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Giulietta non ama Romeo

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di Roberta Manzoni, mainstream «Ricordati, Pea, Giulietta non ama Romeo». Quante volte Pompea ha sentito questa frase uscire dalla bocca di sua madre? Infinite. È già tutto lì, nella negazione secca, reiterata, del simbolo d’amore per eccellenza: la storia fra Giulietta e Romeo. A modo suo, un atto di protezione, perché Pompea non può permettersi di ammorbidirsi troppo nel degrado del Laurentino 38, a Roma. Ne va della sua vita, semplice ma agghiacciante. Pompea è la quinta figlia di Giulia, una prostituta dedita all’alcol e alle droghe. Vive un’esistenza amara e solitaria, fino a quando Giulia partorisce Sesta, affetta dalla Sindrome di Down, che viene cresciuta da Pompea. Sesta per lei è la luce, la dolcezza, è l’aria stessa che respira, è quel senso di famiglia che mai è riuscita a trovare nel rapporto con sua madre. Presto, però, i denti affilati della vita prenderanno a mordere anche Sesta, e sarà Pompea a farsi carico di difendere quella creatura innocente, sobbarcandosi un ruo

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ROBERTA MANZONI

GIULIETTA NON AMA ROMEO

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GIULIETTA NON AMA ROMEO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-634-9 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Testo curato da Agenzia Riscrivimi

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Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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Le esperienze che contano spesso sono quelle che non

avremmo voluto fare, non quelle che decidiamo noi di fare. Alberto Moravia

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CAPITOLO 1 Sono arrivata al famoso bivio. Da una parte c’è il matrimonio con Michele, un’esistenza serena, tranquilla, magari dei figli, un cane, un po’ di affetto, un po’ di tenerezza, una vita diversa da quella che ho vissuto finora. Forse. Dall’altra… buio, oscurità, demoni. La vita che ho vissuto e che mi ha segnata facendomi diventare quella che sono. Forse aveva ragione mia madre quando diceva: «Ricordati Pea, Giulietta non ama Romeo». Sono distesa sul letto, ascolto a tutto volume Arrival of the birds della Cinematic Orchestra e penso: “Cosa farò domani?”.

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CAPITOLO 2 Mi chiamo Pompea. Mia madre ha scelto il nome perché ero la sua quinta nata. Pompeo infatti ha questo significato, l’aveva letto su un settimanale per future mamme che era stato abbandonato ai giardini pubblici dove passava la maggior parte del tempo, e le era piaciuto così tanto da decidere di darlo all’essere che aveva in pancia. Sono l’unica che non le hanno tolto. Forse perché, essendo ingrassata solo sette chili, nessuno si era accorto che era incinta. Forse perché a nessuno interessava una ragazza come mia madre che sfornava figli quasi fossero panini. Aveva 17 anni quando sono nata io e, come seppi in seguito, il primo l’aveva avuto a 14. Non avevo mai saputo che da qualche parte nel mondo avevo un fratello e due sorelle con mamme buone, pulite, gentili, normali (o almeno così ho sperato dopo essere venuta a conoscenza della loro esistenza). Il bambino che aveva avuto un anno prima di me era nato morto. L’ho scoperto mio malgrado a cinque anni, la sera prima d’iniziare le scuole elementari. Me l’aveva vomitato addosso mia madre, insieme ai succhi gastrici lanciati come lame taglienti ogni volta che sentiva arrivare una contrazione nell’unica stanza che rappresentava la nostra casa. Ero distesa sul mio letto, un materassino gonfiabile bucato e rattoppato, rubato alla discarica, che mia madre aveva sistemato ai piedi di quello che lei chiamava il suo talamo nuziale: due materassi logori, impolverati e sporchi di sudore e sperma. Cercavo di dormire per

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dimenticare quello schifo di letto duro e per sognare il mondo nuovo che si sarebbe aperto ai miei occhi il giorno dopo. Ero eccitata come penso lo siano tutti i bambini. Volevo imparare cose nuove. Forse già allora volevo trovare una via d’uscita da quell’universo che non mi piaceva, ma era l’unico che avessi. Sentivo mia madre che si lamentava. Ero abituata ai suoi versi o perché era sbronza, o perché era fatta, o perché faceva sesso. Ma questa volta era diverso. Sembrava stesse soffrendo davvero. Aveva la testa al posto dei piedi e, allungando una mano, mi aveva tirato i lunghi capelli, biondi e morbidi come la seta nonostante li lavassi col sapone di Marsiglia una volta a settimana. «Pompea svegliati, aiutami… vai a chiamare Agnes… non voglio Ginevra… lo sai che quella stronza mi ha portato via i tre bambini che sono nati prima di te? Le bambine erano gemelle… e si è tenuta tutti i soldi lei, quella puttana!… Aaaahhhh! Ecco un’altra contrazione… passami quella bottiglia di birra e corri da Agnes! Muoviti!» Fu così che capii che mia madre era incinta. Agnes era la zingara che mi aveva fatto nascere. Mi faceva paura, provavo un timore quasi reverenziale, ma dentro di me sentivo che non mi avrebbe mai fatto del male. Ogni volta che la incrociavo per strada mi scrutava con fare torvo. Mai un sorriso, mai una carezza; solo quello sguardo penetrante che mi leggeva dentro. I suoi sono stati i primi occhi che ho visto quando sono nata, le sue mani sono state le prime che mi hanno toccato. Era una donna imponente, sempre vestita di nero, capelli lunghi e grigi raccolti dentro una bandana nera, viso scarno dalla pelle chiara con una grossa cicatrice sulla guancia sinistra, bocca grande che incorniciava una dentatura imperfetta e ingiallita da abuso di caffè, sigarette e chissà cos’altro. La mancanza dei tre denti davanti le conferiva un’aria ancora più truce. Le mani erano grandi e nodose, forti. Parlava poco e con uno strano accento che più tardi avrei capito essere russo. Bussai a sua casa, due porte dopo la nostra. «La mamma ha bisogno» le dissi timorosa, ma sostenendo il suo sguardo. Sembrava mi stesse aspettando. Aiutò mia madre a partorire senza proferire parola. Ne sibilò solo una: «Guarda!» ordinò a me.

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E così fui obbligata ad assistere, a guardare come nascono i bambini, nella puzza e nella sofferenza di mia madre. Avevo cinque anni. Fui la prima persona a tenere in braccio Sesta, mia sorella, che aveva fatto uno strano verso quando Agnes l’aveva schiaffeggiata a testa in giù. Avrei iniziato la scuola il giorno dopo.

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CAPITOLO 3 Mia madre si chiamava Giulia, ma siccome era sempre stata minuta, tutti la chiamavano Giulietta e assomigliava alla Michelle Pfeiffer del film LadyHawke. In effetti, nonostante fosse uno scricciolo, sarebbe stata bellissima se non avesse vissuto una vita dissoluta. Una volta mi aveva fatto vedere due Polaroid di quando era piccola, l’unico passato tangibile che si era portata dietro. Erano spiegazzate e avevano perso la vivacità dei colori, ma osservavo con curiosità quell’esile figura sull’altalena, i codini biondi, gli occhi azzurri, sorridente in un pomeriggio assolato in un parco senza nome. Non aveva mai voluto dirmi da che parte d’Italia provenisse. L’accento non era romano puro, era un misto di cadenze perché lei assimilava quello di chi le stava accanto come una spugna assorbe l’acqua, ma quando qualcosa non andava come voleva lei e doveva aspettare che le cose si sistemassero da sole, diceva sempre: «Pure ‘o cazzo è piccerillo e po’ se fa gruosse…». Non dovevo sapere niente di lei, diceva. Mi doveva bastare sapere che era mia madre. Non era cattiva. È stata solo sfortunata a non trovare qualcuno che le volesse bene davvero. Sfortunata perché era una debole, e davanti a qualsiasi avversità si sedeva ad aspettare. Era già vecchia a venticinque anni e ne visse ancora otto imbruttendosi ogni giorno di più con alcol e sesso, prima di trovare la pace eterna che invocava ogni volta che era sobria. Quando non beveva o non si faceva, malediceva la vita che non le aveva dato la possibilità di vivere in modo diverso.

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Malediceva me perché ero bella e mia sorella perché era down. Malediceva gli scarafaggi che infestavano la nostra stanza. Malediceva la puzza d’umido delle quattro mura che ci ospitavano. Malediceva sua madre che l’aveva abbandonata. Malediceva suo padre per tutto il male che le aveva fatto. «Io vi maledico tuttiiiiiii… ‘fanculo!» urlava, sbraitava, quasi ringhiava, ma non faceva niente per migliorare la sua vita. La nostra vita. Diventava attenta e premurosa con noi quando si portava a casa qualcuno con cui avrebbe passato la notte. Allora spostava il nostro materassino in un angolo lontano dal suo letto, ci aiutava a mettere il pigiama, ci pettinava, ci dava persino il bacio della buonanotte, e quando si piegava per appoggiare le labbra dipinte di rosso sulla nostra fronte, ci sussurrava di essere brave e di non fare rumore, inebriandoci del profumo che s’era appena spruzzata addosso. Sapeva di mamma. Mia madre faceva i soldi così; si vendeva per mantenerci, per comprarsi bottiglie di birra e un po’ di droga, anche se una volta aveva ammesso che preferiva ubriacarsi. Vedere la bottiglia vuota le dava una sensazione di pienezza che le pasticche non le regalavano. Si vendeva per dimenticare, per sognare, anche se solo per l’attimo dell’amplesso, di essere desiderata. Le piaceva sentirsi dire che era brava, che era bella. Lei lo chiedeva, anzi lo pretendeva dagli uomini che facevano sesso con lei. «Dimmi che sono brava… dimmi che sono fantastica… dimmi che ti piaccio… in cambio ti faccio andare in paradiso» e di rimando quegli sfigati che se la sbattevano sul talamo nuziale le urlavano quello che lei desiderava sentirsi dire. Il tutto a cinquanta euro per una notte con lei: una scopata con pompino finale. Venti per una sveltina. Mia madre era brava nell’arte della fellatio. Se ne vantava sempre, con chiunque. Quasi fosse un lavoro. Anzi, per lei lo era. La chiamavano la Maestra. C’erano uomini, l’avevo sentito dire una volta, che per farsi masturbare oralmente da lei, facevano la coda ed erano disposti a pagarla bene. I soldi non ci mancavano.

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Quando ero a scuola, lei lavorava. Meno male che quando scoprii il soprannome di mia madre non andavo più alle elementari. Ma ero dovuta crescere in fretta in quella stanza che chiamavamo casa.

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CAPITOLO 4 Sono venuta alla luce in una fredda notte di fine ottobre. Una delle poche cose che mia madre mi ha detto di quel momento è che se non fosse stato per Agnes, io sarei stata venduta come gli altri tre figli nati prima di me, e lei non avrebbe preso un soldo. Si era messa d’accordo con Tituzza, una poco di buono che le aveva fatto credere che vendendomi, avrebbe guadagnato un sacco di soldi. Dovevo nascere a fine dicembre, invece quella sera era sbronza marcia e stava tornando a casa con il Guercio, suo compagno di bevute, quando una contrazione fortissima l’aveva fatta urlare davanti all’abitazione di Agnes. Lei era uscita, l’aveva portata dentro, l’aveva adagiata sul tavolo della cucina, aveva fatto scaldare dell’acqua calda, aveva appoggiato su una sedia davanti a una stufetta elettrica degli asciugamani, l’aveva aiutata a partorire e l’aveva accudita, come fosse una figlia, per due mesi. Poi un giorno mia madre aveva deciso che era arrivato il momento di tornare a casa sua. Aveva bisogno di lavorare, aveva bisogno di soldi. Quindi m’infagottò in qualche modo e mi portò a casa. Non so cosa le disse Agnes, ma decise di tenermi. Mi dispiace non avere ricordi di quei momenti. Mi sarebbe piaciuto vedere Agnes che si prendeva cura di lei e di me, che mi prendeva in braccio e magari mi cullava cantandomi qualche ninnananna in russo. Agnes veniva dall’Ucraina. Era scappata dal suo Paese tanti anni prima, dopo aver vissuto la nazionalizzazione delle piccole imprese agrarie attuata da Stalin, che costò la vita o la deportazione nei gulag siberiani ai tanti piccoli proprietari terrieri che si erano ribellati alla collettivizzazione dei terreni. La rigida politica stalinista portò all’ammasso delle derrate e dei

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raccolti che provocò un’enorme carestia, lasciando dietro di sé quasi dieci milioni di morti. Questo periodo è conosciuto come holomodor, una parola che significa “infliggere la morte attraverso la fame”. Fu un olocausto, un genocidio dal quale Agnes fu l’unica della sua famiglia a salvarsi. Suo padre si era unito al gruppo di contadini e proprietari terrieri che non volevano piegarsi alla volontà del governo di unificare tutte le terre in cooperative agricole o aziende di Stato, con l’obbligo di consegnare i prodotti al prezzo fissato dal Governo. Per non darla vinta a Stalin, il padre di Agnes bruciò tutti i suoi raccolti di grano, barbabietole e patate, e macellò nel bosco vicino a casa sua tutte le bestie che possedeva. Ma questo costò a lui e a sua moglie la morte, ad Agnes e a sua sorella la deportazione nei campi di lavoro siberiani. Aveva undici anni e ciò che visse nei gulag russi la segnò per sempre. La cicatrice sulla guancia e i tre denti persi erano il ricordo indelebile inferto da un soldato per farle capire che doveva tacere mentre lui la stuprava. Non so come sia riuscita a sopravvivere al freddo, agli stenti e alla cattiveria dei soldati, ma quando si fu rimessa dopo la liberazione, lasciò il suo paese per venire in Italia.

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CAPITOLO 5 Adoravo mia sorella. Ero il suo angelo custode. Ero la sua mamma. Ero l’unica persona che le volesse bene a prescindere. Non che mia madre non gliene volesse, ma non essendo autonoma come me, e avendo problemi evidenti, forse non aveva voglia di riversare su di lei le poche forze mentali che le erano rimaste. «E poi ci sei tu, Pompea. Sei più brava di me» mi diceva per scaricare la coscienza. Vivendo così a stretto contatto con lei, mi ero accorta che aveva anche problemi di udito. O almeno così credevo, perché c’erano momenti in cui si estraniava e nessun rumore o suono o richiamo la distraevano. Mia madre non si accorgeva di nulla. Quando aveva capito che Sesta aveva quegli occhi e quella lingua tipici dei bambini down, la trattò come una bambola da accarezzare di tanto in tanto e poi l’affidò a me. Quindi decisi di tacere sugli altri problemi che riscontravo in mia sorella. Temevo si sarebbe arrabbiata, che le avrebbe fatto del male quando non era sobria o quando si tuffava in quel mondo allucinato delle pasticche. Chissà che schifezze aveva ingoiato mentre era incinta di lei… chissà se Sesta sarebbe stata diversa con una madre più attenta… non lo so, ma avrei ucciso chiunque avesse provato a farle del male. Sesta era dolcissima, serena, tranquilla. Con quello strano taglio degli occhi allungato in basso da risultare però a palla, la testa più piccola rispetto al corpo, le orecchie minute e un po’ a sventola, le anche grandi, la lingua che le usciva spesso dalla bocca e quelle manine tozze, m’infondeva tenerezza, protezione, affetto, amore. Ero l’unica persona che capiva i suoi bisogni solo con un’occhiata. Fin da quando era nata

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le davo io da mangiare con il biberon, ma siccome a volte faceva fatica, impregnavo del suo latte un fazzoletto pulito e glielo facevo succhiare. Mi piaceva ascoltare il rumore delle sue labbra strette attorno a quel ciuccio inventato da me, mi piaceva puntare i miei occhi nei suoi e leggerci dentro la felicità di avere una sorella come me. Non credo pensasse realmente questo mentre ciucciava, ma sono sempre stata una bambina che amava andare oltre le cose, che amava usare la fantasia che mi faceva diventare diversa da quello che ero in realtà. Mi piacevano i miei film. Ero cresciuta praticamente da sola e ora avevo qualcuno da amare. Voleva bene a tutti quelli che le facevano una carezza. Si fidava di tutti. Io le parlavo, le dicevo che non doveva fidarsi di chi non conosceva. Lei, di rimando, mi guardava con la sua faccetta buffa e faceva di sì con la testa, ma io non ero sicura che capisse. Temevo per lei ogni volta che mi assentavo. Per andare a scuola uscivo sempre in ritardo perché dovevo accertarmi che stesse bene senza di me. Su mia madre potevo fare poco affidamento. La mattina si svegliava tardi e in condizioni pietose, per cui avevo creato un angolo dove mia sorella stava tranquilla, quasi nella stessa posizione finché non tornavo. Solo allora si muoveva e veniva da me. Le lasciavo la bambola di pezza che era diventata mia dopo averla trovata abbandonata sotto un albero nei giardini pubblici vicino a casa, e lei la teneva stretta a sé per sentire il mio profumo. Tutto ciò che trovavo per strada o nei giardini diventava mio: fermagli per capelli, elastici, spazzole, golfini, giubbotti, vestiti per bambole. Non era come rubare. Non rubavo niente a nessuno. Diventavano miei perché li avevo trovati io. Una volta avevo visto cadere il portafoglio dalla borsa di una signora molto elegante. L’avevo raccolto, l’avevo annusato, sapeva di un profumo buonissimo, l’avevo aperto e avevo guardato dentro senza timore, ma con tanta curiosità. Era pieno di soldi, di carte plastificate e di foto di un bambino che sorrideva felice all’obiettivo con gli stessi occhi di Sesta. Non avrei rubato neanche un soldo, noi ne avevamo, ma lo sguardo di quel bimbo mi aveva così intenerito che avevo rincorso la signora e le avevo restituito ciò che le apparteneva.

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Di ritorno da scuola Sesta mi faceva sempre un sacco di feste. Si sedeva vicino a me mentre facevo i compiti e io le leggevo i libri logori che avevo preso in prestito dalla biblioteca della scuola. Amavo leggere. Ogni libro mi portava in un mondo nuovo, in luoghi così diversi dai miei, abitati da donne affascinanti, belle, sicure di sé, o da uomini dalla vita avventurosa. Leggevo di tutto, non solo i libri per bambini. M’immedesimavo in ciascuna storia, ne diventavo la protagonista e vivevo vite diverse dalla mia. Sesta mi s’incollava addosso, diventava la mia ombra e non mi lasciava più fino alla mattina dopo. Ero troppo piccola per difendere tutt’e due ma facevo del mio meglio, forte del fatto che lei fosse così: un po’ bambola. Le ho insegnato a mangiare con le posate, a lavarsi, a dire quando doveva andare in bagno, a tenere in mano un pennarello e disegnare quello che voleva. Il suo disegno preferito erano due figure stilizzate che si prendevano per mano: lei e io. Mia madre non la considerava come mamma, ma come presenza del luogo in cui viveva. Né più né meno di un peluche. I primi anni della sua vita sono stati difficili per me, ma l’amavo sopra ogni cosa e nonostante a volte fossi stanca, finché lei non si addormentava io rimanevo sveglia. Ero però troppo piccola per impedire al male e allo sporco del mondo di fare la nostra conoscenza.

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CAPITOLO 6 Abitavamo a Laurentino 38, uno dei quartieri a sud di Roma, forse uno dei più degradati nonostante i suoi undici ponti che avrebbero dovuto conferire alla zona un po’ di vivacità, unendo gli edifici ai due lati della via principale. Oggi molti ponti sono stati demoliti, ma nel progetto urbanistico iniziale erano stati costruiti per evitare ai pedoni di attraversare un viale ad alta velocità. Quando c’erano ancora tutti e undici, gli abitanti della zona dicevano che la via sembrava un’autostrada con i suoi autogrill. I locali che erano stati progettati per aprire negozi e uffici sono diventati abitazioni abusive. Nessuno voleva avviare attività in una zona così pericolosa. Qualcuno ci ha provato, ha resistito magari un anno, ma la criminalità non lasciava spazio a niente di buono. Eravamo destinati a vivere nell’oscurità di un quartiere che rispecchiava il buio delle nostre case senza finestre. Si trattava di stanze singole, di metratura che variava dai venti metri quadrati ai settanta. Se andava bene avevano una finestra, altrimenti solo luce artificiale, le pareti grondavano acqua, erano umide e scrostate, i fili della luce pericolosamente scoperti a penzoloni. I più sfortunati avevano soffitti così malmessi che ci pioveva dentro. Qualcuno aveva tirato su dei muri per creare stanze minuscole e senza luce naturale, ma lo spazio era troppo ristretto e l’impressione di soffocamento ti aggrovigliava le budella. Mia madre aveva ricevuto la stanza dove vivevamo in “eredità” da Gennaro, un napoletano che si era spostato a Roma per cercare lavoro tanti anni prima. Una mattina presto, di ritorno dal turno di notte, dopo averla trovata addormentata sotto uno dei tanti ponti, se l’era portata a casa e in

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cambio di qualche favore sessuale le aveva dato uno straccio di materasso su cui dormire. Mia madre aveva accettato senza troppi problemi. Gennaro stava fuori casa per lavoro tante ore e lei usava quella stanza per i suoi incontri. Quando lui morì d’infarto, lei si appropriò di tutto quello che c’era dentro e cambiò la serratura senza chiedere il permesso a nessuno. Ma in un quartiere così lontano dalla vita patinata della città eterna, a nessuno interessava niente. Ognuno aveva i suoi problemi, i suoi demoni che tornavano la notte come ospiti non graditi. Tutti sapevano ogni cosa di tutti per quel “tam tam” sordo e silenzioso che accomuna la gente che vive in posti disagiati, ma nessuno interveniva se non veniva chiamato in causa direttamente. Mia madre aveva cercato di abbellire la stanza dipingendo di rosso le sedie e il tavolo, attaccando dei cartelloni pubblicitari rubati per strada, ma lo spazio era troppo piccolo per diventare bello. Paradossalmente stavamo meglio d’inverno, quando accendevamo la stufetta elettrica che toglieva un po’ di umidità dai muri e dall’aria. Il problema era che a causa del sovraccarico di energia, spesso andava via la luce e dovevamo aspettare che qualcuno dei vicini ci sistemasse i fili per andare avanti ancora un po’. Passavo fuori la maggior parte del tempo. Mia madre mi piazzava sulla panchina vicino casa con un pupazzo e una bottiglietta d’acqua e mi diceva di non muovermi per nessuna ragione, e che lei sarebbe tornata presto. Poi spariva per ore. E io, dalla mia postazione, vedevo la fila degli uomini che aspettava di entrare da lei. Qualcuno mi rivolgeva una parola carina in modo goffo e timido, altri allungavano una mano per farmi una carezza, altri ancora mi portavano delle caramelle, ma la maggior parte faceva finta di non vedermi. Di rimando io non davo confidenza a nessuno. Non sapevo chi fossero e non m’interessava, anche se alcuni erano degli habitué, facce note in quell’universo maschile che girava attorno casa mia. Una volta a quattro anni, per capire, chiesi a mia madre che cosa ci facevano tutti quegli uomini in coda. «È un po’ come se fossero innamorati di me Pea… – mi disse con un sorriso malizioso – sono tanti Romeo in attesa della loro Giulietta, mi

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aspettano sotto il ponte come nella storia che raccontava un tizio inglese. No, forse là era un balcone… boh, non ricordo bene. Solo che questa Giulietta non ama Romeo. Giulietta lo usa. Giulietta lo spreme e poi lo butta fuori… ma prima si fa pagare!» Mia madre era una debole, ma non è mai stata una vittima. Sapeva bene quello che faceva e sugli uomini aveva le idee chiare: sapeva come prenderli, sapeva cosa chiedere, sapeva come sfruttarli, sapeva qual era il loro punto debole e con quello ci giocava a suo piacimento. Non era la vittima. Lei era la carnefice!

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CAPITOLO 7 In un quartiere come il nostro era facile vedere i bambini giocare da soli fuori casa. I pericoli che si potevano incontrare erano più o meno gli stessi che avevamo dentro l’abitazione. Le pareti confinanti con gli altri locali non erano insonorizzate, anzi sembravano fatte di carta velina tanto erano sottili. Ognuno di noi viveva momenti di una vita non sua, ma non poi così diversa. Soprattutto di notte, quando si spegnevano tutte le luci, il traffico era quasi sparito, e gli unici esseri umani che giravano nel quartiere erano cani e gatti randagi, liberi di muoversi senza correre il pericolo di essere presi a fiondate, i rumori degli altri rendevano meno solitario il mio sonno. Le sere in cui mia madre stava fuori o si lasciava andare sul letto con una bottiglia di vodka come compagna di sogni, chiudevo gli occhi e mi mettevo in ascolto. Ogni rumore che ascoltavo era una storia. Ne sentivo tanti tutti insieme: il gocciolare di qualche rubinetto, il brontolare del motore di un vecchio frigorifero, il rumore sordo delle tubature. Se mi concentravo, quando tornava a casa Gino ubriaco fradicio – un omone che viveva nel locale proprio di fianco a noi – riuscivo a sentire il sibilo della zip della sua tuta da meccanico quando se la toglieva… ssssst, faceva, e poi il tonfo sordo di lui che si sdraiava su Rina, sua moglie, i suoi grugniti mentre la prendeva con forza ancora vestita e poi si addormentava russando, senza augurarle la buonanotte. Riuscivo a sentire le lacrime di lei che cadevano sul pavimento, il chiudersi delle sue palpebre e il suono felice dei suoi sogni, il suo sollievo perché lui era troppo sbronzo per prendersela con i figli, soprattutto con le femmine, o le urla mute dei suoi peggiori incubi

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mozzate da una mano sulla bocca quando lei non era l’unico bersaglio della sua rabbia. Estraniavo qualsiasi rumore e ascoltavo attenta. Non era curiosità. Era un dispiacere solitario e infantile. Mi sentivo fortunata. Non avevo un papà. Non avevo paura di un papà. Non sentivo piangere mia madre impotente perché qualcuno mi faceva del male. Così facendo, io conoscevo un po’ tutto quello che succedeva nelle case degli altri. Il giorno dopo sapevo chi era stato violentato, chi sarebbe uscito di casa con il labbro gonfio di botte, chi si era pisciato nel letto per la paura, chi non aveva chiuso occhio per restare vigile, chi invece, dietro uno sguardo spavaldo, aveva ferite nascoste perché, impotente, lasciava che gli facessero del male. È forse per questo motivo che non volevo fare amicizia con nessuno e preferivo starmene per conto mio. Eravamo tutti sulla stessa squallida barca, ma la mia andava meno alla deriva di quella degli altri. Per i maschi era facile ritrovarsi da qualche parte e improvvisare un campo da calcio. Per noi femmine no. Stavamo ognuna per conto suo. Non facevamo comunella per non sentirci fragili e vulnerabili, per non sentirci obbligate a raccontare la nostra storia.

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CAPITOLO 8 La scuola era un locale fatiscente sotto l’undicesimo ponte. Una stanza molto grande con due finestre, che accoglieva tutti i bambini, dalla prima alla quinta insieme. Nonostante fosse scuola dell’obbligo, parecchi non venivano e stavano sulla strada. Preferivano inventarsi lavori per racimolare qualche spicciolo piuttosto che accumulare nozioni per reinventarsi e diventare persone nuove. Le maestre erano due: Grazia, che seguiva i bambini di prima e seconda, ed Elena, che insegnava come poteva a quei pochi di terza, quarta e quinta che non avevano mollato. Grazia era una signora di mezza età, simpatica e sempre sorridente, desiderosa di far scattare la scintilla del sapere e della curiosità a quei pochi bambini che si trovava di fronte, tra cui me. L’aula era stata divisa in due da un muro in cartongesso per fare in modo che non dessimo troppo fastidio a quelli più grandi. I banchi erano assi di legno su cavalletti arrugginiti, non tutti avevano la sedia, qualcuno s’accomodava su sgabelli sgangherati. Due lavagne in ardesia erano montate su un supporto in ferro che aveva visto tempi migliori. Non ne avevo mai vista una, e mi sembrava un oggetto magico. La maestra ci scriveva sopra con un bastoncino bianco che chiamava gessetto, ma ne aveva anche di colorati e, quando non aveva più spazio per scrivere, con un colpo di mano la faceva girare di 180° et voilà, un altro lato su cui continuare. La magia era che tutto ciò che si scriveva poteva essere cancellato con uno straccio o con un colpo di spugna. “Che figata!” pensavo. Il mio primo giorno di scuola arrivai in ritardo perché avevo passato la notte a contemplare mia sorella appena nata, ma la maestra non mi sgridò, anzi mi venne incontro, mi prese per mano, mi chiese il nome e

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mi presentò alla classe. Non mi domandò il motivo del ritardo né perché ero arrivata da sola. Insegnava lì da troppo tempo e non aveva bisogno di tante spiegazioni. L’adorai da subito. Mi fece sedere di fianco a un bambino che avevo già visto girare per il quartiere, ma di cui non conoscevo il nome. «Ciao, sono Tinca… e tu? – si presentò timido – Ti piace venire a scuola?» mi chiese, incurante del fatto che la maestra stesse parlando. Per non apparire subito scontrosa gli dissi il mio nome, ma fissai i miei occhi su Grazia. Capì e non mi fece altre domande. «Oggi iniziamo con la lettura delle prime pagine di un libro. S’intitola Il Piccolo Principe, un testo che considero speciale perché la sua magia affascina gli adulti che lo leggono, e accende la scintilla di un mondo incantato, quello della fiaba, nei più piccoli. Lo dedico, come ha fatto l’autore, a tutte le persone grandi che sono state bambini e non se ne ricordano più, e a tutti voi, con l’augurio che non dimentichiate mai ciò che siete: dei bambini meravigliosi che da oggi iniziano un percorso speciale che spero vi aiuterà nella vita…» Con queste parole mi conquistò. Ascoltai rapita la voce di Grazia che con delicatezza leggeva quelle parole stupende che ricordo ancora adesso. Scrisse poi alla lavagna: A tutti i grandi che sono stati bambini e non se lo ricordano più… E passammo ciò che restò della mattina, che volò, a cercare di copiare la frase. Per compito disse a quelli di seconda di riscriverla tante volte sul quaderno, e a noi di prima di ripensare al racconto ascoltato e di descriverlo con dei disegni. Tornai a casa di corsa. Sapevo che dovevo accudire mia sorella, ma l’idea di avere il compito mi elettrizzava. Il mio primo compito a casa, che bello! Mia madre, dopo avermi chiesto distrattamente com’era andata, si addormentò di sasso sul letto. Così raccontai per filo e per segno a Sesta, che dormiva beata, tutte le mie emozioni e le ripetei le prime pagine lette da Grazia. Avevo memorizzato parola per parola e cercavo di ripeterle con il suo tono di

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voce. Lo sapevo che la scuola non mi avrebbe deluso e che avrebbe potuto aprirmi un mondo nuovo. Non ero un genio a disegnare, forse perché mai nessuno durante l’infanzia mi aveva stimolato abbastanza, decisi quindi di ricopiare dieci volte la frase della lavagna. Feci molta fatica ma mi rendevo conto che la mia scrittura diventava via via sempre meno tremolante e sempre più precisa, ordinata. Per la prima volta nella mia vita volevo con tutta me stessa che qualcuno si accorgesse di me, lo desideravo con tutto il cuore. Prima di addormentarmi ripetei ancora mentalmente i primi due capitoli de Il Piccolo Principe e pensai a quel buffo disegno del boa che aveva ingoiato l’elefante e che per i grandi era semplicemente un cappello, o al disegno della cassetta con i buchi dai quali il Piccolo Principe vedeva la sua pecora dormire. Nonostante Grazia ci avesse mostrato il disegno fatto dall’autore, io il Piccolo Principe me lo immaginavo bruno, ma soprattutto, quando pensavo a lui, lo vedevo come un bambino sereno, tranquillo, solitario, a tratti triste e malinconico, mai fifone ma curioso quanto bastava per afferrare il senso delle cose che lo circondavano. Poi, per farle diventare veramente sue, usava l’immaginazione. Un po’ come me… Mentre guardavo mia sorella dormire, pensai alle foto sbiadite di mia madre bambina, a come si era dimenticata di esserlo stata, e giurai che a me non sarebbe mai successo. Non potevo ancora capire che nella vita si possono vivere esperienze tragiche e devastanti che ti segnano così tanto da cancellare i tuoi sogni di bambino.

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CAPITOLO 9 Grazia si accorse di me. Della mia grande volontà, della mia curiosità innata, della mia caparbietà, della mia voglia di uscire da quel luogo. Nonostante fossimo bambini che vivevano sulla stessa barca, io ero diversa dagli altri. Non parlavo con nessuno di loro, a meno che non mi rivolgessero domande dirette. Avevo orecchie e occhi solo per Grazia, che continuò a leggerci fiabe, filastrocche e racconti per bambini in cui c’era quasi sempre un lieto fine. Rodari, Piumini, Oscar Wilde, Collodi, divennero i miei compagni di banco. Imparai a leggere molto velocemente. Con la volontà si riesce a fare tutto. Malgrado il tempo a casa fosse poco, perché Sesta cresceva e aveva bisogno di sempre più attenzioni, per poter leggere mi ritagliavo momenti che dividevo solo con lei: la portavo ai giardini, ci sedevamo su un prato e le leggevo pagine e pagine ad alta voce, cercando di dare intonazioni diverse a seconda dei personaggi che incontravo. Lei se ne stava buona buona per un po’, poi si lasciava distrarre dagli altri bambini che giocavano, da un uccellino che si posava vicino a lei, o da qualche insetto che cercava di afferrare con le sue manine che diventavano sempre più tozze man mano che cresceva. Con la patologia che aveva, difficilmente gli altri si avvicinavano. Un giorno però Nando, uno di quarta, venne verso di noi con fare da bullo. «Tanto sei carina tu, tanto è un cesso tua sorella. Ma che è, scema?» disse scoppiando in una risata nervosa che contagiò gli altri cretini che si erano fermati due passi indietro. Mia sorella gli sorrise.

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«Vedi che è scema?» Alzai lo sguardo e lo incenerii: «Non ripeterlo mai più o è peggio per te». Tornai alla pagina che stavo leggendo, ma mi aveva irritato e non trovavo la riga. «Cosa mi fai? – continuò lui – mi meni?» «Non servirebbe con te – gli risposi gelida – ne prendi tante già a casa… ti sento la notte… sento cosa succede a casa tua… quindi…» «Lascia stare va… – impallidì al ricordo – fatti i cazzi tuoi signorina “Pompea - con - la - puzza - sotto - il - naso”… tua madre invece sotto il naso ci mette qualcos’altro, vero?» e si toccò la patta. «Ti ha chiamato Pompea perché è brava a fare i pompini!… Pompea… Pompea» mi schernì, spalleggiato dal gruppo che cantilenava il mio nome con lui. «Divertiti quanto ti pare… non me ne frega niente di quello che pensi… sei così ignorante da non sapere che Pompea significa “quinta nata”… ma vattene va’!» Non avevo più voglia di dare giustificazioni, con certa gente era meglio il silenzio. Mentre se ne andava, si piegò su mia sorella e le diede una sberla sulla testa. Non ci vidi più dalla rabbia. Scattai in piedi, gli afferrai le gambe e con tutta la forza che avevo lo buttai per terra. Era molto più grosso di me, ma lo presi di sorpresa e questo mi diede il vantaggio di saltargli addosso brandendo sul suo occhio il coltellino che portavo sempre con me. «Stai fermo o ti faccio diventare guercio! – gli sibilai rossa in volto – Non ti azzardare mai più a toccarla pezzo di merda… mi sono spiegata?» poi gli passai la lama sulla guancia e gli provocai un piccolo taglio da cui uscì, copioso e repentino, un fiotto di sangue. Mugolò come un cane facendo di sì con la testa. Mi rialzai e l’osservai. Teneva gli occhi chiusi. Forse voleva trattenere le lacrime o forse pensava a come vendicarsi. O forse era il suo modo di abbandonarsi alla violenza fisica a cui era abituato. Me lo sarei immaginato così, inerte e mugolante nel silenzio della notte. Mi girai e trafissi con lo sguardo anche i suoi amici ammutoliti. Avevo steso il loro capo e gli avevo fatto fare una figura di merda. Si era pisciato addosso dalla paura. Quando se ne andarono, presi in braccio mia sorella e tornai verso casa

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pensando che con molta probabilità ci sarebbe stata una sua reazione e me l’avrebbe fatta pagare. Ero abituata a vivere con le orecchie tese in quel quartiere, non mi faceva paura. Prima di uscire dai giardini mi accorsi che Agnes mi stava osservando in lontananza. FINE ANTEPRIMAContinua...