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Copyright© Esselibri S.p.A. L'analisi del testo 61 Giosue Carducci, Pianto antico L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior, nel muto orto solingo 5 rinverdì tutto or ora e giugno lo ristora di luce e di calor. Tu fior della mia pianta percossa e inaridita, 10 tu de l’inutil vita estremo unico fior, sei nella terra fredda, sei nella terra negra; né il sol più ti rallegra 15 né ti risveglia amor. Di fronte al dolore per la morte del proprio bambino non ci sono più pa- role, c’è solo il pianto, la manifestazione, cioè, più individuale e intima, na- scosta, di una sofferenza altrimenti inesprimibile. Ed allo stesso tempo è un pianto antico, universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi, capace di esternare in quattro quartine di settenari (verso breve e, qui, icasti- co, dal ritmo particolarmente franto e singhiozzante) un sentimento privato e inaccessibile, legato ad un evento e ad un momento particolari, ma insieme estendibile al passato — anche attraverso una densa filigrana di rimandi te- stuali e concettuali alla poesia classica, e in particolare al lirico greco Mosco — e al futuro, nel momento in cui questo Pianto antico si fa emblema della condizione esistenziale dell’uomo. Le quattro strofette di quest’ode anacreontica, all’apparenza semplici e dall’andamento piano, quasi cantilenante (una rima baciata all’interno di ognu- na di esse, tra il secondo e il terzo verso, e una rima finale che le collega tutte nell’ultimo verso, sempre tronco), nascondono, anche a livello metrico, una struttura complessa e ricca di richiami interni. Il ritmo si sviluppa dalla prima all’ultima strofa in un crescendo di dram- maticità, rendendosi man mano più asciutto, franto, spezzato dall’allitterazio- ne della lettera r e da suoni duri e aspri. Parallelamente lo stile volge ver- so una perentorietà che si fa lapidaria, al punto che l’ultima quartina è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche e nella rigidità icastica del costrutto.

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Giosue Carducci, Pianto antico

L’albero a cui tendevila pargoletta mano,il verde melogranoda’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo 5rinverdì tutto or orae giugno lo ristoradi luce e di calor.

Tu fior della mia piantapercossa e inaridita, 10tu de l’inutil vitaestremo unico fior,

sei nella terra fredda,sei nella terra negra;né il sol più ti rallegra 15né ti risveglia amor.

Di fronte al dolore per la morte del proprio bambino non ci sono più pa-role, c’è solo il pianto, la manifestazione, cioè, più individuale e intima, na-scosta, di una sofferenza altrimenti inesprimibile. Ed allo stesso tempo è un pianto antico, universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi, capace di esternare in quattro quartine di settenari (verso breve e, qui, icasti-co, dal ritmo particolarmente franto e singhiozzante) un sentimento privato e inaccessibile, legato ad un evento e ad un momento particolari, ma insieme estendibile al passato — anche attraverso una densa filigrana di rimandi te-stuali e concettuali alla poesia classica, e in particolare al lirico greco Mosco — e al futuro, nel momento in cui questo Pianto antico si fa emblema della condizione esistenziale dell’uomo.

Le quattro strofette di quest’ode anacreontica, all’apparenza semplici e dall’andamento piano, quasi cantilenante (una rima baciata all’interno di ognu-na di esse, tra il secondo e il terzo verso, e una rima finale che le collega tutte nell’ultimo verso, sempre tronco), nascondono, anche a livello metrico, una struttura complessa e ricca di richiami interni.

Il ritmo si sviluppa dalla prima all’ultima strofa in un crescendo di dram-maticità, rendendosi man mano più asciutto, franto, spezzato dall’allitterazio-ne della lettera r e da suoni duri e aspri. Parallelamente lo stile volge ver-so una perentorietà che si fa lapidaria, al punto che l’ultima quartina è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche e nella rigidità icastica del costrutto.

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Alla perfetta corrispondenza tra livello fonico, timbrico e ritmico (secon-do il principio di equivalenza postulato da Roman Jakobson) fa riscontro un campo semantico che si sviluppa in modo parallelo alla struttura lessi-cale. Le prime due quartine, infatti, enucleano il concetto, potremmo dire, panteistico del perpetuo rinascere, del «rinverdire» della vita, in un ciclico ritorno di colore, odori, luce, calore e sono dominate da un ritmo disteso, piano, in una struttura salda e precisa che viene geometricamente e altret-tanto precisamente ribaltata, letta quasi in uno specchio, nelle due quarti-ne conclusive.

La continua rinascita e l’avvicendamento naturale e ciclico di vita e di mor-te che avviene sulla terra si riflette specularmente nella fine definitiva e irre-vocabile di un evento unico e irripetibile che nessun’altra estate potrà resu-scitare alla vita.

In questa prospettiva rovesciata, dunque, ciò che prima si svolgeva sopra la terra lascia il posto a ciò che per sempre sarà racchiuso sotto la terra, den-tro di essa, e quello che a livello temporale ritornerà sempre si scontra con quello che non si ripeterà mai. Il parallelismo semantico inoltre è sagomato su quello sintattico. Entrambe le coppie di quartine, infatti, hanno il soggetto posto in evidenza in principio di verso con funzione enfatica di parola chia-ve (l’albero…/tu…) e il verbo nella quartina successiva (rinverdì…/ sei…), evidenziando anche a livello grammaticale quello che si potrebbe definire un «chiasmo semantico», per cui alle parole albero e fior della prima strofa corri-spondono tu fior e mia pianta nella terza. Qui si sviluppa, anche grazie alla forte funzione conativa del tu a inizio verso e alla funzione emotiva del pos-sessivo mia, la metafora che è alla base dell’intera lirica, tra l’albero-natura, che si rinnova, e l’albero-uomo (il poeta) ormai sfiorito e privo di vita.

Nell’ultima quartina, infine, all’iniziale tendevi, verbo di movimento e di conato, è contrapposto, e raddoppiato, il verbo sei, segno di assoluta e irre-vocabile staticità. Il ritmo si fa discendente e pone in risalto la cupa aggettiva-zione posta in fine di verso (…fredda/…negra), fino a raggiungere, nei due versi finali, una definizione di morte che il poeta riesce a descrivere solo in via negationis (né…/né…), ovvero per sottrazione di tutti quegli elementi vi-tali così fortemente sottolineati in principio: sottrazione di calore, di luce, di gioia, di amore. E qui, dove la morte può essere definita solo come non-vita, il pianto antico si fa rimpianto presente.

Questa breve lirica, legata alla scomparsa del piccolo Dante (avvenuta nel giugno del 1871), unico figlio maschio oltre alle due bambine, Bea trice e Lau-ra, di Carducci, e inserita nella raccolta Rime Nuove (1887), ci dà l’esatta per-cezione del periodo storico e degli sviluppi della poetica dell’autore.

Il componimento si colloca, infatti, in quella fase che segna per Carducci il passaggio da poeta artiere a poeta artista che, abbandonato lo strale polemi-

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co-satirico di Giambi ed Epodi e la foga giacobina e libertaria della fase «sata-nica», si concentra su temi più intimi e privati, affrontando appunto il proble-ma del dolore, della morte, della memoria e della nostalgia con un atteggia-mento di virile accettazione del destino, lontano sia da tentazioni nichilistiche e autodistruttive, che da prospettive consolatorie di marca spirituale-cristiana, ma sempre confortato dalla lezione della poesia classica.

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il lavoro minorile

Il fenomeno dei bambini che lavorano è molto esteso nel sud Italia, come in tutte le zone povere del mondo: una forma di sfruttamento che va a colpire la categoria più debole e spesso meno protetta.

Documenti

• I diritti dell’infanzia

«Gli Stati riconoscono il diritto di ogni bambino ad essere protetto contro lo sfruttamen-to economico e a non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscetti-bile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale […]»

Fonte: Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, art. 32

• Lo sfruttamento dei minori

Dice bene la Conferenza di Oslo: «Lo sfruttamento infantile è al tempo stesso causa e con-seguenza della povertà». Spiega il sociologo pakistano Nazar Ali Salal: «è un problema che si morde la coda. Più una popolazione è povera e più ha tendenza ad avere molti figli e a rimanere analfabeta in quanto i bambini non vanno a scuola ma piuttosto al lavoro per aiutare il bilancio familiare. E più una popolazione è analfabeta più rimane nel sottosvi-luppo, quindi nella povertà».Non s’è mai visto un bambino benestante lavorare: l’intreccio fra povertà della famiglia e lavoro dei bambini è evidente, come la necessità di dare alle famiglie i mezzi per non far lavorare i bambini senza per questo morire di fame.La Coalizione Sud-Asiatica contro la Schiavitù Infantile sostiene che il lavoro dipendente dei bambini – manodopera a buon mercato, remissiva e vulnerabile – è anche causa, e non solo conseguenza, di povertà sociale e individuale.Insomma: non bisogna aspettare la fine della povertà per togliere i bambini almeno da quei lavori che ne pregiudicano la crescita fisica e intellettiva.

Fonte: Marinella Correggia, Mariarosa Cutillo, Matteo Chiari, Povertà: una spirale da rompere, Mani Tese, Milano 2001

I baby-lavoratori sono migliaia in Italia, soprattutto in quella meridiona-le, dove esiste ancora una correlazione tra lavoro minorile e livello di red-dito della famiglia (il minore lavora perché la famiglia è povera) e tra lavo-ro minorile ed evasione scolastica (il minore lavora e quindi non va a scuo-la). Questi ragazzini fanno i lavori più disparati: garzoni, camerieri, impiegati nei supermercati, privi ovviamente di un permesso di lavoro e pagati pochis-simo, baby-operai in «laboratori dell’imitazione», dove si producono copie di capi o accessori di marche famose. Per non parlare dei cosiddetti «muschil-li», cioè «moscerini», termine con cui ci si riferisce ai bambini che la camorra

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sfrutta come corrieri per le sue attività criminose. Le ragioni per cui la mala-vita organizzata sceglie i bambini sono principalmente due: il minore per la legge italiana non è punibile ed il reclutamento dei minori, inoltre, alimenta le organizzazione malavitose e le tiene in vita, dandole nuove risorse. L’igno-ranza e la povertà: sono queste probabilmente le ragioni che spingono i ge-nitori di questi bambini a «vendere» i propri figli ai boss malavitosi, negando-gli una vita normale, fatta di giochi ed educazione. Ma emerge anche un’al-tra ipotesi, preoccupante, che deve far riflettere: il desiderio di molti bambi-ni di sentirsi grandi emulando gli aspetti più negativi dei comportamenti de-gli adulti. Il bambino si sente importante, in quanto messo alla prova e inse-rito in un gruppo che gli riconosce il coraggio e la capacità di assumersi ri-schi. Inoltre il minore acquisisce uno status di indipendenza economica e la possibilità di comprare e possedere ciò che vuole. In una società in cui conta così tanto il denaro, in cui ai valori tradizionali sono subentrati quelli consu-mistici, la possibilità di fare molti soldi senza fatica è vista da questi bambini come un’opportunità e questa forma di devianza diventa, agli occhi del mi-nore, un vero e proprio lavoro. Sicuramente differente, ma non più felice, la giornata dei piccoli contadini costretti ad alzarsi all’alba per aiutare i genito-ri nei campi o ancora dei bambini che alla fine dell’orario scolastico, nel po-meriggio, raggiungono la mamma al mercato per aiutarla a vendere le mer-canzie. È chiaro che il meridione è relativamente più esposto al problema del lavoro minorile, perché le famiglie del Sud sono ancora le più povere in Ita-lia. Ma, da un’indagine della Cgil, risulta che al nord-est le famiglie non rico-noscono alla scuola alcun ruolo positivo, tendono a far completare ai figli gli studi obbligatori e contemporaneamente li fanno lavorare. Ma dopo la terza media ritirano i bambini dalla scuola.

All’interno della categoria del lavoro minorile ci sono, dunque, situazio-ni molto diverse che vanno da forme di lavoro assolutamente sfruttato, nella più chiara e più forte violazione dei diritti umani, a tipologie di dipendenza familiare, in cui il bambino lavora per pagare debiti contratti dalla famiglia, a casi ancora più gravi che non si possono neanche definire lavori ma veri e propri reati, come la prostituzione infantile e la baby-criminalità. Fino a rag-giungere altre situazioni in cui il bambino lavora in un ambiente, quello fa-miliare di solito, in cui per cultura e per tradizione un certo tipo di lavoro è sempre stato considerato normale.

Le forme più gravi di autentico sfruttamento del lavoro minorile su tutto il territorio nazionale riguardano inoltre le comunità immigrate, che per motivi legati a una diversità culturale oltre che a una reale indigenza sono maggior-mente esposte a questo rischio. È questo il caso dei bambini rom, da sempre avviati sulla strada della microcriminalità, o della comunità marocchina e so-prattutto di quella cinese, incline a far lavorare i figli minorenni in concerie e

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manifatture spesso gestite da connazionali; recenti episodi di cronaca hanno messo in luce l’esistenza di casi di sfruttamento abbastanza pesanti di piccoli cinesi da parte di connazionali con la connivenza e la copertura delle famiglie.

È comunque evidente che i problemi che la presenza in Italia delle diver-se tipologie di lavoro pone sono di diversa rilevanza e di diversa natura; sia pure gradualmente, la fisionomia del lavoro minorile nel nostro paese sta in-fatti cambiando: diminuiscono i casi in cui il ricorso al lavoro ha una motiva-zione di urgenza economica, aumenta la presenza nei lavori più pesanti dei minori stranieri, si accresce il lavoro volontario, in cui il bisogno economico non è la molla principale ma il minore lavora per elevare il suo status, per ac-quisire beni di consumo.

Questo non significa che le forme più gravi ed estreme di sfruttamen-to del lavoro minorile siano scomparse; in alcune regioni italiane rimangono endemiche le forme più intollerabili e gravi di occupazione minorile. In al-cune aree del Mezzogiorno, per esempio, è frequente il ricorso al lavoro mi-norile clandestino nelle piccole imprese tessili. Qui le condizioni ambienta-li e gli effetti negativi sulla salute del minore impiegato spesso in attività fati-cose, pericolose e nocive imporrebbe una recrudescenza delle sanzioni pre-viste dalla Legge italiana.

L’inasprimento delle sanzioni ma soprattutto più efficaci sistemi di con-trollo potrebbero garantire una migliore osservanza della normativa sul la-voro minorile.

Bisognerebbe quindi costruire da parte delle istituzioni delle alternative valide, che aiutino concretamente questi giovani in difficoltà.

Nello stesso tempo, anche la scuola dovrebbe riacquistare la fiducia di ra-gazzi e famiglie, proponendosi come un’alternativa educativa valida, che pos-sa servire per trovare un lavoro migliore in futuro.

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nord e Sud del mondo

TiTolo Il grigio orizzonte del domaniocchiello Lasciare che sia il domani a provvedere alla propria sopravvivenza è la scel-ta che il mondo, crogiolandosi tra dorate illusioni e presunte certezze, ha preferitoTesTaTa pagine di Economia di un settimanale

Si manifesta ancora una volta, mascherata da una falsa inconsapevolezza, l’incoscienza del genere umano: accecato dalla sete di potere e di ricchezza, insuperbito dall’apparente onnipotenza del proprio sapere scientifico e delle proprie realizzazioni tecnologiche, ha finito per considerare la natura come un semplice strumento attraverso cui soddisfare le proprie ambizioni. Così fi-niscono dilapidate risorse preziose, imbevibili le acque, modificati il clima e l’aria: il suo futuro barattato.

In cambio, manciate di denaro che, oltre a soddisfare sul momento la smodata cupidigia, ben poco possono fare per un’umanità che gioca a cor-rere verso il baratro.

Sia che il progresso abbia distolto la loro attenzione dalle questioni ter-rene, sia che un eccessivo autocompiacimento li abbia resi troppo sicuri di sé, “rispettabili pensatori” alimentano l’entusiasmo per una società governata da informatica e telecomunicazioni, fiduciosi nell’indipendenza della specie umana dal mondo naturale. Forse, hanno mal valutato la situazione: si brac-ca un pianeta che non possiede inesauribili risorse; i quattro quinti dell’ener-gia utilizzata provengono dalle centrali termoelettriche, che bruciano petro-lio e carbone, mentre la parte rimanente è data dalle centrali nucleari, oppu-re è ottenuta con fonti rinnovabili (energia idroelettrica, solare, eolica, geo-termica, biomasse).

Data l’avidità con cui il mondo continua a fagocitare la risorse non rin-novabili, sarà possibile utilizzare il petrolio ancora per qualche decennio. E poi? E poi sarà necessario servirsi quasi interamente del carbone, che per il suo carattere altamente inquinante finirebbe per rendere irrespirabi-le l’aria e per acuire i fenomeni di degrado ambientale, quali l’effetto ser-ra e le piogge acide. “È lo scotto prevedibile e, in fondo, meritato, che tut-to il Mondo deve prepararsi a pagare domani, per l’imperdonabile impru-denza di oggi” verrebbe da pensare, immaginando un avvenire avvolto in un’eterna notte di fumo.

Ma non sarà così: il sistema attuale ha prodotto gravi squilibri nel benesse-re sociale; e, infatti, dai suoi benefici sono esclusi circa due miliardi di perso-ne, un terzo della popolazione mondiale, il cosiddetto Sud del Mondo. Perché l’uomo sa creare il progresso e seguirlo con coraggio, ma diventa vile e me-schino allorquando raggiunge una vetta troppo alta: vuole che sia solo per sé.

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Così, si è ancora costretti a parlare di un Nord e un Sud, di un Primo e Terzo Mondo, di percentuali di popolazione che “possiede” e di percentuali di persone (ormai numeri su un grafico, null’altro!), che non hanno nemme-no diritto di desiderare. E le tanto temute conseguenze arriveranno di certo e colpiranno tutti, tanto il Sud del mondo, che si arrangia con meno del 4% di queste energie, tanto il Nord, che beneficia del 58% di queste energie: evi-dentemente necessita di tali risorse per mantenere il proprio (imposto) ruolo-guida dell’economia mondiale. Eppure, l’inevitabile spreco volto a sostene-re la sua opulenza ben poco si accorda con il crescente inquinamento. Som-mando a questi già compromettenti fattori la consapevolezza che l’ingordigia dell’uomo non lascia al Pianeta il tempo necessario per ripristinare i beni sot-tratti, è possibile avvertire vicina la crisi.

Un rovinoso processo è in atto: i progressi della medicina e dell’igiene pubblica hanno permesso una sensibile crescita della popolazione; e, nono-stante le nuove tecniche agrarie si dichiarino capaci di far fronte all’aumento della richiesta di cibo, è naturale che maggiori diventeranno anche i consu-mi. Il che permetterà un ulteriore incremento della popolazione, che avrà bi-sogno di ulteriori risorse. E, poiché sembra che la gravità del problema non sia riconosciuta neanche dagli stessi governi, per i quali l’unica meta degna di essere perseguita è il profitto immediato, il Pianeta è destinato a vedere pro-sciugata ogni sua energia.

Le soluzioni, certo, ci sarebbero. Ma non conviene prodigarsi perché il “do-mani” non sia sommerso dalle scorie dell’osannata era del progresso tecnolo-gico: sarebbe necessario lo sforzo comune, basterebbe ritrovare la più prezio-sa risorsa, dimenticata, snobbata, della quale, certo, non ha mai abusato nes-suno: il coraggio della rinuncia. Che purtroppo appare solo un torbido mirag-gio, su un orizzonte grigio di fumo, di un pianeta malato, popolato da ciechi.

(da F. Salerno, Oltre le cinque W, Napoli, Simone per la scuola, 2006)

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Analisi del testo 2008-2009

Italo Svevo, Prefazione, da La coscienza di Zeno, 1923Edizione: I. Svevo, Romanzi. Parte seconda, Milano 1969, p. 599.

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scu-sarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risul-tati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottrat-to alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di di-videre con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli ripren-da la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potreb-bero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...

Dottor S.

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz (Trieste, 1861 – Motta di Livenza, Treviso, 1928), fece studi commerciali e si impiegò presto in una banca. Nel 1892 pubblicò il suo primo romanzo, Una vita. Risale al 1898 la pubblicazione del se-condo romanzo, Senilità. Nel 1899 Svevo entrò nella azienda del suocero. Nel 1923 pubblicò il romanzo La coscienza di Zeno. Uscirono postumi altri scritti (racconti, commedie, scritti autobiografici, ecc.). Svevo si formò sui classici delle letterature europee. Aperto al pensiero filosofico e scientifico, utilizzò la conoscenza delle teo-rie freudiane nella elaborazione del suo terzo romanzo.

1. Comprensione del testo Dopo una prima lettura, riassumi il contenuto informativo del testo in non più

di dieci righe.

2. Analisi del testo2.1 Quali personaggi entrano in gioco in questo testo? E con quali ruoli?2.2 Quali informazioni circa il paziente si desumono dal testo?2.3 Quale immagine si ricava del Dottor S.?2.4 Il Dottor S. ha indotto il paziente a scrivere la sua autobiografia. Perché?2.5 Rifletti sulle diverse denominazioni del romanzo: “novella” (r. 1), “autobiogra-

fia” (r. 4), “memorie” (r. 9).2.6 Esponi le tue osservazioni in un commento personale di sufficiente ampiezza.

3. Interpretazione complessiva ed approfondimenti Proponi una tua interpretazione complessiva del brano e approfondiscila con op-

portuni collegamenti al romanzo nella sua interezza o ad altri testi di Svevo. In al-

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ternativa, prendendo spunto dal testo proposto, delinea alcuni aspetti dei rapporti tra letteratura e psicoanalisi, facendo riferimento ad opere che hai letto e studiato.

Saggio breve o articolo di giornale (ambito artistico-letterario) 2007-2008

ARGOMENTO: La percezione dello straniero nella letteratura e nell’arte.

DOCUMENTI

“Non lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la ve-ste dalla vedova; ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha re-dento l’Eterno, il tuo Dio; perciò ti comandò di fare questo. Quando fai la mietitura nel tuo campo e dimentichi nel campo un covone, non tornerai indietro a prender-lo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova, affinché l’Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutta l’opera delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tor-nerai a ripassare sui rami; le olive rimaste saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non ripasserai una seconda vol-ta; i grappoli rimasti saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. E ti ri-corderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questo”.

DEUTERONOMIO, 24, 17-22

“Così Odisseo stava per venire in mezzo a fanciulle dalle belle chiome, pur nudo com’era: la dura necessità lo spingeva. Terribile apparve loro, era tutto imbrattato di salsedine. E fuggirono via, chi qua chi là, sulle spiagge dove più sporgevano dentro il mare. Sola restava la figlia di Alcinoo: Atena le mise in cuore ardimento e tolse dalle membra la paura. Rimase ferma di fronte a lui, si tratteneva. Ed egli fu incerto, Odis-seo, se supplicare la bella fanciulla e abbracciarle le ginocchia, oppure così di lontano pregarla, con dolci parole, che gl’indicasse la città e gli desse vesti. Questa gli parve, a pensarci, la cosa migliore, pregarla con dolci parole di lontano. Temeva che a toccar-le i ginocchi si sdegnasse, la fanciulla. Subito le rivolse la parola:…E a lui risponde-va Nausicaa dalle bianche braccia: «Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio, ma Zeus Olimpio, che divide la fortuna tra gli uomini, buoni e cattivi, a ciascuno come lui vuole, a te diede questa sorte, e tu la devi ad ogni modo sopportare». … Così dis-se, e diede ordini alle ancelle dalle belle chiome: «Fermatevi, ancelle, per favore. Dove fuggite al veder un uomo? Pensate forse che sia un nemico? Non c’è tra i mortali vi-venti, né mai ci sarà, un uomo che venga alla terra dei Feaci a portar la guerra: per-ché noi siamo molto cari agli dei. Abitiamo in disparte, tra le onde del mare, al con-fine del mondo: e nessun altro dei mortali viene a contatto con noi. Ma questi è un infelice, giunge qui ramingo. Bisogna prendersi cura di lui, ora: ché vengono tutti da Zeus, forestieri e mendichi, e un dono anche piccolo è caro. Su, ancelle, date all’ospi-te da mangiare e da bere, e lavatelo prima nel fiume, dove c’è un riparo dal vento».

OMERO, Odissea, VI, vv. 135-148 e vv. 186-209

“Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per ve-

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dere se mai ci fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche in-formazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l’unica perso-na che vide, fu un’altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che vole-vano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scar-ne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n’accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa… lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: «l’untore, dagli! dagli! dagli all’untore!» Allo strillar del-la vecchia, accorreva gente di qua e di là; …abbastanza per poter fare d’un uomo solo quel che volessero”.

A. MANZONI, I Promessi Sposi, XXXIV, 1842

Lo straniero

“A chi vuoi più bene, enigmatico uomo, di? A tuo padre, a tua madre, a tua sorel-la o a tuo fratello?”“Non ho né padre, né madre, né sorella, néfratello.”“Ai tuoi amici?”“Adoperate una parola di cui fino a oggi hoignorato il senso.”“Alla tua patria?”“Non so sotto quale latitudine si trovi.”

“Alla bellezza?”“L’amerei volentieri, ma dea e im-mortale.”“All’oro?”“Lo odio come voi odiate Dio.”“Ma allora che cosa ami, straordina-rio uomo?”“Amo le nuvole…le nuvole che van-no… laggiù,laggiù… le meravigliose nuvole!”

C. BAUDELAIRE, Poemetti in prosa, 1869

“L’infermo teneva gli occhi chiusi: pareva un Cristo di cera, deposto dalla croce. Dor-miva o era morto? Si fecero un po’ più avanti; ma al lieve rumore, l’infermo schiu-se gli occhi, quei grandi occhi celesti, attoniti. Le due donne si strinsero vieppiù tra loro; poi, vedendogli sollevare una mano e far cenno di parlare, scapparono via con un grido, a richiudersi in cucina. Sul tardi, sentendo il campanello della porta, corse-ro ad aprire; ma, invece di don Pietro, si videro davanti quel giovane straniero della mattina. La zitellona corse ranca ranca a rintanarsi di nuovo; ma Venerina, coraggio-samente, lo accompagnò nella camera dell’infermo già quasi al bujo, accese una can-dela e la porse allo straniero, che la ringraziò chinando il capo con un mesto sorri-so; poi stette a guardare, afflitta: vide che egli si chinava su quel letto e posava lieve una mano su la fronte dell’infermo, sentì che lo chiamava con dolcezza: - Cleen…Cleen… Ma era il nome, quello, o una parola affettuosa? L’infermo guardava negli occhi il compagno, come se non lo riconoscesse; e allora ella vide il corpo gigante-sco di quel giovane marinajo sussultare, lo sentì piangere, curvo sul letto, e parlare angosciosamente, tra il pianto, in una lingua ignota. Vennero anche a lei le lagrime agli occhi. Poi lo straniero, voltandosi, le fece segno che voleva scrivere qualcosa.

Page 12: Giosue Carducci, Pianto antico - Edizioni Simone · L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior, nel muto orto solingo 5 rinverdì tutto

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Ella chinò il capo per significargli che aveva compreso e corse a prendergli l’occor-rente. Quando egli ebbe finito, le consegnò la lettera e una borsetta. Venerina non comprese le parole ch’egli le disse, ma comprese bene dai gesti e dall’espressione del volto, che le raccomandava il povero compagno. Lo vide poi chinarsi di nuovo sul letto a baciare più volte in fronte l’infermo, poi andar via in fretta con un fazzo-letto su la bocca per soffocare i singhiozzi irrompenti”.

L. PIRANDELLO, Lontano, in “Novelle per un anno”, 1908

“Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell’ora, come d’uso, poca gente cir-colava per le strade… S’era scordato dell’uniforme; per un buffo interregno sopravve-nuto nel mondo, l’estremo arbitrio dei bambini adesso usurpava la legge militare del Reich! Questa legge è una commedia, e Gunther se ne infischia. In quel momento, qualsiasi creatura femminile capitata per prima su quel portone… che lo avesse guar-dato con occhio appena umano, lui sarebbe stato capace di abbracciarla di prepoten-za, magari buttato ai piedi come un innamorato, chiamandola: meine mutter! E allor-ché di lì a un istante vide arrivare dall’angolo un’inquilina del caseggiato, donnetta d’apparenza dimessa ma civile, che in quel punto rincasava, carica di borse e di spor-te, non esitò a gridarle: «Signorina! Signorina!» (era una delle 4 parole italiane che co-nosceva). E con un salto le si parò davanti risoluto, benché non sapesse, nemmeno lui, cosa pretendere. Colei però, al vedersi affrontata da lui, lo fissò con occhio asso-lutamente disumano, come davanti all’apparizione propria e riconoscibile dell’orrore”.

E. MORANTE, La Storia, Einaudi, 1974

“Risate e grida si levarono. «Fuori! Fuori della fontana! Fuori!». Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia di umi-liare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall’accento si capiva ch’era forestie-ra. «Vigliacchi!» gridò Anna, voltandosi d’un balzo. E con un fazzolettino cercava di togliersi di dosso la fanghiglia. Ma lo scherzo era piaciuto. Un altro schizzo la rag-giunse a una spalla, un terzo al collo, all’orlo dell’abito. Era diventata una gara.…Qui Antonio intervenne, facendosi largo… Antonio era forestiero e tutti, là, parlava-no in dialetto. Le sue parole ebbero un suono curioso, quasi ridicolo… Niente or-mai tratteneva il buttare fuori il fondo dell’animo: il sozzo carico di male che si tie-ne dentro per anni e nessuno si accorge di avere”.

D. BUZZATI, Non aspettavamo altro, in “Sessanta racconti”, Mondadori, 1958

“Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cin-quantamila anni-luce da casa… Il primo contatto era avvenuto vicino al centro del-la Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di piane-ti; ed era stata la guerra, subito; … stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquan-tamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiac-ciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso e la vista del cadavere