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Gianmario Lucini Una pazzia razionale Quattro racconti in novantanove ottave irregolari Vico Acitillo 124 - Poetry Wave

Gianmario Lucini - Vico Acitillo 124 · 2009. 10. 22. · Gianmario Lucini Una pazzia razionale Quattro racconti in novantanove ottave irregolari Vico Acitillo 124 - Poetry Wave

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Vico Acitillo 124 - Ekesy

EkesyVico Acitillo 124 - Poetry Wave

Gianmario Lucini

Una pazzia razionaleQuattro racconti in novantanove ottave irregolari

Vico Acitillo 124 - Poetry Wave

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Vico Acitillo 124 - Ekesy

Vico Acitillo 124 - Poetry [email protected]@email.it

Napoli, 2008

La manipolazione e/o la riproduzione (totale o parziale)e/o la diffusione telematica di quest’opera

sono consentite a singoli o comunquea soggetti non costituiti come imprese

di carattere editoriale, cinematografico o radio-televisivo.

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Vico Acitillo 124 - Ekesy

EkesyCollezione di scritture

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Gianmario Lucini

Una pazzia razionale(quattro racconti in novantanove ottave irregolari)

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Incipit (quasi un minuetto o forse una rapsodia)

Mi spoglio; come un’ombra nudapercorro lo spiazzo della stanza nerami gratto la pera mi stropiccio gli occhiaffaticati dal miele della luce elettricastropiccio anche il passato che mi fissaseduto su un trespolo di occasioni mancatein eterna frizione di arresti e dipartite,esausto – già morto, da questo corpo scisso.

Diceva il capo: “ceda all’evidenza,qui non facciamo spreco di culturaci basta una mediocre conoscenzadel mondo, una modesta scienzadel bene e del male. Per il restoabbiamo stregoni, maghi, creativicreati da ogni scuola e da ogni setta:- mi dia retta, qui si muore per star vivi...” La scrivania è ingombra di maceriedi vite altrui, frantumati corpi, sfacelidi reni e polmoni. Mi sento macellaioche disossa l’ossa d’esistenze rotte,scruto asettiche carte del doloree le riduco a numero, statistica,le archivio in cartelle di plasticaa futura memoria dei sopravvissuti.

La fila si allunga dall’entrata alla cassaserpeggia scomposta nel corridoio,sussurrando rosari di anamnesi e cure

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costose e inefficaci; poi sul mezzogiornosi placa, quando il medico di turnoaccelera il ritmo. Nel corridoiovuoto aleggia una nebbia di sciaguradi avventura o sventura – il senso della storia.

Il medico osserva accigliato l’anularesinistro piegare di lato, tranciato“che faccio? – mi dice – taglio e ricucioo provo col concorso di madre natura?”Al diavolo, non uccidere il mio ditoche un tempo suonava le Suites di Bachne rispondo in primis, attentatore e malato:non voglio una vita prima e dopo il dito.

L’analgesico fa subito effettoe l’agosto non è poi così torrido.Mi adagio sonnecchiando sul lettinoe ascolto il ronzio discreto di corsia.La vita d’ospedale è un ritorno all’originescansioni perdute nel sommarsi degli anni- mangiare dormire, aspettare che l’oramorendo nell’ora ti tradisca al divenire. Io non so donde vieni né dove ti vaipoesia amarezza e piacere sottileda servire cruda gelata nella brinain questo tempo di normale folliamia poesia aspra che ti vuoi leggerama incamminandoti t’ingravidi di penada qui alla fine del racconto che t’affannadella via-vita, senza eventi e senza trama. Vengono a frotte fin dal mattino prestos’ingolfano in scale e corridoi i derelittidal mondo della produzione, i vecchiche lottano col tempo ed esibisconopiaghe dell’anima e del corpo in bella vistasfaceli affidati a cure infermieredi anime in càmice che fluttuano leggereall’orizzonte della nostra sera.

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a una collega morta in giovane età

(Ricordo quel sorriso e quel tremito di cigliache ora sta decomponendo nella bara,la meraviglia di trovarsi al mondoancora per un giorno discutere di coseleggere e insensate – di soppiatto la preseun desiderio di morire che dormivacome un feto ingravidandole il capoimpreparata all’annunciata dipartita).

Cosa dirigeranno mai i dirigenticon quell’aria assorta, preoccupatacol tubo digerente sottosopra,stitichezza, attacchi di colite,qui non passa giorno che non peggiorila qualità del servizio ma raschiandoil fondo del barile il digerenteraschia una gratifica e si consola.

C’è poi l’ufficio per le risorse umaneche l’umano residuo volge a castrazioneper l’improbabile collettivo interesse:al centro perfetto del desiderabileal crocicchio di affanni, discese, risalitenella tua vita di modesto impiegatosta come un deus ex machina a invanarequel che conta, scipire quel ch’è sapido. Non ho fiducia in te mia poesia vanache vuoi scanzonare i costrutti basilaridel vivere civile e morire sanitario:tu mi procurerai soltanto grattacapiocchiate sospette, veleni, stilettate- perché il poeta è indifeso come il polloche la poiana dall’alto ha già puntatonell’ultimo starnazzo per l’aia satolla.

Il paziente è vivo, è entrato in coma vigiledormicchia sul filo del rasoio dell’eternoraccoglie le forze per l’incommensurabile

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non sa decidersi, aspetta un altro giornoancora – ma il dottore che lo visitaraccomanda alla bella infermiera“dica pure ai parenti che si allertinodirei che questo non arriva fino a sera”.

Di notte la corsia si disanima.E’ l’ora del rientro nelle tenebreè l’ora di pensieri e di lettureinsonni alla lucciola discretamentre il compagno dormendo chetail male coi farmaci e meteore infermiereall’improvviso si materializzano- è l’ora canonica dell’antibiotico. Questo soffrire non l’ho mai consideratonella quotidiana mansione d’impiegato;ora da utente - come sono definitodal curioso limbo del gergo burocratico -cerco tuttavia un nesso convincentefra questo stare e lo stare di anzitemponello spedale - da impiegato, non da utente –ma nella mente non ho che corridoi. Corridoi e corridoi che si snodano si incontranosi diramano si schiantano nel vuotodi finestre aperte su niente – è l’immaginestessa della vita, l’ospedale, dell’involverelento dell’io nel suo nucleo di terrorepoi che riscopri l’umana finitudine,la scienza vanitosa che sentenziama non capisce l’essenza del dolore... Che senso ha soffrire, mi chiedo dormicchiandonel pomeriggio agostano – io che non soffroeterizzato da paracetamolo –e come in sogno ricordo quei diagrammidi flusso, organigrammi, funzionigrammi;ci sarà una ragione se in duemilaecinquecentone ricavano salario e pensione:come vivrebbero, senza l’ospedale?

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Trovata una ragione per definirmi utentee cliente di me stesso e del povero salarioa mezzo tempo che ne ricavo, m’addormentolascio che il dolore si redima in concretaprospettiva economica di salari e onorari- c’è nulla da fare, ogni senso, ogni nessoche tenti un volo oltre l’economicofa solo un balzo, impenna e poi si schianta. Il tempo è vecchio – me ne sono accortoall’esordio dell’uso di ragione – è un sospirodi pietra che raggela i polmoni,il guscio d’un acino svuotato. Il tempoè il mio dito irritato e già morto in vitache non vuole dissolversi ma non si risolvea questa effimera identità dell’essereindefinito sintagma da plasmare.

Eppure ci sentiamo fortunatinoi pubblici impiegati nell’intimodei pensieri più segreti: pur se alienatiabbiamo il privilegio di un lavorosicuro nella ferrea prospettivadel diritto, vagamente weberiana- così pensano i sociologi che indaganosignificati che non troveranno mai.

C’è uno specchio d’ombra nello spedalecon tre grandi pini, un busto ricordo,una fontanella e la madonninadi Lourdes che prega rapita – “spianeremo– diceva il direttore – ci sarà un padiglioneper tutti i servizi non esternalizzati”.Sul volto di Maria c’è un dolore,- sono perplessi anche gli impiegati.

La dirigenza qui è migratoriasi ferma un anno o due a covareun passaggio di grado, poi s’involavia senza neppure salutarenon lo conosco ancora il direttore

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angelo solerte, fedele esecutoredi coloro che vogliono ciò che non sanno- a suo modo è un asceta e a nostro danno.

Fra i colleghi c’è chi sgòmita per svolgerequesta o quella mansione – ma non sannoche il tempo divorerà ogni scrivania,triturerà le seggiole, divellerà finestree serramenti che pure sopravvivonoa più generazioni d’impiegati:figuriamoci le carte, i faldoni, i filessepolti nei back up centralizzati...

Accetta la tua regula impiegatomoderno asceta del fare e disfarerisolutore di problemi inesistentisacerdote degli archivi e dei màceri:in questa grande scatola della curaper ogni corpo risanato un’animas’annienta e si danna nel caso clinico- che è devianza di madre natura.

Nella betoniera dei dati statisticiconfluiscono visceri e cervellail software veloce elabora tabellecasistiche, incrementi decrementie forse anche il mio dito sposta di una virgolail decimale d’una percentualema il dolore delle vite realinon è iscritto ad alcun capitolo.

Il mio sogno d’impiegato è crearequalcosa dal nulla che permangaper un poco soltanto nel tempo – una cifraun diagramma, una pagina elettronicache sia utile – ma il giornoscaccia il giorno in un’antitesidi resurrezione e morte, in una sintesiche viene all’essere essendo già nel nulla.

Bisogna risparmiare sulle garze, sui tamponi

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faringei, persino sui cerotti e sui cateteri,ma intanto si appalta quattro paginein accatiemmerre per migliaia di euri;“lei ha una qualifica troppo miserevoleper quello che sa fare – mi vien detto –si elevi un poco, faccia un bel concorso”- per imparare quello che non serve.

Dopo quindici anni di immobile carrieraprovo a arrabattarmi fra quiz e crocetteda porre qua e là a caso – tanto il sensodelle domande è così ambiguo,come d’altra parte è ambigua per naturaogni domanda -. La mia sudata laurea,la mia poesia stessa vacillano al giudiziosenza appello o paratattiche verbali.

Io per natura sono introverso ma rispettoil valore di chi vale, rispetto il saperepur così dissimile al mio e pregno di certezzescientifiche; ma mi sento poi delusodal presunto sapere così ben pagatosul mercato della sanità ufficialeritiro il mio rispetto, mi sento gabbatoda una scienza inutile e spesa così male.

Quello che conta è capire l’ingranaggioficcarsi dentro fra dentello e dentellotrovarsi un lòculo fin che si sfarinanol’ossa e arrivi alla pensioneè tutto qui nella Pubblica Amministrazioneil senso, non altro: non chiedere ragionedi misteri già chiariti e sempre fittivinci il concorso, entri e ne esci sfatto.

Lasciatemi sostare, voi tutti che corretesul ciglio del sentiero, a meditare,lasciate che si spenga la mia setecon un sorso d’acqua, la mia famecon una bacca rossa avvelenata:sono stanco di rincorrere la sabbia

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della clessidra, di sciupare la giornatapencolando fra l’incerto e il dubbio.

Lasciate la speranza o voi ch’entratein queste penombre, salite queste scaleper sanare il corpo malato:non sta nel corpo l’origine del malema nello spirito e nell’angusta topaiadei pensieri quotidiani: all’arial’anima, al vento come un aquilonelegato alla mano d’un ragazzino.

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Lettera dal vuoto

Ti scrivo un biglietto per posta elettronica,ma poi cosa resta del nostro dialogorubato, senza corpo e senza voce,al caos informe dei fili del telefono?Già cambia la tua pelle come il ramarroa primavera, gia vedo la setadel tuo bel viso tingersi di letterescure, di segni indecifrabili...

Poter viaggiare nel prima e nel doposenza che nulla accada, muoverestando fermi grattare il cielo ruvidodell’inverno con sorriso di piumapiombare come barbari a cavallonell’infinitesimo mondo che rinseccaall’estremità della galassia – lui che esistenon sapendo d’essere o sapendolo, forse...

Era un’altra vita quando ti amavoera il tempo d’un altro ch’è volatoin un altro tempo. Il resoconto esistedi questo amore in deviazioni minimedei passi, nel gesto come trattenutoin una lievissima dimenticanzacome se un altro da un’altra esistenzadicesse qualcosa che non ho mai saputo.

Mi sazio di quest’aria pura e la risputobruciando il premio di una sigarettadopo la salita su per l’oro della vetta

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nel tiepido novembre: si staglia nel cupomerlato delle rocce il vuoto del silenzio,il vuoto che cerco per svuotarmi dentro- ne scruto l’assenza, calmo, senza fretta,rassicurato dal fumo della sigaretta.

Ci sono armenti, che brucano quel pocoche il novembre lascia alla montagna e un laghettoghiacciato nell’azzurro – occhio del nientevolto al cielo, lo vedi dall’alto del monte -sprofonda nel suo sonno e si fa immobile.Viene l’inverno nell’alito del ventomi taglia dentro, mi fruga come l’erbasecca, tradisce all’oro questo mio niente.

Sono dispersonell’universoproteso in bilicosu immensi abissimi trattiene un sogno che viene dal fondod’una gola bagnata dall’ultimo solevorrei disciogliermi nel vento ma il mondomi insegue, m’ingabbia, m’invana nei sogni.

A volte mi muovo come in un deliriofra paesaggi che più non riconosco,mi porto a fatica, mi districo a stentonel rovo di volti che mi corrispondonoforse - o forse mi osservano con meravigliamorto che cammina fra i vivi nella vegliaperenne dell’eterno, per errore,vagolando da un’altra dimensione.

Il sentiero che salgo viene dal passato;altri occhi amarono questo acciottolatoche tu amavi - che s’addentra discretonel silenzio di abeti e si perde nel vuotodel cielo –e qui videro gli ultimi colori(qui morì nel giugno del quarantaquattroucciso dai barbari fascisti un partigianopastore), e abitano ancora la montagna.

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Cammino sulla china nell’alito di fiatiantichi, di umili fatiche contadine;ne riconosco le vestigia nelle pietreordinate, nei muri silenziosiche nereggiano ancora nella brina,in certi segni incisi su porte e travaturedivelte dalla neve – sembrano carezzesapienza antica d’umili certezze.

Visto da quassù il mondo non esisteè solo il guizzo di un dubbio cartesianoquesto è l’immenso che origina la vitaangusta che pure viviamoseriosamente occupati a divenirepur emulando l’eterno, a gridareil nostro Io alla volta del cieloche indifferente dorme nel suo nero.

Energia pulita e colate di cementodighe e canali e stupore di stambecchicogitabondi per questi dirupicon la grazia lenta dell’eternitàritorno all’industria che brucia la neveper arrivare all’appuntamento col progressocon l’energia pulita che fora anche la nottecolata dopo colata fino alle stelle.

Vorrei morire addormentato sotto un massoperché la vita è più lieve di un soffiodi vento e mentre passa è già altrove nel nientee tutto da dove veniamovorrei starmene per sempre sulle altureascoltare la neve levitare nell’invernol’urlo ferito della tormentache ci rammenta la voce dell’eterno.

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Labile ragione

La ragione ha giusti pesi e misureindaga il mondo con spirito criticolo definisce in proposizioni logichelo costringe nello spazio del pensieronoetico; la ragione si nutredi se stessa, si divora, si ricreasi bea nella certezza dell’ideache un giorno troverà quel che le sfugge.

Dice che la scienza è ragione liberatadall’opprimente tutela di Dio,dalle istanze irrazionali dell’Io,dalle fantasie, dai desiderata,la scienza è pura e fa quel che gli pareindaga quel che vuole indagarema lo scienziato che deve pur mangiareindaga solo verità ben finanziate.

Nella foresta tropicale sudamericanaci sono piante – mi diceva un’amica –che contengono principi attiviche curano i nostri cani e i natividi quei paesi. La scienza ne ha fattomedicina per i cani. I primitividi quei luoghi sorridono e non sannoche vivere da cani da noi è più umano.

Sosteniamo il progresso con l’energia elettrica,che non inquina - recita un adagio ragionevolein bocca a imprenditori e a politici

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di destra e di sinistra -. Io spregevoleveteroluddista prosciugherei tutte le dighespegnerei il carnevale delle luci di Milanofarei pagare a loro di prima manole frane, il groviglio di fili che ci uccide.

Sono venuti negli anni settanta a cercare uraniogeologi, ingegneri, sacerdotidelle magnifiche sorti e progressive.A noi mostravano diapositivedi lucenti minerali verdi e gialli“non c’è pericolo tutto è sotto controllo”dicevano. E il buon selvaggio annuivaperché il progresso non è poi così cattivo...

Il progresso è buono e la scienza non è malesi sostengono a vicenda per il nostro benesolerti e discreti, per alleviare le penee renderci felici ad ogni costo. Lascia farea loro non ergerti a giudice, non sputarenel piatto generoso della provvidenza- che ci ha dato la tecnologia e la scienzaper risparmiarci la fatica di pensare.

Non chiederti perché il tempo e le stagionisiano impazzite: neppure la scienzalo sa: ci sono diverse opinionicalcoli che avvalorano ipotesi in contrastobisogna avere il tempo per teorie certeoltre ogni ragionevole dubbiotiriamo avanti finché dura la venturacostruiremo un’arca per il tempo del diluvio.

Togliete le zampe da lavoro e produzionedisfattisti che predicate l’ultimo giornodell’umanità: il lavoro è sacro e ci nobilitaci rende liberi di consumare e divertircidi incoronarci come i nostri padridi rose antequam marcescant, piaceriche danno sale all’esistenza - poi che il sensodella vita è sconfiggere la noia.

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Ammira la scienza che in vesti tecnologicheinfligge danni e procura i rimediin un fare e disfare che chiama progressoal costo d’innumerevoli stermini- di alberi, animali, uomini, risorseminerali sprecate nella follecorsa al benessere di pochia loro modo profeti di un’idea.

Lo so, sono un mediocre uomo di poesia,lavoro poco e un giorno non lontanovivrò di elemosina sociale;m’ingegno poco e malead emergere, a conseguire il sennodell’uomo maturo – scavarsinel tempo una nicchia proiettarsi nel futurobruciarsi e godere per vincere il terrore.

Terrore della morte, terrore della vitaovunque il nemico spia e tramaovunque il terrore induce alla bramadi eserciti e potere, balbetta smarritala ragione il credo della bestia braccatadigrigna i denti, affila gli artigli e ruggiscedi terrore pronta a distruggere il creatoper mille volte secondo ragione.

E’ la ragionevolezza che ci fa accettareil tabù supremo del libero mercato:il ricco rapina, il povero tace e imparaa subire senza troppo chiasso, a schiattareprima dei quarant’anni e noi nel mezzobeneficiati, emancipati e razionalici diamo da fare a organizzare campagned’aiuto, adottare bambini, costruire ospedali...

Ci siamo immersi nei nostri rifiutie lo chiamiamo stile di vitaavveleniamo l’acqua e l’ariama ci nutriamo di cibi raffinatiabbiamo potenti sistemi di pensiero

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una scienza che fruga gli estremiconfini dell’universo - ma non sapremomai più cogliere la grazia dell’aurora.

Ci fu dato un corpo, membra per amarevolti per sorridere e la grazia animaleche si muove innocente nel mondoe l’universo intero per gioire.In tanta grazia non leggemmo che menzognein Dio proiettammo la nostra scissionee ricreammo il creato a nostra immagineche sempre più somiglia al volto della morte.

E la ragione va dimentica del mondoverso l’ignoto a guadagnare traguardid’onnipotenza, e non la coglie un dubbiopur esile che la riporti all’immanenzadi se stessa parte del tutto, fragile creaturariunita al suo corpo che diviene, in bilicofra felicità e angoscia – ragionepromessa disattesa dell’origine.

Ci rimane un corpo prigioneil desiderio inappagabile, la famedi cose che nessuna cosa saziae questa voglia di morte che trasudadalle parole, dal furore delle immagini,nel frastuono di voci che non tacciono mai;i giorni sono immensi deserti da passarepopolati da disgrazie da evitare...Una pazzia razionale

Non si scompone il sereno del cieloper chi viene smembrato dalle minené per il prossimo cadavere che attraversain quest’attimo quel che resta d’una viasolo il reporter occidentale trova ancoraun senso a questo lento divenire- noi non proviamo più quel vuoto, quel terroreche nei nostri occhi crede di vedere.

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Non sono poi così diverse nell’antinomiamorte vita guerra e pace: morire è la sortecerta, c’è solo un ritocco di percentualiin guerra, per noi che non siamo assoldatiper difendere la democrazia; al gioconon giochiamo ma siamo giocatinostro malgrado per deflagrareincresciosi effetti collaterali.

Non fa nessuna differenza saltare in ariasu una bomba inesplosa nel cortile di casao farsi saltare in un bar del centrola morte quieta sempre i morsi d’ogni domanda.Non parlarmi di Dio e di un mondo migliorecerto non di politica – la grande ipocrisiache maschera le trame, la cagna dei ricchiche sbava all’odore del guadagno.

Il toro celeste è tornatosoffiando fuoco dalle naricisulle mura di Ur fioriscono i cadaveriEnkidu freme d’impotenza nelle tenebrela nostra memoria è smembrataspazzata via la nostra storianella piena dell’Eufratel’umanità ha perduto la sua origine.

Credevate d’essere immuni, voi occidentali,dalla barbarie dei nazisti sanguinari, in nomedei grandi valori universali siete venutie non vediamo che rapine, omicidi e torture,e non guardate negli occhi le vostre vittimecome fa il macellaio dei vostri maialidal cielo ci falciate da fortezze irraggiungibilie allora non ci resta che lottare.

Non c’è più lotta per il bene e per il malel’innocenza dei poveri è corrotta,i nostri figli sono nati alla mortecercano la morte ancor prima di amare.Grande è la vostra democrazia, uomini

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d’America e d’Europa: ma a casa nostraè soltanto un espediente militareper mascherare i vostri sporchi affari.

La storia lo dice: i vostri liberi governida sempre sono incubatoi di tiranni- ah, certo per l’altra gente, non per la vostraperché vi considerate quasi un’altra castaprivilegiata su tutti gli altri popoli... – centomille psicopatici avete costruitoper foraggiare le vostre economie,forti in virtù della democrazia.

Cento pesi e cento misuread ogni misura cento uomini appesicento ragioni per ogni ragione sulla carta- e noi stracci sotto i colpi del maglio -con un candore infame i vostri pretibenedicono gli eserciti, il vostro diovi consente di ammazzare legalmenteper guadagnarvi un ruolo fra la vostra gente.

Andate via, tornate ai vostri luoghi barbariogni pace ormai è stata infrantanon c’è più pace per i poveri, urlanogli sciacalli che avete partoritonei vostri sogni guasti, imperversanole jene che avete liberato ci sono addossoogni notte ridendo, né sappiamodifenderci da cosa e perché.

Continueremo a saltare sulle minea crepare nelle stragi fino a quandosi stancheranno anche le jene e gli sciacallie commenterete con sfrontata meraviglia;i nostri morti saranno argomenti leziosiper le vostre campagne elettorali, per la vostrapietà non richiesta, la carità odiosadegli aiuti umanitari – aiuti ai vostri affari.

Continueremo a morire nel silenzio

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dei vostri giornali e voi irraggiungibiliintrappolati nelle vostra grande festaa interrogarvi se il mondo vi odicontinuerete a costruire nuovi ordigniper difendere ambigue libertàsempre più blindate nell’acciaiodei carri armati, nei campi di tortura.

E’ sin troppo facile prevedereche trascinerete il mondo alla rovinache ne farete una riarsa pattumieradi veleni, un campo minato nel qualesarà cancellata ogni pagina di storiain un eterno presente senza futurovivendo l’attimo come a sfidareil niente del senso e della ragione.

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Piccolo compendio di semantica

Sbudellare è un verbo improponibilenell’estetica del verso occidentalenon si sbudella neppure il maialed’inverno, lo si abbatte con il bottolieve d’un ordigno ad aria compressa:il fortunato maiale non se ne accorgeneppure, ti guarda come da un sognoun lieve squittire e si distende in pace.

Non si sbudella neppure i nemicinon vedi teste mozze toraci squarciatil’epico scannare dell’Iliade, non vediche un lieve sbuffo lontano, dall’altonel filmato di servizio, non sentiurla o lamenti: l’estetica è salvail bersaglio centrato con intelligenzaselettiva – e precisione omicida.

Non esiste assassinio nel gergo militaresoltanto abbattere il nemico, annichilirlo- in una sorta di cinismo minimaleche cede alla battuta grossa - ammorbidirlocon l’artiglieria e dall’alto osservarese fra i mille effetti collateraliun vero obiettivo sia colto dal proiettileintelligente guidato dalle macchine.

Non esiste ammazzare, e neppure rubarese c’è la guerra, è tutto regolaresancito dal diritto internazionale:

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la strage è soltanto distrazionemancanza d’esatte informazionil’intoppo imprevisto al meccanismodecrepito dell’etica militare- pia illusione del collettivo immaginario.

Chi fa la guerra è sempre per difesanessuno attacca, tutti sono attaccatila guerra è un gioco semoventesi innesca a tempo, imprevedibilmentepreventivamente per salvare i valorii grandi ideali della democraziala guerra ci salva dalla carestiacrea altri spazi, procura nuovi affari.

Il poeta italiano ignora la guerraignora i ladri e gli assassinifrequenta una semantica ristrettache non prevede il verbo sbudellarepratica l’ascesi dei sospiri e dei tramontisi lagna della sua infelicità, della sortedi una poesia sempre più lontana- cuore dolore anima e ciarpame.

Il poeta italiano mira al premio letterarioda inserire nel curriculum da inviare al criticoe citare in quarta di copertina: incoronatopoeta da cinquecento euro summa cum laudepunta all’immortalità nella letteratura- che c’entrano le guerre, le ruberiegli sbudellamenti che consentonoun così grande obiettivo per la vita?

E’ dunque cosa complicata il poetareed esclude sora nostra morte corporaledai canoni, se non come terroreda proiettare da sé lontani nel limbodi un linguaggio che non si può usarein poesia, cosa da cronisti e telegiornali- costretti al silenzio dai comandi militariquando la realtà non coincide con l’estetica.

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(Della poesia salverei soltanto il verso- e tutto il resto darei in pasto ai maialiricacciando nella penna quel che ho scritto -il verso semplice a ritmo di polmoneche nasce da un’ansia di comunicazioneun verso per l’uomo, non per l’esteticaalieno da vezzi e manie di perfezionerefrattario al cliché della pubblicazione).

Intanto i poveri crepano inceneriti come insettisenza che un poeta li canti, sbiancano nel fosfororidotti a vuoti gusci nel vento, tradottiin campi di concentramento, torturatistuprati nel corpo e nella mente – soltantola poesia italiana non ne ha conoscenzaassorbita nel sogno di far letteraturaper il tedio di generazioni future.

Dove mi porterai mia poesia durache vuoi scardinare i costrutti basilaridel vivere civile e politically correct:tu mi procurerai soltanto grattacapiocchiate sospette, veleni, stilettate- perché l’estetica ufficiale è un’armacaricata col cianuro e puntataal cuore d’ogni visione proibita.

Mi porterai lontano dalla luce perché sei di tenebranata da un pensiero che mi opprime quandosorge il desiderio di contemplare la bellezza,la felicità del mondo, lo splendore del creato,in questo Auschwitz perenne che soffoca i pensierie ci proietta in un mondo parallelo di tragediache non può cantare - neppure potremmo ascoltarloassordati dal nulla eterno in sottofondo.

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Dialogo col Doktor Adler (epilogo)

La sua poesia aggredisce ma non uccidedirei a spanne che ha fallito il suo compito- ne conviene? – ha rovinato il suo umoreha spruzzato veleno, indisposto il lettoreoltraggiato la maestà delle istituzionisenza ragione alcuna che sia chiaraesauriente, lei insulta la scienzae la ragione: lei è proprio un coglione

suicida anomico, perdente in viadi totale perdizione. Lei ha bisognodi riscattarsi e vincere per superarequel senso d’inferiorità che la comprimein una visione distorta della realtàfra burn-out e paranoia, isteriae irragionevole sindrome da utopiache le impedisce la visione della verità

Tenerezza, altruismo, amicizia, amoresono le chiavi di volta della convivenza:lei le ripudia tutte, fomenta intolleranzaincita al disprezzo, si sente portatoredi una frigida giustizia interplanetariada inferiore vuole dominarecon arroganza e ressentiment niccianoe intanto la vita le sfugge di mano.

Di sotto in su osservo il professoreveramente scazzato da fare paura:ce l’ha con me, anche se è solo un sogno

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ma nel sogno mi sfugge questo particolare;me ne sto in silenzio, aspetto che si calmirientri nella sua dignità professorale- preoccupato che la prova del mio deliriosia questo dialogo che sta venendo male.

Vede: ha scritto quasi ottocento versie in nessuno trovo la parola “amore”- a parte la precedente citazionedei principali assunti della mia psicologia –lei addita i mostri perché non trova al mondobellezza alcuna, non sente l’eros vibrarenel creato, non sa volere quel che vuole,volerlo davvero, al di là del desiderio.

Considera una cagna la politicaassassini i militari di carrierala guerra una faccenda di maialiscannati per via come fosse uno spassopremere il grilletto, non un pesoenorme da sopportare per il vantaggiocollettivo, lei non è punto saggio:la morte è - si sa - un accidente della vita...

Ignoro se queste siano parolesacrosante sue o soltanto il mio delirioche si avvita su se stesso e s’inabissanei meandri più foschi dell’incosciovorrei rispondere ma non so cosa direnon ne capisco molto di psicologiao psichiatria: mi fermo all’anamnesiall’historya: se mi va scrivo - e così sia.

Il segreto del poeta vincente – dia ascoltoal mio consiglio – è vedere la bellezzadove altri non la vedono, spargere amoree sentimento giocando per il sottilesul filo delle emozioni, forbire la lingua,che suoni, che schiocchi e s’innalzial di sopra del tedio oggidiano: il poetasa creare mondi nuovi chiavi in mano.

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Mi guarda intensamente, accigliatodietro i cerchi d’osso degli occhialiaspetta una risposta, una confermail raschiamento del barile, la disfattadella mia assurda pervicacia – ma taccionon so che dire, non sono allenatoa rispondere se non rifletto a lungo:mi comporto da poeta maleducato.

Potrei simulare un malinteso ed evitarela filippica del Doktor Adler, scusarmi,dire che non è farina del mio saccoio non so scrivere, non so pensare,sono anche un po’ miope e afflitto da sciatica,quelle cose le ho trascritte da siti Internetcosì, per passare il tempo – tanto il guadagnonon è diverso da poeta a perdigiorno.

Mi accorgo che nel sogno comincio a divagaredivento una bolla di sapone o massa informeche comincia pian piano a levitareed osserva dall’alto l’assetto verticaledi tutte le cose, dai libri nel soggiornoal quadri del salotto e poi fuori:tutto è verticale, gli alberi, le case- la guerra è orizzontale: è vero: non esiste.

Rientro dunque nella normalità socialedi tenerezza, altruismo, amicizia, amore,mi sento meglio, ho quasi le traveggolevedo la poesia lontano fluttuarecome una nube rosa che appare nel mattinodi un giorno di festa, non mi restache cantare a squarciagola con fervorela mia normalità e il pericolo scampato.

Tutto questo invero ha i suoi vantaggiritrovo un codice sociale condivisoormai dimenticato, ritrovo amicipoeti coi quali un tempo ho litigato,

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facciamo pace, beviamo una birraanche se non mi piace, mi sento magnanimoe tollerante verso la letteraturatirem innanz, - che è già abbastanza dura...

Parteciperò ai premi letterariraccomandato alla giuria dagli amicidegli amici – una fitta ragnatela -sarò incoronato poeta, citatonelle riviste di letteraturae punterò a sconfiggere la mortescrivendo libri e pagando per editarecoi soldi dei premi letterari.

Mi sento bene, Doktor Adler oraanche lei se ne può andare dal sognolasciarmi sguazzare in questa dimensionealmeno fin che non spunti il giornoe la radiosveglia mi reciti notizieriportandomi a visioni da ripudiare- ma questo è facile: giro la manopolaascolto canzonette e la verità riappare.