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LA CAMPAGNA DI
RUSSIAGli italiani sul
Fronte Orientale
volume terzo
ARM.IR8a Armata Italiana in Russia
Stefano Gambarotto
Enzo Raffaelli
Editrice Storica
Treviso
2011
5
La Campagna di RussiaAlpini e Fanti sul fronte di ghiaccio
copyright © 2011
Stefano Gambarotto - Enzo Raffaelli
1° edizione 2011
Editrice StoricaTreviso
Grafi ca e impaginazione di Stefano Gambarotto
Le immagini fotografi che che illustrano il presente volume, ove non diversamente in-
dicato, provengono dall'Archivio dell'Uffi cio Storico dello Stato Maggiore di Roma
(AUSSME) e dal Bundesarchiv. L'editore ha effettuato ogni possibile ricerca nel ten-
tativo di individuare altri soggetti titolari di copyright ed è a disposizione degli even-
tuali aventi diritto.
Editrice Storica è un marchio di proprietà di ISTRIT
Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di Treviso
Via Sant'Ambrogio di Fiera, 60
31100 - TREVISO
Ringraziamenti:
Luigi Casagrande (presidente Sezione A.N.A Treviso) – Franco Munarini (presidente
Sezione A.N.A Venezia) - Lino Rizzi (presidente Sezione A.N.A Padova) – Isidoro
Perin – Fernando Tocco – Angelo Pasinato - don Gastone Bardecchia – Marco Tiepo-
lo – Ornella Gatto – Giuseppe Camatta – Paolo Pedrini – Renzo Libralato – Giuseppe
Strippoli – Gianfranco Dal Mas - Franco Chiesa.
Un particolare ringraziamento va a Mauro Depetroni, Paolo Plini e Michele Battig per
la revisione dei testi e i preziosi consigli.
ISBN 978-88-96674-10-9
Cartelli indicanti l'autostrada per Mosca dove le truppe tedesche non giunsero mai.
7
Due immagini dei Carri Veloci L3 del tipo inviato sul fronte orientale. Questi mezzi erano ottime po-stazioni mobili blindate per mitragliatrici da impiegarsi a supporto della fanteria. Veicoli di tale tipo furono in uso in tutti gli eserciti europei. Gli inglesi li classifi cavano come «tankette». Il «Bren Carrier» ad esempio, fu in Gran Bretagna la punta di diamante della sua categoria e venne prodotto in 113.000 esemplari fra il 1934 e il1960. Erano piccoli mezzi blindati che non potevano essere considerati dei veri carri armati, come le gerarchie fasciste pretendevano di fare. Da questo punto di vista, il loro impiego sul fronte russo si rivelò inutile.
I SOVIETICI ALL'ATTACCO
Colpi d'ariete: le condizioni dell'ARMIRIl 19 novembre 1942, con due colpi d'ariete, le truppe russe riuscirono a
rompere il fronte della 3ª Armata romena e della 4ª tedesca, penetrando in
profondità. Nel giro di 24 ore le due tenaglie corazzate dell'attaccante chiu-
sero in una enorme sacca tutta la 6ª Armata di Paulus a Stalingrado. Quella
micidiale manovra decretava la fi ne dell'intero fronte del Don. Tra l'ARMIR
e il Gruppo armato del Caucaso si era aperta una voragine: 22 Divisioni te-
desche e 2 romene furono accerchiate. I tedeschi non trovarono di meglio
che spingere in avanti tutte le riserve e i resti delle divisioni sfasciate. Erano
ancora convinti di farcela a chiudere la falla. Ma continuarono a sottovalutare
l'esercito sovietico e lo spirito di sacrifi cio del popolo russo. Siamo nel pieno
di un terribile inverno. Il 10 dicembre l'ARMIR, con i suoi 230.000 uomini,
è schierata su un fronte lungo quasi 300 chilometri. La sinistra è a contatto
con la 3ª Armata rumena, ormai in sfacelo. Gli italiani schierano un soldato
ogni quattro metri di fronte. I nostri sono armati con il fucile 91/38 e con
poche mitragliatrici le quali, a quelle temperatura, quasi mai sono in grado
di sparare a causa del congelamento dei lubrifi canti. Funzionavano invece
quasi sempre le bombe a mano anche se era grande il botto, ma minime le
conseguenze per l'avversario. I mezzi corazzati erano praticamente assenti,
non essendo lecito classifi care con quel nome i ridicoli carri L, più leggeri di
un camion Lancia Tre Ro e perforabili perfi no con i fuciloni da 20 mm sovie-
tici. Per contro, i tank russi non avevano molto da temere dalle nostre armi
controcarro. I cannoni de 47/32 con i proietti E.P. (esplosivi e perforanti), non
riuscivano neppure a scalfi re i pesanti scafi dei T-34 da 30 tonnellate. A meno
di non colpire uno dei cingoli i carri sovietici erano per i nostri invulnerabili.
Anche il resto dell'artiglieria italiana era vecchia e superata tecnologicamen-
te. Quella da montagna aveva ancora in dotazione i pezzi da 75/13 della Gran-
de Guerra. Mancavano del tutto i cannoni semoventi, adattissimi per quel
terreno, e scarsi erano anche quelli contraerei. «Un confronto tra il nostro armamento e quello sovietico o quello tedesco non ha senso, sarebbe come voler accostare un fucile ad avancarica ad un fucile automatico»scrive Nuto
Revelli. Pochi e antiquati erano anche gli apparati radio. I mezzi di trasporto
si rivelarono non adatti a quelle temperature e comunque appena suffi cienti
al trasporto delle truppe di linea. Una logistica all'altezza della situazione è la
prova dell'effi cienza di ogni esercito. La nostra non era adeguata alle condi-
zioni in cui operavano le unità. Si aggiunga anche la penuria di carburante, di
munizioni e i pochi magazzini nelle retrovie. Quelli esistenti poi, non erano
8
in grado di far giungere i materiali al fronte. Per tutta la campagna le truppe
in linea dovettero fare i conti sia con la carenza delle munizioni d'artiglieria
sia di quelle per le armi leggere. «L'equipaggiamento è povero; non [ci sono]
divise trapuntate, come [quelle che] indossano i tedeschi, ma divise in fi nta lana: il novanta per cento dei soldati si difende dal freddo con indumenti borghesi, spediti da casa. Le fasce mollettiere, non stringono i polpacci, sem-brano studiate apposta per favorire i congelamenti. Le scarpe meritano un discorso particolare: sono le stesse della ''guerretta'' contro la Francia, del fronte Greco-Albanese, del CSIR, e ricordano migliaia di arti congelati, di arti amputati. Stesse scarpe in Russia, stesse scarpe in Africa settentrionale, questa la formula standard dell'Esercito Italiano. I tedeschi invece portano i ''valenchi'', la calzatura del contadino russo, un rozzo stivale di feltro ampio e caldo. Anche il soldato italiano, dopo la dolorosa esperienza invernale del CSIR, avrebbe dovuto indossare i ''valenchi''; la produzione industriale di questa calzatura era infatti conveniente e facilissima, particolarmente adatta ad un'economia autarchica come la nostra».1 Revelli ricorda che gli alpi-
ni ricevevano da casa, oltre alle maglie di lana anche viveri, castagne, fi chi
secchi e farina perché, oltre al resto, c'era anche la fame. «Le nostre retrovie sono corrotte, nelle retrovie infuria la ''borsa nera'': troppi rubano sulle già scarse razioni del soldato combattente, troppi rimandano in Italia pacchi di zucchero, caffè, sigarette». Oltre a tutto questo, il problema della diffi cile
convivenza con i tedeschi, non è ancora stato risolto. Da ultimo va anche
considerato che il generale Gariboldi non disponeva di forze di riserva. La
divisione Vicenza2, dislocata a Rossoš' non si può infatti considerare un'unità
combattente «ma un insieme di territoriali a malapena adatti per compiti di presidio. Ed il battaglione ''Monte Cervino'' è soltanto un piccolo reparto di fanti scelti: gli alpini non sono carri armati».3
Difesa rigida I tedeschi, che hanno il comando dell'intero fronte e conoscono perfetta-
mente le condizioni dell'ARMIR, promettono a Gariboldi l'appoggio di unità
corazzate in caso di bisogno. Ma sono ottimisti: troppo sicuri dei loro mezzi e
delle loro potenzialità. Non vedono ombre all'orizzonte. Secondo loro i russi,
dopo la campagna estiva, non saranno in grado di muovere offensive inverna-
li. Anche la situazione di Stalingrado, che era tragica, è vista con ottimismo.
1 Nuto Revelli, La tragedia del Don, in: Storia illustrata, dicembre 1967.
2 La divisione Vicenza, a rigore, non era neanche una divisione essendo costituita da soli due
reggimenti di fanteria e del tutto priva di artiglieria.
3 Revelli, La tragedia…, op. cit.
Kulešovka (ansa del Don). La messa del «Morbegno». AUSSME.
La «Tridentina»all'attacco nell'aerea di Gorbatovo. AUSSME.
10
Come alle armate tedesche, che potevano arretrare solo dietro autorizzazio-
ne di Hitler in persona, anche all'8ª Armata italiana viene imposta una resi-
stenza rigida. Nota ironicamente Revelli: «per spostare un solo battaglione Gariboldi deve ottenere l'autorizzazione del comando supremo germanico!».
I problemi, anche di ordine gerarchico, messi in luce da Messe, restano in
qualche modo nascosti fi nché la situazione rimane statica. Tutto va bene fi no
all'alba dell'11 dicembre quando i russi danno inizio alla battaglia di logora-
mento contro le divisioni del II Corpo d'Armata. Da quel giorno in poi, l'ina-
deguatezza del nostro esercito contro i carri armati sovietici diventa palese.
La difesa rigida, ancorata al terreno, da attuarsi fi no all'ultima cartuccia e fi no
all'ultimo uomo, è drammaticamente superata dai fatti. La potenza di fuoco e
di movimento delle colonne corazzate dell'esercito sovietico si dispiega met-
tendo in crisi i nostri comandi.
La prima battaglia difensiva sul DonI compiti assegnati all'ARMIR sul Don prima dell'inverno erano stretta-
mente difensivi. Al contrario i sovietici agivano nel più vasto quadro di quella
che fu chiamata Battaglia del Volga. L'obiettivo delle armate tedesche era
raggiungere il grande fi ume a Stalingrado4. Per i russi la metropoli aveva un
doppio signifi cato: era certamente la città dedicata a Stalin, ma non si trattava
solo questo. Il Volga è una grande via di comunicazione interna e l'interruzio-
ne della navigazione lungo il suo corso avrebbe complicato molto la logistica
dell'esercito russo poiché quella città è sede di un grande bacino industriale.
Per tali motivi, «in ottemperanza a questo compito essenziale le forze armate sovietiche con le loro azioni offensive miravano: ''ad ottenere una penetrazio-ne tale da rescindere la forza germanica operante a Stalingrado (6ª Armata tedesca) dalle basi poste ad occidente del Don. A far divergere dall'asse di sforzo di Stalingrado la maggior quantità possibile di forze germaniche e loro alleate o, quanto meno, ad impegnarle dove si trovavano per impedire che fossero spostate altrove''.5 In tale quadro la prima battaglia difensiva del
Don fu combattuta dalle divisioni Sforzesca e Pasubio del XXXV– CSIR. Il
settore dello schieramento dell'ARMIR sulla sponda destra del Don misura-
va, seguendo il corso del fi ume, circa 270 chilometri. Il corso d'acqua scorre-
va praticamente rettilineo fi no alla confl uenza della Kalitva a Novo Kalitva.
In questa località formava un angolo quasi retto e procedeva diritto per circa
30 chilometri fi no a disegnare una grande ansa con al vertice il villaggio di
Verhnij Mamon. La larghezza del Don variava dai 100 ai 400 metri. Il corso
4 Oggi la città si chiama Volgograd.
5 Relazione Uffi ciale, p.234.
Millerovo. AUSSME.
13
1 settembre 1942. Il battaglione «Vestone»in azione a Kotovskij. AUSSME.
Settembre 1942. Due alpini della spennano un pollo. AUSSME.
del fi ume era fi ancheggiato da alture poco sopra i 200 metri. Così, per sommi
capi, può essere tratteggiato il teatro operativo in cui agiva l'ARMIR. L'Arma-
ta italiana era inquadrata nel Gruppo d'armate B tedesco e aveva alla sinistra
la 2ª Armata ungherese e a destra la 6ª tedesca. Il fronte da difendere era stato
diviso in tre settori all'interno dei quali, ogni divisione proteggeva un tratto di
ampiezza variabile fra i 30 e i 55 km. Il primo ricadeva sotto la responsabilità
del II Corpo italiano con la 294ª divisione di fanteria tedesca (65 chilometri),
la Cosseria (34 chilometri) e la Ravenna (30 chilometri). Il settore centrale
era invece stato assegnato al XXIX Corpo della Wehrmacht con la Torino(35 chilometri) e la 62ª divisione tedesca (55 chilometri). L'ultimo settore
era infi ne di competenza del XXXV-CSIR con la Pasubio (30 chilometri) e
la Sforzesca (33 chilometri).6 Come si può facilmente constatare, il fronte da
difendere era troppo ampio, mettendo in rapporto la sua vastità con le forze
a disposizione. «Anche destinando alla linea tutti i sei battaglioni di fanteria di ogni divisione, a ciascuno di essi sarebbe spettato il compito di difenderne quasi sei chilometri, mentre il comandante della Divisione sarebbe rimasto privo di una anche minima disponibilità di forze da far accorrere a sostegno di un punto minacciato». Tutto ciò fu fatto inutilmente notare da Gariboldi a
von Weichs, ai cui ordini agiva l'Heeresgruppe B. Il generale italiano puntua-
lizzò che all'ARMIR non restava nessuna forza di manovra in quanto la Cele-re era stata spostata nel settore della 6ª Armata e vedeva ridotte le sue capacità
operative dai duri combattimenti sostenuti nel bacino del Mius.7
L'ARMIR sul grande fi umeL'ARMIR aveva di fronte la 63ª Armata sovietica con quattro grosse di-
visioni. Al momento dunque, il rapporto di forze era a suo vantaggio, poi-
ché l'8ª Armata poteva schierare 16 reggimenti contro gli 11 russi. I sovietici
disponevano anche di due divisioni in seconda schiera, mentre gli italiani
avevano solo l'incompleta Celere. Le pattuglie russe, nel corso della notte,
si spingevano dall'altra parte del fi ume per individuare i luoghi favorevoli al
passaggio. Punti conosciuti ma non sbarrati poiché i reticolati necessari non
erano ancora disponibili. Il compito operativo principale assegnato al Gruppodi Armate B era di raggiungere il Volga a Stalingrado, schierarsi sulla difensi-
va a garanzia del Gruppo di Armate A e infi ne difendere la linea del Don. Su
6 Come si può notare il terreno coperto dalle Divisioni germaniche è quasi il doppio di quel-
lo affi dato alle Divisioni italiane e questo perché le nostre divisioni binarie erano più piccole,
in quanto formate solo da due reggimenti di fanteria a seguito della Riforma Pariani.7 La Celere si trovava con le unità di fanteria ridotte del 30%, delle artiglierie al 50% il
quanto due battaglioni bersaglieri e due gruppi di artiglieria era rimasti nel settore della 6ª
armata tedesca.
14
di essa era schierata appunto l'8ª italiana comandata da Gariboldi. Il nostro
generale non era soddisfatto e si lamentò con i tedeschi. Secondo lui eravamo
penalizzati «tanto sotto l'aspetto morale del non confacente impiego, quanto per inadeguatezza tra compito ricevuto e mezzi per realizzarlo». Insomma
non gli andava bene nulla e la sua insoddisfazione la argomentava in questo
modo: «se l'attacco sovietico non avesse avuto luogo, lo schieramento dell'8ª sul Don pareva come uno spreco di forze [...]. Queste [però] sarebbero risul-tate scarse a garantire la difesa della linea, qualora un'offensiva del nemico si fosse verifi cata».8 Naturalmente i tedeschi avevano ribattuto sostenendo
l'esatto contrario: il compito difensivo sul Don era di fondamentale impor-
tanza in quanto concorreva all'azione principale del Caucaso. Nel caso poi
di un'offensiva sovietica sul Don ci avrebbero pensato loro a correre e porta-
re gli adeguati rinforzi. Gariboldi prese atto, ma ribadì «di non considerare ruolo piacevole quello di essere destinato ad essere salvato». I mugugni del
nostro comandate erano giunti anche a Roma, ma dalla capitale si affrettarono
a chiarire «che quanto era stato ordinato dal Comando tedesco rispondeva a preventivi accordi stabiliti tra i due Comandi Supremi alleati ed [invitarono]
il comandante dell'8ª Armata ad eseguire gli ordini ricevuti».
I russi saggiano il terrenoI primi segnali che i sovietici cominciavano a muoversi per saggiare la rea-
le forza avversaria si manifestarono a partire dal 12 agosto quando una grossa
pattuglia russa passò il Don in corrispondenza dell'ansa che si trovava di fron-
te al III battaglione dell'82° fanteria. Per farla sloggiare dovettero entrare in
azione anche le artiglierie. La notte di ferragosto fu tentato un colpo di mano
sul fronte della Sforzesca. Il 16 vennero attaccati gli ungheresi che riuscirono
a ristabilire la situazione dopo due giorni di combattimenti. Tutte le notti, fi no
al 20, si verifi carono scontri nei vari settori con pattuglioni dell'Armata Rossache passavano il fi ume senza troppe diffi coltà. Era evidente a quel punto che
il loro scopo era quello di sondare la capacità e la consistenza dello schiera-
mento avverso per poter individuare il punto più debole dove scatenare un
attacco. La notte del 20, dopo una breve preparazione d'artiglieria e di mortai,
i russi passarono ancora una volta il Don - a guado e con traghetti - davanti
al settore presidiato dalla Sforzesca. L'attacco si sviluppò nel settore del 54°
reggimento. Dopo un paio d'ore di furiosi combattimenti, gli aggressori furo-
no respinti per due volte. Ma i russi ricevettero rinforzi e per tutto il giorno si
susseguirono combattimenti nei diversi settori della Divisione. Alla fi ne della
giornata il fronte aveva tenuto ma le perdite italiane erano state gravissime:
8 Relazione uffi ciale, p. 145.Ottobre 1942. Una sentinella del battaglione «Borgo San Dalmazzo»
monta di guardia all'interno di una trincea scavata lungo l'ansa del Don. AUSSME.
18
il II battaglione del 54° fanteria risultava praticamente distrutto e gli altri due
«fortemente provati». L'azione sovietica si era sviluppata anche nei settori
della Torino e della Pasubio con attacchi, prima contenuti e poi respinti. Il
successivo giorno 21, i russi passarono il fi ume con forze consistenti e mos-
sero all'attacco appoggiati da artiglieria e mortai. Il contrattacco previsto per
respingerli non ebbe successo e la resistenza si spostò sulle alture. Tra due
reggimenti italiani, il 53° e il 54°, si stava aprendo una falla preoccupante.
L'offensiva avversaria investì tutto il fronte del Corpo d'Armata. Le poche ri-
serve a nostra disposizione intervennero come poterono: il Raggruppamentoa Cavallo, i Lancieri di Novara e il Savoia Cavalleria effettuarono cariche
che ricordano altre battaglie e altre guerre. I combattimenti si susseguirono
ininterrottamente fi no al 25.
Il generale Messe e i tedeschiIl pericolo maggiore veniva dalla falla aperta tra l'8ª Armata italiana e la
6ª germanica. Il generale Messe chiese immediatamente il sostegno dei tede-
schi della 79ª divisione, «ma il concorso alleato mancò totalmente, perfi no in modo simbolico, sebbene alle ore 8,10 fosse stata annunciata la prepa-razione di un Gruppo d'Intervento». Il comandante italiano decise allora di
continuare a resistere sulle posizioni raggiunte con il ripiegamento. I tedeschi
non erano d'accordo. Per von Weichs, comandante del Gruppo d'Armate B,
non si doveva ripiegare per nessun motivo. Come se non bastasse, i tedeschi
arrivarono a sottrarre a Messe la Divisione Sforzesca ponendola alle loro di-
rette dipendenze. Si trattava di un fatto poiché «era, questa, [una] chiara manifestazione di sfi ducia verso i Comandanti italiani». L'ordine al comando
della Divisione annunciante il mutamento di dipendenza della Sforzesca, fu
dato direttamente dai tedeschi senza consultare Messe. Il generale, di fronte
alla nuova situazione, ritenne di dover spiegare direttamente agli alleati le
sue intenzioni sulla condotta delle operazioni e il perché dei suoi ordini. Al
termine del colloquio «l'uffi ciale germanico [un colonnello, incaricato del
collegamento con gli italiani] ammetteva lealmente che, nella situazione de-terminatasi, gli ordini impartiti [da Messe] erano da considerare pienamente soddisfacenti». I rapporti tra il nostro generale e i tedeschi non erano mai stati
idilliaci. Prima di allora però, gli «alleati» non si erano mai permessi di toglie-
re al Corpo d'Armata italiano una delle sue Unità, proprio mentre era in corso
una battaglia strategicamente importante per i pericolosi sviluppi che poteva-
no determinarsi. Messe puntò i piedi e chiese conto al comando dell'Armata
tedesca, pretendendo di conoscere i motivi di quella decisione. Comunicò
anche di non aver dato corso all'ordine trasmessogli «in quanto la comunica-
Settembre 1942. Penne nere in marcia verso il fi ume Don. AUSSME.
Ottobre 1942. Il battaglione «Morbegno»ascolta la messa nel bosco di Vitebsk. AUSSME.
22
zione ricevuta durante la notte non indicava modalità e tempi d'esecuzione».
Erano schermaglie. I tedeschi a quel punto non vollero entrare in confl itto con
lui e risposero diplomaticamente indicando i reparti che dovevano passavano
agli ordini del loro XVII Corpo, «il quale aveva avuto il compito di impedire uno sfondamento nemico in direzione di Bokovskaja e di ''fermare a tutti i costi i movimenti di ripiegamento della Divisione Sforzesca''». In pratica la
divisione italiana era accusata di aver indietreggiato arbitrariamente mettendo
a repentaglio tutto lo schieramento di quel fronte. Per i tedeschi la questione
si chiudeva lì. A Messe non restò che rivolgersi al suo superiore, il comandan-
te dell'ARMIR, generale Gariboldi. Scrisse Messe: «Mi astengo dall'entrare nel merito delle ragioni tattiche che hanno suggerito al Heeresgruppe B il cambio di dipendenza del settore già della Sforzesca. Ma osservo che nel secondo compito affi dato al comando del XVII Corpo d'Armata tedesco è im-plicita una valutazione ingenerosa e del tutto infondata sia dell'asprezza dei combattimenti sia del contegno delle truppe che, ai miei ordini, hanno duris-simamente, valorosamente e sanguinosamente contrastato per sei giorni un nemico soverchiante senza ricevere alcun aiuto esterno. Nel nome dei morti e dei vivi, come Comandante, come testimone diretto e come italiano debbo elevare la protesta più vibrata contro l'insinuazione che il ripiegamento di queste eroiche truppe spossate e decimate sia stato volontario e che occor-reva un Comandante tedesco per richiamarle al dovere. Chiedo di conferire personalmente con Vostra Eccellenza».9 Gariboldi non ritenne opportuno
sentire di persona il collega, infatti rispose laconicamente: «data la situazio-ne non è conveniente a V.E. lasciare il posto di Comando per conferire. Ho già fatto osservazioni necessarie agli organi del Gruppo d'Armate».
I nazisti non capisconoAbbiamo riportato per intero la protesta, corretta nella forma, ma durissi-
ma nella sostanza, del nostro generale, il quale, ricordiamolo, era al comando
del CSIR, sin dall'inizio della Campagna di Russia. Le truppe italiane aveva-
no partecipato con successo a numerosi combattimenti e dunque i tedeschi sul
loro comportamento non avevano proprio nulla da dire. Il problema odierno
era un altro e di ordine soprattutto psicologico. Hitler in primis e dopo di
lui, l'intera catena di comando tedesca, non si rendeva conto di quel che sta-
va accadendo. L'esercito sovietico - presa coscienza delle proprie capacità,
sfruttate al massimo dai generali10 e dai dirigenti di partito - con una forte,
9 Relazione Uffi ciale, p. 274.
10 Il generale, Rokossowskji comandante del Fronte del Don, disponeva delle armate 65ª
(gen. Batov), 24ª (generale Galanin) e 66ª (generale Sadov). Il maresciallo Jeremenko era il
Settembre 1942. Uffi ciale della «Julia»osserva i sovietici dalle rive del Don. AUSSME.
Settembre 1942. Italiani sulle sponde del Don. AUSSME.
25Estate 1942. Nelle trincee del battaglione «Morbegno». AUSSME.
penetrante, propaganda politica, aveva cambiato atteggiamento nei confronti
degli invasori. I nazisti, abituati fi n lì a vincere su tutti i fronti non accetta-
vano di poter perdere una battaglia e non concepivano la possibilità di un
arretramento, anche se dettato da motivi tattici contingenti. Dunque, se que-
sto era avvenuto la colpa non poteva che essere degli altri. Non certo degli
appartenenti alla sedicente razza superiore… Questa volta la responsabilità
scelsero di scaricarla sugli italiani. Poi sarebbe toccato ai romeni e quindi agli
ungheresi fi n quando, a Stalingrado, i capi nazisti non furono costretti a capire
quello che invece si andava chiarendo da qualche tempo. Anche in quel caso
tuttavia a Berlino avrebbero preferito un'eroica ecatombe anziché un generale
responsabile che, preso atto della situazione, si arrendeva lealmente. I com-
battimenti di questa prima fase si protrassero fi no al 30 agosto. Il Comando
dell'esercito sovietico, oltre a rinforzare le unità operanti a Stalingrado, piani-
fi cò tutta una serie di offensive sul Don e sul Volga ad ovest della grande città.
Lo scopo delle offensive era quello di minacciare il fi anco sinistro delle forze
germaniche e alleggerire la pressione verso est. Il risultato dell'offensiva di
agosto contro l'8ª Armata italiana consentì all'Armata Rossa l'ampliamento
di una delle teste di ponte e trascurabili vantaggi territoriali ottenuti a costo
di forti perdite. Tuttavia in campo tattico, il possesso delle due teste di ponte
permise ai russi, nell'operazione Piccolo Saturno poi fatta scattare a dicem-
bre, di impiegarle come pedana di lancio nell'attacco che portò alla sconfi tta
dell'Armata del generale Gariboldi.
La situazione strategica sul fronte meridionale nell'autunno del 1942Il Gruppo d'armate «B», al comando del generale Maximilian von Weichs,
e il Gruppo d'armate «A», che dipendeva direttamente dall'alto comando te-
desco e quindi da Hitler, dopo la destituzione in settembre del feldmaresciallo
Wilhelm List, erano ormai fermi da settimane. I combattimenti proseguivano
sia nella regione caucasica, con duri scontri nell'area di Tuapse e sul fi ume
Terek, sia nel settore di Stalingrado, dove la potente 6ª Armata del generale
Friedrich Paulus si stava dissanguando. Le forze germaniche impegnate nell'at-
tacco a Stalingrado erano protette sui fi anchi da divisioni italiane, ungheresi
e romene. La scarsa solidità di tali settori rappresentava un pericolo per la
sicurezza dell'intero sistema difensivo. Essa era dovuta in parte all'intrinseca
debolezza delle forze alleate, che non disponevano di armamenti all'altezza
del compito, in parte alla presenza di teste di ponte oltre il Don - a sud del suo
corso - che i russi avrebbero potuto utilizzare come basi di partenza in caso
di attacco. Come abbiamo visto infatti, durante l'estate appena conclusa, nel
comandante del Fronte di Stalingrado.