o intere giornate. Il suo scopo è l’acquisizione dei primi elementi di conoscenza. È un passo fonda-mentale che influenza ogni successiva azione. Non è possibile individuare a priori le informazioni necessarie. Solo il sopralluogo le può mettere in luce. Solo così è possibile acquisirle e catalogarle in modo organizzato in funzione dei vari aspetti coin-volti dall’esame visivo. Si sta in piedi e si guarda in avanti. L’occhio guarda fino all’orizzonte, vede tutto, anche oltre le nostre intenzioni e la nostra volontà. Il guardare diviene una sorta di dialogo interiore, tramite il quale il soggetto e l’oggetto entrano in comunicazione con un’azione di scomposizione e ricomposizione della realtà che porta alla costru-zione di un’immagine a volte anche molto differente da quella su-perficialmente osservata. Il sopralluogo diventa così l’azione che ci permette di impossessarci di un luogo. Sarebbe buona cosa documentarsi sul luogo che si andrà a visitare, così che prima ancora di vederlo si abbiano tutti gli elementi per va-lutare ciò che si vedrà. Ma io preferisco andare direttamente lì e pas-seggiare senza un preciso schema, con la strana sensazione di essere

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un esploratore alla ricerca dell’ignoto, anche se a volte andare in un posto che non ho mai visto mi provoca un senso di angoscia. I posti nuovi sono per me misteriosi. Alcuni sono pervasi dall’oscurità. Diamine! Detesto l’oscurità. Allora non ci vorrei anda-re e tanto meno perlustrarli. Mi vorrei fermare prima. Non so se for-zarmi sia giusto o no. Se il destino ha voluto che abbia un cattivo rapporto con l’oscurità, forse è per impedirmi di fare azioni che po-trebbero interferire nel disegno previsto per la vita di altri. Andare lì vuol dire che il percorso di qualcuno cambierà in conseguenza di questa mia scelta, magari anche solo per un attimo, per un’ora, per un giorno o addirittura per sempre. Diamine! Mi chiedo se sia giusto che io ci vada. Non so rispondermi e questo mi fa arrabbiare con me stesso. Ma mi faccio coraggio, mi controllo e alla fine ci vado. A Santa Maria Rossa mi incontro con l’ingegner Dagoberto, proprie-tario della Dagoberto RE, c’è anche Giuseppe, un ottimo capomastro con il quale ho lavorato in molte occasioni e, per la committenza, il parroco della chiesa. Il luogo lo conosco già e nella chiesa fortunatamente c’è solo una leggera penombra. Per una breve sortita si è fatto vedere anche un ispettore della So-printendenza. Sembra il tenente Colombo. Impermeabile stropicciato, una sciarpa avvolta attorno al collo, capelli arruffati, aria trafelata e una logora cartella sotto il braccio. «Scusatemi, ma vado di fretta. Aspetto un bambino! Cioè, la mia signora sta per partorire», ci dice subito in uno stato semi-confusionale. «Devo correre alla Mangiagalli. Sapete, è il mio pri-mo.» «Il primo? Ma allora è un maschio! Complimenti!» commenta il par-roco accendendosi come una lampadina. «L’erede è assicurato!» «Ma no! Ma no! Questo non lo sappiamo ancora. Quello che sarà, sarà!» «Eh sì, è sempre il Signore a decidere quello che è meglio. Pregherò subito Sant’Anna perché il parto possa essere felice, che il figlio sia sano e che la madre lo possa allattare.»

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«Grazie, grazie Padre, ma adesso devo proprio filare. In ogni caso ho già fatto una serie di sopralluoghi con l’architetto Papandrea e stilato tutti i verbali necessari», ci fa notare. «La mia presenza di oggi è solo un atto formale. Buon lavoro e, mi raccomando, tenetemi informato», dice scappando subito via. Rimasti soli iniziamo a prendere visione del luogo per fare un pro-gramma, in modo da poter iniziare i lavori al più presto. Santa Maria Rossa si affaccia su una suggestiva piazzetta, mostran-do una forma semplice e solenne. Di fronte al sagrato sorge una casa che per il suo stile non passa i-nosservata. È la quattrocentesca residenza della famiglia Berra, che molto ebbe in comune con gli avvenimenti della chiesa. Ho sentito dire che ancora è abitata dall’ultimo discendente di quel casato. Guardandola è possibile distinguere il corpo originario dalle aggiun-te secentesche che si sviluppano sulla parte posteriore della dimora. Sulla facciata dell’edificio è stata fissata una lapide in memoria di Domenico Berra, mecenate vissuto a cavallo tra Settecento e Otto-cento. Su di un edificio poco distante è posta invece un’altra lapide che ricorda la beata Madre Anna Eugenia Picco. Nata lì, in Via Del-la Cura, nel 1862. Santa Maria Rossa, più che un tempio, sembra volersi proporre co-me una piccola casa accogliente; la dimora di Dio tra gli uomini, potrebbe affermare qualche buon cristiano. La facciata, nel suo complesso spoglia, è a capanna in mattoni di cotto a vista, decorata con ciotole in maiolica gialla e verde. Pochi altri sono gli elementi decorativi. Solo una cornice di archetti pensili su fondo chiaro che percorre tutto il perimetro superiore della chiesa, suddivisi in facciata da quattro robusti contrafforti, di cui i più esterni coronati da pinnacoli in cotto. I portali sono molto semplici. In pietra quello centrale, in mattoni con colonne di cotto i due laterali. Sopra di loro si aprono numerose monofore, per molte delle quali è possibile rilevare tracce di am-pliamento. Il campanile, che in origine non superava l’altezza della chiesa, ora la sovrasta di alcuni metri.

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Si può dire che la facciata oramai non risulti più rilevante dal punto di vista storico, in quanto il suo aspetto attuale è frutto dei devastanti interventi degli anni Venti. Sul suo lato interno, sopra il portone, è dipinto un grande affresco raffigurante l’ultima cena, realizzato dal Morgari in occasione di quei pessimi restauri. «Signore Santo!» esclama il parroco in piena agitazione. «Non do-vrete mica distruggere questo ben di Dio?» «Diamine!» gli rispondo. «Certo che no! Nonostante l’apertura del rosone, l’affresco potrà rimanere e non subirà danni. Siamo profes-sionisti, non barbari.» «Sia lodato il Signore! Sia lodato il Signore! Mi avete appena tolto un macigno dallo stomaco. Non ci dormivo da notti.» L’edificio è proprio come lo ricordavo, con pianta basilicale a tre navate, privo di transetto e concluso a oriente da tre absidi semicir-colari. «Guardate che meraviglia!» ci fa notare il parroco traboccante d’orgoglio. «Vedete? Le navate sono divise in campate con volte a crociera con vele bianche trapuntate di stelle. In questo modo si vo-leva rappresentare il manto della Madonna steso a protezione dei fedeli. Gran cristiani questi gotici! Il presbiterio è invece voltato a botte, anche lui un miracolo architettonico! Dico bene architetto?» Come perfettamente indicato dai rilievi della Papandrea, il sistema dei sostegni è formato da otto corpulenti pilastri cilindrici. I primi quattro sono in laterizio, mentre i rimanenti in pietra. «Belli e forti!» commenta il parroco. «Un vero capolavoro dell’arte gotico-lombarda!» Capisco che la cultura artistica del nostro ospite non sia molto ap-profondita, ma ci mette così tanta passione che la cosa può essergli perdonata. D’altronde è un pastore di anime e non uno storico dell’arte. Così, cercando di non metterlo a disagio, gli faccio notare che molti elementi strutturali collegano Santa Maria Rossa all’architettura lombarda cistercense e in particolare alla quasi coeva Abazia di Morimondo; dal sistema continuo dei supporti, alla pre-senza di campate rettangolari, dalle volte ogivali, al marcato svilup-po orizzontale della facciata e che la sua architettura mostra i tipici

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segni dell’epoca in cui i canoni di costruzione romanica si incrocia-no con i nuovi modelli che daranno vita al Gotico. «Certo, certo! Ma torniamo al rosone», commenta ancora il parroco pieno di apprensione. «Non è che le vibrazioni dovute alle demoli-zioni rischieranno di causare qualche danno o che le polveri andran-no a depositarsi ovunque. Sapete, non vorrei si rovinasse questo pic-colo tesoro della fede.» «Su questo non c’è da preoccuparsi», chiarisce Dagoberto. «Proprio per evitare questo genere di problemi, per l’apertura del nuovo roso-ne useremo la tecnica del filo diamantato, che riduce le vibrazioni quasi a zero ed è molto meno rumorosa rispetto alle tecniche tradi-zionali. È il metodo adottato quando la demolizione deve essere con-trollata come nel nostro caso e che consente di tagliare con grande precisione blocchi di parete che poi potranno, con una certa facilità, essere rimossi con un braccio gru posizionato sul sagrato. Il taglio è effettuato dal filo», gli spiega, «un cavo d’acciaio parzialmente rico-perto di sfere diamantate che, scorrendo ad alta velocità in fori pre-cedentemente effettuati, consente il taglio della parete come se fosse la lama di una sega. In questo caso sarà montato su di un telaio a forma di compasso. La macchina per la trazione del filo sarà posta anche lei all’esterno per evitare di produrre indesiderati effetti colla-terali dentro la chiesa.» «In ogni caso, per evitare che comunque della polvere possa finire nelle navate», fa presente Giuseppe, «l’area delle demolizioni sarà completamente isolata tramite una compartimentazione stagna che realizzeremo con dei pannelli di policarbonato traslucido.» «Bene! Bene! Ho recitato tante Ave Maria perché le cose potessero andare bene», ci racconta il parroco. «Adesso mi sento più tranquil-lo. Dirò un rosario per ringraziare la Madonna.» Dopo aver concluso il sopralluogo ci accordiamo per organizzare il cantiere. Santa Maria Rossa rimarrà chiusa ai parrocchiani per alcuni mesi. I fedeli potranno essere accolti dalle vicine chiese di San Giuseppe dei morenti e dei Santi Re Magi.

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IL RITROVAMENTO Un giorno come un altro, direbbe chiunque alzandosi dal letto la mattina presto. Ma io invece ho la convinzione che non sia così. Mi aspetto una giornata anche peggio del solito. La notte l’ho passata in bianco. Il mio solito mal di schiena dopo una breve tregua è ritornato a farsi sentire. Sono stanco. Stanco del buio della notte e stanco di questo doloroso compagno che non vuole ab-bandonarmi. Forse ha proprio ragione mia madre. Dovrei andare da uno speciali-sta o, come dice Matteo, lasciare tutto per un po’ e farmi una vacan-za. Anche oggi la finestra mi mostra una Milano grigia e nebbiosa. Ma-linconica, direbbe qualche turista, ma a me piace così. La trovo uni-ca. È la mia città e mi dà sicurezza. So di essere nato qui, nonostante non sia scritto sui documenti dell’adozione. Me la sono presa comoda. Diamine! Mi ci voleva. Alla facoltà non ho lezione, ma al cantiere mi stanno aspettando. I lavori procedono bene e nei tempi previsti. Ieri abbiamo terminato di piazzare la struttura provvisoria che dovrà sostenere la muratura della facciata quando andremo a forarla. Do-vrà rimanere fino a quando non sarà ultimato il nuovo rosone. A dirigere il taglio sarà Giuseppe. Non è la prima volta che si cimen-ta in questo genere di cose. È un capomastro esperto. Un tecnico preparato. Per lui metterei la mano sul fuoco. Comunque gli ho detto di non iniziare senza di me. Non voglio per-dermi lo spettacolo. È sempre una cosa emozionante. Mi preparo per uscire e non posso fare a meno di continuare a pensa-re a quella ragazza. L’ho avuta davanti agli occhi tutta la notte, men-tre mi rigiravo nel letto. Da quando ho visto il suo corpo privo di vita, non riesco più a to-gliermela dalla mente. Mi è rimasta dentro. Come se un sottile filo

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legasse la mia esistenza a quella sconosciuta. Ne ho parlato con Mat-teo. «Ma insomma Luigi, non puoi pensare alla gnocca qualche volta, anziché continuare a farti seghe mentali?» mi ha detto con la sponta-neità di sempre. Penso abbia ragione, ma è più forte di me, non riesco a scordarla. Ci sto ancora pensando, quando il trillo del telefono mi riporta al presente. «‘ngiorno architetto», mi dice Giuseppe. Si sostiene che i dislessici per compensare la loro difficoltà svilup-pino altre capacità. Non so se sia vero, io credo di aver sviluppato una forma di intuito fuori dal normale. Ma la cosa più frustrante è che di questo non potrò mai averne la certezza. Comunque, in quel “ngiorno architetto” ho subito percepito che qualcosa non andava per il verso giusto. «Cosa è successo?» chiedo a Giuseppe. «No! È che… Insomma, lei non arrivava. Era già tutto preparato. Così ho deciso di portarmi avanti.» «Ma è successo qualcosa?» chiedo di nuovo. «No. Cioè sì. Vede architetto, abbiamo iniziato col filo diamantato. Andava tutto bene, così ho lasciato gli uomini e sono andato a con-trollare che giù nella chiesa fosse tutto a posto. Ma c’è un problema. Nella cappella di Santa Caterina si è staccato un grosso frammento dell’affresco del Bergognone.» «Diamine Giuseppe!» esclamo visibilmente irritato. «Ti avevo detto di stare molto attento con le vibrazioni, anche se nelle perizie non venivano segnalati problemi di decoesione negli affreschi della chie-sa. E poi ti avevo detto di aspettarmi prima di procedere con il ta-glio.» «Sì lo so, ma lei non arrivava…» «OK! OK! Non ricominciamo con questa storia. Fra poco sono lì e vedremo cosa fare.» «Sì! ‘ngiorno», mi dice ancora Giuseppe, ma questa volta con un tono che percepisco molto amareggiato. Anch’io sono amareggiato. Mentre il battellino scivola lentamente alla volta di Crescenzago, penso che forse sono stato troppo brusco

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con quel ragazzo venuto dal sud. Credo di aver sbagliato. Sono certo che abbia fatto tutto al meglio, ma sicuramente il fato ha voluto met-tersi di traverso con uno dei suoi tiri. Giuseppe non è stato con le mani in mano. Quando arrivo vedo che ha già piazzato un trabattello in modo da poter osservare da vicino l’affresco del Bergognone. Sarà alto un paio di metri, ma per me sa-lirci sopra non è una passeggiata. L’altezza mi ha sempre dato un senso di insicurezza e di disagio. «Si attacchi a me e non guardi giù», mi dice Giuseppe che conosce questa mia fobia. Da un primo esame è possibile rilevare che il distacco è stato causa-to dalla perdita di adesione dovuta al cattivo stato di conservazione della parete; infatti l’intonaco su cui è stato realizzato l’affresco pre-senta in più punti impercettibili fenomeni di sollevamento dal sup-porto murario. «Ho già ispezionato anche fuori», mi fa sapere Giuseppe. «C’è un problema all’esterno della parete. Ho trovato una sacca nel terreno in cui ristagna l’acqua piovana. Questa parete è diventata una spugna a causa dell’umidità di risalita.» Apprezzo l’iniziativa di Giuseppe e la sua professionalità. Sicura-mente quella è la causa principale del distacco. Lo tranquillizzo os-servando a voce alta che, per lo stato in cui versa la parete, sicura-mente quello che è successo, prima o poi, sarebbe accaduto comun-que. Dall’esame visivo è possibile riconoscere tracce di restauri relativa-mente recenti. Probabilmente quelli degli anni Venti. Guardando meglio, dove si è staccata la porzione di affresco, a ma-lapena si scorgono tracce di un’altra opera. Decidiamo di intervenire ripulendo quel frammento venuto alla luce. L’operazione è delicata, ma Giuseppe sa come operare. L’ho visto farlo altre volte. Ha esperienza da vendere. Dopo accurata pulizia della superficie qualcosa di definito prende forma davanti ai nostri occhi: intravediamo due mani dipinte. Le previsioni del monsignore hanno trovato conferma. Non so se gioire o no. Questo potrebbe creare problemi con la Soprintendenza

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e i lavori potrebbero venir sospesi fino a chissà quando, mettendo a rischio le scadenze legate ai finanziamenti. Prima di dare comunicazione della scoperta all’Arcivescovado, se-condo quanto mi aveva invitato a fare Almirato se fosse capitato di trovare qualcosa, faccio venire subito De Cristoforis per avere un quadro più chiaro della situazione e anche per venire incontro alla sua richiesta. «Cazzo! La postura di quelle mani ricorda molto quella delle mani di Tommaso e di Giacomo Maggiore nel Cenacolo di Leonardo», e-sclama eccitato il mio amico Matteo. «Forse ci troviamo di fronte a qualcosa di clamoroso!» Poi ci fa notare che l’affresco del Bergognone, alla sinistra delle mani, risulta leggermente staccato dalla muratura di supporto. «Potremmo rimuovere anche questa porzione per vedere cos’altro nasconde!» suggerisce con lo sguardo di un gatto che ha appena fiu-tato un grasso topo. «Diamine! Matteo! Sai meglio di me che non si può. Che non è la procedura. Qui si incorre nel penale!» «Macché penale e penale. Potremmo sempre dire che è venuta giù da sola assieme all’altro pezzo. Pensaci bene!» Anch’io sono eccitato e ansioso di sapere che cosa ancora si nascon-de. Anche a me piacerebbe saperne di più. Mi lascio convincere. Do l’OK per la rimozione. Poi comunicherò la scoperta all’Arcivescovado. «Ma l’operazione per il momento deve rimanere segreta», osservo con De Cristoforis. «Faccio sospendere i lavori al rosone, in modo da poter procedere domani senza la presenza delle maestranze. Della delicata operazione se ne occuperà Giuseppe, che lavorando da molti anni per la Dagoberto Realizzazioni Ecclesiastiche ha acquisito una grande esperienza. Mi fido ciecamente di lui. In passato mi ha tolto parecchie castagne dal fuoco e risolto parecchi problemi in più di un cantiere.» «Qui però dobbiamo inventarci qualcosa!» ci fa notare Giuseppe. «Non possiamo usare la tecnica dello strappo, perché asporterebbe solo la pellicola pittorica e non potremmo ingannare nessuno. Anche quella dello stacco non va bene, perché lascerebbe sulla muratura i

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segni della fresa. Si potrebbe tentare con l’aria compressa, che infil-trandosi nella fessurazione potrebbe fare pressione su questo grosso frammento fino a staccarlo come se fosse venuto giù da solo.» Diamine! La proposta mi sembra buona. Raccomando solo che la porzione che andiamo a staccare rimanga integra e non finisca in pezzi. Per questo, il giorno dopo, vedo Giuseppe realizzare una sorta di tampone che, appoggiato sull’affresco, dovrà leggermente contra-stare la pressione crescente dell’aria. Do il via. Per un attimo rimaniamo tutti col fiato sospeso. Non suc-cede nulla! Poi Giuseppe aumenta la pressione dell’aria. Il tampone sembra arretrare leggermente. Ma forse è solo suggestione. Il mio timore è sempre quello che quel pezzo finisca in mille frammenti. Da quel che mi risulta, è la prima volta in assoluto che viene speri-mentata questa tecnica. «Tranquillo, architetto!» mi dice Giuseppe guardandomi fisso negli occhi. «Non può succedere niente. Il tampone costringe l’aria a una pressione costante in ogni punto. Vedrà, verrà via tutto intero. Ci gioco un Campari!» Lo vedo aumentare ancora la pressione. Nel silenzio della chiesa lo scricchiolio rimbomba come una cannonata. Poi un colpo secco. Ve-diamo il tampone indietreggiare leggermente. Subito Giuseppe bloc-ca l’aria. Poi con un sistema di guide arretra il tampone. Il pezzo arretra con lui. È tutto intero! Per un attimo esultiamo come dei calciatori che hanno appena se-gnato un goal. Nelle navate vuote ci fanno eco le nostre grida di gio-ia. Ma è solo per poco, sono subito smorzate per quello che adesso vediamo. Coperto da un leggero velo di polvere ci appare un volto identico a quello del Cristo del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie e cosa sorprendente, alle sue spalle, sullo sfondo, sono rappresentati dei palazzi in perfetto stile razionalista e una strana macchina che vola sopra i loro tetti. Ma tutto ciò è solo un grosso frammento, in quanto tutt’attorno il muro presenta evidenti tracce di riparazione, come se si fosse voluto ricostruirlo dopo un parziale cedimento strutturale. Mi viene da pensare che il danneggiamento di quell’opera possa essere legato a qualche fenomeno sismico. «Diamine, Matteo! Cosa ne pensi? Sei tu l’esperto d’arte!»

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«Arte! Che parola grossa! Il più delle volte è soltanto un epitaffio presuntuoso che viene attribuito ad alcune forme di artigianato. Pen-so che un artista, nella stragrande maggioranza dei casi, sia artista solo quando affronta la sua prima opera. Poi tende a replicare sem-pre se stesso. Dimmi se questo non è artigianato! Un vero artista do-vrebbe avere delle marce in più. Essere sempre in continuo rinno-vamento, ma non solo nell’apparenza, anche nella sostanza. Il famo-so stile è proprio la prova che quello che sostengo è vero. Alla fine scopriamo che sono tutti artigiani. Sicuramente era più corretta la visione dei Greci. Non avevano la parola “arte” nel loro dizionario, avevano “tecnica”, che indicava più correttamente l’abilità manuale e artigianale. Gli scultori e i pittori greci erano così considerati arti-giani. Quando ho cominciato a vedere le cose in questo modo ho iniziato ad avere seri dubbi sulla materia del mio lavoro. Forse ho sbagliato strada, forse dovrei aprire un’enoteca sui navigli e piantare lì tutto! Ma questa cosa me la devo tenere per me. Se si sapesse in giro sarei preso per un pazzo e allora sì che sarei un critico finito. Non piace a nessuno chi sputa nel piatto dove mangia. Non ho mica i santi in Paradiso come certi critici che vanno di moda adesso e che sparano cazzate a raffica!» Dopo questo suo sfogo, De Cristoforis attribuisce, senz’ombra di dubbio, l’opera a Leonardo. «Vedi, mi spiega, qui siamo di fronte a una tecnica mista di tempera e olio su due strati d’intonaco. Questo procedimento è stato inventa-to da Leonardo per rallentare le fasi di esecuzione dell’opera, in mo-do da consentirgli di poter con pennellate successive rendere la sen-sazione viva dell’aria che circonda ogni suo dipinto e ottenere una maggior armonia cromatica e gli effetti di luce e di trasparenze a lui cari. Leonardo non si trovava a suo agio con la tecnica dell’affresco, poiché i veloci tempi di asciugatura dell’intonaco richiedevano un tratto deciso e rapido, non compatibile con i lunghi studi, le succes-sive velature e la sua finissima pennellata. Per quanto poi è rappre-sentato sullo sfondo, non c’è da stupirsi, probabilmente ha voluto sbizzarrirsi inserendo qualche studio dei suoi codici. Su questo non mi formalizzerei più di tanto.»

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«Allora sei proprio sicuro di non farmi incasinare?» gli domando con un po’ di preoccupazione. Con tutte le polemiche sui Caravag-gio ritrovati, bisogna andare con i piedi di piombo. «Luigi», mi risponde Matteo, «ma allora mi vuoi proprio cogliona-re!» Dopo aver riportato alla luce quel frammento, faccio transennare la cappella di Santa Caterina e ricoprire l’affresco del Bergognone con lastre di poliuretano espanso, in modo che nessuno possa vedere co-sa è successo. Dovrò tranquillizzare il parroco con una scusa. “È per gli sbalzi di temperatura”, gli dirò. “Abbiamo rilevato delle micro fessurazioni e, con le correnti d’aria dovute all’apertura del nuovo rosone, non vorremmo peggiorare la cosa.” Fine anteprima.Continua...