240
Umberto Melotti Roberto Panizza Fabio M. Parenti Gli spazi della globalizzazione Flussi finanziari migrazioni e trasferimento di tecnologie a cura di Fabio M. Parenti Geografia e paesaggio Le categorie tradizionali appaiono inadeguate a cogliere e descrivere gli spazi dell’agire umano dai confini sempre più incerti. La continua riorganizzazione e ristrutturazione di luoghi e regioni, sotto la spinta di processi che acutizzano la tensione tra globale e locale, rende necessaria un’a- nalisi che si muova all’interno della dinamica tra aree e flussi. Il libro si concentra sui fenomeni riconducibili entro questa dinamica: la storia e le trasformazioni della finanza internazionale, dalle prime attività creditizie, sino agli attuali meccanismi speculati- vi – spesso responsabili di drammatiche crisi economiche in vaste aree del mondo – i flussi mi- gratori internazionali, la riorganizzazione geografica del lavoro, riflesso delle nuove dinamiche di sviluppo tecnologico. Nei decenni della globalizzazione sono questi gli elementi del quadro geo- economico e politico mondiale (migrazioni, internazionalizzazione della finanza, trasferimenti di tecnologie) indispensabili al fine di una corretta comprensione di quelle geografie in via di defi- nizione delle quali i saggi raccolti in questo volume offrono un’analisi articolata e complessa. Umberto Melotti (Milano, 1940) è professore ordinario di Sociologia Politica all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha fondato e dirige la rivista «Terzo Mondo». Fra le sue pubblicazioni: Sociologia della fame(Milano 1965 e 1966), Rivoluzione e Società(Milano 1965), Marx e il Terzo Mondo (Milano 1972), L’immigrazione, una sfida per l'Europa(Roma 1992); Etnicità, nazionalità e cittadinanzae L’abbaglio multiculturale(Roma 2000). Roberto Panizza (Torino, 1940) dal 1981 è professore ordinario di Economia Internazionale alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Ha redatto alcune voci economiche del Grande dizionario enciclopedico Nova(Torino 2002) e cu- rato per Rai2 (2001) le venti puntate di La storia della moneta: dall’economia primitiva all’euro. Autore di saggi apparsi su riviste e volumi collettanei, svolge attività di consulenza presso fondazioni e centri studi, nazionali e internazionali. Fabio Massimo Parenti (Roma, 1974) si è laureato in Geografia presso l’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi su Sviluppo sostenibile tra riflessione globale e analisi locale in Vietnam, centro di successive ricerche sul campo. Ha pub- blicato, oltre a interventi su riviste cartacee e on line, la monografia Sviluppo sostenibile e comunità rurali nel nord ovest del Vietnam (Torino 2002). In copertina: fotografia di Renato Cerisola (particolare) MontefalconeStudium Umberto Melotti Roberto Panizza Fabio M. Parenti DIABASIS Gli spazi della globalizzazione 16,00 DIABASIS Cop Global OK:Cop Global OK 23-08-2012 10:46 Pagina 1

Gli spazi della globalizzazione

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Le categorie tradizionali appaiono inadeguate a cogliere e descrivere gli spazi dell'attaule agire umano. La continua riorganizzazione e ristrutturazione di luoghi e regioni, sotto la spinta di processi che acuiscono la tensione tra globale e locale, rende necessaria un'analisi che si muova all'interno della dinamica tra aree e flussi. Il libro si concentra sui fenomeni riconducibili entro questa dinamica: la storia e le trasformazioni della finanza internazionale, dalle prime attività creditizie sino agli attuali meccanismi speculativi - spesso responsabili di drammatiche crisi economiche in vaste aree del mondo -, dai flussi migratori internazionali alla riorganizzazione geografica del lavoro, riflesso delle nuove dinamiche di sviluppo tecnologico.

Citation preview

Page 1: Gli spazi della globalizzazione

Umberto MelottiRoberto PanizzaFabio M. Parenti

Gli spazi della globalizzazioneFlussi finanziarimigrazioni e trasferimento di tecnologie

a cura di Fabio M. Parenti

Geograf ia e paesaggio

Le categorie tradizionali appaiono inadeguate a cogliere e descrivere gli spazi dell’agire umano

dai confini sempre più incerti. La continua riorganizzazione e ristrutturazione di luoghi e regioni,

sotto la spinta di processi che acutizzano la tensione tra globale e locale, rende necessaria un’a-

nalisi che si muova all’interno della dinamica tra aree e flussi.

Il libro si concentra sui fenomeni riconducibili entro questa dinamica: la storia e le trasformazioni

della finanza internazionale, dalle prime attività creditizie, sino agli attuali meccanismi speculati-

vi – spesso responsabili di drammatiche crisi economiche in vaste aree del mondo – i flussi mi-

gratori internazionali, la riorganizzazione geografica del lavoro, riflesso delle nuove dinamiche di

sviluppo tecnologico. Nei decenni della globalizzazione sono questi gli elementi del quadro geo-

economico e politico mondiale (migrazioni, internazionalizzazione della finanza, trasferimenti di

tecnologie) indispensabili al fine di una corretta comprensione di quelle geografie in via di defi-

nizione delle quali i saggi raccolti in questo volume offrono un’analisi articolata e complessa.

Umberto Melotti (Milano, 1940) è professore ordinario di Sociologia Politica all’Università di Roma “La Sapienza”. Hafondato e dirige la rivista «Terzo Mondo». Fra le sue pubblicazioni: Sociologia della fame (Milano 1965 e 1966), Rivoluzionee Società (Milano 1965), Marx e il Terzo Mondo (Milano 1972), L’immigrazione, una sfida per l'Europa (Roma 1992); Etnicità,nazionalità e cittadinanza e L’abbaglio multiculturale (Roma 2000).

Roberto Panizza (Torino, 1940) dal 1981 è professore ordinario di Economia Internazionale alla Facoltà di Scienze Politichedell’Università di Torino. Ha redatto alcune voci economiche del Grande dizionario enciclopedico Nova (Torino 2002) e cu-rato per Rai2 (2001) le venti puntate di La storia della moneta: dall’economia primitiva all’euro. Autore di saggi apparsi suriviste e volumi collettanei, svolge attività di consulenza presso fondazioni e centri studi, nazionali e internazionali.

Fabio Massimo Parenti (Roma, 1974) si è laureato in Geografia presso l’Università di Roma “La Sapienza” con una tesisu Sviluppo sostenibile tra riflessione globale e analisi locale in Vietnam, centro di successive ricerche sul campo. Ha pub-blicato, oltre a interventi su riviste cartacee e on line, la monografia Sviluppo sostenibile e comunità rurali nel nord ovestdel Vietnam (Torino 2002).

In copertina: fotografia di Renato Cerisola (particolare)

MontefalconeStudiumU

mb

erto

Mel

ott

iR

ob

erto

Pan

izza

Fab

io M

. Par

enti

DIA

BA

SIS

Gli

spaz

i del

la g

loba

lizza

zion

e

€ 16,00 DIA

BA

SIS

Cop Global OK:Cop Global OK 23-08-2012 10:46 Pagina 1

Page 2: Gli spazi della globalizzazione
Page 3: Gli spazi della globalizzazione
Page 4: Gli spazi della globalizzazione

M o n t e f a l c o n e S t u d i u m

G e o g r a f i e e p a e s a g g i o

Sezione diretta da Massimo Quaini

Page 5: Gli spazi della globalizzazione

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 88 8103 315 1

© 2004 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

[email protected] www.diabasis.it

Page 6: Gli spazi della globalizzazione

Umberto Melotti, Roberto Panizza, Fabio Massimo Parenti

Gli spazi della globalizzazioneFlussi finanziari, migrazioni e trasferimento di tecnologie

a cura di Fabio Massimo Parenti

D I A B A S I S

Page 7: Gli spazi della globalizzazione

Gli autori ringraziano Massimo Quaini per aver voluto accogliere questo volume in Geografie e paesaggio, sezione da lui diretta della collana Montefalcone Studium.

Page 8: Gli spazi della globalizzazione

Gli spazi della globalizzazionea cura di Fabio Massimo Parenti

Parte primaLO SPAZIO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

Fabio Massimo Parenti

Premessa metodologica

Lo “spazio” tra antropologia e politica

Lo “spazio” tra geografia e nuova economia

Oltre le generalizzazioni dicotomiche: un pianeta asimmetrico

Regioni, luoghi, risorse e conflitti

Le migrazioni: vecchi e nuovi flussi

Stati e regioni

Luoghi

Conclusioni

Parte secondaMOVIMENTI INTERNAZIONALI DI CAPITALI

DAL RINASCIMENTO AI NOSTRI GIORNI

Roberto Panizza

Capitolo primoLa nascita e l’alternarsi dei grandi centri finanziari europei dall’origine fino alla prima guerra mondialeCapitolo secondoIl flusso internazionale di capitali dalla fine del gold standardal nuovo ordine economico di Bretton WoodsCapitolo terzoDalla crisi del sistema di Bretton Woods al trionfo dei princìpi monetaristiCapitolo quartoLe nuove frontiere della finanza negli anni Ottanta e NovantaCapitolo quintoOsservazioni conclusive sui flussi finanziari dell’inizio del terzo millennio

9

11

13

16

19

23

26

27

29

32

37

39

50

63

77

92

Page 9: Gli spazi della globalizzazione

Parte terzaLE NUOVE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI

Umberto Melotti

Capitolo primoMigrazioni internazionali e globalizzazioneCapitolo secondoPolitiche migratorie e culture politicheCapitolo terzoLa comunitarizzazione delle politiche migratorie europee Capitolo quartoL’Italia nel processo delle nuove migrazioni internazionali

Parte quartaTECNOLOGIE, INDUSTRIALISMO E GLOBALIZZAZIONE

Fabio Massimo Parenti

IntroduzioneCapitolo primo Tecnologie e industrialismoCapitolo secondoI paradigmi e le dinamiche tecnologiche nella globalizzazione Capitolo terzoTransnazionali, ICT e nuove geografieCapitolo quartoConclusioni teoriche

Riferimenti bibliografici per argomento

Indice dei nomi

107

109

114

131

139

153

155

157

170

188

204

221

227

Page 10: Gli spazi della globalizzazione

Parte prima

LO SPAZIO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

Fabio Massimo Parenti

Page 11: Gli spazi della globalizzazione
Page 12: Gli spazi della globalizzazione

Premessa metodologica

Scopo di questo libro è indagare sul modo in cui si stanno riconfigurando ne-gli ultimi decenni gli spazi politici, economici e sociali dell’agire umano. Si ten-terà di rispondere a una duplice esigenza: contribuire a una maggiore compren-sione delle dinamiche mondiali in corso e iniziare a costruire nuove categorie perleggere e interpretare un mondo in profonda trasformazione.

Il testo si articola intorno ai tre fattori dello sviluppo e del sottosviluppo: ca-pitale, lavoro e tecnologia. Fattori che vengono studiati nella loro dinamicità,sotto la forma dei flussi finanziari, dei movimenti di persone (migrazioni inter-nazionali) e dei trasferimenti di tecnologie.

La nuova divisione internazionale del lavoro, conseguenza della riorganiz-zazione dell’economia mondiale (tra nuove disuguaglianze e strutturazioni),emerge sia dal rapporto contraddittorio fra i movimenti di persone e quelli dicapitale, sia dai cambiamenti intervenuti nei flussi di tecnologie. Un contesto incui prevalgono relazioni asimmetriche, dove la galassia finanziaria si colloca sem-pre più al di sopra delle economie reali. Infatti, mentre le nuove tecnologie infor-matiche alimentano una realtà finanziaria mondiale legata sempre meno agli in-vestimenti reali e sempre più alle speculazioni sugli indici di borsa, le migrazio-ni di persone continuano a seguire la mobilità degli impianti e delle produzionireali (sempre più frammentate), anche come conseguenza di crescenti disugua-glianze a più livelli scalari. La finanza si presenta come un sistema “virtuale” so-pra a un sistema reale, in un rapporto alto/basso che tende a eliminare la circo-larità tra capitale e lavoro, contribuendo, in ultima istanza, alla riconfigurazionedegli “spazi dell’agire umano”.

La categoria “spazio” nell’epoca della globalizzazione è l’oggetto di questosaggio introduttivo. Le altre tre parti relative ai movimenti di capitali, di uomi-ni e di tecnologie nel mondo completano questo studio degli aspetti più peculiaridella globalizzazione.

L’idea-guida, originaria, di questo lavoro è che la globalizzazione vada ana-lizzata prescindendo da un’analisi di lungo periodo e debba invece essere af-frontata partendo da uno sforzo sistematico di comprensione, concentrato sul-le novità: le sue peculiarità, le sue caratteristiche strutturali e dinamiche. In unaparola, la sua specificità.

In una tale prospettiva, il tempo – dimensione inscindibile dallo spazio – è

Page 13: Gli spazi della globalizzazione

considerato secondo una concezione prevalentemente lineare (la freccia), cheha a che fare con l’irripetibilità degli eventi, piuttosto che con la loro ripetibi-lità, come avverrebbe invece in una concezione ciclica1. Cogliere il significatodelle discontinuità che caratterizzano la globalizzazione, richiede, ovviamente,anche una sommaria presentazione delle condizioni passate, rispetto alle qua-li si è prodotto un cambiamento specifico. L’esigenza primaria, tuttavia, è quel-la di fornire uno strumento per comprendere il presente costruito e in via didefinizione.

Il presente – l’identità attuale della società – non può essere eccessivamente schiaccia-to dal passato: ogni generazione ha da rivendicare il proprio essere, la propria specifi-cità, spezzando alcuni fili che lo collegherebbero con le generazioni precedenti, co-struendo, nello stesso tempo, rapporti di continuità e di discontinuità2.

Da questo punto di vista si considera necessaria un’analisi geografica che –coerentemente con la sua essenza etimologica, cioè graphein, segno – tenti di in-dividuare i segni e i di-segni dei principali processi attraverso i quali è possibilegiungere a un’identificazione della globalizzazione e a una sua parziale “visua-lizzazione”.

Tali processi sono studiati in termini di aree, in relazione tra loro tramite l’e-sistenza di flussi. L’intento è quello di riuscire a visualizzare aree, luoghi e flussial fine di riflettere sulle caratteristiche interne a ogni processo e sulle ragioni geo-grafico-politiche ed economiche che intervengono nell’intersezione fra i pro-cessi, ovverosia fra i rispettivi piani spaziali disegnati.

Va sottolineato peraltro che l’esigenza di costruire un’immagine territorialedella globalizzazione si scontra, nel caso dei movimenti di capitali, con la quasitotale impossibilità di visualizzarne i flussi, se non in modo marginale3. Ciò no-nostante, conoscere il nuovo funzionamento della finanza mondiale consente diragionare sul modo in cui, al di là di una sua rappresentazione geografica “og-gettiva”, i suoi meccanismi influiscano sulle condizioni di vita, in termini di strut-turazioni e de-strutturazioni territoriali.

Nella dialettica tra globale e locale è ormai noto che a una parziale integra-zione mondiale (soprattutto per le merci e i capitali) – tecnologicamente fonda-ta – si affianca un acuirsi delle divisioni legate all’emergere o ri-emergere di istan-ze localiste, che possono esser lette come reazione ai processi dominanti dellaglobalizzazione, percepiti o vissuti come esclusione. Non a caso l’antropologoGeertz afferma che «la molteplicità delle culture è un dato certo, anzi in au-mento», e che sono «i rifiuti e le fratture che oggi delineano il paesaggio delleidentità collettive»4.

A fronte di un contesto di tale complessità, quanto può essere oggettiva l’a-nalisi geografica e socioeconomica dei processi della globalizzazione che quipresentiamo?

Gli esseri viventi, e la materia in genere, esistono nello spazio e nel tempo.Meglio, la loro natura è intrinsecamente spaziale, così come la loro configura-

Fabio Massimo Parenti1 2

Page 14: Gli spazi della globalizzazione

zione varia nel tempo, per cui il legame fra materia, tempo e spazio possiede unadimensione oggettiva5. Anche in relazione a ciò, un’analisi geografica, comequella proposta in questa sede, è mossa in parte da una necessità di rappresen-tazione oggettiva degli “spazi antropici” ri-disegnati dalle migrazioni, dalla fi-nanza e dalle tecnologie alla scala globale. Ma è altrettanto vero che si tratta pursempre di una rappresentazione, di una ricerca tesa a costruire un’immagine diprocessi economico-politici (propriamente umani) che, per quanto complessa eseriamente concepita, ha più a che fare con categorie economiche e politicheculturalmente derivate (nel nostro caso il significato e l’utilità della categoria“spazio” con le sue articolazioni) piuttosto che oggettivamente assolute. È il pun-to di vista antropico, non oggettivo, ma legato all’immaginazione (nel senso del-la produzione di immagini), a fornire originalità al lavoro.

Al riguardo Massimo Quaini ci fornisce un’affascinante interpretazione chenon è incompatibile con una decifrazione realistica del mondo e con una visio-ne “materialistica”:

[…] immaginazione che, come insegna Paracelso, è la produzione magica di un’im-magine e, per estensione, la forza magica per eccellenza, l’azione creatrice e pro-duttrice. Questa nozione dell’immaginazione come intermediario magico tra il pen-siero e l’essere, incarnazione del pensiero nell’immagine e posizione dell’immagi-ne nell’essere, è una concezione che gioca un ruolo fondamentale nella filosofiarinascimentale. Nelle immagini si incarnano il nostro pensiero, il nostro desiderio,i nostri sogni. Ma, soprattutto, le immagini appartengono alla stessa magia natura-le che spiega l’intero universo. Anche le immagini fanno parte dell’universo deicorpi, del mondo visibile e tangibile della terra e dei cieli, espressione di un’entitàinvisibile, intangibile che Paracelso chiama Astrum e che potremmo definire “ani-ma del mondo”6.

Di seguito tratteremo alcune differenti concezioni relative allo “spazio”, perpoi delineare una sintesi geografica, che contribuisca a individuare quali “spazi”vengano disegnati a scala globale dai processi oggetto di studio.

Naturalmente, come ben sanno i geografi, prendere la scala planetaria comeoggetto d’analisi privilegiato comporta inevitabilmente un elevato grado di astra-zione, che però si ridurrà con l’attenzione posta sulle aree considerate “nevral-giche” per ciascun processo analizzato, cioè sui “luoghi” di intersezione e/ocoincidenza tra i processi.

Per capire come la categoria “spazio” possa essere riconsiderata nell’epocadella globalizzazione, il pensiero geografico deve oggi, forse ancor di più che inpassato, fondersi con altri campi del sapere.

Lo “spazio” tra antropologia e politicaLa categoria “spazio”può essere considerata una produzione dell’intelletto e

in quanto tale variabile in relazione ai contesti culturali in cui si vive. Al riguar-do sembrerebbe naturale supporre che il nostro contesto culturale “occidenta-

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 1 3

Page 15: Gli spazi della globalizzazione

le” implichi una cognizione globale (planetaria) dello “spazio”, che dipende lar-gamente dal diffuso accesso alle nuove tecnologie. Essa è tuttavia solo una del-le tante forme percettive dello “spazio” (tanto nel mondo “occidentale”, quan-to in “altri” mondi). Si pensi, più in generale, alla duplice propensione umana al-la ricerca del calore domestico (del focolare) – uno spazio circoscritto carico dicertezze – e al movimento, fisico e mentale, verso luoghi non conosciuti e spazipiù ampi e indefiniti7.

Attualmente non si può non rilevare che dappertutto esiste in maniera semprepiù accentuata una tensione fra «mondo globale e mondi locali» e che la com-plessità della dialettica tra frammentazione e unione, integrazione e disintegra-zione ci obbliga a non cadere in falsi determinismi e, soprattutto, a prevedere la so-vrapposizione fra più forme percettive della categoria “spazio”.

È necessario pertanto tenere nella dovuta considerazione una certa sensibi-lità antropologica. Da questa prospettiva lo “spazio” è un concetto il cui signifi-cato dipende dall’uso che se ne fa nell’ambiente sociale a cui si appartiene. Unadata foresta è vissuta per esempio come un luogo sacro da un determinato grup-po di persone, mentre da altri è percepita esclusivamente come uno spazio eco-logico ed economico. Nella Cina “tradizionale”, la città di Pechino rappresen-tava per le élites «un diagramma cosmico», mentre per le persone comuni con-tavano i singoli luoghi all’interno della città (templi, alberi, ponti ecc.)8.

La variabilità della categoria “spazio” dev’essere quindi un punto di parten-za imprescindibile, poiché si tratta di un concetto alterabile e mutevole, che nonci consente di individuare confini fissi9: non a caso parliamo di aree e di flussi.

Nel complesso, l’intervento modificatore che una cultura esercita sull’am-biente e sui corpi (secondo la concezione indigena latina), in una parola, sullanatura, è un processo tramite il quale si va strutturando un particolare concettodi “spazio” come componente dell’identità (tale solo se differenziato da altreforme d’organizzazione spaziale). Le modalità in cui l’uomo interviene sulla na-tura riguardano proprio la strutturazione dei luoghi, cioè gli spazi in cui l’abita-re, le abitudini, l’abbigliamento, le colture producono delle identità territoriali(forme di culturalizzazione della natura).

Tale interpretazione deriva da un più ampio ragionamento di Francesco Re-motti, il quale sostiene che «ogni società si distende in uno spazio, lo articola e loorganizza in certi luoghi, eleggendo o ritagliando certi ambiti specifici del suoterritorio in quanto destinati a certe attività»10.

Dal punto di vista antropologico lo “spazio” si presenta, quindi, come il ri-sultato di un intervento modificatore sulla natura ad opera dell’uomo, nonché diun intervento modificatore su un gruppo sociale da parte di varie forme di po-tere. Siamo di fronte a uno spazio culturalmente caratterizzato e qualitativa-mente differenziato che ha sempre informato i luoghi.

Un altro punto di osservazione è rappresentato dal rapporto tra spazio epolitica. Carlo Galli, storico del pensiero politico11, dimostra che nell’evolu-zione del concetto di spazio implicito nel pensiero politico si può distinguere

Fabio Massimo Parenti1 4

Page 16: Gli spazi della globalizzazione

in modo chiaro tra concezione premoderna, moderna e della globalizzazione.Nelle città e negli imperi premoderni è lo spazio, secondo Galli, a essere

portatore di politica: uno spazio gerarchicamente organizzato, culturalmentequalificato, non determinato, né rappresentato con categorie rigide, come ac-cade, invece, nell’epoca moderna, nel corso della quale è la politica a determi-nare lo spazio.

Questa inversione del rapporto fra spazio e politica nascerebbe dalle reazio-ni formulate per rispondere alle crisi della spazialità politica agli albori della mo-dernità (riconducibili alla rivoluzione copernicana in campo scientifico, allariforma luterana in campo religioso e soprattutto alla conquista dell’America).

La differenziazione geometrica di spazi lisci e omogenei diventa così la logi-ca fondamentale (hobbesiana) dietro la nascita dello stato-nazione12, che rap-presenterebbe perciò una risposta “moderna” alla paura o spaesamento pro-dotto “dall’altro”, dalle nuove terre, dalle nuove concezioni.

Lo stato-nazione della modernità forgia pertanto categorie rigide come “in-terno” ed “esterno”, “particolare” e “universale”, ma allo stesso tempo, «nono-stante la pretesa moderna che le geometrie della politica siano stabili e certe, lecategorie spaziali della politica moderna risultano in realtà instabili e cangian-ti»13, per la presenza del soggetto e delle sue proiezioni universali (pur costret-to e disciplinato dallo Stato): uno spazio liscio, dunque, ma in movimento; geo-metrico, ma variabile.

A causa di queste caratteristiche contraddittorie, la spazialità politica nel-la tarda modernità entra in crisi – preparando la “rivoluzione” spaziale rap-presentata dalla globalizzazione – e determina tentativi profondamente irra-zionali di riqualificare lo spazio politico. Lo “spazio vitale” di Hitler, ad esem-pio, è divenuto lo strumento teorico per una giustificazione “scientifica” dellepolitiche razziali e d’espansione territoriale. Non a caso, la scuola geopoliticatedesca, che ha mutuato il concetto di “spazio vitale” (concezione dello Statocome organismo) dal pensiero di Ratzel, dal 1931 s’incorpò al nazismo14.

Si può quindi affermare che i totalitarismi abbiano esemplificato, sia nel sen-so particolaristico del nazionalismo, sia in quello universalistico del comunismo,l’implosione delle contraddizioni interne agli spazi politici moderni.

I confini rigidi e netti, secondo Galli, sono superati nella globalizzazione,che è presentata come portatrice di una spazialità di difficile definizione, mache rappresenta «essenzialmente uno sconfinamento, uno sfondamento di con-fini, deformazione di geometrie politiche», nella quale è l’economia a dare sen-so allo spazio15.

Considerando la finanza mondiale, potremmo parlare oggi di un’assenza dispazio, sia perché i suoi flussi avvengono attraverso le cosiddette “tecnologiedell’immateriale”, sia perché, come analizza in questo volume Roberto Panizza,l’uso delle tecnologie informatiche e l’assenza di normative trasparenti non con-sentono, come già ricordato, di visualizzare la maggior parte dei flussi finanzia-ri che si dispiegano a ogni scala.

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 1 5

Page 17: Gli spazi della globalizzazione

In base alla prospettiva antropologica sopra presentata è possibile rilevare ilimiti del pensiero politico analizzato da Galli (per ciò che concerne la modernitàe la sua eredità). Un pensiero che ha prodotto categorie spaziali e una prassi po-litica non sufficientemente attente ai movimenti reali.

Alla luce di ciò, la prassi politica dovrebbe ripartire – in accordo con l’a-nalisi critica di Geertz – dalla concretezza dei fatti (andando oltre un’immagi-ne divisoria del mondo in blocchi e superblocchi) e da una migliore interpre-tazione di ciò che dà senso alle convinzioni degli uomini. «Una politica chenell’autoaffermazione etnica, religiosa, di razza, linguistica o regionale non ve-da una mancanza di ragionevolezza arcaica o innata, da reprimere o da supe-rare, una politica che non tratti questi generi di espressione collettiva comeuna spregevole follia o un abisso buio, ma sappia invece affrontarli come facon la disuguaglianza, l’abuso di potere e altri problemi sociali». «Divergen-za», «varietà» e «disaccordo» sono le categorie con le quali ci si deve con-frontare16. Ce lo hanno insegnato anche alcune rivoluzioni che nel Terzo Mon-do hanno portato a un superamento del colonialismo, che hanno «evidenzia-to la natura composita della cultura» e non hanno imitato il nazionalismoeuropeo che quelle culture negava17.

Il superamento del colonialismo sembra esser stato, tuttavia, un fenomeno ef-fimero o quanto meno parziale. Anche il Terzo Mondo è infatti sempre più fram-mentato, con aree in competizione tra loro per ricevere una quota maggiore diaiuti economici da parte delle nazioni ricche: «Sempre più pressanti e frequentisono le richieste di “ricolonizzazione” di fatto, specie da parte di élites politicheomologate dall’Occidente al potere in molti Stati»18.

Lo “spazio” tra geografia e nuova economiaLo “spazio” inteso come categoria geografica può essere visto, nella globa-

lizzazione, come ciò che si crea a seguito dell’interazione dialettica fra due di-namiche sottostanti a ogni processo: quella legata agli “spazi dei luoghi” (an-tropologicamente intesi) e quella legata agli “spazi dei flussi” (economicamen-te e politicamente considerati). Ciò, in termini più generici e astratti, mette inrapporto locale e globale.

Al riguardo Massimo Quaini, uno dei maggiori teorici della geografia in Italia,invita a ragionare sulla «necessaria dialettica del chiuso (luoghi) e dell’aperto (flus-si), del confine e della sua negazione, senza la quale subentra la crisi pericolosa delripiegamento identitario»19. Un’interazione, quella tra luoghi e flussi, «[…] checontinua a informare e diversificare i nostri luoghi»20.

Nonostante la dilatazione dello spazio dei flussi, è nei luoghi che si produ-ce una riconfigurazione “visibile” della dialettica tra i due tipi di spazio, il cuirapporto attuale viene letto da Manuel Castells in termini di polarizzazione fradue logiche disgiunte. L’accentuata polarizzazione è, per Castells, finalizzata agarantire il funzionamento del meccanismo fondamentale per la dominazione:il controllo.

Fabio Massimo Parenti1 6

Page 18: Gli spazi della globalizzazione

«Il capitale circola, il potere comanda e la comunicazione elettronica vorticaattraverso i flussi di scambio tra snodi lontani ma selezionati, mentre l’esperien-za frammentaria rimane confinata nei luoghi […]. Circoscrivendo il potere allospazio dei flussi, consentendo al capitale di sfuggire al tempo, e dissolvendo lastoria nella cultura dell’effimero, la società in rete disincarna i rapporti sociali,[…]»21. Da una parte, nei luoghi, prevale ancora il legame sociale e con il terri-torio (seppure spesso fin troppo destrutturato) che si esplica attraverso rappor-ti per così dire “termici” (ossia relazioni energetico-materiali, in cui intervengo-no atomi, temperature e pressioni). Dall’altra, nei flussi, prevale il dominio del-la tecnologia “immateriale” delle comunicazioni a distanza e dell’informazione(ove gli atomi sono sostituiti dai bit), delle merci e dei capitali. Si tratta di «unaseparazione tra il potere e l’esperienza vissuta, essendo questi situati in spazi-tempo differenti»22.

Come osserva Jean Ziegler,

la globalizzazione […] porta a uno sviluppo strettamente localizzato dei singoli cen-tri di affari in cui sono installate le grandi società, le banche, le assicurazioni, i servizidi marketing e di distribuzione, i mercati finanziari […].La globalizzazione disegna così sulla faccia della Terra una specie di scheletrica reteche unisce alcuni grandi agglomerati, al di fuori della quale si assiste all’“avanzata deideserti”. Stiamo entrando nell’epoca dell’“economia arcipelago”, un modello “a ve-locità multiple” che conduce alla progressiva distruzione di tutti i tipi tradizionali disocietà e di socialità e segna, senza dubbio per lungo tempo, la fine del sogno di unmondo infine unificato, riconciliato con se stesso e in pace23.

Uno dei principali attori che alimenta e che contribuisce a definire il nuovoassetto mondiale è costituito proprio dalle società transnazionali, le quali crea-no le strutture di potere oligopolistiche dell’“economia arcipelago”. Le societàtransnazionali sono infatti aumentate nel corso degli ultimi decenni, non solonumericamente – passando dalle 7 mila (1970) alle 63 mila del 2001 – ma anchee soprattutto in dimensione. Ciò ha innescato una concorrenza feroce tra di lo-ro, con effetti a vastissimo raggio. Cinquantuno delle cento economie più im-portanti del mondo sono rappresentate da grandi imprese transnazionali, cia-scuna delle quali supera la ricchezza di diverse nazioni messe insieme: le tre piùgrandi multinazionali hanno un capitale pari alla ricchezza di 70 Paesi24.

Tutto ciò è in sintonia con la nascita e l’operare dell’Organizzazione Mon-diale del Commercio (conosciuta con la sigla inglese WTO), che detiene un po-tere straordinario al di fuori delle stesse Nazioni Unite, poiché può sanzionaredei Paesi in base alla sola denuncia di un’impresa. È la prima volta nella storiache gli interessi di un singolo Stato possono essere messi sullo stesso piano de-gli interessi di un’impresa25, che spesso gode di maggiori privilegi e di miglioritrattamenti.

Quando uno Stato decide di applicare restrizioni commerciali per questioni

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 1 7

Page 19: Gli spazi della globalizzazione

legate alla salute, all’ambiente e alla tutela di specie viventi (si pensi ai casi dellacarne agli ormoni, della tutela dei delfini e delle tartarughe, degli OGM ecc.),nella maggior parte dei casi vede i suoi provvedimenti (spesso inerenti al rece-pimento di altri Trattati internazionali) disconosciuti dal WTO. L’Organizza-zione – tramite gli organi preposti alle dispute – chiama lo Stato messo sotto ac-cusa, e non l’accusatore, a dimostrare in modo incontrovertibile l’evidenza delrischio, annullando quindi qualsiasi principio di precauzione e, in ultima istan-za, di sovranità (cfr. box Il potere del soggetto privato e il WTO).

Di fronte a ciò, non è per nulla esagerata la posizione espressa da UmbertoAllegretti, il quale afferma causticamente che

forse non c’è miglior prova della superiorità che hanno, nella nostra epoca, gli inte-ressi economici rispetto agli altri obiettivi umani e di come essi abbiano la forza dipiegare i meccanismi giuridici alla codificazione legale dell’economicismo filosofi-co-antropologico proprio di questo tempo26.

Pertanto, seppure i negoziati vengano svolti formalmente dai rappresentantidegli Stati, sono in realtà le società transnazionali i soggetti che intervengono amonte nel processo decisionale. La posizione dell’Unione Europea, ad esempio,viene preparata nell’ambito del “Comitato 133”, in cui oltre agli alti funzionari deivari Paesi si trovano gli agenti delle imprese globali. Ed è sulla base dei documen-ti elaborati in tali sedi – in cui l’azione di lobbing è sostanziale – che si svolgono i ne-goziati ufficiali27.

Va ricordato peraltro che la competizione forte tra gruppi economico-finan-ziari, facenti capo ad aree geografiche diverse, è inevitabilmente condizionatadalle istanze politiche dei vari gruppi di Paesi. Questo – come è stato dimostra-to in occasione del vertice di Cancùn – potrebbe fare in modo che alcuni validiprincìpi del WTO, come quelli del «trattamento speciale e differenziato» (chepermetterebbe ai PVS di adottare misure protezionistiche) e quelli delle praticheantidumping (contro l’operato dell’Unione Europea, degli USA e del Giappone),vengano finalmente applicati28.

Se consideriamo l’intreccio fra la potenza delle società transnazionali, gli in-teressi particolaristici o, comunque, il malfunzionamento espresso dagli orga-nismi internazionali (WTO, FMI, BM, le politiche sottese all’attività di alcuneAgenzie delle Nazioni Unite ecc.) e l’espansione delle economie criminali29, ab-biamo una prima conferma di quanto le cose siano complesse.

Anche se la maggior parte delle imprese cui si sta facendo riferimento han-no origine nei Paesi del Nord del mondo, la loro azione “glocale” richiedeun’attenzione particolare per gli effetti che, sul territorio, si esplicano attra-verso l’interazione tra governi, organismi sovrannazionali, imprese ed econo-mie locali.

La concentrazione di potere economico e politico riduce gli spazi di parteci-pazione democratica al livello globale dei flussi, creando rotture, resistenze e nuo-vi processi identitari al livello locale in cui si svolge la nostra vita.

Fabio Massimo Parenti1 8

Page 20: Gli spazi della globalizzazione

La polarizzazione di cui parla Castells non elimina dunque il rapporto dia-lettico di azione e reazione tra le due logiche spaziali: esso permane nelle inter-sezioni fra relazioni orizzontali (nei flussi) e relazioni verticali (nei luoghi).

I processi globali, infatti, si articolano prevalentemente in relazioni orizzon-tali fluide e dinamiche, che dipendono pur sempre sia da fattori materiali (tec-nologie e costruzioni dipendono dall’accesso alle risorse naturali), sia da azionie comportamenti “effettivi” che si dispiegano in luoghi precisi (anche se blin-dati e recintati). Tra il livello più concreto dei fattori materiali spazialmente de-terminati e quello più sfuggente dei flussi (anche quando si tratta di merci o per-sone) si creano conflitti e contrapposizioni, ma, soprattutto, interazioni che èobbligatorio tentare di comprendere. È nella loro dialettica che si formano i nuo-vi campi spaziali dell’esistenza degli uomini.

Oltre le generalizzazioni dicotomiche: un pianeta asimmetricoSiamo di fronte a una realtà in cui i processi della globalizzazione disegnano

una geografia delle condizioni di vita profondamente asimmetrica. Ogni popoloè coinvolto nei processi in atto. Tuttavia, mentre solo alcune persone ne benefi-ciano in termini di opportunità e benessere (si pensi che nel 1998 le tre personepiù ricche del mondo avevano una ricchezza superiore al PIL dei 48 paesi più po-veri al mondo – UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano, 1998) tanti altri ne subi-scono le conseguenze in termini prevalentemente negativi (basti menzionare ilsignificativo peggioramento delle condizioni di vita dei popoli dell’Africa sub-sahariana negli ultimi 25 anni). Naturalmente, i livelli di disuguaglianza sono mol-

Il potere del soggetto privato e il WTO

Un esempio, tra i tanti possibili, è quello della compagnia francese “Suez”, che, in-sieme alla “Vivendi”, controlla il 40% del mercato mondiale di distribuzione del-l’acqua. Nel 1997 questa multinazionale si aggiudicò un appalto a Manila, doveera stato avviato un progetto di privatizzazione delle acque. La concessionarialocale della “Suez” ha avuto una pessima performance, benché il prezzo dell’ac-qua nella capitale filippina fosse aumentato del 500%. A questo punto la “Suez”decise di chiedere al governo un aumento delle tariffe, maggiori garanzie sui pre-stiti e la riduzione del numero di utenti da servire. Non contenta, la società hachiesto al governo una compensazione di 200 milioni di dollari per i danni causa-ti alla “ casa madre” dal cattivo operato della filiale locale. Ancora una volta, ladomanda di risarcimento (di un’impresa nei confronti di un governo) è finita al-l’arbitrato del WTO, che tratta il governo filippino alla stregua di un soggetto pri-vato (senza la possibilità che i comitati locali possano essere rappresentati) [A.Tricarico, Evian, l’acqua dei G8, in «il manifesto», 31 maggio 2003].

Page 21: Gli spazi della globalizzazione

teplici e in linea generale dipendono dal “grado di accesso” alle risorse materialie immateriali. Anche per questa ragione, al di là dei giudizi di valore sulle ten-denze più recenti, l’asimmetria del nuovo assetto mondiale richiede di dotarsi dipunti di vista nuovi, che prendano innanzi tutto le distanze da classificazioni di-cotomiche troppo semplicistiche, come quelle “Nord-Sud” ed “Est-Ovest”30.

È doveroso ricordare, tuttavia, che il punto di vista qui proposto non vuoleannullare totalmente il valore di dati aggregati che mostrano la disuguale distri-buzione di ricchezza e proprietà tra l’emisfero nord e quello sud. È importante in-fatti sapere che Stati Uniti, Canada, Europa occidentale e Giappone sono i Pae-si d’origine delle più grandi e potenti transnazionali del mondo. E a questi Paesi– quindi alle loro imprese globali – è ascrivibile circa il 70% del commercio mon-diale31. O, più in particolare, che l’85% degli investimenti nella ricerca farma-ceutica mondiale interessa le malattie che colpiscono i Paesi ricchi, dove non acaso si realizzano il 90% delle vendite di medicinali32; questo, nonostante che ladiffusione di malattie infettive coinvolga soprattutto i Paesi più poveri, dove muo-re la maggior parte delle persone contagiate (il 97% sul totale mondiale)33.

Un altro esempio riguarda il mercato delle armi: i primi dieci produttori mon-diali del Nord rappresentavano nel 2000 il 91,2% del mercato34, mentre i con-flitti degli anni Novanta si concentrano prevalentemente nell’emisfero sud.

È pur vero, altresì, che il tradizionale flusso di armi dal nord produttore alsud consumatore si è articolato in un’infinità di flussi. «Da un lato, alcuni di queisistemi d’arma, o parti di essi, che erano tradizionalmente commerciati da norda sud, muovono oggi in direzione opposta […]. Dall’altro, gli stessi o altri siste-mi d’arma muovono direttamente da sud a sud […]»35.

Così, mantenere le categorie “Nord-Sud” può essere utile, ma non sufficiente:è necessario cercare di andare oltre, ponendo lo sguardo su “regioni e luoghi”.

Le categorie “Nord-Sud”, che si richiamano appunto ai forti squilibri so-cioeconomici, accentuatisi negli ultimi decenni a ritmi senza precedenti36, nonsono in grado di rendere adeguatamente conto delle sacche di povertà in cresci-ta nel mondo ricco. In Gran Bretagna, per esempio, il 15% della popolazione vi-ve sotto la soglia di povertà relativa in condizioni molto variabili di esclusione so-ciale ed economica (circa 7 milioni e mezzo di persone, ovvero quasi l’equivalen-te della popolazione della Bolivia o dell’Austria). E negli USA la percentuale dichi vive in condizioni di povertà relativa sul totale della popolazione è ancora piùalta del 15%, che già equivarrebbe a più della popolazione complessiva dell’Ar-gentina. Un dato che si comprende bene, se si considera l’iniqua distribuzionedel reddito negli USA, dove il 30% del PIL è in mano al 10% della popolazione,con una struttura piramidale molto accentuata: nel 1998 lo 0,01% della popola-zione (13 mila famiglie) aveva un reddito pari al 3% del PIL nazionale, equiva-lente a quello dei 20 milioni di nuclei familiari più poveri. Se il calcolo si estendeall’1% più ricco37, vediamo che questo possiede il 16% del reddito lordo federale(percentuale raddoppiata negli ultimi 30 anni)38. Di conseguenza, non è stranoche uno statunitense su cinque sperimenti almeno una volta nella vita, con la pro-

Fabio Massimo Parenti2 0

Page 22: Gli spazi della globalizzazione

pria famiglia, la vita per strada (nel ricco Massachusset ci sono, oggi, almeno 80mila persone che vivono in questa condizione).

Per quanto concerne l’Italia i dati ISTAT del 2002 segnalano che il 12,4%della popolazione, ovvero più di sette milioni di persone, vive in condizioni dipovertà39. Così come nel Regno Unito, nel Giappone e in altri Paesi tra i più in-dustrializzati vi sono situazioni di forte disuguaglianza e iniquità, aumentate ne-gli ultimi decenni. Infatti, come ci ricorda Joseph Halevi, «sono 28 anni che inEuropa e in Giappone non ci sono state riprese economiche di rilievo […] inquesto contesto è preferibile parlare di una recessione che acuirà la stagnazione[…]»40. Basti pensare che i disoccupati negli Stati più industrializzati sono pas-sati da 25 milioni nel 1990 a 39 milioni nel 200141.

Allo stesso modo, servono nuove categorie d’analisi per interpretare l’esi-stenza delle tante “isole occidentali” all’interno del Sud del mondo. In India esi-ste una classe media che ha consumi di livello occidentale, circa 80 milioni dipersone, ovvero l’equivalente della popolazione della Germania. In Sudafricaci sono alcuni milioni di persone che hanno lo stesso tenore di vita degli austria-ci, e così via. Inoltre, come spiegare e interpretare i dati dell’India che, pur es-sendo il secondo produttore mondiale di software (dopo gli USA), ha il 50%della sua popolazione analfabeta? In effetti, nonostante la rilevante crescita an-nua del PIL (di circa il 6-5% annuo negli anni Novanta), dal 1980 a oggi vi è sta-to un aumento del numero di affamati (il 53% dei bambini sono malnutriti), chela configura come l’area che insieme all’Africa sub-sahariana concentra il mag-gior numero di affamati del mondo42. Per non parlare della Cina, in cui, nono-stante i consistenti investimenti esteri, permangono i tradizionali squilibri terri-toriali tra regioni dell’Est e dell’Ovest e più di 200 milioni di persone vivono incondizioni di “povertà estrema”.

Nel Sud del mondo esistono élites nazionali che concentrano molto poterenelle proprie mani, ma che non coincidono solamente con le classi dirigenti na-zionali. In Zimbawe, i due terzi della popolazione è rurale (circa 8 milioni e mez-zo di persone), ma solo lo 0,5% degli abitanti (70.000 persone) possiede il 70%del territorio e, tra questi, solo 4000 bianchi possiedono un terzo della terra col-tivabile. In Brasile, uno dei casi di maggiore iniquità nell’assetto della proprietàfondiaria, solo il 3% della popolazione possiede due terzi della terra coltivabi-le43, a fronte di una popolazione rurale di oltre 30 milioni di persone44. Tra que-sti, ci sono 4,5 milioni di famiglie contadine senza terra, nonostante circa 153milioni di ettari restino incolti45.

Le analisi centrate sulla dicotomia “Nord-Sud” forniscono, a nostro parere,un’immagine troppo semplificata del mondo, non aiutando a comprendere i li-velli intermedi di disuguaglianza, oppure gli scambi commerciali e le migra-zioni di persone che, per esempio, avvengono al livello regionale all’interno deidue emisferi.

Solo da questo punto di vista si potrebbe convenire con Carlo Jean, secondoil quale «mentre la distribuzione degli interessi politico-strategici nelle varie aree

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 2 1

Page 23: Gli spazi della globalizzazione

si può raffigurare con cerchi più o meno continui e omogenei a seconda della lo-ro distanza (e del peso internazionale di un Paese), quella degli interessi econo-mici è a pelle di leopardo»46.

Anche la dicotomia “Est-Ovest” (in particolare nella veste Europa/Asia),tanto antica quanto generica, non appare una categoria analitica soddisfacente.A sostegno di tale distinzione vi è spesso stata una spiegazione di tipo antropo-logico-culturale, dalla quale si sono derivate con leggerezza le differenze tra i si-stemi economici dei due blocchi.

L’Occidente (al di là dei numerosi “isolotti occidentali”), individuabile nelNord America, nell’Unione Europea, nel Giappone, nell’Australia e in alcunearee dell’Est asiatico (regioni in cui si è verificata una forte crescita del capitali-smo industrialista – pur con tutte le differenze storiche e culturali)47, esprimeuna pluralità d’identità, forgiate anche, ma non solo, dalla compenetrazione traOriente e Occidente. Infatti ogni persona e più in generale ogni società forma lapropria identità tramite affiliazioni plurime (ad esempio professionali, politichee religiose) che sono a loro volta connesse a una diversità di fenomeni semprepiù intrisi d’esperienze “d’altri mondi”. Tutto ciò crea idee e percezioni di spa-zio non facilmente assimilabili e anche in questo caso dipendenti dal grado diaccesso all’informazione e più in generale a esperienze “altre”.

Certamente esiste una diversità di valori, ma le tradizioni culturali sono assaidiversificate da regione a regione, con un dinamismo che è variabile anche neltempo; per questo la ricerca di formule univoche, riferite all’Oriente o all’Occi-dente, risulta fuorviante.

L’analisi di Amartya Sen ci ricorda come, nel caso del Giappone prima e dimolti altri Paesi asiatici poi, il “successo” del capitalismo non sia spiegabile coni soli valori importati dall’Occidente48 o con quelli tipicamente “orientali”. L’at-tenzione rivolta dagli studiosi all’influenza della tradizione samurai nello svi-luppo del Giappone; o le analisi dell’evoluzione dell’impresa familiare per spie-gare in seguito lo sviluppo socioeconomico di nuovi Paesi dell’Asia orientale; o,infine, le interpretazioni incentrate sulla disciplina legata al confucianesimo –quando nuovi territori venivano coinvolti in un processo di crescita capitalisti-ca – sono tutti elementi non adeguati a una reale comprensione del ruolo deivalori nel determinare il processo economico49.

Come spiegare, pertanto, con le interpretazioni sopra menzionate, la cresci-ta della Thailandia, il cui retroterra culturale è buddista e non confuciano? El’Indonesia, con un presente prevalentemente islamico e un passato, e in parteanche un presente, buddista e induista? Per non parlare del sub-continente asia-tico che, sempre considerato lento per tradizione, è diventato all’improvvisoun’area di dinamismo economico (attualmente con tassi di crescita del PIL piùelevati di quelli “occidentali”). La dinamica geografica (culturale ed economica)e la variabilità/incertezza della concezione europea dell’Asia offrono, così, buo-ni motivi per dubitare della dicotomia Europa/Asia50.

Questa contrapposizione è in realtà inadeguata a identificare i movimenti

Fabio Massimo Parenti2 2

Page 24: Gli spazi della globalizzazione

spaziali dei processi globali (tra loro in relazione), che producono effetti diver-si sui territori antropizzati e, quindi, sulle condizioni di vita delle persone.

Regioni, luoghi, risorse e conflittiLo spazio geografico mondiale può essere visto come un mosaico fluido e

mutevole di macroregioni sovrannazionali, articolate in microregioni sub-nazio-nali. Dalle possibili comparazioni tra aree di superficie variabile, che insistonosui diversi continenti, si osservano dinamiche locali connesse a quelle globali.Vediamo, pertanto, alcune esemplificazioni che, alle varie scale regionali, ci par-lano dei processi esaminati in questo libro.

La macroregione ecologico-culturale rappresentata dal Medio Oriente ha unaestensione interregionale (o, meglio, interstatuale), ed è caratterizzata da nume-rosi legami culturali (maggioranza araba, islamismo, strutture sociali di tipo clani-co e tribale) e geo-ecologici (ambienti bioclimatici di tipo desertico e di prateria,terre d’origine di una ricca biodiversità agricola e concentrazione delle maggiori ri-serve petrolifere del mondo). Si tratta di caratteristiche antropiche e naturali che,in linea generale, sono riconducibili a un complicato rapporto fra contiguità geo-grafica e centralità storica di questa macroregione, la quale, peraltro, si compene-tra anche con quella mediterranea.

Quest’ultima macroregione rappresenta, dal punto di vista dell’economia glo-bale, sia la maggiore area d’attrazione turistica, per le favorevoli condizioni clima-tiche e per l’esistenza di grandi patrimoni artistici e archeologici, sia un’impor-tante area di traffico d’armi, al livello regionale come a quello globale, soprattuttoin direzione nord-sud. Il Mediterraneo è, nondimeno, uno spazio in cui avvengo-no, in direzione opposta a quella delle armi, intensi scambi di materie prime ener-getiche (gas naturale e petrolio in primis). Da non dimenticare, infine, le crescen-ti migrazioni di uomini che si spostano dalla sponda sud a quella nord.

Da una prospettiva economica più strettamente regionale, invece, quest’a-rea geografica è caratterizzata dalla presenza di un gran numero di piccole emedie imprese, che sono specializzate in settori quali l’agroalimentare e l’arti-gianato (spesso delle vere e proprie economie informali), da strutture demo-grafiche piramidali con persone in prevalenza giovani e, non in ultimo, dastrutture sociali molto complesse, definite dall’intreccio tra appartenenze fa-migliari e claniche. Un insieme d’attività e di modi di produzio-ne/riproduzione economica e sociale che ne fa, secondo la definizione di Brau-del, una vera «economia mondo».

Nonostante gli elementi in comune, entrambe le aree geografiche sono inte-ressate da squilibri demografici (per esempio tre quarti della popolazione deiPaesi mediterranei vive nella sponda sud); e da fratture, conflitti e disordini (Pa-lestina-Israele, Iraq, Kurdistan, Cipro, crisi albanese e guerra del Kosovo, percitare i più conosciuti e importanti) che non consentono di mettere a frutto lepotenzialità culturali, ecologiche ed economiche per un miglioramento dellecondizioni di vita delle popolazioni coinvolte.

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 2 3

Page 25: Gli spazi della globalizzazione

Questi squilibri non sono propriamente o esclusivamente legati alle dinami-che “interne”. Basti pensare ai flussi di materie prime, che entrano nell’economiaglobale tramite la gestione da parte delle grandi corporation; agli interventi ar-mati di Stati Uniti e Regno Unito per questioni petrolifere e geopolitiche (que-stioni che motivano, peraltro, la presenza di imprese di moltissimi altri Paesi,spesso appoggiate dai rispettivi governi); alla concentrazione di gran parte deiPaesi OPEC; e al ruolo della capitale saudita (Ryad), in cui sono localizzate im-ponenti filiere finanziarie51. Non secondari, infine, gli interventi dei vari orga-nismi finanziari internazionali, che hanno condizionato (in negativo), negli ulti-mi decenni, i singoli governi nazionali tramite le “politiche d’aggiustamentostrutturale”52.

Un discorso simile si potrebbe fare per l’Africa equatoriale o il Sud-Est asia-tico: macroregioni che presentano al loro interno una forte frammentazione,spesso alimentata dai flussi dei processi globali.

Sul versante delle microregioni, invece, stati-nazione appartenenti a tre con-tinenti diversi, come la Repubblica Democratica del Congo, l’Indonesia, PapuaNuova Guinea e la Colombia, per esempio, sono legati dal fatto di possedere dasoli il 10% delle foreste vergini ancora esistenti al mondo53 e quindi essere do-tati di aree ecologiche di grande interesse economico.

Per tali motivi, queste regioni si configurano come aree sub-nazionali “ne-vralgiche”, in cui la presenza di miniere, giacimenti di petrolio, legname, ha atti-rato nel corso dei decenni investitori stranieri che, in collaborazione con gli im-prenditori e i governi nazionali, si sono appropriati o hanno preso in gestione ter-ritori da sfruttare. Come risulta dallo studio di Michael Renner, le attivitàestrattive hanno determinato l’espropriazione e la devastazione delle terre, il con-sumo e l’inquinamento delle acque e, più in generale, l’impoverimento di quegliecosistemi da cui dipendevano le economie agricole delle popolazioni locali.

Le reazioni dei movimenti indigeni hanno determinato spesso un continuoacuirsi delle tensioni, che sono sfociate in veri e propri conflitti (fosse comuni,stupri, torture) con migliaia di morti associati a ogni impianto. Non mancano,peraltro, gli esempi di giacimenti e strutture estrattive custodite con esercitiprivati e/o governativi finanziati dalle corporation straniere:a. Impianto per l’estrazione di gas, gestito dalla Exxon Mobil, nella regione di

Aceh in Indonesia. b. Impianto per l’estrazione del petrolio, gestito dall’Occidental Petroleum, in

Colombia. c. Miniera d’oro a cielo aperto (la più grande del mondo), gestita dalla società

Freeport, nella provincia indonesiana di Papua ovest54. d. Miniera di rame a cielo aperto (la più grande del mondo), gestita dalla Rio

Tinto, nell’isola di Bougainville in Papua Nuova Guinea. e. Impianti per l’estrazione di petrolio, gestiti dalla Shell e da altre compagnie

occidentali, nel delta del fiume Niger in Nigeria55.

Fabio Massimo Parenti2 4

Page 26: Gli spazi della globalizzazione

I benefici economici? Tutti lontano dalle popolazioni locali, che non hannomai avuto nulla in cambio, se non in modo illegale, oltre alle distruzioni e alleprivazioni56.

Va detto, inoltre, che un conflitto con la relativa escalation di violenza è l’i-deale per i gruppi che intervengono nel saccheggio delle risorse. Come scriveRoberto Panizza:

Tutte le guerre civili in Africa e i movimenti terroristici (come quelli che operano inAlgeria o in Sudan, per citare i più famosi) hanno avuto come obiettivo principale latutela e la salvaguardia degli interessi economici delle compagini che sfruttano le ri-sorse minerarie locali57.

In altre parole, una condizione di guerra circoscritta, più o meno riconosciutaal livello internazionale, nasconde in parte attività che sarebbero a tutti gli effetticriminali e fenomeni di corruzione e contrabbando trasversali a soggetti che rie-scono a fare affari nel caos e grazie al caos58. Non è forse un caso che la produzio-ne dell’oppio in Afghanistan (primo produttore al mondo) sia risalita drastica-mente dopo l’intervento delle potenze occidentali. Secondo l’UNDCP59, la colti-vazione dell’oppio in Afghanistan è salita del 657% nel 2002 (rispetto al 2001,l’anno dell’intervento bellico) e sembra che nel 2003 tale coltura si sia estesa a un’a-rea di 80 mila ettari (quando nel 2001 si stimò che l’area di coltivazione fosse sce-sa a circa 7600 ettari)60.

Nel complesso, per quanto riguarda sia le macroregioni, sia le microregioni sitratta di sistemi di varie dimensioni che vengono condizionati in misura diversadai singoli Stati, dalle organizzazioni sovrannazionali, dalle banche, dalle societàtransnazionali, dalle organizzazioni criminali e da gruppi locali di varia natura.Pertanto, al di là delle strutture statuali, tali “formazioni geografiche” regionali(sopra e sotto gli Stati) sembrano essere particolarmente interessanti nello studiodi quei processi che si svolgono nella doppia spazialità della globalizzazione: quel-la dei luoghi (nodi) e quella dei flussi (reti).

Anche se in misura differente, come abbiamo visto, ogni area citata ha in co-mune il fatto di possedere una o più zone d’interesse, per la presenza di materieprime intese in senso ampio: l’acqua, i combustibili fossili, le foreste, le pietrepreziose, i minerali ecc.

L’attrazione che queste regioni esercitano su investitori e “gruppi d’interes-se globali” si associa alla proliferazione di gruppi di potere “locali”, all’instabi-lità degli equilibri politici e allo sviluppo di conflitti a varia intensità, legati stret-tamente allo sfruttamento delle risorse naturali.

Riassumendo: a una zona-bacino di risorse corrisponde di frequente una con-dizione di disordine locale e di guerra civile61, a sua volta alimentata da trafficipiù o meno ampi di armi. In tali contesti i soggetti economico-politici del mer-cato globale svolgono i propri affari commerciali e finanziari. Un cerchio che sichiude, dunque, producendo un circolo vizioso che connette le risorse ai conflitti

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 2 5

Page 27: Gli spazi della globalizzazione

al livello locale, nell’ambito di flussi globali che concernono il traffico di armi, co-sì come le attività commerciali.

Dal punto di vista delle società transnazionali, che come abbiamo visto sonotra gli attori più rilevanti a scala globale, si rileva il ruolo determinante svoltodalla domanda mondiale di beni e servizi nell’orientare la loro azione. Le grandicorporation infatti rispondono a domande specifiche, provenienti da varie areedel pianeta, per cui anche una richiesta relativamente limitata, ma spazialmentediffusa e temporalmente improvvisa, determina una domanda di mercato indi-viduata come globale e a cui si risponde con interventi frettolosi per sostenere ilnuovo ciclo produttivo62.

L’intervento delle multinazionali, con la connivenza di istituzioni governati-ve, coinvolge “luoghi” e, più genericamente, aree che vengono invase da uno dei“flussi” della globalizzazione, che ne decide il destino.

Le migrazioni: vecchi e nuovi flussiL’apertura di un nuovo impianto d’estrazione, o di nuove attività produttive

“esterne” a un dato territorio, è anche causa di movimenti interregionali e loca-li di persone. È il caso delle migrazione di giavanesi verso aree del Borneo e di Pa-pua ovest (ex Irian) o di ugandesi e ruandesi verso le aree d’estrazione del coltan(minerale utilizzato nelle produzioni hi-tech) in Congo: tutti movimenti di per-sone che hanno alimentato e continuano ad alimentare tensioni interetniche.

L’asimmetria spaziale che caratterizza la globalizzazione emerge, dunque, inmaniera significativa anche dall’analisi dei movimenti di persone.

Sono circa 180 milioni i migranti del mondo, e non si muovono solamente,come si crede, dalle “periferie” verso i Paesi ricchi o, per meglio dire, verso quel-le aree (distribuite a macchia di leopardo) la cui economia può richiedere qual-siasi tipo d’impiego (semplice o specializzato a diverso livello di qualificazione).Esistono, infatti, flussi consistenti di uomini (il 60-65% del totale dei migranti)che viaggiano da un Paese in Via di Sviluppo a un altro63, spinti dalle cangiantie flessibili opportunità di lavoro che i processi della globalizzazione contribui-scono a determinare più o meno direttamente, selezionando in modo dinamicoaree e luoghi, adatti a competere di volta in volta sul mercato mondiale64.

Così «la Costa D’Avorio, con le sue piantagioni di cacao, da anni dilaniatadalla guerra civile, attrae molti più lavoratori dell’Italia»65. Guardando poi aiflussi di persone che si muovono dal Nicaragua verso la Costa Rica, dal Ban-gladesh verso l’India, dallo Zimbawe, dalla Zambia e dal Malawi verso il SudAfrica, abbiamo ulteriori elementi per comprendere il funzionamento e l’or-ganizzazione spaziale delle economie locali che, specializzandosi, cercano di ri-manere aggrappate alle maglie del sistema globale.

Un’altra regione a elevato grado d’attrazione è costituita dai Paesi del GolfoPersico, dove lavora una quota crescente di persone provenienti, oltre che dal-la Palestina, da moltissime regioni dell’Asia meridionale e sud-orientale66. Sitratta di movimenti all’interno dell’emisfero Sud che, insieme a quelli più “tra-

Fabio Massimo Parenti2 6

Page 28: Gli spazi della globalizzazione

dizionali”, confermano l’esistenza di vari livelli intermedi di disuguaglianza suscala globale.

Le politiche nazionali elaborano e applicano legislazioni più o meno vinco-lanti nel regolare i flussi. Tuttavia lo Stato non sembra essere un soggetto in gra-do di regolamentare, al fine di mitigarle, le disuguaglianze e le asimmetrie pro-dotte nello spazio dei flussi, sopra e sotto gli Stati, anche se deve fronteggiare iproblemi “interni” causati dai fenomeni migratori67.

Fattori determinanti, quali le esigenze delle imprese (basso costo del lavoro,normative sindacali e ambientali “comprensive”, regime fiscale favorevole ecc.)che sfruttano i divari socioeconomici tra aree geografiche e la competizione sulmercato mondiale, si impongono attraverso strutture organizzative mobili cheutilizzano in parte anche quelle degli Stati (considerati uno tra i diversi strumentia disposizione per perseguire gli interessi economici, commerciali e finanziaridei soggetti privati).

Stati e regioni Il dibattito sulla globalizzazione ha fatto emergere una grandissima varietà di

tesi sul nuovo assetto mondiale, incentrate soprattutto sul modo di considerareil ruolo dello stato-nazione.

Dall’esamina della letteratura sulla globalizzazione elaborata da Held e Mc-Grew68, è possibile individuare due posizioni opposte. Da una parte vi è il

Migrazioni per motivi economici negli anni Novanta, Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto, Roma 2003, p. 54.

Page 29: Gli spazi della globalizzazione

gruppo dei «globalisti», che riconosce nella globalizzazione una nuova fasedella storia dell’uomo in cui la scala e la forma dei processi socioeconomicirendono lo Stato un soggetto “in via d’estinzione” o, comunque, non più ingrado di gestire la situazione emergente. Dall’altra parte vi è invece il gruppodegli «scettici», che tendono a sottolineare come il concetto di globalizzazio-ne non abbia precisi riferimenti spaziali e che i governi nazionali conservanoun ruolo centrale nell’allocazione delle risorse. Per questi ultimi il termine glo-balizzazione ha una valenza ideologica, intesa a celare le nuove modalità del-l’imperialismo occidentale.

Tuttavia, se ci si cala nella più concreta complessità delle analisi, si rileva chefra le due categorie poste agli estremi esistono molte interpretazioni ricche disfumature, per cui spesso le analisi si intersecano e si sovrappongono.

La riflessione teorica che abbiamo proposto in questa introduzione si trovain una posizione intermedia fra i «globalisti» e gli «scettici». Essa è più spostataverso la sponda globalista quando individua nella fluidità e dinamicità dei pro-cessi globali il motore della trasformazione delle relazioni fra il territorio e glispazi socioeconomici e politici dell’agire umano. Diviene, invece, più vicina agliscettici quando enfatizza il valore che il luogo o, più in generale, lo spazio geo-grafico, continua ad avere (sempre più frequentemente a prescindere dai confi-ni nazionali).

Non possiamo pertanto affermare che i gruppi politici dirigenti nazionali e iloro apparati istituzionali siano “in via d’estinzione”. Tuttavia il loro raggio d’a-zione è spesso dipendente e limitato dalle decisioni e dai comportamenti di élitesche non hanno nazionalità, da istituzioni soprannazionali/globali che non hannoal loro interno elementi significativi di democraticità (nel FMI, ad esempio, gliUSA detengono il 17% dei voti, che dipendono dal potere finanziario di ciascunPaese) e da movimenti di opinione pubblica che hanno una pluralità d’identità,per lo più indipendenti da appartenenze politico-amministrative69.

Come avviene nel caso di regioni a scala territoriale diversa (cfr. par. 5), glistessi sistemi economici nazionali sono “vittime” della dinamica dei flussi. Bastipensare, per esempio, alla crisi finanziaria di un dato sistema economico nazio-nale (ne abbiamo purtroppo conosciute molte negli ultimi 10 anni), conseguen-te a operazioni speculative sulla sua valuta (swap); operazioni che, a loro volta,vengono eseguite dalle banche transnazionali in accordo con le banche locali (econ l’appoggio del FMI)70. Gli effetti di tali operazioni sono dirompenti sullediverse economie alle varie scale.

Secondo Manuel Castells, gli stati-nazione si adattano nella struttura e nelfunzionamento alle logiche dominanti nello spazio dei flussi, diventando, così,essi stessi dei network71. Lo Stato, categoria geopolitica per eccellenza della mo-dernità, non scompare, ma cambia ruolo, si modifica per sopravvivere a una ge-neralizzata perdita di legittimità e di potere72. Castells parla inoltre di una dop-pia tendenza che sta attraversando gli Stati nell’epoca della globalizzazione (la

Fabio Massimo Parenti2 8

Page 30: Gli spazi della globalizzazione

network society). La prima è quella verso la creazione di istituzioni sovranna-zionali e internazionali con ruoli, funzioni e dimensioni molto varie (nel casodell’UE ci sono ancora difficoltà a superare l’impostazione intergovernativa); laseconda è quella di decentralizzare i processi decisionali e le risorse al livello re-gionale sub-nazionale e locale.

Il risultato è che la legittimità e il ruolo dello Stato dipendono sempre di piùda quanto esso sia flessibile rispetto ai processi che più coinvolgono e confor-mano le persone in termini di paure, opportunità, tradizioni, controllo e noncontrollo: processi che si dispiegano nei flussi a scala globale e si coniugano neisistemi locali/nodi di connessione.

Va detto, peraltro, che esiste un cambiamento strutturale più radicale, che sipone al di là della sfida statuale a sviluppare maggiore capacità d’adattamento(flessibilità) all’economia mondiale. Quest’ultima, infatti, si sta organizzando in“città-stato” (luoghi) e “stati-regioni” (regioni), i cui rapporti si esplicano al li-vello panregionale o globale. Sono questi nuovi “contesti spaziali” a limitare ilpotere degli Stati, nella misura in cui questi ultimi disturbano gli interessi e lalogica dei nuovi attori globali73.

A conferma di ciò, Allen J. Scott ha cercato di dimostrare «l’avvento di unaparziale disgregazione delle economie nazionali e della loro riconfigurazione inun mosaico globale di regioni». In questa nuova economia capitalista globale –egli sostiene – le regioni sub-nazionali «stanno evolvendo come centri vitali del-la regolamentazione economica e dell’autorità politica e stanno divenendo, co-me corollario, il quadro di riferimento per nuovi tipi di comunità sociale»74. No-nostante queste affermazioni, Scott osserva, tuttavia, che lo stato-nazione rima-ne ancora il centro del potere nel mondo attuale, anche se tale potere si varidefinendo su una scala geografica diversa da quella nazionale.

LuoghiNell’interpretazione che distingue le relazioni orizzontali (spazio dei flussi)

da quelle verticali (spazio dei luoghi) è necessario riconoscere la progressiva tra-sformazione delle seconde.

Quaini scrive in proposito che se

oggi la dialettica locale/globale viene rappresentata nella forma nodo/rete, dobbiamoanche riconoscere che nella descrizione possiamo distinguere due scale: una globale, incui le reti connettono i nodi che sono i sistemi locali, e una locale, in cui questi nodi sirivelano a loro volta essere reti i cui nodi sono i singoli soggetti, gli attori locali75.

Possiamo allora parlare di un dominio delle relazioni orizzontali e di unaprofonda trasformazione di quelle verticali.

Se è vero che il rapporto tra società e territorio è andato radicalmente tra-sformandosi a partire dalla estensione del processo d’industrializzazione, coin-volgendo un numero crescente di regioni e di “città mondo”, cos’è che simbo-leggia la trasformazione dei rapporti con il proprio ambiente?

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 2 9

Page 31: Gli spazi della globalizzazione

In accordo con Massimo Quaini, si può sostenere che la preparazione dei ri-fiuti domestici e il loro abbandono nei cassonetti cittadini simboleggiano i resi-duali rapporti con il territorio presenti nelle città odierne, in cui il processo pro-duttivo è stato completamente decentrato76. Una tendenza, quella del decentra-mento produttivo, che, pur non essendo una peculiarità degli ultimi decenni, èandata accentuandosi proprio in virtù di quel dominio dei rapporti orizzontaliche si dispiega a tutte le scale, in relazione ai nuovi sviluppi tecnologici.

Tuttavia queste affermazioni generali sono ben lontane dal descrivere il com-plesso delle relazioni verticali che si esplicano nei diversi territori. Tant’è veroche, oltre ai modi d’uso e gestione del territorio visti in precedenza in relazioneai processi globali connessi alla nuova divisione della produzione/del lavoro e al-la finanziarizzazione dell’economia, in tanti luoghi permangono verticalità e oriz-zontalità alternative alle logiche fin qui descritte. In particolare si possono ri-trovare là dove insiste ed è distribuita la vasta popolazione rurale del pianeta,che rappresenta ancora la maggior parte della popolazione del mondo.

Molte delle esperienze locali “diverse”, le cui logiche esprimono una gestio-ne locale degli spazi e globale del tempo77, sono analizzate nell’ambito di un’am-pia letteratura sullo sviluppo sostenibile78.

L’esempio di seguito riportato nel box Relazioni alternative descrive solo al-cune delle caratteristiche di funzionamento a ciclo chiuso di microecosistemirurali, nell’ambito dei quali i rifiuti rappresentano delle risorse (ri-surgere) e ilriciclo il motore del loro funzionamento complessivo. Quanta differenza dai “no-stri” sistemi di vita! Noi siamo abituati a entrare in contatto con dei prodotti, enon con delle risorse di cui poco o nulla conosciamo. Quanta alterità infine tracircuiti opposti! Da una parte nel circuito “corto”, in cui «il produttore è in con-tatto ravvicinato con il consumatore (fino a coincidervi), garantendo un travasonon solo materiale, ma anche culturale e percettivo degli alimenti, di cui si puòconoscere composizione e processo di ottenimento»79. Dall’altra, nel circuito“lungo” globale, la distanza geografica, culturale e cognitiva separa chi produ-ce da chi consuma e quest’ultimo da ciò di cui si nutre. Il risultato è che l’ecces-so di intermediazioni, di concentrazione su pochi prodotti e di un elevato con-sumo di risorse energetiche (trasporti, rifiuti non riutilizzabili e massiccio usodella chimica) favorisce l’aumento tanto del degrado ambientale quanto dei mec-canismi di sfruttamento dei contadini.

È anche vero, d’altra parte, che la realtà è molto più articolata di quello chesi può ricavare da descrizioni sintetiche. Infatti, nei Paesi industrializzati esisto-no esperienze che sperimentano sistemi di vita (produzione e riproduzione) so-stenibili. Ma si tratta di dinamiche minoritarie che almeno per il momento nonriescono a produrre un cambiamento di rotta generalizzato.

Luoghi e regioni più o meno rimodellati dai processi globali non perdono,quindi, l’incisività di pratiche che, a scale più grandi, producono forti legamicon il territorio.

Gli uomini si identificano con i luoghi – spazi in cui la cultura cambia, modifi-

Fabio Massimo Parenti3 0

Page 32: Gli spazi della globalizzazione

ca e interviene sul territorio – al punto da dettare l’appartenenza a una diversa et-nia. Così avviene, ad esempio, che la componente che vive in pianura dell’etniaZafimaniry del Madagascar, distribuita su territori forestali collinari e pianeggianti,dichiara di essere diventata Betsileo (il nome dell’etnia attigua che vive in zonecompletamente disboscate), proprio per l’importanza predominante data alle ca-ratteristiche ambientali in cui vive80.

Va da sé che le stesse realtà che abbiamo definito come “alternative”, in cuiprevalgono relazioni socio-economiche più incentrate nei luoghi, non sonoesenti da modificazioni culturali indotte dalle trasformazioni economiche allascala globale81.

Relazioni alternative nei villaggi vietnamiti

In diversi villaggi del Vietnam è stato sviluppato, insieme ad altri sistemi agroe-cologici, un modo di produzione eco-produttivo domestico che è stato chiama-to con l’acronimo VACR, dalle parole vietnamite Vuon (giardino per la coltiva-zione), Ao (stagno), Chuong (recinto per il bestiame) e Ruong (Foresta) (varia-bile in rapporto alle regioni in cui viene applicato). Si tratta di un sistema multifunzionale in cui si rileva una stretta connessione fradifferenti attività agricole, che vanno dalla coltivazione di piccoli appezzamen-ti di terra per la risicoltura o per la gardening cultivation all’acquacoltura (sta-gno), e dalla gestione di parti di foresta all’allevamento. Le varie attività sono connesse da flussi energetici e materiali intorno alle sin-gole abitazioni: i residui organici degli animali (interrati per la conservazione)sono utilizzati per concimare i campi e nutrire i pesci; le biomasse residue deiraccolti della frutta, dei legumi e di altre specie coltivate sono trasformate inmangimi per gli animali; la melma dello stagno è impiegata come fertilizzantenaturale; ed infine, i maiali, i polli e le anatre, nonché le uova, la frutta, la verdurae le erbe medicinali sono destinati all’alimentazione e alla cura della famiglia,oltre che a scambi sociali basati sulla reciprocità. In tali contesti, gli uomini e le donne contribuiscono con ruoli diversi – alle vol-te inter-scambiati – ad organizzare, nello spazio intorno all’abitazione, l’ecosi-stema VACR tramite le risorse disponibili al suo interno (risorse naturali: acqua,suolo, animali, vegetali e residui-rifiuti / risorse umane: l’oculato impiego deivari componenti dell’unità domestica) [Pham Xuan Nam et al., Rural Develop-ment in Vietnam, Social Sciences, Hanoi 1999; F.M. Parenti, Sviluppo sostenibilee comunità rurali nel nord ovest del Vietnam, L’Harmattan Italia, Torino 2002].Una serie di attività, dunque, in cui i rapporti verticali con l’ambiente circostantesi combinano in modo bilanciato ed integrato con le relazioni sociali ed econo-miche orizzontali.

Page 33: Gli spazi della globalizzazione

ConclusioniLa complessità “spaziale” della globalizzazione è strettamente legata alla di-

namicità e alla flessibilità di innumerevoli processi, che, dalla fine degli anni Ot-tanta ad oggi, si esplicano effettivamente o potenzialmente su scala planetaria.Non siamo tuttavia di fronte a uno “spazio unico”, bensì a un’articolazione spa-ziale di non facile interpretazione e rappresentazione. È possibile infatti indivi-duare “spazi” dai confini politici incerti/indeterminati, ma economicamente esocialmente definibili, al di qua e al di là delle “categorie geografiche tradizio-nali”. Regioni e luoghi si rinnovano soprattutto in ragione dei cambiamenti cheintervengono nelle relazioni dialettiche tra flussi finanziari, migrazioni umane etrasferimento di tecnologie.

Se è vero che, come sottolinea Henry Way-chung Yeung, le nuove spazialitàsono dei prodotti geografici della globalizzazione economica (da considerarsiin senso ampio come riorganizzazione scalare delle attività umane)82, dobbia-mo però riconoscere l’esistenza di tre presupposti geografici fondamentali chesono all’origine degli sviluppi più recenti:

1. l’esistenza di differenze spaziali in termini di salari, di livelli di produttività, dicapitali di rischio, e via dicendo, la cui natura viene prima accentuata e poi su-perata, dando origine a nuove spazialità;

2. la modificabilità delle scale geografiche sotto la spinta dei processi che, acu-tizzando la tensione tra i livelli scalari estremi (globale/locale), riorganizzano,ristrutturano, ricombinano e ricostituiscono luoghi e regioni.

3. le costruzioni sociali dello spazio nei discorsi sulla globalizzazione, che sa-rebbero, secondo Yeung, economicamente e politicamente motivate, perchéintese a creare legittimazione intorno ai poteri attualmente dominanti. Lascarsa teorizzazione intorno alla scala globale ci sottometterebbe pertantoalla visione politico economica di tipo “neoliberale”, in auge con l’ascesadei “neoconservatori” nei Paesi più ricchi83.

La categoria “spazio” è peraltro variabile in virtù di elementi antropologici,oltre che politici ed economici, non riconducibili esclusivamente ai processimondiali che operano nello “spazio dei flussi”. E, soprattutto, esiste anche unamolteplicità di spazi economici, politici e culturali diversi da quelli dominanti.

È necessario, dunque, tenere nella dovuta considerazione il modo in cui i treprocessi qui analizzati, e i corrispettivi spazi geografici da loro disegnati, si co-niugano sul territorio in maniera dinamica. Se la fisica ci insegna che senza dif-ferenze di temperatura e di pressione non ci sarebbe alcun movimento e se labiologia dimostra che senza differenze tra gli organismi viventi non ci sarebbeevoluzione, perché la geografia, che ci parla dell’interazione fra l’uomo e l’am-biente naturale, dovrebbe fare eccezione? Nel nostro caso si tratta infatti di stu-diare dei processi in fieri, non sempre determinabili in senso geografico, il cuimovimento è dato proprio a partire da differenze spaziali mutevoli.

Fabio Massimo Parenti3 2

Page 34: Gli spazi della globalizzazione

Note

1. Non trascureremo tuttavia di considerare il fatto che in ogni cultura le due concezioni (lineare e ci-clica) sono diffusamente mescolate.

2. F. Remotti, Luoghi e corpi, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 85.3. Per la finanza sono visualizzabili solo i vecchi flussi dal Giappone agli Stati Uniti e dagli USA ver-

so alcuni Paesi oggetto dei loro investimenti diretti. Per il resto, il mercato dei derivati, che rap-presenta ormai l’80% delle operazioni finanziarie, non consente più di visualizzare alcunché, da-to che tali movimenti finanziari possono essere svolti con un pc dalla propria abitazione in qualsiasiparte del mondo (al riguardo si veda il saggio di Roberto Panizza sui flussi finanziari).

4. C. Geertz, Mondo globale, mondi locali, il Mulino, Bologna 1998, pp. 59, 62.5. G. Cotti-Cometti (a cura di), Alcune cose sulla geografia, Cesviet, Milano 1988. 6. M. Quaini, La mongolfiera di Humboldt, Diabasis, Reggio Emilia 2002, p. 51.7. Alcuni spunti interessanti su questo tema si possono trovare in Yi-Fu Tuan, Cosmos and Hearth, a

Cosmopolite’s Viewpoint (1996), trad. it. Il cosmo e il focolare. Opinioni di un cosmopolita, Elèuthe-ra, Milano 2003.

8. Ivi, p. 37, 38.9. F. Remotti, op. cit.10. Ivi, p. 31. Inoltre, per una veloce rassegna sulle diverse concezioni antropologiche dello “spazio”

cfr. F. Remotti, U. Fabietti, Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna 2001. 11. L’analisi di Galli non ha come oggetto «il pensiero dello spazio», ma «lo spazio nel pensiero». L’in-

tento dello studio di Galli si collega in parte agli approcci di geopolitica più recenti, in cui viene da-ta priorità alle rappresentazioni che i soggetti politici hanno delle relazioni politiche alle diversescale, in funzione dei loro valori, dei loro interessi, del loro futuro e di quello del mondo (al ri-guardo si veda C. Jean, Manuale di geopolitica, Laterza, Bari 2003): anche in questo caso si tratta distudi sullo spazio implicito nel pensiero. Tuttavia, Galli non si concentra sulle tematizzazioni traspazio e politica, ma sull’importante ruolo dello spazio, «come dimensione imprescindibile deiconcetti con cui il pensiero politico costruisce i propri concetti» (un’analisi che, a nostro avviso, èteorico-categoriale e non fenomenologica). Per una soddisfacente letteratura degli studi umanisticiche hanno affrontato il nesso tra spazio e politica si rimanda al libro dello stesso Carlo Galli, Spazipolitici, il Mulino, Bologna 2001.

12. Il processo che ha condotto alla nascita dei primi Stati territoriali risale al 1648, quando il trattatodi Westfalia afferma il principio della sovranità territorialmente definita e riconosce un sistemageopolitico interstatale. Naturalmente, un processo tutto europeo, che solo nel corso del XX se-colo si estese alla quasi totalità del pianeta.

13. C. Galli, op. cit., p. 5314. M.P. Pagnini, Introduzione alla storia della geografia politica, in G. Corna Pellegrini, E. Dell’A-

gnese, Manuale di geografia politica, NIS, Roma 1995, pp. 229-261. Ricordiamo che la geopoliticanasce dall’opera del politologo svedese Kjellen, verso la fine della prima guerra mondiale, mentreRatzel, con la sua opera del 1897, è considerato il fondatore della geografia politica.

15. C. Galli, op. cit., pp. 113-137.16. C. Geertz, op. cit., pp. 52-53.17. Ivi, p. 64.18. C. Jean, op. cit., p. 162. Per esempi sulla totale subordinazione di alcuni despoti africani (mac-

chiatisi di gravi crimini) ai dettami delle istituzioni internazionali, di singoli governi nazionali o,più semplicemente, del loro desiderio di potere e ricchezza, si rimanda al testo di J. Ziegler, Lesnouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent (2002), trad. it. La privatizzazione del mondo,Tropea, Milano 2003, pp. 66-69.

19. M. Quaini, op. cit., p. 324.20. Ibid.21. M. Castells, End of Millenium (2000), trad. it. Volgere di millennio, in L’età dell’informazione: po-

litica, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano 2003, p. 418.22. Ivi, p. 327.

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 3 3

Page 35: Gli spazi della globalizzazione

23. J. Ziegler, op. cit., pp. 30-31.24. Dati tratti da World Watch Institute, State of the World ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002; R.

Bosio, Verso l’alternativa, EMI, Bologna 2001; N. Hertz, The Silent Takeover. Global Capitalismand the Death of Democracy, trad. it. La conquista silenziosa. Perché le multinazionali minacciano lademocrazia, Carocci, Roma 2001.

25. Questo organismo internazionale, inoltre, pur essendo composto da quasi tutti i paesi del mondo,prende le sue decisioni in condizioni di assenza di democrazia: il processo decisionale dipende daun numero ristretto di paesi (QUAD) composto da Canada, Giappone, Stati Uniti e Unione Eu-ropea (in campo agricolo, la Pac dell’Unione Europea e il Farm Bill degli USA sono le politicheprevalenti in competizione/cooperazione tra loro). Non è un caso che non ci siano rappresentan-ti dei sindacati o dei cittadini.

26. U. Allegretti, Diritti e Stato nella mondializzazione, Città Aperta, Troina (EN) 2002, p. 155.27. J. Ziegler, op. cit., pp. 143-149.28. Cfr. L. Castellina, Il sud riprende la parola, in «La rivista del manifesto», V, n. 43, ottobre 2003, pp.

38-41.29. Sull’espansione delle economie criminali globali si veda M. Castells, op.cit., pp. 187-229. 30. Ricordiamo che le categorie “Nord-Sud” nascono per distinguere i Paesi più industrializzati (7

più la Russia) da un gruppo di Paesi del Terzo Mondo (77 più la Cina) alla vigilia della prima Con-ferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo del 1963 (dopo il completamento deiprocessi di decolonizzazione).

31. Questo dato dell’OECD riferito alla metà degli anni Novanta è stato tratto da A.J. Scott, Regions andthe World Economy. The Coming Shape of Global Production, Competition and Political Order(1998), trad. it. Le regioni nell’economia mondiale. Produzione, competizione e politica nell’era del-la globalizzazione, il Mulino, Bologna 2001.

32. Il «British Medical Journal» ha ricordato, per esempio, che negli ultimi 10 anni sono stati realizzati1370 nuovi farmaci, di cui solo 13 destinati alle malattie tropicali. A questa logica, poi, si abbina l’o-stinazione a mantenere una eccessiva rigidità sui relativi brevetti, per evidente influenza dei colos-si farmaceutici.

33. A.M. Merlo, Salute e povertà: il falso accordo, in «il manifesto», martedì 3 giugno 2003.34. Vediamone la ripartizione sulla base dell’origine delle aziende: statunitensi per il 57%, britanniche

per l’11,5%, francesi per l’8,1%, russe per il 6%…). S. Finardi, C. Tombola, Le strade delle armi,Jaca Book, Milano 2002, p. 32.

35. Ivi, p. 54.36. Citiamo solo alcuni studi recenti e autorevoli. Robert Wade, riferendosi a studi basati su dati del-

la World Bank, mette in evidenza come l’aumento delle disuguaglianze del reddito si sia accelera-to negli ultimi venticinque anni. Dal suo articolo – apparso sull’Economist di fine aprile 2001 –emerge che, dal 1988 al 1993, è aumentata la quota del reddito mondiale detenuto dal 10% dellapopolazione più ricca (dal 48% al 52%) ed è diminuita, invece, quella detenuta dal 10% della po-polazione più povera (dallo 0,80% allo 0,64%). Inoltre, possiamo ricordare i dati storici rilevatidall’UNDP: tra il 1960 e il 1991 il rapporto tra la ricchezza in mano al 20% dei più ricchi e al 20%dei più poveri della Terra è passato da 30 a 1 a 61 a 1 (un rapporto che alla fine degli anni Novan-ta è divenuto di 82 a 1). Un altro studio, che suffraga la crescita di disuguaglianze socioeconomi-che e soprattutto il loro acuirsi negli ultimi vent’anni, è quello del CEPR (Center for Economic andPolicy Research) pubblicato nel 2000. Tale studio, mettendo a confronto i periodi anni Sessanta-Ot-tanta e Ottanta-Duemila ed elaborando i dati su ben 116 Paesi, dimostra il declino sociale ed eco-nomico soprattutto dei Paesi più poveri (per una sintesi ragionata dello studio si veda F.M. Pa-renti, C. Santori, La globalizzazione accresce il benessere?, in «Madrugada», XII, n. 45, marzo 2002).

37. Tra cui vi è una minoranza che controlla i media e che guida le scelte politiche del Congresso at-traverso le lobby.

38. P. Krugman, The End of Middle Class, in «New York Times Magazines», 2002; id., Il grande bluffdei tagli alle tasse, in «Internazionale», X, n. 509, 10/16 ottobre 2003, pp. 30-37.

39. Per determinare il livello di povertà si calcola il livello medio dei consumi pro capite. Gli istitutidi statistica nazionali considerano povera una famiglia di due persone con una spesa media men-

Fabio Massimo Parenti3 4

Page 36: Gli spazi della globalizzazione

sile significativamente inferiore alla spesa media pro capite (in Italia, nel 2002, questa soglia eradi 823 euro).

40. J. Halevi, Deflazione, l’ultima invenzione, in «il manifesto», giovedì 29 maggio 2003.41. Dati dell’OECD tratti da J. Ziegler, op. cit., p. 106.42. World Watch Institute, State of the World ’01, Edizioni Ambiente, Milano 2001.43. World Watch Institute, State of the World ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002.44. Data base della FAO al sito <www.fao.org>. Ricordiamo inoltre che lo Zimbawe e il Brasile sono i

Paesi che presentano, al livello mondiale, la più iniqua distribuzione del reddito in rapporto alla po-polazione: il 47% del PIL è detenuto dal 10% della popolazione (si veda il Rapporto del SocialWatch del 2002).

45. J. Ziegler, op. cit., p. 107.46. C. Jean, op. cit., p. 71.47. Va detto che tali regioni sono in transizione verso ciò che Manuel Castells chiama l’informaziona-

lismo: nuovo paradigma socio-tecnologico (scientifico-culturale) che sussume l’industrialismo.48. Sono molti gli autori che riconoscono l’esistenza di diversi tipi di capitalismo: per esempio fra

quello del Giappone e quello degli Stati Uniti. Sulla complessità della formazione di realtà spe-cifiche può risultare utile riportare ciò che sostiene Sapelli: «Il divenire storico concreto, e lo stes-so universo del mondo simbolico e quindi della cultura che si interseca con le pratiche economi-che e le co-determina, è assai più vario e complesso. La società ad economia monetaria del nuo-vo capitalismo di inizio millennio, per esempio, continua a dar vita a due forme generali direlazioni sociali. La prima è quella dello scambio, e non soltanto quella di mercato […]. La se-conda comprende quella del baratto e quella del dono, inteso come obbligazione a rendere e noncome pratica altruistica. […]». G. Sapelli (a cura di), Antropologia della globalizzazione, Monda-dori, Milano 2002, p. 13.

49. A.K. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002.50. Ivi. 51. F.M. Parenti, Guerra: piccole verità, tante domande, <www.nonluoghi.it>, 11 marzo 2003.52. L’impatto sociale a volte drammaticamente negativo di tali politiche è stato riconosciuto anche

nell’ambito delle Nazioni Unite. Si veda A. Adepoju (a cura di), The Impact of Structural Adjust-ment on the Population of Africa: the Implications for Education, Health and Employment, UnitedNations Population Fund, Portsmouth 1993. Cfr. anche B. Amoroso, Europa e Mediterraneo, De-dalo, Bari 2000.

53. Negli anni Novanta lo sfruttamento illegale del legname ha contribuito a far registrare in questiPaesi i più alti tassi di deforestazione.

54. Ex colonia olandese che divenne provincia indonesiana nel 1969. La contrapposizione tra eserci-to indonesiano e fazioni autoctone per l’indipendenza di Papua ovest è affrontata in D. Faure, Laguerriglia dimenticata, in «Le Monde diplomatique», settembre 2002.

55. M. Renner, Rompere il legame tra risorse e conflitti, in World Watch Institute, State of the World ’02,Edizioni Ambiente, Milano 2002, pp. 215-243.

56. Ivi. 57. R. Panizza, La globalizzazione della povertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Volontari e ter-

zo mondo», XXX, n. 3, luglio-settembre 2002, p. 58.58. Il superamento della guerra fredda, l’espansione del commercio e delle reti finanziarie interna-

zionali hanno molto facilitato l’accesso ai mercati, amplificando le relazioni spaziali fra risorse econflitti.

59. United Nations Drug Control Programme. 60. Per un approfondimento dei legami fra gruppi narcoterroristici, servizi segreti e mercato globale

cfr. M. Chossudovsky, War and Globalization (2002), trad. it. Guerra e globalizzazione, Torino,EGA, 2002. Naturalmente ci sono state altre questioni che hanno motivato l’intervento bellico, co-me quelle relative agli smeraldi, ai progetti di oleodotti strategici e al “puntellamento” geopoliti-co della Cina.

61. Troppe volte diabolicamente orchestrata dalle fazioni dominanti, che fanno leva su istanze reli-giose ed etniche.

Lo spazio nell’epoca della globalizzazione 3 5

Page 37: Gli spazi della globalizzazione

62. Per i conflitti africani legati alla domanda dei prodotti hi tech, e non solo, si veda M. Renner, op. cit.Per un panorama più generale, cfr. anche M.T. Klare, Resources Wars: The New Landscape of Glo-bal Conflict, Metropolitan Books, 2001. Sulle industrie estrattive, si veda il recente Rapporto del-la Banca Mondiale Extractive Industries Review, <www.eireview.org>. Infine, per gli effetti di-struttivi sulle comunità locali derivanti dalle attività d’agricoltura industriale intensiva, si veda V.Shiva, Stolen Harvest. The Hijacking of the Global Food Supply, trad. it. Vacche Sacre e Mucche Paz-ze, Derive e Approdi, Roma 2000.

63. UN, Population Division, 2002.64. Ciò determina un movimento alternato di creazione e di distruzione di strutture economiche ter-

ritoriali, nel momento in cui queste ultime sono coinvolte con diversa intensità nella rete globale.Così le reti globali connettono nodi che si sviluppano proporzionalmente alla loro rilevanza e che,in base a ciò, vengono integrati nella struttura dell’economia transnazionale a lungo termine o, alcontrario, in modo effimero e passeggero.

65. A. Morelli, In cammino in cerca di lavoro, in «altreconomia», n. 36, febbraio 2003.66. Ivi. S. Castles, M.J. Miller, The Age of Migration, The Guilford Press, New York 2003.67. C’è una notevole variabilità nel modo in cui i singoli Stati intervengono sui fenomeni migratori. In

questo libro, Umberto Melotti analizza in dettaglio l’influenza delle culture politiche dei Paesi a si-stema capitalistico più avanzato sulla gestione dei flussi migratori.

68. D. Held, A. McGrew, The Great Globalization Debate: An Introduction, in The Global Transfor-mations Reader (2000), trad. it. Globalismo e antiglobalismo, il Mulino, Bologna 2001.

69. «I governanti e i leader politici non hanno il monopolio dell’interpretazione dei valori e delle prio-rità interne» (A.K. Sen, op. cit., p. 77), e questo è tanto più vero nell’epoca della globalizzazione.

70. R. Panizza, op. cit., pp. 50-66.71. M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito del-

la network society, Feltrinelli, Milano 2001, p. 128.72. Si veda anche E. Wallerstein, Historical Capitalism with Capitalist Civilization (1995), trad. it. Ca-

pitalismo storico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000. 73. C. Jean, op. cit.74. A.J. Scott, op. cit., pp. 14-19.75. M. Quaini, op. cit., p. 288.76. Per un approfondimento si veda ancora M. Quaini, op. cit., pp. 286-288. Tra l’altro, stiamo par-

lando di un’attività, quella dello smaltimento dei rifiuti, che è funzionale ai processi economici ca-pitalistici, i quali non a caso si basano sull’inefficienza merceologica. Con cognizione di causa Gior-gio Nebbia (che ha insegnato chimica e merceologia) ricorda che «una merce ben progettata, benfabbricata, che continua a lungo a svolgere la propria funzione, è quanto di più indesiderabile sipossa immaginare per il venditore. Da qui lo sviluppo di una vera scienza dell’inefficienza, della pe-ricolosità»; G. Nebbia, Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Mila-no 2002, p. 26.

77. M. Quaini, op. cit., p. 330.78. Segnaliamo, tra i testi più significativi tradotti in italiano, M.A. Altieri, Agroecology (1987), trad. it.

Verso un’agricoltura biologica, Muzzio, Padova 1991; V. Shiva, Monocultures of the Mind (1993),trad. it. Monoculture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; B. Halweil, Un’agricoltura peril bene pubblico, in WWI, State of the world ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002. Spesso tale let-teratura va rintracciata in riviste specializzate di organizzazioni non governative internazionali,che raccolgono sul campo le esperienze locali.

79. L. Colombo, Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare, Jaca Book, Milano 2002.80. V. Lanternari, Ecoantropologia, Dedalo, Bari 2003, pp. 68-70.81. Queste relazioni tra cultura ed economia si realizzerebbero secondo Giulio Sapelli nella continua

ridefinizione della divisione sociale del lavoro. Cfr. G. Sapelli (a cura di), op. cit., introduzione. 82. H.W. Yeung, Questioning the Uneven Terrains of Economics Globalization, paper, Clark Univer-

sity, ottobre 2001.83. Ivi.

Fabio Massimo Parenti3 6

Page 38: Gli spazi della globalizzazione

Parte seconda

MOVIMENTI INTERNAZIONALI DI CAPITALI

DAL RINASCIMENTO AI NOSTRI GIORNI

Roberto Panizza

Page 39: Gli spazi della globalizzazione
Page 40: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo primoLa nascita e l’alternarsi dei grandi centri finanziari europei dall’origine fino alla prima guerra mondiale

1.1 Le città-stato italiane e i primi flussi finanziari internazionaliÈ con la fine del Medioevo che i mercati finanziari cominciarono a struttu-

rarsi e a generare massicci flussi finanziari tra i diversi Paesi: le attività commer-ciali e manifatturiere si svilupparono a tassi di crescita molto elevati e crebbero an-che gli scambi internazionali di merci. Nel frattempo, gli italiani, per primi, defi-nirono la terminologia di una nuova scienza, per l’appunto l’economia, mentre –sempre ad opera di un altro italiano, fra’ Luca Pacioli – si gettarono le basi dellamoderna contabilità aziendale e della ragioneria: si inventò la tecnica di registra-zione contabile della “partita doppia”, che – nonostante i suoi limiti e i tentatividi sostituirla – è ancora oggi usata universalmente. L’accumulazione di elevatericchezze attraverso l’attività commerciale e manifatturiera stimolò lo sviluppodi operazioni finanziarie che si spinsero sempre più lontano dai confini naziona-li: furono le città-stato italiane a distinguersi in queste attività finanziarie che mo-bilitarono ingenti risorse, dapprima in Europa e successivamente, dopo la sco-perta delle Americhe, anche nel nuovo mondo. A distinguersi furono in ordine ditempo Siena, Firenze e Genova. Venezia, invece, pur avendo un ruolo importan-tissimo sul piano degli scambi commerciali non sviluppò mai un’attività pura-mente finanziaria, disgiunta cioè dal sostegno dei propri commerci.

Furono uomini d’affari senesi1 quelli che definirono i primi grandi accordi dinatura finanziaria in Europa, in particolare in Inghilterra e nei regni del Nord: es-si agirono quali esattori papali e si formarono una notevole esperienza nel gesti-re le più grandi masse di capitali allora circolanti nel mondo, rappresentati ap-punto dalle offerte dei fedeli e dal pagamento delle indulgenze (indirizzate ver-so Roma) e dai trasferimenti dal Vaticano alle diocesi straniere. L’alta finanza,però, fu piuttosto un’invenzione della città di Firenze, che consolidò questo suopotere tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo: le sue monete cominciaronoa circolare in Europa accettate dovunque, a seguito della crescita dell’attivitàcommerciale. Tale posizione dominante si completò quando ormai l’espansionecommerciale era giunta al termine. Inizialmente la forza dei fiorentini si fondò sudue elementi: da un lato, essi avevano sostituito i senesi come banchieri del Pa-pa e per questo gestivano un’enorme massa di denaro che circolava in tutta Eu-ropa, insieme al commercio di natura religiosa per conto di Roma. Dall’altro, es-si commercializzavano lane pregiate per conto di Firenze. L’espansione dell’at-

Page 41: Gli spazi della globalizzazione

tività finanziaria dei banchieri fiorentini procedette di pari passo con l’amplia-mento delle zone di approvvigionamento delle lane e della loro commercializ-zazione: Francia, Paesi Bassi, Inghilterra. I banchieri fiorentini erano soliti chie-dere lana a garanzia dei prestiti concessi e questo funzionò egregiamente con iprivati2. I prestiti, invece, concessi a molti regni d’Europa, venivano dati senzagaranzie e la decadenza delle famiglie dei Bardi e dei Peruzzi, illustri banchierifiorentini, cominciò proprio quando Edoardo III, re d’Inghilterra, si dichiaròinsolvibile rispetto all’enorme massa di denaro prestato, equivalente a 1.365.000fiorini. Tale cifra superava il valore di tutte le lane lavorate e prodotte in Firen-ze nel corso di un anno: era il 1339 e la crisi finanziaria che ne seguì travolse lestesse attività industriali dei produttori fiorentini di lane e tessuti e si ripercossecon gravi conseguenze in tutta Europa3.

Dalle ceneri di questo immane fallimento finanziario si consolidò, tuttavia, unafamiglia di origine modesta che poi avrebbe dominato la scena dei mercati del cre-dito in Europa: quella dei Medici. Essi organizzarono una fitta rete di corrispon-denti in tutta Europa, dove aprirono presso le maggiori città delle loro filiali4. An-ch’essi fecero affidamento sulla protezione del potere pontificio, che cercò, in que-sto modo, di compensare l’enorme indebitamento contratto con le banche deiMedici, a seguito delle elevatissime spese della corte papale. Non era, però, solo laCuria romana a necessitare dell’assistenza finanziaria della Casa fiorentina, ma nu-merose altre corti d’Europa furono costrette a fare ad essa ricorso, soprattutto peril sostegno finanziario delle loro continue guerre5. Nel caso dei Medici, però, edot-ti dalla grave crisi d’insolvenza che aveva travolto quasi un secolo prima i Bardi ei Peruzzi, fu lo scoppio della pace, paradossalmente, a travolgere le loro fortune.Con il formarsi dei primi grandi Stati-nazione i Medici, infatti, scelsero la via dimediare con i loro finanziamenti i contrastanti interessi all’interno dell’Europa.L’evolversi del quadro storico impose loro di destinare una quota crescente delleproprie risorse all’attività di consolidamento della loro città-stato e della difesadella stessa: tuttavia, il progressivo abbandono dell’attività manifatturiera proce-dette di pari passo con la loro decadenza come piazza finanziaria.

Anche le fortune di Genova come centro finanziario furono legate alla primacrisi che travolse Firenze e i suoi più celebri banchieri, i Bardi e i Peruzzi. Genovacolse un elemento importante di quella fase storica, cioè l’importanza di dotar-si di una struttura, la Casa di San Giorgio, che – creata nel 1407 – aveva comeobiettivo il controllo delle finanze pubbliche da parte dei creditori privati: men-tre Venezia consolidava il potere statale a tutela delle proprie attività commer-ciali, Genova consolidava la valorizzazione del capitale privato a scapito del per-seguimento di una struttura statale potente. Il livello di sofisticazione di un’isti-tuzione come la Casa di San Giorgio era tale che occorse attendere quasi tresecoli per assistere alla nascita di un’istituzione, la Bank of England, con similiprerogative. L’originalità di questa istituzione e l’individuazione di strutture sem-pre più flessibili nel mondo della finanza ha fatto dire a Braudel6 che quella diGenova fu la prima vera esperienza di struttura tipica del capitalismo finanzia-

Roberto Panizza4 0

Page 42: Gli spazi della globalizzazione

rio, che precedette quella olandese della seconda metà del Settecento, di oltretrecento anni, e quella britannica della seconda metà dell’Ottocento, di oltrequattro secoli. Essa si fondava sull’idea, originale per quel tempo, della necessitàdi difendere la stabilità della moneta contro l’incontinente richiesta dei governidi svilirne il valore. Le tecniche di gestione dei pagamenti erano anch’esse all’a-vanguardia per il tempo, con l’uso dei giroconti, mentre circolavano in misuramolto consistente assegni con la girata e lettere di cambio.

Su piano politico, agli inizi del Cinquecento, i banchieri genovesi investiro-no abbondanti risorse finanziarie per sostenere i loro colleghi, Függer e Welser7,nella loro azione finalizzata a convincere i principi tedeschi ad appoggiare l’ele-zione di Carlo V, re di Spagna, a imperatore. La storia ufficiale identifica l’età diCarlo V con l’epoca dei Függer, ma dietro le quinte erano in realtà i banchieri ge-novesi che sostenevano l’intero sistema di alta finanza del tempo. Non a caso, ibanchieri genovesi sopravvissero alla grande casa tedesca dei Függer, travoltadalla relativa limitatezza delle proprie attività mercantili e finanziarie (il com-mercio dei metalli, come argento e rame, e il finanziamento dei principi tede-schi, per avere in cambio concessioni e protezione). Furono i genovesi i veri fi-nanziatori del governo spagnolo, anche se non corsero alcun rischio di insol-venza, grazie all’intermediazione dei Függer, e da questa posizione privilegiatafinirono, dal 1557 al 1627 (periodo che viene definito da Braudel il «secolo deigenovesi»)8 per esercitare un indiscusso, anche se discreto, controllo sulle fi-nanze dell’intera Europa. Essi riuscirono, attraverso le fiere – in particolare quel-le di Piacenza – a raccogliere dai piccoli risparmiatori italiani grandi masse didenaro che vennero poi utilizzate a finanziare l’impero spagnolo. Garantendo lacollocazione sui mercati europei delle grandi quantità di argento (che senza con-tinuità e a intermittenza affluivano dalle Americhe nel porto di Siviglia) e il rifor-nimento finanziario costante alla corona spagnola, Genova consentì al re Filip-po II di Spagna, figlio di Carlo V, di perseguire la sua politica imperiale con con-tinuità. I genovesi assunsero anche progressivamente il controllo del mercatodei cambi e delle assicurazioni marittime9. Furono soltanto la decadenza del-l’impero spagnolo e le lotte intestine per il potere tra le città-stato italiane e i re-gni europei a decretare la fuoriuscita dei genovesi dall’alta finanza mondiale, so-stituiti dagli olandesi.

1.2 La seconda fase di dominio finanziario mondiale: quella olandeseLa fortuna dell’Olanda nel corso del XVII secolo si fondò sulla decadenza del

potere delle città-stato italiane e sul progressivo esaurirsi degli approvvigiona-menti per l’Europa centrale provenienti dal Mediterraneo, unitamente allo svi-luppo crescente dei commerci con il Baltico: accanto a quello del grano aveva unnotevole peso il commercio del ferro svedese. I mercanti e i banchieri olandesierano ben consci che non potevano reinvestire i grandi profitti accumulati in quel-l’attività nell’espansione della stessa, dato che non c’erano margini per accresce-re in modo redditizio quegli scambi e si proposero come gli intermediari di tutte

Movimenti internazionali di capitali 4 1

Page 43: Gli spazi della globalizzazione

le attività commerciali in Europa, emulando in questo i veneziani. Dai genovesi,invece, appresero l’importanza della mediazione politica tra le nascenti monar-chie europee e del ruolo discriminante della finanza. Attraverso la Borsa di Am-sterdam10 i profitti ottenuti su piano commerciale vennero mobilitati a sostene-re il finanziamento di numerose iniziative in Europa e a raccogliere il denaro ino-peroso proveniente dagli altri Stati europei. Presso questa borsa vennero quotatele azioni delle più grandi Compagnie commerciali olandesi, che ottennero dal lo-ro governo concessioni di ogni genere per esercitare attività commerciali e fi-nanziarie nei possedimenti d’oltremare. Fu grazie a queste società commercialiche l’Olanda rafforzò, nel corso del Settecento, il suo potere nei commerci e lasua supremazia nella finanza. La grande novità organizzativa, alla quale le Com-pagnie si ispirarono, fu quella di essere riuscite a internalizzare i costi relativi al-la loro difesa e sicurezza: provvedevano cioè direttamente alla loro protezione etutela, senza doversi appoggiare alle varie autorità dei territori in cui operavano.Le Compagnie erano gestite come delle imprese private, e non come l’espressio-ne commerciale del potere imperiale11. Esse, internalizzando i costi della loroprotezione, furono anche in grado di ridurli e di ottenere, di conseguenza, mag-giori utili rispetto al sistema tradizionale che imponeva di procurarsi la protezio-ne, di volta in volta, attraverso il pagamento di tasse e tributi alle autorità. Fu pro-babilmente questo artifizio organizzativo a consentire ai mercanti e banchieriolandesi di accrescere la velocità e la consistenza di accumulazione dei loro gua-dagni rispetto ai colleghi genovesi, anche se in questo modo le Compagnie cheorganizzavano la propria difesa e protezione finirono per accentuare la confu-sione tra strutture governative pubbliche e strutture imprenditoriali di libero mer-cato. Il sistema olandese attribuiva a una struttura organizzativa privata una pre-rogativa pubblica, quella della tutela della sicurezza. Lo Stato olandese accettòche le Compagnie si armassero, consentendo loro, in tal modo, di allargare note-volmente il loro raggio d’azione12. In tal senso il modello olandese è più simile aquello veneziano che non a quello genovese. La debolezza di questi ultimi nel ge-stire i flussi di capitali internazionali era proprio dovuta, paradossalmente, allanotevole sofisticazione degli strumenti utilizzati: i capitali si muovevano attra-verso lettere di cambio. Alla fine, però, i governanti spagnoli, che erano i loroprincipali clienti, preferirono un trasferimento fisico di denaro sotto scorta ar-mata che ne garantisse l’arrivo a destinazione e per questo vennero scelte le Com-pagnie di trasporto olandesi, che avevano a loro disposizione un sistema di pro-tezione molto efficiente e temibile.

L’assetto proprietario delle Compagnie era quello delle società per azioni eciò consentì ad Amsterdam di divenire rapidamente il centro di tutte le attivitàfinanziarie e commerciali che si svolgevano in Europa. La Borsa di Amsterdamconsentì di riciclare enormi masse di capitali, trasferendoli da investimenti po-co redditizi a quelli ad alta redditività: questo attirò una massa enorme di risor-se finanziarie da tutti gli altri Paesi europei, di cui beneficiarono soprattutto leimprese olandesi13.

Roberto Panizza4 2

Page 44: Gli spazi della globalizzazione

Agli inizi del Settecento, però, molti altri Stati, soprattutto del Nord Europa,tra i quali la Prussia, la Russia, la Svezia e la Danimarca-Norvegia, iniziarono a mi-rare con una certa sistematicità al perseguimento di “saldi attivi” delle loro bilan-ce dei pagamenti: ad essere penalizzata da questa politica mercantilistica fu so-prattutto l’Olanda, che intorno al 1720 dovette scegliere se proseguire la propriapolitica commerciale, a rischio di compromettere anche l’attività finanziaria, o diconcentrarsi sugli interventi propri dell’alta finanza, trascurando l’attività mer-cantile: la scelta cadde su questa seconda alternativa14. Ai banchieri olandesi ri-corse la maggior parte dei regnanti d’Europa, a cominciare da quelli inglesi, perfronteggiare i loro deficit di bilancio e questo costrinse i primi a non prendere po-sizione nei vari conflitti che divisero l’Europa: quando decisero di sbilanciarsi eappoggiarono la Francia nel sostegno alla rivolta delle colonie americane contro gliinglesi pagarono a caro prezzo questa presa di posizione. Gli inglesi scatenaronocontro di loro un’ennesima guerra, che portò alla distruzione totale di quella cheera stata la gloriosa flotta olandese e a perdite territoriali notevoli, come l’isola diCeylon. Questa sconfitta su piano militare fu anche l’inizio dell’uscita di scena diAmsterdam come centro della grande finanza europea. Le banche olandesi, in par-ticolare la Hope&Co15, aiutarono ancora gli Stati Uniti ad acquistare nel 1803 laLouisiana dal re di Francia, scontando a quest’ultimo obbligazioni emesse per l’oc-casione, ma lo fecero già in accordo con la famosa merchant bank inglese, la Baring,e questo segnò il progressivo passaggio dell’egemonia finanziaria dalla piazza diAmsterdam a quella di Londra. La sconfitta segnò anche la fine delle grandi Com-pagnie commerciali olandesi, troppo propense a sfruttare la condiscendenza del-le autorità interessate a garantire loro privilegi e diritti esclusivi. In Gran Breta-gna, invece, dietro la spinta delle radicali critiche di Adam Smith, la corona bri-tannica si convinse a non assecondare più tutte le richieste delle grandi societàcommerciali, prima fra tutte quella delle Indie. Quando il grande economista in-glese mise in guardia dal consentire un ruolo eccessivo dello Stato in economia,ebbe proprio presente l’enorme tutela accordata dai governi del suo Paese allegrandi società commerciali16, che finirono per dettare le regole dei mercati, sna-turando i princìpi della concorrenza. Lo Stato, infatti, era troppo debole per po-ter fronteggiare le enormi pressioni fatte dalle Compagnie per ottenere privilegi eprotezione: indispensabile premessa per creare un libero mercato concorrenzialeera proprio quella di ridimensionare il potere di questi operatori monopolistici,che impedivano il formarsi di condizioni effettive di libera concorrenza all’inter-no dei diversi mercati mondiali.

1.3 L’alta finanza si sposta sulla piazza di Londra: il ruolo centrale del gold standardNel corso del XVIII secolo la piazza di Amsterdam e quella di Londra riva-

leggiarono nel contendersi il primato di centro finanziario mondiale. Poi, para-dossalmente, la vittoriosa guerra delle colonie d’America contro la madre pa-tria, spalleggiata dalla Francia e dall’Olanda, provocò – a seguito della furiosareazione britannica – la fine della potenza marinara olandese e della centralità

Movimenti internazionali di capitali 4 3

Page 45: Gli spazi della globalizzazione

della sua piazza finanziaria. Questo non significò – come ha notato acutamenteBraudel17 – la fine del capitalismo olandese, ma semplicemente il venir menodella sua centralità nel contesto economico del tempo. L’afflusso di capitali sispostò conseguentemente verso la piazza di Londra e questo consentì alle auto-rità britanniche non solo di pagare agevolmente gli interessi sull’elevato debitopubblico, ma diede loro anche la possibilità di finanziare le vittoriose guerrecontro la Francia napoleonica e il consolidamento delle colonie d’oltremare. Lacentralità della piazza finanziaria londinese dipese da diversi elementi18: in pri-mo luogo dal fatto che l’Inghilterra era stata la regione nella quale si era realiz-zata la prima rivoluzione industriale, che aveva assicurato la maggiore competi-tività dei beni manufatti prodotti dalle imprese in essa ubicate. In secondo luo-go, non poteva essere trascurato il ruolo dei possedimenti imperiali, checonsentivano l’approvvigionamento a prezzi preferenziali delle materie prime.In terzo luogo, infine, non si poteva neppure prescindere dal ruolo svolto dal si-stema a base aurea, che nel Regno Unito durò ininterrottamente per oltre centoanni, dalla fine delle guerre napoleoniche fino alla prima guerra mondiale. Fu,infatti, un’attenta gestione del sistema di gold standard che consentì di volta involta, a seconda delle esigenze, di attrarre capitali o di respingerli, ad assicurarea Londra la centralità negli scambi finanziari mondiali19.

I meccanismi d’intervento ai quali le autorità britanniche fecero ricorso pergestire i movimenti di capitali furono, in primo luogo, la manovra del tasso dicambio della sterlina che, quando era favorevole, contribuiva ad attrarre capitalie, quando era sfavorevole, contribuiva a espellerli. Inoltre, quando il tasso dicambio non era sufficiente a convincere gli investitori a spostare i loro capitaliverso Londra, le autorità britanniche ricorrevano alla manovra del tasso di scon-to: se questo aumentava e sui capitali concessi a prestito gli interessi salivano,ciò costituiva un forte incentivo a trasferirli sulla piazza di Londra20. Il conse-guente afflusso di oro, inoltre, consentiva un aumento delle emissioni moneta-rie e di ciò si avvantaggiavano tutte le attività industriali del regno e i progetti disfruttamento delle colonie21.

Nel sistema finanziario del XIX secolo due ordini di flussi caratterizzarono ilmantenimento del suo equilibrio: flussi di capitali in entrata e in uscita sulla piaz-za di Londra, in corrispondenza, rispettivamente, ai periodi di espansione e ai pe-riodi di recessione22, e flussi di oro, anch’essi in entrata e in uscita, a seconda del-le sue quotazioni. Ambedue questi flussi garantirono all’intero sistema costituitodai Paesi più sviluppati una notevole stabilità sia delle quotazioni dei cambi, siadelle ragioni di scambio. Per tutti gli altri Paesi, non in grado di aderire all’accor-do di standard aureo, si manifestarono elevate instabilità dei cambi, con forti sva-lutazioni che finirono anche per deteriorare le loro ragioni di scambio. Questocontribuì a creare forti deficit delle loro bilance dei pagamenti, che a loro volta in-debolirono i sistemi bancari locali, favorendo una fuoriuscita di capitali verso lepiazze finanziarie più solide, con conseguente indebolimento anche delle struttu-re creditizie e finanziarie locali23. Il rispetto delle regole imposte dal gold standard

Roberto Panizza4 4

Page 46: Gli spazi della globalizzazione

contribuì ad armonizzare le politiche monetarie dei vari Paesi che vi aderirono e adassicurare uno stabile equilibrio all’intero sistema economico mondiale24.

I primi problemi relativi a una corretta gestione delle riserve auree nacque-ro quando gli Stati Uniti si proposero come economia leader in forte crescita, inseguito al rapido e impetuoso sviluppo del loro sistema produttivo e commer-ciale: da quel momento essi divennero importatori netti di oro, che veniva poitrasferito a milioni di risparmiatori privati e all’intero sistema di banche del Pae-se. Per compensare la continua fuoriuscita di oro verso gli Stati Uniti, la GranBretagna studiò un particolare artifizio, sottraendo a sua volta oro alle colonie incambio di massicci trasferimenti di argento. Ciò contribuì a rafforzare il valoredella sterlina e a indebolire la solidità delle monete locali. Questo consolida-mento della sterlina, nello stesso tempo, contribuiva a svalutare il cambio dellemonete concorrenti, come la rupia indiana, e a mantenere in un continuo statodi inflazione l’economia delle colonie25.

Tuttavia, i rigidi meccanismi di gestione del gold standard, che imponevanodi accrescere la circolazione monetaria soltanto in presenza di un aumento di ri-serve a base aurea, ebbero degli effetti deflattivi sull’intero sistema mondiale. Iltrend discendente dei prezzi, in questo arco di tempo, fu elevatissimo (- 40%)26

e dal 1873 al 1896 alla deflazione si accompagnò anche una grave recessione: èsignificativo che gli unici Paesi che non ne vennero colpiti furono i due Stati, Ger-mania e Stati Uniti, che usarono con molta spigliatezza – al fine di neutralizzaregli impatti negativi del sistema a base aurea – la gestione delle loro strutture cre-ditizie e della moneta bancaria. In particolare, la Germania ricorse alla banca-mi-sta per finanziare le enormi immobilizzazioni tecniche richieste dall’espansionedell’industria pesante27, mentre gli Stati Uniti si affidarono all’anarchia di un si-stema bancario non sottoposto ad alcun controllo da parte di un’autorità centra-le: tale libertà nell’utilizzo del credito consentì, senza eccessive formalità buro-cratiche, di finanziare la conquista del West e la costruzione delle ferrovie28. Pertutti gli altri Paesi sviluppati e per molte delle colonie prevalsero, invece, le spin-te recessive che un simile sistema legato all’oro finiva per creare. Fu a causa diquesti rigidi vincoli che – sul finire del secolo – accanto all’oro molti Paesi conbilance dei pagamenti spesso deficitarie cominciarono ad accumulare valute con-vertibili in oro, come la sterlina, nella forma di crediti a breve, sanzionando in talmodo il passaggio di fatto a un sistema di gold exchange standard, non più fonda-to esclusivamente sull’oro, ma anche su monete in esso convertibili. Ciò fu resopossibile grazie all’egemonia esercitata dalla Gran Bretagna, Paese che emettevala valuta-chiave, sull’intero sistema monetario internazionale.

Sotto la guida accorta della Bank of England, la piazza di Londra divenneil più importante centro internazionale per lo scambio di titoli di credito pro-venienti da tutto il mondo, compensando in tal modo l’iniziale assenza di ban-che di deposito, già nate in Scozia, ma che non erano state prese in considera-zione dal Bank Act del 184429. Per contro, nacquero molti intermediari finan-ziari come le discount houses e i bill brokers, che avevano come compito, in

Movimenti internazionali di capitali 4 5

Page 47: Gli spazi della globalizzazione

primo luogo, quello di raccogliere il denaro dalle contee più ricche e di scon-tare, con esso, le cambiali delle contee che necessitavano di maggiore liquiditàe, in secondo luogo, quello di pagare in anticipo, ai commercianti di tutto ilmondo, le merci da essi scambiate prima ancora del loro arrivo a destinazione.Si formò in questo modo, forse, il maggior mercato del credito del XIX seco-lo, il London discount market 30, all’interno del quale anche il ruolo delle ban-che di deposito nell’erogazione di prestiti esteri fu molto rilevante, come ri-sulta dalla tabella 1.

Come si evince dalla tabella, i prestiti erogati dalle istituzioni britanniche fu-rono circa il doppio rispetto a quelli concessi dagli altri Paesi erogatori e la lorodestinazione finale fu Canada, Australia, Nuova Zelanda, Unione Sud Africa-na, America Latina e Malesia31. Questo accadde anche in seguito al crescenteprotezionismo europeo dopo il 1815, a causa del diffondersi della recessione.Dopo Londra, la seconda piazza finanziaria era quella di Parigi, che traeva la suaforza dal finanziamento soprattutto della Russia zarista. Infine, la terza piazzaeuropea più importante era quella di Francoforte, che operava in stretto colle-gamento con Amburgo e Berlino, specializzata nel finanziamento della costru-zione della rete ferroviaria di molti Paesi, di cui acquistava, all’emissione, i tito-li obbligazionari32.

1.4 La crisi della potenza finanziaria inglese alla vigilia della prima guerra mondialeLe cause della decadenza della piazza finanziaria di Londra e, di conseguen-

za, dell’alta finanza inglese, cominciarono a manifestarsi nell’ultimo decennio delXIX secolo, a partire dal fallimento di una grande e storicamente molto nota mer-chant bank, la Casa Baring33. Si trattava di un istituto di credito intorno al qualesi era formata la potenza finanziaria britannica, travolto da un eccesso di prestitia lungo termine concessi alle autorità argentine, divenuti inesigibili a seguito del-la rivoluzione scoppiata in quel Paese: dato che la banca in questione si finanzia-

Roberto Panizza4 6

Tab. 1 Investimenti esteri dei maggiori Paesi prestatori tra il 1825 e il 1913(in milioni di dollari)

Page 48: Gli spazi della globalizzazione

va a breve per prestare a lungo termine, il suo stato di insolvenza divenne benpresto manifesto. Già quindici anni prima, nel 1876, era fallita un’altra società,specializzata nello sconto di cambiali, la Overend&Gurney: la Bank of Englandin quell’occasione non intervenne per salvare la casa di sconto, lasciando chescoppiasse una crisi di fiducia verso la City, i cui costi furono molto elevati e si ri-percossero sull’intera comunità finanziaria34. Nel caso della Baring, invece, a cau-sa della sua fama passata, la Banca centrale intervenne massicciamente per salva-re l’istituto, ma tutti i suoi sforzi si rivelarono vani in seguito a elevatissimi prelie-vi di due importanti istituti centrali, quali la Banca di Russia e quella di Spagna.Neppure l’impegno profuso dai Rothschild, i grandi banchieri che avevano pie-namente compreso l’importanza dell’impegno anche politico al fine di assicurarsiun ruolo prioritario all’interno del sistema finanziario mondiale, riuscì a fare qual-cosa di positivo per salvare la celebre banca commerciale. A pesare negativamentein quel fine secolo furono le divisioni interne tra le diverse istituzioni che opera-vano nella City di Londra e che avevano persino l’ardire di non considerare laBank of England nel suo ruolo di prestatore di ultima istanza e di detentore del-le riserve del sistema: anche la sua funzione nel campo dello sconto delle cam-biali era stata notevolmente ridimensionata. Queste rivalità tra le diverse istitu-zioni, che avevano reso celebre la piazza finanziaria londinese nel suo ruolo di su-pervisore dei meccanismi di controllo dell’intero sistema finanziariointernazionale e della liquidità da esso creata, era un segnale di debolezza legatoal fatto che la recessione mondiale aveva drasticamente ridotto la formazione diutili da parte delle stesse.

Naturalmente dietro alle difficoltà crescenti della piazza di Londra, a se-guito dei contrasti che la dilaceravano, ci furono altre cause di natura reale e fi-nanziaria: tra le prime va ricordato il progressivo venir meno della priorità del-le manifatture inglesi a livello mondiale. A indebolire la loro posizione avevacontribuito la crescita, in Europa, della Germania, specializzatasi nello svilup-po dell’industria pesante35, e quella degli Stati Uniti, che, per ragioni legate al-la vastità del territorio, furono costretti a sviluppare – accanto alle tradizionaliindustrie manifatturiere – anche quella pesante, a seguito della costruzione del-le ferrovie e dello sviluppo dei traffici marittimi36. La crescente debolezza del-le industrie manifatturiere inglesi veniva compensata con il consolidamento diposizioni sempre più monopolistiche nel commercio con le colonie37: un gran-de aiuto a questa presenza quasi esclusiva delle merci inglesi venne offerto dalcontrollo quasi totale nelle colonie del sistema bancario e di quello dei trasporti,che assunsero un ruolo prioritario nel finanziamento e nella commercializza-zione dei prodotti della madrepatria. Parallelamente al crescente indeboli-mento della concorrenzialità dei prodotti inglesi, a causa della scelta strategicadi tenersi ancorati a produzioni tradizionali ormai mature, fecero seguito an-che le crescenti esportazioni di capitali, principalmente verso le colonie e ver-so gli Stati Uniti. Mentre dalla seconda metà del XIX secolo Londra interme-diava capitali da tutto il mondo per finanziare i commerci e le attività impren-

Movimenti internazionali di capitali 4 7

Page 49: Gli spazi della globalizzazione

ditoriali, a partire dall’ultimo decennio del secolo divenne essa stessa esporta-trice netta di capitali.

Tra le cause di natura finanziaria che condussero all’indebolimento della piaz-za di Londra, ci fu, da un lato, la concentrazione dell’attività bancaria in GranBretagna, che portò alla crescita delle dimensioni, ma anche all’intolleranza diqualsiasi forma di controllo e di regolamentazione da parte della Bank of Englande, dall’altro, il consolidarsi di altre piazze finanziarie, in particolare di Parigi, diBerlino e di New York. Quest’ultima divenne sempre più un polo di attrazionedei capitali internazionali e il vero mercato del cambio tra dollaro e sterlina, dalquale dipendeva gran parte dei finanziamenti alle esportazioni statunitensi. Inol-tre, la piazza di New York si trasformò in un grande collettore di oro, sia per ilTesoro statunitense, sia per i privati: l’acquisto di oro era finanziato dai surplusdella bilancia commerciale e proveniva dalla piazza londinese, che continuava amantenere il monopolio quasi totale della sua commercializzazione. Londra, poi,alla fine del secolo XIX, finì per svolgere funzioni di Banca centrale anche perl’economia americana, aiutandola a superare i momenti più difficili, legati allastagionalità dei raccolti, dato il peso notevole che le produzioni agricole avevanotanto per il mercato interno statunitense che per le loro esportazioni38. Le fortioscillazioni della domanda di liquidità da parte degli Stati Uniti e il continuo as-sorbimento di oro costrinsero le autorità inglesi a frequenti modificazioni nellastruttura dei tassi d’interesse, che non contribuirono certamente ad assicurarestabilità a quella piazza, aggravandone piuttosto le sue difficoltà.

A questo proposito, è sorta tra gli studiosi una disputa circa il fatto che le au-torità londinesi, pur di mantenere ancora una parvenza di centralità sui mercatifinanziari mondiali, abbiano accettato di scaricare tutti i costi legati all’eserciziodi questo ruolo sull’economia interna. In tal modo gli oneri del riequilibrio sonocaduti in parte sull’economia britannica e in parte su quella di altri Paesi, comel’India, da essa strettamente dipendenti39. Non bisogna dimenticare che gran par-te delle fortune della piazza londinese erano legate al fatto che essa finiva per ri-ciclare tutti i surplus delle bilance dei pagamenti di molti Paesi, non soltanto diquelli aderenti al Commonwealth. È stato però anche rilevato che l’economia bri-tannica si espandeva a seguito della crescita dell’economia mondiale e anticipa-va il rallentamento della stessa. Questo starebbe a provare che la difesa del pre-stigio di Londra come piazza finanziaria mondiale ha finito per prevalere rispet-to agli interessi dell’industria britannica: come venne denunciato più volte daKeynes, la Gran Bretagna ha sempre sacrificato sull’altare degli interessi finanziariil proprio sistema industriale e questa è una politica ancora oggi perseguita40.

Nonostante questa scelta impegnativa, il sistema finanziario inglese vennetravolto, nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, da una crisi molto se-ria, che finì per compromettere – qualche anno più tardi – la stessa posizioneegemonica della Gran Bretagna all’interno del sistema economico e finanziariomondiale. Una delle cause remote di tale crisi va identificata nel massiccio pro-cesso di concentrazione tra le banche di deposito avvenuto ai danni di tutte le al-

Roberto Panizza4 8

Page 50: Gli spazi della globalizzazione

tre istituzioni finanziarie, come le antiche merchant bank, le Case di sconto e lastessa Bank of England. Alle tradizionali banche del panorama finanziario bri-tannico (quelle commerciali e le Case di sconto) si sostituirono progressivamentele potentissime e sempre più integrate banche di deposito, in grado di svolgeretutta l’ampia gamma di servizi bancari41: tali istituti, a differenza dei loro omo-loghi tedeschi, non si preoccuparono mai di instaurare un solido e sistematicorapporto con l’ industria britannica, impegnati com’erano nel finanziamento deicommerci mondiali e nei trasferimenti di capitali nelle aree geografiche che – acausa dell’impetuoso sviluppo economico – presentavano una più alta redditi-vità. Fu questa forte esposizione delle grandi banche inglesi verso l’estero – chefece della piazza di Londra il maggior creditore internazionale – a far scoppiarela crisi alle prime minacce di guerra, nell’estate nel 191442. Si registrò, infatti,una corsa ad accaparrarsi fondi su questa piazza, mentre le grandi banche di de-posito decisero – come evidenziò un illustre contemporaneo, John MaynardKeynes – di chiudere improvvisamente tutte le linee di credito nei confronti delresto del mondo43. Di fronte a questo drastico taglio dei finanziamenti da partedell’unico creditore di ultima istanza del tempo e in presenza delle enormi dif-ficoltà di trasportare oro nella City, a causa della flotta sommergibile tedesca, idebitori internazionali cercarono di vendere i titoli da loro detenuti presso lebanche londinesi, ma le massicce vendite da parte di queste ultime sulla Borsa diLondra finirono per farla collassare e questo fu molto grave, dato che anche leborse degli altri principali centri finanziari si erano trovate in difficoltà ed eranostate costrette a chiudere. D’altra parte la politica delle banche di deposito, fi-nalizzata a indebolire ed esautorare la Bank of England dai suoi compiti istitu-zionali di controllore dell’intero sistema finanziario, aveva condotto a una si-tuazione molto negativa, rappresentata da un sistema al cui vertice mancava pra-ticamente un prestatore di ultima istanza. Fu, dunque, l’eccessiva espansioneverso l’estero di una struttura finanziaria praticamente acefala ad affossare, allavigilia della guerra, il prestigio della piazza finanziaria più importante del mon-do44. Ancora una volta l’illusione di poter dare vita a un sistema fondato esclu-sivamente sulla forza delle istituzioni che operano al suo interno liberamente,escludendo la presenza di un’istituzione che vigili sui comportamenti dei singo-li operatori e assicuri le necessarie garanzie, finì per travolgere persino quegliistituti che erano stati paladini nello sponsorizzare un siffatto sistema. Si tratta-va, in fondo, di una prima, pesante sconfitta dell’ideologia che sosteneva la cen-tralità dell’azione individuale in economia, a prescindere da qualsiasi interven-to regolatore da parte delle pubbliche autorità.

Movimenti internazionali di capitali 4 9

Page 51: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo secondoIl flusso internazionale di capitali dalla fine del gold standardal nuovo ordine economico di Bretton Woods

2.1 I movimenti di capitali internazionali tra le due guerre mondialiLa crisi finanziaria del 1914 e lo scoppio della grande guerra chiusero un’e-

poca: quella caratterizzata da un sistema monetario a base aurea e dalla supre-mazia della piazza di Londra su tutti gli altri mercati finanziari del mondo. I con-sistenti trasferimenti di prestiti dagli Stati Uniti verso gli alleati nel corso dellaguerra ebbero degli effetti importantissimi, condizionando non solo le vicendemilitari, ma consentendo a questo Paese di ipotecare il ruolo di nuova potenzafinanziaria egemone45. La guerra costrinse anche all’abbandono di due istitu-zioni mitiche del secolo XIX e precisamente il gold standard e il liberismo eco-nomico esasperato, che lasciava ai mercati ogni decisione in campo economico.Le esigenze del conflitto imposero una pianificazione delle decisioni economi-che e il venir meno delle libertà che – all’interno dei mercati – avevano caratte-rizzato i decenni precedenti. Se si pensa che in quegli stessi anni la Russia zaristaera travolta dalla rivoluzione bolscevica, che impose un sistema centralizzato discelte e abolì la proprietà privata, si capiscono le preoccupazioni del tempo daparte dei paladini del liberismo a oltranza46. Terminata la guerra, la questionedelle riparazioni tedesche fissate a un livello intollerabile per la Germania – se-condo l’opinione di Keynes – creava le basi per nuove spinte destabilizzanti del-l’intero sistema finanziario mondiale47. Questo avrebbe comportato, sempre se-condo il grande economista di Cambridge, o l’impossibilità per i tedeschi di pa-gare o – se avessero rispettato gli impegni – la necessità di accumulare un surplusdella bilancia commerciale talmente elevato da costituire un serio pericolo per ilcommercio britannico e per quello di tutti gli altri Paesi usciti vincitori dallaguerra. La previsione formulata da Keynes naturalmente si avverò: dopo la gran-de inflazione del 1921-23, che travolse la repubblica di Weimar48, la Germaniaattuò, sotto la guida di Hjalmar Schacht, una forte deflazione, che contribuì aportare rapidamente in attivo la sua bilancia commerciale49: inoltre, prestiti amedio-lungo termine provenienti dagli Stati Uniti, contribuirono a completareil risanamento dell’economia tedesca, nonostante gli elevati oneri pagati comedanni di guerra.

Dopo la questione delle riparazioni tedesche, che nei primi anni Venti con-tribuirono ad attivare i flussi finanziari mondiali, a partire dalla metà del de-cennio si presentò un altro problema rilevante: dietro pressione di Montagu

Page 52: Gli spazi della globalizzazione

Norman e Benjamin Strong50, rispettivamente governatori della Bank of En-gland e del Federal Reserve System, la maggior parte degli Stati europei venneindotta – dopo la parentesi della guerra – ad aderire nuovamente a un sistemaa base aurea, anche se nella versione meno rigida del gold exchange standard.Anzi, molti Paesi, tra i quali la Gran Bretagna e l’Italia, proposero un ritorno al-l’oro con un tasso di cambio ancora più rivalutato rispetto a quello prebellico,quasi che la prima guerra mondiale non avesse costituito alcun problema per leloro rispettive economie51. A convincere molti Paesi a questa scelta – che poi sirivelò qualche anno più tardi assolutamente fallimentare – furono essenzial-mente massicci prestiti concessi da banche statunitensi per portare a terminequesta operazione52.

Movimenti internazionali di capitali 5 1

Fonte: B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la Grande Depressione, 1919-1939, Cariplo-La-terza, Roma-Bari 1994, p. 193.

Tab. 2 Prestiti americani e britannici negli anni Venti

Page 53: Gli spazi della globalizzazione

La circostanza che fossero capitali statunitensi e non britannici a sostenerel’ambizioso progetto di ritorno alla convertibilità aurea, che si sommava al fattoche fossero sempre capitali d’oltreoceano a consentire la soluzione del problemadel pagamento dei danni di guerra tedeschi, segnalò al mondo intero le gravi dif-ficoltà nelle quali si dibatteva la piazza finanziaria londinese: la sua definitiva e uf-ficiale uscita di scena si ebbe nel 1931, con la dichiarazione di inconvertibilità inoro della sterlina53. Si trattava della peggiore delle rese senza condizioni per unPaese che aveva sollecitato tutti gli altri a un ritorno alla convertibilità ed era, alcontempo, la manifestazione di un fallimento dovuto a una serie di errori clamo-rosi in cui erano incorse le autorità britanniche, nonostante le puntuali critichemosse da Keynes54. Questi stessi errori ebbero, poi, un ruolo cruciale nel provo-care la crisi del 1929, che fu non solo di tipo borsistico, ma anche strutturale. Nelfrattempo, nel corso della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano accre-sciuto la competitività dei loro prodotti e i ricorrenti avanzi della loro bilancia deipagamenti li avevano trasformati da Paese debitore della Gran Bretagna – quan-do Londra svolgeva per loro la funzione di Banca centrale – in Paese creditore delmondo, in grado di finanziare le riparazioni e i debiti di guerra dei Paesi europei.Questo riciclo del surplus della loro bilancia dei pagamenti fu la condizione che as-sicurò stabilità all’intero sistema economico internazionale del tempo.

Ai movimenti di capitali statunitensi a medio-lungo termine che affluironodagli Stati Uniti verso l’Europa corrispose un flusso a brevissimo termine di di-rezione opposta e di natura essenzialmente speculativa. Questi capitali vennerodefiniti “vaganti”, dato che si movevano tra le varie piazze finanziarie mondiali al-la ricerca di profitti speculativi e, ogni volta che si spostavano, creavano seri pro-blemi alle riserve auree o valutarie dei rispettivi Paesi55.

Roberto Panizza5 2

Tab. 3 Prestiti netti a breve e a lungo termine degli Stati Uniti, 1926-31 (in milioni di dollari)

Fonte: B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la Grande Depressione 1919-1939, Cariplo-La-terza, Roma-Bari 1994, p. 284.

Page 54: Gli spazi della globalizzazione

Fu nel 1925 che cominciò a scoppiare la febbre speculativa in borsa, dove glioperatori comperavano titoli allo scoperto, facendosi prestare il denaro neces-sario oltre a quello di cui già disponevano: nonostante l’aumento del tasso disconto, che venne portato dal Federal Reserve System al 5%, al fine di disin-centivare questo tipo di acquisti a riporto, non si arrestò la domanda di credito,tanto che alcuni broker specializzati prendevano a prestito il denaro a quel tas-so per poi prestarlo a loro volta al 12% agli speculatori56. È chiaro che remune-razioni così elevate costituirono una forte attrattiva per i capitali a breve europei,che attraversarono in massa l’Atlantico, alimentando il gioco della speculazione.L’euforia dei mercati era tale che si rivelarono inutili i tradizionali strumenti uti-lizzati dalle autorità monetarie per raffreddare l’economia e neppure il mondopolitico ebbe il coraggio di chiedere al Federal Reserve System di proibire leoperazioni allo scoperto, dato che sarebbe stato accusato di voler sabotare unmomento di grande prosperità per tutti. Tuttavia, la stretta monetaria adottatadalla Fed nel 1928, se non ebbe effetti consistenti per raffreddare il clima di eufo-ria interno agli Stati Uniti, generò conseguenze molto gravi a livello del sistemafinanziario internazionale, dato che ridusse notevolmente il volume dei prestitiamericani all’estero. Questo mise in crisi il principale meccanismo di stabilizza-zione del sistema stesso. Per questa ragione le economie dei Paesi importatori dicapitali cominciarono a rallentare e le autorità furono costrette a rigide politi-che monetarie che contrastavano con l’euforia dei mercati : nell’autunno del1929 si manifestò la crisi di fiducia negli investimenti borsistici e iniziò il grandecrollo delle quotazioni57.

Le banche furono le istituzioni che pagarono il tributo più alto alla crisi del1929, che finì per propagare i suoi effetti negativi ai principali Paesi europei. Inalcuni di questi, come l’Austria, la situazione di insolvenza di grandi banche, co-me il Credit-Anstalt58, attivò tutta una serie di interventi di sostegno da parte siadelle autorità, sia di gruppi privati, come la Casa Rothschild, che divideva conquesto istituto alcune filiali estere: questa crisi travolse anche lo scellino austriacoe ingenerò numerose fughe di capitali stranieri dall’Austria. Anche la Polonia, laCecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania e, soprattutto, la Germania vennero col-pite dal fenomeno della massiccia fuoriuscita di capitali stranieri59. Vennero ri-chiamati circa 300 milioni di marchi di crediti esteri concessi alle grandi banchetedesche e questo, a sua volta, provocò la fuoriuscita di oro e riserve dalla Rei-chsbank, l’istituto di emissione tedesco. Anche negli Stati Uniti il crollo di bor-sa e le difficoltà in cui si dibattevano privati cittadini e banche contribuì a inari-dire i flussi di prestiti verso l’estero60: questo fenomeno fu particolarmente gra-ve, dato che era proprio su questi ultimi che si poggiava, a livello internazionale,il pareggiamento di tutti i conti. Alla crisi del ’29 seguirono politiche di autarchia,che interessarono non soltanto l’economia reale, con una consistente diminu-zione delle esportazioni mondiali, ma anche i movimenti di capitali. In fondo, larottura e il venir meno di quello che Polanyi definì «il filo d’oro» intorno al qua-le tutto il sistema finanziario internazionale ruotava e che ne garantiva l’unità

Movimenti internazionali di capitali 5 3

Page 55: Gli spazi della globalizzazione

finì per disgregare l’economia mondiale e per imporre l’individuazione di unnuovo ordine monetario61.

Alla fine degli anni Trenta, con l’approssimarsi delle nuove minacce di guer-ra, i capitali europei presero nuovamente la via degli Stati Uniti, con ammonta-ri sempre più massicci62. Tali capitali vennero investiti quasi tutti nell’acquisto dioro e tutto ciò si verificò nonostante il fatto che una delegazione di illustri ban-chieri centrali europei (tra i quali il governatore della Bank of England, Monta-gu Norman, quello della Reichsbank , Hjalmar Schacht, e il vicegovernatore del-la Banca di Francia, Charles Rist) avessero chiesto alle autorità americane di ab-bassare il costo del denaro, al fine di rendere il dollaro meno competitivo eappetibile per gli investitori europei. La loro richiesta venne accolta, ma noncontribuì ad arginare l’emorragia di capitali, oltre che di oro, dal vecchio conti-nente verso gli Stati Uniti, che si accingevano a consolidare la centralità dei loromercati finanziari.

Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, in base all’ac-cordo lend-lease del marzo del 1941, si impegnarono a fornire ai loro alleati arma-menti ed equipaggiamenti militari, posticipando i pagamenti degli stessi alla finedella guerra, mentre i tedeschi crearono per le loro truppe di occupazione il Rei-chcreditkassenscheine, una speciale banconota che circolava solo nelle zone diguerra esterne alla Germania. Si trattava dell’introduzione – dai due opposti schie-ramenti del fronte – di strumenti finanziari innovativi, che avrebbero dovuto assi-curare un flusso adeguato di capitali nei diversi territori coinvolti nel conflitto63.

2.2 Movimenti di capitali nel nuovo sistema monetario di Bretton WoodsAncora prima della fine del conflitto, gli Stati Uniti convocarono nel 1944 a

Bretton Woods (New Hampshire) una conferenza che avrebbe dovuto definireil nuovo assetto del sistema monetario del dopoguerra. Nonostante le proposteinnovative avanzate rispettivamente dai plenipotenziari della Gran Bretagna(J.M. Keynes) e degli Stati Uniti (H.D. White), l’accordo finale non tenne con-to del nuovo spirito che avrebbe dovuto caratterizzare in futuro i rapporti mo-netari e finanziari tra gli Stati e trionfò il principio della centralità del dollaro,della scarsità dei mezzi finanziari a disposizione dei Paesi in difficoltà, della ge-stione da parte di banche private degli squilibri delle bilance dei pagamenti e, in-fine, della posizione privilegiata dei Paesi in surplus rispetto a quelli in deficit64.Tali accordi si rivelarono ben presto un vincolo troppo rigido per i Paesi europei(vincitori e vinti) che dovevano fronteggiare le difficoltà della ricostruzione po-stbellica, non disponendo praticamente più di riserve. Inoltre, le poche di cuidisponevano, invece di essere spese per finanziare la ripresa economica e la cre-scita, dovevano essere bruciate per mantenere una parità con il dollaro che con-cedeva solo limitatissimi margini di oscillazione. Le conseguenze negative delnuovo sistema creato a Bretton Woods non tardarono a farsi sentire, con unagrande recessione che bloccò le economie europee e finì per riflettersi negativa-mente anche sulla stessa economia americana.

Roberto Panizza5 4

Page 56: Gli spazi della globalizzazione

Questo grave stato dell’economia europea, unitamente alla minaccia rappre-sentata dalla vicinanza dell’Unione Sovietica, indusse le autorità statunitensi a va-rare un massiccio piano di aiuti all’Europa che prese il nome di Piano Marshall65.Esso prevedeva il trasferimento di capitali verso il vecchio continente, finalizzati al-l’acquisto di impianti, macchinari e manufatti statunitensi, che avrebbero assicu-rato la ripresa dell’attività produttiva. Inoltre, con buona pace dei più conservatoriche si lamentavano per il fatto che il denaro dei contribuenti americani finisse al-l’Europa, la maggior parte delle somme stanziate dal Piano solo formalmente usci-va dagli Stati Uniti, dato che i destinatari finali erano proprio le imprese statuni-tensi che cedevano i beni d’ investimento e quelli di consumo: in tal modo venivadelegato agli imprenditori europei il compito di decidere quali imprese statuni-tensi dovessero essere privilegiate. Tale progetto, inizialmente rivolto anche aglialleati sovietici, consentì agli Stati Uniti – dopo il ritiro dei Paesi socialisti dal pia-no di assistenza – di ridefinire anche il sistema di alleanze, con l’uscita dell’Unio-ne Sovietica e l’entrata della Germania. Il programma prevedeva l’erogazione, inquattro anni, inizialmente di 30 miliardi di dollari, poi ridotti a 16. Il consuntivo fi-nale fu di 12,5 miliardi. I Paesi che ricevettero l’aiuto si fecero poi pagare in valu-ta locale dai fruitori finali dei beni e degli impianti ricevuti, il che consentì a queigoverni di accumulare notevoli somme di denaro destinate alla stabilizzazione mo-netaria e al sostegno della politica industriale.

Attraverso il Piano Marshall le autorità statunitensi riuscirono anche a defi-nire il tipo di sviluppo che avrebbe interessato l’economia europea nel secondodopoguerra, quasi esclusivamente orientato alla produzione di beni manifattu-rieri. Inoltre, la quota di aiuti trasferita non sottoforma di impianti o di beni diconsumo, ma come finanziamenti per risanare i disavanzi delle bilance dei pa-gamenti, venne gestita da un organismo creato appositamente e chiamato l’U-nione europea dei pagamenti (Epu), con 500 milioni di capitale iniziale che, no-nostante l’esiguità della cifra, si dimostrarono del tutto adeguati: la costituzionedell’Epu66 ebbe il merito di aiutare i Paesi europei a ragionare in termini di cre-scente integrazione delle loro economie, a cominciare dal settore monetario efinanziario. Il massiccio trasferimento verso l’Europa di queste risorse in merci,beni capitali e mezzi di pagamento permise senza sforzi eccessivi di completarei progetti della ricostruzione industriale dei Paesi europei, che furono in grado,dopo breve tempo, di affrontare il boom economico che caratterizzò gli anniCinquanta67. Prima, però, del conseguimento della completa stabilizzazione, al-cune valute come la sterlina, il marco tedesco e altre di minore importanza, sva-lutarono nel settembre del 1949, a riprova che i cambi quasi rigidi imposti a Bret-ton Woods costituivano un grave problema per i Paesi europei. La lira, da par-te sua, a seguito di una politica monetaria molto rigorosa, che si tradusse in unaggravamento di una situazione economica già di per sé poco prospera, riuscì acontenere la svalutazione entro il 7%.

Oltre a quello dei cambi, l’altro problema che caratterizzò quegli anni del se-condo dopoguerra fu la sistematica carenza di liquidità su piano internazionale:

Movimenti internazionali di capitali 5 5

Page 57: Gli spazi della globalizzazione

l’abbandono del sistema a standard aureo e il passaggio – che richiese tempo perla sua completa realizzazione – al sistema creato a Bretton Woods e fondato sullacentralità del dollaro (ancora poco presente nelle riserve della maggior parte deiPaesi europei68) rendevano scarsissime le disponibilità di mezzi di pagamento. Ildibattito tra gli economisti del tempo era proprio incentrato su questa carenza dimezzi liquidi, che ci fa un po’ meravigliare oggi, quando l’unico problema chenon esiste proprio è quello della disponibilità di mezzi liquidi. La situazione eraparticolarmente grave perché in quegli anni i prestiti tra Stato e Stato erano usual-mente concessi sempre più in natura e sempre meno in denaro, sull’esempio delPiano Marshall, con i singoli governi che poi si attivavano per collocare sul mer-cato i beni ricevuti in contropartita, facendoseli pagare dai percettori finali69. Inol-tre, tutta la liquidità in valuta presente sul mercato veniva in gran parte incameratadalle banche centrali per ricostituire le loro riserve che scarseggiavano proprio didollari. In quegli anni l’unica fonte di liquidità, accanto ai trasferimenti del go-verno degli Stati Uniti, era quella offerta dalle banche private americane, spaven-tate, tuttavia, dai controlli valutari che ancora permanevano in Europa.

Poi, nel prosieguo del tempo, due fenomeni contribuirono ad accrescere ledisponibilità di dollari su piano internazionale. Il primo era legato alla guerra diCorea, che scoppiò nel 1950 e comportò un notevole esborso di dollari da par-te dell’amministrazione statunitense70. Il secondo, sempre condizionato dal nuo-vo ruolo egemone assunto dagli Stati Uniti sulla politica mondiale, derivava dal-le crescenti spese per il mantenimento delle basi militari in giro per il mondo,per le operazioni di intelligence legate a interventi in vari Paesi per sostenere oper rovesciare governi locali e per esborsi legati alla situazione di “guerra fred-da” contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati. Questo flusso di denaro stanziatodall’amministrazione statunitense divenne sempre più massiccio e portò anchea un deficit crescente della bilancia dei pagamenti del Paese, nonostante il siste-matico surplus della bilancia commerciale, cioè degli scambi di beni e servizi.La forte competitività dei prodotti americani, che assicurava elevati avanzi del-la bilancia commerciale, veniva quindi penalizzata dalle spese militari e strate-giche necessarie per assicurare agli Stati Uniti il ruolo di leader mondiale71. Uni-ca contropartita di questa scelta strategica fu la corsa al riarmo della maggiorparte degli Stati europei, giustificata da un eventuale scontro con l’Unione So-vietica: l’Europa acquistò soprattutto armi sofisticate e aerei militari dall’indu-stria bellica statunitense, contribuendo in tal modo a far rimpatriare per lo me-no una parte della massiccia fuoriuscita di dollari72.

Sempre come effetto della guerra di Corea, si verificò un altro fenomeno cheincise profondamente sull’andamento dei flussi di capitali: la minaccia di ritor-sioni da parte del governo americano sui depositi detenuti dall’Unione Sovieticae dai suoi alleati presso banche statunitensi, che indusse le autorità di quei Paesia spostare i loro fondi verso l’Europa. Esse avevano due esigenze che dovevanoessere soddisfatte contemporaneamente: la prima era quella di evitare preoccu-panti congelamenti delle loro riserve valutarie, mentre la seconda era rappresen-

Roberto Panizza5 6

Page 58: Gli spazi della globalizzazione

tata dalla volontà di non rinunciare a detenere dollari, dato che era la valuta inteoria e di fatto al centro del sistema monetario internazionale e che assicurava lemaggiori garanzie di non perdere il suo valore. La conciliazione di questi dueobiettivi venne assicurata dalle banche londinesi, che accettarono depositi in dol-lari, fuori dagli Stati Uniti. Questi dollari che non potevano restare inoperosi,vennero a loro volta prestati a operatori che necessitavano di indebitarsi in quel-la valuta. Nacque, così, dapprima in modo embrionale e successivamente in mi-sura sempre più massiccia, un mercato di dollari commercializzati fuori dalla ma-drepatria, che accettava depositi in questa valuta e poi li prestava internazional-mente. Si formava, in questo modo, un secondo mercato del dollaro, accanto aquello vero e proprio ubicato negli Stati Uniti, che prese il nome di mercato del-l’eurodollaro73. Fu questo mercato, pertanto, che consentì di fronteggiare la gran-de carenza di liquidità internazionale, di cui si è parlato più sopra74.

Tale mercato venne alimentato oltre che dai capitali di proprietà dei Paesi so-cialisti, anche e soprattutto dai capitali statunitensi, che lasciavano il Paese alla ri-cerca di maggiore redditività, dato che la Regulation Q75 imponeva di contenere,a livelli più bassi rispetto a quelli dei mercati internazionali, gli interessi pagati suidepositi. Tale provvedimento, che induceva i capitali americani ad abbandonarela piazza statunitense, era giustificato solo dal fatto che le autorità degli Stati Uni-ti volevano allontanare dal Paese capitali inoperosi, che, se lasciati in loco, avreb-bero potuto alimentare una forte inflazione. Così l’Europa beneficiò di questi mas-sicci trasferimenti di capitali americani, che si andarono a collocare naturalmentesul mercato dell’eurodollaro. Inoltre, dato che negli Stati Uniti il costo del denaro,soprattutto per operazioni a breve termine, era molto basso, accadde che moltioperatori europei prendessero a prestito a breve termine in quel Paese per poi in-vestire gli stessi capitali sul mercato europeo a lungo termine, lucrando sui diffe-renziali dei tassi. Infine, i risparmiatori americani erano soliti investire i loro ri-sparmi acquistando titoli obbligazionari europei, più redditizi rispetto a quelliamericani: il fenomeno divenne talmente macroscopico che le autorità americanedecisero – al fine di frenare i flussi di denaro dagli Stati Uniti verso l’Europa – diintrodurre una tassa su tali trasferimenti, definita l’Interest Equalization Tax, cheperequava, dopo il prelievo, gli interessi pagati sui titoli europei a quelli statuni-tensi76. Questi due provvedimenti, Regulation Q e imposta di perequazione, sem-brano tra loro contraddittori: in realtà, in un breve arco di tempo, gli scenari era-no notevolmente cambiati. In un primo tempo le autorità statunitensi favorironola fuga verso l’Europa di capitali eccedentari che cercavano investimenti remune-rativi77, poi, però, quando l’emorragia di questi capitali divenne eccessiva e so-prattutto si consolidarono le strategie europee per il loro utilizzo, queste stesse au-torità decisero di disincentivare siffatta emorragia di risorse finanziarie, con un’ap-posita imposta. D’altra parte più passava il tempo dalla fine della guerra, piùcresceva il disavanzo della bilancia dei pagamenti americana e più era il dollaro adavere difficoltà nel mantenere le originarie parità definite a Bretton Woods con levalute europee.

Movimenti internazionali di capitali 5 7

Page 59: Gli spazi della globalizzazione

Si consolidò, in ogni caso, il mercato dell’eurodollaro, che alimentò l’offertadi liquidità rappresentata da dollari statunitensi all’Europa e al resto del mondo.Esso consentì di effettuare soltanto operazioni di valore molto elevato, con un mi-nimo di un milione di dollari. La base di questo mercato fu costituita da una retedi banche di diversi Paesi che detenevano conti in dollari, di proprietà di cittadi-ni non residenti negli Stati Uniti, tutte collegate tra loro grazie alle tecnologie, chedivennero, col tempo, sempre più sofisticate: telefono, telex, swift, sino ad arriva-re a Internet78. Tale mercato non previde l’obbligo di detenere riserve a fronte de-gli impieghi e questo fece gridare allo scandalo i ben pensanti, che parlarono diun’immane “piramide di carta”79, destinata ad andare incontro alle peggiori crisidi liquidità: invece il mercato resse alla perfezione, grazie alla grande professiona-lità e al senso di responsabilità di chi lo guidava e, nel corso di quasi mezzo secolodi attività, non è stato mai colpito dal minimo intoppo, né coinvolto in nessunoscandalo, smentendo decisamente coloro che, a dispetto dei loro prestigiosi inca-richi, hanno capito ben poco delle funzioni e delle potenzialità della moneta. L’af-flusso di questi capitali non ebbe neppure un impatto inflazionistico per le eco-nomie europee, dato che venne totalmente impiegato nello sviluppo di progettiindustriali o addirittura nel finanziamento degli squilibri di bilancio pubblico dimolti Paesi europei: anche questo impone un ripensamento di certe teorie, comequelle monetariste, che definiscono un rapporto acritico tra quantità di monetapresente su una piazza e livello di inflazione80. In tal caso, dato che esistevano del-le realtà operative che necessitavano di finanziamenti, questo afflusso anomalo didenaro, che avrebbe dovuto creare un’inflazione a due cifre decimali, in realtà hasostenuto esclusivamente lo sviluppo economico dell’Europa. Tra l’altro, a questomercato attinsero le grandi imprese multinazionali statunitensi che si trasferironoin Europa all’inizio degli anni Sessanta, al fine di evitare eventuali barriere esternecreate dalle autorità della nascente Comunità economica81. In tal modo, Londra ri-conquistò quelle posizioni di leadership nell’erogazione di capitali privati alle im-prese di tutto il mondo e di controllo sulla liquidità mondiale. Le autorità statuni-tensi non videro positivamente il riemergere della piazza di Londra come centro dicontrollo della liquidità privata e si attivarono per riportare a Washington per lomeno la centralità nella creazione della liquidità pubblica.

2.3 Il processo d’integrazione europea e le conseguenze sui flussi finanziari mondialiNel frattempo, il processo d’integrazione economica e monetaria dell’Euro-

pa, iniziato nel 1957 con la firma del Trattato di Roma, cominciò a manifestare isuoi effetti sui mercati finanziari mondiali. Intanto, nel 1958, si ristabilì tra tre-dici valute dell’Europa occidentale il ritorno alla completa convertibilità, che si-gnificò la fine dei controlli sui cambi e assicurò una maggiore mobilità per i ca-pitali espressi in valute diverse, un tempo costretti a ricorrere ai mercati valuta-ri clandestini. Il sistema multilaterale di pagamenti si era consolidato, dopol’Accordo monetario europeo, siglato nel 1955 a Parigi, tra i Paesi aderenti al-

Roberto Panizza5 8

Page 60: Gli spazi della globalizzazione

l’Oece, l’Organizzazione europea per la cooperazione economica, creata al finedi coordinare la distribuzione degli aiuti del Piano Marshall82. Tali processi d’in-tegrazione assicurarono all’economia europea una forte crescita, che in alcuniPaesi come l’Italia e la Germania fece addirittura parlare di “miracoli” econo-mici: furono questi tassi elevati di sviluppo che consentirono l’accumulazionedi alti profitti e la conseguente creazione di abbondante liquidità, che pose fi-ne, per lo meno per gli operatori privati, a una sua carenza strutturale che avevacaratterizzato i decenni passati. Fu sempre in questo periodo che il valore dellamassa liquida investita in operazioni finanziarie cominciò a superare il valoredel totale delle transazioni commerciali: oggi, come è noto, la prima supera di ol-tre cento volte la seconda.

Inoltre, fu proprio negli anni Sessanta che i rigidi vincoli di cambio imposticon gli accordi di Bretton Woods e che avevano condizionato negativamente lacrescita delle economie europee negli anni della ricostruzione stavano creandoproblemi alle autorità statunitensi: la quotazione del dollaro era infatti eccessi-va rispetto al cambio delle valute europee e non rispettava più il peso effettivodell’economia statunitense nei confronti di quelle dei Paesi europei, che si era-no nel frattempo notevolmente sviluppati83. La forza eccessiva del dollaro, a li-vello di cambio, creò numerosi flussi di capitali, soprattutto a lungo termine, da-gli Stati Uniti verso l’Europa. Si trattava della conseguenza delle scelte strategi-che delle multinazionali americane, che approfittavano della sovravalutazionedel dollaro per condurre la loro politica di creazione di nuovi impianti produt-tivi in Europa. D’altra parte, questi flussi in uscita resero ancora più scarsa la di-sponibilità di liquidità negli Stati Uniti, già di per sé penalizzati dalla RegulationQ, tanto che le grandi banche americane cominciarono ad attingere liquiditàdalle loro filiali europee. Per contrastare questo andamento e rendere più co-stose queste operazioni, le autorità americane furono indotte a introdurre suqueste passività delle banche statunitensi verso le proprie filiali europee l’ob-bligo di mantenere una riserva del 10% sul totale dell’operazione e questo resepiù oneroso il ricorso a siffatto artifizio84.

D’altra parte, l’eccessivo sovradimensionamento del cambio della monetaamericana costituiva anche un forte deterrente che disincentivava le imprese eu-ropee dall’espandersi negli Stati Uniti: per questi motivi i flussi di capitale a lun-go termine erano monodirezionali e si movevano dagli Stati Uniti verso l’Europa,anche a causa del massiccio deficit della bilancia dei pagamenti statunitense.

Contemporaneamente, grazie alla crescente liquidità che si accumulava suimercati europei e alle notevoli oscillazioni delle valute e dei tassi d’interesse, creb-bero in misura elevata anche i movimenti speculativi a breve termine dei capitali,quasi sempre finalizzati a lucrare su possibili oscillazioni dei cambi o dei rendi-menti del denaro. La destabilizzazione creata da tali movimenti era notevole so-prattutto in uscita, dato che incidevano sulle riserve valutarie, ma anche in entra-ta, perché rischiavano di accrescere in misura eccessiva la liquidità delle banche.Tali pericoli giustificavano il sistema di controlli su questi movimenti finanziari,

Movimenti internazionali di capitali 5 9

Page 61: Gli spazi della globalizzazione

mantenuti dalle autorità monetarie dei singoli Paesi a dispetto dei processi di li-beralizzazione. Negli Stati Uniti, per esempio, venne introdotto a metà degli anniSessanta il Programma di restrizione dei crediti volontari all’estero (1964), con cuile autorità monetarie chiesero alle banche commerciali di non espandere oltre il5% i propri impieghi al di fuori del Paese85. Infine, l’eccessiva sovravalutazionedel dollaro scatenò una corsa alla conversione di dollari in oro e tale corsa caratte-rizzò anche il comportamento delle autorità pubbliche di diversi Paesi: per esem-pio, il presidente francese Charles De Gaulle seguì sistematicamente questa poli-tica, chiedendo la conversione della valuta americana in oro, al prezzo ufficiale di35 dollari per oncia86. In questo periodo ai flussi di dollari che rientravano negliStati Uniti corrispondevano flussi di oro che si andavano a collocare nelle riservedelle principali banche centrali dei Paesi più industrializzati.

Per evitare un aumento del prezzo dell’oro, che avrebbe alimentato la spe-culazione, la maggior parte delle autorità europee, tra le quali inizialmente c’e-ra anche la Francia, costituirono nel 1961 il pool dell’oro, con l’obiettivo speci-fico di tenerne basso il prezzo, al fine di non scatenare una corsa al rialzo dellesue quotazioni: sul mercato di Londra l’oncia d’oro non superò mai il prezzo di35,35 dollari87. Tuttavia, al crescere delle pressioni su tale mercato, il pool cessòufficialmente di operare nei primi mesi del 1968, quando le banche centrali ri-nunciarono ai loro interventi sui mercati dell’oro: tre anni più tardi, nell’agostodel 1971, gli Stati Uniti erano costretti a rinunciare definitivamente alla conver-tibilità del dollaro in oro.

Fu sempre nel corso degli anni Sessanta che le autorità monetarie statuniten-si iniziarono politiche di collaborazione con numerose banche centrali europee,al fine di sostenere il valore del dollaro con linee di credito a breve termine defi-nite di stand by (quando non c’era l’obbligo dell’utilizzo delle stesse) o di swap(quando veniva già definita l’operazione inversa, una volta trascorso un certo las-so di tempo): naturalmente le preoccupazioni manifestate dalle autorità statuni-tensi nei confronti della tenuta del dollaro disincentivarono movimenti di capitaliverso la moneta americana. Mentre la liquidità a disposizione di imprese e ope-ratori privati cresceva rapidamente e non costituiva più un problema impellente,la liquidità disponibile per le autorità centrali era ancora molto scarsa e questeultime dovevano ingegnarsi con vari artifizi per accrescerla, per lo meno nel bre-ve periodo. Fu questo uno degli obiettivi del Gruppo dei 10 e in particolare, al suointerno, del “rapporto Ossola”, che evidenziò l’inadeguatezza delle riserve di-sponibili presso le più importanti banche centrali, in gran parte derivanti esclu-sivamente dai disavanzi della bilancia dei pagamenti statunitense88.

Dalla tabella 4 risulta che le spese militari, gli aiuti e i prestiti e le altre transa-zioni imputabili alla pubblica amministrazione statunitense contribuirono a man-tenere deficitaria la bilancia dei pagamenti89. Come si evince sempre dalla stessatabella, solo la vendita di armi agli alleati europei, oltre al rimborso dei prestiti ealle esportazioni finanziate dal governo, sostenevano l’attivo, lasciando però unsaldo marcatamente negativo. Tra l’altro, nelle esportazioni qui analizzate erano

Roberto Panizza6 0

Page 62: Gli spazi della globalizzazione

incluse quasi esclusivamente le vendite di beni capitali sponsorizzate dal governostatunitense. Infatti, le pressioni politiche contribuivano a far vincere a impreseamericane diversi contratti per la vendita di beni capitali e i numerosi episodi dicorruzione denunciati in quel periodo sono la prova migliore che i criteri di scel-ta non erano condotti sulla base dell’effettiva competitività, ma per rendersi gra-diti all’amministrazione americana90.

L’altro grande flusso di capitali in questo periodo era rappresentato dagli in-vestimenti esteri diretti statunitensi (tab.5), sempre in crescita nonostante le li-mitazioni introdotte dalle autorità statunitensi in quel periodo.

Come risulta dalla tabella 5, il rimpatrio dei profitti accumulati all’estero dal-le multinazionali aveva un valore mediamente doppio rispetto a quello della fuo-riuscita di capitali per investimenti esteri diretti e, quindi, ogni intervento fina-lizzato alla riduzione di tali investimenti avrebbe finito per inaridire anche i flus-

Movimenti internazionali di capitali 6 1

Tab. 4 Disavanzo della bilancia statunitense imputabile alle operazioni governative nel periodo 1960-1970 (in milioni di dollari)

Fonte: Survey of Current Business, vari bollettini trimestrali.

Tab. 5 Investimenti esteri diretti negli Usa e flussi di capitale a lungo termine nel periodo 1960-1970 (in milioni di dollari)

Fonte: Survey of Current Business, vari bollettini trimestrali.

Page 63: Gli spazi della globalizzazione

si di profitti che rientravano nel Paese, la maggior parte dei quali era legata al-l’industria petrolifera. Senza contare la quota di esportazioni statunitensi indot-te dagli stessi investimenti. I flussi in uscita dei capitali a lungo termine erano giu-stificati dalla ricerca di una remunerazione più elevata per questi investimenti diportafoglio, mentre il massiccio afflusso di capitali dall’Europa e dal Giapponetrovava la sua giustificazione nella paura degli investitori europei e giapponesicirca una possibile degenerazione della guerra fredda con l’Unione Sovietica: es-si erano disposti ad accettare una minore remunerazione pur di garantirsi la si-curezza degli investimenti oltreoceano.

Alla fine degli anni Sessanta divennero sempre più evidenti le carenze di unsistema finanziario internazionale che per procurarsi i mezzi liquidi necessaridoveva fare quasi esclusivo affidamento sugli squilibri della bilancia dei paga-menti statunitense: era chiaro che una situazione del genere avrebbe finito perdeteriorarsi e per manifestare tutte le sue contraddizioni più profonde, che nona caso esplosero nel decennio successivo.

Roberto Panizza6 2

Page 64: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo terzoDalla crisi del sistema di Bretton Woods al trionfo dei princìpi monetaristi

3.1 La crisi degli anni Settanta e il flusso di capitali verso il Terzo MondoLa grave crisi che interessò, nel corso degli anni Settanta, il sistema econo-

mico mondiale incise profondamente anche sull’andamento dei flussi finanzia-ri internazionali. Si trattava di una crisi imputabile essenzialmente a cause di na-tura esogena, anche se i teorici di formazione neoclassica vollero leggerla comeil fallimento finale di tre decenni trascorsi nel rispetto dei princìpi keynesiani.

Il decennio si aprì con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, nell’a-gosto del 1971, cui seguì, tre mesi più tardi, la sua svalutazione91 e il passaggio daun sistema di cambi fissi, imposto dagli accordi di Bretton Woods, a uno fonda-to su cambi flessibili92. Questo indebolimento della moneta sino ad allora al cen-tro di tutte le transazioni commerciali e finanziarie mondiali indusse dapprima iproduttori di petrolio e poi anche quelli di tutte le altre materie prime ad accre-scerne il prezzo di vendita in dollari, al fine di compensare la perdita di potered’acquisto della moneta con la quale erano pagati. Di fatto, però, l’adeguamentodei prezzi finì per eccedere di gran lunga la svalutazione del dollaro, che fu sol-tanto del 10%93, mentre nel caso del petrolio i prezzi originali vennero moltipli-cati fino a venti volte94. Contemporaneamente la contrazione dei consumi a li-vello mondiale, generata dalla recessione, mise in crisi anche i vecchi sistemi diproduzione di massa, definiti fordisti, che facevano affidamento esclusivamentesu automatismi di tipo meccanico, propri del sistema di produzione fordista95.Questo creò seri problemi per tutte quelle imprese che producevano beni d’in-vestimento, ancora legate alle vecchie tecnologie meccaniche. Solo le imprese chesi dotarono tempestivamente delle nuove tecnologie elettroniche riuscirono a su-perare brillantemente la crisi. Per le altre iniziò, invece, un lento e irreversibileprocesso di decadenza. Questo, in sintesi, il quadro molto riassuntivo di quantoaccadde in quel decennio di grave recessione ed elevata inflazione, tanto che ven-ne coniato – per descrivere quella tipica situazione – il termine di stagflazione96,intesa come situazione di ristagno economico in presenza di un’elevata inflazio-ne: le due realtà non erano in contraddizione tra loro, dato che l’inflazione eraesclusivamente generata da fenomeni esterni, cioè dall’aumento dei costi dell’e-nergia e delle materie prime. Era, dunque, compatibile la presenza di una realtàdi crisi, che avrebbe dovuto comportare una riduzione dei prezzi, con un’eleva-ta inflazione generata esclusivamente dal notevolissimo aumento dei costi.

Page 65: Gli spazi della globalizzazione

Il rallentamento del ciclo in Occidente e il ristagno delle vendite di beni ca-pitali nei Paesi più sviluppati indussero le grandi banche transnazionali statuni-tensi a sostenere progetti di industrializzazione nel Terzo Mondo: veniva così fi-nanziato, in dollari, l’acquisto di macchinari o di impianti a costi relativamentecontenuti. A offrire queste tecnologie erano le imprese produttrici di beni capi-tali statunitensi, piegate dalla recessione, con il supporto finanziario delle ban-che transnazionali che si impegnavano a monitorare la gestione aziendale di que-gli investimenti97. Tale scelta comportò il trasferimento ai Paesi in via di svilup-po di capitali denominati in dollari, con questa specifica destinazione d’uso –l’acquisto da parte loro di impianti industriali. Vogliamo evidenziare questo da-to per smentire certe scorrette illazioni che furono fatte successivamente, circaun uso poco economico delle risorse ricevute: le somme concesse in prestito aiPaesi del Terzo Mondo, che – a distanza di un decennio – furono coinvolti dal-lo scoppio della crisi debitoria, non furono sprecate nell’acquisto di beni super-flui o di lusso, ma vennero usate per l’acquisto di beni strumentali e per finan-ziare progetti di industrializzazione. A invogliare verso questa scelta c’erano dueelementi estremamente favorevoli: la debolezza del dollaro a partire dal 1971 ei bassi tassi d’interesse gravanti su tali prestiti98. Le politiche monetarie perse-guite dalle autorità dei principali Paesi più industrializzati erano, infatti, ancoraispirate ai princìpi della “via finanziaria allo sviluppo”, che imponevano comescelta prioritaria il rigido controllo sulla definizione del costo del denaro, proprioal fine di stimolare i processi di crescita e di non gravare, in modo eccessivo, su-gli investimenti produttivi99.

D’altra parte, le grandi banche transnazionali disponevano di una liquiditàeccedentaria, generata da elevati flussi finanziari in entrata: si trattava delleenormi disponibilità dei Paesi produttori di petrolio, a seguito dell’elevatissi-mo aumento del suo prezzo, che si posizionavano presso queste grandi banchestatunitensi. Si era di fronte al noto fenomeno del riciclaggio dei petrodollari,generato a seguito del vistoso aumento delle entrate dei prodotti energetici100.Accadeva, così, un fenomeno paradossale: l’economia mondiale era in crisi acausa dell’aumento spropositato dei prezzi delle materie prime e ciò riducevadrasticamente le occasioni d’investimento, accrescendo – a sua volta – le gia-cenze liquide presso le grandi banche private dei Paesi più ricchi. Le notevolirisorse drenate ai Paesi sviluppati per il pagamento dei rifornimenti petrolife-ri e delle materie prime dovevano trovare una loro collocazione remunerativa:la scelta cadde, da un lato, sull’oro, che ancora ricopriva un ruolo di mezzo dipagamento internazionale e le cui quotazioni salirono rapidamente da 35 (ilvecchio prezzo fissato dopo la crisi del ’29) fino a 875 dollari per oncia101; dal-l’altra sul trasferimento di tali somme su conti correnti presso le banche piùimportanti del mondo, principalmente statunitensi, le quali, tuttavia, in as-senza di impieghi adeguati o le trattennero in forma liquida o le prestaronoper finanziare l’industrializzazione dei Paesi del Terzo Mondo. Questa grandeliquidità, in parte inutilizzata, contribuì in quegli anni a mantenere bassi sia i

Roberto Panizza6 4

Page 66: Gli spazi della globalizzazione

livelli dei tassi d’interesse, sia le quotazioni del dollaro, che finirono per unifor-marsi a livello mondiale, grazie alla crescente liberalizzazione dei movimenti dicapitale102.

La debolezza del dollaro, tuttavia, suscitò la speranza, presso alcune auto-rità di governo di altri Paesi sviluppati, di poterlo scalzare dal ruolo di mone-ta chiave per la maggior parte delle transazioni reali e finanziarie del mondo.In corsa per raccoglierne l’eredità c’era in primo luogo la sterlina, che non ave-va mai accettato di essere stata estromessa dal proprio ruolo egemone all’ini-zio degli anni Trenta103: la City di Londra si era sempre proposta come prin-cipale piazza finanziaria mondiale e a questo obiettivo le autorità britannicheavevano sempre sacrificato le scelte più favorevoli al sistema industriale delPaese, anche a costo di indurre a gravi sacrifici soprattutto le classi lavoratri-ci. Questa politica comportava un afflusso di capitali da tutto il mondo alla ri-cerca di investimenti remunerativi: una scelta che non significava però neces-sariamente un consolidamento della sterlina come moneta al centro del siste-ma monetario mondiale104. Paradossalmente gli operatori erano spaventatidalle quotazioni troppo sovrastimate del cambio della sterlina, frutto di ac-corti interventi di politica monetaria da parte delle autorità, oltre che dall’i-nadeguatezza del suo sistema bancario a fronteggiare le esigenze finanziariedi tutto il mondo: si trattava di banche troppo specializzate a gestire i por-tafogli degli investitori e la loro liquidità eccedente, ma meno pronte a soste-nere finanziariamente progetti che comportassero un elevato impiego di capi-tali in giro per il mondo. Era questa carenza che impediva di sostenere in mi-sura adeguata il ruolo centrale della sterlina105.

Vista l’impossibilità di rilanciare il disegno imperiale per la moneta britanni-ca, non rimanevano che altri due Paesi ad aspirare a gestire posizioni egemonichea livello mondiale: la Germania e il Giappone106. Questi due Paesi, pur distantigeograficamente, presentavano notevoli analogie che li rendevano abbastanza si-mili tra loro. Ambedue rifiutavano un’immagine del capitalismo senza regole eindividualista, centrato sul dominio incondizionato dei liberi mercati. In entrambii casi veniva privilegiato, invece, il modello definito renano, che pretendeva di re-golamentare i mercati, al fine di evitare i sistematici fallimenti degli stessi107; ledecisioni venivano prese non in termini individualistici, ma come risultato dellacontrattazione sociale, che coinvolgeva tutte le forze e i soggetti interessati; il si-stema bancario, infine, non poteva muoversi alla ricerca dei propri profitti in con-trasto con gli interessi del sistema industriale, ma doveva continuare a svolgere ilsuo compito di servizio a sostegno delle attività produttive. Questi, in estremasintesi, i princìpi a cui si ispirava il capitalismo regolamentato di Germania eGiappone, e già questa impostazione ideologica insospettiva tutti i sostenitori delmodello liberistico radicale circa un eventuale utilizzo, a livello mondiale, delle lo-ro rispettive monete.

Esisteva, tuttavia, un altro elemento che rendeva praticamente impossibi-le la centralità di marco e yen: i due Paesi che emettevano queste monete pre-

Movimenti internazionali di capitali 6 5

Page 67: Gli spazi della globalizzazione

sentavano sistematicamente elevati surplus nelle loro bilance dei pagamenti.Questo faceva sì che i marchi e gli yen a disposizione sulle piazze valutariemondiali fossero molto scarsi rispetto alle effettive esigenze dei mercati. Si ri-proponeva, per questi due Paesi, l’impossibilità a ricoprire un ruolo egemonesu piano valutario a causa del paradosso di Triffin: secondo questo grande eco-nomista, non è pensabile che la moneta di un Paese possa ricoprire un ruolocentrale all’interno del sistema monetario internazionale se la sua bilancia deipagamenti è sistematicamente in surplus108. Un attivo della bilancia significache un Paese accumula riserve valutarie, ma non mette a sua volta a disposi-zione dell’economia mondiale la liquidità necessaria, espressa nella propriamoneta. Gli Stati Uniti, invece, nonostante la debolezza intrinseca del dollaro,rispondevano in maniera egregia alla condizione imposta dal paradosso di Trif-fin, dato che a fronte di un surplus della bilancia commerciale – che stava a te-stimoniare la loro superiorità su piano commerciale, con l’affermarsi dei loroprodotti nella competizione mondiale – presentavano un forte disavanzo del-la loro bilancia dei pagamenti non per intrinseca debolezza, ma per le enormispese rappresentate da basi militari ubicate all’estero, da operazioni di intelli-gence in varie parti del mondo e dal sostegno finanziario a governi giudicatiamici che si impegnavano nella lotta contro il comunismo. Si trattava, dunque,di un deficit, che era però espressione del ruolo di dominio mondiale svoltodalla potenza statunitense109. Accadde così che, proprio nel decennio di og-gettiva debolezza del dollaro, a causa della sua cessata convertibilità in oro edella sua svalutazione, esso si affermava a causa della sua presenza, quantita-tivamente molto rilevante, su tutte le piazze del mondo: era debole – è vero –ma era l’unica moneta supportata da un sistema bancario in grado di finanzia-re le operazioni di ammontare molto elevato che si presentavano a livello mon-diale. Fu così che la fine del sistema di Bretton Woods e il passaggio a un si-stema di cambi flessibili rafforzarono la posizione del dollaro110. Le autoritàmonetarie statunitensi, avvalendosi del diritto di signoraggio, conseguironouna libertà assoluta nella creazione della moneta mondiale, iniziando a stam-pare dollari in abbondanza111, con i quali acquistarono tutte le risorse di cuinecessitavano.

Marco e yen, se si esclude un discreto successo sul piano delle emissioni ob-bligazionarie (tab. 6), dovettero rinunciare ai loro piani egemonici anche per-ché, in particolare le autorità tedesche, invece di costruire intorno alla loro mo-neta un consenso europeo sempre più ampio, lavorarono attivamente per ri-durre drasticamente l’area del marco, non perdendo occasione per escluderedalla stessa Paesi importanti come la Gran Bretagna, l’Italia o la Francia. Affer-matasi l’area del marco solo a livello molto locale, con Paesi come l’Olanda e laDanimarca, era chiaro che la valuta tedesca non poteva ambire a un ruolo di do-minio egemonico sul mondo112.

Roberto Panizza6 6

Page 68: Gli spazi della globalizzazione

Pur distrutto nella sua credibilità, il dollaro si ripropose negli anni Settantaal centro del sistema monetario internazionale grazie alla forza dei suoi numeri:praticamente erano solo dollari quelli che circolavano nelle principali piazze va-lutarie del mondo e qualsiasi operazione di una certa rilevanza non poteva pre-scindere dal loro impiego. Il marco uscì così sonoramente sconfitto da questalotta per il dominio dei mercati valutari a causa della scarsa avvedutezza dellapolitica perseguita dalle sue autorità, che non riuscirono ad affermarne la su-premazia, nonostante la sua forza intrinseca113. Era ancora una volta l’incapa-cità delle autorità tedesche a gestire i rapporti con i propri partner europei checondannava il marco a restare una valuta marginale rispetto al sistema moneta-rio internazionale: esse erano erroneamente convinte che sarebbe stato suffi-ciente indebolire i rivali per affermare la propria centralità. In realtà, una politi-ca corretta non avrebbe dovuto creare timori intorno alla moneta tedesca, che inquel modo finiva invece per rendere la vita difficile alla maggior parte degli altriPaesi europei114: l’unico risultato che per la Germania possiamo definire positi-vo fu rappresentato dal fatto che la prova di forza voluta dalle autorità tedeschecontro i concorrenti europei finì per disincentivare gli investimenti esteri diret-ti, che provenivano da Stati Uniti e resto del mondo, dal collocarsi in Paesi, co-me l’Italia, dei quali era stata evidenziata la debolezza su piano valutario.

3.2 La forte svalutazione della lira e la fuga dei capitali dal nostro PaeseNon fu, però, solo colpa delle autorità tedesche la grande debolezza della lira

italiana nel corso degli anni Settanta. Esistevano, oggettivamente, elementi di de-bolezza che affliggevano la nostra moneta e ne indebolivano il cambio: tuttavia,a dare man forte alle autorità tedesche nell’evidenziare il divario crescente tramarco e lira, intervennero anche le autorità italiane che – assecondando le pres-

Tab. 6 Valute di emissione delle obbligazioni nel periodo della grande debolezzadel dollaro, 1973-78 (in milioni di dollari)

Fonte: Morgan Guarantee Trust Co., World Financial Markets.

Page 69: Gli spazi della globalizzazione

sioni provenienti dalla grande industria – perseguirono una politica di artificio-sa svalutazione della lira115. Si trattò – a mio vedere – di uno dei periodi più squal-lidi della storia economica dell’Italia, coperto ancora oggi da una omertà preoc-cupante: di quegli eventi non esiste alcuna traccia ufficiale in nessuno dei docu-menti che sono stati trasmessi alla storia. Si è trattato di una operazionecomplessa, portata avanti con la complicità della Banca d’Italia e di alcuni deisuoi governatori, che cercheremo di descrivere in modo semplificato, nonostan-te la complessità della situazione. Tale breve parentesi è giustificata, nel contestodi questo saggio, dal fatto che ha condizionato pesantemente l’andamento deiflussi finanziari da e per il nostro Paese.

Prima di descrivere l’operazione in questione, occorre fare alcune precisa-zioni: innanzi tutto occorre sottolineare come la lira non fosse una delle valu-te più forti su piano internazionale e presentasse, anzi, elementi oggettivi didebolezza. Tuttavia, tra questo dato di fatto e la realtà che ne seguì – nell’arcodi due decenni – e che fece registrare una perdita di valore della lira che oscil-lava intorno a dieci volte rispetto al marco, non esiste alcun legame giustifica-bile in termini economici. Anche perché, ed è questa la seconda osservazioneche desideriamo fare, le quotazioni dei cambi si registrano sui mercati valuta-ri, dove vengono raccolte tutte le offerte e le domande della moneta in que-stione: ora la lira, per sua fortuna o sfortuna, non è una delle monete abbon-dantemente presenti su queste piazze e, quindi, una sua forte svalutazione èpossibile conseguirla solo se – con una operazione ben guidata – si riesca a fa-re affluire artificiosamente su quei mercati una massa di lire in misura moltopiù elevata rispetto a quella che affluirebbe spontaneamente, come risultato dioperazioni di import-export o di natura finanziaria. Il trucchetto che venivautilizzato per conseguire questo obiettivo, grazie alla complicità delle autoritàdel tempo, era molto semplice, anche se – per realizzarlo – implicava il ricor-so a un grave illecito.

L’intera operazione si configurava nel modo seguente: le banche italiane ce-devano a potenti banche straniere non le riserve eccedenti di loro proprietà (ta-le operazione sarebbe stata, infatti, di loro diritto, anche se eticamente riprove-vole), ma parte delle lire presenti nei depositi dei loro clienti. Queste enormisomme in lire, rappresentate proprio dai depositi dei risparmiatori, venivano ce-dute per un brevissimo arco di tempo alle grandi banche transnazionali, le qua-li – una volta avutane la disponibilità – le offrivano sulle principali piazze valu-tarie mondiali. La lira, in seguito a queste enormi vendite, perdeva di valore equesto induceva molti altri operatori che avevano disponibilità in lire, a ceder-le, alimentando la spinta alla svalutazione116: a fine seduta le grandi banche chein inizio di giornata avevano dato avvio alle vendite di lire, incassando dollari oaltre monete pregiate, a fine giornata utilizzavano queste valute pregiate, incas-sate alla mattina, per riacquistare lo stesso ammontare di lire che avevano cedu-to all’inizio di seduta, sborsando, tuttavia, una somma molto inferiore, a causadella svalutazione della lira nel frattempo intercorsa. Una volta riacquistate le li-

Roberto Panizza6 8

Page 70: Gli spazi della globalizzazione

re, esse le riconsegnavano alle banche italiane che, qualche ora prima, avevanomesso a loro disposizione quelle ingenti somme. Tale operazione a brevissimotermine, di cessione di lire e di relativo riacquisto, è chiamata tecnicamente swape veniva ripetuta praticamente tutti i giorni operativi sulle principali piazze va-lutarie mondiali117.

In che cosa consisteva l’enorme guadagno tratto da queste operazioni? Nel-la differenza di quotazioni alle quali venivano vendute le lire alla mattina e quel-le alle quali venivano riacquistate le stesse lire al pomeriggio: alla mattina la liraaveva ancora una quotazione elevata e, quindi, si otteneva dalla sua vendita unacerta somma di dollari o di marchi, mentre al pomeriggio la lira aveva perduto divalore e lo stesso ammontare di lire poteva essere riacquistato con una somma indollari o marchi decisamente inferiore rispetto a quella incassata alla mattina. Idollari e i marchi che rimanevano nelle mani degli speculatori venivano poi equa-mente divisi tra banche straniere e banche italiane. L’illiceità di questa opera-zione – al di là di considerazioni di tipo etico, circa la legittimità di giocare con-tro la valuta del proprio Paese – consisteva nel fatto che depositi di ignari ri-sparmiatori venissero usati temporaneamente per far perdere di valore proprioa quelle lire in cui i depositi stessi erano espressi. Questo racconto potrebbe es-sere giudicato come la descrizione di un brutto sogno, dato che non esiste alcundocumento in proposito e nessun economista di destra o di sinistra, a eccezionedel sottoscritto, ha avuto il coraggio di denunciare un simile imbroglio. L’unicoelemento che ci consente di far luce su questa squallida vicenda è rappresenta-to da un brutto episodio che ha coinvolto il governatore della Banca d’Italia deltempo, il professor Paolo Baffi118.

Quando Guido Carli, il predecessore di Baffi, lasciò la Banca d’Italia senzapiù alcuna riserva in cassa – con la lira che era stata oggetto di pesanti attacchispeculativi del tipo di quelli descritti e che si era, quindi, svalutata a tassi moltosimili a quelli che colpiscono le valute dei Paesi dell’America Latina – il suo suc-cessore, proprio Paolo Baffi, ebbe il coraggio di prendere un provvedimentomolto semplice, ma oltremodo efficace, per bloccare quel pericoloso gioco diartificiosa svalutazione della nostra moneta, quello cioè di proibire le operazio-ni swap contro di essa, di durata inferiore ai sette giorni119. Si trattò di un prov-vedimento che bloccò esclusivamente quelle operazioni illecite sopra descritte,che così gravi danni avevano arrecato al nostro Paese. Una volta introdotto que-sto provvedimento, la speculazione al ribasso contro la lira cessò da un giorno al-l’altro e con essa si ridusse drasticamente anche l’inflazione, senza bisogno di ri-correre a provvedimenti restrittivi, particolarmente dannosi per i singoli citta-dini. Questo consentì alla Banca d’Italia di abbassare anche i tassi d’interesse,che avevano superato la soglia del 20%, pregiudicando la crescita dell’econo-mia del nostro Paese.

L’intervento del governatore Baffi si rivelò risolutivo nei confronti dei pro-blemi che affliggevano l’Italia ormai da un quinquennio, legati alle continuesvalutazioni del cambio della lira e alla conseguente inflazione. Fu, però, a que-

Movimenti internazionali di capitali 6 9

Page 71: Gli spazi della globalizzazione

sto punto che emerse tutta l’ipocrisia delle nostre autorità, che dicevano – pursapendo di mentire – di avere come obiettivo prioritario la lotta contro i dueflagelli appena ricordati, la svalutazione della lira e la conseguente inflazio-ne120. I successi conseguiti da quell’intervento risolutivo, e cioè il blocco del-le operazioni swap a breve termine che alimentavano, in modo artificioso e ir-realistico, svalutazione e inflazione, non piacque, tuttavia, ai grandi potentatiindustriali che dominavano il nostro Paese e continuavano – tra l’altro – a lu-crare attraverso il gioco delle sovrafatturazioni delle importazioni e delle sot-tofatturazioni delle esportazioni121. Una “provvidenziale” comunicazione giu-diziaria tolse di scena il governatore, mentre un mandato di arresto eliminòanche il direttore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Il successoredi Paolo Baffi (che morì di dolore qualche anno più tardi) si affrettò a ripristi-nare il provvedimento che consentiva alle banche di accrescere di diversi mul-tipli le spinte svalutative contro la lira, provocate dall’uso illegittimo dei de-positi dei loro clienti per speculare ai danni della nostra moneta. Tale artifiziovenne utilizzato sino al 1992, nel corso dell’ultimo attacco speculativo controla nostra moneta, che costrinse il ministro del Tesoro del tempo, Carlo Aze-glio Ciampi, a bruciare inutilmente per difendere la lira l’equivalente di 75.000miliardi di riserve (espresse in lire). La storia ci insegna che sarebbe bastatoun provvedimento che avesse proibito gli interventi speculativi swap, a bre-vissimo termine, contro la nostra moneta, per bloccare la speculazione e sal-vare le riserve.

Ci siamo soffermati su questo evento, in primo luogo per spezzare l’omertà chelo circonda e per riabilitare la grande figura di Paolo Baffi, che ebbe il coraggio –come già qualche anno prima il ministro del Commercio estero Rinaldo Ossola –di scontrarsi contro gli interessi lobbistici di certi gruppi industriali, che sulla de-bolezza della lira avevano costruito i loro profitti e soprattutto la loro politica dimultinazionalizzazione. Rinaldo Ossola, in particolare, aveva “commesso l’errore”– che lo portò ad essere rapidamente sostituito all’interno dell’esecutivo – di risa-nare, contro ogni più rosea previsione, i conti della nostra bilancia commerciale, ri-portata in pareggio proprio negli anni dell’enorme aumento del prezzo del petro-lio: questo suo impegno, che avrebbe dovuto essere molto apprezzato, consistet-te nel recarsi personalmente a trattare con i Paesi produttori di petrolio una seriedi impegni da parte di questi ultimi per importazioni di manufatti e beni capitaliprodotti dal nostro Paese, al fine di compensare i crescenti disavanzi dovuti aglielevati costi energetici122. Questo suo encomiabile comportamento divenne, in-vece, un grave punto di demerito in questo Paese dominato da un’imprenditoriamedio-alta che cercava la competitività dei propri prodotti soltanto attraverso lasvalutazione. Uscirono così di scena due personaggi che avrebbero potuto contri-buire egregiamente a riscrivere le pagine peggiori della storia economica del nostroPaese e che avevano avuto l’unico torto di cercare di difendere il cambio della liracontro gli interessi lobbistici di certa grande imprenditoria italiana e, con esso, lacredibilità dell’intero Paese.

Roberto Panizza7 0

Page 72: Gli spazi della globalizzazione

La forte debolezza della lira contribuì, invece, ad alimentare una massiccia fu-ga di capitali verso l’estero123 e a bloccare eventuali investimenti stranieri, a causadel clima di sfiducia che si era venuto a creare, internazionalmente, nei confrontidel nostro Paese. I capitali che lasciarono l’Italia in quegli anni Settanta si indiriz-zarono soprattutto verso la Svizzera, le cui autorità, preoccupate da un afflusso didenaro di dimensioni molto elevate, corsero immediatamente ai ripari, proibendol’acquisto di immobili su tutto il territorio nazionale a cittadini stranieri e obbli-gando le proprie banche a far pagare una sorta d’imposta penalizzante e propor-zionale ai capitali versati, a tutti gli stranieri che decidevano di aprire un conto cor-rente nel Paese124. L’afflusso di capitali, tuttavia, non venne disincentivato e pro-seguì inarrestabile. Negli anni Ottanta si differenziarono le destinazioni finali diquesti capitali, che si indirizzarono anche verso l’Austria, il Lussemburgo e la GranBretagna. C’è molta confusione sull’ammontare totale dei capitali fuoriusciti nelcorso degli ultimi decenni dall’Italia e il recente provvedimento definito “scudo fi-scale”, che incentiva i rientri, non ha affatto contribuito a far luce in proposito: so-no rientrati solo il 10% circa dei capitali usciti a suo tempo e che – in base a una af-fermazione non ufficiale delle autorità monetarie, peraltro mai smentita – avreb-bero dovuto essere, in termini relativi, vicini a un ammontare di circa due volte ilvalore del prodotto interno lordo annuo del nostro Paese. A mano a mano che il Pilcresceva si rivalutava anche la massa di capitali esportati. Questa fuoriuscita si tra-dusse, tuttavia, in un forte rallentamento della crescita del nostro Paese, tanto piùgrave se si fa riferimento al clima già di per sé molto depresso dell’economia mon-diale, che caratterizzò tutto il decennio125.

Un’ultima osservazione va fatta sulla politica del governo per contrastare, al-meno a parole, le fughe dei capitali: diciamo “a parole”, perché nei fatti le autoritàdi governo videro sempre di buon occhio – al di là delle dichiarazioni ufficiali eretoriche – tutto ciò che contribuiva a indebolire la lira126. Vennero comminatepene severissime a chi esportava capitali, che quasi sempre finivano per colpiremarginalmente solo coloro che trasferivano lire all’estero servendosi di mezzi pri-mitivi, come il bagagliaio delle proprie autovetture: contro costoro ci furono al-cuni processi plateali, nonostante l’esiguità degli ammontari esportati. Coloro, in-vece, che esportavano i capitali attraverso operazioni bancarie e che sfruttavano ivantaggi offerti dalle nuove tecnologie informatiche, che iniziavano ad essere spe-rimentate, non erano oggetto di alcuna indagine giudiziaria e potevano esportareincontrastati i loro capitali. Era paradossale che lo Stato perseguisse quei rispar-miatori che cercavano di tutelare i loro risparmi dalla loro erosione sistematica,condotta attraverso le illecite operazioni di swap che abbiamo descritto e che ve-nivano effettuate con il consenso implicito di Banca d’Italia e del governo, mentrenulla veniva fatto in sede governativa per fermare quello scempio. Naturalmentequesto tipo di politica, perseguita in quegli anni, danneggiò anche da un altro pun-to di vista il Paese, dato che disincentivò – come già si diceva in precedenza – gli in-vestimenti esteri nel nostro territorio, tanto che l’Italia è rimasta ad uno degli ulti-mi posti in Europa relativamente all’afflusso di capitali stranieri, anche dopo l’en-

Movimenti internazionali di capitali 7 1

Page 73: Gli spazi della globalizzazione

trata nell’euro127. È superfluo ricordare che a mantenere alta la diffidenza verso ilnostro Paese hanno contribuito, anche di recente, scandali come quelli della Cirioe della Parmalat, per cui – a differenza di tutti gli altri Paesi europei – la nostra eco-nomia non ha mai potuto beneficiare di un apporto consistente di capitali prove-nienti dall’estero.

3.3 La svolta monetarista alla fine degli anni Settanta e l’inversione dei flussi di capitale verso i Paesi in via di sviluppo dopo la crisi debitoriaGli anni Settanta stavano volgendo al termine con il loro carico di effetti nega-

tivi sull’economia mondiale, quando una serie di eventi finì per peggiorare ulte-riormente il quadro macroeconomico. Le pesanti conseguenze della crisi petroli-fera e dell’inflazione elevatissima che ne conseguì avevano fatto crollare ai minimila fiducia dei consumatori, mentre la fine del sistema fordista di produzione128 –fondato su automatismi meccanici – e la sua sostituzione con sistemi di automa-zione elettronica, aveva contribuito ad accrescere, in quasi tutti i Paesi del mondo,la disoccupazione. Anche i mercati finanziari risentirono di quel clima: basti pen-sare che l’indice Dow Jones della Borsa statunitense, che nel 1960 aveva raggiun-to quota 1000, alla fine degli anni Settanta era sceso a quota 800, tanto da indurregli investitori a impiegare il loro denaro acquistando obbligazioni, per godere deipur modesti tassi d’interesse. Questo diffuso malessere contribuì a sfiduciare, daparte dell’elettorato, le coalizioni progressiste al potere nei più importanti Paesidel mondo: laburisti in Gran Bretagna, democratici negli Stati Uniti e socialisti inGermania. I loro successori (conservatori in Gran Bretagna, repubblicani negliStati Uniti e cristiano-democratici in Germania) si ispirarono, invece, ai princìpidel liberismo più radicale e imputarono tutti i guai del decennio appena conclusoalle politiche keynesiane adottate dai loro predecessori a sostegno del ciclo eco-nomico, della domanda globale e del sistema welfaristico e redistributivo della ric-chezza, a tutela delle classi più deboli129.

Nel frattempo, quasi in concomitanza con la svolta elettorale in Gran Breta-gna che portò alla nomina di Margaret Thatcher a primo ministro, negli StatiUniti l’amministrazione democratica guidata dal presidente Jimmy Carter (poidimostratosi anche recentemente un convinto assertore della pace e della de-mocrazia), nominò inspiegabilmente a capo del Federal Reserve System, e cioèdella Banca centrale statunitense, un conservatore fondamentalista come PaulVolcker130, che aveva fatto proprio il credo monetarista predicato da MiltonFriedman e dalla Scuola di Chicago131: questa nomina, risultante probabilmen-te da pesanti pressioni sull’amministrazione democratica, giustificate dal rischiodi un collasso delle quotazioni del dollaro e di una elevatissima inflazione, con-dizionò in misura gravemente negativa l’economia del tempo e generò una tota-le inversione dei flussi di capitali a livello internazionale.

I princìpi estremistici ai quali s’ispirò il nuovo responsabile del Fed eranoquelli classici del monetarismo: tenere sotto controllo da parte delle autorità cen-trali la quantità di moneta e lasciar definire i tassi d’interesse dalle leggi del mer-

Roberto Panizza7 2

Page 74: Gli spazi della globalizzazione

cato132. Questo significò una svolta radicale rispetto ai princìpi che avevano ca-ratterizzato i tre decenni postbellici e che erano, invece, fondati su politiche dicontrollo dei tassi d’interesse, affinché il livello di questi ultimi non pregiudicas-se, nei primi anni del secondo dopoguerra, la ricostruzione e, in seguito, le poli-tiche di sviluppo133: in quei tre decenni la preoccupazione delle autorità era ri-volta a creare le condizioni per “una via finanziaria allo sviluppo”, dove il bassolivello del costo del denaro avrebbe facilitato gli investimenti e la crescita. La svol-ta monetarista si tradusse, invece, in una stretta monetaria molto rigida – finaliz-zata a combattere l’inflazione – che spinse i tassi d’interesse, ormai definiti sol-tanto dalle regole del mercato, a livelli elevatissimi134. Questa eccezionale remu-nerazione delle attività finanziarie, soprattutto quelle espresse in dollari, acominciare dai titoli di Stato, attrasse una massa enorme di capitali dall’Europae dal Giappone verso gli Stati Uniti, che contribuirono a rivalutare molto rapi-damente il cambio del dollaro: quest’ultimo finì per abbandonare le basse quo-tazioni fatte registrare negli anni Settanta e per ricuperare terreno nei confrontidelle principali valute. Rispetto alla lira italiana il dollaro si rivalutò di quasi cin-que volte, passando da un cambio di 560 lire per dollaro a uno che sfiorò le 2500lire. Anche nei confronti delle più solide valute del mondo il dollaro si rivalutòseppur di percentuali più contenute rispetto a quelle della lira, mentre nei con-fronti delle valute più deboli del mondo il ricupero fu superiore alle 10-20 volte.Questa strategia allontanò definitivamente lo spettro di un collasso del dollaro,ormai sostenuto da un massiccio afflusso di capitali stranieri: questa rivalutazio-ne eccessiva, però, generò un indebolimento irreversibile della competitività in-ternazionale delle produzioni statunitensi135.

Nel corso degli anni Ottanta si registrò, dunque, un’inversione dei flussi fi-nanziari internazionali: le piazze statunitensi cominciarono nuovamente ad at-trarre capitali in misura crescente. La dimensione di tale fenomeno fu estrema-mente elevata, dato che gli alti tassi d’interesse indussero molti soggetti in varieparti del mondo a rinunciare ad attività reali e produttive per abbracciare quellache John Maynard Keynes aveva definito «l’odiosa professione del rentier», cioèdi colui che viveva di rendita garantita da investimenti esclusivamente finanzia-ri136. Tali flussi in entrata di capitali proseguirono anche quando gli alti tassi d’in-teresse statunitensi contribuirono a creare la gravissima recessione dei primi treanni dell’amministrazione Reagan, agli inizi degli anni Ottanta, mentre l’elevatarivalutazione del dollaro compromise le esportazioni e finì per invertire il trenddella bilancia commerciale degli Stati Uniti che – a partire da quegli anni – registròsistematici disavanzi sempre più vistosi, che non rispondevano ad alcun interven-to di tipo correttivo. Nel frattempo, gli Stati Uniti, grazie agli effetti perversi dellapolitica monetarista, da Paese creditore del mondo divennero il Paese più indebi-tato verso l’estero. Fortunatamente per gli Stati Uniti questi debiti crescenti furo-no coperti con la vendita di titoli come i Federal Funds, che vennero accettati so-prattutto dalle autorità giapponesi. Questa situazione debitoria attivò inoltre un’al-tra serie di flussi finanziari che comportarono la fuoriuscita dagli Stati Uniti delle

Movimenti internazionali di capitali 7 3

Page 75: Gli spazi della globalizzazione

somme corrispondenti al pagamento degli interessi sui capitali presi a prestito:questi flussi contrari rispetto a quelli in cerca di investimenti profittevoli finironoper attenuare l’impatto di questi ultimi e, soprattutto a partire dalla metà degli an-ni Ottanta, questo contribuì a rendere meno pesanti le pressioni sul dollaro, inde-bolendone di conseguenza il valore rispetto ai massimi raggiunti nel 1985.

Non furono però solo gli Stati Uniti a peggiorare i loro conti e, quindi, la lo-ro posizione debitoria, a seguito delle politiche monetariste perseguite: tutti iPaesi che presentavano una posizione iniziale debitoria videro peggiorare la stes-sa, a causa degli alti tassi d’interesse generati in seguito a quelle politiche, che fi-nirono per deteriorare quella che fu chiamata la componente finanziaria del de-bito137. Ad aggravare la situazione contribuì anche il principio, sempre di ispi-razione monetarista, in base al quale i vari governi non avrebbero più dovutoessere aiutati dalle rispettive banche centrali a finanziare il debito pubblico: siparlò in quell’occasione di “divorzio” tra banche centrali e tesorerie dei vari go-verni. Queste ultime, cioè, per finanziarsi avrebbero dovuto ricorrere diretta-mente ai mercati senza più alcuna assistenza da parte della banca centrale e que-sto contribuì ad accrescere enormemente i costi di finanziamento del debito138.

Anche nei confronti dell’esplosione della crisi debitoria dei Paesi in via di svi-luppo, nel 1982, è ormai chiaro che all’origine della stessa – al di là di casi isolatidovuti al cattivo uso delle risorse ricevute in prestito da parte degli operatori pri-vati o delle autorità locali – ci furono le responsabilità delle politiche economicheispirate al monetarismo139. La posizione debitoria di molti di questi Paesi avevaavuto origine – come si è ricordato più sopra – nel corso degli anni Settanta, quan-do le condizioni offerte loro per indebitarsi erano estremamente favorevoli: inquegli anni, infatti, la crisi dei Paesi industrializzati indusse le grandi banche acercare nuovi mercati nel Terzo Mondo. Questa esigenza coincise, tra l’altro, conla concomitante crisi delle vendite dei produttori di beni capitali – anch’essi indifficoltà per la crisi – e tutto ciò favorì l’accettazione della proposta fatta a mol-ti Paesi del Terzo Mondo di acquistare impianti produttivi, finanziati a ottimecondizioni, con dollaro debole e bassi tassi d’interesse, da parte di banche priva-te americane. Cinque o sei anni più tardi, però, al momento della restituzione deldebito, la crescita molto elevata degli oneri del cosiddetto servizio – come risul-tato delle politiche monetariste, che contribuirono all’aumento elevatissimo deitassi d’interesse e alla rivalutazione incontrollata del dollaro (valuta nella quale iPaesi in via di sviluppo si erano indebitati) – posero questi Paesi nella impossibi-lità di far fronte ai loro impegni: la maggior parte delle loro entrate, a seguito delpagamento delle loro esportazioni, non era infatti in dollari, bensì in valute di al-tri Stati anche sviluppati che, tuttavia, non si erano rivalutate come la moneta sta-tunitense. Per cui, nonostante questi Paesi avessero cercato di rispettare per lomeno in parte il loro impegno, accadde che le somme trasferite erano assoluta-mente insufficienti a pagare il servizio del debito in dollari. Eppure si trattava, inogni caso, di somme molto elevate, che fecero invertire la direzione dei capitali traPaesi ricchi e Paesi indebitati a favore dei primi, in particolare gli Stati Uniti, che

Roberto Panizza7 4

Page 76: Gli spazi della globalizzazione

si trasformarono da offerenti di capitali in percettori degli stessi. Una massa enor-me di capitali, sottoforma di pagamento del servizio del debito, lasciò i Paesi piùpoveri per trasferirsi verso le banche private o le tesorerie dei Paesi più ricchi.

Di fronte a questi avvenimenti c’è da chiedersi se sia lecito che i mercati fi-nanziari godano di una libertà assoluta, quando il suo uso finisce per creare dei ve-ri e propri disastri di cui soffrono miliardi di individui. Una seconda domandache ci si pone è di sapere se sia giuridicamente corretto il rispetto di un contrattodi indebitamento, sottoscritto a condizioni totalmente diverse rispetto a quellevigenti nel momento della restituzione del debito140: bassi tassi d’interesse e dol-laro debole al momento della sottoscrizione del contratto e interessi quintupli-cati o sestuplicati e dollaro rivalutato anche rispetto alle valute più solide del mon-do, al momento della restituzione. A questo proposito, il diritto internazionalesostiene che i patti vanno rispettati (pacta sunt servanda) fintantoché gli impegniassunti siano rimasti gli stessi (rebus sic stantibus), mentre nel caso del debito delTerzo Mondo ci troviamo di fronte a una radicale modificazione delle condizio-ni di partenza141.

Ne è conseguito il dramma di Paesi le cui scarsissime risorse sono quasi to-talmente state impegnate a restituire delle somme che di fatto (se fossero stateespresse in termini di altre valute forti, come marco, franco svizzero o sterlina,oppure se le condizioni di partenza non fossero cambiate così drasticamente)sarebbero già state ampiamente rimborsate.

Di fronte a questa immensa tragedia, che è frutto del lato più oscuro dellaglobalizzazione, ci si è posti il problema della riconversione o della remissionedel debito. In alcune proposte recenti, i governi di Paesi che beneficiano di que-sta remissione devono trasferire a organizzazioni non governative operanti sul lo-ro territorio somme equivalenti – in moneta locale – alle quote rimesse, che de-vono poi essere utilizzate per fronteggiare le situazioni più tragiche, come la mor-te per fame, la carenza di medicine e vaccini, la mancanza di asili e di scuole142.Si tratta di proposte molto più avanzate rispetto a quelle suggerite dal Fondomonetario internazionale e dalla Banca mondiale, che sostengono solo la can-cellazione per i Paesi più indebitati143. Le prime iniziative descritte rispondono,invece, all’obiettivo di attivarsi energicamente per ridurre le condizioni di po-vertà, secondo il progetto PRGF (poverty reduction growth facilities) e per evitareche le somme rimesse vengano utilizzate per l’acquisto di armi o per la realizza-zione di altre nefandezze da parte delle autorità locali, non più oberate dalla mi-naccia del pagamento del debito.

È scandaloso che all’alba del terzo millennio ancora un miliardo e mezzo dipersone soffrano per malnutrizione e che oltre trenta milioni muoiano, ogni anno,di fame: e molte di queste tragedie vanno imputate alle risorse enormi che questiPaesi devono destinare alla restituzione di un debito (tab. 7) il cui valore iniziale èesploso per cause non imputabili ai Paesi debitori. Come si evince dalla tabella,solo fino al 1982 il saldo netto dei movimenti di capitali è stato positivo: dopo quel-la data il saldo è divenuto negativo e i capitali hanno cominciato a defluire.

Movimenti internazionali di capitali 7 5

Page 77: Gli spazi della globalizzazione

Legato a questo problema c’è anche tutto il dibattito intorno a un nuovo con-cetto di povertà, che finisce per identificarsi con la mancanza totale di libertà. Fi-nora i mass media ci hanno tempestato con un’idea di libertà che coincide conl’abbattimento di qualsiasi ostacolo, in grado di condizionare le strategie dellegrandi multinazionali, delle finanziarie più potenti, di speculatori privi di scru-poli. Questa incontrastata libertà dei mercati è, tra l’altro, alla base della crisidebitoria dei Paesi del Terzo Mondo. Il concetto di libertà che oggi tende inve-ce ad affermarsi è quello che considera un individuo o un Paese libero quandoha la possibilità di decidere delle proprie scelte e non debba dipendere per lasua sopravvivenza dalle scelte di altri, soprattutto se costoro sono gli stessi che sisono arricchiti alle sue spalle, sfruttando la sua situazione di intrinseca debolez-za e di impossibilità di scegliere liberamente il proprio destino144. Non è quindipossibile sottrarre a un Paese in via di sviluppo risorse finanziarie quando que-sta fuoriuscita di capitali finisce per compromettere la sua possibilità di scelta, le-de le sue necessità vitali e, conseguentemente, compromette totalmente la sualibertà145.

Tab. 7 Percentuale del rapporto tra trasferimenti netti verso i Pvs e flusso lordodi risorse*

* Il segno (-) indica un deflusso netto di capitali dai Paesi in via di sviluppo.Fonte: F. Bresolin, Il debito dei Paesi in via di sviluppo: fattore di crescita o di squilibrio?, Banca popolaredell’Etruria e del Lazio, Studi e Ricerche, Editori del Grifo, Montepulciano 1993, p. 38.

Page 78: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo quartoLe nuove frontiere della finanza negli anni Ottanta e Novanta

4.1 L’innovazione finanziaria e i nuovi serbatoi di approvvigionamento del risparmioIn questo capitolo esaminiamo le innovazioni finanziarie introdotte negli an-

ni Ottanta, a seguito della rivoluzione monetarista, che modificarono radical-mente le forme di reperimento dei capitali e della concessione di credito, per fi-nanziare le imprese private e anche le pubbliche amministrazioni: proprio inquegli anni, a seguito del cambiamento degli obiettivi della politica monetaria in-trodotti dai monetaristi, furono registrati in tutti i Paesi più industrializzati for-ti deficit dei bilanci pubblici, a seguito dell’esplosione della componente finan-ziaria del debito, costituita dal pagamento degli interessi e delle quote di am-mortamento del capitale146. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, si andaronocompletando quei grandiosi processi di cambiamento che hanno interessato imercati finanziari e hanno condizionato, di conseguenza, anche la direzione in-ternazionale dei trasferimenti delle disponibilità liquide mondiali. Quello piùmacroscopico consistette nella sostanziale modificazione di sistemi caratteriz-zati, sia pur in misura diversa tra loro, dall’intermediazione bancaria, a cui veni-va affidata la gestione dei flussi di risparmio e degli impieghi, in una realtà com-pletamente diversa, all’interno della quale operatori specializzati trasformavanoin cartelle o titoli negoziabili tutte le operazioni di erogazione del credito: que-sto significava che le procedure di concessione di finanziamenti si traducevanonella creazione di titoli rappresentativi delle stesse operazioni, che poi venivanovenduti, sempre ad opera di questi intermediari, a risparmiatori non solo nazio-nali, ma anche di altri Paesi147. I mercati finanziari diventavano, dunque, puntodi raccolta di tutti gli apporti di risorse liquide disponibili, che poi venivano con-vogliati verso chi ne avesse avuto necessità: tali operazioni si traducevano, poi,nell’emissione di titoli rappresentativi, scambiabili sui diversi mercati finanzia-ri mondiali.

Questo nuovo sistema di erogazione del credito stimolò l’innovazione sia diprocesso (attraverso l’applicazione di nuove tecnologie, che integrarono sem-pre più marcatamente i mercati), sia di prodotto (attraverso la creazione di nuo-vi strumenti rappresentativi di un credito), in modo da aiutare meglio gli opera-tori a tutelarsi contro l’instabilità creata dall’abbandono del sistema a cambi fis-si e dalla crescente globalizzazione delle diverse economie nazionali. Inoltre, ilrischio crescente che le attività di finanziamento del sistema industriale com-

Page 79: Gli spazi della globalizzazione

portava, rischio che gravava, in particolare, su tutti quegli intermediari non ingrado di uniformare la struttura per scadenza del loro portafoglio, ha favoritoquesto fenomeno della titolarizzazione altrimenti definito della cartolarizzazio-ne (securitization148, nella letteratura anglosassone), che ha segnato il passaggiodall’attività tradizionale dell’erogazione del credito, attraverso l’intermediazio-ne bancaria, a quella molto più sofisticata di raccolta di mezzi liquidi attraversol’emissione e la cessione di titoli. Tale processo, assicurando la trasformazionedel credito, tradizionalmente non negoziabile, in attività finanziarie (per l’ap-punto i titoli rappresentativi), trasferibili e liquide, ha stimolato la creazione dinuovi strumenti classificati nella vasta categoria della commercial paper e delleback-up facilities149. La prima, in particolare, consentiva alle banche e agli inter-mediari finanziari di trasferire il rischio delle operazioni creditizie sui mercatifinanziari internazionali, all’interno dei quali i titoli venivano collocati e tratta-ti. Questo profondo rinnovamento si tradusse in una crescente esautorazionedelle banche che non erano state in grado di rinnovarsi, come le Casse di rispar-mio statunitensi, che andarono incontro a numerosi fallimenti150.

Una tale trasformazione finì anche per condizionare i flussi di capitali, sia alivello interno ad ogni singolo Paese, sia internazionalmente. Mentre un tempoil settore famiglie e il settore pubblica amministrazione si ponevano come for-nitori netti di risparmio alle imprese, da sempre utilizzatrici finali di risorse fi-nanziarie, a partire proprio dai primi anni Ottanta, per una serie molteplice dicause, a cominciare dalla rivoluzione monetarista, non solo il settore pubblico havisto crescere progressivamente il proprio fabbisogno finanziario, ma anche lefamiglie hanno visto ridursi e in certi casi annullarsi la propria capacità di ri-sparmio. A fronte dei crescenti disavanzi finanziari dei settori che un tempo ri-sparmiavano e che in quel decennio erano, invece, percettori netti di risorse li-quide, si crearono frequenti fenomeni di affollamento e di contesa sui mercati fi-nanziari delle insufficienti risorse liquide disponibili (fenomeno del crowdingout151, nella letteratura anglosassone). Contemporaneamente sono progressiva-mente emerse nell’attività di formazione del risparmio nuove figure di investitoriistituzionali, quali istituti pensionistici e assicurativi, fondi pensione e fondi d’in-vestimento, che, appunto, disponevano di abbondanti risorse e cercavano formedi impieghi remunerativi. Inoltre, la crescente integrazione dei mercati a livellomondiale, il completamento dei processi di globalizzazione e la maggiore mo-bilità internazionale dei capitali, conseguente alla deregolamentazione dei mer-cati, hanno anche consentito di coprire i crescenti disavanzi settoriali interni aisingoli Paesi, con l’afflusso di capitali provenienti dall’estero.

È naturale che questa lenta, ma progressiva trasformazione dei flussi finan-ziari nazionali abbia comportato la ricerca di nuovi e più efficienti strumenti fi-nanziari da parte sia delle amministrazioni pubbliche – che si sono dimostratemolto attente a proporre sempre più sofisticati strumenti di raccolta per stimola-re il risparmio – sia degli intermediari specializzati nel finanziamento alle famiglie,con una crescente tendenza alla titolarizzazione delle loro passività: invece di far-

Roberto Panizza7 8

Page 80: Gli spazi della globalizzazione

si carico direttamente del finanziamento e del relativo rischio, l’operazione di re-perimento di fondi liquidi si trasformò nella vendita ad altri risparmiatori dei ti-toli rappresentativi della concessione di credito152. L’intermediario si acconten-tava di percepire una provvigione sull’operazione condotta a termine, ma si sca-ricava del rischio di eventuali fallimenti delle imprese finanziate, che cadevanoesclusivamente sugli acquirenti dei titoli o delle obbligazioni, spesso ignari circale conseguenze negative cui potevano andare incontro. Inoltre, il ricorso fre-quente da parte delle pubbliche autorità al finanziamento estero di sempre piùelevati disavanzi interni (sia del bilancio pubblico, sia della bilancia commercia-le) ha attivato a sua volta nuovi flussi finanziari a livello internazionale, che han-no alterato radicalmente i tradizionali assetti di questi mercati. Paesi come gli Sta-ti Uniti, tradizionalmente creditori del sistema internazionale, si sono trasforma-ti, nel giro di pochi anni, in debitori, mentre Paesi come quelli petroliferi, untempo classificati come emergenti, si sono trasformati rapidamente, in seguito al-le citate vicende del prezzo del petrolio, in offerenti netti di risparmio. Infine,economie nazionali che hanno cercato di affrancarsi dai vincoli del sottosviluppo,come quelle di numerosi Paesi dell’America Latina o dell’Africa, sono in realtàstate travolte dalla crisi debitoria, che ha imposto loro la ricerca continua di so-luzioni adeguate per trovare i finanziamenti necessari153.

Il tentativo di conciliare le esigenze degli operatori delle aree fornitrici di ri-sparmio, che devono convincersi a investire i loro capitali, con quelle degli uti-lizzatori finali del risparmio, impegnati nella ricerca di finanziatori dei loro di-savanzi, ha favorito – come si diceva – la ricerca e l’individuazione di nuovi stru-menti sempre più sofisticati e tali da soddisfare sia i creditori, attratti da elevateremunerazioni, sia i debitori, interessati dalle particolari clausole di favore ine-renti al prestito. Tali sforzi d’innovazione, se all’inizio del decennio erano fina-lizzati unicamente alla soluzione del problema del finanziamento del debito delTerzo Mondo, nel prosieguo del tempo finirono per coinvolgere direttamenteanche la questione della copertura del disavanzo statunitense da parte di inve-stitori internazionali.

La ricerca di novità all’interno dei tradizionali sistemi finanziari era anche do-vuta al tentativo del sistema finanziario di rispondere sempre meglio alle esigen-ze di reperimento di adeguati strumenti di finanziamento di economie altamen-te industrializzate, in continua evoluzione. Le profonde trasformazioni tecnolo-giche e i nuovi processi di automazione elettronica, che coinvolsero più o menodirettamente i diversi settori del sistema industriale nei principali Paesi, modifi-carono sostanzialmente i tradizionali rapporti tra finanza e impresa. Le incogni-te legate ai processi di ristrutturazione e di impiego di nuove tecnologie furono siadi natura quantitativa, dato che divenne sempre più difficile quantificare il fab-bisogno finanziario delle imprese, sia di natura qualitativa, dato che crebbe deci-samente il rapporto tra rischio e rendimento.

Tale crescita del rischio, relativamente a ogni nuovo investimento, era dovu-ta alla minore durata del ciclo di rinnovo del capitale produttivo e alle incogni-

Movimenti internazionali di capitali 7 9

Page 81: Gli spazi della globalizzazione

te circa le effettive potenzialità produttive di certi processi ad alta automazione,condizionati spesso dalla compatibilità tra un numero troppo alto di variabiliper poter divenire profittevoli in un breve arco di tempo. Le crescenti difficoltàdi valutare esaurientemente il capitale necessario e la maggior incertezza circa ilfabbisogno finanziario delle imprese indussero gli intermediari finanziari a pro-porre nuovi strumenti in grado di generare posizioni debitorie meno rischiose epiù adatte rispetto al mutato e più incerto contesto dei settori produttivi154.

Attraverso i nuovi strumenti innovativi le banche e gli altri intermediari fi-nanziari, invece di impegnarsi direttamente a fornire credito e finanziamenti, as-sicurarono al mutuatario, con la propria intermediazione, il reperimento sulmercato dei fondi necessari. Mentre nel corso degli anni Settanta le banche ave-vano perseguito come obiettivo prioritario l’aumento del volume dei propri at-tivi, nel corso degli anni Ottanta privilegiarono invece operazioni fuori bilan-cio, contenendo a loro volta i volumi e i rischi dell’attivo, con una strategia chele portò a operare secondo forme che non implicassero stringenti vincoli di ca-pitale. Di fronte a una costante diminuzione dell’intermediazione bancaria tra-dizionale, caratterizzata dalla erogazione di credito, si svilupparono progressi-vamente anche forme di raccolta diretta di fondi sul mercato da parte dei mu-tuatari. Tale raccolta avveniva abitualmente attraverso l’emissione di titoli cheassicuravano una molteplicità di possibilità per il mutuatario. L’estrema facilitàdi reperimento di strumenti adeguati alle necessità dei mutuatari si accompa-gnò anche a una notevole crescita del fabbisogno finanziario, sia a livello inter-no che su piano internazionale.

Tutte queste trasformazioni sembravano aver accresciuto l’efficienza e la sta-bilità dei mercati finanziari: in realtà, studiando più a fondo il fenomeno e te-nendo conto delle recenti esperienze legate ai vistosi fallimenti di molte impre-se al di qua e al di là dell’Atlantico, è possibile individuare numerosi problemiche sono emersi a livello sistemico. Il fenomeno più grave di quel decennio ri-guardò le difficoltà sempre crescenti di gestione della politica monetaria da par-te delle autorità di governo155. La determinazione degli effetti dell’innovazionefinanziaria sugli aggregati monetari evidenziò l’impossibilità, in molti casi, di de-finire tali aggregati e accrebbe l’incertezza sul tipo di meccanismi di trasmissio-ne che avrebbero legato gli impulsi monetari alla trasformazione del sistema rea-le. Pur nell’impossibilità di trarre conclusioni univoche, si deve ammettere chein quel decennio si ebbe una crescente perdita di efficacia della politica mone-taria nazionale, soprattutto se perseguita attraverso i controlli diretti156. Questoimplicò la necessità di ricorrere a misure di controllo indiretto, attraverso i tas-si d’interesse e i tassi di cambio. Il declino dell’intermediazione bancaria tradi-zionale, riducendo il peso degli strumenti del controllo diretto, favorì la disaf-fezione nei confronti degli stessi. Anche la politica di definizione di obiettivi in-termedi, perseguita con una certa sistematicità dalla fine degli anni Settanta,venne abbandonata, dato che la scelta di tali obiettivi, insieme a quelli finali, eramolto legata all’idea di un sistema finanziario nazionale ed era quindi incompa-

Roberto Panizza8 0

Page 82: Gli spazi della globalizzazione

tibile con la crescente globalizzazione dei mercati. D’altra parte tutto ciò corri-spose a una progressiva esautorazione degli Stati nazionali da quegli interventiin grado di condizionare i mercati finanziari157. Il fenomeno dell’innovazione fi-nanziaria non ebbe una dimensione temporale ben definita: essa, tuttavia, ap-parve destinata a durare, essendo congeniale al processo stesso di evoluzionedei mercati finanziari. Questi, d’altra parte, finirono per perdere i loro connotatinazionali e per trasformarsi in mercati soprannazionali, caratterizzati da un’ele-vata mobilità dei capitali e da una disponibilità di strumenti che, se da un lato as-sicurarono una maggior tutela dei mutuatari contro ogni tipo di rischio, accen-tuarono invece l’instabilità globale del sistema, trasferendo i rischi, e quindi leeventuali perdite, sugli acquirenti finali dei titoli158. Dato che questi eventi feceroperdere in maniera crescente all’attività tradizionale di erogazione di finanzia-menti le connotazioni di un fenomeno nazionale e le diedero una crescente con-notazione mondiale, soltanto una regolamentazione concordata tra le autoritàdei vari Paesi avrebbe potuto evitare preoccupanti manifestazioni di insolvenzae, quindi, di instabilità159. Infine, le innovazioni finanziarie più di successo perinvestitori e speculatori, cioè i contratti future, possono essere effettuati soltan-to presso un numero molto ristretto di mercati (Londra, Chicago, New York epochi altri) e questo ha contribuito a convogliare presso questi mercati masseenormi di capitali che non possono essere investititi se non in quelle piazze,creando forzati flussi di risorse liquide verso le stesse160.

4.2 La valutazione delle attività finanziarie al di qua e al di là dell’Atlantico: modello anglosassone contro modello renanoA prescindere dalle esaltazioni apologetiche dei presunti successi dell’am-

ministrazione Reagan e dei processi di innovazione che avevano interessato imercati finanziari, l’economia statunitense, anche dopo la pesante recessionedel triennio 1981-83, continuò a non prosperare: la crescita dell’occupazione fudi circa la metà rispetto a quella dell’amministrazione Carter (proporzional-mente agli anni di presidenza) e il disavanzo pubblico e quello estero crebberoesponenzialmente, tanto da indurre il presidente Reagan ad attenuare l’effettonegativo che il rispetto dei princìpi monetaristi comportava. L’osservanza di ta-li princìpi consentì – è vero – di sconfiggere l’inflazione, ma questo avvenne conun costo molto alto per il Paese, quello della recessione161. Le incomprensioni ele critiche verso la politica del presidente del Federal Reserve System, PaulVolcker, divennero sempre più evidenti e frequenti, tanto che quest’ultimo fuindotto a presentare le sue dimissioni: al suo posto venne nominato Alan Green-span, anch’egli fedele ai princìpi monetaristi, ma non in termini così radicali co-me il suo predecessore e molto attento a lottare non solo contro l’ascesa dei prez-zi, ma anche e soprattutto contro ogni segnale di recessione e ogni manifesta-zione di aumento della disoccupazione162. A partire da quella data venneperseguita una sistematica politica di abbassamento dei tassi d’interesse e ancheil valore del dollaro, dopo il massimo raggiunto nel 1985, incominciò a ridi-

Movimenti internazionali di capitali 8 1

Page 83: Gli spazi della globalizzazione

mensionarsi. Nonostante, però, questi elementi oggettivi di debolezza, la corsadegli investitori internazionali verso l’acquisto di attività espresse in dollari con-tinuò, provocando la sopravvalutazione delle quotazioni azionarie.

Nel frattempo, come si diceva, le profonde innovazioni introdotte all’internodei mercati finanziari, soprattutto negli Stati Uniti, invertirono radicalmente i tra-dizionali rapporti che intercorrevano tra imprese e risparmiatori163. La fiducia checaratterizzava un tempo questo tipo di rapporto lasciò spazio a una crescente di-saffezione verso una determinata impresa: solo i risultati gestionali giustificavanoil permanere della fiducia e per questo ebbe inizio una gara tra le imprese a pre-sentare risultati di bilancio che giustificassero il persistente successo delle stesse.Era, infatti, sufficiente un trimestre non caratterizzato da crescita, perché venisseroformulati dal mercato giudizi negativi sull’operato della stessa e dei suoi manager.Questi ultimi finirono per essere condizionati dall’“ossessione tirannica del breveperiodo”, che non consentiva alcuna defezione neppure temporanea. Quello cheinteressava l’investitore non era lo stato di salute dell’impresa nel suo insieme e inun’ottica di lungo periodo, ma i risultati immediati rappresentati dai dividendi odalle plusvalenze. Questo finì per privare le imprese della possibilità di affidarsi aun capitale stabile, che consentisse loro di formulare progetti di largo respiro. Lacolpa di queste trasformazioni è imputabile, paradossalmente, non tanto ai singo-li investitori individuali, quanto piuttosto agli investitori istituzionali, come fondipensione, fondi d’investimento e compagnie d’assicurazione, che a questo punto,anziché contribuire a stabilizzare i mercati, finirono per destabilizzarli. Anche nelcaso di scalate ostili contro certe società, i gestori dei fondi pensione erano semprepronti a schierarsi con i nuovi scalatori, dato che questi ultimi garantivano il con-seguimento di più alte plusvalenze.

La logica finanziaria orientata a strategie di breve periodo – che impose tagli al-le spese meno urgenti, come quelle in ricerca e sviluppo oppure in formazione –finì per entrare in rotta di collisione con la logica industriale, portando come con-seguenza a distanza di qualche tempo consistenti danni all’impresa164. Quest’ul-tima, valutata esclusivamente, dal mondo anglosassone, nella sua capacità di crea-re flussi di cassa (cash flow), era ben lontana da quello stereotipo di impresa inte-sa come comunità di interessi, in grado di suscitare sentimenti di affezione anchein periodi di relative difficoltà, come accadeva nelle realtà europee. Negli StatiUniti, inoltre, il sistema di valutazione affidato alle agenzie di certificazione, che at-tribuivano un rating a ogni impresa, offriva uno stimolo in più per la presentazio-ne di bilanci sopravvalutati, data la mancanza in quel contesto del deterrente fi-scale esistente in Europa contro operazioni di questo tipo. La ricerca del continuoprofitto immediato da parte delle imprese americane ha, tuttavia, impedito loro dielaborare piani industriali di sviluppo di lungo periodo e forse questa è stata lacausa della grave crisi che ha finito per interessare da ormai qualche decennio il si-stema produttivo statunitense. Si è, di fatto, avverato uno dei timori di John May-nard Keynes, quando metteva in guardia contro le situazioni in cui lo spirito dellafinanza aveva finito per surclassare lo spirito d’impresa.

Roberto Panizza8 2

Page 84: Gli spazi della globalizzazione

Il relativo indebolimento dell’economia statunitense, nella seconda metà de-gli anni Ottanta (tab. 8) evidenziato anche dal ridimensionamento del loro ruo-lo di primo piano nella fornitura di investimenti esteri diretti, rilanciò il model-lo renano, caratterizzato da progetti di medio-lungo periodo, che finì per im-porsi rispetto a quello statunitense, condizionato dall’ossessione del brevetermine e dalle soluzioni più di apparenza che di sostanza. Il modello renano –perseguito soprattutto da Germania e Giappone prima di tutto, ma anche da al-tri Paesi europei, come l’Italia – anziché privilegiare l’incontrollata deregola-mentazione dei mercati, favorì, invece, un capitalismo regolamentato che evi-tasse i fallimenti dei mercati troppo liberi e incontrollati. Questa scelta, tuttavia,non evitò al Giappone l’innescarsi di una enorme speculazione sugli immobili esulle quotazioni dei titoli della Borsa di Tokyo, che crollarono all’inizio degli an-ni Novanta, trascinando l’economia giapponese in una lunga recessione, che an-cora oggi manifesta i suoi segni negativi165.

Movimenti internazionali di capitali 8 3

Tab. 8 Gli investimenti esteri diretti a seconda delle fonti di provenienza nel periodo 1970-1990

Fonte: International Monetary Fund, Balance of Payments Statistics Yearbook, Washington (DC), vari anni.

Page 85: Gli spazi della globalizzazione

Se la Germania e il Giappone attrassero capitali a seguito della solidità dellaloro economia, gli Stati Uniti attrassero i risparmiatori con la varietà e l’originalitàdegli strumenti finanziari proposti. Non si crearono tuttavia tensioni sui mercati fi-nanziari, dato che l’apporto di capitali era molto costante e proveniva da numerosenuove fonti ubicate in Paesi del mondo non più bloccati da norme restrittive, cheavevano condizionato fino a qualche anno prima i movimenti di capitale.

Nonostante, però, la quasi totale liberalizzazione dei movimenti di capitale alivello mondiale e l’esaltazione apologetica dell’amministrazione Reagan, i contieconomici continuarono a peggiorare166: l’idea che quegli anni fossero stati ca-ratterizzati da un boom derivava da una accorta propaganda che riusciva a pre-sentare come successi dei veri e propri fallimenti, anche in questo caso nell’o-mertà più totale. È incredibile che settimanali come il britannico The Economist,sempre pronto a delegittimare quei governi che avessero fatto registrare ancheun solo punto percentuale di peggioramento dei loro conti, abbia taciuto sul fat-to che il disavanzo pubblico degli Stati Uniti fosse più che decuplicato negli an-ni della presidenza Reagan e che quello estero fosse cresciuto in misura espo-nenziale: queste roccaforti dell’ideologia del libero scambismo più radicale, nonpotevano denunciare i fallimenti della politica neoliberista167. Accadde così chetutti gli elementi negativi in economia vennero scaricati sull’amministrazione suc-cessiva, quella di George Bush senior e a nulla valse a quest’ultimo, in termini po-litici, il vistoso successo nella guerra del Golfo: il fallimento degli interventi cor-rettivi in economia sanzionò la sconfitta del presidente alle elezioni per ottenereil secondo mandato. Nel frattempo, i conti dell’azienda statunitense continuaro-no a tenere grazie al flusso massiccio di risorse finanziarie provenienti soprattut-to dal Giappone, il cui governo, facendosi carico del debito statunitense, ricom-pensò, per lo meno in parte, le spese sostenute da Washington per la sua difesa.Questo Paese riuscì, sin dalla fine della guerra, a evitare gli enormi esborsi per ilriarmo imposti ai Paesi europei: secondo alcuni autori168 questa fu una delle cau-se della sua rapida e consistente crescita nei primi decenni del secondo dopo-guerra. Tutte le risorse, anziché essere utilizzate in inutili spese per armamenti,vennero indirizzate allo sviluppo dell’economia. Questo comportò, tuttavia, unamassiccia presenza militare degli Stati Uniti, che si fecero carico della difesa delPaese, ripagata con la sottoscrizione di una quota elevatissima di titoli destinati acoprire il disavanzo pubblico statunitense.

4.3 Il boom di borsa negli Stati Uniti negli anni Novanta e le crisi finanziarie nel Terzo MondoLe prospettive degli anni Novanta sembravano presentare più ombre che luci,

a seguito della pesante recessione che aveva condizionato gli ultimi quattro annidell’amministrazione Bush senior: neppure la costosa guerra del Golfo e il cosid-detto keynesismo militare (cioè l’aumento del disavanzo pubblico per esigenzebelliche) erano riusciti a risollevare le traballanti sorti dell’economia statunitense.I disastri compiuti dai provvedimenti ispirati al neoliberismo e al monetarismo,

Roberto Panizza8 4

Page 86: Gli spazi della globalizzazione

incentrati com’erano sul sostegno di una redistribuzione dei redditi in senso asso-lutamente asimmetrico e a favore esclusivo delle classi più ricche del Paese, ave-vano recato danni insanabili a un capitalismo di tipo consumistico – qual era quel-lo statunitense – penalizzato dalla riduzione dei redditi dei ceti medi e di quellimeno abbienti169. La politica economica mirava, infatti, al contenimento di salari,stipendi e pensioni, che sono le fonti primarie per la spesa in beni di consumo.Inoltre, parte di quei redditi dipendeva dal successo in borsa dei titoli delle im-prese di appartenenza o dal fondo pensione aziendale, e a sostegno di questi ulti-mi non tornava utile il clima depresso dei mercati finanziari. Anche i trasferimen-ti dallo Stato all’economia si erano drasticamente ridotti in nome dello Stato mi-nimale predicato dai neoconservatori e nulla, se non l’impegno bellico, contribuivaa sostenere la domanda, troppo penalizzata dalle politiche neoliberiste.

Fu a questo punto che il presidente Clinton, facendo esclusivo affidamentosulle eccezionali competenze del governatore del Federal Reserve System, AlanGreespan170, decise di sfruttare il potenziale redistributivo generato da un au-mento molto elevato delle quotazioni azionarie presso lo stock exchange di NewYork: il sistema americano impone infatti ai gestori di fondi, quando i guadagnieccedono una data percentuale di aumento, di restituire parte degli stessi ai sot-toscrittori. Accadde così che operai, impiegati e pensionati videro praticamenteraddoppiati i loro redditi. Il trasferimento di quattrini nelle tasche di ampie fascedella popolazione dai redditi medio-bassi assicurò un solido sostegno alla do-manda di beni di consumo. Ne seguì un lungo boom di borsa, sostenuto dai buo-ni risultati di bilancio delle imprese e dall’afflusso di capitali provenienti da tut-to il mondo, che alimentarono un’eccezionale crescita delle quotazioni.

Un tale miracolo, creato dai più tradizionali meccanismi keynesiani di redi-stribuzione della ricchezza, preoccupò i teorici più conservatori, che avevanosempre sostenuto nel corso della loro esistenza una teoria esattamente antiteti-ca, e cioè che a garantire il massimo sviluppo per l’economia non fosse la redi-stribuzione della ricchezza a favore delle classi meno abbienti, bensì una redi-stribuzione asimmetrica a favore dei più ricchi, in quanto questi ultimi sarebbe-ro i soli in grado di valorizzare al meglio i capitali di cui dispongono e digarantire, quindi, una rapida crescita dell’economia171. Sulla base di tali princì-pi non si poteva, pertanto, imputare il boom di quegli anni alla old economy, cioèall’economia più tradizionale, ma alla new economy172, cioè a tutti quei settori in-novativi nel campo della information and communication technology (ICT), oltreche ai processi di automazione elettronici che hanno spinto e sostenuto la cre-scita economica. Non si può negare il ruolo propulsivo di questi settori, ma sequesta fosse stata la spiegazione, non si capirebbe perché con la fine del boom diborsa, e quindi dei processi di redistribuzione, si sia improvvisamente interrot-ta anche la crescita economica: la new economy avrebbe dovuto esercitare an-cora il suo benefico effetto sull’intero sistema, anche se in misura più contenu-ta. Invece, con la fine dell’aumento delle quotazioni azionarie e con il loro suc-cessivo crollo è cessato improvvisamente lo stimolo alla domanda e l’economia,

Movimenti internazionali di capitali 8 5

Page 87: Gli spazi della globalizzazione

oltre che la borsa, è stata colpita da una pesante recessione. Si trattava, dunque,di un boom generato anche da altre cause molto meno sofisticate e legate piùsemplicemente alla maggiore disponibilità di denaro nelle tasche dei cittadinimeno abbienti, beneficiati dalla redistribuzione degli utili di borsa da parte de-gli investitori istituzionali, che gestivano i fondi nei quali avevano investito.

Al di là delle polemiche sulla vera causa del boom economico statunitensedegli anni Novanta, certamente gli Stati Uniti tornarono a beneficiare di un for-te afflusso di capitali che si era rallentato nel corso della congiuntura negativache caratterizzò l’amministrazione Bush senior. Questo afflusso di risorse fi-nanziarie contribuì anche a rafforzare il dollaro: gli speculatori erano attratti dal-la possibilità di guadagnare in seguito a ulteriori rivalutazioni del biglietto ver-de. I tassi d’interesse, grazie all’accorta politica di Greenspan, si mantennerobassi e non costituirono, quindi, un freno per l’economia. Macroeconomica-mente parlando, i forti surplus commerciali del Giappone e dei Paesi europei, nelloro complesso, ritornarono verso gli Stati Uniti come investimenti speculativi.Il boom di borsa di quegli anni contribuì, inoltre, a conseguire un altro traguar-do positivo per il governo americano: anche se i forti guadagni effettuati nel-l’acquisto e nella vendita di titoli, i cosiddetti capital gains, erano tassati con un’a-liquota molto bassa, grazie all’enorme massa di investimenti finanziari effettua-ti le entrate per l’amministrazione statunitense crebbero in modo talmenteelevato da consentire di ripianare il tradizionale deficit pubblico interno. Sottola presidenza Clinton, per la prima volta dopo molti anni, il bilancio annualepresentò addirittura un surplus, destinato ad avere vita breve non appena il pre-sidente George W. Bush jr. vinse le elezioni. Il disavanzo estero, invece, non ven-ne corretto neppure sotto l’amministrazione Clinton, anzi peggiorò, e soltantol’afflusso di un’ingente massa di capitali speculativi provenienti da tutto il mon-do finì per compensare in termini di movimenti di capitale il grande buco pre-sente nella bilancia commerciale e delle partite correnti statunitense.

Fu in questo decennio che anche il sistema previdenziale alternativo, centra-to sui fondi pensione, riuscì a rimettere in sesto i propri conti disastrati dalla lun-ga recessione precedente: a dare un contributo decisivo ai guadagni dei fondipensione fu soprattutto la grande esperienza di Alan Greenspan, il quale – primadella nomina alla presidenza del Fed – era un esperto gestore di fondi pensione eanche dopo la nomina continuò a svolgere consulenze in questo campo con unapropria società. Cercando di descrivere quanto accadeva con un linguaggio po-co tecnico, diciamo che, quando le quotazioni crescevano in modo eccessivo,Greenspan faceva un discorso molto pessimistico sull’eccessiva crescita delle quo-tazioni e questo era il segnale per i gestori dei fondi che era consigliabile vende-re. La vendita tempestiva dei titoli da parte dei fondi veniva poi seguita anche dauna massa di cessioni effettuate da tutti i risparmiatori più attenti: seguivano treo quattro giorni di forti ribassi, che potevano superare il 5-6% dei valori prece-denti e che, in altre circostanze, sarebbero potuti essere interpretati come l’iniziodi un grande crollo di borsa. Dopo, però, giungeva l’ordine di acquisto con un

Roberto Panizza8 6

Page 88: Gli spazi della globalizzazione

discorso di Greenspan, che vedeva segnali positivi provenienti dall’economia:così nell’arco di pochi giorni i fondi pensione potevano riacquistare i titoli pre-cedentemente venduti, a quotazioni molto più basse, che consentivano loro diaccumulare ingentissimi guadagni in conto capitale. In tal modo i fondi poteva-no ricapitalizzarsi, sfruttando non solo gli aumenti delle quotazioni di borsa, maanche e soprattutto i temporanei ribassi. Questo giochetto era possibile per il fat-to che i fondi pensione controllavano oltre la metà di tutta la capitalizzazione del-la borsa statunitense.

Mentre negli Stati Uniti i mercati finanziari riservarono grandi soddisfazioniagli investitori di tutto il mondo, gli unici Paesi che non beneficiarono del grandeboom finanziario degli anni Novanta furono quelli in via di sviluppo, che dovetteroregistrare nel decennio considerato un ulteriore peggioramento della loro bilanciadei capitali. Se nel frattempo la loro posizione debitoria aveva tratto conforto siadal ridimensionamento del dollaro alla fine degli anni Ottanta, sia dalla riduzionedei tassi d’interesse che aveva condizionato, a causa della recessione, gli anni del-la presidenza di Bush senior, con l’impressionante crescita delle quotazioni di bor-sa degli anni Novanta furono nuovamente penalizzati a causa della rivalutazionedella moneta americana e della lievitazione, sia pur contenuta, del costo del dena-ro. Il saldo netto tra l’afflusso di capitali per aiuti e investimenti e il deflusso per ilpagamento del servizio del debito fu in quel decennio negativo: i capitali deflui-vano dai Paesi più poveri del mondo verso i Paesi più ricchi nei confronti dei qua-li avevano contratto il debito, sottraendo a quelle già misere economie abbondantirisorse, a scapito delle spese per la lotta contro la sottoalimentazione e le carenzedi strutture sanitarie e scolastiche173. Non veniva, invece, assolutamente ridimen-sionata la spesa per armamenti: essa era, infatti, l’unico investimento che garan-tisse la sopravvivenza delle oligarchie al potere nei diversi Paesi. Per questo non so-no condivisibili quelle proposte che chiedono la cancellazione del debito senza al-cun condizionamento, mentre vanno sostenute le campagne che rimettono ildebito in valuta ai Paesi più poveri, ma pretendono in contropartita dai loro go-verni lo stanziamento di somme equivalenti a quelle condonate, espresse, però, invaluta locale, per finanziare in loco gli investimenti nella sanità, nella profilassi enell’educazione. In tal modo la remissione del debito non diviene, per le borghe-sie locali, un’occasione per disporre di consistenti risorse da spendere in arma-menti, se non addirittura nel sostegno di conflitti etnici e tribali.

Molte delle economie dei Paesi più ricchi di risorse naturali del Terzo Mon-do vennero inoltre travolte, nella seconda metà degli anni Novanta, anche dagravi crisi finanziarie, che ne sconvolsero le strutture produttive e gli assetti pro-prietari174. Le crisi cominciarono a manifestarsi a partire dal 1994. Il primo Pae-se ad esserne travolto fu il Messico, proprio alla vigilia del suo ingresso nel Naf-ta, l’accordo di libero scambio tra i tre Paesi dell’America settentrionale: Messi-co, Stati Uniti e Canada.

È interessante notare che tali crisi (da quella messicana nel 1994-95175 a quel-le del Sud-est asiatico nel 1997, della Russia nel 1998, del Brasile nel 1998-99,

Movimenti internazionali di capitali 8 7

Page 89: Gli spazi della globalizzazione

della Turchia nel 2000 e dell’Argentina nel 2001) si manifestarono tutte dopo ilcollasso dei regimi “socialisti” nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Europaorientale. Infatti, finché il socialismo poteva costituire non solo ideologicamen-te, ma concretamente, un’alternativa al capitalismo, nessuna banca o impresaavrebbe mai rischiato di innescare una crisi finanziaria, con la carica destabiliz-zante che questa avrebbe comportato, dato che una simile strategia – pur assi-curando lauti guadagni a chi la innescava – avrebbe potuto comportare una de-stabilizzazione politica molto pericolosa per gli equilibri geostrategici mondia-li. Questo perché le conseguenze fallimentari che una crisi finanziaria avrebbecomportato, con la relativa recessione che ne sarebbe seguita e il conseguenteaumento della disoccupazione, avrebbero potuto creare un clima di ostilità con-tro le istituzioni capitalistiche, inducendo qualche governo al passaggio di cam-po: dalla protezione e tutela statunitense a quella dell’Unione Sovietica. Questasola minaccia disincentivò gli operatori privati (banche, finanziarie, imprese)dal destabilizzare Paesi soprattutto se già in precarie condizioni economiche:era, dunque, una remora di natura politica che disincentivava dal destabilizzareconsolidati equilibri. Con la caduta dei sistemi socialisti, invece, il mero interes-se economico finì per prevalere su qualsiasi ragionamento di tipo politico.

Il copione che caratterizzò queste crisi non si modificò di molto e venne spe-rimentato già in Italia negli anni Settanta, anche se con intensità molto più con-tenuta rispetto alle crisi degli anni Novanta. Il segnale d’inizio della crisi era da-to da un’improvvisa e forte diminuzione del cambio della moneta locale. Tale in-debolimento non era generato da una reazione spontanea dei mercati controquella valuta: fortunatamente per i Paesi in via di sviluppo le loro monete noncircolano in abbondanza al di fuori dei confini nazionali. Ci sono delle riserve –in quantità modesta – detenute dagli Stati che mantengono rapporti commercia-li con il Paese in questione; ci sono i conti in tali valute detenuti da qualche citta-dino straniero, anch’esso coinvolto in attività commerciali con il Paese conside-rato; ci sono, infine, delle banconote detenute presso i cambiavalute, ma in quan-tità tali da non poter destabilizzare in modo così consistente il cambio dellamoneta oggetto di speculazione. Che cosa accade, allora, perché una mattina diun giorno ben definito inizi un massiccio attacco speculativo contro la valuta lo-cale? La moneta locale, che non è presente in quantità elevata nei principali mer-cati valutari del mondo, viene offerta dalle banche locali, che la attingono dai de-positi dei propri ignari clienti. Una volta presa questa massa di denaro in valutalocale, che non è loro, ma dei loro clienti, la swappano, cioè la trasferiscono per po-che ore a grandi banche multinazionali, che a loro volta la vendono contro dolla-ri sui mercati valutari: questo afflusso anomalo della valuta in questione sui mer-cati mondiali dei cambi affossa molto rapidamente le quotazioni della moneta lo-cale. Questo induce altri ricchi operatori del Paese oggetto di attacco speculativoa liberarsi delle loro ricchezze finanziarie espresse in valuta locale e in un giornola moneta può giungere a perdere oltre il 20% del suo valore, in seguito a siffatteoperazioni. Alla sera, dopo non più di 7-8 ore dal primo attacco speculativo, le

Roberto Panizza8 8

Page 90: Gli spazi della globalizzazione

grandi banche transnazionali riacquistano la valuta locale per restituirla alle ban-che dalle quali l’hanno ricevuta: tra la mattina (inizio dell’operazione) e la sera(fine dell’operazione), il valore della moneta locale è però cambiato di una certapercentuale e questo rappresenta l’utile che viene equamente diviso tra banchemultinazionali e banche locali. Alla mattina la moneta oggetto di attacco specu-lativo viene pagata una certa cifra in dollari, al pomeriggio la cifra in dollari ne-cessaria a riacquistare la stessa quantità di valuta è molto inferiore: nelle mani de-gli speculatori rimangono dollari, mentre nelle mani dei “poveri” e ignari rispar-miatori, che avevano inconsapevolmente reso possibile grazie ai loro depositiquesta operazione, resta soltanto del denaro svalutato, sul quale ricchi esponen-ti del mondo della finanza hanno conseguito i loro utili.

Come abbiamo già detto parlando dell’Italia, si tratta di operazioni assoluta-mente illegali, che configurano un reato: tuttavia, le autorità del Fondo moneta-rio internazionale dicono che non è possibile coartare la libertà di chi vuole spe-culare e in tal modo violano consapevolmente quello che era il tradizionale prin-cipio dell’ottimo paretiano, che proibisce qualsiasi comportamento che finiscaper compromettere la situazione di altri operatori sul mercato176. Si tratta di unragionamento assolutamente assurdo: è come se non ci si potesse opporre alle ra-pine perché siffatto comportamento comprometterebbe la libertà dei rapinatori.

Così, nell’ipocrisia generale e nella criminale connivenza del Fondo mone-tario internazionale, si realizza il primo atto di destabilizzazione del Paese. Il se-condo atto è rappresentato dal crollo delle quotazioni dei titoli di borsa: è chia-ro che gli investitori internazionali e i più ricchi operatori locali, una volta che siaccorgono del crollo del valore della loro moneta, decidono di affrettarsi a di-sinvestire gran parte del loro patrimonio espresso in valuta locale e questo pro-voca un secondo crollo, questa volta nel mercato dei titoli177. A questo punto sidiffonde il panico, alimentato dal fatto che ogni giorno che passa ci sono altricrolli, sia sul mercato valutario, sia su quello di borsa. Inoltre, il Fondo moneta-rio internazionale, disattendendo quelle che sono le regole di buona condottadi un’autorità monetaria in presenza di una situazione di panico, anziché offri-re liquidità al sistema, chiede il rimborso anticipato e immediato dei prestiti con-cessi: questa richiesta rende ancora più tragica la situazione e contribuisce a por-tare il Paese al collasso definitivo. Inoltre, per giustificare futuri interventi di so-stegno all’economia in crisi, chiede che vengano rispettate le sue condizionalità:selvagge deregolamentazioni dei mercati, liberalizzazione di settori come la sa-nità o l’istruzione, rigidi controlli nell’erogazione del credito, indebolimentodelle strutture della pubblica amministrazione178.

In questo modo chiunque svolga un’attività industriale o commerciale devefronteggiare un improvviso crollo della domanda nel proprio settore, generato dalclima di diffusa sfiducia verso il futuro: questo porta a sua volta a chiudere im-pianti e a licenziare. Crescono la disoccupazione e i fallimenti179, si intensificano lefughe di capitali dal Paese attaccato dalla speculazione e si innescano delle catenedagli effetti dirompenti su tutta l’economia. Quando i grandi potentati finanziari

Movimenti internazionali di capitali 8 9

Page 91: Gli spazi della globalizzazione

ritengono che il crollo del sistema sia adeguato e le imprese un tempo prosperesono in vendita a prezzi di realizzo, allora cambia l’atmosfera e arrivano impresetransnazionali pronte a investire. Vengono così acquisite le imprese migliori e leprincipali banche. A questo punto il Fondo monetario internazionale ritorna aelargire prestiti: la forma che giustifica le nuove elargizioni è quella che fa riferi-mento alla necessità di utilizzare quel denaro per fronteggiare gli squilibri strut-turali della bilancia dei pagamenti. A dispetto di queste parole auliche, l’utilizzo diquesti prestiti è radicalmente diverso: essi servono esclusivamente a rimborsare legrandi banche straniere che malauguratamente fossero rimaste coinvolte nel crackfinanziario. Non un centesimo delle somme anticipate dal Fondo monetario ri-mane sul territorio, mentre le banche transnazionali sanno chiaramente di noncorrere alcun rischio. Tale comportamento del Fondo ha, quindi, un effetto alta-mente diseducativo, dato che sottrae le grandi banche internazionali a quello chedovrebbe essere il loro compito prioritario di monitoraggio degli investimenti ef-fettuati nei vari Paesi in via di sviluppo: esse, infatti, finiscono per essere dere-sponsabilizzate nella loro attività di valutazione del credito, dato che sono certeche in qualsiasi modo vadano le cose saranno, in ogni caso, rimborsate. Esse, per-tanto, non hanno più alcun interesse a valutare la solidità di un investimento, ar-recando in questo modo un danno notevole al Paese ospitante, dato che non han-no più nessun interesse a segnalare la validità o meno dell’investimento.

Quando il peggio si è compiuto, allora giungono le grandi compagnie multi-nazionali a raccogliere con pochi soldi quanto è sopravvissuto al disastro, e cioèle strutture produttive e finanziarie più importanti: questo era il vero obiettivo ditutta l’operazione. Una simile sequenza si è verificata in tutte le realtà quasi sem-pre relativamente prospere sulle quali si è abbattuta una crisi finanziaria. Da par-te sua il Fondo monetario pubblica, poi, voluminosi rapporti in cui spiega che leimprese erano sottocapitalizzate, le banche sovraesposte, la moneta locale so-pravvalutata. In parte hanno anche ragione: il problema, però, è che la crisi fi-nanziaria è scoppiata a causa di un’illecita e anomala manovra speculativa controil Paese180. Tutto il resto sono solo mistificazioni così facili da far circolare in que-sto mondo dove l’informazione riveste sempre più i panni di uno spettacolo.

Un’ultima osservazione sul clima di sfiducia che circonda i Paesi attaccaticon questi metodi brutali: gli investitori di tutto il mondo, dopo quanto è suc-cesso, diffidano dall’investire nel Paese, per cui si verificano due fenomeni pe-nalizzanti (tab. 9). Il primo consiste in una spaventosa fuga di capitali, nel mo-mento in cui scoppia la crisi di fiducia: per la sola Thailandia si calcola che nel1997 siano usciti in poche ore oltre 200 miliardi di dollari. Il secondo è rappre-sentato dal fatto che, successivamente, per molti anni i capitali stranieri stenta-no ad arrivare nel Paese o, meglio, arrivano immediatamente quelli delle multi-nazionali che dopo i crolli delle quotazioni di borsa si impossessano a prezzi ir-risori di banche e imprese locali, ma non arrivano i capitali che potremmodefinire “buoni”, portati da nuovi investitori che decidono di insediarsi nel Pae-se e apportare ricchezza.

Roberto Panizza9 0

Page 92: Gli spazi della globalizzazione

Come si vede dalla tabella, le aree più colpite sono state quelle dell’Asia SudOrientale, dopo la crisi finanziaria del 1997, e quella dell’Asia Occidentale. Apartire dall’anno 2000 sono state colpite da elevati deflussi di capitale anche l’A-frica, l’America Latina e i Paesi in transizione.

Non ci resta che indicare i mercati di destinazione finale dei capitali fuggiti:si tratta quasi esclusivamente delle piazze finanziarie di New York e Londra181

e questo ci chiarisce come mai in intere aree come l’America Latina, l’Africa el’Asia Orientale non esista la benché minima condizione per trattenere il rispar-mio ivi generato.

Movimenti internazionali di capitali 9 1

Tab. 9 Trasferimento netto di risorse finanziarie ai Paesi in via di sviluppo e in transizione, 1994-2002 (in miliardi di dollari)

Fonte: UNCTAD, Trade and Development Report 2003, Geneva 2003, p. 26.

Page 93: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo quintoOsservazioni conclusive sui flussi finanziari dell’inizio del terzo millennio

5.1 Il crollo degli investimenti esteri diretti e l’elevato deflusso di capitali dai Paesi emergentiDopo la crescita eccezionale dell’economia statunitense di fine millennio, mol-

ti analisti decretarono – forse prematuramente – il trionfo delle politiche neocon-servatrici e monetariste, che erano state avviate dopo la grande rivoluzione reaga-niana e thatcheriana degli inizi degli anni Ottanta. Come abbiamo già osservatopiù sopra, gli stessi studiosi avevano anche sentenziato la fine prematura del key-nesismo e del suo sistema di interventi a sostegno del ciclo economico e della do-manda globale. Paradossalmente, però, il 2000 rappresentò un anno di svolta ra-dicale, che finì per rendere in poco tempo obsoleti i ragionamenti appena ricordati.Il nuovo millennio si aprì, infatti, con una crisi della borsa statunitense che scon-volse quel clima di fiducia che aleggiava anche presso tutte le altre borse più im-portanti del mondo: molti dei titoli più rappresentativi del listino e meno specu-lativi finirono per perdere fino a dieci volte il loro valore e solo la presenza di un uo-mo con l’esperienza di Alan Greenspan riuscì a evitare danni peggiori. Algovernatore del Sistema della Riserva federale bisogna riconoscere di avere sapu-to frenare le spinte al rialzo, negli anni del boom, e di aver invece garantito un at-terraggio morbido al sistema, negli anni della crisi, nonostante le perdite elevatis-sime registrate in tutti i comparti settoriali del listino. Questo crollo provocò laconcentrazione di enormi masse di ricchezza nelle mani dei pochi che avevano sa-puto prevedere in tempo il ridimensionamento delle quotazioni e, al contempo, ladistruzione di ricchezze virtuali per milioni di risparmiatori, aggravando in tal mo-do le nefaste conseguenze sui consumi dell’asimmetrica distribuzione della ric-chezza. Il crollo di borsa provocò, inoltre, un indebolimento del dollaro, che di-venne più manifesto dopo l’entrata effettiva in circolazione dell’euro, generandoconseguenti deflussi di capitali dagli Stati Uniti.

In concomitanza a questi fenomeni, il passaggio da un secolo all’altro fece an-che registrare una forte riduzione degli investimenti esteri diretti a livello mon-diale: pur cominciando il fenomeno a manifestarsi nel 2000, il grande crollo diquesto tipo di investimenti si registrò un anno dopo, con un -51%, e proseguì nel2002 con un -21%, testimoniando uno stato di malessere molto grave per l’eco-nomia mondiale, a seguito della sfiducia verso una futura crescita182. Nelle tabel-le 10 e 11 sono riportati, rispettivamente, i flussi e i deflussi di capitali verso le aree

Page 94: Gli spazi della globalizzazione

e i Paesi elencati. Uno dei dati più significativi, a questo proposito, è rappresenta-to dal crollo degli investimenti indirizzati verso gli Stati Uniti, che sono scesi da300,9 a 30,0 (tra il 2000 e il 2002) a conferma della fuga degli investitori dal Paese,a seguito della forte discesa delle quotazioni di Wall Street e dell’indebolimento deldollaro. Anche il flusso di investimenti esteri diretti verso il Regno Unito si è con-tratto notevolmente, nello stesso periodo di tempo, passando da 115,5 a 24,9. L’al-tro dato rilevante che si ricava, sempre dalla tabella 10, è l’esiguità degli investi-menti esteri diretti indirizzati verso il Giappone e la Russia, che sono assoluta-mente sproporzionati rispetto alle dimensioni della loro economia.

Nella tabella 11 sono invece indicati le aree e i Paesi dai quali provengono gli in-vestimenti esteri diretti. Anche in questo caso si sono registrate notevoli diminu-zioni di questi flussi finanziari in uscita. I dati disponibili giungono soltanto al 2001,ma registrano già un calo di quasi il 50% per gli investimenti provenienti dai Pae-si sviluppati, con una diminuzione ancora più marcata (-60%) per quelli prove-nienti dall’Unione Europea, con un crollo di oltre l’85% per quelli del Regno Uni-

Movimenti internazionali di capitali 9 3

Tab. 10 Afflusso di investimenti esteri diretti verso i principali Paesi e aree delmondo, 1990-2002 (in miliardi di dollari)

* medie annualiFonte: nostra elaborazione su dati UNCTAD, World Investment Report, Geneva, vari anni.

Page 95: Gli spazi della globalizzazione

to. Si sono invece mantenuti su livelli elevati, pur diminuendo, gli investimenti pro-venienti dagli Stati Uniti. Curiosamente in controtendenza l’Italia, che ha quasiraddoppiato nel 2001 i propri investimenti diretti all’estero, a causa del rilevante fe-nomeno della delocalizzazione produttiva delle imprese del nostro Paese.

Anche i Paesi in via di sviluppo sono stati interessati da questo impressio-nante crollo dei flussi finanziari sia in entrata, sia in uscita dai Paesi e dalle areeprincipali del mondo. Nel loro caso, però, la situazione era ancora peggiore, da-to che è stato anche disincentivato l’indebitamento da parte del settore priva-to183. Inoltre, la congiuntura negativa ha finito per ridurre gli stessi trasferimentiufficiali di capitali e, sempre relativamente ai Paesi in via di sviluppo, a partire dalnuovo secolo, si sono anche quasi azzerati gli investimenti di portafoglio, a di-

Roberto Panizza9 4

Tab. 11 Deflussi di capitali dalle aree e dai Paesi indicati 1990-2001(in miliardi di dollari)

* medie annuali Fonte: nostra elaborazione su dati UNCTAD, World Investment Report, Geneva, vari anni.

Page 96: Gli spazi della globalizzazione

mostrazione del clima di sfiducia che si è venuto a creare: dato che non è chiaroin che senso possa evolvere la congiuntura mondiale, gli investitori sono moltoprevenuti ad assumere impegni in aree già di per sé ad alto rischio. I dati che ab-biamo descritto sono quelli di un bollettino di guerra: le preoccupazioni sono,naturalmente, accresciute a fronte di previsioni sempre errate circa l’evolversidel ciclo economico. Ricordiamo che a partire dal 2000 i mass media hanno tem-pestato, in continuazione, l’opinione pubblica annunciando una imminente ri-presa economica nei mesi a venire, poi sistematicamente smentiti dai fatti. L’er-rore che è stato commesso dai commentatori è quello di credere che il rallenta-mento dell’economia mondiale sia esclusivamente imputabile a una congiunturaavversa, mentre non si rendono conto che la natura di questa crisi è di tipo strut-turale, come abbiamo già spiegato più sopra. Di fronte alla gravità di quanto è ac-caduto né le autorità di governo, né gli operatori privati, sembrano disposti a ri-conoscere le vere cause della crisi: piuttosto di ammettere il plateale fallimentodelle politiche più radicali di ispirazioni liberista, sottratte a ogni forma di con-trollo, i sostenitori del libero mercato deregolamentato e autoregolantesi fini-scono per rimandare a tempo indeterminato l’adozione di rimedi in grado di ge-nerare la ripresa: questa può, infatti, ripartire solo quando si riconosceranno lecause più profonde della recessione e se ne definiranno i rimedi. Da ciò è deri-vato, come si è osservato in precedenza, un inaridimento molto consistente deiflussi di capitale ed è per lo meno curioso che proprio quando sono cadute tut-te le barriere che ostacolavano la loro libera circolazione i flussi finanziari si sia-no improvvisamente inariditi.

Ne è derivato, di conseguenza, che i trasferimenti netti di risorse verso i Paesidel Terzo Mondo hanno invertito radicalmente la loro direzione: anziché muo-versi dai Paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, a partire dal 1997 iflussi finanziari fuoriescono da questi ultimi per ritornare verso gli Stati più ric-chi. Tale inversione di tendenza, manifestatasi inizialmente in sordina con un rien-tro di qualche miliardo di dollari, si è poi intensificata, raggiungendo l’elevatissi-ma cifra di quasi 200 miliardi di dollari all’anno. Tutto ciò spiega come mai non sipossa contare per nulla su una ripresa di questi Paesi a causa soprattutto dei dre-naggi molto elevati di risorse finanziarie, ai quali sono stati sottoposti soprattuttoa partire dal 1999184.

Esiste un solo settore in cui i trasferimenti finanziari non presentano ral-lentamenti e che continua ad essere costantemente in crescita: si tratta del com-parto della pura speculazione, anche se i dati relativi sono molto difficili da ri-levare quantitativamente185. Ci riferiamo a una massa di denaro che supera,secondo gli esperti, i 2000 miliardi di dollari al giorno, indirizzati a operazio-ni di swap sulle valute e sui tassi d’interesse, alla sottoscrizione di contratti fu-ture, alla negoziazione di opzioni e di altri titoli derivati. È vero che possono es-sere contabilizzati più volte gli stessi capitali, che vengono investiti e disinve-stiti a velocità molto elevata. In ogni caso, però, si tratta sempre di ammontariincredibilmente elevati, in grado di destabilizzare qualsiasi mercato borsistico,

Movimenti internazionali di capitali 9 5

Page 97: Gli spazi della globalizzazione

valutario o delle materie prime. È chiaro che di fronte a una simile cifra il to-tale degli investimenti esteri diretti diventa una cifra risibile.

Un altro comparto che non ha subito nel suo complesso un rallentamentosignificativo è rappresentato dall’attività bancaria internazionale186, anche sealcuni tipi di operazioni, in particolare le attività verso centri off-shore, si sononotevolmente ridotte (per lo meno secondo le statistiche). Nella tabella 12 tro-viamo indicato l’ammontare relativo all’attività internazionale delle bancheche aderiscono alla Banca dei regolamenti internazionali, distinte per Paese diappartenenza.

Come si evince dai dati, il Regno Unito ha un ruolo centrale nell’attività d’in-termediazione (tenendo conto che l’Isola di Man e di Jersey risultano nelle stati-stiche in modo autonomo). È anche rilevante il ruolo delle Isole Cayman, uno deiprincipali centri off-shore (altrimenti definiti “paradisi fiscali”), così come sononotevoli i ruoli di Singapore, di Hong Kong e della Svizzera. Hanno, invece, unruolo modestissimo nell’attività bancaria internazionale la Cina e l’Italia, mentreil Giappone, che ricopriva uno degli ultimi posti nella classifica dei percettori dicapitali dall’estero, svolge una notevole attività bancaria internazionale.

Roberto Panizza9 6

Tab. 12 L’attività internazionale delle banche, 2001-2003(in miliardi di dollari)

Fonte: nostra elaborazione su dati BRI, Evoluzione dell’attività sui mercati bancari e finanziari internazio-nali, Rassegna trimestrale, Basle, vari trimestri.

Page 98: Gli spazi della globalizzazione

Un’osservazione finale su questi grandiosi trasferimenti di risorse su piano in-ternazionale: tali operazioni non trasferiscono benessere generalizzato, ma gene-rano esclusivamente concentrazione della ricchezza. Non creano neppure valoreaggiunto, dato che il guadagno di un soggetto equivale esattamente alle perditedei soggetti, per cui le fortune di pochi sono costruite sull’impoverimento di nu-merosissimi altri investitori meno fortunati. Il risultato macroeconomico di questaoperazione è, dunque, rappresentato da un impoverimento generalizzato di chiha investito nella finanza, che a sua volta crea recessione nell’economia reale. Ab-biamo già accennato al fatto che le somme investite nella finanza non ritornanopiù all’economia reale, se non in misura marginale, interrompendo in tal modo ilflusso circolare del reddito tra i diversi soggetti.

5.2 La nascita del mercato dell’euro in alternativa a quello del dollaroL’altro fenomeno che in questo inizio di secolo ha condizionato i mercati fi-

nanziari internazionali è stato l’introduzione della moneta unica europea, e cioèl’euro. A dispetto di quanti manifestavano la loro perplessità, l’Europa era anda-ta avanti con determinazione, completando il processo d’integrazione moneta-ria187. Bisogna riconoscere che le autorità statunitensi non credettero a questograndioso sforzo di unificazione monetaria, convinti com’erano che una monetaeuropea, per essere emessa, dovesse comportare una previa unificazione politica:ciò non era invece necessario e la storia ci presenta diverse testimonianze contra-rie, a cominciare dalla famosa lira creata da Carlo Magno, che sopravvisse perquasi mille anni come unità di conto al di là delle notevoli divisioni politiche. Cisono stati inoltre diversi altri esempi di monete sopravvissute a prescindere dalpersistere di divisioni politiche. Gli unici ostacoli al processo d’integrazione eu-ropeo furono rappresentati dall’ostinazione britannica a tenersi fuori dalla mo-neta unica, seguita da Svezia e Danimarca, mentre certamente non ha contribui-to a un passaggio più morbido verso l’integrazione monetaria neppure la volontàespressa dal direttorio rappresentato da Francia, Germania e Paesi Bassi, deter-minati a imporre delle condizionalità molto rigide per entrare nell’euro: tali con-dizionalità erano particolarmente penalizzanti per Paesi, come l’Italia, ancoramolto lontani dai parametri fissati per aderire agli accordi di Maastricht188.

La verità è che i tradizionali rivali europei dell’Italia non vedevano di buonocchio il nostro Paese, che – nonostante i conti poco in ordine – manteneva un te-nore di vita ben più alto rispetto al loro a causa di quella componente dell’eco-nomia che è stata definita “sommersa”, in quanto clandestina, che non viene con-tabilizzata nei dati ufficiali, ma contribuisce a sostenere i livelli dei consumi, oltreche ad alimentare la fuga di capitali verso i centri finanziari più importanti delmondo. La convinzione dei nostri rivali d’oltralpe era che l’Italia non ce l’avreb-be mai fatta a rispettare quei parametri, che imponevano un livello d’inflazione dicirca due terzi più basso del suo, un tasso di cambio stabile (mentre la lira era sta-ta oggetto, come si è visto più sopra, di fortissime svalutazioni) e un riequilibriodei conti pubblici, che imponeva un ridimensionamento del deficit di quasi quat-

Movimenti internazionali di capitali 9 7

Page 99: Gli spazi della globalizzazione

tro volte superiore rispetto a quello dei nostri concorrenti. Questi ultimi eranoassolutamente tranquilli in proposito, dato che, anche nell’ipotesi più favorevo-le che il nostro Paese fosse riuscito con drastiche politiche restrittive a rispettareformalmente i parametri imposti dal patto di convergenza, questo sforzo avreb-be comportato un collasso per l’economia: dunque, o l’Italia non entrava nel-l’euro, o, se vi fosse entrata, lo avrebbe fatto a condizioni così penalizzanti che lasua economia non avrebbe potuto reggere in termini competitivi. Invece, nulla ditutto questo è avvenuto: l’Italia è riuscita a rispettare i parametri imposti e, unavolta entrata nell’euro, ha retto molto meglio dei suoi concorrenti francesi, tede-schi e olandesi, che ancora oggi soffrono della forte recessione generata proprioda quelle condizioni troppo restrittive e penalizzanti che si erano autoimposti189.

La ragione di questo eccezionale successo del nostro sistema economico è mol-to meno nobile di quanto non si voglia far credere. Il nostro Paese è infatti entratonell’euro, sopravvivendo alle sue rigide condizionalità, grazie al consistente rientrodi quei capitali che erano usciti negli anni Settanta e Ottanta per evitare i danni ge-nerati dalle politiche compiacenti verso la svalutazione della lira, perseguite dallenostre autorità, conniventi con la speculazione senza scrupoli sostenuta da una par-te della grande industria italiana. Al momento della necessità, la media e alta bor-ghesia ha attinto a questi capitali per pagare le imposte straordinarie introdotte perrisanare i conti pubblici e per stabilizzare il cambio della lira e, di conseguenza, lanostra bilancia dei pagamenti. Oggi, sono i nostri concorrenti a pagare i duri costidella pena del contrappasso e a subire l’umiliazione, soprattutto la Francia, di ve-dere gli investitori italiani più abbienti acquistare le più prestigiose proprietà im-mobiliari nei posti più esclusivi del loro Paese e quelli meno abbienti rilevare pro-prietà nelle megalopoli costruite di recente sulla Costa Azzurra.

Nel 1999, una volta varato l’euro con la partecipazione anche dell’Italia, le au-torità statunitensi non disdegnarono e forse pilotarono l’azione della speculazio-ne internazionale contro la moneta unica, in quegli anni presente in forma esclu-sivamente virtuale di unità di conto: tale speculazione portò l’euro a perdere in unbrevissimo arco di tempo oltre il 40% del suo valore originario. Da un cambio di1,18 dollari per euro si scese rapidamente a un cambio di 0,80, e questa fortissi-ma svalutazione disincentivò chiunque avesse avuto l’idea di utilizzare la mone-ta europea in alternativa al dollaro. In questo frangente, però, le autorità ameri-cane sbagliarono completamente le loro strategie: l’Europa era giunta al varo del-la moneta unica stremata dai rigorosi vincoli che si era imposta. A questo puntoun euro forte avrebbe inferto all’economia europea un duro colpo, innescandouna pericolosa recessione. Invece, paradossalmente, la speculazione, indebolen-do notevolmente l’euro, fece un favore inatteso al sistema industriale e produtti-vo in generale, che – nonostante la moneta unica – riuscì a migliorare la propriacompetitività e a non subire ulteriori traumi. Dopo tre anni (1999-2001) di esi-stenza virtuale, mantenuto a livelli di grande debolezza, dal primo gennaio 2002l’euro divenne una moneta circolante, che finì per affermarsi progressivamentesui mercati mondiali, ricuperando molto rapidamente il suo valore nei confron-

Roberto Panizza9 8

Page 100: Gli spazi della globalizzazione

ti del dollaro, che a sua volta subì l’umiliazione di una forte svalutazione: tale ten-denza, a metà del primo decennio del secolo, non sembra essersi ancora esaurita.Questa svalutazione della moneta americana ebbe tuttavia scarsi effetti sull’eco-nomia del Paese: la struttura delle sue esportazioni si è dimostrata poco elasticarispetto a un ridimensionamento così rilevante del cambio e questo segnala lascarsa capacità di competere dell’industria statunitense. Crebbero, invece, i ri-schi già corsi alla fine degli anni Settanta di un collasso della moneta americana acausa dell’eccessivo indebitamento degli Stati Uniti, utilizzato per coprire i disa-vanzi del bilancio pubblico e della bilancia dei pagamenti.

Per quanto riguarda i flussi internazionali di capitali da e per l’Europa, dopol’avvento dell’euro la loro direzione fu essenzialmente legata al tasso di cambionei confronti del dollaro190: in epoca di euro debole, i flussi erano prima di tut-to verso la piazza di Londra, che sfruttava a proprio favore il fatto che la sterli-na – tenutasi fuori dalla moneta unica – poteva pagare tassi più alti rispetto al-l’euro, favorendone la rivalutazione. L’altra destinazione tradizionale era versogli Stati Uniti, che in questo periodo commercializzavano, tra l’altro, anche titoliobbligazionari di Paesi come l’Argentina, che successivamente si sono rivelatiinesigibili. Una volta che l’euro si è invece rivalutato, il flusso – in direzione con-traria – dei capitali non è stato altrettanto consistente, dato che molti risparmia-tori preferivano non abbandonare le posizioni in dollari a causa delle forti per-dite subite a seguito del ridimensionamento del suo valore: la vendita delle po-sizioni in dollari avrebbe significato per il risparmiatore la materializzazionedella perdita subita. Quale che ne sia il valore, l’euro costituirà sempre più, neiprossimi anni, una valida alternativa al dollaro e la contesa tra queste due valu-te finirà per dominare i futuri scenari finanziari mondiali. Grazie alla monetaunica, infatti, il mercato dei capitali europei ha acquisito spessore, profondità,concentrazione e liquidità.

Siamo così giunti al termine di questo lungo excursus sull’andamento deiprincipali flussi finanziari, dall’età delle città-stato italiane sino all’avvento del-l’euro. Abbiamo visto piazze finanziarie in ascesa e altre in declino e l’insegna-mento che possiamo trarre da questi fatti è che la prosperità di un sistema fi-nanziario è sempre legata a una struttura economica efficiente: in questi ultimidecenni, però, il mondo della finanza si è reso completamente autonomo daquello dell’economia reale e il successo della piazza di Londra o dell’Isole Cay-man supporta questo ragionamento. La libertà di movimento dei flussi finan-ziari è oggi eccessiva e presuppone una regolamentazione. Di recente si sonomanifestati troppi esempi dalle conseguenze nefaste che sono proprio frutto diquesta eccessiva libertà. Abbiamo visto come in questo lungo arco di tempo tut-ti i tentativi di eccedere nel proporre un sistema totalmente libero da ogni formadi vincolo, che risponda esclusivamente a interessi individuali, siano misera-mente falliti. È stato l’eccesso d’individualismo delle banche di deposito ingle-si, all’inizio del XX secolo, a decretare la fine dell’egemonia britannica, così co-me è stata la volontà di privilegiare eccessivamente gli interessi delle grandi ban-

Movimenti internazionali di capitali 9 9

Page 101: Gli spazi della globalizzazione

che statunitensi a far fallire dopo pochi anni il sistema creato a Bretton Woods;infine, sono stati gli interessi incondizionati di pochi operatori privati a trascinarenella recessione intere aree geografiche del mondo. Ognuno di questi fallimen-ti ha avuto delle ripercussioni sull’intero sistema mondiale, e questo è tanto piùvero oggi quando i processi di globalizzazione si sono quasi completamente rea-lizzati. Per uscire dalla grave crisi in cui l’eccesso d’individualismo ha condottol’economia mondiale occorre scoprire l’importanza della regolamentazione de-gli interessi individuali: tutte le iniziative solidaristiche o quelle di redistribu-zione del reddito, come il Piano Marshall, hanno poi assicurato lunghi anni dibenessere per tutti coloro che ne sono stati coinvolti.

Note

1. Cfr. F. Cardini, M. Cassandro e altri, Banchieri e mercanti di Siena, Monte dei Paschi di Siena,Roma 1987.

2. Cfr. R. Cox, Foundations of Capitalism, Philosophical Library, New York 1959, p. 163 sgg.3. Cfr. G. Luzzato, Breve storia economica dell’Italia medievale. Dalla caduta dell’Impero romano

all’inizio del Cinquecento, Einaudi, Torino 1970.4. Cfr. R.W. Goldsmith, Sistemi finanziari premoderni, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1990,

in particolare il capitolo: “Il sistema finanziario della Firenze dei Medici”, pp. 169-198.5. Cfr. R. de Roover, The Rise and Decline of the Medici Bank: 1397-1494, Harvard University

Press, Cambridge (Mass.) 1963.6. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. III, I tempi del

mondo, trad. it., Einaudi, Torino 1982, pp.140-155.7. Cfr. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it., Einaudi, Torino

1982, pp. 603-605.8. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), cit., vol. III, p. 140.9. Cfr. G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione,

Giuffrè, Milano 1971.10. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), cit., vol. II, I giochi

dello scambio, trad. it., Einaudi, Torino 1982, pp. 73-77.11. Cfr. ivi, pp. 445-448.12. Cfr. C.R. Boxer, The Dutch Seaborn Empire, 1600-1800, Knopf, New York 1965.13. Cfr. R.W. Goldsmith, op.cit., in particolare il capitolo “Il sistema finanziario delle Province

Unite all’epoca della Pace di Münster”, pp. 231-264.14. Cfr. J. Israel, Dutch Primacy in World Trade, 1585-1740, Clarendon Press, Oxford 1989.15. Cfr. M.G. Buist, At Spes non fracta:Hope&Co, 1700-1815. Merchant Bankers and Diplomats at

Work, Martinus Nijhoff, The Hague 1974.16. Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, 1776, trad. it., Isedi,

Milano 1973, pp. 437-438.17. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., vol. III, p. 254 sgg.18. Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Mi-

lano 1996, cap. 3, “Industria, impero e l’accumulazione capitalistica ‘senza fine’”, pp. 213-314.19. Cfr. F.W. Fetter, Development of British Monetary Orthodoxy, 1797-1815, Harvard University

Press, Cambridge (Mass.) 1965.20. Sulla discrezionalità della politica monetaria britannica si veda A.I. Bloomfield, Monetary Po-

licy under the International Gold Standard, 1880-1914, Federal Reserve Bank of New York,New York 1959.

21. Cfr. P.B. Whale, The Working of the Prewar Gold Standard, in B. Eichengreen (a cura di), TheGold Standard in Theory and History, Methuen, New York 1985, pp. 49-61.

Roberto Panizza1 0 0

Page 102: Gli spazi della globalizzazione

22. Cfr. A.I. Bloomfield, Short-term Capital Movements under the Pre-1914 Gold Standard, in «Prin-ceton Studies in International Finance», n. 31, 1963.

23. Cfr. R. Triffin, Europe and the Money Mudle, Yale University Press, New Haven 1957.24. Cfr. W.M. Scammel, The Working of the Gold Standard, in B. Eichengreen (a cura di), The Gold

Standard, cit., pp. 103-119.25. Cfr. M. De Cecco, Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914, Ei-

naudi, Torino 1979, cap. IV.26. Cfr. W. Layton, Introduction to the History of Prices, Macmillan, London 1914.27. Cfr. J. Riesser, The Great German Banks and their Concentration in Connection with the Eco-

nomic Development of Germany, National Monetary Commission, Washington (DC) 1911.28. Cfr. C.A. Goodhart, The New York Money Market and the Finance of Trade, 1900-1913, Har-

vard University Press, Cambridge (Mass.) 1965.29. Cfr. J. Clapham, The Bank of England. A History, vol. II, 1797-1914, Cambridge University

Press, Cambridge (UK) 1944.30. Cfr. W.T. King, History of the London Discount Market, Routledge, London 1936.31. Cfr. J.P.P. Higgins, S. Pollard (a cura di), Aspects of Capital Investment in Great Britain, 1750-

1850, Methuen, London 1971.32. Cfr. Ch.P. Kindleberger, The Formation of Financial Centers: A Study in Comparative Economic

History, in «Princeton Studies in International Finance», n. 3, 1974.33. Cfr. J. Clapham, op. cit., pp. 325-336.34. Cfr. ivi, pp. 261-263.35. Cfr. R.J. Hoffman, Great Britain and the German Trade Rivalry, 1875-1914, University of Penn-

sylvania Press, Philadelphia 1933.36. Cfr. A.L. Levine, Industrial Retardation in Britain, 1880-1914, Basic Books, New York 1967.37. Cfr. S.B. Saul, Studies in British Overseas Trade, 1870-1914, Liverpool University Press, Liver-

pool 1960.38. Cfr. E.W. Kemmerer, Seasonal Variations in the Relative Demand for Money and Capital in the

United States: A Statistical Study, Government Printing Office, Washington (DC) 1910.39. Cfr. G.S. Graham, Imperial Finance, Trade and Communication, 1895-1914, in The Cambrid-

ge History of the British Empire, vol. III, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1967.40. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1931-9: World Crisis and Policies in Britain and America, in The

Collected Writings of John Maynard Keynes, Cambridge University Press, London 1971-1989,vol. XXI, p. 74 sgg.

41. Cfr. R.S. Sayers, The Bank of England, 1891-1944, Cambridge University Press, Cambridge(UK) 1976, vol. I, cap. 5.

42. Cfr. M. De Cecco, op. cit., cap. VIII.43. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1914-19, The Treasury and Versailles, in The Collected Writings,

cit., vol. XVI, p. 212.44. Cfr. M. De Cecco, op. cit., p. 56.45. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1914-1919. The Treasury and Versailles, in The Collected Writings,

cit., vol. XVI, cap. 3, “Inter-allied Finance, 1917-1918”.46. Sulle preoccupazioni della borghesia europea si veda, Ch.S. Maier, La rifondazione dell’Euro-

pa borghese, trad. it., De Donato, Bari 1979.47. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1914-1919. The Treasury and Versailles, in The Collected Writings,

cit., vol. XVI, cap. 5, “The Peace Conference”, e il vol. XVIII, The End of Reparations.48. Cfr. R. Dornbusch, Lessons from the German Inflation Experience of the 1920s, in R. Dornbu-

sch, S. Fischer, J. Bossons (a cura di), Macroeconomics and Finance: Essays in Honor of FrancoModigliani, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1987.

49. Cfr. H. Schacht, The Stabilization of the Mark, Adelphi, New York 1927.50. Dalle biografie di questi due grandi banchieri centrali si possono trarre utili informazioni sul-

le vicende finanziarie del tempo: si veda, E. Clay, Lord Norman, 1957, ristampa, Arno Press,New York 1979, e L.V. Chandler, Benjamin Strong: Central Banker, The Brookings Institution,Washington (DC) 1958.

Movimenti internazionali di capitali 1 0 1

Page 103: Gli spazi della globalizzazione

51. Cfr. D. Moggridge, The Return to Gold, 1925: The Formulation of Economic Policy and Its Cri-tics, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1969.

52. Cfr. per la Gran Bretagna e per la Francia, S.V.O. Clarke, La collaborazione tra banche centralidal 1924 al 1931, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1984, e per l’Italia, G.G. Migone, Gli Sta-ti Uniti e il fascismo, Feltrinelli, Milano 1980, cap. II.

53. Cfr. B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il “gold standard“ e la Grande Depressione, 1919-1939, trad.it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 353-363.

54. Cfr. J.M. Keynes, The Economic Consequences of Mr. Churchill, 1925, ristampato in The Col-lected Writings, cit., vol. IX.

55. Cfr. H.W. Arndt, The Economic Lessons of the Nineteen-Thirties, 1944, ripubblicato da FrankCass, London 1972, pp. 283-295.

56. Cfr. D.M. Aldcroft, From Versailles to Wall Street, 1919-1929, University of California Press,Berkeley 1977, cap. 8, The Boom of the Latter 1920s.

57. Cfr. J.K. Galbraith, Il grande crollo, trad. it., Boringhieri, Torino 1972.58. Cfr. A. Schubert, The Credit-Anstalt Crisis of 1931, Cambridge University Press, Cambridge

(UK) 1990.59. Cfr. B. Eichengreen, op. cit., cap., “Crisi e opportunità”.60. Cfr. Ch. Kindleberger, The World Depression, 1929-1939, University of California Press, Berke-

ley 1973.61. Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, 1944, trad. it.,Einaudi, Torino 1974, pp. 332-333.62. Cfr. A.I. Bloomfield, Capital Imports and the American Balance of Payments, 1934-39, Univer-

sity of Chicago Press, Chicago 1950.63. Cfr. Ch. Kindleberger, Storia della finanza in Europa occidentale, trad. it., Cariplo-Laterza, Ro-

ma-Bari 1987, parte V.64. Cfr. A. Van Dormael, Bretton Woods. Birth of a Monetary System, Macmillan, London 1978,

cap. 17.65. Cfr. E.A. Rossi (a cura di), Il Piano Marshall e l’Europa, Istituto per l’Enciclopedia italiana, Ro-

ma 1993.66. Cfr. B. Tew, International Monetary Cooperation, 1945-1960, Hutchinson University Library,

London 1962, cap. VIII-IX.67. Cfr. Ch. Kindleberger, Lo sviluppo economico europeo e il mercato del lavoro, trad. it., Etas Kom-

pass, Milano 1969.68. Cfr. G. Haberler, Dollar Shortage, in S.E. Harris (a cura di), Foreign Economic Policy for the

United States, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1948.69. Cfr. H.B. Price, The Marshall Plan and its Meaning, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1955.70. Cfr. B.G. Hickman, Growth and Stability of the Postwar Economy, Brookings Institution, Wa-

shington (DC) 1960, cap. 5.71. Cfr. R.F. Mikesell, The United States Balance of Payments. The International Role of the Dollar,

American Enterprise Institute, Washington (DC) 1970.72. Cfr. F.L. Block, The Origins of International Economic Disorder. A Study of United States In-

ternational Monetary Policy from World War II to the Present, University of California Press,Berkeley 1977, cap. 4.

73. Cfr. H.V. Prochnow (a cura di), The Eurodollar Market, Rand McNally, Chicago 1970.74. Cfr. Ch. Kindleberger (a cura di), Europe and the Dollar, The MIT Press, Cambridge (Mass.)

1966.75. Cfr. T.F. Cargill, S. Royama, Il processo di trasformazione dei sistemi finanziari. Le esperienze

giapponese e statunitense a confronto, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1991, p. 106 sgg.76. Cfr. B. Tew, L’evoluzione del sistema monetario internazionale, trad. it., Il Mulino, Bologna

1984, p. 127 sgg.77. Cfr. R.F. Mikesell (a cura di), United States Private and Government Investment Abroad, Uni-

versity of Oregon Press, Eugene (Oreg.) 1962.78. Cfr. G. Bell, Mercato dell’eurodollaro e sistema finanziario internazionale, trad. it., Feltrinelli,

Milano 1970.

Roberto Panizza1 0 2

Page 104: Gli spazi della globalizzazione

79. Cfr. G. Carli, L’eurodollaro: una piramide di carta?, in «Mondo economico», 1971, n. 14.80. Cfr. R. Parboni, Moneta e monetarismo. Da Keynes a Friedman, Il Mulino, Bologna 1984, parte II.81. Cfr. S. Hymer, Le imprese multinazionali, trad. it., Einaudi, Torino 1974.82. Cfr. R. Panizza, Euro 2002. Verso l’appuntamento con la moneta unica, Selcom editoria, Torino

1998.83. Cfr. A.E. Eckes, A Search for Solvency. Bretton Woods and the International Monetary System,

1941-1971, University of Texas Press, Austin 1975.84. Cfr. T.F. Cargill, S. Royama, op. cit., p. 112 sgg.85. Cfr. B. Tew, op. cit., cap. IX.86. Sulle tensioni che si crearono negli anni Sessanta tra la Francia di De Gaulle e gli Stati Uniti si

veda H. Kissinger, The Troubled Partnership, Anchor, Garden City (NY) 1966.87. Cfr. R. Triffin, Gold and the Dollar Crisis, Yale University Press, New Haven 1961.88. Cfr. B. Tew, op. cit., cap. XII.89. Cfr. S. Melman, The Permanent War Economy, Simon & Schuster, New York 1974.90. Cfr. G. Patterson, Discrimination in International Trade, Princeton University Press, Princeton

1966.91. Cfr. R. Solomon, The International Monetary System, 1945-1976. An Insider View, Harper &

Row, New York 1977.92. Cfr. W.M. Corden, Inflazione e tassi di cambio. La dinamica dell’economia internazionale, trad.

it., Boringhieri, Torino 1981.93. Cfr. S. Biasco, L’inflazione nei paesi capitalistici industrializzati. Il ruolo della loro interdipen-

denza, 1968-1978, Feltrinelli, Milano 1979.94. Cfr. R. Fried, Ch.L. Schultz (a cura di), Higher Oil Prices and the World Economy, Brookings

Institution, Washington (DC) 1975.95. Cfr. A. Michelsons (a cura di), Tre incognite per lo sviluppo. Strutture di mercato, scelte tecno-

logiche e ruolo delle istituzioni nell’ultimo decennio, Franco Angeli, Milano 1985, parte I.96. Cfr. M. Marconi (a cura di), La stagflazione, Il Mulino, Bologna 1985, con testi di J. Tobin, N.

Kaldor, J. Meade e una completa bibliografia.97. Cfr. R. Burlando (a cura di), Trasferimenti di tecnologie e finanziamenti ai paesi in via di svilup-

po, Franco Angeli, Milano 1989.98. Cfr. R. Panizza, All’origine del debito estero dei Paesi del Terzo mondo, in AA.VV., Principi ge-

nerali del diritto e iniquità dei rapporti obbligatori: aspetti giuridici del debito internazionale deiPaesi latino americani, CNR Progetto Italia-America Latina, Roma 1991.

99. Cfr. J. Tobin, Policies for Prosperity: Essays in a Keynesian Mode, The MIT Press, Cambridge(Mass.) 1987.

100. Cfr. R. Parboni, Finanza e crisi internazionale, Etas Libri, Milano 1980.101. Cfr. G.F. Warren, Gold and Prices, Garland Science, Cape Town 1983.102. Cfr. Ch.A. Coombs, Trent’anni di finanza internazionale da Bretton Woods ad oggi, trad. it.,

Etas Libri, Milano 1977, cap. 12.103. Cfr. R.M. Gardner, Sterling-Dollar Diplomacy, McGraw Hill, New York 1969.104. Cfr., anche se il libro è stato pubblicato qualche anno prima dello scontro valutario mondia-

le, S. Strange, Sterling and British Policy. A Political Study of an International Currency in De-cline, Oxford University Press, London 1971.

105. Cfr. B.J. Cohen, The Future of Sterling as an International Currency, Macmillan, London 1971.106. Si veda, relativamente al marco, O. Emminger, The D-Mark Conflict Between the Internal and

External Equilibrium, 1948-1975, in «Princeton Essays in International Finance», n. 122, 1997,e relativamente allo yen, G. Tavlas, Y. Ozeki, The Japanese Yen as an International Currency, in«IMF Working Papers», WP/91/2, Washington (DC) 1991.

107. Cfr M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, trad. it., Il Mulino, Bologna 1993.108. Cfr. R. Triffin, Il sistema monetario internazionale. Ieri, oggi e domani, trad. it., Einaudi, Tori-

no 1973, p. 97 sgg.109. Cfr. S. Amin, Re-Reading the Postwar Period. An Intellectual Itinerary, Monthly Review Press,

New York 1994, cap. IV,

Movimenti internazionali di capitali 1 0 3

Page 105: Gli spazi della globalizzazione

110. Cfr. H.R. Heller, M.S. Khan, The Demand of International Reserves under Fixed and FloatingExchange Rates, in «IMF Staff Papers», Washington (DC) 1978.

111. Cfr. R. Parboni, Finanza e crisi, cit., p. 14 sgg.112. Cfr. R. Parboni, Il conflitto economico mondiale. Finanza e crisi internazionale, Etas Libri, Mi-

lano 1985, cap. 8, “Finis Europae?”.113. Cfr. D. Marsh, The Bundesbank: The Bank that Rules Europe, Heinemann, London 1992.114. Cfr. M. Stewart, The Age of Interdipendence, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1984, cap.6.115. Cfr. R. Parboni, Finanza e crisi, cit., Appendice A e B.116. Per avere un’idea del disastro creato dalla spirale svalutazione-inflazione, si veda Ufficio Ita-

liano dei Cambi, I cambi delle principali valute in Italia 1918-1993, Laterza, Bari 1995.117. Non esiste praticamente alcun riferimento bibliografico a questo tipo di operazioni, relati-

vamente alla lira italiana. Ho cercato di descrivere quanto accadde nella Prefazione alla I e al-la II edizione del libro di A.C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax, trad. it., EGA, Tori-no 1999.

118. Cfr. P. Baffi, Testimonianze e ricordi, Scheiwiller, Milano 1990.119. Un accenno molto velato alla proibizione delle operazioni swap a brevissimo termine lo si tro-

va in Banca d’Italia, Relazione del Governatore sull’esercizio 1976, Roma 1977, par. Il cambio.120. Cfr. Ufficio Italiano dei Cambi, Aspetti giuridici e principali aspetti tecnici del controllo dei cam-

bi, Laterza, Bari 1994.121. Cfr. G. Gandolfo, Esportazioni clandestine di capitali e sovrafatturazioni delle importazioni, in

«Rassegna Economica», 1977, novembre-dicembre.122. Cfr. R. Ossola, F. Campagna, Il ruolo del credito all’esportazione nel commercio estero italiano,

Banca di Roma, Roma s.d. 123. Sul problema delle fughe di capitali negli anni Settanta e Ottanta si veda J. Cuddington, Capital

Flights: Estimates, Issues and Explanation, in «International Studies in International Finance»,1986, n. 58.

124. Cfr. OECD, Regulation Affecting International Banking Operation (of Banks and non-Banks inFrance, Germany, Netherlands, Switzerland, the United Kingdom), Paris 1978.

125. Cfr. sugli effetti delle fughe dei capitali sull’economia, M. Kahler (a cura di), Capital Flights andFinancial Crisis, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1998.

126. Cfr. F. Tutino, Mercato dei cambi e speculazione sulla lira, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988.127. Cfr. IMI, Il controllo dei cambi e gli investimenti di capitali esteri in Italia, Ufficio Studi IMI,

Roma, s.d.128. Cfr. M.J. Piore, Ch.F. Sabel, Le due vie della produzione industriale: produzione di massa e pro-

duzione flessibile, trad. it., Isedi, Torino 1987.129. Cfr. R. Skidelsky (a cura di), The End of the Keynesian Era: Essays in the Disintegration of the

Keynesian Political Economy, Holmes and Meier, New York 1977, rivelatosi poi poco pro-fetico a fronte del drammatico fallimento delle politiche neoliberiste più radicali.

130. Cfr. W.R. Neikirk, Volcker. Portrait of the Money Man, Congdon & Weed, New York 1987.131. Cfr. R. Parboni, Moneta e monetarismo. Da Keynes a Friedman, Il Mulino, Bologna 1984.132. Cfr. M. Friedman (a cura di), Studies in the Quantity Theory of Money, University of Chicago

Press, Chicago 1956.133. Cfr. J. Tobin, op. cit.134. Cfr. N. Kaldor, Il flagello del monetarismo, trad. it., Loescher Editore, Torino 1981.135. Cfr. P. Krugman, The International Role of the Dollar: Theory and Prospect, in J. Bilson, R. Mar-

ston (a cura di), Exchange Rate Theory and Practice, University of Chicago Press, Chicago 1984.136. Keynes ha attaccato molte volte la figura del rentier: tra le tante citazioni si può fare riferi-

mento a J.M. Keynes, Activities 1940-6: Shaping the Post-War World. Employment and Com-modities, in The Collected Writings, cit., vol. XXVII, p. 214.

137. Cfr. R. Panizza, Gli effetti perversi sul debito pubblico delle politiche di risanamento degli anniOttanta, in «Diritto ed Economia», 1993, n. 2-3.

138. Cfr. M. Arcelli (a cura di), Politica monetaria e debito pubblico, UTET, Torino 1990.139. Cfr. R. Panizza, L’impatto delle politiche monetariste degli anni Ottanta sul debito estero dei

Roberto Panizza1 0 4

Page 106: Gli spazi della globalizzazione

paesi in via di sviluppo, in S. Schipani (a cura di), Debito internazionale. Princìpi generali del di-ritto, Cedam, Padova 1995.

140. Cfr. S. Schipani, Princìpi generali da applicare al diritto internazionale: bilancio dei risultati ac-quisiti e prospettive di ricerca, in D.A. Gutiérrez, S. Schipani (a cura di), Il debito internaziona-le, Mursia, Milano 1998.

141. Cfr. S. Marchisio, Derechos Humanos y derechos de los pueblos frente a la deuda externa deAmérica Latina, in S. Schipani (a cura di), op. cit.

142. Cfr. R. Moro, Il debito estero: una relazione perversa, in «Politica internazionale», 2000, n. 3.143. Cfr. The World Bank, Global Development Finance, Washington (DC) 1999, il cap. 5, “Debt

Restructuring”.144. Cfr. A. K. Sen, Inequality Reexamined, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992.145. Cfr. M. Deaglio, Post Global, Editori Laterza, Roma-Bari 2004, par. 3.2, “Povertà come ‘non

libertà’”.146. Cfr. L.J. Santow, The Budget Deficit: The Cause, the Costs, the Outlook, New York Institute of

Finance, New York 1988.147. Cfr. Bank for International Settlements, Recent Innovations in International Banking, Basle

1986.148. Cfr. W.A. Thomas, Securities Markets, Philip Allan, Hemel Hemstead (UK) 1989.149. Cfr. G. Szego, F. Paris, G. Zambruno, Mercati finanziari e attività bancaria internazionale, Il

Mulino, Bologna 1988, cap. VIII.150. Cfr. A. Roselli, La finanza americana tra gli anni Ottanta e i Novanta. Instabilità e riforme, Ca-

riplo-Laterza, Roma-Bari 1995, cap. VI, “La crisi delle ‘savings and loan associations’”.151. Cfr. B. Friedman, Crowding Out or Crowding In? Economic Consequences in Financing Go-

vernment Deficits, in «Brookings Papers on Economic Activity» 1978, n.3.152. Cfr. R. Panizza, L’innovazione finanziaria, in «Osservatorio economico» 1987, n. 3.153. Cfr. R. Panizza, Condizionamenti esogeni ed endogeni nell’accresciuta posizione debitoria del-

l’America Latina: i termini di una discussione, in D.A. Gutiérrez, S. Schipani (a cura di), op. cit.154. Cfr. A. Roselli, op. cit., cap. 8, “Strutture e tendenze innovative dei mercati finanziari”.155. Cfr. Bank for International Settlements, Financial Innovations and Monetary Policy, Basle 1984.156. Cfr. R.C. Bryant, International Financial Intermediaries: Underlying Trends and Implications for

Government Policies, in Y. Suzuki, H. Yomo (a cura di), Financial Innovation and MonetaryPolicy: Asia and the West, University of Tokyo Press, Tokyo 1986.

157. Cfr. S. Strange, Mad Money, when the Markets Outgrow Governments, The University of Mi-chigan Press, Ann Arbor 1998.

158. Cfr. J. Eatwell, L. Taylor, Global Finance at Risk. The Case for International Regulation, TheNew Press, New York 2000.

159. Cfr. H. Helleiner, Post-globalization: Is the Financial Liberalization Trend Likely to Be Resol-ved?, in R. Boyer, D. Drache (a cura di), States against Markets: The Limits of Globalization,Routledge, New York 1996.

160. Cfr. S. Szego, F. Paris, G. Zambruno, op. cit., p. 411 sgg.161. Cfr. S. Bowles, D.M. Gordon, T.E. Weisskopf, After the Waste Land. A Democratic Economics

for the Year 2000, M.E. Sharpe Inc., Armonk (NY) 1990.162. Cfr. D.M. Jones, The Politics of Money. The Fed under Alan Greenspan, New York Institute of

Finance, New York 1991.163. Cfr. H. Kaufman, Interest Rates, Markets and the New Financial World, Times Book, New

York 1986.164. A illustrare lucidamente i guai di una strategia fondata sull’apparenza e sul breve periodo si ve-

da, M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, cit., cap. III, “La finanza e la gloria”.165. Cfr. E. Chancellor, Un mondo di bolle. La speculazione finanziaria dalle origini alla “New eco-

nomy”, Carocci, Roma 2000, cap. IX, “Il capitalismo kamikaze”.166. Cfr. D.P. Calleo, Bankrupting America: How the Federal Budget Is Impoverishing the Nation,

W. Morrow & C., New York 1992.167. La tesi, secondo la quale il peggioramento dei conti pubblici e della bilancia dei pagamenti fu

Movimenti internazionali di capitali 1 0 5

Page 107: Gli spazi della globalizzazione

generato dalle politiche monetariste finalizzate a combattere l’inflazione, è formulata in R. Heil-broner, P. Bernstein, The Debt and the Deficit, W.W. Norton & C., New York 1989, p. 27 sgg.

168. Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo, cit., p. 443 sgg.169. Cfr. W.C. Peterson, Silent Depression. Twenty- Five Years of Wage Squeeze and Middle-Class De-

cline, W.W. Norton & C., New York 1994.170. Cfr. B. Woodward, Maestro. Greenspan’s FED and the American Boom, Simon & Schuster,

New York 2000.171. Cfr. T. Persson, G. Tabellini, Is Inequality Harmful for Growth?, in «The American Econo-

mic Review», vol. 84, 1984, n. 3, pp. 600-621.172. Cfr. P. Rampini, New Economy. Una rivoluzione in corso, Laterza, Bari 2000.173. Cfr. R. Moro, La riduzione della povertà: “Nuova Frontiera” dell’impegno internazionale e luogo

strategico dell’azione dell’organizzazione della società civile, in Ministero Affari Esteri, IPALMO(a cura di), Debito dei paesi poveri: quali politiche per il dopo cancellazione, Laterza, Bari 2004.

174. Cfr. F. Saccomanni, Tigri globali, domatori nazionali. Il difficile rapporto tra finanza globale e au-torità monetarie nazionali, Il Mulino, Bologna 2002, cap. V, La crisi della finanza globale.

175. Cfr. P. Krugman, Economisti per caso, trad. it., Garzanti, Milano 2000, parte 5, Il ballo degli spe-culatori.

176. Cfr. A.K. Sen, The Impossibility of a Paretian Liberal, in «Journal of Political Economy», 1970,pp. 152-157.

177. Cfr. P. Krugman, Crisis: The Price of Globalization?, in Global Economic Integration: Oppor-tunities and Challenges. A Symposium, Federal Reserve Bank of Kansas City, Kansas City 2000.

178. Cfr. M. Chossudovsky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del Fondo mo-netario internazionale e della Banca mondiale, trad. it., EGA, Torino 1998, parte I.

179. Cfr. sulle conseguenze sociali della crisi E. Lee, The Asian Financial Crisis. The Challenge forSocial Policy, International Labor Office, Geneva 1999.

180. Scherzando, sono solito dire ai miei studenti che è come se qualcuno mi gettasse giù da un bal-cone e, portato moribondo all’ospedale, mi diagnosticassero che avevo le arterie indurite, ilcuore stanco e il fegato stressato: è tutto vero, ma l’osso del collo me lo sono rotto esclusiva-mente perché qualcuno mi ha scaraventato giù dal balcone.

181. Cfr. V. Valli, L’Europa e l’economia mondiale. Trasformazioni e prospettive, Carocci, Roma2002, par. 2.4, La globalizzazione finanziaria.

182. Cfr. UNCTAD, World Investment Report 2003. FDI Policies for Development: National and In-ternational Perspective, Geneva 2003.

183. Cfr. World Bank, Global Development Finance, Washington (DC) 2003.184. Cfr. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, Geneva 2003, cap. II, Financial Flows to

Developing Countries and Transition Economies.185. Cfr. M. Deaglio, Postglobal, cit., par. 3.1, Una premessa: la scarsa bontà degli strumenti di mi-

sura economica.186. Cfr. Banca dei Regolamenti Internazionali, Evoluzione dell’attività sui mercati bancari e fi-

nanziari internazionali, Rassegna trimestrale, Basle 2003.187. Cfr. P. De Grauwe, Economia dell’integrazione monetaria, Il Mulino, Bologna 1997.188. Cfr. U. Triulzi, Dal mercato comune alla moneta unica, Seam, Roma 1999.189. Cfr. G. Vitali (a cura di), Imprese e mercati nell’Europa della moneta unica, UTET, Torino 2001.190. Cfr. C.A. Bollino, P.C. Padoan (a cura di), Il circolo virtuoso. Commercio e flussi finanziari in

un’Europa allargata, Il Mulino, Bologna 1993.

Roberto Panizza1 0 6

Page 108: Gli spazi della globalizzazione

Parte terza

LE NUOVE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI

Umberto Melotti

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 107

Page 109: Gli spazi della globalizzazione

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 108

Page 110: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo primoMigrazioni internazionali e globalizzazione

Sin dagli inizi dell’età moderna le migrazioni internazionali hanno concorsoalla formazione del sistema mondiale, che della globalizzazione è la necessariapremessa. Gli stessi Stati Uniti d’America, la potenza ormai da tempo mondial-mente egemone, sono sorti da tali migrazioni, così come il Canada, l’Australia,la Nuova Zelanda e tutti i Paesi dell’America più o meno propriamente definitalatina. Anche molti Paesi dell’Asia e dell’Africa, ove pure la popolazione autoc-tona era molto più consistente, hanno conosciuto una significativa immigrazio-ne europea durante la loro colonizzazione e gli effetti si fanno tuttora sentire.

Rispetto al passato vi è stato però un cambiamento fondamentale. Per quat-tro secoli e mezzo, dalla scoperta dell’America alla seconda guerra mondiale, iflussi migratori andavano in prevalenza dal centro del sistema mondiale in for-mazione, l’Europa, alle sue periferie: le Americhe, l’Africa, l’Asia, la lontanaOceania. All’indomani della seconda guerra mondiale, nel quadro della trasfor-mazione epocale di quegli anni (che videro l’affermazione della potenza ameri-cana, la divisione del mondo in due grandi blocchi politici, economici, ideologicie militari, la fine dei grandi imperi coloniali con l’accesso all’indipendenza diquasi tutti i Paesi asiatici e africani, la costituzione dello Stato d’Israele, con l’i-nizio del conflitto palestinese, e lo scoppio di grandi rivoluzioni sociali in moltiPaesi del Terzo Mondo, fra cui la Cina in Asia, l’Algeria in Africa e Cuba in Ame-rica Latina), si ebbe l’inversione della direzione fondamentale dei flussi, che co-minciarono ad andare sempre più dalle periferie del sistema mondiale al suo cen-tro (che comprendeva ormai gli Stati Uniti). Il fattore di fondo sotteso al rove-sciamento della tendenza secolare è stato il diverso andamento dei trenddemografici nel centro e nella periferia: un dato di grande rilevanza, che indus-se a individuare in questa “nemesi storica” del colonialismo l’inizio di un pro-cesso destinato a ridisegnare la mappa etnografica del mondo.

1.1 Le tre fasi delle migrazioni post-belliche in EuropaDalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri l’Europa ha cono-

sciuto tre diverse fasi migratorie. La prima fase (1945-1973) comprende migrazioni intercontinentali e migra-

zioni continentali. Le prime furono essenzialmente determinate dai “fattori diespulsione” (push factors) nei Paesi di esodo, fra cui le grandi crisi politiche ed eco-

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 109

Page 111: Gli spazi della globalizzazione

nomiche che accompagnarono la decolonizzazione. Ricordo, per l’impero britan-nico, i sanguinosi scontri che hanno portato alla divisione prima dell’India e delPakistan e poi del Pakistan occidentale e del Pakistan orientale, cui si devono de-cine di milioni di profughi, e le drammatiche violenze in Africa orientale, che cau-sarono la fuga o l’espulsione delle rilevanti minoranze europee e asiatiche ivi inse-diate. Né si possono dimenticare le fughe verso Hong Kong, ancora colonia bri-tannica, nei momenti di crisi della Repubblica Popolare Cinese. Per l’imperofrancese, basti richiamare gli effetti delle guerre d’Indocina (1946-54) e di Algeria(1955-62), che portarono all’abbandono in massa di quei Paesi da parte non solodei coloni francesi, ma anche dei nativi che avevano collaborato con loro e dei dis-sidenti dei regimi autoritari che vi si costituirono. Simili per molti aspetti furono lemigrazioni di quel periodo verso gli altri Paesi coloniali: il Belgio (per il Congo, incrisi profonda dopo la sua indipendenza, e il Ruanda e il Burundi, scossi da san-guinosi conflitti etnici destinati a riaccendersi periodicamente), i Paesi Bassi (perl’Indonesia e il Suriname) e, un poco più tardi, il Portogallo (per la Guinea-Bis-sau, Capo Verde, l’Angola e il Mozambico). L’Italia stessa conobbe a più ripresemigrazioni dalle sue ex colonie, in relazione alle vicende che hanno sconvolto la So-malia, l’Eritrea, l’Etiopia e la Libia. Le migrazioni continentali si dovettero invece,oltre che ai fattori di espulsione nelle aree di esodo, di natura demografica, eco-nomica e anche politica (soprattutto per la Spagna, il Portogallo e la Grecia), aifattori di attrazione (pull factors) nei Paesi di approdo, fra cui il richiamo di ma-nodopera per la ricostruzione post-bellica e il lungo periodo di espansione che laseguì. Queste migrazioni continentali hanno interessato quasi tutti i Paesi euro-pei, ma con una netta distinzione di ruoli fra quelli dell’Europa meridionale e quel-li dell’Europa centro-settentrionale: i primi costituirono le aree di esodo e i se-condi le aree di approdo. Nei Paesi dell’Europa meridionale non sono però man-cate migrazioni interne che ne riproducevano in parte la logica.

La seconda fase (1973-1982) si apre con la grande crisi del 1973-74, precipi-tata dall’aumento del costo del petrolio, ma dovuta in realtà all’esaurirsi dellafunzione trainante delle attività produttive che avevano caratterizzato la prece-dente fase espansiva. Mentre in Europa tendono a venir meno le migrazioni con-tinentali, i movimenti migratori si estendono nel contesto della nuova divisioneinternazionale del lavoro che comincia a profilarsi appunto in questi anni comeparziale risposta alla crisi1. Ne consegue una situazione contraddittoria: da un la-to i tradizionali Paesi europei d’immigrazione chiudono le loro frontiere a ulte-riori arrivi per motivi di lavoro; dall’altro la crisi inasprisce le situazioni espulsi-ve nei Paesi di esodo, causando conflitti sociali e repressioni cruente (basti ri-cordare i colpi di Stato in Cile e in Argentina, con le loro decine di migliaia didesaparecidos, l’aggravarsi della dittatura militare in Brasile, le guerre civili inAmerica centrale, la trasformazione del regime cubano in una vera e propria dit-tatura, il nuovo conflitto israelo-arabo, l’inasprirsi degli scontri etnici in Ruan-da e Burundi, Etiopia, Eritrea, Somalia e Sri Lanka e la repressione contro le mi-noranze nel Vietnam riunificato). Ai migranti per motivi economici si aggiun-

Umberto Melotti1 1 0

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 110

Page 112: Gli spazi della globalizzazione

gono così numerosissimi migranti per motivi politici. È in questo contesto che di-vengono Paesi d’immigrazione anche i Paesi dell’Europa meridionale, che, es-sendo stati sino ad allora dei Paesi di emigrazione, non avevano chiuso le lorofrontiere. Anche fuori dell’Europa si aprono però dei nuovi poli migratori: i Pae-si petroliferi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale e occidentale (fra cuila Libia e la Nigeria), il pur riluttante Giappone, ormai terza potenza industria-le del mondo, e i nuovi Paesi industriali, a partire dalle quattro ben note “tigriasiatiche” (Hong Kong, Singapore, Taiwan e la Corea del Sud).

La terza fase inizia nel 1982, con la ripresa economica di quegli anni, ed è tut-tora in corso, nonostante le alterne vicende della congiuntura economica e l’im-patto di pur straordinarie vicende storiche (il crollo del muro di Berlino, la cri-si e l’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi Paesi satelliti, la guerra delGolfo, con le sue conseguenze in Medio Oriente e in Europa, la crisi dei Balca-ni e, da ultimo, dopo un periodo di solo apparente assestamento, gli attentati al-le Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington e le azioni militariintraprese in nome della guerra al terrorismo). In questa fase le migrazioni in-ternazionali tendono a generalizzarsi e a intensificarsi su scala planetaria, nel-l’ambito di quelle ulteriori trasformazioni economiche, politiche, sociali e cul-turali cui ci si suol riferire col termine di “globalizzazione”. In questa fase si ag-gravano i fattori espulsivi in molti Paesi di esodo. In Africa, in particolare,vengono meno le speranze e le illusioni del periodo della decolonizzazione e deiprimi anni dell’indipendenza. La crisi economica e la disgregazione sociale, in-crudelite a volte da insensati conflitti, inducono alla fuga crescenti masse di gio-vani, disposti ad affrontare ogni rischio, come confermano le reiterate tragedieche colpiscono quelli che cercano di attraversare il Mediterraneo su stracariche“carrette del mare”. Fra questa fase e la precedente, al di là delle differenze, esi-ste peraltro una continuità: la globalizzazione si sovrappone infatti ai processidella nuova divisione internazionale del lavoro, da cui si distingue soprattuttoper la pervasività e la rapidità delle trasformazioni, dovute in gran parte allo svi-luppo delle nuove tecnologie e al ruolo assunto dall’economia finanziaria.

1.2 Le relazioni fra globalizzazione e migrazioni internazionaliFra globalizzazione e migrazioni internazionali esiste una complessa relazio-

ne. Senza alcuna pretesa di esaustività, ne sintetizzerò qui alcuni elementi.Da una parte il processo di globalizzazione tende a incrementare le migra-

zioni internazionali, anche se non tutte le sue componenti agiscono in tal senso.In particolare:a) gli accresciuti contatti reali e virtuali diffondono nella popolazione dei Paesi a

un grado di sviluppo intermedio la sensazione di deprivazione relativa, che,ancor più della povertà assoluta, motiva le nuove migrazioni internazionali;

b) le grandi multinazionali, il commercio, il turismo e la diffusione dei mezzi dicomunicazione di massa controllati o influenzati dai Paesi occidentali favori-scono nei Paesi in via di sviluppo la “socializzazione anticipata” ai valori e ai

Le nuove migrazioni internazionali 1 1 1

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 111

Page 113: Gli spazi della globalizzazione

modelli di comportamento delle aree più sviluppate: un processo che ancoranella prima fase delle migrazioni post-belliche era ritenuto possibile solo nelcaso dei flussi interni2. Tale socializzazione, che stimola le migrazioni, risultaperaltro assai più facile per ciò che concerne le “mete” che non i “mezzi”, conconseguente incremento di devianza e criminalità. Le migrazioni sono anchefavorite dalla scolarizzazione di massa, d’impronta spesso occidentalizzante,che diffonde un’almeno elementare conoscenza delle più diffuse lingue vei-colari. All’accresciuta distanza geografica fra i Paesi di emigrazione e i Paesid’immigrazione non corrisponde così più necessariamente una maggior di-stanza culturale dei migranti, che va indagata caso per caso;

c) i contraddittori processi di sviluppo avviati nei Paesi di esodo dall’esporta-zione di attività produttive (che a lungo termine possono ridurre la propen-sione a emigrare, creando in loco maggiori possibilità di occupazione), sulbreve e sul medio periodo più spesso l’incrementano, destrutturando l’or-ganizzazione sociale esistente;

d) la diffusione in tempo reale delle informazioni relative a opportunità di gua-dagno, sistemazioni abitative anche precarie, possibilità d’ingresso regolaree clandestino, tolleranza dell’irregolarità e della stessa criminalità, forme diaccoglimento e di assistenza, regolarizzazioni e sanatorie ecc., promuove lenuove migrazioni internazionali;

e) l’accresciuta facilità degli spostamenti, grazie alla riduzione dei costi e dei ri-schi (quando almeno non siano gestiti da organizzazioni criminali), consen-te reiterati tentativi migratori e rende possibili migrazioni temporanee untempo impensabili;

f) la facilitazione delle rimesse monetarie anche illegali ai Paesi di origine co-stituisce un ulteriore incentivo alle migrazioni per motivi economici.D’altra parte le migrazioni internazionali concorrono al processo di globa-

lizzazione in vari modi. In particolare:a) costituiscono una parziale alternativa all’esportazione della produzione in

Paesi ove il costo del lavoro è minore o la sostituiscono in quelle attività in cuitale esportazione è difficile o addirittura impossibile;

b) moltiplicano nei Paesi d’immigrazione l’offerta di beni e di servizi “esotici”:prodotti alimentari e medicinali, cucina, musica ecc., per tacere delle presta-zioni sessuali da parte di soggetti diversi dai fenotipi localmente prevalenti;

c) introducono nei Paesi d’immigrazione lingue, culture, religioni, usi e costu-mi diversi da quelli locali;

d) concorrono alla formazione di società multirazziali, multietniche, multicul-turali, multilinguistiche e multireligiose nei Paesi d’immigrazione, con tuttele relative potenzialità, ma anche con tutti i relativi problemi;

e) stimolano il consumo di prodotti stranieri sia nei Paesi d’immigrazione, sianei Paesi di emigrazione;

Umberto Melotti1 1 2

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 112

Page 114: Gli spazi della globalizzazione

f) contribuiscono, con le rimesse degli emigrati, ad aumentare il potere di ac-quisto dei Paesi di emigrazione, favorendone l’inserimento nel mercatomondiale;

g) diffondono nei Paesi di origine degli immigrati, col ritorno temporaneo o de-finitivo di questi, i modelli di vita e di consumo dei Paesi d’immigrazione, in-tegrando l’azione dei mezzi di comunicazione, della pubblicità e del turismo.Di conseguenza concorrono a quell’omologazione culturale che costituisceuno dei più vistosi aspetti della globalizzazione.

Le nuove migrazioni internazionali 1 1 3

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 113

Page 115: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo secondoPolitiche migratorie e culture politiche

Per quanto concerne la gestione dell’immigrazione nei Paesi di approdo no-tevole è l’influenza delle loro culture politiche. Ciò risulta tanto più chiaro se, incontrasto con le riduttive definizioni correnti, per cultura politica s’intenda l’in-sieme delle idee fondamentali che in un determinato Paese orientano la preva-lente concezione dello Stato, del popolo e della nazione, le relazioni esplicita-mente o implicitamente istituite fra loro e quindi le relazioni fra etnicità, nazio-nalità e cittadinanza, i princìpi che regolano l’acquisizione di quest’ultima e idiritti e i doveri che ne conseguono3.

La cultura politica ha in effetti profondamente influenzato le politiche mi-gratorie di tutti i principali Paesi d’immigrazione. Proprio per questo le politichemigratorie di alcuni di loro hanno configurato dei distinti modelli. Converrà dun-que richiamare la situazione dei principali Paesi d’immigrazione, mettendone inluce il rapporto fra politica migratoria e cultura politica.

2.1 FranciaIn Francia l’immigrazione è un fatto importante. Nel 2000, su quasi 60 mi-

lioni di abitanti, vi vivevano, nonostante le numerosissime naturalizzazioni in-tercorse, 3.263.000 stranieri, pari al 5,6% della popolazione, come risultato di unprocesso immigratorio iniziato già nell’Ottocento.

La politica migratoria è stata a lungo caratterizzata da un assimilazionismo et-nocentrico: una risposta dettata dalla sua cultura politica a un’immigrazione uti-lizzata per fronteggiare non solo occasionali carenze di manodopera, ma una cro-nica crisi demografica, pericolosa anche per i suoi riflessi sul piano militare. LaFrancia, che alla vigilia della rivoluzione del 1789 era il Paese europeo più popo-loso, nei primi decenni del secolo seguente subì il contraccolpo delle guerre ri-voluzionarie e delle guerre napoleoniche. Così, quando, dopo il 1820, cominciòla sua industrializzazione, emerse una consistente domanda di forza-lavoro inap-pagata dall’offerta interna: una situazione che si è protratta, tra alti e bassi, sino aigiorni nostri, date anche le successive falcidie causate dalle varie guerre combat-tute in Europa e nelle colonie. Ciò ha favorito un’immigrazione che la societàfrancese ha cercato d’integrare nell’unico modo concepibile in un Paese che sirappresentava come una grande nazione omogenea e s’identificava profonda-mente con un forte Stato accentrato, che non riconosceva al proprio interno né

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 114

Page 116: Gli spazi della globalizzazione

nazionalità minoritarie né gruppi etnici locali e contrastava con vigore ogni pre-tesa di mediazioni particolaristiche fra le istituzioni e i cittadini (ai quali d’altraparte assicurava i diritti sanciti dalla Rivoluzione, della cui tradizione, laica e gia-cobina, la sua componente repubblicana si è sempre considerata erede).

L’integrazione, in questo contesto, presupponeva necessariamente un’assi-milazione alla cultura del Paese. In concreto, il progetto francese prevedeva chegli immigrati, non che utilizzare la loro identità etnico-culturale come una ri-sorsa per un’integrazione non subalterna, l’abbandonassero completamente perdiventare dei “buoni francesi”: un processo che presupponeva l’assimilazioneper quanto concerneva la lingua, la cultura e, possibilmente, la stessa mentalità.In cambio lo Stato estendeva loro tutti i diritti, facendone dei suoi cittadini, gra-zie alla cosiddetta “naturalizzazione”. D’altra parte anche gli immigrati che nonpotevano o non volevano naturalizzarsi mettevano al mondo dei figli francesi.Sin dal 1889 in materia di cittadinanza vigeva infatti lo jus soli, limitato soltantodi recente (1993) e per un breve periodo.

L’assimilazione era del resto favorita dal fatto che la Francia attingeva alloraai serbatoi di manodopera degli altri Paesi latini e cattolici. Ma questi si sono datempo esauriti e la maggior parte degli immigrati giunge ormai da aree più lon-tane: il Maghreb, di lingua araba e di religione musulmana; l’Africa occidentale,di prevalente religione animista o musulmana; il Sud-Est asiatico, di tradizionebuddista o confuciana. Se anche si tratta per lo più di aree che hanno conosciu-to la colonizzazione francese, il progetto assimilatore si scontra con la maggiordistanza culturale di questi immigrati, nonostante gli effetti dell’omologazioneculturale e della socializzazione anticipata. A ciò si aggiunga la loro più eviden-te diversità etnica, la loro rilevante consistenza numerica e la loro frequente pre-senza in nuclei d’intere famiglie o addirittura in comunità etniche che difendo-no la propria identità.

D’altra parte la “sindrome da invasione”, emersa sin dagli anni Ottanta spe-cialmente per ciò che concerne la componente arabo-islamica della nuova im-migrazione, ha determinato delle reazioni xenofobe, che hanno trovato espres-sione, fra l’altro, nella proposta di rivedere in senso restrittivo lo stesso codicedella cittadinanza. Questa proposta, avanzata dall’estrema destra, ma fatta pro-pria anche da forze più moderate, fu parzialmente accolta nel 1993 dalla mag-gioranza di centro-destra da poco tornata al potere. Aspre furono peraltro lereazioni di chi, fedele al vecchio “modello repubblicano d’integrazione”, ne giu-dicava le conseguenze nefaste non solo per gli immigrati, ma per la stessa re-pubblica. Così, col ritorno al governo delle sinistre (1997), la vecchia normativafu sostanzialmente ripristinata. Nel dibattito francese si continua pertanto a te-matizzare l’“integrazione degli immigrati”: un’espressione il cui primo terminerappresenta poco più di un eufemismo per la vecchia “assimilazione”, mentre ilsecondo continua a ridurre gli stranieri a soggetti senza storia e senza cultura,pronti a entrare nella grande macchina assimilatrice della società francese.

Questa macchina, però, da tempo perde molti colpi. Fra le cause, oltre alla

Le nuove migrazioni internazionali 1 1 5

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 115

Page 117: Gli spazi della globalizzazione

stessa maggior resistenza dei nuovi immigrati all’assimilazione, va ricordata la cri-si delle vecchie agenzie di socializzazione (la scuola, l’esercito, la fabbrica, i sin-dacati, i partiti), nonché la difficoltà per la Chiesa di far sentire la propria voce aimusulmani, che dell’immigrazione recente costituiscono la componente più nu-merosa. Sul piano delle politiche sociali, d’altra parte, prevale ancora il rifiuto de-gli interventi specifici per gli stranieri. La preferenza è per interventi diretti a tut-ti coloro che presentino determinati problemi, anche se ben raramente que-st’impostazione “universalistica” costituisce una risposta efficace alle particolaridifficoltà degli immigrati. Le conseguenze sono state gravissime. Come ebbe aosservare uno dei più autorevoli sociologi francesi, anche per questo la Franciaconosce una forte carenza d’integrazione sociale, che ostacola la stessa pur per-seguita assimilazione culturale4.

2.2 Regno UnitoNel Regno Unito, su quasi 60 milioni di abitanti, nel 2000 vivevano circa

2.500.000 stranieri, più del 4% della popolazione. Questa situazione, come quel-la della Francia, era il risultato di un’immigrazione di lunga data, anche se menoantica. Peraltro la politica migratoria britannica differisce profondamente daquella francese, così come diversa è la sua cultura politica: una cultura pragma-tica, che riconosce i particolarismi etnici e culturali, promuove l’autonomia e ildecentramento e valorizza il ruolo delle formazioni sociali intermedie. Lo stes-so forte etnocentrismo comune ai loro progetti assume forma diversa: universa-listica in Francia, ove emerge la pretesa che gli immigrati di qualsiasi razza e cul-tura abbiano a divenire dei “buoni francesi”; particolaristica nel Regno Unito,ove prevale la convinzione che anche gli immigrati dei Paesi più vicini per storiae cultura mai potrebbero diventare dei “buoni britannici”. Di conseguenza li siaccetta per quello che sono, cercando però di limitarne gli effetti sullo stile di vi-ta britannico.

A definire tale orientamento ha concorso anche un’immigrazione di natura al-meno in parte diversa. Nel Regno Unito l’arrivo degli stranieri non ha mai svoltouna funzione demografica importante ed è stato anche meno motivato da un’i-nappagata domanda di lavoro. A determinarla sono state soprattutto le vicendestoriche dei Paesi di esodo e, più in particolare, le crisi politiche ed economiche deiPaesi del Commonwealth. Di conseguenza è stato anche un fatto assai meno indi-viduale, che ha assunto spesso la fisionomia di un vero e proprio movimento dimassa alla ricerca di un rifugio (come nel caso degli indo-pachistani, negli anniQuaranta e Cinquanta, o degli asiatici insediati in Africa orientale, negli anni Ses-santa, o dei cinesi e dei vietnamiti fuggiti a Hong Kong negli anni Settanta e Ot-tanta). Inoltre nel Regno Unito da più tempo l’immigrazione proviene da lontano:le ex-colonie delle Indie occidentali, dell’Asia e dell’Africa, dato anche che sino al1962 i loro originari potevano entrare nel Regno Unito senza particolari forma-lità. Da più tempo, quindi, in quel Paese gli immigrati costituiscono uno stock chesi differenzia notevolmente dagli autoctoni in termini razziali, etnici e culturali.

Umberto Melotti1 1 6

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 116

Page 118: Gli spazi della globalizzazione

Queste popolazioni trapiantate (perché di ciò in effetti si tratta nella mag-gior parte dei casi) hanno potuto formare nel Regno Unito le loro comunità, di-ventate poi dei punti di riferimento per gli interventi delle autorità amministra-tive. Inoltre nel Regno Unito la distinzione fra cittadini e non cittadini è semprestata meno netta che in altri Paesi, per la presenza di una categoria, quella deglioriginari del Commonwealth, a sua volta differenziata secondo la provenienza,la data di arrivo nel Regno Unito, l’eventuale ascendenza britannica, le eventualipregresse prestazioni per l’amministrazione britannica ecc. Inoltre gli immigra-ti dal Commonwealth regolarmente residenti godono del diritto di voto attivo epassivo sia alle elezioni amministrative, sia alle elezioni politiche.

Quest’impostazione, che pure è stata a lungo capace di far fronte alla situa-zione, rivela da tempo i suoi limiti. Le comunità più consistenti sollecitano infat-ti un cambiamento, con la rinuncia all’egemonia da parte della componente au-toctona, mentre la “seconda generazione” degli immigrati esprime il suo disagioper un sistema che, pur concedendo dei riconoscimenti alle comunità, relega gliindividui che ne fanno parte in una posizione subalterna, enfatizzandone la “di-versità”. In proposito va sottolineato che il dibattito sulla presenza straniera (chein Francia verte sull’“integrazione degli immigrati”, senza distinzioni di razza e dietnia) nel Regno Unito ruota invece intorno alle “relazioni di razza e di etnia” (ra-cial and ethnic relations) e il problema più discusso è quello dei diritti delle mi-noranze etniche e razziali. Ma la stessa terminologia impiegata, spesso del tuttoinappropriata, lascia intravedere una tendenza a razzializzare e a etnicizzare i pro-blemi. Peraltro, per far fronte a discriminazioni e razzismo, sin dagli anni Ses-santa sono state adottate delle importanti misure. In particolare il Race RelationsAct del 1976, esteso da un emendamento del 2000 a tutte le pubbliche ammini-strazioni, bandisce ogni forma di discriminazione e promuove l’“uguaglianza del-le opportunità” fra i gruppi etnici. Eppure ancora agli inizi degli anni Novantanon si poteva escludere una degenerazione della situazione in presenza5. Nontutti i rischi sono stati scongiurati, né sono mancati anche negli ultimi anni deigravi conflitti, ma oggi si può forse guardare al futuro con più ottimismo, dateanche le trasformazioni in corso nella cultura politica del Paese.

2.3 GermaniaLa Germania è da molti decenni il Paese europeo con il più alto numero as-

soluto d’immigrati: 7.336.000, nel 2002, poco meno degli abitanti dell’Austria,su una popolazione di 82,6 milioni, pari all’8,9%. Eppure ha a lungo rifiutato diriconoscersi come un Paese d’immigrazione, con una formula reiterata per an-ni dai suoi governanti: Deutschland ist kein Einwanderungsland. In realtà la Ger-mania era diventata un Paese d’immigrazione già alla fine dell’Ottocento e nel se-condo dopoguerra, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, aveva addiritturaintrapreso un’attiva politica di reclutamento all’estero della manodopera.

I pur numerosissimi immigrati furono dunque a lungo configurati come deisemplici “lavoratori ospiti” (Gastarbeiter), destinati a una permanenza solo tem-

Le nuove migrazioni internazionali 1 1 7

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 117

Page 119: Gli spazi della globalizzazione

poranea. Quel sistema era però già entrato in crisi alla metà degli anni Settanta.La citata chiusura delle frontiere a ulteriori arrivi di lavoratori (1973) aveva in-fatti indotto molti immigrati a fermarsi nel Paese e a farsi raggiungere dai fami-gliari. La classe politica ha però evitato di prenderne atto e di elaborare per lo-ro un vero progetto d’integrazione.

Sino a pochi anni fa la politica perseguita in Germania poteva dunque esse-re sintetizzata più facilmente in termini negativi che positivi: né integrazione, nésegregazione6. In realtà gli immigrati sono a lungo restati degli “stranieri” con cuisi poteva convivere anche per un lungo periodo, ma senza confusioni di status.Nonostante qualche concessione in data relativamente recente (1993), l’acqui-sizione della cittadinanza era assai difficile, sia per la prima generazione d’im-migrati (la naturalizzazione presupponeva quindici anni di permanenza legalenel Paese per gli adulti e otto anni per i giovani dai 17 ai 23 anni), sia per la se-conda (lo jus soli non fu introdotto che nel 2000). In via di principio i giovaninati in Germania da genitori immigrati erano destinati a restare stranieri in quel-lo che era il loro solo Paese e, nonostante la citata riforma, le naturalizzazioniconcesse a qualsiasi titolo risultavano quattro volte meno numerose che in Fran-cia, benché gli immigrati fossero quasi il doppio.

Questa impostazione era dettata da una precisa cultura politica. La Germania,ultimo dei grandi Paesi europei a costituirsi in Stato nazionale, ha sempre conce-pito la nazione non in termini soggettivi ed etico-politici, come in Francia, ma intermini oggettivi ed etnico-culturali: un fatto di sangue e di terra (Blut und Boden),in cui nativamente si esprime la pretesa specificità del popolo tedesco (DeutschesVolk). Anche dopo la costituzione dello Stato nazionale, per le note vicende stori-che (fra cui, nel secondo dopoguerra, la sua sofferta divisione), l’appartenenza a ta-le popolo è stata sempre privilegiata rispetto all’appartenenza a una determinataentità politica (come ha dimostrato anche la rapida riunificazione dei due Stati te-deschi, già politicamente, economicamente, militarmente e ideologicamente con-trapposti, propiziata da grandi manifestazioni caratterizzate dal grido Wir sind einVolk: «Siamo un solo popolo»). Proprio per questo i profughi tedeschi provenientidai territori orientali del Reich passati alla Polonia e all’Unione Sovietica (i Ver-triebene), i transfughi dalla cosiddetta Repubblica Democratica Tedesca (gli Über-siedler) e persino i discendenti dei tedeschi trapiantatisi molte generazioni or so-no nei Paesi dell’Europa orientale (gli Aussiedler) sono sempre stati consideratinella Repubblica Federale Tedesca come dei potenziali cittadini. D’altra parte ta-le concezione ha ispirato la tendenza a tutelare la pretesa omogeneità etnico-cul-turale del popolo tedesco e a contrastarne il dissolvimento.

La prima preoccupazione della politica migratoria tedesca è stata a lungo quel-la di tracciare la distinzione tra gli autoctoni e gli stranieri7. Ancora inizi degli an-ni Novanta si dava per scontato che la presenza di questi ultimi sul suolo tedescodovesse essere solo temporanea e si cercava di prevenirne il radicamento. Nel 1973era stata ventilata una loro “integrazione temporanea”, ma la trasformazione del-l’immigrazione cominciata proprio in quell’anno rese del tutto inadeguate le mi-

Umberto Melotti1 1 8

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 118

Page 120: Gli spazi della globalizzazione

sure previste a tal fine. Da un lato il consolidamento delle presenze pregresse com-portò una complessificazione della popolazione immigrata. Dall’altro cominciò ilperiodo dell’immigrazione clandestina e irregolare, dell’aumento del tasso di di-soccupazione fra gli stessi immigrati legali e dell’arrivo in massa dai Paesi del Ter-zo Mondo di veri e sedicenti “rifugiati”. Sul finire degli anni Ottanta il tracollo deiPaesi dell’Est rovesciò poi sulla Repubblica Federale Tedesca delle ondate di pro-fughi senza precedenti in tempo di pace: oltre un milione e mezzo di persone, conun saldo netto di circa un milione, fra il 1989 e il 1990, prima dell’unificazione deidue Stati tedeschi, tra Übersiedler e Aussiedler. Dopo l’unificazione (1990) l’af-flusso degli Aussiedler continuò a un ritmo elevato e il numero dei rifugiati di altraorigine aumentò, mentre cominciarono anche le migrazioni interne dai nuovi aivecchi Länder. Difficoltà di convivenza emersero un po’ dappertutto e, a partiredalle aree della Germania orientale, in grave crisi, si moltiplicarono le esplosioni dirazzismo e di xenofobia. Il modello dell’estraniazione degli immigrati, nato inun’altra epoca storica, sembrava del resto fatto apposta per coltivare pregiudizi,odi e rancori. Successivamente vi furono dei segni di resipiscenza, ma le stesse piùautorevoli dichiarazioni in favore di un’integrazione degli stranieri residenti daanni nel Paese rivelavano una concezione piuttosto riduttiva: l’integrazione era vi-sta infatti non come la conseguenza dello sviluppo di normali relazioni sociali frapersone di origine diversa, ma come un processo guidato dall’alto, nel prevalenteinteresse della componente tedesca, che avrebbe dovuto trarre dalla situazione ilvantaggio di assicurarsi l’apporto dei lavoratori stranieri senza riconoscere loropieni diritti di cittadinanza.

Un rilevante passo in avanti è stato compiuto nel 1999, con la riforma dellalegge sulla cittadinanza, approvata non senza contrasti dalla nuova maggioran-za rosso-verde. Questa legge, entrata in vigore il 1° gennaio 2000, operando unasignificativa rottura con la consolidata tradizione sopra illustrata, ha riconosciutoper la prima volta ai giovani nati in Germania da immigrati stranieri il diritto diaccedere alla cittadinanza del Paese. Più recentemente (22 marzo 2002) la stes-sa maggioranza ha votato una legge sull’immigrazione, che è stata però annulla-ta dalla Corte Costituzionale prima della sua entrata in vigore per un’indebitaforzatura nel computo dei voti alla Camera dei Länder e non è stata ripresenta-ta per il timore di una sua bocciatura.

2.4 Belgio, Paesi Bassi e LussemburgoLa cultura politica ha esercitato un’influenza importante sulla politica mi-

gratoria anche in altri Paesi. Gioverà iniziare questa rapida rassegna dai tre Pae-si del Benelux, che sono stati alcune delle più tradizionali mete migratorie del-l’Europa occidentale.

Il Belgio (30.518 km2, con poco più di 10 milioni di abitanti) è stato spessoconsiderato un Paese artificiale, inventato dalla diplomazia ottocentesca per ri-solvere il problema di un’area contesa fra le principali potenze europee per lerisorse naturali e la posizione strategica. Ma il Paese ha una sua identità, cui con-

Le nuove migrazioni internazionali 1 1 9

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 119

Page 121: Gli spazi della globalizzazione

corrono elementi diversi. Fra quelli premoderni va ricordata la religione catto-lica, che determinò il rifiuto della sua componente fiamminga di unirsi ai prote-stanti di lingua olandese degli attuali Paesi Bassi e quello della sua componentefrancofona di lasciarsi inglobare nello Stato laicista francese. Fra quelli moder-ni ha giocato un ruolo importante il contributo che il Paese ha dato sin dagli ini-zi al processo d’integrazione che ha portato all’Unione Europea, di cui Bruxel-les è diventata la capitale di fatto.

Nel Belgio l’immigrazione iniziò nella fase della ricostruzione post-bellica.In un primo tempo vi fu un’immigrazione europea (in primo luogo di italiani)per le attività meno gradite alla popolazione locale, fra cui il lavoro nelle minie-re. Più tardi vi fu l’arrivo di africani dalle ex colonie (Congo, Ruanda, Burundi)squassate da distruttivi conflitti. Infine è diventata importante anche l’immigra-zione dal Nord Africa, e più in particolare dal Marocco. Complessivamente, se-condo i dati del 2001, gli immigrati sono 862.000 e la loro percentuale sulla po-polazione, l’8,4%, è una delle più alte in Europa. I tre quarti sono però cittadi-ni comunitari, in gran parte da tempo residenti, e ciò riduce i problemi. La leggedi “naturalizzazione rapida”, entrata in vigore nel maggio 2000, ha favorito l’ac-quisizione della cittadinanza da parte di un numero crescente di stranieri (che so-no arrivati ai 60.000 l’anno, contro i 10.000 scarsi degli anni Ottanta e i 30.000della fine degli anni Novanta). Agli inizi del 2004 l’elettorato amministrativo,senza eleggibilità, è stato esteso agli extracomunitari legalmente residenti da al-meno cinque anni.

I Paesi Bassi sono un’altra nazione costituitasi grazie a un fattore religioso. Siè infatti formata per effetto delle guerre di religione che videro nelle sue regionil’affermazione del protestantesimo calvinista.

Nel 2001, su poco più di 16 milioni di abitanti, vi erano 700.000 immigrati re-golari (di cui il 30% comunitari), pari al 4,3% della popolazione, ma a questo nu-mero si dovrebbero aggiungere gli originari delle ex colonie che al momento del-la loro indipendenza hanno optato per la cittadinanza olandese. Questa consi-stente immigrazione si deve anche alla collocazione geografica del Paese, situatoall’incrocio di importanti vie di comunicazione, e al suo retaggio storico di Paeseaperto ai movimenti di rifugio e centro di un impero coloniale assai vasto, che giun-se a comprendere uno dei più grandi Paesi asiatici, l’Indonesia, alcune isole delleAntille e una parte della Guyana. Dopo una fase in cui, proprio come in Germa-nia, si volle negare ideologicamente il carattere immigratorio del Paese, per gesti-re l’immigrazione è stata adottata una pionieristica politica di pluralismo cultura-le. Recentemente la politica migratoria e di rifugio è diventata più restrittiva.

Il Lussemburgo è un granducato dalle caratteristiche decisamente premo-derne, anche se la sua economia è in gran parte post-moderna. Il suo piccolo ter-ritorio (2600 km2) ospita infatti diverse istituzioni comunitarie, molte organiz-zazioni finanziarie e numerose sedi di imprese multinazionali, attratte da una le-gislazione assai favorevole. Anche per questo il Lussemburgo è diventato il Paesedell’Unione Europea con la più alta percentuale d’immigrati (su meno di

Umberto Melotti1 2 0

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 120

Page 122: Gli spazi della globalizzazione

450.000 abitanti, nel 2001 vi erano 162.000 immigrati, pari al 37% della popo-lazione). Si tratta però, per l’86% (anche in questo caso la percentuale più alta),di cittadini comunitari (il primo gruppo straniero è stato a lungo quello degli ita-liani, cui sono subentrati i portoghesi).

Situato all’incrocio della cultura francese e della cultura tedesca, il Lussem-burgo ne ha subito l’influenza. Il francese e il tedesco sono utilizzati tuttora comelingue ufficiali, accanto al lussemburghese, la parlata francone riconosciuta nel1984 come “lingua nazionale”. Questo singolare trilinguismo caratterizza l’iden-tità del Paese ed è considerato un elemento importante anche per valutare l’inte-grazione degli immigrati, che peraltro tendono a imparare soltanto la lingua cheritengono più utile o meno difficile (che per i più è il francese), anche se ciò liesclude dagli impieghi pubblici, che richiedono la conoscenza delle tre lingue.

Per la cittadinanza vige lo jus sanguinis. Peraltro una nuova legge (entrata invigore il 1° gennaio 2002) ha allargato le maglie della naturalizzazione, sosti-tuendo al precedente requisito di un’almeno parziale assimilazione quello diun’“integrazione sufficiente”, che prevede la conoscenza di una sola delle tre lin-gue sopra citate, purché accompagnata da qualche nozione di lussemburghese.Recentemente (2003) il diritto di voto amministrativo è stato esteso agli extraco-munitari regolarmente residenti da almeno cinque anni.

2.5 Spagna e Portogallo Spagna e Portogallo si spartiscono la penisola iberica, una terra che fu ogget-

to di un’intensa romanizzazione sin dalla sua conquista (iniziata nel III secoloa.C.), con la sola eccezione dell’area più settentrionale, corrispondente al PaeseBasco. La penisola conobbe poi una lunga serie di invasioni barbariche e una pro-tratta dominazione araba, che ne fece per secoli una terra di frontiera e di contattofra cristiani e musulmani. La liberazione dai mori avvenne dall’XI al XV secolo,attraverso una serie di parziali ricuperi territoriali entrati nell’epos della penisolacol nome di Reconquista. Appunto nel corso di questo processo si è forgiata l’i-dentità culturale dei due Paesi iberici.

La Spagna, che fu tra i primi Paesi europei a costituirsi in Stato nazionale, sipresenta oggi come una supranación, cioè una “nazione di nazioni” differenti.La Costituzione del 1978 ha garantito l’autogoverno alle diverse regioni stori-che, accogliendo almeno in parte le rivendicazioni da tempo avanzate da alcunedi loro, fra cui la Catalogna e il Paese Basco.

La Spagna è diventata un Paese d’immigrazione in tempi relativamente re-centi. Si è trattato a lungo di un’immigrazione in gran parte clandestina, prove-niente dall’America Latina e dal vicino Marocco. Una serie di sanatorie ha poiportato il numero degli immigrati regolari a quasi 900.000 nel 2000, su una po-polazione di poco più di 41.000.000 di abitanti, pari al 2,2%. Più di un terzo èperò costituito da cittadini di Paesi dell’Europa centro-settentrionale, in granparte pensionati trasferitisi sulle coste del Mediterraneo o nelle Canarie alla ri-cerca di un clima più mite e di un costo della vita inferiore. Fra i regolari, il pri-

Le nuove migrazioni internazionali 1 2 1

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 121

Page 123: Gli spazi della globalizzazione

mo gruppo nazionale è quello dei marocchini, ormai oltre 200.000. Sul finire del2000 è stata approvata una nuova legge sull’immigrazione, assai più rigida dellaprecedente, per contrastare la formazione di ulteriore irregolarità (nel 2003 ilnumero degli irregolari è stato stimato fra i 600.000 e gli 850.000).

La consistente presenza di musulmani (circa 500.000), in un Paese che si èformato come nazione proprio in opposizione al mondo islamico, suscita diffusediffidenze, che concorrono a ostacolare l’integrazione. Naturalmente i gravissimiattentati di matrice islamica dell’11 marzo 2004 hanno aggravato la situazione.

Il Portogallo, costituitosi in Stato sovrano dopo la liberazione del suo territo-rio dai mori (1263), poté salvaguardare la propria indipendenza dalla Spagna e re-cuperarla, dopo un periodo di assoggettamento (1580-1640), grazie a un insie-me di fattori diversi. Fra questi, la lunga alleanza con l’Inghilterra e l’eccezionalevocazione marittima, che ne consentì la straordinaria proiezione transoceanica,culminata nella formazione di un vasto impero coloniale. Anche per questo l’i-dea portoghese di nazione ha finito per privilegiare la dimensione etnico-cultu-rale, che al tempo del regime salazarista (1932-1974) ha ispirato quell’ideologia lu-sitana che avrebbe dovuto consolidare i rapporti con le colonie e le ex colonie.

Dopo la “rivoluzione dei garofani” (25 aprile 1974), il Portogallo entrò a farparte dell’Europa comunitaria, assieme alla Spagna (1986), in un periodo in cui,da grande Paese di emigrazione qual era stato per secoli, aveva già cominciato adiventare un Paese d’immigrazione. Il quadro è piuttosto complesso: a una con-sistente immigrazione di ritorno, proveniente sia dalle ex colonie, sia dai Paesieuropei, si accompagna infatti un’immigrazione di extracomunitari, per lo più ir-regolari, provenienti dal Brasile e dalle ex colonie africane. Dopo la sanatoriadel 2001, il numero degli immigrati stranieri regolari ha raggiunto le 350.000unità, su circa 10.000.000 di abitanti, pari al 3,5% della popolazione. La nuovalegge sull’immigrazione, approvata nel luglio 2000, prevede condizioni di parti-colare favore per chi risieda in Portogallo dalla nascita o dall’età di dieci anni oabbia figli minorenni.

2.6 Grecia La Grecia, situata nella parte più meridionale dei Balcani, in una terra mon-

tagnosa che si protende nel Mediterraneo con varie penisole, si è costituita in Sta-to nazionale nel 1830, in confini che comprendevano un quarto della popolazio-ne di lingua greca di allora, grazie a un’insurrezione contro i turchi, sostenuta dal-le potenze occidentali interessate a ridimensionare l’Impero ottomano.

Il nuovo Stato, senza continuità storica con la Grecia dell’antichità classica,si richiamò al retaggio culturale di quest’ultima. Ma, a definirne l’identità, con-corre anche la religione ortodossa, che aveva assicurato la distinzione della suapopolazione dal cristianesimo occidentale prima e dal mondo islamico poi. L’ir-redentismo panellenico operò per estendere i confini dello Stato a tutti i territoriabitati da popolazioni ellenizzate ancora sotto il dominio ottomano. Ma, dopouna serie di importanti successi, il Trattato di Losanna (1923), stipulato fra le

Umberto Melotti1 2 2

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 122

Page 124: Gli spazi della globalizzazione

potenze vincitrici della prima guerra mondiale e la nuova Turchia, che avevasconfitto la Grecia in un conflitto locale (1920-21), sancì una “pulizia etnica”che obbligò i greci stanziati in Asia Minore (circa un milione e mezzo) a trasfe-rirsi nel territorio riconosciuto alla Grecia e i turchi della Macedonia, dell’Epi-ro e di Creta (circa mezzo milione) a trasferirsi in quello riconosciuto alla Tur-chia. Il quadro fu completato da uno scambio di popolazione con la Bulgaria,di dimensioni più contenute (circa 100.000 persone per parte), e da spostamen-ti spontanei che interessarono i greci dell’Albania, della Romania e della Mace-donia serba e i valacchi dell’Epiro e della Macedonia greca.

L’emigrazione ha rappresentato per la Grecia una costante e spesso dura ne-cessità. Sin dall’antichità le scarse risorse del suo territorio hanno determinatouna consistente emigrazione, che ha portato alla fondazione di numerosissimecolonie e a una diaspora mercantile in tutte le principali città del Mediterraneo.Negli ultimi due secoli a questi flussi si sono aggiunte le migrazioni transoceani-che. Solo fra il 1881 e il 1915 partirono per le Americhe oltre 320.000 greci, suuna popolazione passata in quegli anni da 1.700.000 a 2.600.000 unità. Dopo laprima guerra mondiale l’emigrazione continuò, sia pur per numeri più contenu-ti, per la pressione costituita dai citati scambi di popolazione. Nel secondo do-poguerra il movimento riprese a un ritmo sostenuto: in vent’anni, fra il 1955 e il1975, emigrarono 1.200.000 persone, di cui il 60% verso i Paesi industriali del-l’Europa centro-occidentale. Nella seconda metà degli anni Settanta, anche perla crisi economica che colpì quei Paesi, l’emigrazione si contrasse fortemente eaumentarono i rientri, determinando saldi migratori per la prima volta attivi do-po le migrazioni forzate degli anni Venti Nel 1980 vivevano negli Stati Uniti qua-si un milione di cittadini di origine greca, secondo i dati ufficiali americani(1.250.000, secondo quelli greci). In Unione Sovietica nel 1989 (data del suo ul-timo censimento) i cittadini di nazionalità greca erano 360.000. In Europa occi-dentale vivono oggi oltre 600.000 greci, con una forte concentrazione in Germa-nia. In Australia ne vivono regolarmente oltre 420.000 e in Canada quasi 200.000.Altri 120.000 vivono in Africa, 50.000 in America Latina e 30.000 in Israele.

Ciò nondimeno, a partire dagli anni Settanta, anche la Grecia è diventata unPaese d’immigrazione. Fra il 1971 e il 1981 il numero degli stranieri legalmenteresidenti nel Paese si è quasi raddoppiato, passando da 94.000 a 181.000, men-tre almeno 60.000 erano i clandestini. L’immigrazione è poi continuata, con pic-chi che hanno raggiunto i 70-80.000 arrivi regolari l’anno agli inizi degli anniNovanta. Si è così arrivati nel 2000 a più di un milione d’immigrati su circa10.500.000 abitanti. Gli immigrati regolari erano 655.000, pari al 6,2% della po-polazione, mentre gli irregolari erano valutati ad almeno 400.000, prima dellasanatoria del maggio-agosto 2001. Il gruppo più consistente è costituito daglialbanesi. Numerosi sono i “greci etnici” provenienti dall’Albania e dalle ex re-pubbliche sovietiche. Per loro è previsto un trattamento più favorevole di quel-lo riservato agli altri immigrati. Fra questi vanno ricordati i polacchi, giunti sindagli inizi degli anni Ottanta per la crisi economica del loro Paese; i serbi, arri-

Le nuove migrazioni internazionali 1 2 3

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 123

Page 125: Gli spazi della globalizzazione

vati per lo più dalla Bosnia, con motivazioni di rifugio politico; i curdi, prove-nienti dalla Turchia e dall’Iraq; i palestinesi, attratti dalla buona accoglienza lo-ro riservata per accattivarsi i Paesi arabi in vista delle decisioni internazionali sulfuturo di Cipro. Non mancano però i normali immigrati economici, fra cui i fi-lippini e i cingalesi, in gran parte donne dedite al lavoro domestico.

2.7 AustriaL’Austria si è costituita in Stato nazionale moderno dopo la prima guerra

mondiale (1918) e ha ricuperato la propria indipendenza, perduta per l’Ansch-luss con la Germania nazista, al termine della seconda (1945), anche se è poi re-stata occupata per un decennio dalle quattro potenze vincitrici. Il Paese, di di-mensioni modeste (84.000 km2), ha un numero di abitanti limitato (circa8.000.000 nel 2000) e una densità relativamente bassa (95 ab. per km2), per lasua natura montagnosa.

La piccola Austria di oggi è però l’erede di un grande impero multietnico,multinazionale e multiculturale, cui costantemente rimandano le sue memorie.È stata infatti il cuore del Sacro romano impero (dal 1493) e poi dell’Impero au-striaco (dal 1806) e dell’Impero austro-ungarico (dal 1867). A Vienna hanno co-sì fatto capo per secoli genti di lingue e culture diverse. In passato l’Austria è sta-ta anche il baluardo del cattolicesimo in Europa orientale, sia contro il prote-stantesimo, sia contro l’islamismo (fermato alle porte di Vienna nel 1683).

Paese di illuminate riforme nel Settecento, divenne nell’Ottocento il bastio-ne della reazione e intervenne, in “santa alleanza” con la Prussia e la Russia za-rista, a reprimere i movimenti nazionali che agitarono l’Europa per oltre un se-colo. Ma proprio lo spiccato carattere multinazionale del suo Impero ne feceuno straordinario laboratorio per lo studio delle nazionalità. Di particolare ri-lievo fu il contributo dei suoi studiosi di orientamento marxista, fra cui OttoBauer (1907), che guardò originalmente alla nazione come a una «comunanza didestino» forgiata da una plurisecolare storia condivisa.

Al confronto della sua vivacissima cultura del primo Novecento, l’Austriadel secondo dopoguerra appare un Paese sin troppo ripiegato su sé stesso: unpiccolo Stato monoetnico racchiuso fra le sue montagne e isolato anche dal pun-to di vista politico, perché ridotto al ruolo di una provincia periferica dell’Occi-dente in uno dei più delicati confini coi Paesi del Patto di Varsavia. Col tracollodei regimi dell’Est e la crisi balcanica, anche l’Austria è però diventata un Paesed’immigrazione, in gran parte non richiesta. Ciò ha alimentato reazioni xenofo-be, frammiste alle rivendicazioni identitarie.

Nel 2003 l’Austria, su 8.067.000 abitanti, contava 709.000 stranieri, pocomeno del 9% della popolazione, per l’86% extracomunitari (in ciò seconda so-lo all’Italia, dove però la percentuale degli stranieri era un quarto della sua). Ipiù sono presenti per motivi di lavoro, ma molti sono i rifugiati. Le naturalizza-zioni, stimolate dalla difficoltà di trovare lavoro per chi sia privo della cittadi-nanza, sono abbastanza numerose (circa 25.000 all’anno).

Umberto Melotti1 2 4

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 124

Page 126: Gli spazi della globalizzazione

2.8 SveziaLa Svezia è per dimensioni (circa 450.000 km2) il terzo Paese dell’Unione

Europea, dopo la Francia e la Spagna. I due terzi più settentrionali della sua su-perficie sono però quasi disabitati e solo il restante terzo, dal clima più mite, è ab-bastanza densamente popolato. Qui vive il 90% dei suoi 9 milioni di abitanti,con forti addensamenti nelle aree urbane di Stoccolma, Göteborg e Malmö, eciò rende poco significativa la sua bassa densità media (22 ab./km2). La popola-zione autoctona è piuttosto omogenea, tanto dal punto di vista etnico quanto daquello religioso (domina nettamente il luteranesimo della Chiesa nazionale), aparte le due piccole minoranze dei finnici (circa 30.000) e dei lapponi (circa10.000), che vivono nella regione settentrionale.

Il Paese, in virtù della sua neutralità, ha attraversato quasi indenne le duegrandi guerre mondiali e si è così potuto dedicare alla costruzione di una societàdel benessere che lo colloca da tempo, per “sviluppo umano”, al terzo posto nelmondo, preceduto solo da due altri Paesi nordici, la Norvegia e l’Islanda. Il mo-dello sociale cui si deve tale successo è stato introdotto dalla socialdemocrazia,al governo sin dagli anni Trenta con pochi intervalli.

Fino ad allora la Svezia era stata un Paese di emigrazione, soprattutto verso gliStati Uniti (1.200.000 persone tra il 1850 e il 1920, un quinto dei suoi abitanti diquel tempo). L’immigrazione iniziò già negli anni Trenta e si accelerò nel dopo-guerra, stimolata dal suo rapido sviluppo. Almeno agli inizi la politica migratoriadel Paese fu decisamente aperta. Del resto i numeri erano piuttosto contenuti(negli anni Cinquanta circa 10.000 arrivi l’anno) e gli immigrati provenivano ingran parte dai vicini Paesi nordici, con cui la Svezia aveva stretto rapporti cheavrebbero portato alla costituzione di un mercato comune del lavoro (1954). Neidue decenni successivi l’immigrazione aumentò considerevolmente (negli anniSessanta gli arrivi furono dai 30.000 ai 60.000 l’anno) e nel 1972, al tempo della“crisi del petrolio”, la Svezia, a richiesta dei suoi potenti sindacati, fu il primoPaese a chiudere le frontiere all’immigrazione per motivi di lavoro. Ma ciò non nedeterminò un arresto totale, perché il blocco non poteva concernere i cittadinidei Paesi nordici. Nel 1980 i lavoratori nati all’estero arrivarono così a circa500.000 (pari al 10% della forza-lavoro), la metà dei quali con cittadinanza sve-dese acquisita per naturalizzazione. Nel frattempo era cresciuto anche il numerodei rifugiati dai Paesi del Terzo Mondo (iraniani, iracheni, cileni, argentini, pe-ruviani, curdi ed eritrei). Il numero delle domande di asilo crebbe ancora nel de-cennio seguente, sino ad arrivare a oltre 170.000 fra il 1992 e il 1994 (in gran par-te originari dell’ex Jugoslavia). Del resto, per motivi umanitari, la Svezia accetta-va anche domande di asilo non rispondenti ai requisiti previsti dalla Convenzionedi Ginevra. Così alla metà degli anni Novanta su 8,8 milioni di abitanti arrivò acontare quasi un milione di nati all’estero e le “persone di origine straniera” (cioèquelle che avevano almeno un genitore nato all’estero) erano 1,6 milioni, quasiun quinto dei suoi abitanti (gli “stranieri” però erano molti di meno: ancora nel2003 non arrivavano a 500.000, circa il 5% della popolazione).

Le nuove migrazioni internazionali 1 2 5

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 125

Page 127: Gli spazi della globalizzazione

La politica per gli immigrati è stata sin dagli inizi abbastanza originale. Purprevedendo un legame fra permesso di soggiorno e permesso di lavoro, la Sve-zia trattava i suoi immigrati non come “lavoratori ospiti”, ma come persone dipari dignità e assicurava loro diritti economico-sociali uguali a quelli dei suoicittadini. Inoltre, dal 1975, furono loro riconosciuti anche dei diritti culturali,nell’ambito di un dichiarato “multiculturalismo” che trovò attuazione soprat-tutto nelle scuole. A monte di questa impostazione vi era una specifica culturapolitica, che si era andata definendo contestualmente all’affermarsi del welfa-re State. In Svezia in effetti si pensa che i cittadini, per tutti i loro possibili biso-gni (dovuti a vecchiaia, malattia, incidenti ecc.), debbano contare non già sui fa-migliari o sugli amici, ma su istituzioni pubbliche deputate a dispensare le ne-cessarie prestazioni, concepite come diritti di “cittadinanza sociale”. Quandonel Paese fecero la loro comparsa gli immigrati, tale impostazione fu applicataanche a loro, dato anche che la cittadinanza non era concepita come un chiaroe netto confine. Da un lato vigono norme assai liberali per la sua acquisizione(bastano cinque anni di residenza legale, ridotti a due soli per i cittadini dei Pae-si nordici). Dall’altro non è richiesta neanche per l’elettorato amministrativoattivo e passivo (dal 1975 bastano tre anni di permanenza legale). In realtà ilpermesso di residenza, soprattutto se permanente, configura una condizioneintermedia fra quella dello straniero e quella del cittadino, con rilevanti conse-guenze giuridiche.

2.9 SvizzeraLa Svizzera è uno dei Paesi europei con il maggior numero relativo d’immi-

grati: 1.485.000, nel 2003, pari al 20,3% della popolazione, la percentuale più al-ta dopo quella dei due piccolissimi Stati del Liechtenstein e del Lussemburgo.

Pur di dimensioni limitate, tanto per estensione (41.000 km2) che per popo-lazione (poco più di 7.350.000 abitanti), la Svizzera comprende cantoni di linguadiversa (circa il 64% della popolazione parla tedesco, il 20% il francese, il 6,5%l’italiano, lo 0,5% il ladino retoromancio), alcuni di prevalente religione catto-lica e altri di prevalente religione protestante. Il Paese è caratterizzato da unasingolare cultura politica. Fondamento della nazione è la fedeltà alla Costitu-zione (1848), che, assicurando l’autonomia dei cantoni, consente di trascende-re, nel momento stesso in cui le riconosce, le particolarità etnico-culturali pre-senti nella Confederazione e, più in particolare, le pur importanti differenze lin-guistiche e religiose, che avevano alimentato in precedenza sanguinosi conflitti.

La cittadinanza si acquista tramite l’appartenenza a uno di questi cantoni.Per gli stranieri è però assai difficile (e anche costoso) ottenerla, dato anche cheassicura dei consistenti benefici economici, mentre è più facile conseguire la re-sidenza permanente e i relativi diritti.

La paura dell’Überfremdung (l’“inforestieramento”) ha sollecitato varie ini-ziative referendarie intese a espellere gli immigrati e a bloccare l’immigrazio-ne. Tali iniziative sono però sempre state respinte a maggioranza. Da ultimo,

Umberto Melotti1 2 6

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 126

Page 128: Gli spazi della globalizzazione

nel 2000, è stata sconfitta anche la proposta di limitare il numero degli immi-grati al 20% della popolazione, il che avrebbe comportato una chiusura pres-soché totale all’immigrazione, poiché in quell’anno gli stranieri già ne rappre-sentavano il 19,8%. La Svizzera, Paese costituzionalmente neutrale, sede eu-ropea dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sede principale della CroceRossa internazionale, dell’Ufficio internazionale del lavoro e dell’Organizza-zione mondiale delle migrazioni, fa, d’altro canto, ben più che la sua parte perl’accoglienza dei rifugiati, secondo la Convenzione firmata oltre cinquant’annifa (1951) in una delle sue principali città, Ginevra.

2.10 Stati Uniti d’AmericaGli Stati Uniti, Paese d’immigrazione originaria, hanno conosciuto nel cor-

so del tempo migrazioni e politiche migratorie diverse.Dopo l’arrivo dall’Inghilterra dei primi coloni (1607) e poi dei “padri pelle-

grini” che l’avevano lasciata per motivi religiosi (1620), vi furono ben presto ar-rivi da molti altri Paesi e già nel Settecento si pensava che vi si stesse formandoun “uomo nuovo” per effetto della fusione di genti di origine diversa8. Con lacontinuazione delle immigrazioni, che comportò arrivi sempre più numerosi diirlandesi, tedeschi, polacchi, italiani, russi, greci ecc., di religione cattolica, ebrai-ca e ortodossa, prevalse però poi la convinzione che i nuovi venuti dovessero“assimilarsi” alla componente wasp (cioè bianca, anglosassone e protestante),costituita dai discendenti dei “padri fondatori” (l’“assimilazione” non fu peròmai ipotizzata né per gli indiani d’America, né per i discendenti degli africaniportati come schiavi nel Nuovo Mondo). Tuttavia non scomparve mai del tuttol’idea che l’americano dovesse costituire un quid novi et pluris rispetto alle ori-ginarie identità degli immigrati e questa idea ispirò agli inizi del Novecento laforte metafora del melting pot, il crogiuolo ove si compie la fusione dei metalli.

Già subito dopo la prima guerra mondiale ci si dovette però rendere contodell’esistenza di hyphenated Americans, cioè di “americani col trattino” (gli ita-lo-americani, i polacco-americani, i russo-americani, i greco-americani, gli ispa-no-americani, gli ebrei-americani, per lo più provenienti dall’Europa orientaleecc.), che conservavano in parte le identità originarie. Fu questo poi anche il ca-so degli afro-americani, prima neppure considerati, degli “ispanici” dell’Ame-rica Latina, degli arabi del Nord Africa e del Medio Oriente e degli asiatici pro-venienti da Cina, Giappone, Vietnam, Corea, Filippine ecc. Alcune di questecomponenti si rivelarono però resistenti alla “fusione” e si parlò per loro di un-meltable ethnics, cioè di “etnici non amalgamabili”. Il revival etnico degli anniSessanta suscitò del resto forti rivendicazioni identitarie. Anche per questo ilPaese ha finito per ridefinirsi in chiave multietnica e multiculturale, anche secon taluni eccessi di zelo che hanno suscitato legittime preoccupazioni9.

Non mancano del resto i problemi. Dagli anni Sessanta l’immigrazione èsempre stata assai consistente e la quota della popolazione nata all’estero ha su-perato nel 2000 il 10%. I nuovi immigrati tendono a concentrarsi in ghetti ur-

Le nuove migrazioni internazionali 1 2 7

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 127

Page 129: Gli spazi della globalizzazione

bani, ove si accumulano le tensioni ed esplodono di tanto in tanto distruttiveforme di conflittualità (basti qui ricordare il caso di Los Angeles, messa a ferroe fuoco per sei giorni nel 1992 da gruppi etnici esasperati e violenti, con oltre600 incendi e 50 morti).

Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 l’entusiasmo per il multiculturali-smo si è molto raffreddato, mentre si sono moltiplicati i riferimenti allo “scontrodelle civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo che era stato teorizzato qualcheanno prima da un politologo di Harvard in un libro molto discutibile10. Ma di ciònon c’è da stupirsi: habent sua fata libelli.

2.11 CanadaIl Canada è un altro Paese d’immigrazione originaria che, a conclusione di un

lungo processo storico, ha ridefinito la sua politica per gli immigrati e la sua stes-sa identità in chiave multiculturale.

La sua cultura politica è peraltro ben diversa da quella degli Stati Uniti ancheper effetto dell’assai più prolungata influenza britannica in gran parte del Paesee della persistente influenza francese in alcune sue parti. D’altra parte la sceltadel multiculturalismo ha rappresentato anche una risposta, parziale e non da tut-ti condivisa, a uno dei suoi principali problemi: la sua storica suddivisione in un’a-rea anglofona e in un’area francofona. Si aggiunga che la provincia prevalente-mente francofona, il Québec, è da tempo agitata da fermenti indipendentisti, an-che se l’ultima iniziativa referendaria per la sua sovranità (1995) è stata respintadi stretta misura col voto determinante dei cittadini di recente immigrazione, fracui quelli di origine italiana, terza componente storica della popolazione.

Qualche riferimento geografico e storico può aiutare a inquadrare la situa-zione. Il Canada, che ha un territorio più vasto di quello degli Stati Uniti(9.975.000 km2), è abitato da meno di 32 milioni di persone (2003), dei quali piùdi 10 milioni, circa un terzo, di origine non britannica né francese. La densità èancora di soli 3 abitanti per km2 (anche se la popolazione è concentrata per il90% nella cosiddetta “fascia utile”, una striscia lungo il suo confine meridiona-le profonda solo 300 km) e il suo reddito medio annuo pro capite è uno dei piùalti del mondo: 28.600 dollari nel 2002.

Colonizzato inizialmente dai francesi, il Canada passò sotto il dominio bri-tannico dopo la guerra dei sette anni (1763). I coloni francesi ottennero però chefossero rispettate la loro lingua e la loro cultura e fossero confermati i privilegidella Chiesa cattolica. All’unione fra la parte francofona e la parte anglofona fudata forma confederale nel 1867. Lo sviluppo del Paese, accelerato dalla sco-perta dell’oro del Klondike (1896), stimolò l’immigrazione. Un più duraturo im-pulso allo sviluppo provenne poi dalla costruzione delle grandi ferrovie. Ciòportò all’interno, assieme ai cinesi (giunti per la ricerca dell’oro e il lavoro alle fer-rovie) e agli europei (tedeschi, ucraini, russi, ungheresi, scandinavi ecc., giuntiper motivi più vari), anche dei consistenti gruppi di francofoni provenienti dal-la costa orientale.

Umberto Melotti1 2 8

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 128

Page 130: Gli spazi della globalizzazione

Diventato indipendente nel 1931, il Paese conobbe dopo la seconda guerramondiale un ulteriore periodo sviluppo, che richiamò molta manodopera anchequalificata (oltre tre milioni d’immigrati fra il 1946 e il 1968). Al censimentodel 1971 la popolazione risultò così composta non più soltanto di anglofoni(44,6%) e di francofoni (28,7%), ma anche di consistenti gruppi d’immigrati dialtra origine (26,7). Fu questa accresciuta diversità, in un contesto caratterizzatoda una notevole disponibilità di risorse, a ispirare la scelta multiculturale.

Nei primi novant’anni di vita della Confederazione era prevalsa la convinzio-ne che gli immigrati dovessero assimilarsi nella nazione canadese, concepita co-me eminentemente bianca e anglosassone. Per questo l’immigrazione di coloreera contrastata, mentre era favorita quella dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uni-ti. L’emanazione del Canadian Bill of Rights (1960), che bandiva ogni discrimi-nazione per razza, sesso, origine, colore e religione, comportò un cambiamentodelle norme federali sull’immigrazione (1962). Gli immigrati dai Caraibi, dall’A-frica e dall’Asia aumentarono considerevolmente e la popolazione di origine nonbritannica né francese arrivò a costituire il 42% degli immigrati nel 1991. A ciò siaccompagnò il passaggio a una politica di pluralismo culturale. Nel 1971 il pre-mier Pierre Elliot Trudeau annunciò il «multiculturalismo nel quadro del bilin-guismo», cui seguì il riconoscimento del diritto delle popolazioni autoctone al-l’autogoverno. Questa rottura col passato fu poi formalizzata nel 1988 dal Cana-dian Multiculturalism Act.

Il multiculturalismo era inteso come un programma di azione inteso a favo-rire la convivenza e la collaborazione nel mutuo rispetto dei numerosi gruppietnici presenti nel Paese. Ma non fu accolto da tutti con favore. I francofoni, inparticolare, non hanno nascosto la loro ostilità per una politica ritenuta in con-trasto col loro primo obiettivo, la survivance come “nazione”. Molti di loro con-siderano addirittura offensivo il multiculturalismo, che li pone sullo stesso pia-no dei gruppi etnici sorti dalle recenti immigrazioni, ignorando quello status pri-vilegiato cui credono di aver diritto per la loro particolare consistenza e il loroplurisecolare insediamento nel Paese. D’altra parte nelle province anglofone ilpaesaggio etnico, ben lungi dal configurarsi come almeno tendenzialmenteugualitario, costituisce ancora un “mosaico verticale”, al cui vertice vi sono i ca-nadesi di origine britannica, un po’ più sotto quelli di origine francese, verso lametà quelli di altra origine europea e molto più in basso le minoranze etnichevisibili e i gruppi indigeni. Ma il mosaico è decisamente dinamico11.

2.12 AustraliaL’Australia è un’altra ex colonia britannica che trae origine da un processo im-

migratorio di lunga durata, caratterizzato da ondate di genti di provenienza di-versa. La popolazione (quasi 20 milioni di abitanti, su un territorio di 7.683.000km2, peraltro solo in piccola parte abitabile) è in netta prevalenza di origine euro-pea ed è tuttora costituita per quasi un quarto d’immigrati recenti, per gestire iquali si è da tempo optato per una politica multiculturale.

Le nuove migrazioni internazionali 1 2 9

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 129

Page 131: Gli spazi della globalizzazione

Peraltro, come in Canada, a lungo prevalse la difesa del carattere “bianco”del Paese. Per questo fu contrastata l’immigrazione dei cinesi, la cui pressionecominciò a farsi sentire subito dopo la scoperta dei giacimenti auriferi del Nuo-vo Galles del Sud (1851) e di Victoria (1856) e furono espulsi i braccianti mela-nesiani in precedenza introdotti per il lavoro nelle piantagioni di canna da zuc-chero. A questo orientamento razzista si accompagnò una politica assimilazio-nista, ispirata al principio dell’anglo-conformity. Il rifiuto dell’immigrazioneasiatica e la preferenza per quella dell’Europa centro-settentrionale persistetteanche dopo la seconda guerra mondiale, con l’intento di forgiare una «razza uni-ta», come affermò ancora alla fine degli anni Sessanta il ministro australiano del-l’immigrazione12.

Per le sua necessità di forza-lavoro, non più appagata dall’offerta europea,l’Australia aveva allora già cominciato ad aprirsi alle nuove correnti migrato-rie. Ciò la portò poi a optare per una politica d’integrazione caratterizzata dal-l’accettazione della diversità culturale almeno nella sfera privata (1966). Pochianni dopo giunse l’affermazione del carattere «multirazziale e multiculturale»del Paese, nel rispetto dei princìpi di una società democratica (1973). Si tratta-va di un’autentica svolta, ispirata alla politica canadese. Ma il governo laburistaaustraliano diede al suo multiculturalismo un carattere più schiettamente so-ciale di quello del Canada, varato da un governo liberale. Ciò comportò un no-tevole incremento dei costi e crescenti resistenze nella popolazione. Di conse-guenza a tale politica fu poi dato un colpo di freno, accompagnato da una nuo-va chiusura all’immigrazione soprattutto asiatica.

Umberto Melotti1 3 0

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 130

Page 132: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo terzoLa comunitarizzazione delle politiche migratorie europee

Da qualche anno si assiste in Europa a una convergenza delle politiche mi-gratorie. Ciò si deve anche alla loro incipiente comunitarizzazione, nell’ambitodel processo d’integrazione europea.

Gioverà richiamare che già negli anni Cinquanta Francia, Repubblica Fede-rale Tedesca, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo avevano costituito le pri-me comunità europee, cui aderirono poi anche Regno Unito, Irlanda e Dani-marca (1973), Grecia (1981), Spagna e Portogallo (1986), Svezia, Austria e Fin-landia (1995). Ciò portò alla formazione di un grande “mercato comune”, cheprevedeva anche la libera circolazione dei loro lavoratori.

Il 14 giugno 1985 Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Paesi Bas-si e Lussemburgo sottoscrissero l’Accordo di Schengen, cui poi aderirono, a ec-cezione del Regno Unito e dell’Irlanda, tutti gli altri Paesi dell’attuale UnioneEuropea. Si trattava di un’iniziativa aperta ai soli Stati membri, ma quando viaderirono la Svezia e la Finlandia i suoi effetti furono estesi alla Norvegia e all’I-slanda, loro associate da un precedente patto regionale. L’accordo, che divenneoperativo il 26 marzo 1995 per sette Paesi e in una data successiva per i restanti(per l’Italia il 26 ottobre 1997), prevedeva l’eliminazione dei controlli alle fron-tiere fra i Paesi aderenti e la loro sostituzione con controlli alle loro frontiere conaltri Paesi. L’immigrazione era presa in considerazione per gli aspetti più diret-tamente pertinenti alla sicurezza e all’ordine pubblico. Nel frattempo la Con-venzione di Dublino, sottoscritta il 15 giugno 1990 da 11 Stati europei (che di-vennero 12 l’anno seguente, con l’adesione della Danimarca), provvide a definirealcune questioni relative all’asilo, con l’intento di giungere a un’armonizzazionedelle normative. La convenzione entrò in vigore il 1° settembre 1997.

3.1 Dal Trattato di Maastricht al Trattato CostituzionaleUn decisivo impulso al processo d’integrazione europea fu dato dal Trattato

di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre1993, che istituì fra gli Stati comunitari l’Unione Europea, un’organizzazionedall’orientamento più schiettamente politico e dalle competenze più vaste. Iltrattato previde l’instaurazione di un’unione economica e monetaria, con l’in-troduzione di una “moneta unica”, estese le funzioni del Parlamento europeo eistituì la “cittadinanza europea” per i cittadini degli Stati membri. L’Unione Eu-

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 131

Page 133: Gli spazi della globalizzazione

ropea poggia su tre “pilastri”: il primo, costituito dalle materie già di compe-tenza delle preesistenti comunità, opera col metodo soprannazionale, che attri-buisce agli Stati membri un ruolo solo secondario; gli altri due, che compren-dono materie in precedenza di competenza esclusiva degli Stati (la politica este-ra e la sicurezza comune il secondo, la giustizia e gli affari interni il terzo),utilizzano il metodo intergovernativo che lascia l’ultima parola ai rappresentan-ti degli Stati. L’immigrazione, pur riconosciuta come «questione d’interesse co-mune», fu inserita nel terzo pilastro.

Il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1°maggio 1999, trasferì però dal terzo al primo pilastro quasi tutta la cooperazio-ne per la giustizia e gli affari interni, fra cui l’azione comune in materia d’immi-grazione e di asilo, pur prevedendo un quinquennio di transizione dalla sua en-trata in vigore. Un protocollo allegato al trattato operò l’inserimento nell’Unio-ne Europea anche dell’acquis di Schengen, che fu ripartito fra il primo e il terzopilastro. Quel protocollo non fu però sottoscritto dal Regno Unito e dall’Irlan-da, che non avevano aderito allo stesso accordo di Schengen, e dalla Danimarca,che si riservò di accettare le singole decisioni. La comunitarizzazione è restatadunque imperfetta e a geometria variabile. Peraltro ha aperto una fase nuova,caratterizzata dalla convergenza delle politiche degli Stati membri.

Il Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999) riconobbe esplicita-mente la necessità di una politica comune in tema di asilo e immigrazione e sol-lecitò un avvicinamento delle legislazioni nazionali relative all’ammissione e alsoggiorno dei cittadini dei Paesi terzi. Secondo il Consiglio, bisognava operaresulla base di una valutazione della situazione demografica ed economica sia deiPaesi dell’Unione, sia dei Paesi di origine dei flussi, senza trascurare i legami sto-rici esistenti fra alcuni di loro. In concreto, bisognava contemperare gli interes-si degli uni e degli altri e favorire l’immigrazione legale anche per contrastarequella clandestina. A tal fine fu caldeggiato il ricorso al partenariato con i Paesidi provenienza e di transito e il riconoscimento agli immigrati di un “equo trat-tamento” che prevedesse per quelli da tempo legalmente residenti diritti e doveri“analoghi” a quelli dei cittadini dell’Unione. Per quanto concerne l’asilo, ri-chiamato il doveroso rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951, fu rico-nosciuta l’opportunità di forme di protezione “sussidiaria” per le persone biso-gnose di tutela non rientranti nella sua definizione dei “rifugiati”. Il documen-to conclusivo sottolineò l’esigenza di un «accostamento generale al fenomenomigratorio» che prendesse in considerazione anche lo sviluppo dei Paesi di ori-gine e superasse l’“opzione zero” che aveva a lungo caratterizzato la politica mi-gratoria dei principali Paesi membri.

Nello stesso spirito l’Agenda sociale europea, approvata dal Consiglio di Niz-za (7-8-9 dicembre 2000), precisò che la lotta contro la povertà e l’esclusione so-ciale doveva essere integrata da azioni intese a garantire la parità di trattamentoa tutti i cittadini dei Paesi terzi legalmente residenti nell’Unione. La parità ditrattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica è poi diventata

Umberto Melotti1 3 2

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 132

Page 134: Gli spazi della globalizzazione

una norma di legge in tutti i Paesi membri per effetto di una precedente diretti-va del Consiglio dell’Unione.

Nel frattempo la Commissione europea aveva adottato due importanti “co-municazioni” sull’asilo e sull’immigrazione (22 novembre 2000). In materia diasilo, la Commissione affermò la necessità di raggiungere un punto di equilibriotra il rispetto dell’ammissione umanitaria e la lotta contro l’immigrazione ille-gale. In materia d’immigrazione proclamò che l’integrazione degli immigrati re-golari deve costituire una priorità per l’Unione Europea, «realtà di per sé plura-listica, arricchita da una varietà di tradizioni culturali e sociali, la cui diversità èdestinata ad aumentare in futuro»13. Secondo la Commissione, occorreva ri-spettare tali differenze, senza però dimenticare i princìpi e i valori che forse trop-po ottimisticamente dava per condivisi da tutti gli europei: «i diritti e la dignitàdell’uomo, la valutazione positiva del pluralismo e il riconoscimento che l’ap-partenenza alla società si basa su una serie di diritti, ma comporta altresì una se-rie di responsabilità per tutti gli appartenenti, nazionali o immigrati che siano».L’indicazione era per una strategia integrata che guardasse all’immigrazione co-me a un processo multidimensionale e di ampio respiro e prevedesse interventiin più direzioni, compresa la cooperazione allo sviluppo, volano importante percontenere i fattori espulsivi presenti nei Paesi di esodo. Questo orientamentotrovò una conferma al Consiglio europeo di Laeken (14-15 dicembre 2001), il cuirisultato più significativo fu però la convocazione di una Convenzione incarica-ta di stendere un progetto di Costituzione europea.

Il più importante sviluppo di questo periodo si ebbe al vertice di Copena-ghen (12-13 dicembre 2002), che sancì l’allargamento dell’Unione a 25 Stati,con l’ammissione, entro il primo semestre del 2004 di Polonia, Ungheria, Re-pubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta e Cipro.L’adesione di Romania e Bulgaria fu invece rimandata al 2007, per la loro in-soddisfacente situazione economica, mentre l’apertura di un negoziato ufficia-le con la Turchia fu rinviata a data da determinare non solo per i motivi esplici-tamente addotti (la sua situazione politica ed economica, la questione di Ciproe il trattamento delle minoranze), ma anche per la sua imbarazzante connota-zione di Paese islamico e il suo carattere di grande Paese di emigrazione (la Tur-chia, che conta 67 milioni di abitanti, che ne farebbero il secondo Paese più po-poloso dell’Unione, ha oltre 3 milioni di emigrati in Europa, per i 2/3 in Ger-mania, ove i suoi cittadini costituiscono il primo gruppo straniero).

Il vertice di Salonicco (19-20 giugno 2003) riconobbe l’«assoluta priorità»della problematica migratoria e sottolineò l’esigenza di combattere l’immigra-zione clandestina e di aprirsi maggiormente a quella legale. In tale contesto af-fermò l’opportunità di operare per l’integrazione dei migranti regolari con stan-ziamenti più adeguati. Per quanto concerne l’elaborazione di una politica co-mune in materia di immigrazione clandestina, frontiere esterne, rimpatrio deiclandestini e cooperazione con i Paesi terzi, caldeggiò la definizione di un’im-postazione coerente, a livello dell’Unione, dell’identificazione biometrica. Sol-

Le nuove migrazioni internazionali 1 3 3

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 133

Page 135: Gli spazi della globalizzazione

lecitò inoltre la Commissione a esaminare la possibilità d’istituire una strutturaoperativa specifica per rafforzare il controllo delle frontiere esterne. Anche peril rimpatrio degli immigrati illegali, di competenza degli Stati membri, proposeun rafforzamento della cooperazione, con eventuali strumenti comunitari.

In questi anni, peraltro, l’Unione Europea ha dovuto fare i conti con l’esacer-barsi dello scontro tra fondamentalismo islamico e Occidente, per gli attentatidell’11 settembre 2001 e gli interventi militari americani in Afghanistan e in Iraq,con la partecipazione del Regno Unito e il sostegno di altri Paesi dell’Unione, fracui l’Italia e la Spagna, e del più importante Paese candidato, la Polonia. Questieventi drammatici hanno indotto le istituzioni europee a riesaminare anche la po-litica dell’immigrazione nell’ottica della sicurezza, pur sottolineando la necessitàdi non penalizzare gli immigrati provenienti da determinati Paesi.

In questo contesto, caratterizzato dall’acuirsi della pressione migratoria an-che in conseguenza diretta e indiretta degli eventi bellici e dalla ripresa del ter-rorismo islamico contro i cittadini dei Paesi europei (poi culminato nei sangui-nosi attentati di Madrid dell’11 marzo 2004), si è trovato a operare il governoitaliano, durante il suo semestre di presidenza europea (luglio-dicembre 2003).In tema d’immigrazione il ministro dell’interno Giuseppe Pisanu ha avanzatosubito due proposte intese a contrastare con più efficacia l’immigrazione clan-destina, che nel precedente quinquennio aveva portato in Europa tra i 500.000e i 700.000 irregolari l’anno. La prima concerneva l’attraversamento dei Paesimembri da parte dei convogli degli immigrati espulsi; la seconda l’organizza-zione di voli congiunti per l’espulsione dei clandestini. In sintesi, i clandestiniche non avessero ottenuto l’asilo sarebbero dovuti essere espulsi rapidamente,con accompagnamento ai Paesi di origine o ai confini dell’Unione, per iniziati-va di due o più Stati membri, con mezzi debitamente scortati.

Queste proposte sono state poi integrate dal cosiddetto Piano Nettuno. Isuoi quattro punti sono: determinazione di quote europee d’ingressi regolari,aiuti economici ai Paesi di origine e di transito dei clandestini in cambio di un im-pegno a contrastare le migrazioni illegali, gestione integrata dei confini dell’U-nione Europea, misure severe contro le organizzazioni che gestiscono le migra-zioni clandestine e il traffico di esseri umani. Per tutelare e monitorare gli in-gressi legali, è stato proposto l’inserimento nei documenti di dati biometriciidonei a un riconoscimento sicuro: oltre alle impronte digitali (già utilizzate dalsistema Eurodac, entrato in vigore il 15 gennaio 2003), anche gli elementi ne-cessari al riconoscimento iridico e facciale. D’altra parte è stata anche segnalatal’opportunità di una revisione migliorativa delle direttive in vigore in tema d’in-gressi per studio, lavoro e asilo politico e della stessa definizione del “rifugiato”.Il capitolo fondamentale è però costituito dall’istituzione di un’Agenzia comu-nitaria per il controllo dei confini esterni, con una ripartizione dei compiti e deicosti fra i Paesi dell’Unione. Questa agenzia dovrebbe coordinare le operazionisui diciassette confini esterni, da controllare con unità miste di polizia e il ricor-so alle tecnologie satellitari. Queste misure sono state approvate dal successivo

Umberto Melotti1 3 4

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 134

Page 136: Gli spazi della globalizzazione

Consiglio per la giustizia e gli affari interni (Bruxelles, 27 novembre 2003), pe-raltro con le modifiche imposte dall’opposizione di Germania e Svezia all’idea diquote europee. L’Agenzia dovrebbe diventare operativa entro il 1° gennaio 2005.

Nel frattempo aveva concluso i suoi lavori la Convenzione che era stata in-caricata di redigere un progetto di Costituzione europea. La bozza presentatadichiara solennemente il carattere pluralistico dell’Europa, «unita nella diver-sità» (preambolo) e incorpora la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, cuidà quindi una valenza costituzionale. Per ciò che qui più ci concerne, afferma ilfondamento dell’Unione «sui valori della dignità umana, della libertà, della de-mocrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti uma-ni» e, in più particolare, «sul pluralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla so-lidarietà e sulla non discriminazione» (art. 2); sottolinea con forza il rispetto del-la «diversità culturale, religiosa e linguistica» (art. 22); ribadisce l’intento disviluppare «una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllodelle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei con-fronti dei cittadini dei Paesi terzi», nonché l’impegno a contrastare razzismo exenofobia (art. 158). Una specifica sezione dedicata alle politiche relative ai con-trolli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione (art. 166-169) riafferma gli orien-tamenti da tempo formulati in materia dalle istituzioni comunitarie. Il trattatocostituzionale è stato approvato da tutti gli Stati membri, diventati nel frattem-po 25, per l’adesione dei 10 Paesi già menzionati, nella primavera del 2004.

3.2 La convergenza delle politiche migratorie dei Paesi dell’Unione EuropeaIl processo testé delineato permette di comprendere meglio la convergenza

delle politiche migratorie di tutti i Paesi dell’Unione Europea. Mi limito a ri-chiamarne qui qualche aspetto che va al di là delle mere modifiche normative econcerne la stessa cultura politica, con riferimento ai tre principali Paesi europeid’immigrazione sopra analizzati.

La Francia, pur non rinunciando a un’impostazione prevalentemente indi-vidualista, accetta ormai come interlocutori legittimi delle autorità pubbliche irappresentanti delle comunità straniere presenti sul suo territorio e non denun-cia più come un’inaccettabile ghettoïsation à l’americaine il riconoscimento del-le loro peculiarità etnico-culturali. Da tempo sono state introdotte anche dellemisure “particolaristiche” per venire incontro alle esigenze degli immigrati, spe-cialmente per ciò che concerne le abitazioni. Vi si discute altresì l’opportunitàd’introdurre nella vita sociale e nelle scuole degli elementi d’interculturalità enon suscitano più scandalo le proposte avanzate in tal senso, già stigmatizzate co-me irresponsabili provocazioni di minoranze incapaci di apprezzare nel mododovuto la tradizionale impostazione “repubblicana”. Né manca chi si è spinto apreconizzare un “multiculturalismo alla francese”, inteso come un compro-messo fra i valori laici e repubblicani, da concepirsi in modo non più giacobino,e quelli delle varie comunità immigrate.

Un significativo passo in tal senso è stato compiuto nel 2003 dalla Commissio-

Le nuove migrazioni internazionali 1 3 5

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 135

Page 137: Gli spazi della globalizzazione

ne sulla laicità, presieduta dal “mediatore della repubblica” Bernard Stasi e com-posta da esperti anche di notevole prestigio. La commissione, pur esprimendosiper il divieto di entrare negli edifici pubblici, fra cui le scuole statali, con capi di ab-bigliamento e simboli vistosi che ostentino l’appartenenza religiosa o politica(grandi croci, velo islamico, kippah ebraica), ha ammesso qualche segno “discre-to” di fede o di origine. Questo segnale di apertura è stato confermato dal sugge-rimento (pur non accolto dal presidente Chirac) d’inserire nel calendario delle fe-stività la più importante ricorrenza ebraica, Yom Kippur, il giorno dell’espiazione,e la principale ricorrenza islamica, Aid-el-Kebir, il giorno del sacrificio. Sono sta-te inoltre proposte misure intese a garantire la neutralità religiosa e politica di tut-ti i servizi pubblici (scuole, caserme, ospedali, cimiteri ecc.), cui è però stato chie-sto di rispettare il più possibile le diverse sensibilità culturali e religiose (negli ospe-dali, per esempio, si dovrebbe venire incontro alla richiesta di molte donnemusulmane di evitare le prestazioni mediche e infermieristiche dispensate da per-sonale maschile).

«In considerazione del mutamento del paesaggio spirituale intercorso nel-l’ultimo secolo», la laicità, pur confermata come un valore irrinunciabile della re-pubblica, è stata reinterpretata come uno strumento per favorire la convivenzacivile in un Paese ormai multireligioso (4-5 milioni sono gli islamici e 600.000gli ebrei). Si è infatti capito che la laicità, desacralizzata, può favorire non solo latolleranza reciproca, ma l’integrazione, il cui insuccesso risulta ormai sin troppoevidente. A tal fine occorre però sviluppare con urgenza una nuova cultura del-la quotidianità, che promuova, per esempio, l’emancipazione femminile e l’u-guaglianza dei sessi senza pretendere un’impossibile assimilazione forzata dellepopolazioni di origine non europea a usi e costumi che nello stesso Occidente sisono affermati in tempi relativamente recenti. Le principali proposte della com-missione, nonostante le proteste e le minacce di alcune organizzazioni islami-che, sono state approvate dall’Assemblea Nazionale il 10 febbraio 2004 ed en-treranno presto in vigore.

D’altra parte, poiché anche in Francia esistono problemi di natura diversa,che comportano rischi non solo per l’integrazione, ma anche per la sicurezza el’ordine pubblico, è stata votata prima ancora (28 ottobre 2003) una legge, pro-posta dal ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, per contrastare con più vigorel’immigrazione illegale.

Il Regno Unito guarda all’immigrazione come a una risorsa ormai irrinun-ciabile, nonostante le ben note difficoltà economiche e sociali causate dalla di-sindustrializzazione. Pertanto ha evitato persino di adottare la moratoria, pre-vista dalla maggior parte dei Paesi membri dell’Unione Europea, per la liberacircolazione dei cittadini dei Paesi entrati a farne parte il 1° maggio 2004, limi-tandosi a non concedere loro l’immediata utilizzazione gratuita dei servizi so-ciali, per prevenire il cosiddetto “turismo del welfare”. Anche le conseguenzedi lungo periodo dell’immigrazione sono state sostanzialmente accettate, benchédi quando in quando riemerga il richiamo a uno “spirito britannico” da recupe-

Umberto Melotti1 3 6

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 136

Page 138: Gli spazi della globalizzazione

rare, come in un recente saggio del ministro dell’Interno Blunkett14. È signifi-cativo, in proposito, che lo stesso principe Carlo, destinato, in caso di ascesa altrono, ad assumere il ruolo di defensor fidei, abbia pubblicamente espresso l’in-tenzione di assolverlo a favore non già della sola Chiesa anglicana (di cui diven-terebbe capo ex officio), ma di tutte le fedi di fatto presenti nel Paese.

D’altra parte, mentre è stata facilitata l’immigrazione legale per motivi di la-voro, è stata data una stretta significativa all’immigrazione illegale, compresaquella che adduce motivi politici. L’ultima legge su asilo, immigrazione e citta-dinanza (7 novembre 2002) ha cercato di porre un freno all’arrivo degli asilan-ti, diventati sempre più numerosi (oltre 110.000 nel 2002). La nuova legge di-spone l’identificazione biometrica degli immigrati (attraverso le impronte digi-tali o il riconoscimento iridico), combatte i passeurs e il lavoro nero, acceleral’esame delle domande di asilo, ne prevede un vaglio più attento per individua-re quelle abusive, istituisce dei centri di accoglienza e di controllo per i richie-denti asilo, proibisce loro di lavorare prima che ne sia accolta la domanda, im-pedisce i ricorsi “manifestamente infondati” contro il suo rigetto, vieta l’accet-tazione delle domande presentate da cittadini di Paesi ormai considerati“sicuri”, rende meno facile il prolungamento del soggiorno e l’ottenimento del-la cittadinanza britannica, stabilisce che gli immigrati seguano dei corsi di in-glese, scozzese o gallese. D’altra parte prevede l’accoglimento delle domandepatrocinate nei Paesi di origine dai rappresentanti dell’Alto Commissariato del-le Nazioni Unite per i Rifugiati e introduce misure per favorire l’integrazione so-ciale degli immigrati.

La Germania, che ha smesso di definirsi come un “Paese di non immigra-zione”, ha anche saputo superare l’idea di una mera “integrazione temporanea”degli immigrati. Per i giovani nati in Germania da immigrati stranieri è ormaiprevista l’acquisizione della cittadinanza tedesca al compimento della maggioretà e per gli immigrati di prima generazione la “naturalizzazione” non è più unsogno impossibile (dal 2000 hanno acquisito la cittadinanza tedesca 520.000stranieri). Per questo l’auspicio (formulato anche in Austria) che tutti gli immi-grati presenti nel Paese imparino il tedesco, più che un colpo di coda dell’ancorprevalente concezione etnico-culturale della nazione, sembra essere una testi-monianza dell’ormai intervenuta accettazione del loro insediamento definitivo.

Come si vede, al di là delle pur persistenti differenze, emerge la convergenzaverso un modello d’integrazione sociale con salvaguardia dell’identità culturaledegli immigrati. Vale la pena di sottolineare che antesignana di questo orienta-mento è stata l’Italia, diventata un Paese d’immigrazione solo a partire dagli an-ni Settanta, dopo essere stata per oltre un secolo il primo Paese europeo di emi-grazione. In realtà tale orientamento caratterizza chiaramente già la sua primalegge in materia d’immigrazione, la n. 943 del 30 dicembre 1986, firmata da DeMichelis e Craxi, ma frutto di un’elaborazione collettiva cui hanno dato un con-tributo importante anche le principali organizzazioni sindacali. Questo orienta-mento è stato poi confermato da tutte le leggi successive: la n. 39 del 28 febbraio

Le nuove migrazioni internazionali 1 3 7

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 137

Page 139: Gli spazi della globalizzazione

1990 (la legge Martelli), la n. 40 del 19 febbraio 1998 (la legge Turco-Napolitano)e la n. 189 del 30 luglio 2002 (la legge Bossi-Fini attualmente in vigore), che purmoveva da preoccupazioni di controllo sociale e di ordine pubblico.

Per quanto in apparenza paradossale, il fatto ha una sua logica. L’immigra-zione in Italia è cominciata nella seconda delle tre citate fasi dell’immigrazionepost-bellica in Europa, quella caratterizzata dalla nuova divisione internaziona-le del lavoro, e ha preso abbrivio nella terza, quella più segnata dal processo diglobalizzazione e dall’unificazione europea. Inoltre la cultura politica italiana, esoprattutto l’idea italiana di nazione, si colloca sin dalle origini in una posizioneintermedia fra quella francese e quella tedesca. Per di più in Italia è sempre sta-ta molto forte l’influenza dell’universalismo della Chiesa cattolica, che ha larga-mente compenetrato tutte le principali forze politiche, a partire dalla Democra-zia Cristiana, il partito che ne ha retto le sorti per oltre un quarantennio e ha poidato luogo a una diaspora che ha interessato quasi tutte le formazioni politiche.Né meno importante è stato il ruolo dell’internazionalismo proletario, che haispirato, e in parte ispira ancora, i partiti politici, i sindacati e i movimenti dellasinistra. Inoltre l’europeismo italiano, forte e diffuso (anche perché l’Italia, usci-ta sconfitta dalla seconda guerra mondiale, ha visto nell’integrazione europeauna possibilità di riscatto e di promozione), ha reso il Paese particolarmente ri-cettivo alle indicazioni delle istituzioni comunitarie, mentre la crisi evidente deimodelli “nazionali” degli altri Paesi europei ha dissuaso per tempo anche solodal tentare di ripercorrerne pedissequamente la via. Anche al di là del particolareinteresse che riveste per noi, è dunque opportuno dedicare un’analisi specificaall’immigrazione in Italia, che, da caso anomalo, quale è stata agli inizi, è da tem-po divenuta un caso esemplare.

Umberto Melotti1 3 8

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 138

Page 140: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo quartoL’Italia nel processo delle nuove migrazioni internazionali

L’Italia è diventata un Paese d’immigrazione in anni relativamente recenti e,come gli altri late-comers dell’immigrazione in Europa, ha conosciuto un’immi-grazione dovuta assai più ai fattori di espulsione nei Paesi di esodo che ai fatto-ri di attrazione nel Paese di approdo. Per di più ha costituito a lungo un’opzio-ne subordinata rispetto a mete più ambite.

4.1 L’Italia, da Paese di emigrazione a Paese d’immigrazioneL’immigrazione in Italia è diventata evidente nel corso degli anni Settanta,

quando gli arrivi (già cominciati in sordina negli anni Sessanta, soprattutto dalle excolonie del Corno d’Africa e dalla vicina Tunisia) aumentarono rapidamente, no-nostante la grave crisi economica. Molti di coloro che avrebbero preferito dirigersiverso i tradizionali Paesi d’immigrazione dell’Europa centro-settentrionale o ad-dirittura gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, per la difficoltà di emigrare versoquesti Paesi, cominciarono a riversarsi in Italia, che, considerandosi ancora unPaese di emigrazione, non aveva chiuso le sue frontiere (almeno di fatto, dato chetale “apertura” dipendeva dalla disapplicazione delle pur restrittive norme sugli“stranieri” ereditate dalla legislazione fascista). A questi immigrati economici siaggiunsero poi, via via, i numerosi profughi politici di quel periodo. L’immigra-zione s’incrementò ulteriormente negli anni Ottanta, per effetto sia dei persisten-ti fattori espulsivi nei Paesi di origine (per le crisi economiche e politiche che col-pirono molti Paesi del Terzo Mondo e dell’Europa orientale), sia dei fattori di at-trazione, che cominciarono ad acquisire una certa rilevanza anche in Italia.

Secondo i dati del Ministero dell’Interno (basati sui permessi di soggiornorilasciati dalle questure), il numero degli stranieri legalmente presenti si rad-doppiò nel corso degli anni Settanta, passando dai circa 150.000 del 1970 ai cir-ca 300.000 del 1980, e aumentò a un ritmo ancora più rapido nel decennio suc-cessivo, arrivando a poco meno di 800.000 nel 1990, quando furono varate leprime misure intese a contenere gli ingressi. Dopo un breve periodo di assesta-mento, l’immigrazione riprese a un ritmo sostenuto, che portò a un ulterioreraddoppio delle presenze legali alla fine del decennio. Gli immigrati regolari ar-rivarono così a circa 1.700.000 nel 2000, compresi i minori senza proprio per-messo di soggiorno. Con un’ulteriore impennata, sono poi saliti a circa 2.600.000al 1° gennaio 2004, inclusi quelli con procedura di regolarizzazione avviata, ma

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 139

Page 141: Gli spazi della globalizzazione

non conclusa. Ciò colloca l’Italia al quarto posto in Europa (se non addiritturaal terzo) per il numero assoluto degli immigrati legali, dopo la Germania, la Fran-cia e il Regno Unito, ove l’immigrazione è iniziata assai prima, in una diversa fa-se storica e per motivi in parte differenti. In ogni caso lo stock degli immigratipresenti in Italia si è accresciuto di oltre 150.000 unità all’anno. In questi ultimianni l’Italia è stata in effetti il Paese europeo a più forte immigrazione dopo laGermania, con ingressi due volte più alti che in Francia, e il trend, se dovessecontinuare, porterebbe a 6,5 milioni d’immigrati nel giro di vent’anni15.

Del resto il numero effettivo degli immigrati in Italia è sempre stato assai piùalto di quello risultante dai permessi di soggiorno per le consistenti presenze il-legali. Anche se le quattro sanatorie del 1987, del 1990, del 1995 e del 1998 han-no consentito la regolarizzazione di oltre 800.000 persone (120.000 la prima,222.000 la seconda, 246.000 la terza, 217.000 la quarta), il numero degli irregolariè restato infatti notevole, anche per il loro stesso effetto di richiamo. Alla fine del2000, secondo le stime comunicate dal ministro dell’Interno di allora, GerardoBianco, gli irregolari sarebbero stati almeno 250.000 – un numero superiore aquello calcolato prima della sanatoria allora appena conclusa da un gruppo di la-voro istituito presso il Ministero dell’Interno – e alla vigilia della quinta sanatoria,quella dell’autunno 2002, il numero degli irregolari ipotizzato da quel Ministeroera di circa 800.000: una valutazione poi sostanzialmente confermata dalle oltre700.000 domande di regolarizzazione presentate entro la scadenza (11-11-2002)dai datori di lavoro per quei dipendenti che potessero dimostrare il loro arrivoin Italia prima della data prevista, con l’impegno ad assumerli regolarmente peralmeno un anno e a pagare per loro tre mesi di contributi previdenziali arretrati(un numero che fra l’altro dimostra il sostanziale fallimento della legge Turco-Napolitano sul fronte del contenimento degli arrivi illegali, nonostante la sua pre-tesa “severità”, ripetutamente asserita dalla sua prima firmataria).

In ogni caso l’Italia è restata (almeno sino all’ultima sanatoria) il primo Pae-se in Europa per il numero, assoluto e relativo, degli immigrati irregolari, così co-me lo è per la percentuale degli extracomunitari sul totale degli immigrati rego-lari (quasi il 90% al 1° gennaio 2003) e la percentuale dei disoccupati fra gli im-migrati irregolari e regolari: un insieme di dati che segnala la particolareproblematicità della situazione, con ovvi riflessi negativi sia per l’integrazionesociale degli immigrati, sia per la sicurezza e l’ordine pubblico: temi che proprioper questo hanno finito per essere sempre più discussi con riferimento diretto eindiretto all’immigrazione, anche se alcuni sedicenti “esperti” nelle più che le-gittime preoccupazioni in argomento non hanno saputo veder altro che l’e-spressione di un pregiudizio16.

Per comprendere queste difficoltà, non bisogna dimenticare che l’Italia è di-ventata un Paese d’immigrazione quando i potenti fattori espulsivi già sopra ri-cordati hanno indotto crescenti frange della popolazione di alcuni Paesi del Ter-zo Mondo e dell’Europa orientale a tentare l’avventura dell’Occidente, cercan-do sbocchi anche in quei Paesi dell’Europa meridionale in cui l’immigrazione

Umberto Melotti1 4 0

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 140

Page 142: Gli spazi della globalizzazione

costituisce per molti aspetti un paradosso. In questi Paesi, infatti, l’immigrazio-ne coesiste con l’emigrazione (che ancora continua, sia pur in misura ridotta) esoprattutto con la disoccupazione e l’inoccupazione, che restano invece assai al-te. Del resto, nonostante un recente miglioramento (nel 2002 la disoccupazionegenerale è scesa al 9%, quella femminile al 12% e quella giovanile al 24%), l’I-talia è all’ultimo posto fra tutti i Paesi dell’Unione Europea per l’indice di occu-pazione elaborato da quest’ultima, così come è all’ultimo posto fra tutti i trentaPaesi dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico per il tassodella popolazione attiva17.

Di conseguenza in Italia, così come in genere nei Paesi dell’Europa meridio-nale, gli immigrati s’inseriscono per lo più in segmenti del mercato del lavoronon ricercati dagli autoctoni (se non proprio “rifiutati”, come a volte si dice),soprattutto per le condizioni ivi praticate. Peraltro anche molti immigrati nontrovano lavoro. Non sorprende quindi che molti di loro finiscano per incre-mentare la piaga della criminalità diffusa o diventino manovalanza di quella or-ganizzata. Del resto non pochi vengono in Italia proprio per svolgervi attività il-lecite, confidando nell’inefficienza o nella connivenza della polizia, nell’iperga-rantismo delle norme vigenti e nella comprensione così spesso dimostrata neiloro confronti da una parte non piccola della magistratura.

Inoltre molte centinaia di migliaia d’immigrati, regolari e irregolari, trovanoun’occupazione in nero nel cosiddetto “settore informale” (che dà lavoro anchea quattro milioni d’italiani). A ciò si aggiunga che molti immigrati creano essistessi i loro posti di lavoro (se così li si può definire), come il piccolo ambulantatodi strada (specialmente di prodotti contraffatti o di contrabbando), il lavaggiodei vetri alle automobili in sosta o la questua più o meno mascherata: attivitàestremamente precarie, ma che a volte consentono di realizzare un reddito su-periore allo stipendio di un funzionario di medio livello nei loro Paesi (alcune diqueste attività sono però controllate da organizzazioni malavitose, per lo più deiloro Paesi di origine, che si appropriano di gran parte dei loro guadagni). Ancorapiù grave è il caso delle donne straniere dedite alla prostituzione di strada (20-25.000, secondo le stime più prudenziali, ma ne esistono altre anche quattro vol-te superiori), per il 70-80% costrette a farlo da organizzazioni malavitose o dasfruttatori violenti, per lo più dei loro stessi Paesi.

Al 1° gennaio 2003 i lavoratori regolari (tra subordinati e autonomi) erano834.00, pari al 55% delle presenze complessive, cui si dovrebbero aggiungere i635.000 successivamente regolarizzati per effetto della sanatoria allora penden-te. I più erano impiegati nel settore terziario (servizi domestici, servizi alla perso-na, alberghi e ristorazione, imprese di pulizia, portinerie ecc.). Collaboratori do-mestici e badanti assommavano da soli a quasi mezzo milione e altri 340.000 era-no i regolarizzandi. Un buon numero era però presente nel settore primario(soprattutto agricoltura e pesca, specie nelle regioni meridionali) e nel settore se-condario (cave e miniere, edilizia, fonderie, ceramifici e, specialmente nelle re-gioni settentrionali, piccola e media industria, anche leggera). Secondo i dati co-

Le nuove migrazioni internazionali 1 4 1

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 141

Page 143: Gli spazi della globalizzazione

municati alla Camera dal ministro dell’Interno il 25 giugno 2003, lavoratori do-mestici e badanti costituivano il 50% dei lavoratori immigrati; le industrie (so-prattutto quelle tessili, dei metalli e della conceria) ne occupavano più del 15%;servizi, settore alberghiero, ristorazione, pubblici esercizi, costruzioni, trasportie pulizie ne impiegavano un altro 13%; l’agricoltura (principalmente per le atti-vità stagionali di raccolta) il 10%. Cominciava inoltre a diventare significativo,specie nel Nord, il fenomeno dell’imprenditoria etnica: quasi 60.000 erano i tito-lari e i soci d’imprese con cittadinanza straniera (sui 180.000 “nati all’estero” ri-sultanti alle Camere di Commercio), un quarto dei quali nella sola Lombardia.

Si sta riducendo, d’altra parte, la concentrazione degli immigrati sul territo-rio. Inizialmente sovrarappresentati in alcune aree (le regioni di confine e quel-le con porti e aeroporti internazionali, i grandi centri urbani, le zone agricole delcentro-sud), si sono infatti diffusi in tutto il Paese, anche se ancora notevole è laloro presenza nelle regioni, nelle province e nelle città che offrono le maggioripossibilità di lavoro o, almeno, di sopravvivenza. Secondo gli ultimi dati dispo-nibili (1° gennaio 2003), che si riferiscono ai soli immigrati con permesso di sog-giorno, troviamo ai primi posti la Lombardia (348.000), il Lazio (240.000), il Ve-neto (155.000), l’Emilia-Romagna (151.000), la Toscana (111.000), il Piemonte(108.000), la Campania (59.000) e la Sicilia (50.000). Se si calcolano anche i mi-nori senza proprio permesso di soggiorno, i regolarizzati recenti non ancoracompresi in questi dati e gli irregolari, si superano i 300.000 nella sola area me-tropolitana di Roma, i 200.000 in quella di Milano e i 100.000 in quella di Napoli,con percentuali sulla popolazione ormai da tempo superiori al 10%.

Ciò nondimeno per molti anni le istituzioni hanno prestato ben scarsa atten-zione al fenomeno. In realtà, sino al 1986 l’unica loro risposta fu un sostanzialelaissez-faire: nessun progetto sociale complessivo, nessun orientamento preciso intema d’integrazione, nessuna iniziativa con un minimo di respiro, nessun inter-vento specifico neanche per tutelare la sicurezza e l’ordine pubblico. L’assistenza,ridotta ai minimi termini, era per lo più delegata alla Caritas o ad altre organizza-zioni vicine alla Chiesa e, in minor misura, alle associazioni sindacali e parasinda-cali e ai patronati collegati ai tre maggiori partiti politici del tempo: la Democraziacristiana, il Partito comunista e il Partito socialista (con gli sprechi e gli abusi fa-cilmente immaginabili). Seguì, per un breve periodo (1987-1990), una politicaorientata alla regolarizzazione di tutti i presenti (condizionata al tempo della pri-ma sanatoria, incondizionata al tempo della seconda), ispirata a quel “solidari-smo” che accomunava consociativamente i due principali partiti della maggio-ranza di centro-sinistra (la Democrazia cristiana e il Partito socialista) e il maggiorpartito di opposizione (il Partito comunista). Successivamente (1990), quando di-venne evidente che anche a causa di quella politica la situazione aveva superato illivello di guardia, ci fu un tentativo di colpo di freno (informalmente sollecitatoanche dalle autorità comunitarie, preoccupate dei suoi possibili riflessi oltre i con-fini italiani, data la già prevista eliminazione dei controlli alle frontiere tra gli Sta-ti membri), peraltro con misure mal definite e peggio applicate.

Umberto Melotti1 4 2

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 142

Page 144: Gli spazi della globalizzazione

4.2 Lo sviluppo della legislazione italiana sull’immigrazioneIl primo intervento legislativo in materia d’immigrazione fu la legge n. 943 del

30 dicembre 1986, firmata dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal mi-nistro del Lavoro e della previdenza sociale Gianni De Michelis, entrambi so-cialisti. Seguì, pochi anni dopo, la legge n. 39 del 28 febbraio 1990, conosciutacome Legge Martelli, dal nome del giovane vicepresidente del Consiglio, il “del-fino” socialista Claudio Martelli, inesperto, ma caparbio, che l’impose anchecontro le resistenze non solo dell’opposizione di destra (il Movimento socialeitaliano) e dei due soli parlamentari della Lega lombarda, ma anche di alcunecomponenti della coalizione di governo (una parte dei democristiani e i repub-blicani). Queste leggi furono poi integrate, in ambiti specifici, da provvedimen-ti ad hoc concernenti l’introduzione dei visti d’ingresso per i cittadini dei Paesia maggior “rischio migratorio”, “eccezioni umanitarie” per chi provenisse daPaesi dilaniati dai conflitti bellici (come la Somalia e gli Stati dell’ex Jugoslavia),altre “eccezioni” imposte dalla necessità di fronteggiare determinate “emer-genze” (fra cui l’arrivo in massa degli albanesi sulle coste adriatiche nel 1991 epoi di nuovo nel 1997).

Le leggi n. 943/1986 e n. 39/1990, che allora furono recepite soprattutto co-me dei provvedimenti intesi a regolarizzare gli extracomunitari illegalmente pre-senti, hanno definito il quadro generale della politica per l’immigrazione. Essehanno infatti sancito i principali diritti degli immigrati e hanno precisato gliorientamenti di fondo per la loro integrazione sociale.

La legge n. 943/1986 ha riconosciuto ai lavoratori extracomunitari legal-mente residenti in Italia la parità di trattamento e la piena uguaglianza giuridicacon i lavoratori italiani. Ha assicurato loro il diritto al ricongiungimento familiaree ha riconosciuto a loro e ai loro congiunti il diritto all’uso dei servizi sociali esanitari, all’abitazione e alla scuola (quest’ultimo diritto fu poi esteso nel 1994 an-che ai figli degli immigrati irregolari, secondo la Convenzione delle Nazioni Uni-te sui diritti dell’infanzia). Ha altresì affermato il diritto degli immigrati di orga-nizzare proprie associazioni e di mantenere la propria identità culturale e ne hapromosso la partecipazione indiretta alle decisioni che li riguardassero tramiteuna specifica “consulta” istituita presso il Ministero del Lavoro e della previ-denza sociale. La legge prevedeva anche, per la prima volta in Italia, la lotta al-l’immigrazione clandestina, ma questo punto, presente nel suo stesso titolo, fuquasi completamente disatteso.

La legge n. 39/1990 ha definito un insieme d’interventi per favorire l’inte-grazione sociale e la promozione culturale degli immigrati e ha stanziato dei fon-di per dare attuazione al loro diritto alla casa e all’educazione. Ha garantito atutti gli immigrati regolari l’iscrizione gratuita all’assistenza sanitaria pubblicaper il periodo di un anno (poi portato a tre). Ha eliminato la cosiddetta “riservageografica” che in Italia (così come in pochissimi altri Paesi) precludeva ai noneuropei la possibilità di chiedere il riconoscimento dello status di rifugiati ai sen-si della Convenzione di Ginevra (anche se non era mai stato loro negato il rifu-

Le nuove migrazioni internazionali 1 4 3

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 143

Page 145: Gli spazi della globalizzazione

gio de facto, rafforzato dalla protezione dell’Alto Commissariato delle NazioniUnite per i Rifugiati, con cui il governo aveva stipulato uno specifico accordo,che prevedeva anche un cospicuo contributo finanziario). Ha stabilito il princi-pio di una programmazione degli ingressi (che, pur essendo poi restata per al-cuni anni a livello zero, per l’elevatissimo numero di disoccupati fra gli immi-grati regolari già presenti nel Paese, non ha impedito l’arrivo di una media di ol-tre 50.000 immigrati regolari all’anno, grazie alle norme sul ricongiungimentofamiliare e sul rifugio politico e ai contratti di lavoro, spesso del tutto fasulli o dicomodo, ma ben raramente controllati). Successivamente, nella seconda metàdegli anni Novanta, il numero degli immigrati regolari annualmente previsto fufissato a 63.000, in aggiunta a quello, non piccolo, di coloro che, già presenti ir-regolarmente in Italia, hanno potuto beneficiare delle sanatorie del 1996 e del1998 (complessivamente quasi mezzo milione di persone).

Nel suo insieme questa legislazione s’ispirava al principio di attribuire agli im-migrati regolari gli stessi diritti civili, economici e sociali degli italiani, senza ri-chiedere loro, come condizione per fruirne, l’acquisizione della cittadinanza (unprincipio che l’Italia aveva propugnato per decenni per i suoi emigrati all’estero).Ciò implicava, per molti aspetti, l’equiparazione di fatto degli immigrati extraco-munitari regolari ai cittadini dei Paesi comunitari, con una sola rilevante eccezio-ne: il diritto di voto alle elezioni amministrative, che in Italia è tuttora riconosciu-to soltanto a questi ultimi, mentre in altri Paesi europei è stato da tempo estesoagli extracomunitari. È questo il caso dell’Irlanda (1963), della Svezia (1975), del-la Danimarca (1981), dei Paesi Bassi (1985), della Finlandia (1992), del Lussem-burgo (2003), del Belgio (2004), senza eleggibilità, e, a condizione di reciprocità,del Portogallo (1971) e della Spagna (1993), nonché di qualche Land tedesco e delRegno Unito, dove, come già detto, i cittadini dei Paesi del Commonwealth go-dono di pieni diritti politici. Nei Paesi europei non appartenenti all’Unione il vo-to amministrativo agli stranieri è previsto in Islanda (1981), per i cittadini dei Pae-si nordici, in Norvegia (1982) e anche in qualche cantone svizzero.

In Italia, per contro, è stato sempre fortemente affermato il diritto all’i-dentità culturale e religiosa e, più in generale, il rispetto della diversità, del re-sto già profondamente radicato nella società civile. Proprio per questo vicen-de simili a quelle reiteratamente vissute in Francia dalle giovani musulmaneespulse dalle scuole statali o sospese dagli impieghi pubblici solo perché in-dossavano il cosiddetto “foulard islamico” in Italia sarebbero state addirittu-ra impensabili. Peraltro negli ultimi anni dichiarazioni decisamente sopra lerighe contro l’“invadenza islamica” sono state espresse da esponenti politici (inparticolare della Lega Nord), da prelati della Chiesa cattolica (come il cardi-nale Giacomo Biffi, allora arcivescovo di Bologna, mons. Alessandro Maggio-lini, vescovo di Como, e don Gianni Baget-Bozzo, un sacerdote da tempo im-pegnato in politica, prima con i socialisti e poi con Forza Italia) e da opinion-maker del mondo laico, ben noti per le loro prese di posizione umorali (comeil politologo Giovanni Sartori e la scrittrice Oriana Fallaci). Queste posizioni

Umberto Melotti1 4 4

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 144

Page 146: Gli spazi della globalizzazione

si sono poi diffuse per qualche tempo nel contesto delle esagerate reazioniemotive suscitate dall’ordinanza di un magistrato che, nel 2003, si era espres-so per la rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche di un piccolo comuneabruzzese, accedendo alla richiesta di un cittadino italiano di religione islami-ca. Con poche eccezioni, hanno partecipato all’orgia di esternazioni in argo-mento, aperta da una nervosa dichiarazione televisiva del cardinale Ersilio To-nini, di solito assai misurato, molti importanti personaggi politici della destrae della sinistra (con limitati, ma meritori, dissensi nei due schieramenti) e lostesso presidente della repubblica Ciampi, da cui pure sarebbe stato lecito at-tendersi un intervento a tutela dei diritti costituzionalmente garantiti delle mi-noranze, della pari libertà di coscienza di tutti i cittadini, della laicità dello Sta-to e della stessa indipendenza della magistratura, dati i virulenti attacchi ri-volti a quel magistrato.

Peraltro in Italia, più ancora che in altri Paesi, intercorre un divario notevo-le fra il teorico riconoscimento dei diritti e la loro effettiva attuazione. Non stu-pisce pertanto che anche alcuni diritti di natura economico-sociale pur costitu-zionalmente garantiti (come quelli al lavoro e alla casa) siano restati quasi lette-ra morta, così come del resto per molti italiani. D’altra parte il forte garantismodella nostra legislazione, coniugato con la scarsa efficienza degli apparati di po-lizia e la macchinosità e la lentezza delle procedure amministrative e giudiziarie,assicurava la pressoché totale impunità alla maggior parte degli immigrati, re-golari e irregolari, che si fossero macchiati di reati anche gravi (con tutto ciò gliimmigrati sono arrivati a costituire circa 1/3 della popolazione carceraria). Ilmeccanismo delle espulsioni era quasi inceppato. In prima istanza era affidato al-l’esecuzione spontanea degli stessi “intimati”, che ben raramente rispettavanol’ordine di lasciare il Paese. In seconda istanza era previsto l’accompagnamentoalla frontiera, che peraltro era eseguito soltanto in pochi casi (uno su dieci agliinizi degli anni Novanta, uno su sei alla fine del decennio).

A questa situazione ha cercato di porre rimedio il governo Dini con un decre-to (il D.L. n. 489 del 18 novembre 1995) che prevedeva (accanto ad altri provve-dimenti, fra cui la terza delle sanatorie sopra citate) delle procedure di espulsionepiù spicce almeno per i clandestini colti in flagranza di reato. Ma quel decreto, rei-terato per ben quattro volte, con varie modifiche, non è mai stato convertito in leg-ge per la strenua opposizione delle componenti più garantiste della maggioranzadi centro-sinistra di quel periodo ed è stato lasciato decadere, con salvaguardiadelle misure di sanatoria per i clandestini.

In luogo del decreto decaduto, il 19 febbraio 1998, fu approvata, dopo lun-ghe e defatiganti discussioni, una nuova legge, la n. 40/98, che i suoi due pro-ponenti, la ministra della Solidarietà sociale Livia Turco e il ministro dell’Inter-no Giorgio Napolitano (entrambi diessini provenienti dall’apparato del vecchioPartito comunista), hanno voluto presentare come l’attesa “legge organica” sul-l’immigrazione (mentre il vero progetto di “legge organica”, predisposto da unacommissione di studio che aveva iniziato a operare nel 1993, quando la delega

Le nuove migrazioni internazionali 1 4 5

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 145

Page 147: Gli spazi della globalizzazione

per l’immigrazione era ancora esercitata dalla ministra Contri, era stato affon-dato, prima della sua stessa presentazione alle Camere, dal fuoco incrociato del-la composita lobby immigrazionista e delle forze politiche, di maggioranza e diopposizione, fautrici di un maggior rigore).

La legge Turco-Napolitano (firmata anche dal primo ministro Romano Pro-di, un ex democristiano passato ai popolari, e dall’ex comunista Massimo D’A-lema, a quel tempo leader dei democratici di sinistra), a detta dei suoi inesperti,ma testardi proponenti, avrebbe dovuto prevedere sia delle efficaci misure perl’integrazione degli immigrati, sia dei seri provvedimenti per combattere l’im-migrazione clandestina, notevolmente accresciutasi nel frattempo. Le opposteresistenze emerse durante il suo iter parlamentare hanno però finito per svuo-tarla quasi di ogni senso e poche sono state le sue reali innovazioni rispetto allanormativa precedente. Di qualche rilievo furono peraltro l’introduzione di unacarta di soggiorno permanente per gli immigrati regolari residenti in Italia da al-meno cinque anni, i permessi semestrali per il lavoro stagionale (pur destinati ingran parte a non essere rispettati e quindi a creare nuova irregolarità), le facili-tazioni per l’esercizio del lavoro autonomo e delle attività professionali, il soste-gno alle iniziative sociali e culturali per gli immigrati (per lo più gestite da enti eassociazioni legati alla Chiesa cattolica e ai sindacati) e la semplificazione delleprocedure per i ricongiungimenti familiari di parenti anche non stretti (che unasentenza della Corte di Cassazione estese poi a catena, consentendo ai richia-mati di far venire a loro volta altri parenti, e così via). Poco incisive sono stateinvece le norme, pur formalmente più severe, contro l’immigrazione clandesti-na, lo sfruttamento degli immigrati e ogni forma di discriminazione sociale. L’i-nadeguatezza della legge su questo piano è del resto platealmente emersa pochimesi dopo, con la confusa e contraddittoria risposta nell’estate ai nuovi sbarchiin massa di clandestini sulle coste meridionali (internati per trenta giorni e poiparadossalmente lasciati liberi di andare dove volessero, nel caso in cui fosseroriusciti a non farsi identificare entro tale termine). A ciò si aggiunse agli inizi del-l’anno seguente il caotico avvio della quarta sanatoria, chiamata non più così,ma “regolarizzazione”, per quel pedaggio d’ipocrisia che il vizio talvolta pagaalla virtù: una sanatoria a lungo ufficialmente smentita, ma poi formalizzata,quando già ne erano diventati evidenti gli effetti di richiamo, alimentati anchedalle imprudenti dichiarazioni di alcune autorità (fra cui lo stesso presidentedella repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che giunse a proclamare urbi et orbi che«le porte spalancate sono un fatto di civiltà»).

Dopo le elezioni politiche del 2001, che hanno visto una netta vittoria dellacoalizione di centro-destra, sono cambiati i suonatori, ma non è cambiata la musi-ca o, almeno, non è cambiata molto. Nonostante i chiari impegni elettorali assun-ti in materia dalla nuova maggioranza, è occorso più di un anno perché venisse va-rata una nuova legge sull’immigrazione un po’ più restrittiva (la già citata Bossi-Fi-ni del 30 luglio 2002, entrata in vigore il 10 settembre successivo). Per di più anchequesta legge è stata snaturata rispetto al suo originario disegno dalle numerose

Umberto Melotti1 4 6

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 146

Page 148: Gli spazi della globalizzazione

modifiche introdotte in itinere dalla componente neo-democristiana della mag-gioranza, che ha anche imposto un’ennesima sanatoria (la quinta in tre lustri, un re-cord mondiale che nessuno probabilmente ci invidia), resa oltre tutto a maglie viavia più larghe dalle reiterate richieste della stessa componente. Così è stata in par-te compromessa quella funzione prioritaria di controllo sociale che i suoi firmata-ri avevano voluto assegnare alla legge, che, dopo il suo stravolgimento, sarebbeforse più corretto chiamare non Bossi-Fini, ma Giovanardi (dal nome del mini-stro neo-democristiano per i rapporti col Parlamento che l’ha così trasformata, fa-cendosi interprete delle prevalenti posizioni in materia della Chiesa e delle orga-nizzazioni cattoliche). In ogni caso coloro che avevano proposto una legge severa,intesa innanzi tutto a ripristinare l’ordine pubblico inficiato dal precedente lassi-smo, sembrano aver fatto la fine dei pifferi di montagna, che andarono per suona-re e furono suonati. Partiti con l’idea di espellere tutti gli immigrati illegalmentepresenti in Italia, hanno finito per approvare la più grande sanatoria mai varatanel Paese: circa 705.000 domande, quasi quanto tutte quelle delle quattro sanato-rie precedenti, distribuite nell’arco di dodici anni.

Ciò non è tuttavia bastato ad ammorbidire le reazioni di un’opposizione in-velenita, che ha persino accusato la legge di “razzismo”, nonostante la sua so-stanziale continuità con la precedente normativa specialmente per ciò che con-cerne la politica dell’integrazione, che non è stata minimamente toccata. In ognicaso la legge non merita l’“indignazione” con cui è stata accolta da chi ha volu-to addossarle “colpe immaginarie”, come ha onestamente riconosciuto la stessapresidente della Commissione per le politiche d’integrazione degli immigratidel precedente governo di centro-sinistra18.

La Bossi-Fini segna peraltro un parziale ritorno all’impostazione “lavoristi-ca” che aveva connotato la prima legge italiana sull’immigrazione. Ha introdottoinfatti una precisa relazione fra permesso di soggiorno e contratto di lavoro (rece-pendo a suo modo le indicazioni della già citata comunicazione della Commissio-ne europea del 2000), con l’istituzione di un “contratto di soggiorno per lavoro”,che prevede fra l’altro, per chi assume uno straniero non comunitario, l’obbligo digarantirgli un alloggio e di pagargli il rientro in patria a fine rapporto. Di conse-guenza ha abrogato l’istituto della sponsorizzazione, previsto dalla Turco-Napo-litano, che permetteva di entrare in Italia legalmente per cercarvi un lavoro: unistituto che si era rivelato fonte di abusi, dato che la garanzia richiesta poteva essereprestata anche da un connazionale con permesso di soggiorno o da un’associazio-ne di volontariato disposta a dare senza troppi rischi una poco costosa copertura,pagata spesso dagli stessi migranti o dai loro parenti. Anche il ricongiungimento fa-migliare è stato meglio definito per contenerne il rischio di utilizzazioni anomale,reso ancora più grave dalla dilatazione a catena operatane dalla Corte di Cassa-zione. Resta in vigore la carta di soggiorno, conseguibile peraltro dopo un perio-do di permanenza regolare un poco più lungo (sei anni invece di cinque). È statoinoltre stabilito che a chi richieda il permesso di soggiorno siano prese le impron-te digitali, per ovviare all’uso di falsi documenti, non infrequente da parte degli

Le nuove migrazioni internazionali 1 4 7

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 147

Page 149: Gli spazi della globalizzazione

immigrati con conti in sospeso con la giustizia. Per evitare le accuse di discrimi-nazione avanzate dall’opposizione, tale misura (già proposta senza successo qual-che anno prima da un sottosegretario all’Interno del precedente governo di cen-tro-sinistra) è stata poi estesa anche ai cittadini italiani, che dovranno rilasciare leloro impronte in occasione del rinnovo dei documenti d’identità. Per contrastarel’immigrazione clandestina è stato prolungato da 30 a 60 giorni il periodo di per-manenza negli appositi centri in cui dovrebbero essere identificati coloro che en-trano nel Paese sprovvisti di documenti, si è ridotto da 15 a 5 giorni il periodo en-tro cui gli “intimati” dovrebbero lasciare il Paese e si è rivisto il meccanismo del-l’espulsione amministrativa, cui si è attribuita immediata esecutività conaccompagnamento alla frontiera. Per quelli che dovessero rientrare in Italia clan-destinamente dopo l’espulsione è stato introdotto il reato d’ingresso clandestino,mentre il primo tentativo d’immigrazione illegale continua a costituire soltanto unillecito amministrativo. D’altra parte, per quanto concerne la prevenzione del-l’immigrazione clandestina (gestita in gran parte da organizzazioni malavitose chenon esitano a mettere a repentaglio la vita sia di chi ricorra loro, sia di chi tenti dicontrastarle), è stato posto l’accento sulla collaborazione con i Paesi di origine e ditransito degli immigrati, di cui si è deciso di tener conto nell’elaborazione dei pro-grammi di cooperazione e nella determinazione delle quote riservate d’ingressi re-golari stabilite annualmente nel decreto sui flussi. Si tratta, insomma, di un insie-me di misure equilibrate e ragionevoli, che rispondono in gran parte alle indica-zioni delle istituzioni europee, anche se di attuazione tutt’altro che facile, dateanche le carenze degli organi che dovrebbero curarne l’applicazione.

È peraltro troppo presto per esprimere una valutazione complessiva sul prov-vedimento, che rappresenta in realtà un compromesso fra la tradizionale politi-ca dell’integrazione (declinata ora con particolare accento sull’inserimento lavo-rativo e sul ricongiungimento famigliare) e le esigenze di un maggior controllo. Inogni caso le stesse vicissitudini della legge testimoniano meglio di ogni altra cosala decisiva influenza che sulla politica migratoria di un Paese esercita la sua cul-tura politica. Nel caso italiano, al di là dell’alternarsi al governo di forze politichein aspro contrasto, su ogni altro elemento ha sempre finito per prevalere il tradi-zionale solidarismo di matrice cattolica, che ha travolto anche l’impostazione ori-ginariamente securitaria del disegno di legge Bossi-Fini. Eppure una parte con-sistente del mondo cattolico continua a criticare questa legge, chiedendone una“radicale revisione” (il “carismatico” missionario no-global Alex Zanotelli ha pro-posto di violarla sistematicamente, dando ospitalità ai clandestini in chiese e mo-nasteri), anche se il presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Rui-ni ha espresso apprezzamento per la grande sanatoria che l’ha accompagnata.

Recentemente (7 ottobre 2003), nel corso di un convegno del Consiglio na-zionale dell’economia e del lavoro), uno dei firmatari di tale legge, l’on. Gian-franco Fini, presidente di Alleanza Nazionale e vice-presidente del Consiglio deiministri, ha proposto (piuttosto sorprendentemente, per chi ricorda le sue pre-cedenti prese di posizione in argomento) di estendere il diritto di voto ammini-

Umberto Melotti1 4 8

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 148

Page 150: Gli spazi della globalizzazione

strativo agli immigrati regolari da tempo residenti in Italia. A ciò ha fatto seguitola presentazione alle Camere di un disegno di legge costituzionale del suo parti-to, in aggiunta a quelli già depositati da altri partiti, che del resto riprendevano ilprogetto presentato nella precedente legislatura dal governo Prodi, ma non por-tato in aula per il timore di una sua bocciatura.

A grandi linee l’Italia si sta dunque movendo, anche se non senza difficoltà econtraddizioni, in sintonia con gli altri Paesi europei, dove, dopo la crisi dei pro-getti sociali ispirati alle loro specifiche culture politiche, si tende ad affrontare iproblemi con più realismo e senso pratico.

4.3 Il dibattito politico-ideologico in ItaliaCon tutto ciò il dibattito politico-ideologico sull’immigrazione continua a

essere caratterizzato da toni esacerbati e astratte polemiche. Nel corso degli anni Ottanta i primi studiosi italiani dell’immigrazione ave-

vano proposto, con anticipatrice intuizione, un’«integrazione sociale con sal-vaguardia dell’identità culturale» degli immigrati19. Successivamente, però,altri autori enfatizzarono ingenuamente l’idea di una non meglio specificata“società multiculturale” che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi comeper incanto. Né sono mancati coloro che, chiudendo entrambi gli occhi su unarealtà già allora articolata e complessa, hanno imputato tutte le difficoltà de-rivanti da un’immigrazione rapida, consistente e mal gestita al preteso “razzi-smo degli italiani”, per utilizzare la formula inventata da abili, ma superficialigiornalisti20.

Anche alcuni studiosi hanno così finito per interrogarsi più sul “razzismo” chenon sull’immigrazione. Per di più alcuni di loro hanno ripreso dalle elaborazioniinglesi e francesi concetti e argomentazioni assai discutibili e non rispondenti allasituazione italiana (mi riferisco, in particolare, alle elaborazioni sul cosiddetto “raz-zismo culturale”, che confondono indebitamente razzismo, etnocentrismo e cul-turocentrismo, e quelle sul cosiddetto “razzismo differenzialista”, che scontanol’originaria formulazione nel contesto francese con un implicito riferimento al“modello repubblicano d’integrazione” sopra descritto). Ciò ha dato vita, fra l’al-tro, a un “antirazzismo militante” fazioso ed estremista, surrogatorio di altre mili-tanze frustrate o tramontate21.

Toni ingenui ed esasperati peraltro s’incontrano in entrambe le subculturepolitiche che furono a lungo dominanti in Italia: quella cattolica e quella marxi-sta. La prima tende infatti a guardare agli immigrati come ai “nuovi poveri”, im-magini di Cristo che bisogna amare e invitare ad entrare. La seconda li conside-ra invece come il “nuovo proletariato”, da cui ci si attende un contributo im-portante per quella rivoluzione anticapitalistica che le “integrate” classilavoratrici dei Paesi economicamente avanzati sembrano avere ormai messo neldimenticatoio22.

Recentemente si è diffuso però, fra gli studiosi, un maggiore spirito criticoed è emersa la consapevolezza che giovano più le misure concrete e responsabi-

Le nuove migrazioni internazionali 1 4 9

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 149

Page 151: Gli spazi della globalizzazione

li che non le fughe in avanti e le astratte contrapposizioni ideologiche. Peraltroancor oggi molti sociologi e teorici politici, quando parlano dell’immigrazione,sembrano gareggiare in demagogia con i più scriteriati esponenti no-global e sicompiacciono di civettare con le tesi dei “cattivi maestri” ritornati di recente inauge sull’onda dei nuovi movimenti.

La serietà dell’analisi tuttavia non basta. Per fronteggiare la sfida delle nuo-ve migrazioni internazionali occorre elaborare un nuovo progetto sociale, chesostituisca i diversi progetti sociali nazionali. Il passaggio a una società multi-razziale, multietnica, multiculturale, multilinguistica e multireligiosa è inevitabilesul lungo periodo, ma non rappresenta di per sé una soluzione. Per una transi-zione positiva si richiedono delle trasformazioni profonde, che prevedano unnuovo rapporto fra Stato e società civile, cultura e organizzazione sociale, etni-cità, nazionalità e cittadinanza. È questo un terreno su cui tutti i Paesi europeidovranno ben presto misurarsi, superando i persistenti limiti insiti nelle loro at-tuali culture politiche.

L’Italia potrebbe dare un importante contributo in tal senso, attingendo alsuo straordinario retaggio di civiltà, formatosi per la funzione di crogiuolo dipopoli e di culture che ha svolto nei secoli anche malgrado sé stessa. Al di fuoridi ogni retorica, infatti, tale retaggio, potrebbe concorrere a definire una nuovacultura politica, né nazionalista né cosmopolita, in grado di governare la globa-lizzazione. Sarebbe, del resto, semplicemente insensato pensare di poter gestirei grandi movimenti di popolazione previsti per l’avvenire abbandonando all’an-damento delle forze spontanee questo processo, destinato a esercitare per unlunghissimo arco di tempo un’influenza determinante sulle trasformazioni del-la convivenza umana.

Note

1. Cfr. U. Melotti, Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in «TerzoMondo», Milano, n. 37-38, 1979, pp. 3-14.

2. Cfr. F. Alberoni, G. Baglioni, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Il Mulino, Bo-logna 1965. Questa differenza era già individuabile negli anni Ottanta. Cfr. U. Melotti, La nuovaimmigrazione a Milano, Mazzotta, Milano 1985.

3. Cfr. U. Melotti (a cura di), Etnicità, nazionalità, cittadinanza, Seam, Roma 2000.4. A. Touraine, Face à l’exclusion, in «Esprit», 1991, n. 169, pp. 7-13; trad. it. Di fronte all’esclusione,

in «Iter», 1991, n. 2-3, pp. 13-20.5. M. O’Donnell, Race and Ethnicity, Longman, New York 1991.6. Cfr. C. Giordano, Né integrazione, né segregazione. Il contesto migratorio nella Repubblica federa-

le tedesca, in G. Giordano (a cura di), L’immigrazione dal Terzo Mondo verso l’Europa: un fattoumano e un problema sociale destinato a crescere, La Quercia, Genova 1987, pp. 61-71.

7. J. Blaschke, Tendenze delle migrazioni e relazioni etniche nella Repubblica federale tedesca, in M.Delle Donne, U. Melotti e S. Petilli (a cura di), Immigrazione in Europa: solidarietà e conflitto, Di-partimento di Sociologia, Università “La Sapienza”, Roma 1993, pp. 143-156.

8. Cfr. J.H. St. John de Crèvecoeur, Letters from an American Farmer, Davies, London 1782; trad. it.Lettere di un agricoltore americano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1965.

9. Cfr., per esempio, A. Schlesinger jr., The Disuniting of America. Reflections on a Multicultural So-

Umberto Melotti1 5 0

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 150

Page 152: Gli spazi della globalizzazione

ciety, Norton, New York 1992 (2ª ed. riv. e ampl. 1998); trad. it. La disunione dell’America. Rifles-sioni su una società multiculturale, Diabasis, Reggio Emilia 1995.

10. Cfr. S.P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schu-ster, New York 1996; trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano1997.

11. Cfr. M. Stellin, Il mosaico dinamico. Il multiculturalismo in Canada, Forum, Udine 1999.12. Cfr. S. Piccone Stella, Esperienze multiculturali. Origini e problemi, Carocci, Roma 2003, pp. 125-

137.13. Commissione europea, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comu-

nitaria in materia di immigrazione [com (2000) 757 definitivo], Bruxelles 2000.14. D. Blunkett, Reclaiming Britishness, Foreign Policy Centre, London 2002.15. Cfr. M. Livi Bacci, Relazione al convegno “Immigrati e italiani: il futuro è convivenza”, Roma, 20-

21 febbraio 2004.16. Così, fra i tanti, S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Milano 1994 (testo non a stam-

pa disponibile presso il Centro di documentazione dell’Ismu di Milano), e A. Dal Lago, Immigra-zione, criminalità e pregiudizio, in «La Critica Sociologica», n. 110, 1994, pp. 28-35.

17. Perspectives de l’emploi de l’Ocde, Ocde, Paris 2003.18. Cfr. G. Zincone, Indignazione e immigrazione, in «La Repubblica», 18 settembre 2002, p. 14.19. Cfr. U. Melotti, La nuova immigrazione a Milano, cit.20. Mi limito a ricordare il libro di G. Bocca, Gli italiani sono razzisti?, Garzanti, Milano 1988, peral-

tro caratterizzato da innumeri plagi di testi altrui.21. Cfr. G.E. Rusconi, Questione etnica e cittadinanza, in «Democrazia e Diritto», n. 6, 1989, p. 27.22. Per un’ampia documentazione di queste e altre posizioni sull’immigrazione in Italia si veda U. Me-

lotti, L’abbaglio multiculturale, Seam, Roma 2000.

Le nuove migrazioni internazionali 1 5 1

03 Melotti OK:03 Melotti OK 23-08-2012 10:50 Pagina 151

Page 153: Gli spazi della globalizzazione

Parte quarta

TECNOLOGIE, INDUSTRIALISMO E GLOBALIZZAZIONE

Fabio Massimo Parenti

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 153

Page 154: Gli spazi della globalizzazione

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 154

Page 155: Gli spazi della globalizzazione

Introduzione

La tecnologia è qui considerata, in accordo con la storia della scienza e la sto-ria dell’economia, come un insieme di tecniche (pratiche) organizzate sistema-ticamente al fine di realizzare un processo produttivo. In altre parole, essa puòessere intesa come il risultato definitivo della crescente interazione tra la tecni-ca e la scienza.

Nella storia degli ultimi secoli, il rapporto fra la tecnica e la scienza è divenutosempre più dialettico. Da una parte, la sperimentazione e l’impiego a fini pro-duttivi di una risorsa naturale (tecnica) ha fornito elementi conoscitivi su di es-sa; dall’altra, l’indagine sulla natura intrinseca di una risorsa e sul rapporto cheintrattiene con il mondo circostante (scienza) ha offerto nuovi elementi per uti-lizzare diversamente e in più modi la risorsa stessa.

L’insieme delle pratiche e delle conoscenze – tecnologie – necessarie allaconversione di risorse in prodotti va quindi inteso come il risultato del rap-porto dialettico fra conoscenze scientifiche e tecniche, variabile nello spazio,oltre che nel tempo1.

Se da un punto di vista temporale la compenetrazione tra scienza, tecnica eindustria avvenne in modo evidente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del No-vecento, da una prospettiva spazio-territoriale i primi legami tra il mondo del-l’industria e il mondo universitario comparvero soprattutto in Germania:

Nel Novecento si sono moltiplicati a dismisura i laboratori industriali in cui si fa del-la ricerca, che spesso è vera e propria ricerca pura, e i laboratori industriali ove si stu-diano le applicazioni scientifiche. La natura stessa della tecnica ne è uscita trasfor-mata: da un tipo di attività caratterizzata da procedure per prove ed errori ispiratedall’esperienza, la ricerca tecnologica ha assunto le vesti di un operare razionalmen-te programmato in funzione di precise conoscenze teoriche2.

In linea generale possiamo dire che i processi produttivi nel macro-settoresecondario, come quelli negli altri macro-settori economici, hanno avuto origi-ne e sono sempre stati modificati dall’introduzione di una qualche innovazionetecnologica3. È noto, inoltre, come la capacità di intervento sulla natura, in par-ticolare ad opera delle attività manifatturiere (e più genericamente e ampiamenteindustriali), abbia sancito nel corso del Novecento la preminenza del modo diproduzione industrialista, e quindi delle innovazioni a esso correlate4.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 155

Page 156: Gli spazi della globalizzazione

Premesso ciò, l’analisi attenta delle trasformazioni che, negli ultimi venti anni,sono intervenute nell’organizzazione territoriale dell’industria in funzione dei flus-si di tecnologie ci permetterà di riflettere su alcune importanti novità che caratte-rizzano la globalizzazione (ossia un’epoca nuova segnata dalla trasformazione e dalprogressivo superamento dell’industrialismo), soprattutto per le implicazioni so-cioeconomiche da un punto di vista geografico.

Tuttavia le novità più recenti emergeranno solo dopo aver delineato una par-ziale sintesi storica (dalla fine del XIX secolo al 1980) delle interconnesse dinami-che nell’organizzazione spaziale dell’impresa e del lavoro – deducibili in parte dal“ciclo di vita del prodotto e delle tecnologie” – cui è dedicato il primo capitolo diquesto saggio.

A tale scopo, abbiamo ritenuto significativo iniziare questa trattazione pre-sentando alcuni importanti concetti analitici elaborati da Schumpeter, proprioper la rilevanza che tuttora conservano per la comprensione delle dinamicheeconomiche.

Fabio Massimo Parenti1 5 6

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 156

Page 157: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo primoTecnologie e industrialismo

1.1 Il contributo di Schumpeter

Nell’ampia elaborazione teorica di Schumpeter sullo «sviluppo ciclico deisistemi economici» uno spazio centrale è dedicato alla dinamica della produ-zione industriale, la quale è a sua volta imperniata su una teoria dell’innovazio-ne tecnologica nelle imprese5.

Schumpeter affronta nello specifico l’analisi della dinamica della rivolu-zione industriale, dalla seconda metà del XVIII secolo ai primi decenni delXX secolo6, individuando dei cicli lunghi (50-60 anni), brevi (dieci anni) e bre-vissimi (pochi anni), caratterizzati da una crescita economica a intensità va-riabile (tra sviluppo, stagnazione e recessione). In generale, i cambiamenti ci-clici (lunghi) del sistema economico capitalistico sono indotti, a suo avviso,dalle innovazioni: i primi due furono legati, ad esempio, al perfezionamento ealla diffusione della macchina a vapore (1787-1842)7 e del trasporto ferrovia-rio (1843-1897) e il terzo (fino al 1956) alla simultanea diffusione dell’elettri-ficazione e dell’automobile8.

Per comprendere gli andamenti intermedi di transizione da un ciclo ad unaltro, sarà utile fornire un esempio. La fine del secondo ciclo fu caratterizzatadall’indebolimento della crescita economica internazionale che era stata realiz-zata intorno alla metà dell’Ottocento durante la cosiddetta “età del libero scam-bio”9, per poi sfociare progressivamente nella “grande depressione” del ven-tennio 1873-1895. In questo stesso periodo, però, vecchi e nuovi Paesi indu-strializzati reagirono attraverso una serie d’innovazioni tecnologiche (e politiche)che portarono alla “seconda rivoluzione industriale” a cavallo tra il XIX e il XXsecolo; processo che favorì l’espansione dell’industrialismo come modo di pro-duzione dominante – in particolare, grazie all’elettricità e al miglioramento del-la navigazione marittima (ancora oggi principale vettore per il trasporto di mer-ci al livello mondiale).

L’innovazione e gli «uomini nuovi»Nell’analisi schumpeteriana un prodotto industriale è il risultato della com-

binazione tra vari «fattori» o «dati tecnologici» (lavoro, risorse naturali e mezzidi produzione), la cui interazione ci fornisce una determinata «funzione di pro-

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 157

Page 158: Gli spazi della globalizzazione

duzione». Quest’ultima cambia inoltre per l’effetto di un’innovazione che, ri-combinandone i fattori, determina effetti a catena in grado di trasformare l’in-tero sistema economico. Un processo disarmonico che nel complesso si esplicatramite squilibri e turbamenti.

Non a caso Schumpeter vedeva nell’innovazione, non sempre legata a un’ in-venzione, un fattore interno e autonomo, che, inserendosi nel sistema economi-co (per il bisogno d’affrontare un problema), causa la nascita di nuove impresee la morte di molte altre, sia vecchie, sia giovani: una dinamica considerata a ra-gione l’essenza del meccanismo capitalistico.

La macrocategoria dei «cambiamenti dei metodi d’offerta delle merci» èquella in cui Schumpeter fa rientrare i vari tipi d’innovazione: «i nuovi prodot-ti; le nuove tecnologie di produzione; l’apertura di nuovi mercati o fonti d’ap-provvigionamento; la taylorizzazione del lavoro; il miglior uso di materiale e lenuove organizzazioni commerciali». Ciascuna di queste tipologie d’innovazioneè ritenuta talmente dirompente da sollecitare tutte le imprese ad adattarsi, a mi-gliorarsi e a innovarsi, cercando di re-orientare anche le tecnologie esistenti (pri-ma nel suo settore e poi negli altri). Basti pensare che l’introduzione nel 1890del motore a scoppio a quattro tempi (inventato da Rochas nel 1862) nell’indu-stria dell’automobile determinò effetti su altre industrie tramite lo sviluppo d’e-conomie esterne di scala (complementari all’economie interne). Dall’industriadell’automobile, scrive infatti Schumpeter, «dipende gran parte dell’edilizia svi-luppatasi dopo la prima guerra mondiale», così come parte della siderurgia edell’industria petrolifera.

Ma chi applica inizialmente l’innovazione?Schumpeter attribuisce grande importanza all’ascesa di «uomini nuovi», cui

sarebbe sempre associata un’innovazione. Chi riesce a perseguire comporta-menti nuovi – aggiunge – deve confrontarsi sempre con un atteggiamento osti-le di tutti i principali attori economici (dalle imprese fino ai consumatori), permotivi sia di concorrenza, sia etico-sociali o ambientali. Tuttavia, una volta chequalcuno affronta il rischio, riuscendo a superare le difficoltà iniziali per la rea-lizzazione economica di un’innovazione, si determina uno scombussolamentogenerale che modifica il complesso del sistema economico di riferimento.

I monopoli Il ruolo trainante dell’innovazione è legato soprattutto al fatto che essa rap-

presenta la prima fonte di guadagno e quindi di profitto per l’impresa innovatri-ce. Il profitto così ottenuto, sottolinea giustamente Schumpeter, può continuarea realizzarsi peraltro solo in condizioni di concorrenza imperfetta, cioè attraversola formazione di monopoli che consentano all’impresa di vivere di «quasi rendi-ta», eliminando la concorrenza con brevetti, aggressioni e alleanze strategiche.

Si può ricordare in proposito che, durante la “grande depressione” della fi-ne dell’Ottocento, l’intensità e il numero delle innovazioni (con una serie di cam-biamenti politici rivolti al protezionismo) furono seguite da un aumento del con-

Fabio Massimo Parenti1 5 8

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 158

Page 159: Gli spazi della globalizzazione

trollo dell’economia da parte di poche macro-imprese industriali e finanziarie(per la crescente compenetrazione tra finanza e industria). Ciò servì a contra-stare una generalizzata caduta dei prezzi, ma soprattutto a raccogliere maggiorifondi e finanziare la ripresa10.

All’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo, per esempio, negli USA il 90% dellaraffinazione del petrolio era sotto il controllo di un’unica impresa, la Standard Oil;[…] nel 1901 l’US Steel, massima azienda industriale del mondo, controllava dueterzi della produzione siderurgica americana. In Germania, nello stesso periodo, laSiemens e l’Aeg concentravano la quasi totalità del settore elettromeccanico […]11.

Questa tendenza, che Schumpeter considerava agli albori, sarebbe divenutanel tempo sempre più rilevante, mettendo a rischio lo stesso processo d’espan-sione del capitalismo.

L’analisi schumpeteriana, benché sia stata costruita considerando delle “eco-nomie chiuse” e sia stata elaborata in periodi in cui era impossibile prevederemolti dei cambiamenti futuri, contiene elementi ancora validi: l’importanza at-tribuita all’innovazione (strettamente legata al credito) nello sviluppo economi-co, il ruolo determinante degli imprenditori (coloro che applicano l’innovazio-ne), nonché la previsione della crescita del «capitalismo trustificato» (più pro-duzione, più disoccupazione, più capacità produttiva inutilizzata).

1.2 La dinamica geografica delle tecnologie tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento

Le innovazioni tecnologiche, che sono causa di turbamenti e cambiamenti ri-levanti nel sistema economico, si riflettono anche nello spazio. Dobbiamo alloraaffrontare il tema della trasformazione dello “spazio industriale”, che è a sua vol-ta correlato a quello della distribuzione geografica delle tecnologie.

Nel periodo di transizione tra il XIX e il XX secolo, le innovazioni tecnolo-giche erano distribuite geograficamente in quei Paesi che, in tempi diversi, ave-vano avviato un processo d’industrializzazione. A Gran Bretagna, Belgio, Olan-da e Francia, s’affiancarono, tra il 1860 e il 1870, nuove potenze industriali: Ger-mania e Stati Uniti, innanzi tutto, ma anche Italia, Russia e Giappone. In diversiterritori di tutti questi Paesi si verificarono le prime applicazioni di un numeroenorme di invenzioni e innovazioni, che riguardavano soprattutto il settore si-derurgico (miglioramento delle tecniche per la produzione dell’acciaio), quellochimico (produzione di coloranti di sintesi) e quello elettromeccanico (motorielettromagnetici e illuminazione elettrica).

Nei primi decenni del Novecento avvenne il graduale sorpasso dei Paesi dipiù antica industrializzazione da parte di Germania e Stati Uniti. La Germa-nia, pur se in ritardo, iniziò a primeggiare nella specializzazione delle produ-zioni ad alta componente tecnologica, ma fu negli Stati Uniti che si verificò la

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 5 9

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 159

Page 160: Gli spazi della globalizzazione

più significativa razionalizzazione del lavoro industriale. A differenza di quan-to avveniva in Germania, infatti, negli USA la razionalizzazione della produ-zione aveva interessato non solo l’innovazione tecnologica, ma soprattutto quel-la organizzativa, sfociando in quel sistema di lavoro, scrupolosamente calcola-to e burocraticamente organizzato, detto “taylorismo” (dal nome del suoprincipale promotore)12.

Di seguito vedremo come i flussi di capitali e le localizzazioni industriali ciforniscano elementi interpretativi della dinamica tecnologica mondiale.

Tecnologie, capitali e colonialismoEssendo l’innovazione tecnologica bisognosa di credito, i flussi di tecnologie

a livello mondiale riflettevano in maniera piuttosto trasparente, a differenza dioggi, anche i flussi d’investimento di capitali e viceversa13.

Nel primo decennio del XX secolo il principale centro finanziario mondialeera ancora la Gran Bretagna, seguita dalla Francia e a maggiore distanza dallaGermania e dagli USA. La prima riversava in tutto il mondo i suoi investimentidi capitali; la seconda aveva rapporti intensi con i Paesi dell’est europeo, la Rus-sia e i Balcani (in concorrenza crescente con la Germania) ed era presente an-che nel Nord Africa e in Spagna; i capitali statunitensi rimanevano invece anco-ra limitati a movimenti verso i paesi confinanti, come il Messico e il Canada14.

Nel complesso, i maggiori flussi di capitali e tecnologie si realizzarono all’in-terno delle regioni che, in misura e tempi diversi, avevano avviato un processod’industrializzazione, mentre solo con l’aumento dell’espansione coloniale, taliflussi cominciarono a estendersi a moltissime altre regioni del mondo.

D’altra parte, però, lo sviluppo di politiche protezionistiche nei Paesi tecno-logicamente avanzati e la creazione di strutture industriali gerarchiche, caratte-rizzate da monopoli e oligopoli, riducevano la possibilità d’espansione liberadelle tecnologie e dei capitali, lasciando moltissime aree del mondo in una con-dizione di forte subordinazione tecnologica dai Paesi di origine. Come è noto, in-fatti, durante il processo di colonizzazione, i capitali investiti all’estero furonoutilizzati in funzione degli interessi economici dei Paesi d’origine, che abbiso-gnavano di materie prime (agricole e minerarie) e di risorse energetiche per l’in-dustria e per le città.

Per l’estensione della conquista territoriale dell’ambiente naturale da parte dell’in-dustria capitalistica grandissima importanza ha avuto la sempre crescente utilizza-zione delle risorse naturali dei Paesi economicamente sottosviluppati. Storicamenteciò è stato legato alla conquista delle colonie e allo sfruttamento predatorio delle lo-ro ricchezze naturali15.

Questa dinamica mondiale divenne peraltro più diffusa ed evidente duran-te la seconda rivoluzione industriale: «In Africa, ad es., nel 1876 alle potenze co-loniali apparteneva in tutto il 10,8% del territorio complessivo del continente,ma nel 1900 le colonie costituivano già il 90,4% della superficie»16.

Fabio Massimo Parenti1 6 0

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 160

Page 161: Gli spazi della globalizzazione

Nelle aree coloniali lo sviluppo di un’industrializzazione endogena, identi-ficato nella sostituzione delle importazioni, avvenne, non a caso, solo con laprogressiva liberazione dagli imperi occidentali, avvenuta tra gli anni Qua-ranta e Cinquanta in Asia e tra gli anni Sessanta e Settanta in Africa17. Fino aquel tempo il loro ruolo fu relegato a quello prevalente di fornitori di materieprime e importatori di prodotti dell’industria manifatturiera18.

Anche in seguito alla decolonizzazione, si crearono purtroppo le condizioniper il dispiegarsi di un processo di neocolonizzazione ad opera soprattutto delleimprese multinazionali, che contribuirono alla riproduzione di un ordine mon-diale profondamente ineguale, seppure molto diverso da quello di prima.

La localizzazione classica dell’industria e i suoi mutamentiL’ancora debole sviluppo delle telecomunicazioni e gli elevati costi di traspor-

to non apportarono, fino ai primi decenni del Novecento, delle grandi trasforma-zioni nelle strategie localizzative degli impianti industriali di lavorazione di mate-rie prime e di semilavorati. Questi impianti, infatti, continuavano ad avere un rap-porto strettamente legato al territorio (rapporti verticali), lì dove erano le fonti divarie materie prime energetiche (giacimenti minerari, risorse idriche e carbone),anche se non mancavano situazioni per scelte diverse (l’industria tessile, ad esem-pio, già conosceva la separazione geografica degli impianti). Una dinamica loca-lizzativa che nel complesso è stata ben concettualizzata da Alfred Weber, il cui mo-dello della localizzazione degli impianti industriali in funzione dell’analisi dei co-sti di trasporto (tra i luoghi d’approvvigionamento di materie prime e i mercati disbocco) risulta ancora oggi valido per alcuni settori industriali.

Va ricordato, poi, che lo sviluppo dell’industria, territorialmente concentra-to, andò di pari passo con i fenomeni d’agglomerazione urbana, contribuendoalla formazione di grandi aree metropolitane. Proprio in queste aree si crearonoquelle condizioni infrastrutturali e culturali in grado di stimolare la prolifera-zione di altre innovazioni, che, oltre ad essere concentrate a grappoli da un pun-to di vista temporale, sono addensate nello spazio.

Tale struttura territoriale dell’industria era ed è il risultato della formazione,in vari settori, di economie di scala, le quali sono a loro volta strettamente legateall’introduzione di innovazioni in grado di ridurre (nel breve e medio periodo)il costo medio di produzione per unità di prodotto19.

Per molto tempo, dunque, gli alti costi di trasporto costituirono, in ultimaistanza, il principale vincolo localizzativo, che iniziò a perdere progressivamen-te di importanza solo con «lo spostamento nella struttura del bilancio energeti-co»20: dal carbone di legna al carbon fossile nel XIX secolo e dal carbon fossileal petrolio nel XX secolo; eccezion fatta per la Cina, il cui fabbisogno energeti-co primario è ancora oggi soddisfatto, per il 76%, dal carbone.

Alle trasformazioni nella struttura del bilancio energetico vanno correlate,infatti, invenzioni e sviluppi inerenti al sistema dei trasporti e alle telecomuni-cazioni (con conseguente abbassamento dei costi relativi). Per questa ragione,

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 6 1

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 161

Page 162: Gli spazi della globalizzazione

si può sostenere che la migliore capacità d’uso di vecchie e nuove fonti energe-tiche e l’espansione territoriale delle regioni urbano-industriali (sia in relazio-ne alle diseconomie di scala, sia in rapporto agli sviluppi nei trasporti) siano duefacce della stessa medaglia: inscindibili, complementari e interagenti.

In generale, dall’elettrificazione di massa e da tutta una serie d’innovazioniderivò un’intensificazione delle relazioni funzionali tra le imprese (e al loro in-terno)21 che favorì la crescente polarizzazione e la contestuale diffusione territo-riale dell’industria.

Se il costo di trasporto è divenuto sempre meno importante come fattore lo-calizzativo, le dotazioni naturali e, soprattutto, le condizioni di lavoro hannomantenuto e spesso aumentato la rilevanza del proprio ruolo (anche se variabi-le a seconda dei settori).

1.3 Nuovi processi localizzativi: tecnologie e lavoro (dagli anni Sessanta agli anni Settanta)

Le economie esterne legate all’agglomerazione si trasformarono, con il pas-sare del tempo, in diseconomie (per eccesso di congestione e aumento dei costidel lavoro e del suolo) che contribuirono a determinare fenomeni di decentra-mento territoriale e di decentramento produttivo22.

A partire dall’inizio degli anni Sessanta del XX secolo, il maggiore impulso al-la ridefinizione dello “spazio industriale” è stato dato ancora una volta proprioda una serie d’innovazioni tecnologiche: in particolare, i calcolatori elettronici,i vari sistemi automatizzati e, in generale, i miglioramenti dei trasporti aerei eterrestri insieme alle telecomunicazioni radio-televisive.

Nonostante la progressiva diffusione di tecnologie dal “centro” verso la “pe-riferia” (avvenuta prima al livello regionale-nazionale e poi a quello globale), lageografia mondiale dei livelli di sviluppo tecnologico-industriale rimanevaprofondamente disuguale. In questo periodo, non a caso, il fattore lavoro, il cuiruolo ai fini della localizzazione industriale tendeva ad aumentare, si interna-zionalizzava, riflettendo pertanto – tramite le differenti condizioni di lavoro –gli squilibri mondiali nei diversi livelli di sviluppo.

Così, a partire dalla constatazione di un assetto mondiale enormemente ine-guale, sono emerse numerose elaborazioni teoriche fondate sull’analisi di un si-stema internazionale strutturato in una “periferia” subordinata a un “centro”23.

Divisione del lavoro e “sistema mondo”Ci interessa a questo punto capire in quali direzioni si siano mosse le tecno-

logie su scala mondiale24, per giungere a una visione d’insieme che non preten-de, ovviamente, di coglierne i dettagli. A tal fine è necessario riferirsi alla divi-sione internazionale del lavoro (cui corrispondono scambi di merci, di capitali,di tecnologie e anche di persone), che, dagli anni Settanta in poi, è andata con-figurandosi in maniera nuova.

Fabio Massimo Parenti1 6 2

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 162

Page 163: Gli spazi della globalizzazione

La ripartizione del lavoro su scala globale, che peraltro s’articola in unacomplessa architettura di divisioni regionali, va intesa in senso ampio: sia co-me divisione orizzontale del lavoro all’interno delle società e dei singoli pro-cessi produttivi, sia come divisione verticale tra funzioni esecutive e di con-trollo25, sia come divisione del lavoro territoriale (allo stesso tempo orizzonta-le e verticale) fra macroregioni e microregioni nel contesto delle relazioni intere transnazionali.

Tra le diverse interpretazioni sulla natura del rapporto “centro-periferia”nella struttura internazionale del lavoro, quella di Immanuel Wallerstein (fineanni Settanta) può essere considerata una delle più articolate (anche perché su-pera l’approccio della “dipendenza” a favore di quello “dell’interdipendenza”fra i gruppi di paesi).

Nei suoi lunghi studi sull’evoluzione storica del capitalismo, Wallerstein spie-ga quali siano gli adeguamenti necessari al mantenimento del sistema capitalisticoglobale rispetto a tre dilemmi: l’accumulazione, la legittimazione politica e il pro-getto geoculturale26. Per quanto riguarda il mantenimento dell’accumulazione dicapitale, egli ci fa notare come al necessario abbassamento dei costi di produzio-ne per le imprese debba corrispondere anche un aumento della domanda effetti-va (quindi dei salari). Come soddisfare tali opposte esigenze?

È esistito storicamente un solo modo: attraverso la separazione geografica. Ognivolta che nel mondo sono state assunte delle misure politiche destinate ad aumen-tare in qualche modo la domanda effettiva […], altre misure sono state assunte in al-tre parti del sistema-mondo per accrescere il numero di produttori con basso livel-lo salariale27.

In questa differenziazione/separazione geografica, Wallerstein riconosce pe-raltro l’importanza del cambiamento tecnologico, quale modo per creare con-dizioni nuove di monopolio, di profitto e quindi d’accumulazione.

Così la struttura mondiale su cui ragiona Wallerstein è più articolata rispet-to a quella dei suoi predecessori. Riconoscendo l’importanza dell’interazionedel commercio e degli investimenti internazionali (quindi della diffusione di tec-nologie), Wallerstein sostiene che l’economia mondiale conosce un’unica divi-sione internazionale del lavoro, caratterizzata da specializzazioni regionali nel-l’ambito del “sistema-mondo”. Quest’ultimo, quindi, non è costituito solo daun centro e da una periferia, ma anche da Paesi in posizioni semiperiferiche.

Tale articolazione in tre livelli ha fornito un’immagine più coerente dellastruttura dell’economia globale che si è andata consolidando nei decenni suc-cessivi alla seconda guerra mondiale.

Questa tripartizione è stata riconosciuta anche da Giovanni Arrighi, per ilquale sono più probabili spostamenti verso il basso che verso l’alto e la riprodu-cibilità dei gap di ricchezza tra i tre gruppi di Paesi è legata ai processi d’inno-vazione nel centro, d’imitazione nella semiperiferia e di proletarizzazione nellaperiferia28.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 6 3

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 163

Page 164: Gli spazi della globalizzazione

“Ciclo del prodotto”, tecnologie e divisione internazionale del lavoroIl decentramento produttivo su scala planetaria, che è avvenuto grazie al-

l’aumentata efficienza degli scambi e della circolazione d’informazioni tra gli an-ni Sessanta e gli anni Ottanta ed è proseguito fino ad oggi, anche se con caratte-ristiche in parte molto diverse, ha corrisposto a un frazionamento delle impresein unità produttive di varie dimensioni. Possiamo affermare, di conseguenza,che la struttura multinazionale delle imprese (per cui un bene viene prodotto indue o più Paesi da parte di una stessa azienda) esemplifichi il rapporto fra distri-buzione e movimento di tecnologie e distribuzione geografica dell’industria, so-prattutto in relazione alle fasi del “ciclo del prodotto”.

Infatti, come si può ben cogliere dalla teoria di Vernon (1966)29, che ripren-de e sviluppa in maniera più compiuta la teoria del gap tecnologico di Posner(1961)30, la struttura delle imprese si diffonde e si decentralizza in funzione del-la ricerca delle diverse condizioni richieste da ogni fase del “ciclo del prodotto”e, più in generale, delle tecnologie.

L’individuazione da parte di Vernon di gruppi di Paesi nei quali si riscon-trano le migliori condizioni localizzative per ciascuna delle tre fasi del ciclodel prodotto (innovazione, maturità e standardizzazione) (cfr. tab. 1) ci ripor-ta inevitabilmente, pur mantenendo tutte le differenze d’approccio e di anali-si, alle tre macroregioni mondiali descritte da Wallerstein (centro, semiperi-feria e periferia).

Dall’accostamento Vernon-Wallerstain si rileva, quindi, il legame e la so-vrapposizione degli spazi disegnati dai flussi di tecnologia con quelli disegnati dallavoro umano, oltre che, in ultima istanza, dall’industria. Una sovrapposizionespaziale che ha prodotto una più complessa divisione del lavoro fra regioni ePaesi, aumentando l’interdipendenza globale attraverso la creazione di “nuovispazi industriali” (in generale il livello tecnologico in una data area è inversa-mente proporzionale alla quantità di lavoro umano necessario e direttamenteproporzionale al livello di qualificazione e specializzazione dello stesso).

Pur rimanendo a nostro avviso utile l’accostamento appena effettuato, vaprecisato peraltro che il “ciclo di vita del prodotto” aiuta ad analizzare soprat-tutto la diffusione geografica delle tecnologie al livello di un singolo settore. Peravere un’idea più globale è invece necessario considerare la diffusione delle stes-se al livello intersettoriale (in questo caso la dinamica è più strettamente legata ainnovazioni di processo31, oppure a quelle di un prodotto che modifichi radi-calmente l’organizzazione del processo produttivo).

La tripartizione del sistema mondiale, sia nel caso della divisione del lavoro,sia nel caso del “ciclo del prodotto”, rischia infatti di celare quelle dinamichecomplesse che sono dominate dalla mobilità e dalle sovrapposizioni parziali traregioni e Paesi appartenenti a gruppi differenti.

Una formulazione più chiara e articolata della divisione internazionale dellavoro è stata fornita, verso la seconda metà degli anni Settanta, da Umberto Me-lotti, il quale ha effettuato una distinzione tra sette gruppi di Paesi suddivisi nel-

Fabio Massimo Parenti1 6 4

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 164

Page 165: Gli spazi della globalizzazione

Fase del ciclo delprodotto

Condizioni necessarie Paesi e Regioni

innovazione Centri metropolitani più industrializzati.Servizi finanziari, disponibilità di capitale dirischio.Attività di ricerca e addetti altamente qualificati.Flessibilità dei rapporti con i fornitori di servizi.

Stati UnitiGiapponeGermania dell’OvestGran BretagnaFrancia

maturità Fuori dalle aree metropolitane o dai Paesid’origine.Esportazione del prodotto nella nuova area:inizialmente si apre una filiale commerciale , inseguito un impianto di produzione.Produzione in serie, riduzione costi unitari diproduzione.

AustraliaCanadaItalia ed altre regionieuropee

standardizzazione Diffusione e radicamento del prodotto e delletecniche produttive. Decentramento degliimpianti in aree con abbondante manodopera,poco qualificata e a basso costo.Le aree originariamente esportatrici diventanoin questa fase importatrici.

Asia sudorientale,Mediterraneo africanoe mediorientale,alcuni Paesidell’America Latina

Tab. 1 Il “ciclo del prodotto” secondo Vernon

Nota: la terza colonna “Paesi e Regioni” è incompleta e riporta soltanto alcuni esempi. Si tenga presen-te, inoltre, la variabilità delle attività produttive, sia nel tempo, sia nello spazio: diverse regioni geografi-che possono essere caratterizzate allo stesso tempo da attività appartenenti a più fasi del ciclo del pro-dotto.Fonte: elaborazione schematica dell’autore sulla base della descrizione tratta da S. Conti, L’industria mani-fatturiera, in S. Conti et al. (a cura di), Geografia dell’Economia Mondiale, UTET, Torino 1993, pp. 188-191.

l’ambito delle due macrocategorie dei “Paesi sviluppati” e dei “Paesi sottosvi-luppati” (cfr. tab. 2).

Bisogna infine constatare che la divisione internazionale del lavoro è in con-tinua trasformazione; in particolare, un nuovo assetto si sta definendo a causa deiprocessi economici, sociali, politici, ambientali, nonché scientifici, degli ultimiventi anni.

Possiamo concludere questo paragrafo sottolineando che è proprio la formadell’impresa multinazionale a produrre quelle nuove dinamiche spaziali di lavo-ro e di tecnologie rese possibili, in ultima analisi, dalle innovazioni tecnologiche.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 165

Page 166: Gli spazi della globalizzazione

1.4 Le imprese multinazionali: verso la globalizzazione

Nei decenni seguenti la seconda guerra mondiale si sviluppò un processo dimultinazionalizzazione delle imprese statunitensi, che estesero i loro investi-menti in America Latina, Canada ed Europa occidentale nel settore delle mate-rie prime e delle industrie manifatturiere più avanzate (automobile, chimica edelettronica), nonché nei Paesi latinoamericani, mediorientali e africani per l’e-strazione del petrolio.

Il ruolo dominante delle imprese oligopolistiche multinazionali americanevenne tuttavia indebolito verso la metà degli anni Settanta, quando, in seguito algrande shock petrolifero (1973), le imprese concorrenti europee e giapponesi,ma anche brasiliane, indiane e coreane aumentarono la propria presenza e com-petitività nel mercato mondiale32.

L’aumento del numero di multinazionali, e della loro flessibilità d’investi-mento, fu la logica conseguenza di una generalizzata diffusione di politiche pro-tezionistiche (effetto della crescente competizione mondiale), oltreché del ruo-lo primario svolto dalle nuove tecnologie: le prime indussero le imprese a pene-trare all’interno dei mercati nazionali, mentre le seconde garantirono alleimprese quella flessibilità organizzativa e produttiva per diffondere stabilimen-ti e realizzare joint venture con gli attori locali. Cambiavano di conseguenza iflussi di beni e di capitali.

Se all’inizio degli anni Cinquanta la totalità degli scambi di manufatti avve-niva fra Stati, nei primi anni Ottanta circa il 50% di questi si realizzava all’inter-no delle imprese multinazionali. Una delle cause principali di questa trasforma-zione va ricercata nel cambiamento della struttura degli investimenti: dagli an-ni Sessanta, infatti, le multinazionali oligopolistiche hanno iniziato a far prevaleregli investimenti diretti esteri (in settori specifici di altri Paesi) su quelli di por-tafoglio (titoli pubblici e infrastrutture)33.

Capitali, tecnologie e dinamica geografica della divisione del lavoroTra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, gli investimenti diretti esteri aumen-

tavano in media del 15% l’anno, a opera soprattutto delle grandi imprese mul-tinazionali che gestivano flussi di capitali diretti soprattutto verso le economiepiù industrializzate (cresceva il contributo fornito dal Canada, dalla Germaniae dal Giappone)34.

Va sottolineato, peraltro, che aumentavano anche i flussi d’investimento ver-so i Paesi in via di sviluppo (PVS). Di particolare interesse, oltre agli investimentiin Argentina, Brasile e Messico, fu l’afflusso consistente di capitali privati e pub-blici, d’origine americana, europea e giapponese, nelle aree della cosiddetta Pa-cific Rim (il margine del Pacifico). In un primo momento questi flussi interessa-rono Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan (New Industrialized Coun-tries – NICs), in cui vi erano condizioni politico-economiche che favorivanoinvestimenti speculativi, come conseguenza della delocalizzazione industriale35.

Fabio Massimo Parenti1 6 6

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 166

Page 167: Gli spazi della globalizzazione

Paesi “sviluppati” Caratteristiche generali

Gruppo ristrettoUSA e a grande distanza ex URSS;RFT e Giappone

Paesi all’avanguardia nella ricerca tecnologica. Predominante èla posizione degli USA, non solo nel quaternario, ma anche nelsecondario e primario. L’URSS in realtà presentava un’industrialeggera e un’agricoltura arretrate, ma viene messa in questacategoria perché capace di competere con gli USA sul piano dellaricerca militare e spaziale.

Gruppo più ampioMolti Paesi europei, Canada eAustralia

Circoscritti alle attività del settore secondario e terziario. Il livellodelle innovazioni tecnologiche nei settori più avanzati eranettamente inferiore al primo gruppo.

Gruppo di confineItalia

La più esposta e isolata, in difficoltà per la staticità del settorepubblico e la vulnerabilità rispetto al contesto internazionale.

Paesi “sottosviluppati” Caratteristiche generali

SubimperialistiBrasile, Sud Africa, India e Iran(anche l’URSS, secondo S. Amin)

Paesi ricchi di risorse naturali e di manodopera a buon mercato.Importano tecnologie e capitali dai Paesi più avanzati edesportano manufatti in altri Paesi del Terzo Mondo, creando areed’influenza da cui importano derrate alimentari. In alcuni casitentano e riescono a esportare manufatti anche nei Paesi in-dustrializzati.

VassalliHong Kong, Singapore, Taiwan,Corea del Sud, Haiti ePortorico… ma anche regionimessicane vicino agli USA, re-gioni mediterranee legate alle expotenze coloniali, regionieuropee meno sviluppate

Paesi in cui vengono trasferite le industrie o parte dei processi adalta intensità di lavoro. Tessile, giocattoli, orologi, macchinefotografiche, bevande, cibi ecc.

RentiersArabia, Libia, Kuwait ed Emi-rati Arabi

Introiti petroliferi consistenti, elevati redditi pro capite… unaparte dei petroldollari è riciclata in Occidente tramite operazionispeculative. Difficoltà a sviluppare un’industria locale solida.Aree d’immigrazione dalle regioni circostanti più povere.

Paesi emarginatiBenin, Birmania, Ciad, Nepal,Afghanistan, Alto Volta, Senegal,e quasi tutti gli altri Paesidell’Africa a sud del Sahara.

Quelli più poveri per reddito pro capite e meno o per nullaintegrati all’economia capitalistica mondiale.

Tab. 2 La divisione internazionale del lavoro secondo Melotti

Nota: altri Paesi come il Vietnam e la Cina, che hanno seguito uno sviluppo autocentrato, si sono integra-ti all’economia mondiale, dapprima gradualmente e poi sempre più prepotentemente, pur mantenendo si-stemi economici a tutt’oggi molto centralizzati. Fonte: U. Melotti, Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in «Terzo Mon-do», n. 37-38, 1979, pp. 3-14.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 167

Page 168: Gli spazi della globalizzazione

Successivamente questi flussi si estesero ad altre regioni e Paesi asiatici. Come èstato ben sintetizzato da Fabrizio Eva:

Dopo aver seguito il modello di sviluppo giapponese, i NICs asiatici hanno avuto la di-sponibilità di consistenti capitali che hanno preso la via dell’investimento estero. Si èmessa in moto una seconda ondata rivolta verso la Malaysia, l’Indonesia, la Thailan-dia, le Filippine e in tempi più recenti verso la Cina e il Vietnam. Il processo di cresci-ta è stato molto simile: stessi livelli di crescita del PIL, stesso percorso di ristruttura-zione industriale export lead, stessa situazione politica sotto stretto controllo36.

A questo punto la teoria di Vernon, di cui già avevamo sottolineato i limiti,non è più utile per un’adeguata comprensione del funzionamento delle impresemultinazionali e dell’inerente dinamica degli investimenti negli anni Ottanta: inquesto periodo la divisione internazionale del lavoro si alimenta di nuove orga-nizzazioni al livello regionale, in cui si verificano – ad es. nell’Estremo Oriente –altrettante «scomposizioni tecnologiche del ciclo produttivo»37.

La teoria di Vernon spiega abbastanza bene il meccanismo dei cosiddetti in-vestimenti “integrati orizzontalmente” (l’esportazione di stabilimenti per pro-durre dappertutto prodotti più o meno simili), che hanno caratterizzato la pri-ma fase dell’espansione delle multinazionali americane, e poi di quelle giappo-nesi e europee. Ma già dalla fine degli anni Settanta e in modo più incisivo neglianni Ottanta, la diffusione geografica degli investimenti, delle tecnologie e del-l’industria ha reso tutto più complesso, trasformando l’articolazione geograficadel “ciclo del prodotto”.

Le multinazionali hanno iniziato a optare infatti anche per investimenti “in-tegrati verticalmente”, cioè quelli tramite i quali si mira a controllare tutte lefasi del processo produttivo (fonti e mezzi di trasferimento delle materie pri-me e semilavorati); a tenere segreti i risultati delle ricerche per l’innovazione(al fine di prolungare il monopolio); a ottimizzare gli sviluppi nei mezzi di co-municazione e nei trasporti. In altre parole, si è assistito alla trasposizione al li-vello internazionale dei fattori che avevano garantito il successo (dei monopoli)al livello nazionale38, con una complessa combinazione tra polarizzazione e dif-fusione territoriale degli impianti, delle attività e delle relative tecnologie al li-vello mondiale.

Si è spezzato così il ciclo tradizionale di vita del prodotto. Come spiega effi-cacemente Gilpin, infatti,

mentre in passato la localizzazione dei vantaggi comparati e della produzione di mer-ci era passata dagli Stati Uniti agli altri Paesi industrializzati e successivamente ai Pae-si di recente industrializzazione, alla fine degli anni Ottanta anche la produzione ini-ziale di un bene può avvenire nei Paesi di recente industrializzazione. Così l’assem-blaggio finale del prodotto finito può aver luogo in un’economia avanzata. Questonaturalmente si traduce in benefici per le multinazionali e per i Paesi di recente in-dustrializzazione, ma crea un profondo risentimento in gran parte della classe operaiadegli Stati Uniti e dell’Europa occidentale39.

Fabio Massimo Parenti1 6 8

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 168

Page 169: Gli spazi della globalizzazione

Nel giro di pochi anni le imprese multinazionali hanno trasferito tecnologieavanzate verso i Paesi di recente industrializzazione, attivando stretti rapportidi cooperazione con un numero sempre maggiore di Paesi40. La sovrapposizio-ne di vari tipi d’investimento (orizzontali e verticali), come conseguenza di stra-tegie aziendali sempre più complesse, ha fatto prevalere la necessità di instaura-re ampie alleanze e accordi reciproci, per fattori politici, economici e tecnologi-ci (la rapidità delle innovazioni ha richiesto in particolare una diversificazionedei rischi e un maggiore fabbisogno di capitali).

La maggiore flessibilità delle imprese “neomultinazionali” (transnazionali) ela complessità delle loro strategie di localizzazione (cfr. cap. III) sono state resepossibili dalle nuove applicazioni nel campo dell’Information and ComunicationTechnology.

Tali cambiamenti non sarebbero stati tuttavia così veloci e dirompenti sen-za la trasformazione radicale dell’orientamento politico-economico (occiden-tale) del welfare state. A partire dalla fine degli anni Settanta si è affermato, in-fatti, il cosiddetto “neoliberismo” (con Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher inInghilterra), che costituisce, ancor oggi, il supporto ideologico alle politicheeconomiche dominanti nell’epoca della globalizzazione (cfr. cap. II). Va detto,peraltro, che quest’ultima è caratterizzata da cambiamenti talmente complessie radicali da non poter essere riducibile al solo “neoliberismo”, che pure costi-tuisce un orientamento politico-economico rilevante.

Le maggiori multinazionali e i Paesi d’origine,Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto, Roma 2003, p. 31.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 169

Page 170: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo secondoI paradigmi e le dinamiche tecnologiche nella globalizzazione

2.1 L’informazionalismo: paradigma tecnico-sociale della globalizzazione41

La dinamica “spaziale” delle tecnologie nel corso del Novecento è stata ana-lizzata – nella prima parte di questo saggio – in rapporto all’espansione del mo-do di produzione dominante: quello capitalistico industriale, che si è espressocon una serie di varianti storiche e geografiche, plasmando sempre più la struttu-ra delle diverse società umane.

Secondo il sociologo Manuel Castells, l’industrialismo come sistema tecnico-sociale prevalente è, da circa due decenni, in fase discendente, mentre nel con-tempo sta emergendo, gradualmente e in maniera tutt’altro che armonica, unnuovo paradigma «socio-tecnologico» chiamato «informazionalismo», ossia, ilfondamento paradigmatico della “società della rete”, che si basa sull’accesso esull’appropriazione della conoscenza.

Allo stesso tempo, però, ricordando che l’informazionalismo si sta svilup-pando nelle società industriali e da esse si sta differenziando, Castells sottolineacome tale processo di trasformazione non coinvolga l’intero pianeta, analoga-mente a quanto avvenuto con l’industrialismo42.

Ciò che risulta essere rivoluzionario, soprattutto per l’impatto sulla genera-zione e applicazione della conoscenza, dagli anni Sessanta in poi, è proprio losviluppo di nuove e potenti tecnologie di raccolta, elaborazione e distribuzio-ne dell’informazione. Non è l’informazione in sé a segnare il passo, visto chel’informazione e la conoscenza sono sempre state alla base di tutte le economiee le società, bensì i nuovi modi di produzione, uso e gestione della stessa. Letecnologie della conoscenza diventano pertanto il fattore di rendita primario.

Si tratta di innovazioni che, per dirla con Kuznets, sono «epocali», cioè ingrado di modificare radicalmente gli assetti tecnologici convenzionali e di tra-sformare in profondità il modo di produzione di tutta la società e, quindi, in ul-tima istanza, la sua essenza43.

Come è già avvenuto nell’epoca dell’industrialismo, il dibattito sulla rivolu-zione dell’Information technology ha visto divisi “pessimisti” e “ottimisti”, nel-l’ambito di una rosa ampia e variabile di posizioni.

In generale, se le critiche sugli effetti negativi che le nuove tecnologie han-no nel contesto geografico d’introduzione (aumento della disoccupazione,nuovi divari tecnologici, nuove malattie professionali, effetti sull’ambiente na-

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 170

Page 171: Gli spazi della globalizzazione

turale ecc.) possono stimolarne un uso più attento, il determinismo tecnolo-gico degli ottimisti – spesso interessati – non fornisce chiare indicazioni d’o-rientamento rispetto agli squilibri socioeconomici più recenti. Anzi, i proble-mi economico-finanziari, emersi alla fine degli anni Novanta, sono stati ac-centuati dalle posizioni ideologiche e fondamentaliste assunte dai varistakeholders (detentori d’interessi) a favore dei settori hi-tech nel corso degliultimi venti anni44.

A nostro avviso, sarebbe auspicabile l’emergere di un approccio capace dicogliere i cambiamenti in fieri, senza che ci si intestardisca nel sostenere posi-zioni idiosincratiche del tipo «tecnologie sì o tecnologie no». Ciò di cui ab-biamo bisogno è una comprensione critica delle funzioni e delle disfunzionidelle nuove tecnologie, dei loro effetti desiderati o indesiderati, delle motiva-zioni e delle cause per la loro introduzione, soprattutto in rapporto alle diver-sità socio-territoriali.

Da un punto di vista economico, per esempio, l’introduzione di una de-terminata tecnologia dipende dal mercato locale dei fattori produttivi – quin-di dalla struttura dei prezzi relativi ai vari input. Esistono, infatti, diversi mer-cati locali e regionali, esposti alla competizione internazionale, ove le diffe-renti condizioni strutturali delle disponibilità di capitali, uomini, risorse etecnologie condizionano il grado e la direzione del cambiamento tecnologicoe viceversa45.

La teoria delle reti

Oltre all’analisi sociologica proposta da Castells, va menzionata la recente ela-borazione di una vera e propria “teoria delle reti” (Buchanan, 2003, Barabàsi,2002), che è dominata dalle scienze hard (matematica, fisica, chimica, biolo-gia…). Si tratta di una teoria che, coinvolgendo numerosi studiosi e ricercatori,indaga sugli aspetti in comune tra ogni tipo di rete (neurali, cellulari, persona-li, economiche, mediche ecc.). Ogni rete, infatti, sembrerebbe funzionare in mo-do non omogeneo e non casuale, ingrandendo i nodi più collegati (hubs) e la-sciando quelli più piccoli – con connessioni rade – in una situazione di crescenteisolamento. Seppure vi siano già diverse evidenze empiriche sulle asimmetrie globali e re-gionali nelle relazione tecnologiche, politiche ed economiche – come emergeanche da questo libro – non è facile per il momento valutare la portata delle ipo-tesi relative alla “teoria delle reti”, che richiederanno ancora anni di studi per es-sere sviluppate con maggiore completezza.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 171

Page 172: Gli spazi della globalizzazione

Microelettronica e ingegneria geneticaIl fulcro del nuovo paradigma dell’informazionalismo – in accordo con Ca-

stells – è rintracciabile nelle rivoluzioni tecnologiche occorse nel campo dellamicroelettronica e dell’ingegneria genetica. La microelettronica riguarda la cre-scente sofisticazione di microchip, computer, fibre ottiche, Internet, con tutti iconseguenti sviluppi nelle telecomunicazioni (sempre più informatizzate). L’in-gegneria genetica consiste invece nella codifica e riprogrammazione del DNA,detto “codice informativo della materia vivente”46.

Si tratta di due campi scientifici tutt’altro che separati, la cui compenetra-zione sta proprio nella nuova capacità di elaborazione dell’informazione. Bastipensare che «titani nel campo dei computer, come Bill Gates, e adepti di WallStreet, come Michael Milken, stanno investendo molto denaro nel nuovo cam-po della bioinformatica, nella speranza di rafforzare il matrimonio tra [scienzedell’] informazione e scienze della vita»47.

Le nuove conoscenze genetiche (progetto del genoma umano e di altre spe-cie viventi) non sarebbero state possibili senza l’uso di complessi software, ingrado di simulare ed elaborare grandissimi volumi d’informazioni48. D’altraparte i biochip e microchip a base chimica (il primo fu creato nel 1996) esem-plificano la fusione tra i due campi del sapere. Non c’è quindi da stupirsi se,analogamente ai loro predecessori (microprocessori), i chip di DNA stannodiventando sempre più ricchi d’informazioni49 e presto sostituiranno le attualipiastrine al silicio.

È evidente quindi che l’aumentata capacità di elaborazione delle informa-zioni riguardi non solo aspetti quantitativi (volume e velocità), ma anche quali-tativi (complessità delle operazioni, ricombinazioni e flessibilità), che permet-tono di creare reti “informazionali” coordinate e flessibili50.

I due campi scientifici cui abbiamo accennato sono, più in generale, quelliche stanno segnando il passo nella riorganizzazione dell’economia mondiale (ca-ratterizzata da una nuova dinamicità regionale). Quest’ultima è legata, infatti, al-lo sviluppo di network interni per le grandi aziende e di network cooperativi perquelle piccole e medie (ma anche dei due tipi di network insieme) e allo svilup-po di mercati finanziari globali costruiti anch’essi su reti informatiche.

È necessario ricordare, infine, che, tra le transnazionali produttive più grandidel mondo, quelle delle automobili e quelle dell’energia (si pensi ad esempio allaGeneral Motors e alla Exxon Mobil) rimangono centrali al fianco di quelle delle te-lecomunicazioni. Anche il settore agricolo ha ricevuto tra il 1999 e il 2001, accan-to a quello dei servizi, le maggiori quote di investimenti diretti esteri51: è vero in-fatti che tutti i settori dell’economia sono più o meno direttamente influenzati dainuovi risvolti tecnologici in relazione agli sviluppi nel campo delle scienze infor-matiche, ingegneristiche e biologiche.

Fabio Massimo Parenti1 7 2

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 172

Page 173: Gli spazi della globalizzazione

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 7 3

2.2 Il neoliberismo e la globalizzazione: un rapporto controversoGli ultimi tre decenni del ventesimo secolo sono stati caratterizzati non solo

dall’emergere di un nuovo paradigma tecnico-sociale, la cui centralità abbiamopoc’anzi sottolineato, ma anche dal parallelo avanzamento di un nuovo clima po-litico ed economico detto “neoliberale”. Per evitare confusioni e fraintendimen-ti rispetto alla storia del liberalismo – cui automaticamente rimanda l’espressio-ne neoliberale –, sarà necessario focalizzare sinteticamente il significato, storica-mente determinato, del termine “neoliberismo”.

Il liberalismo e il liberismo sono le due facce di una stessa tradizione (libera-le) che stanno a indicare due dottrine, rispettivamente politica ed economica,emerse in modo compiuto nei Paesi della prima rivoluzione industriale tra ilXVIII e il XIX secolo52.

In particolare, la pregnante tradizione liberale degli Stati Uniti d’America ela rapida crescita della sua economia senza, apparentemente, la mano dello Sta-to di tipo europeo contribuirono ad alimentare il mito del “libero mercato”. Tut-tavia, usando le parole di un famoso politologo americano come Theodore J.Lowi, osserviamo che

non era vero, naturalmente, che vi fosse una completa libertà dall’intervento statale[…] se guardiamo al ruolo svolto dai governi dei singoli Stati americani, complessi-vamente il ruolo del pubblico nella storia dell’economia americana non risulta mol-to inferiore a quello presente in molti altri Stati industrializzati53.

Con il passare del tempo, l’estensione straordinaria dei compiti dello Statonella vita sociale ed economica (welfare) aumentò, per poi sfociare, attraversoun complesso di concause, in una sorta di “pluralismo dei gruppi d’interesse”.

Negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo s’affermava, così, un movimen-to neoconservatore negli USA e nel Regno Unito, che, coniugandosi a una pra-tica economica battezzata “neoliberista”, rifletteva – secondo la chiara analisi diLowi – il deterioramento della tradizione del liberalismo, da cui s’allontanavasempre più54.

L’approccio di tipo conservatore “neoliberale”, infatti, «non si limitava a chie-dere il ritorno a una maggiore liberalizzazione economica, ma pretendeva un’am-pia riduzione delle imposte […]55, la vendita ai privati delle industrie e delle ban-che nazionalizzate, il ridimensionamento o lo smantellamento delle istituzioni edegli organismi prodotti dall’intervento statale in economia, come gli enti di su-pervisione e controllo nei diversi settori». Il primo organismo soprannazionale afar applicare tale orientamento in varie parti del mondo, dietro ricatto relativo al-l’erogazione dei finanziamenti, fu il Fondo Monetario Internazionale56.

Da un punto di vista storico, pertanto, la globalizzazione coincide con il neo-liberismo, seppure tale correlazione sia tutt’altro che univoca e non esaurisca cer-to l’analisi delle dinamiche politiche, sociali ed economiche sottostanti. Di se-guito accenniamo ad alcuni aspetti di tale controverso rapporto.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 173

Page 174: Gli spazi della globalizzazione

L’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) affermache l’attività imprenditoriale nei settori più innovativi, necessitando di capitali dirischio, richieda un ambiente culturale, sociale, politico ed economico “aperto”.Ovvero, un ambiente in cui non ci siano troppe barriere doganali e dove si favori-sca la privatizzazione e la deregolamentazione dell’economia57.

Questi dettami neoliberali possono essere validi, in generale, per attrarre ca-pitali e investimenti, ma, nel momento delle decisioni da prendere in territoridiversi, vanno considerati in modo critico e attento. Una liberalizzazione stan-dardizzata e dogmatica ha avuto spesso, negli ultimi anni, effetti profondamen-te dannosi (basti pensare al legame tra la crisi economico-finanziaria dell’Estre-mo Oriente, quella russa e quella dei Paesi latinoamericani). Per contro risulta-ti costanti (nella logica della crescita e non necessariamente dello sviluppo),seppur molto variabili al loro interno, sono stati realizzati proprio in quei Paesi,come Cina e India, che hanno sorretto l’economia mondiale (pur avendo risen-tito delle ripercussioni della crisi) e hanno accuratamente evitato di applicarediffusamente le ricette neoliberali delle istituzioni finanziarie internazionali co-sì tanto invocate. Tra il 1990 e il 1998 l’India è cresciuta a un tasso medio annuodel 6,1% del PIL reale e la Cina dell’11,2%. Per di più entrambi questi Paesihanno continuato a crescere a un tasso rispettivamente del 5% e di quasi l’8%,proprio quando la crescita mondiale ha rallentato (1998-2000)58. (Insieme al-l’importanza di questi dati, sottolineamo, tuttavia, la parzialità complessiva deirisultati qualora si volessero fare immediate correlazioni con le condizioni di svi-luppo in tali Paesi, ossia con la distribuzione della ricchezza e la gestione ocula-ta delle risorse naturali).

In Cina sono state avviate, nel corso degli anni Ottanta e in maniera più mar-cata negli anni Novanta, riforme politiche, sociali ed economiche tese ad avvia-re una graduale liberalizzazione e apertura all’esterno (ciò che è avvenuto in ge-nerale anche in altri Paesi asiatici, come, ad esempio, India e Vietnam). Questonon significa, però, che tale Paese possa essere considerato un soggetto globa-lizzatore tout court (secondo la logica politico-economica dei neoconservatori),cioè una nazione che abbia seguito le ricette di iperliberismo selvaggio richiestee imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Come ricorda J.K. Galbraith (economista dell’Università del Texas), le vali-de riforme cinesi (politiche macroeconomiche, monetarie e sociali) per la ri-strutturazione dell’economia nazionale hanno avuto inizio negli anni Settanta.Ed è a queste politiche interne che va ricollegata la straordinaria crescita del PIL,iniziata per l’appunto circa 10 anni prima della maggiore liberalizzazione eco-nomica degli anni Novanta59. Basti pensare, inoltre, che sono ormai anni che laCina si è aperta al mercato globale, sostenendo l’esportazione e attraendo inve-stimenti stranieri; eppure essa non è mai stata fino al 2001 un membro del WTOo del predecessore GATT.

La stessa India, che è un caso peraltro con delle profonde specificità, ha fat-to registrare delle restrizioni al commercio tra le più rilevanti al mondo, affian-

Fabio Massimo Parenti1 7 4

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 174

Page 175: Gli spazi della globalizzazione

cate naturalmente ai controlli di capitale60; eppure non sono mancate le pres-sioni e le azioni esercitate dalle società transnazionali che da anni operano nelsuo territorio.

Politiche di regolamentazione significative del sistema bancario, dei flussi fi-nanziari e del sistema economico in generale sono state adottate anche da paesipiù piccoli, come la Malaysia e il Cile. Paesi che hanno evitato o comunque atte-nuato gli effetti delle crisi finanziarie, riuscendo peraltro a ristrutturare i sistemibancari e industriali e, in ultima istanza, a raggiungere il doppio obiettivo dellastabilità e dell’attrazione degli investimenti stranieri61.

Premesso ciò, ribadiamo come sia fuorviante attribuire a una certa globaliz-zazione (neoliberale) i risultati complessivi dell’India, della Cina o del Vietnam– per citare solo alcuni casi, caratterizzati peraltro da un processo di sviluppointerno fortemente disuguale –, se è vero che essa spinge per politiche come quel-le applicate dal FMI in Bolivia, in Ecuador, in Haiti, in Argentina o in Russia chehanno favorito il prosciugamento dei capitali e il massiccio impoverimento del-la popolazione62.

Non è un caso infatti che i Paesi più stabili siano quelli che hanno rifiutato diapplicare la strategia del FMI. In merito, Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’eco-nomia nel 2001 e osservatore privilegiato) scrive senza mezzi termini che «il con-trasto tra ciò che è avvenuto in Cina e quanto è avvenuto in Paesi come la Russiache hanno chinato la testa di fronte all’ideologia dell’FMI non potrebbe essere piùevidente»63.

Tutto ciò, d’altra parte, non deve portare a conclusioni errate, secondo lequali la Cina, l’India o il Vietnam non siano partecipi dei processi legati alla glo-balizzazione (intesa come insieme di processi interconnessi che operano a piùlivelli scalari). In questi Paesi, al contrario, sono stati avviati dei tipi di liberaliz-zazione e delle aperture che hanno portato numerose multinazionali a operare,investendo e producendo, dentro al loro territorio (non senza conseguenze ne-gative in termini di destrutturazione delle economie locali).

È importante sottolineare ancora una volta che si tratta di processi di libera-lizzazione decisi con maggiore autonomia (soprattutto finanziaria), controllati eprogrammati nell’ambito di politiche macroeconomiche di lungo respiro, e chehanno tenuto almeno parzialmente in considerazione la struttura e le esigenzesocioeconomiche nazionali64.

Gli effetti di queste diverse politiche nazionali e regionali si sono riflessi pro-prio nel settore economico che ha trainato la globalizzazione: il macrosettoredelle telecomunicazioni, caratterizzato dal più alto tasso d’innovazione, ha in-fatti fatto registrare, dal 1993 a oggi, una crescita del 2% della quota cinese dipartecipazione al mercato globale, a fronte di un decremento della stessa en-tità di quella degli USA nello stesso periodo (cfr. box L’ICT e le liberalizzazio-ni: ascesa e declino)65.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 7 5

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 175

Page 176: Gli spazi della globalizzazione

L’ICT e le liberalizzazioni: ascesa e declino

Il più grande processo di liberalizzazione è avvenuto, a cominciare dagli Stati Uniti,proprio nel settore delle telecomunicazioni, come conseguenza della creazione digruppi organizzati di clienti – tra cui grandi aziende – che chiedevano di sfruttare le re-ti legate alle innovazioni tecnologiche. Pertanto, in molti hanno premuto, dagli anniSettanta, per la mercificazione del settore. Sotto la pressione di gruppi d’imprese dei più differenti campi d’attività, le grandi or-ganizzazioni finanziarie internazionali e il governo statunitense tentavano d’imporreil modello neoliberista a questo settore, tradizionalmente pubblico e monopolista [D.Schiller, Telecomunicazioni, fallimento di una rivoluzione, in «Le Monde diplomati-que», X, n. 7, luglio 2003]. Così tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni No-vanta si sono moltiplicate le fusioni e le acquisizioni transfrontaliere, contestualmen-te a una massiccia privatizzazione degli assetti pubblici (operazioni per 224 miliardi didollari) (ivi). Ma per due ordini di cause le cose non sono andate molto bene. Primo, la domanda non ha potuto seguire la crescita esponenziale dell’efficienza del-le reti internazionali, che si era verificata nella seconda metà degli anni Novanta. Se-condo, il boom di borsa ha spinto i grandi operatori (l’offerta) a effettuare frodi finan-ziarie gigantesche. WorldCom, ad esempio, per non far crollare i gonfiatissimi titoli diborsa, ha inventato profitti inesistenti; un comportamento che, purtroppo, si è diffu-so tra tante altre grandi compagnie transnazionali (Vivendi, Enron ecc.). Come ricorda Schiller, «giganteschi produttori di componenti… (per le telecomuni-cazioni) vedono l’entrate precipitare in modo catastrofico. Anche Cisco, il produtto-re di “tubazioni” internet, che pure resta in attivo, non può impedire un crollo del vo-lume d’affari e del corso delle azioni» (ivi). Le fusioni sono diventate così delle ope-razioni a perdere [ivi; J. Ziegler, Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leurrésistent (2002), trad. it. La privatizzazione del mondo, Tropea Editore, Milano 2003],proprio perché la frenesia, le false informazioni, le aspettative artificialmente co-struite hanno affrettato operazioni costosissime, anche quando un’impresa guada-gnava terreno su nuovi mercati [così nel complesso si sono registrati un aumento del-le tariffe agli utenti e un peggioramento della qualità dei servizi, in un settore semprepiù dipendente dalla pubblicità. Questi sono stati solo alcuni degli effetti disastrosiin cui è sfociata questa ondata di sovrapproduzione e concorrenza sfrenata]. In rela-zione a tali pratiche, il tasso d’interesse negli Usa s’abbassò, contribuendo in modosignificativo alla caduta degli investimenti diretti esteri nel corso del 2002. Le filialieuropee in America dovettero poi ripagare i prestiti alle case madri, che da parte lo-ro arrestarono gran parte dei flussi di capitali intra-company [UNCTAD, World Inve-stment Report 2003, United Nations, New York - Geneva 2003]. L’economista Roberto Panizza fa notare, in modo molto chiaro, che si sarebbe dovu-to parlare di fine del boom di borsa (di cui avevano beneficiato soprattutto gli Usa equindi anche le maggiori imprese hi-tech) e non della “nuova economia”, come moltineoconservatori hanno sostenuto fino ad ora [R. Panizza, La globalizzazione della po-vertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Volontari e terzo mondo», XXX, n. 3, lu-glio-settembre 2002, pp. 53-55].

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 176

Page 177: Gli spazi della globalizzazione

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 7 7

2.3 Il divario digitale e l’affacciarsi di nuove dinamicheAl di là delle posizioni che tendono ad esaltare, ideologicamente, la nascita di

una nuova epoca caratterizzata dall’accesso libero a ogni informazione e da unmondo in grado di convivere in pace, è doveroso sottolineare l’esistenza del co-siddetto “divario digitale”, che non ha nulla a che fare con l’ipotesi nobile, mausata in modo propagandistico, del “villaggio globale”66.

Gli USA e il Canada rappresentano da soli il 40-50% degli utenti Internetdel mondo, pur avendo solo il 5% della popolazione mondiale. L’Africa, al con-trario, con il 13% della popolazione mondiale, rappresenta l’1% degli utenti In-ternet67. Dati simili si riscontrano, nonostante gli sviluppi più recenti, anche nel-l’ambito delle tecnologie di comunicazione più tradizionali: le linee telefonichedell’intero continente africano (in cui vivono 768 milioni di persone) sono, adesempio, pari a quelle della sola Manhattan68. Tra l’altro, prima di passare all’e-lettronica, l’Africa dovrà dotarsi di una rete elettrica. Dal 1971 al 1993 l’uso com-merciale di energia elettrica pro capite in Africa è rimasto pressoché stabile,mentre è raddoppiato nel totale dei PVS – anche in quest’ultimo caso si trattaperò sempre di poche centinaia di kwh pro capite, contro le migliaia usate inmedia nel Nord del mondo69.

Anche se non possiamo prescindere da tale divario, constatiamo l’emergeredi molte dinamiche inedite che si iniziano a intravedere, sia all’interno delle areedi più antica industrializzazione, sia nel resto del mondo.

All’interno dei Paesi dominanti, per esempio, un cambiamento significativoha riguardato l’UE (l’area commerciale più dinamica del mondo). Questa ma-croregione è stata infatti nel 2002 la più forte al mondo in termini d’attrazione deiflussi di investimenti diretti esteri complessivi70. Numerose regioni europee stan-no emergendo nel settore dell’Information Technology (IT): sia sufficiente sot-tolineare che l’Irlanda ha raggiunto nel 2000 il primo posto per valore di servizisoftware esportati, fornendo più del 40% dei pacchetti software e più del 60%dei programmi informatici aziendali venduti in Europa (si pensi anche alle otti-me performance di Svezia, Finlandia, Danimarca ed Estonia)71.

Più in generale, però, le macroregioni che governano l’economia mondialesono caratterizzate da crescenti debolezze strutturali interne (cfr. box Problemimacroeconomici nel mondo ricco, p. 179).

Si tratta di difficoltà che, seppure non mettono in discussione – almeno peril momento – il predominio tecnologico di tali aree geografiche, stanno contri-buendo a modificare profondamente i flussi di capitali e di tecnologie ai diversilivelli scalari. Del resto, va tenuta presente la capacità d’auto-espansione dellenuove tecnologie che, svincolando parzialmente il processo del loro trasferi-mento da un dato contesto politico, sta giovando alla riconfigurazione geograficadell’economia mondiale.

Vediamo dunque che altre aree del mondo stanno consolidando processid’integrazione interregionale, con la conseguente espansione degli scambi com-

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 177

Page 178: Gli spazi della globalizzazione

merciali all’interno di nuove macroregioni o, se si preferisce, di macroregioni adun più alto tasso d’interdipendenza economica.

Negli anni Novanta si è verificata una rapida espansione del commercio glo-bale di beni e servizi (+ 6% l’anno), che ha superato la crescita del PIL mondia-le con un’intensità e una continuità mai riscontrata nei decenni precedenti72. Undato ancora più sbalorditivo, poi, è rappresentato dalla crescita degli investimentidiretti esteri a partire dagli anni Ottanta: questi sono aumentati, infatti, per unvalore medio annuo del 16,3%, contro il 6,2% delle esportazioni mondiali73.

Proprio nell’ambito di questa dinamica – come indicano le tendenze degliultimi anni – il commercio cresce più velocemente in aree comprendenti alcuniPaesi in Via di Sviluppo, piuttosto che in quelli tradizionalmente dominanti (trail 1990 e il 2000 i Paesi più avanzati tecnologicamente hanno fatto registrare va-lori di crescita delle esportazioni medie annue del 5,5%, a fronte del 9,1% deiPaesi in Via di Sviluppo74). Alcune regioni dell’est e del sud dell’Asia – Cina, In-dia e Repubblica di Corea – sono diventate nel 2002 i centri del commercio mon-diale, espandendo le proprie esportazioni anche in un contesto di crisi globale

Distribuzione mondiale delle connessioni internet (a) e della popolazione (b). L’immagine è stata realiz-zata da S.H. Yook, H. Jeong e A.L. Barabàsi dell’Università di Notre Dame. Per approfondire le tecnichedi realizzazione (densità/intensità di colore) si veda www.mappedellarete.net

Densità delle connessioniinternet

Densità della popolazione

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 178

Page 179: Gli spazi della globalizzazione

(nel 2001 e 2002). Si tratta di spazi geografici articolati, che hanno beneficiatodella forte crescita interna ai singoli Paesi, della diffusione del settore IT e dellacrescita del commercio regionale (cfr. par. 2.4)75.

A confermare inoltre una profonda riconfigurazione spaziale dell’economia, vanotato che la tendenza all’aumento esponenziale dei fatturati nel settore avanzatodelle telecomunicazioni – a partire dall’inizio degli anni Novanta fino al 1999-2000– sta facendo registrare, come abbiamo visto, un rallentamento negli USA e nellamaggior parte dei principali Paesi ricchi (2000-2001). Per contro, soprattutto inCina – ma anche in Brasile e in India – continua l’impennata dei tassi di crescita an-che per quanto riguarda l’industria dei software: a tal punto che nei Paesi dell’Or-ganization for Economic Cooperation and Development (OECD ), il settore deisoftware, che rappresenta quasi il 10% del totale ICT, è meno dinamico che neimercati summenzionati76.

Problemi macroeconomici nel mondo ricco

Gli USA hanno cumulato un debito totale superiore al 300% del PIL nazionale enegli ultimi tre anni hanno perso quasi 3 milioni di posti di lavoro (in cambio del-l’aumento della produttività); il Giappone a sua volta ha fatto registrare un debitopari al 157% del proprio PIL e un processo deflazionistico che ha prodotto un ca-lo degli investimenti e dei consumi;né va dimenticata la difficile situazione eco-nomica della Germania e della Francia – entrambe limitate dalle politiche mone-tarie imposte dalla Banca Centrale Europea (BCE) – che è connessa, peraltro, al-la depressione della domanda esterna per la produzione europea e all’eccessivariduzione del costo del lavoro e quindi dei salari (si tratta dei principali fattoriche hanno rallentato i Paesi dell’area euro – anche se vi sono state notevoli di-sparità territoriali di crescita). Infine, la caduta del 41% degli investimenti diret-ti esteri mondiali nel 2001 e del 21% nel 2002, è stata dettata proprio dalle de-bolezze della Triade (soprattutto delle sue grandi corporation). Cadono soprat-tutto i prestiti intra-companies (una delle tre componenti di tali investimenti) e leacquisizioni e le fusioni tra imprese – sempre meno redditizie per valore di tran-sazioni, ordini ecc. [dati UNCTAD, op. cit.; «il Sole-24Ore», Economia, la svolta,«dossier del Sole-24Ore», 15 novembre 2003]. La Cina e altri Paesi asiatici (vecchie e nuove tigri) sono considerati a ragione iprincipali concorrenti dell’economia americana e di quella europea. Tuttavia,per quanto riguarda gli USA, il loro enorme indebitamento è sostenuto propriodai governi asiatici tramite l’acquisto di titoli del Tesoro statunitense – flussinecessari affinché gli USA possano continuare ad acquistare prodotti asiatici .In queste dinamiche la Cina è diventata paradossalmente il primo sostenitoredegli USA.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 179

Page 180: Gli spazi della globalizzazione

2.4 Regionalismi nel mondo in via di sviluppo: beni, capitali, brevetti e tecnologieSi può sostenere, in generale, che il trasferimento di tecnologie avvenga tra-

mite l’espansione degli scambi commerciali e l’attività correlata delle impresetransnazionali. L’organizzazione di queste ultime, infatti, concorre in modo pre-valente al trasferimento tecnologico, soprattutto per mezzo dello stimolo eser-citato dalle varie componenti degli investimenti diretti esteri.

Il commercio di beni e servizi, i flussi di capitali finanziari produttivi e, in-fine, i pagamenti di licenze per l’uso di tecnologie sotto protezione brevettua-le77 possono essere considerati, in ultima istanza, gli indicatori principali percogliere, potenzialmente, le traiettorie della dinamica delle tecnologie nelmondo.

Flussi di beni Da un punto di vista aggregato, un forte contributo all’espansione del com-

mercio mondiale deriva dagli scambi Sud-Sud (cresciuti dal 1990 al 2001 a untasso doppio rispetto a quello mondiale) e, in particolare, da quelli avvenuti nel-l’ambito dei PVS. Nel 1991, il valore delle esportazioni di beni e servizi effettua-te all’interno del Sud del mondo, calcolato in dollari, è stato equivalente al 41%del valore dell’esportazioni Sud-Nord. Questa quota nel 2001 è salita al 60% (no-nostante le difficoltà della seconda metà degli anni Novanta). Simile è stata la ten-denza delle importazioni, che hanno acquisito un peso crescente proprio all’in-terno del “mondo in via di sviluppo”78.

Da un’analisi disaggregata, necessaria per individuare le dinamiche in fieriin un contesto di Paesi e regioni profondamente eterogenei, emerge però il ruo-lo predominante delle regioni asiatiche in via di sviluppo (già visto in preceden-za), cui nel 2001 si è dovuto il 66% di tutte le esportazioni all’interno degli scam-bi Sud-Sud (cfr. graf. 1). Come se non bastasse, più dell’80% del valore com-plessivo di tali flussi commerciali è occorso tra pochissime aree urbane dell’Este del Sud-Est asiatico79: in particolare Kuala Lumpur, Bangkok, Singapore,Hong Kong, Taipei, Pechino, Seul, Canton, Tianjin e anche aree urbane e indu-striali del Vietnam (Ho Chi Minh City), delle Filippine (Manila) e dell’Indone-sia (Jakarta). Una geografia commerciale da cui si evince una struttura degliscambi sempre più interregionale, anche se fortemente squilibrata.

A notevole distanza per il contributo dato tramite le esportazioni al com-mercio complessivo nel Sud, troviamo il Medio Oriente con il 15% (con scarsadinamica interna a causa della limitata diversificazione dei prodotti), seguito dal-l’America Latina (i cui scambi avvengono in modo prevalente, il 70% delleesportazioni, all’interno del mercato comune del Cono Sud, il Mercosur). Infi-ne c’è l’Africa, che, contribuendo con meno del 6% al commercio Sud-Sud, èl’unica area geografica ad aver fatto registrare un decremento, seppur modesto,dal 1990 (cfr. graf. 1 e tab. 1)80.

Altri dati confermano che l’espansione del commercio tra e nelle aree sopracitate interessa un piccolo numero di forti esportatori di beni industriali. Nel

Fabio Massimo Parenti1 8 0

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 180

Page 181: Gli spazi della globalizzazione

Paesi Asiaticiin via di sviluppo

Medio Oriente America Latina Africa

70

60

50

40

30

20

10

0

Esportazioni Sud-Sud extraregionaliEsportazioni Sud-Sud intraregionali

Valore Percentuale Variazione media annuale –––––––––––––––––––– –––––––––––––––––––– –––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1990 2001 1990 2001 1990-1995 1995-2000 1990-2001

Paesi asiaticiin Via

di Sviluppo

145 446 66,2 69,9 19 7 11

MedioOriente

23 55 10,5 8,6 10 7 8

AmericaLatina

33 95 15,0 14,9 16 7 10

Africa 18 43 8,3 6,7 12 6 8

Sud-Sud 219 639 100,0 100,0 17 7 10

Fonte: WTO, International Trade Statistics, 2003.

Graf. 1 I Paesi asiatici in via di sviluppo sono la regione dominante nel commercioSud-Sud, 2001 (percentuale)

Tab. 1 Importazioni dal Sud del mondo nelle macroregioni in via di sviluppo, 1990-2001 (miliardi di dollari e percentuali)

Fonte: WTO e UNSUD, Comtrade database.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 181

Page 182: Gli spazi della globalizzazione

2001, cinque Paesi – Cina, Repubblica di Corea, Singapore, Taiwan e Malay-sia – coprivano il 50% delle esportazioni Sud-Sud, mentre il 70% riguardavai primi dieci esportatori. La situazione risulta simile, anche se con percentua-li leggermente inferiori, sul versante delle importazioni81.

Tra i Paesi che hanno sperimentato i tassi maggiori di espansione del commercio, nelperiodo 1990-2000, vi è il Messico, con il 18%, seguito dall’India, dalla Cina e dallaRepubblica di Corea, che hanno fatto registrare ognuno un tasso di variazione posi-tiva del 14%. Tuttavia, la variabilità del peso di ogni Paese nel commercio Sud-Sudè enorme: il Messico, ad esempio, destina solo il 10% delle proprie esportazioni aiPVS (da cui però importa molto di più), la Cina più del 40%, Singapore più del 55%e la Somalia e il Bhutan più del 90%82.

Capitali, beni industriali, brevetti e tecnologieIl rafforzamento della macroregione Est e Sudest asiatica, che unisce più aree

sub-nazionali, è evidente anche nei dati relativi ai flussi di investimenti direttiesteri. Questi importanti capitali d’investimento, dopo essere cresciuti nella pri-ma metà degli anni Novanta, soprattutto in Cina e nel Sudest asiatico83, sonocrollati in seguito alla crisi finanziaria (1997-1998) e sono poi risaliti immedia-tamente nel 1999.

Al di là delle variazioni annuali più o meno accentuate, risulta infatti che laquota dei flussi intraregionali di tali investimenti – soprattutto per l’impor-tante componente del rinvestimento dei guadagni – ricevuti in ASEAN, Cina,Hong Kong, Repubblica di Corea e Taiwan, abbia poi avuto un incrementopassando dal 37% (1999) al 40% (2001) del complesso dei flussi (intraregio-nali e internazionali) verso i Paesi asiatici in via di sviluppo84. Una tale inte-grazione è stata sostenuta dalla rilocalizzazione degli investimenti e dalla cre-scita delle reti di produzione al livello macro e micro regionale. L’incremento,per esempio, degli investimenti diretti esteri all’interno dell’ASEAN, dal 7%nel 1999 al 17% nel 2002, riflette soprattutto un miglioramento continuo nelsettore privato e in quello pubblico domestico, che si è ripreso velocementedalla crisi finanziaria del 1997-98 proprio grazie alla “vitalità interna” di que-sta macroregione globale85.

Siccome i nuovi andamenti commerciali e d’investimento contribuiscono,come già ricordato, ad articolare i movimenti e i trasferimenti di tecnologie,possiamo dedurre una maggiore regionalizzazione, sia della divisione del la-voro (che s’inserisce in quella di più difficile definizione al livello mondiale),sia del “ciclo dei prodotti e delle tecnologie”. Basti pensare che lo scambio dibeni industriali tra PVS è cresciuto a un ritmo medio annuo del 12% negli an-ni Novanta ed è arrivato a costituire nel 2001 i due terzi di tutto il commerciocomplessivo Sud-Sud86.

La componente più vivace nell’ambito di queste transazioni commerciali èstata, peraltro, quella degli equipaggiamenti per telecomunicazioni e per uffi-

Fabio Massimo Parenti1 8 2

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 182

Page 183: Gli spazi della globalizzazione

ci, tra cui vi sono prodotti a medio e alto contenuto tecnologico. In questi scam-bi emerge ancora una volta il ruolo predominante dei nodi e delle regioni sub-nazionali asiatiche più inserite nei mercati mondiali87. È ovvio, pertanto, chetali dinamiche non potevano non esercitare un’attrazione rilevante su aziendeche operano nel settore dell’IT e, più in generale, sui flussi di capitali moneta-ri che hanno contribuito alla creazione e alla diversificazione delle reti di pro-duzione attraverso le varie regioni asiatiche.

Considerando la struttura delle importazioni per livello di contenuto tecno-logico, risulta che i Paesi in Via di Sviluppo hanno importato, nel 2000, una quo-ta di prodotti ad alto contenuto tecnologico superiore a quella del mondo piùricco.Va inoltre notato che anche i Paesi più poveri hanno iniziato a importareprodotti hi-tech (cfr. graf. 2).

Movimenti di vari beni a diverso contenuto tecnologico si deducono inoltreosservando la struttura delle importazioni per area tecnologica di provenienza.Dal grafico 3, infatti, si evince il peso crescente della Cina e dei NICs, di primae seconda generazione, nel trasferimento di tecnologie nei Paesi in via di svilup-po, nei Paesi a basso sviluppo e anche nei Paesi sviluppati. Tuttavia, rimane evi-dente il ruolo dominante dei Paesi più ricchi nell’interscambio di prodotti hi-te-ch interno alla Triade e rispetto al resto del mondo.

Ricordiamo che gli USA ricevevano negli anni Novanta il 58% di tutti i pa-gamenti di royalties e tasse su licenze, a fronte dei pochi punti percentuali deglialtri Paesi più industrializzati88. Bisogna ricordare, nondimeno, che le legisla-zioni sui brevetti più articolate e rigide sono proprio quelle degli USA, mentre inmolti altri Paesi a diverso livello di sviluppo industriale vi sono dei sistemi piùelastici, spesso creati di recente. In molte regioni dei Paesi in via di sviluppo nonsarebbe d’altronde possibile per molte imprese sostenere gli oneri tecnico-fi-nanziari per portare a termine la richiesta di un brevetto e affrontare, in seguito,l’indispensabile monitoraggio legale del suo rispetto. Per tali motivi, l’indicato-re relativo a questi tipi di pagamenti sui brevetti non riflette in maniera esausti-va la dinamica tecnologica (che può, così, risultare fuorviante): avviene spessoche ci si scambi conoscenze economicamente utili non coperte da brevetti, peril cui sviluppo ci sono tra l’altro limiti “oggettivi”. Citando Krugman e Obstfeld,sottolineiamo che

capita spesso che la tecnologia utilizzata, per esempio, nella conduzione di una fab-brica non sia mai stata formalmente raccolta in un testo: è una conoscenza incorpo-rata in un gruppo di individui e non può essere separata da questi e venduta. […]. In-fine, i diritti di proprietà, quando l’oggetto è rappresentato da conoscenze, sono dif-ficili da stabilire; […per via dell’imitazione]89.

Per concludere, ricordiamo che un ampio scambio di tecnologie tra aree geo-grafiche diverse non basta a migliorare i sistemi produttivi. Non va trascurato,inoltre, che l’articolazione degli scambi di beni, servizi e conoscenze determina

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 8 3

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 183

Page 184: Gli spazi della globalizzazione

Altri prodotti

Graf. 2 Struttura delle importazioni per livello di contenuto tecnologico, 2000(quote percentuali)

Fonte: UNSUD, Comtrade database.

Prodotti a bassa tecnologia

Prodotti a media tecnologia

Prodotti ad alta tecnologia

Paesi sviluppatiPaesi

in via di sviluppoPaesi

a basso sviluppo

Altre economiein via di sviluppo

Graf. 3 Struttura delle importazioni per area di sviluppo tecnologico di prove-nienza, 2000 (quote percentuali)

Fonte: UNSUD, Comtrade database.

Cina

NICs

Paesi sviluppati

Paesi sviluppatiPaesi

in via di sviluppoPaesi

a basso sviluppo

Economie in transizione

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 184

Page 185: Gli spazi della globalizzazione

una continua interazione fra tecnologie autoctone e tecnologie importate, che ri-chiede un’attenzione particolare. Pertanto, se in termini assoluti una nuova tec-nologia dovrebbe fornire un beneficio generale (aumento della produttività), intermini relativi alle singole regioni (mercato degli input produttivi, prezzi relati-vi dei fattori di produzione, rapporto fra ricerca di base e applicata, sistema edu-cativo, gap tecnologico ecc.) «Paesi che introducono la stessa tecnologia ne be-neficiano in modo diverso» e in alcuni casi per nulla90; e a volte conoscono effetticontroproducenti sulla struttura socioeconomica esistente91.

Rimane la constatazione che nei processi in fieri si consolida e si articola unastruttura economica a rete scheletrica, tramite la quale si muovono le diversetecnologie (fortemente correlate ai commerci e agli investimenti esteri). Unastruttura che può essere ben rappresentata dai principali poli tecnologici.

Poli tecnologici e agglomerazioneI parchi scientifici e tecnologici svolgono importanti funzioni di collega-

mento socioeconomico e culturale, sia al livello locale, sia al livello mondiale. Sitratta di importanti insediamenti che mettono in relazione le aree economichepiù dinamiche del mondo (cfr. carta tematica) e che presentano, localmente, unospazio geografico caratterizzato dalla vicinanza fisica e dalla forte interrelazionefra università e imprese.

Tali realtà sono nate inizialmente negli Stati Uniti d’America (intorno aglianni Cinquanta-Sessanta) e si sono moltiplicate nel corso del tempo, diffonden-dosi naturalmente anche nello spazio geografico. Attualmente negli USA si con-tano ottocento poli scientifici e tecnologici, molti dei quali divenuti ormai digrandi dimensioni (ad esempio nella Silicon Valley in California o ad Austin inTexas). Un’altra grande concentrazione di poli scientifici e tecnologici si ri-scontra in Europa, ove s’individuano modelli organizzativi e funzionali spessomolto differenti. Nei poli francesi, per esempio, distribuiti uniformemente sututto il territorio nazionale in prossimità dei principali centri urbani, l’attivitàdi ricerca è strettamente legata a quella produttiva ad alto valore aggiunto92.Nel Regno Unito, invece, i parchi scientifici sono orientati alla creazione d’im-presa, per la quale è necessaria una forte specializzazione merceologica93.

Tuttavia, oltre a quelli negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, un grannumero di poli tecnologici si sono sviluppati, negli ultimi decenni, anche nel re-sto del mondo: in Brasile (Campinas), Sudafrica (Johannesburg), India (Banga-lore), Cina (Pechino), Messico (Guadalajara), solo per citarne alcuni tra i più fa-mosi. In Africa, i principali poli tecnologici sono in Sudafrica (Gauteng) e in Tu-nisia (El Ghazala)94.

In molte provincie della Cina stanno nascendo aree ben organizzate per laricerca avanzata in grado di attirare aziende di varie dimensioni (cfr. cap. III,par. 2). Se a Pechino il governo ha organizzato gli spazi per la ricerca solo in se-guito alla formazione di una classe imprenditoriale, a Shangai, invece, il parcoper la ricerca hi-tech nella zona di Caohejing è stato creato appositamente per

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 8 5

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 185

Page 186: Gli spazi della globalizzazione

attirare risorse e imprenditori (tra Nanchino, Shangai e Hangzhu si sta consoli-dando, peraltro, un’area che forse diverrà una megalopoli dopo la costruzione dimolte città satellite già in progettazione).

La geografia mondiale hi-tech ci indica che i processi di sviluppo industrialee tecnologico, polarizzati e nodali al livello regionale e globale, operano soprat-tutto nelle aree territoriali in cui esistono alcune condizioni politiche ed econo-miche: misure politiche tese alla stabilità economica, crescente contributo deicapitali privati e, soprattutto, accesso alle “autostrade dell’informazione”95.

Gioverà sottolineare, inoltre, che molte attività economiche continuano aconcentrarsi territorialmente secondo “le spinte tradizionali all’agglomerazio-ne”. A differenza del passato, però, le economie d’agglomerazione riguardanoattualmente un numero maggiore di località geografiche (urbano-industriali)che si trovano soprattutto nei PVS (ove del resto si concentrano i due terzi del-le metropoli più grandi del mondo).

La propensione alla concentrazione spaziale riguarda in gran parte quei set-tori produttivi e di servizio caratterizzati da stabilimenti di dimensioni ridotte,da un alto volume di transazioni, da un’elevata energia innovativa e imprendi-toriale e da una quota decrescente di lavoratori dedicati alla produzione96 ( èquesto il caso ad esempio, di certe attività informatiche, di ricerca, di comuni-cazione, di moda ecc.). Va detto, poi, che i modelli spaziali di tali processi ag-

Poli di alta tecnologia e autostrade dell’informazione,Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto, Roma 2003, p.10.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 186

Page 187: Gli spazi della globalizzazione

glomerativi rimangono molto differenziati da settore a settore, come è stato di-mostrato da Stefano Breschi per quanto riguarda, ad esempio, la diversa di-stribuzione geografica delle attività innovative attraverso differenti settori pro-duttivi97. In generale, a fronte di situazioni in cui un numero ridotto di grandiimprese compete al livello globale, controllando la maggiore quota d’innova-zione sul totale di un dato settore, altre industrie, al contrario, si presentanocon l’attività innovativa dispersa tra un numero rilevante di piccole imprese di-stribuite in differenti regioni.

Questa variabilità, spesso di non facile decifrazione in base ai dati disponibili,sta forgiando una geografia economica mondiale a rete, che, pur risultando piut-tosto “scheletrica” (a maglie larghe), non esclude la possibilità che si forminonuovi nodi globali (cfr. box Il caso di Dubai).

Il caso di Dubai

L’emirato arabo di Dubai può essere definito – solo da pochi anni – un gatewayinternazionale, che, dopo essersi aperto al mondo come produttore ed espor-tatore di petrolio (verso la fine degli anni Sessanta), si è imposto come snodocommerciale mondiale. Questa città si è trasformata, infatti, nel giro di menodi una generazione da una “città-stato” a una “città mondo”. Il 70% delle mer-ci importate viene riesportato, mentre le limitate riserve di petrolio contribui-scono sempre meno al PIL (circa il 6%).Le dotazioni portuali e aeroportuali sono in continuo sviluppo, così come le nu-merose free zones che attirano imprese e lavoratori stranieri. Circa 2 mila azien-de operano nelle free zones di Jebel Ari, dell’Aeroporto di Dubai Internet City edi Dubai Media City, e cioè in spazi urbani che sono destinati all’accoglienza dimolte imprese dell’IT e, più in generale, ad alto contenuto di conoscenza. Con una popolazione di 1,1 milioni di persone, di cui circa l’80% straniere, èevidente che si tratti di un nodo globale (hub) di recente sviluppo che alimen-ta le dinamiche mondiali [informazioni tratte da V. Maurus Mille e una notte aDubai, in «Internazionale», X, n. 513, 7/13 novembre 2003; E. Marchesini, Du-bai, crocevia per i mercati, in «il sole24ore», 29 ottobre 2003]. Un nodo che sista sviluppando ai margini dell’area più conflittuale del mondo e che è in gra-do, nondimeno, di rispondere alle esigenze delle imprese transnazionali. Tut-to ciò avviene in modo apparentemente incurante degli sviluppi diseguali del-la regione. O, forse, questa frenesia commerciale ha anche a che fare con leguerre mediorientali?

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 187

Page 188: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo terzoTransnazionali, ICT e nuove geografie

3.1 L’impresa transnazionale nella globalizzazione L’impresa, dapprima multinazionale e poi transnazionale, rappresenta l’atto-

re economico da cui è possibile rilevare più nello specifico i movimenti di tecno-logie. Più degli Stati, sono infatti queste società d’affari che commercializzanobeni e investono capitali, determinando in maniera significativa la dinamica tec-nologica mondiale. La stessa riconfigurazione della divisione internazionale dellavoro diviene così fortemente cangiante proprio in relazione alle nuove strategied’impresa. Non è un caso che ci sia chi sostenga, come fa Kleinert sulla scia distudi empirici, che l’impresa globale debba costituire l’unità d’analisi di base nel-lo studio della globalizzazione98.

Sarà importante a questo punto mettere a fuoco le nuove strategie delle im-prese globali e dei correlati flussi tecnologici, soprattutto in rapporto alle ten-denze nel campo dell’Information and Comunication Technology (ICT)99. Con-sapevoli, tuttavia, che «la teoria economica dell’organizzazione – che è ciò di cuici occupiamo quando cerchiamo di costruire una teoria delle imprese multina-zionali – si trova ancora a uno stadio iniziale»100.

La transnazionalizzazione dell’economia è un fenomeno che già avevamo ini-ziato a vedere, in modo embrionale, nei decenni Settanta-Ottanta e si riferisce alfatto che la maggior parte degli scambi di beni e servizi avviene – in epoca di glo-balizzazione – tra imprese affiliate, distribuite in modo reticolare sul globo.

Solo per dare un’idea d’insieme, si pensi che già nel 1994 circa il 44,3% delPIL mondiale e il 70% del commercio mondiale erano imputabili ai networkdelle imprese transnazionali.

Le sessantamila società transnazionali, rilevate dall’UNCTAD e dal WTO, gesti-scono insieme più di un milione e mezzo di succursali sparse in tutti i Paesi delmondo. Ancora una volta le prime trecento-cinquecento multinazionali sono quel-le nord americane, europee e giapponesi, che dominano il commercio mondiale,anche se nella ristrutturazione dell’economia globale […] altri attori stanno ac-crescendo la propria competitività. Nel 2002 un terzo circa degli scambi commer-ciali ha avuto luogo all’interno di una stessa società transnazionale, mentre un al-tro terzo del commercio mondiale si è svolto tra differenti global corporations. So-lo un ultimo 30% degli scambi di beni e servizi è avvenuto tra Stati e impresenazionali101.

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 188

Page 189: Gli spazi della globalizzazione

Più in particolare, all’inizio degli anni Novanta le vendite delle affiliate este-re statunitensi sono state pari a quattro volte le esportazioni USA, così come levendite delle affiliate estere giapponesi sono state il doppio delle esportazionidella patria nipponica102. In questo contesto il commercio dei beni e dei servizidell’ICT è cresciuto a un tasso quasi doppio rispetto al commercio manifattu-riero totale, divenendo così predominante. Negli USA, ad esempio, il 25% del-le importazioni e il 20% delle esportazioni sono costituiti da prodotti ICT103.

Questi nuovi andamenti possono essere compresi solo analizzando comesia cambiata l’organizzazione dell’impresa transnazionale e anche come que-st’ultima debba cercare di cambiare per essere in grado di produrre e gestirel’innovazione.

L’organizzazione e le strategie dell’impresaLe imprese transnazionali nei settori delle nuove tecnologie, ma anche nei

molti altri campi d’attività in cui queste sono applicate, non sono più in grado dioperare secondo una logica di autosufficienza. Questo perché in relazione al-l’ampliamento e all’apparente unificazione del mercato mondiale, soprattuttonell’ultimo decennio, è emersa la necessità per le imprese di formulare strategied’adattamento multiple, in relazione ai differenti contesti territoriali.

L’esame della direzione del cambiamento tecnologico in una data regione ela valutazione del contesto d’introduzione di una nuova tecnologia (che intera-gisce sempre con le vecchie) sono, dunque, di fondamentale importanza. Inun’economia potenzialmente globale, difatti, i soggetti competono su mercati diprodotti quasi omogenei, ma movendosi nell’ambito di mercati dei fattori diproduzione eterogenei104.

I processi di integrazione verticale per mezzo dell’internalizzazione di più fa-si produttive (ad esempio la realizzazione di computer e semiconduttori nel-l’ambito di una stessa impresa) oppure, al contrario, di disintegrazione verticale,con la divisione ed esternalizzazione di varie funzioni, cambiano attraverso i set-tori dando vita, spesso, a forme d’integrazione intermedie (e, quindi, a un’ampiavarietà di strutture organizzative d’impresa). La tendenza generale alla separa-zione crescente o, comunque, alla disarticolazione delle fasi del processo pro-duttivo, in particolare nella forma della separazione spaziale tra le attività di ri-cerca e innovazione e le attività produttive, non significa pertanto che si sia veri-ficato il superamento di qualsiasi modello d’impresa gerarchico a favore di quellia rete e cooperativi. Il primo modello persiste, articolandosi nel contempo innuove strutture organizzative (non va dimenticato che forme gerarchiche si pos-sono riprodurre anche in un sistema reticolare).

Non mancano degli studi recenti che ci spiegano processi di integrazione oreintegrazione verticale (nel senso di una riorganizzazione tesa ad aumentare ilcontrollo su tutto il ciclo produttivo), sia in un settore come quello delle auto-mobili – che è, allo stesso tempo, tradizionale e avanzato105 –, sia in uno pro-

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 8 9

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 189

Page 190: Gli spazi della globalizzazione

priamente all’avanguardia come quello dei semiconduttori (cfr. box Integrazio-ni verticali e controllo).

Nei settori dell’Information Technology e in quelli dei servizi finanziari è for-se più evidente come si sostituisca una graduale, ma significativa disarticolazioneper aree geografiche dei processi decisionali (insieme a quelli produttivi) alla cen-

Integrazioni verticali e controllo

Per il settore delle automobili, possiamo menzionare lo studio di B. Ó hUalla-cháin e D. Wasserman [Vertical Integration in Lean Supply Chain: Brazilian Au-tomobile Components Parts, in «Economy Geography», 1999] sulla ristruttura-zione della catena di fornitura di componenti per automobili in Brasile (ove mol-te imprese della Triade hanno delocalizzato parte della loro attività produttivao, in generale, hanno trovato fornitori di input). Tale studio spiega come le po-litiche neoliberali, tese a ravvivare questo settore, siano riuscite a stimolare ilformarsi di un nuovo strato di fornitori molto integrato, in sostituzione di unaenorme rete preesistente di piccoli fornitori locali (piuttosto inefficiente dalpunto di vista produttivo, ma importante sul piano occupazionale). Il risultatoè stato che, a una aumentata competitività internazionale della nuova e più ef-ficiente rete di fornitori al livello nazionale (per i telai, i motori e le scocche), ilcontrollo esterno operato dalle multinazionali sulla catena di produzione com-plessiva si è rafforzato invece di erodersi (contrariamente a quanto sostenutodai molti fautori di tali interventi), determinando, in ultima istanza, una de-strutturazione ed espropriazione al livello nazionale/regionale. Per il settore dei semiconduttori, Ó hUallacháin ha analizzato invece in che mo-do sia avvenuta, nella seconda metà degli anni Novanta, una ristrutturazioneoperata nel senso dell’integrazione verticale tra i produttori di wafer – compo-nente per la costruzione dei semiconduttori – nell’Est asiatico e il comparto piùavanzato del design nei poli della Sun Belt statunitense [B. Ó hUallacháin, Re-structuring the American Semiconductor Industry: Vertical Integration of Desi-gn Houses and Wafer Fabricators, in «Annals of the Association of AmericanGeographers», Blackwell Publishers, Oxford 1997, 87 (2), pp. 217-234]. Il boom di semiconduttori nella metà degli anni Novanta e il rifiuto dei governiasiatici (in particolare quelli di Singapore e di Taiwan) di continuare a sovven-zionare i produttori di wafer – processo che negli anni Ottanta aveva invece fa-vorito un processo di disintegrazione verticale del settore – hanno spinto le im-prese statunitensi verso strategie d’integrazione verticale. Quest’ultime sonoavvenute, a conferma di ciò che abbiamo detto, in modo molto vario (equityjoint ventures, acquisto dei servizi di fabbricazione oppure contratti relaziona-li per avere la garanzia di una fornitura stabile).

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 190

Page 191: Gli spazi della globalizzazione

tralizzazione delle decisioni e alla rigida burocratizzazione dell’organizzazionegerarchica, tipica del modello fordista. Questo avviene, oltre che per ragioni stret-tamente economiche relative all’esistenza di vari mercati degli input, per fare inmodo che le decisioni siano più rispondenti al pluralismo dei soggetti, delle ca-pacità e delle risorse coinvolte nell’attività produttiva transnazionale106.

Alla luce di ciò, si sostiene che nella globalizzazione prevalgano (anche in ba-se alle trasformazioni della struttura degli investimenti, del “ciclo del prodottoe delle tecnologie”) rapporti tra imprese di tipo cooperativo chiamati make to-gether: l’unico modo tramite il quale un’impresa può sviluppare la propria ca-pacità competitiva e innovativa allo stesso tempo107. Nondimeno, però, quandosi verifica un’accentuata competizione tra global corporations (come avviene nel-l’informatica, nella realizzazione dei veicoli a motore, nelle attività petrolifere,nella grande distribuzione ecc.) il make-togheter è il mezzo tramite il quale si mi-ra, qualche volta, alla strategia del kill the others competitor for ever108.

Per riuscire a cooperare è necessario riuscire a differenziare i propri processiproduttivi, in modo tale che l’interazione professionale o produttiva inter-impre-se si possa realizzare efficacemente. Il lavoro nelle imprese, pertanto, deve esseresostanzialmente riorganizzato al fine di diffondere la partecipazione ai processidecisionali e di stimolare, ad esempio, i lavori di gruppo: tutti aspetti associati al-l’uso efficace e allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione109. I mo-delli del Giappone, della Germania e della Svezia mirano non a caso a una cre-scente «mobilitazione intellettuale della manodopera, cui vengono demandati piùalti gradi di autonomia e creatività». Si tratta di strategie aziendali ideali rispetto alnuovo contesto, che, però, non esauriscono le reazioni alla crisi del fordismo110.

La differenziazione geografico-organizzativa dei processi produttivi è, dun-que, la conditio sine qua non per lo sviluppo della “società della rete”, la quale ri-chiede una capacità d’adattamento continuo. Così, mentre da una parte il rallen-tamento recente del mercato delle nuove tecnologie – caratterizzate da prodottimeno costosi e più facili da utilizzare – richiede alle imprese di creare delle enor-mi economie di scala111, dall’altra parte, nel contempo, i risultati precari o le per-dite finanziarie conseguenti a megafusioni richiedono cautela. Anche perché i pro-duttori di tecnologie avanzate, a causa della generale sfiducia dei compratori perl’andamento frenetico delle produzioni hi-tech, dell’aumento nella competizioneglobale e del rifiuto dei clienti di acquistare cose che non diano garanzie di alme-no sei mesi, sono obbligati a focalizzarsi su ciò che fanno meglio e a delegare aglialtri, in outsourcing, il resto dell’attività112. Essendo sempre più importante il li-vello di controllo dell’informazione, che produce rendita, si preferisce quindiesternalizzare molte fasi produttive, concentrandosi sulle attività di ricerca nei set-tori trainanti dell’informazionalismo (microelettronica e genetica).

Bisogna ricordare ancora una volta che ai comportamenti onesti e lungimi-ranti di make-togheter si affiancano quelli predatori delle megafusioni, utili so-lo a singole persone. Scrive Ziegler in proposito:

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 9 1

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 191

Page 192: Gli spazi della globalizzazione

La maggior parte delle fusioni ha portato a una notevole diminuzione degli attivi. Ilquotidiano Le Monde (21 agosto 2001) ha analizzato dodici delle più grandi fusioni:praticamente tutte hanno finito per provocare una massiccia diminuzione della quo-tazione in borsa della società nata dalla fusione. Le dodici fusioni esaminate hannoprodotto una perdita complessiva di oltre 720 miliardi di dollari. […] Una megafu-sione lusinga la megalomania di qualsiasi nababbo […]. Praticando quasi per istin-to (e restando generalmente impunito) il delitto di insider trading, a ogni fusione rea-lizza sostanziosi guadagni personali113.

Le fusioni e le acquisizione sono crollate del 48% nel 2001 e del 38% nel2002 e, se nel 2001 queste operazioni hanno costituito l’80% dei flussi mondia-li di investimenti diretti esteri, nel 2002 questa quota è scesa al 55%114.

Il fattore umanoLe imprese transnazionali che operano nel campo dell’ICT devono svilup-

pare sapere scientifico e hanno bisogno di valorizzare al massimo lo scambiod’informazioni. È necessario quindi dividere questo lavoro e i relativi costi suampia scala, lasciando piena autonomia alle unità all’estero: un processo trami-te il quale si favorisce la diffusione delle conoscenze esaltando la centralità delfattore umano, che è probabilmente una delle componenti più importanti inqueste nuove attività.

C’è oggi un rinnovato interesse nell’accrescere il ruolo della produttività delcapitale umano, in particolare per la sua complementarità con le nuove tecno-logie dell’informazione: sono necessarie abilità e competenze per poter mate-rializzare il reticolato delle esternalità da esse indotte115.

Per le imprese che operano e investono nelle nuove tecnologie, le squadre ei gruppi di uomini capaci di coordinarsi in modo sempre più flessibile ed effi-ciente sono importanti. È altrettanto vero, però, che i numerosi e radicali cam-biamenti tecnologici continuano a mettere in evidenza la rilevanza dei singolisoggetti nel favorire le invenzioni116, che naturalmente non è cosa nuova117.

L’ampia disponibilità di personale qualificato (knowledge workers) in India,Cina e Brasile, è uno dei fattori che spiega la loro rilevante crescita economica.

In generale, lavoratori altamente qualificati, spesso asiatici, si muovono intutte le direzioni (in maggioranza verso il Nord del mondo) per rispondere allenuove esigenze professionali nelle capitali dell’economia globale. Durante il pe-riodo 1996-1998 i lavoratori stranieri negli USA costituivano più del 25% deinuovi occupati nell’ICT, una situazione che si riscontrava anche considerando ilcomplesso dei 28 Paesi OECD. (Il settore dell’ICT è, non a caso, quello in cui sisono registrati negli ultimi dieci anni i maggiori aumenti salariali; a fronte di unacaduta delle retribuzioni occorsa nei settori tradizionali della produzione di mer-ci)118. Si tratta però, come si è detto, di movimenti multidirezionali.

In anni recenti, per esempio, alcune regioni dei Paesi in Via di Sviluppo han-no esercitato una forza centripeta di uomini e investimenti grazie alla competi-tività di alcuni loro sistemi economico-sociali-territoriali. Non dovrebbe sor-

Fabio Massimo Parenti1 9 2

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 192

Page 193: Gli spazi della globalizzazione

prendere, dunque, la diffusione delle espulsioni operate nei poli tecnologici deiPaesi tradizionalmente più avanzati: basti pensare che la Cisco ha licenziato cir-ca 5 mila dipendenti in California, riassumendone in eguale misura in India; co-sì come, in generale, stanno aumentando i decentramenti produttivi hi-tech ver-so le regioni intorno a San Paolo del Brasile, al confine col Messico e nei pressidi Pechino119.

Ma il lavoro non è solo quello degli inventori120, degli imprenditori di succes-so e del personale altamente specializzato. Sappiamo, invero, che ci sono ancoranumerosissime attività a differenti livelli di qualificazione sempre meno remune-rate, tanto nel settore primario quanto negli altri due macrosettori tradizionali.Così ancora una volta si deve tristemente rilevare che nuove partite di potere sigiocano sulla condizione del lavoratore.

Va ricordato, infatti, che nelle regioni tecnologicamente avanzate o comun-que parzialmente industrializzate, distribuite in modo asimmetrico sul pianeta,il lavoro umano sta divenendo sempre più flessibile e precario: l’indipendenzapersonale, che spesso si raggiunge per l’allentamento di taluni rapporti sociali,si realizza senza autonomia e, come scrive con acume il sociologo Paolo Ceri,«in epoca di globalizzazione ha potere chi ha la possibilità di decidere la flessi-bilità altrui»121. Ci sono poi le tesi, apparentemente catastrofiste, ma empirica-mente fondate, sulla «fine del lavoro»122 (si tratta più propriamente di quel la-voro di tipo fordista che ha caratterizzato gran parte del Novecento).

Senza illudersi di predire il futuro, lo studio dei processi della globalizzazio-ne potrà forse individuare la direzione della trasformazione del lavoro. Per ilmomento si può dire che è condizionato da due forze: una che agisce in alto eun’altra che agisce in basso. Se la prima s’esplica tramite la possibilità d’accessoe di fruizione individuale alle reti globali, la seconda emerge nella creazione di re-ti partecipative locali saldamente legate al territorio.

Ricerca e sviluppo La ricerca scientifica non ha mai avuto un impatto sulle innovazioni come

in questi ultimi decenni. Questa affermazione va interpretata tenendo in con-siderazione che gli investimenti in ricerca e sviluppo sono aumentati nei PaesiOECD in modo ingente e in un periodo di tempo ristretto. Nella seconda metàdegli anni Novanta, infatti, essi sono passati da 416 a 552 miliardi di dollari,con un incremento che è stato sostenuto in maniera crescente dall’industriaprivata. Possiamo pertanto rilevare che, mentre i fondi dei governi hanno con-tribuito con una quota decrescente (dal 39 al 28% negli anni Novanta), la quo-ta di Research and Development (R&D) finanziata dall’industria privata è au-mentata, nello stesso periodo, dal 57 al 63,9%123.

Nei due decenni passati la formazione di un gran numero di nuove impre-se nei settori della cosiddetta new economy ha favorito la diffusione delle in-novazioni in molte aree del globo. L’Oracle e la Cisco sono esempi d’aziende“giovani” di successo (start-up) che hanno creato posti di lavoro ad alta inten-

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 9 3

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 193

Page 194: Gli spazi della globalizzazione

sità di conoscenza tecnica, riuscendo peraltro a ottenere nel giro di pochi an-ni una notevole crescita della produttività multifattoriale (MFP) (cfr. box Ildinamismo delle start-up).

A queste nuove imprese, che si sono affermate nel mercato globale, si de-ve, di conseguenza, una parte importante della crescita policentrica dell’atti-vità privata in ricerca e sviluppo e della diffusione spaziale di alcune tecnologie.

Nel comparto ricerca e sviluppo dell’industria dell’ICT un ruolo centrale è gio-cato da un’intensa e crescente cooperazione scientifica globale (brevetti con co-in-ventori stranieri, pubblicazioni scientifiche internazionali ecc.). Basti pensare chePaesi piccoli, come quelli del bacino del Baltico (i Paesi scandinavi, ma anche l’E-stonia, ad esempio), hanno realizzato numerosi cambiamenti tecnologici e inno-vazioni attraverso parecchia ricerca eseguita all’estero. Gli stessi Stati Uniti ci for-niscono una buona esemplificazione: nel 2002 il 47% dei brevetti è andato a in-ventori stranieri124. Per quanto riguarda la percentuale di domande straniere perottenere brevetti, spicca la Germania, con il 66,5% sul totale delle richieste avan-zate al livello nazionale (già nel 1997)125.

Va menzionato, inoltre, l’esplicarsi di un processo d’internazionalizzazionerelativo alla protezione delle conoscenze. Se nel 1980 una corporation USA fa-ceva domanda per un brevetto nel proprio Paese e, contemporaneamente, in al-

Il dinamismo delle start-up

Le varie innovazioni tecnologiche hanno stimolato la crescita e la nascita di nuo-ve imprese (start-up), che nel giro di pochi anni sono diventate delle corporationgigantesche. È stato il caso di Cisco System, Dell Computer, Oracle, Sun Micro-system, Apple e altre che hanno intuito in anticipo le potenzialità di molte sco-perte. Al contrario le performance delle grandi aziende mature, come A&T (cheabbandonò i diritti di proprietà sulla microelettronica), Microsoft (solo dal 1996intuì il potenziale di Internet) e IBM (costretta a riconfigurarsi come azienda diservizio) insieme ad altri “esperti” del settore, sono state irrigidite da strategieimprenditoriali poco lungimiranti, tendenti al mantenimento di condizioni dimonopolio [M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Hima-nen, L’etica Hacker e lo spirito della network society, Feltrinelli, Milano 2001]. In una certa misura la dinamica appena ricordata appare evidente da un dato ri-ferito alla Silicon Valley, dove sono nate le principali start-up. Negli anni No-vanta, le nuove imprese hanno creato la maggior parte dei nuovi posti di lavo-ro, circa 258.796 nuovi occupati, mentre, al contrario, quelle mature hanno per-so 120.559 posti di lavoro [ The Future of Technology, in «Businessweek», 18/25agosto 2003].

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 194

Page 195: Gli spazi della globalizzazione

tri due Paesi stranieri, nel 1997, per un brevetto chiesto negli USA si avanzava-no domande in altri 13 Paesi126. Il trasferimento di tecnologie, che emerge daquesti e altri dati sulle richieste di brevetti (all’interno e all’esterno dei Paesi),non ha ridotto, tuttavia, il carattere polarizzato della dinamica tecnologica127.

Possiamo così rilevare come questa diffusione della protezione delle tecno-logie (tramite l’estensione dei sistemi brevettuali) e delle conoscenze loro sotte-se, vada a quasi esclusivo vantaggio dei grandi gruppi industriali, all’interno deiquali avvengono i più consistenti trasferimenti di tecnologie al livello globale.Sia sufficiente ricordare che, nel 1995, l’80% dei pagamenti per royalties e tas-se su licenze è fluito dalle affiliate verso le società madri (dove si concentra an-cora la maggior parte delle attività legate alla produzione di conoscenza)128; op-pure, che il 97% dei brevetti è detenuto dai Paesi ricchi e l’80% di quelli rila-sciati nei PVS è in mano a persone residenti nei Paesi più industrializzati129.

La diversificazione dell’attività di R&D, tramite la creazione di nuovi im-pianti specializzati e l’uso di quelli già esistenti, dimostra infine quanto sia au-mentato il rischio dell’attività imprenditoriale. Questa infatti deve fronteggiareinvestimenti senza ritorni immediati, per sperare d’emergere nel mercato mon-diale delle nuove tecnologie. Per tale motivo la nascita di nuove imprese di suc-cesso è coincisa anche con molti fallimenti di aziende nascenti (in accordo con loschema schumpeteriano visto nel primo capitolo).

3.2 ICT e nuove geografieUna quota crescente di attività ad alto valore aggiunto si sta localizzando, or-

mai da anni, in India e in Cina, due delle cinque macroregioni definite da Brau-del «economie mondo». Una realtà relativamente nuova che continua a convi-vere, nondimeno, con produzioni labour-intensive.

Di seguito renderemo conto, più nello specifico, di alcune ragioni economi-che e culturali che dovrebbero consentire una maggiore comprensione di que-ste “nuove geografie” per quanto riguarda l’ICT.

Se intorno al 2000 a.C. i babilonesi hanno introdotto il sistema di “numera-zione posizionale”, nel VI secolo d.C. gli indiani hanno inventato lo zero, in sosti-tuzione dello spazio vuoto utilizzato in precedenza. Per di più, dall’oracolo taoista-confuciano, «I Ching», è stata derivata l’aritmetica binaria, caratterizzata da enor-mi successioni di zero e uno, che è oggi alla base del funzionamento dei computer(fu il filosofo e matematico Leibniz a mutuare dai Ching – esagrammi di lineette in-tere e spezzate che rappresentavano lo yin e lo yang – il sistema binario).

Non sembra un caso, dunque, che l’India sia diventata il maggior produttoredi software del mondo, più degli USA e del Giappone. Basti pensare che que-sto Paese è attualmente un “contenitore” ricchissimo di ingegneri altamentespecializzati in software – il 30% del totale mondiale – e che più del 50% deilaureati forgiati dai migliori istituti internazionali d’informatica si trovano at-tualmente in India130.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 9 5

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 195

Page 196: Gli spazi della globalizzazione

La Cina, dal canto suo, fu protagonista di numerose invenzioni tecnologiche edi scoperte scientifiche, che, nel tempo, furono usate dal resto del mondo (pen-siamo alla carta nel II secolo, alla stampa a caratteri mobili e alla polvere da sparonell’XI secolo, solo per citarne alcune). Oggi la Cina è il primo produttore indu-striale al livello internazionale e non ci sembra irrilevante che, già dal XIII-XIVsecolo, proprio in questo Paese s’impiegò il coke per fondere i metalli. Si trattò,infatti, di una tecnologia all’avanguardia che giunse in Europa solo nel XIX seco-lo, ove, in sostituzione del carbon di legna, divenne fondamentale per lo sviluppodell’industria siderurgica131.

Sul piano dell’ICT, la Cina è attualmente diventata il più grande mercatomondiale di chip e uno dei primi produttori in questo settore al livello globale,capace ogni anno di formare un numero di ingegneri doppio rispetto a quelliche escono dalle università statunitensi.

Sulla base di questi primi dati, possiamo già dare una risposta sulle cause chestanno consentendo queste nuove dinamiche, che sembrerebbero per l’appun-to legate alla qualità del sistema educativo, in correlazione naturalmente a unminor costo del lavoro qualificato132.

In Cina e in India si stanno creando a un ritmo veloce nuove regioni sub-nazionali hi-tech, o nodi del sistema globale, che contrastano profondamentecon la diffusa povertà presente all’interno di questi due grandi Paesi (dove vi-ve circa un terzo della popolazione mondiale). Tuttavia, mentre la Cina haprofondamente ridotto la “povertà assoluta” negli anni Novanta133, l’India pre-senta sacche di povertà estrema molto più consistenti e disuguaglianze più mar-cate. Essa ha conosciuto dal 1980 a oggi un aumento del numero di persone chesoffrono costantemente la fame (il 53% dei bambini sono malnutriti) ed è ilPaese che, insieme all’Africa sub-sahariana, presenta il maggior numero di af-famati del mondo134. È vero che, dalla metà degli anni Novanta, sta crescendoa un tasso del 10% all’anno la classe medio-alta (composta da indiani che di-spongono di più di mille euro al mese), ma essa, tuttavia, non supera ancora il4% della popolazione totale.

“Arcipelaghi indiani”Una delle aree mondiali più importanti per il settore dell’Information Tech-

nology è sicuramente Bangalore, capitale dello Stato indiano sud-occidentale delKarnataka. Questa città, in base a una classifica mondiale stilata nel luglio del2000135, appare all’undicesimo posto per la qualità delle università e dei centri diricerca, per la presenza di aziende all’avanguardia, nonché per la spinta impren-ditoriale locale ad avviare nuove imprese (start-up)136.

Proprio a Bangalore, infatti, si trasferiscono molti dei posti di lavoro creati inorigine nella Silicon Valley californiana nel settore dei software. Dal dicembre2000 all’aprile 2003, la Silicon Valley ha perso il 17,4% dei suoi posti di lavoro– un dato che è espressione della caduta più significativa che si sia verificata nel-la regione dai tempi della “Grande Depressione”137 – che sono stati in parte ri-

Fabio Massimo Parenti1 9 6

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 196

Page 197: Gli spazi della globalizzazione

creati e trasferiti in località come Bangalore in India e Tianjin in Cina, ma anchein aree brasiliane e messicane.

Dobbiamo aggiungere che, oltre a Bangalore, non mancano altre aree geo-grafiche dotate di ottimi centri di formazione e capaci d’attrarre investimentiproduttivi nei settori delle nuove tecnologie informatiche: ci si può riferire allacittà di Hyderabad, nello Stato sud-orientale dell’Andhra Pradesh, oppure allacittà di Madras, nello stato meridionale del Tamil Nadu. Intorno a questi tre no-di si concentrano i due terzi delle aziende produttrici di software presenti in In-dia e un terzo degli investimenti totali al livello nazionale138.

È importante ricordare che in questi “centri di sviluppo della comunicazionedigitale”, oltre alla presenza di aziende come la Oracle, gigante americano deisoftware che ha deciso d’investire in India per l’assunzione di 4 mila persone, emer-gono anche imprese indiane che stanno divenendo importanti attori mondiali.L’Infosys Technologies, per esempio, ha sviluppato una serie di attività e di servi-zi informatici che vengono offerti a banche (Citigroup), a compagnie aeree (Briti-sh Airways, Swissair) e a ospedali occidentali139. L’India – come rileva lo studiosoC. Jaffrelot – è il primo venditore di servizi nelle tecnologie informatiche e prece-de l’Irlanda e gli Stati Uniti.

Nel subcontinente indiano gli investimenti sono pertanto indirizzati soprat-tutto verso i servizi nell’IT e i call center, ma anche verso le attività di ricerca e svi-luppo in svariati settori. Sono molte le imprese transnazionali (Amazon.com e Ci-tigroup, ad esempio) che esternalizzano (in outsourcing) parte del loro processoproduttivo a società indiane, come quella sopra menzionata, oppure a societàstraniere come Dell computer e American Express, già insediatesi in India140.

Va detto, peraltro, che sono di più le aziende del subcontinente che quellestatunitensi ad aver ottenuto il maggiore indice di qualità dalla Carnegie-MellonUniversity’s Software Engineering Institute (ossia, dal più prestigioso diparti-mento universitario d’ingegneria informatica, sponsorizzato dal Dipartimentodella difesa degli USA)141.

Secondo un’indagine internazionale del 2001, oltre al vantaggio rappresen-tato dal basso costo del lavoro knowledge intensive, si deve considerare la qualitàdel lavoro in senso ampio che, in base alla sua connessione con il sistema forma-tivo/educativo, costituisce il fattore competitivo più rilevante. Così, la qualitàdella struttura educativa può essere considerata, in ultima istanza, la conditio si-ne qua non per ottenere risultati nei settori ad alto contenuto di conoscenza142.

L’India sta iniziando una nuova stagione in cui prevale una strategia export-lead (in cui dominano ancora le componenti del tessile e dell’agroalimentare). Almomento si punta ad aumentare dal 10 al 30% la quota del PIL derivante dal-l’export entro il 2005, con un terzo che dovrebbe provenire dal settore dell’ICT.Per realizzare questo obiettivo, all’India non manca la principale risorsa: più del50% di laureati, diplomati nei migliori istituti d’informatica al livello interna-zionale, che sono attualmente residenti in India143. Inoltre, sembra che il sub-continente stia facendo i primi passi per costituire delle «Zone Economiche Spe-

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 9 7

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 197

Page 198: Gli spazi della globalizzazione

ciali» sul modello cinese: si tratta di aree che hanno avuto – secondo l’UNCTAD– più successo delle «Zone Specializzate per l’Esportazione» nel promuovere ilcommercio e attirare capitali.

Per comprendere questo Paese e le sue dinamiche socioeconomiche nellospazio geografico, è tuttavia importante tenere sempre presente i numerosi pro-blemi (fame, analfabetismo, concentrazione della proprietà terriera, rete debo-le di infrastrutture elettriche, stradali e ferroviarie ecc.) che affliggono l’India ela sua gente. Si tratta non a caso di regioni dai forti contrasti: «le strade intornoa Bangalore sono così malandate che Norayana Murty, responsabile di Infosys,[…], ha preso pala e piccone e ha trascorso un’intera giornata a tappare i buchidell’autostrada che unisce la capitale a Hosur»144.

Va detto, infine, che sulla base di indicatori di sviluppo socioeconomico, comequelli sulla povertà e sull’alfabetizzazione, l’India è divisa in due grandi regioni:nella parte nord-orientale (gli Stati dell’Uttar Pradesh, del Bihar, dell’Orissa e delMadhya Pradesh) vivono più della metà dei poveri dell’Unione indiana, mentre,per contrasto, in quella occidentale e del sud il reddito pro capite è all’incirca didue/tre volte superiore. Disuguaglianze spaziali si registrano anche per molti altriindicatori, come i livelli d’istruzione e il consumo d’energia elettrica145.

La dinamica cinese e le sue regioni La Cina, il Paese più popolato del mondo (1 miliardo e 300 milioni di abi-

tanti su una superficie di circa 9,5 milioni di kmq), ha indubbiamente dimo-strato un capacità di ristrutturazione economica lungimirante ed efficace, che,per tanti analisti, giornalisti e persino studiosi, non era immaginabile. Al ri-guardo, il giornalista Sandro Viola, nella presentazione a un recente libro sul-la Cina146, scrive con estrema onestà: «Quante volte, noi che ci occupavamodella Cina, abbiamo scritto sciocchezze. Quanti documenti del Pentagono sul-la situazione cinese, o atti di seminari accademici, traboccavano di previsionisballate (…)» [sul tracollo e il disfacimento delle strutture politiche e economi-che cinesi].

Crediamo pertanto che sia utile approfondire la dinamica economica cinesepiù recente, al fine di cogliere alcune tendenze geografico-economiche nell’ICT,benché alcuni importanti risultati della politica macroeconomia di questo Pae-se siano già stati introdotti in precedenza (cfr. cap. II, par. 2),

Nel mese di ottobre 2003, la bilancia commerciale cinese ha fatto registrareun surplus di 5,7 miliardi di dollari, con un aumento dell’esportazioni del 37%rispetto all’ottobre del 2002. Seguendo questa via, le imprese di origine cinesehanno aumentato le proprie quote di mercato a scapito di quelle americane edeuropee, le quali, in compenso, hanno visto incrementare in modo significati-vo, come il Giappone, le merci vendute nel mercato cinese147.

Seppure dal 1994 ad oggi, «solo il 35% delle esportazioni cinesi è stato rea-lizzato da aziende domestiche, mentre il restante 65% è stato prodotto da so-cietà d’oltremare»148, non va dimenticato che molte società globali che investo-

Fabio Massimo Parenti1 9 8

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 198

Page 199: Gli spazi della globalizzazione

no e fanno profitti in Cina – dopo che sono riuscite gradualmente a entrare –reinvestono all’interno del Paese149.

La Cina è tuttavia afflitta da numerosi problemi, come la diffusa violazionedei diritti umani150, l’incremento dell’inquinamento atmosferico, idrico, pedo-logico e l’eccessiva dipendenza energetica dal carbone (che soddisfa il 76% delfabbisogno nazionale)151; senza dimenticare, poi, la presenza di enormi sacchedi povertà, soprattutto nelle regioni rurali dell’Ovest e del Nord-Ovest152.

Al livello nazionale e regionale le disuguaglianze socioeconomiche conti-nuano ad acuirsi, anche se, nel contempo, spiccano azioni di pregio a sostegnodelle realtà economicamente più svantaggiate. Se è vero, infatti, che circa 400milioni di cinesi vivono nelle principali città e cittadine lungo la costa, ove si pro-duce circa il 60% del PIL153 e di conseguenza si registrano dei redditi pro capi-te molto più alti della media nazionale, deve essere altresì ricordato che in Cinasi è realizzata la più consistente riduzione della “povertà assoluta”, calcolata inbase allo standard di un dollaro al giorno, da 358 milioni di poveri nel 1990 a208 milioni nel 1997154.

Questo straordinario risultato può essere in parte attribuito, tra le altre pos-sibili spiegazioni, a un forte aumento degli investimenti pubblici effettuati so-prattutto dalle autorità locali. La decentralizzazione degli investimenti pubbli-ci è stata confermata nel 2002, quando quelli delle autorità locali sono aumentatidel 30,9% rispetto al 2001, a fronte di un incremento dell’1,2% di quelli del go-verno centrale155. La crescita maggiore di investimenti pubblici si è verificataproprio nelle regioni meno sviluppate (Gansu, Guizhou, Shaanxi, Hunan,Jiangxi, Mongolia interna e Shanxi), che hanno fatto registrare un aumento del50% tra il 2001 e il 2002, contro il 23,6% al livello nazionale156.

I rapidi processi d’agglomerazione e concentrazione di ricchezza nelle areecostiere hanno continuato ad alimentare, tuttavia, un fenomeno migratorio che,negli ultimi 15 anni, ha coinvolto tra i cento e i duecento milioni di persone157

– un movimento interno allo Stato cinese (nord-sud, ovest-est) che potrebbeessere equiparato ai migranti transnazionali calcolati al livello mondiale.

Ricordando la schematicità degli aspetti analizzati in questa sede e andandooltre le facili mitizzazioni, ci interessa porre in evidenza il ruolo che l’immensoPaese ricopre nelle nuove dinamiche industriali (con particolare attenzione aimercati tecnologicamente avanzati).

I dati dell’UNCTAD relativi all’anno 2002 mostrano che la Cina s’attesta alsecondo posto, dopo il Lussemburgo, per quantità di investimenti diretti este-ri ricevuti (53 miliardi di dollari). Se il dato del Lussemburgo è fittizio, per lapresenza di molte imprese finanziarie internazionali – per cui molti investimentisono in realtà di passaggio –, il dato della Cina è anche qualitativamente rile-vante158. Gran parte degli investimenti diretti esteri, infatti, rimane concreta-mente nel Paese, generando quegli effetti di “crescita economica” ai quali ab-biamo accennato159.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 1 9 9

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 199

Page 200: Gli spazi della globalizzazione

Dalla fine degli anni Settanta, il flusso crescente di tali investimenti verso laCina ha riguardato imprese disposte a trasferire tecnologie avanzate oppure aprodurre nel Paese a livello tecnologico medio-basso per poi riesportare. Gliinvestimenti privati provenienti dall’estero sono stati realizzati, peraltro, da duegrandi tipologie societarie: la prima è rappresentata dalle filiali delle corpora-tion transnazionali provenienti dai Paesi guida del capitalismo mondiale, men-tre la seconda è costituita dall’elevatissimo numero di piccole imprese deloca-lizzate dai Paesi di Nuova Industrializzazione160. Ovviamente, le strategie diquesti due modelli d’impresa differiscono molto le une dalle altre.

Grandi compagnie ICT in Cina

Nel 2000, la transnazionale d’origine statunitense Motorola ha deciso di co-struire una grande fabbrica per la produzione e la progettazione di microchip nelporto di Tianjin. (Si trattava del maggiore investimento straniero mai effettuatoin Cina, 3,4 miliardi di dollari). Una scelta che è derivata, in particolare, dagli ot-timi risultati che il gigante americano ha realizzato nel Paese (il 10% dei profittiglobali di Motorola nel 1999) [F. Sisci, Chi vince in Cina vince nel mondo, in «I qua-derni speciali di Limes», n. 1, Roma 2001, pp. 127-133].In generale, il contesto politico ed economico ha fornito maggiori certezze nellavalutazione delle aspettative che guidano gli investimenti. È talmente importante entrare nel mercato cinese dei chip, il più grande delmondo, che anche la Formosa Plastics, la più forte impresa di Taiwan del setto-re, nonché gigante mondiale, ha realizzato una fabbrica a Shanghai. Nel macrosettore delle telecomunicazioni, sia hardware, sia software, si molti-plica, dunque, la partecipazione dei soggetti privati, domestici e transnaziona-li, in interazione continua. La Siemens tedesca, ad esempio, ha realizzato circacento joint venture all’interno del paese. Va detto, poi, che il settore della pro-gettazione e della produzione industriale hardware è quello che risulta più con-geniale alle dotazioni interne (in Cina operano, tra le altre, Ericson, General Elet-tric, Hyundai Electronics, Intel, Microsoft, Sony, ecc.) [UNCTAD, Worldinvest-ment Report 2003, United Nations, New York - Geneva 2003].Non va dimenticato, infine, che tali aperture nel settore dell’ICT rimangono com-binate a un apparato di controllo centralistico, che, nonostante tutto, accetta lapresenza di grandi portali internet, i quali favoriscono a loro volta la circolazio-ne di idee, informazioni e conoscenze prodotte nelle diverse regioni del mondo.A eccezione delle questioni politiche, la normativa di riferimento è stata infattisignificativamente alleggerita: per quanto riguarda le televisioni, all’emitten-te centrale (CCTV) si affiancano centinaia di TV locali, che possono produrre ipropri programmi senza tuttavia acquistare all’estero (anche se non mancanoevidenti e ulteriori passi di apertura) [F. Sisci, art. cit.].

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 200

Page 201: Gli spazi della globalizzazione

Le piccole imprese, che non sono in grado di realizzare estese sinergie co-me le global corporations, prediligono l’insediamento vicino ad altre aziende enell’ambito di aree culturalmente simili (importanza della prossimità geogra-fica). La loro strategia organizzativa è poi orientata, in modo prevalente, a va-lorizzare il vantaggio competitivo derivante dal basso costo della manodope-ra, a sua volta garantito dal fatto che si trovano a operare nell’ambito di mer-cati in espansione161.

Le grandi corporation, invece, privilegiando soprattutto il rapporto con il go-verno centrale per ottenere il superamento delle barriere all’esportazione, siorientano verso la produzione di beni diversificati e ad alto contenuto tecnolo-gico e investono in capitale fisso e manodopera qualificata162.

Naturalmente questa struttura produttiva “straniera” di recente formazio-ne, forgiata da politiche in grado di attirare e organizzare gli investimenti, ha da-to un forte impulso anche all’affermazione di imprese locali che nel giro di po-chi anni sono diventate importanti corporation mondiali. Ricordiamo, ad esem-pio, il gruppo TCL Corporation, che produce apparecchi televisivi, lettori Dvd,telefoni cellulari e computer portatili, o la Lenovo, con sede a nord di Pechino,che occupa il terzo posto nella graduatoria mondiale dei produttori d’informa-tica al consumo, controllando più del 25% del mercato cinese davanti all’IBMe alla Dell computer163.

Il tessuto produttivo cinese risulta così molto articolato e diversificato: in-sieme ai gruppi d’aziende ad alta tecnologia, concentrate soprattutto nelle«Zone Economiche Speciali» (Shanghai, Pechino, Zhejiang, Guandong) e inquelle chiamate a «Sviluppo Economico e Tecnologico», vi sono anche im-prese di piccole dimensioni che operano con dotazioni tecniche molto “arre-trate”. La collocazione di unità d’imprese transnazionali in queste «Zone», di-stribuite in prevalenza al sud164, si spiega, oltre che con motivi politico-eco-nomici (vige un sistema normativo più permissivo, in cui molte barrieretariffarie sono state eliminate), con ragioni sostanzialmente geografiche. Sitratta infatti delle regioni più ricche d’acqua dolce e vicine a importanti cittàcommerciali e portuali.

Il ruolo del software libero nei nuovi movimenti di tecnologiaUna delle forze più significative nel determinare le nuove dinamiche tecno-

logico-spaziali va ricercata – come accennato in precedenza – nella capacità diespansione autonoma delle tecnologie dell’informazione (ormai funzionali al-l’organizzazione produttiva in ogni settore dell’economia). Per espansione au-tonoma intendiamo la possibilità, data dall’information technology, di accederealla conoscenza a bassi costi – con la possibilità di produrre delle tecnologie sen-za trasferimento – e di migliorare localmente la capacità di sviluppo ingegneri-stico-informatico in funzione di bisogni territorialmente definiti.

L’auto-espansione, caratteristica insita nei meccanismi di funzionamentodelle nuove tecnologie, è stata ed è incentivata in modo sostanziale dal movi-

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 0 1

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 201

Page 202: Gli spazi della globalizzazione

mento internazionale per il “software libero” (open-source), il cui precursore èstato Richard Stallman nella metà degli anni Ottanta165. Grazie al suo lavoro ea quello di altri hacker, Linus Torvalds ha potuto sviluppare, e in parte inven-tare, il sistema operativo Linux, che sta divenendo alternativo a quello di Mi-crosoft (società che, come è noto, detiene una posizione di monopolio nel mer-cato dei software)166.

Negli ultimi anni, alcuni giganti come IBM, HP e Oracle hanno deciso diadottare Linux (come i governi di Francia e Germania), sia per contenere ildominio di Microsoft, sia per sviluppare sistemi e programmi informatici piùefficienti e adattabili alle diverse esigenze dell’impresa o, nel caso dei governi,dell’economia e della società al livello nazionale167. Anche altre grandi azien-de, come Apache, Amazon.com e la Cisco (solo per fare alcuni esempi, datoche in quasi il 30% dei grandi computer aziendali è stato installato Linux),stanno facendo esperienza con il sistema operativo e i programmi Linux, a di-mostrazione dell’importanza del software libero, sia sotto il profilo socio-cul-turale (favorisce l’accesso all’informazione e alla conoscenza) sia sotto quellostrettamente economico (non è coperto da brevetti). Una versione di Linux(SuSE) realizzata da una piccola azienda in Germania ha ottenuto, inoltre, lacertificazione di sicurezza da parte della più prestigiosa istituzione governati-va statunitense che opera in questo campo (la Common Criteria). Un certificatoche è stato concesso dopo un anno di esami e il pagamento di mezzo milionedi dollari168.

Gli effetti più interessanti della diffusione dei software open-source riguar-dano, peraltro, i benefici per i Paesi in Via di Sviluppo. Le strutture pubblichedi questi Paesi (ma anche quelle private locali) per l’istruzione, la sanità e le at-tività governative non potrebbero mai, infatti, affrontare i costi per pagare le in-numerevoli licenze che detiene Microsoft, se non tramite un ulteriore processod’indebitamento. Oltre a far risparmiare soldi, i “software liberi”consentono diadattare i programmi alle diverse esigenze esistenti in loco – come nel caso del-l’uso di vecchi PC o della traduzione in lingue minoritarie – permettendo ai pro-grammatori locali di sviluppare i propri sistemi di computer nella direzione del-l’indipendenza hi-tech169.

Non è un caso che l’Agenzia di Stato per l’Information Technology del Suda-frica abbia dichiarato, nel gennaio del 2003, di spostarsi sull’open-source al finedi risparmiare miliardi di dollari l’anno. Oppure che la città di Porto Alegre (Bra-sile), per le stesse ragioni, abbia adottato diffusamente – università, scuole, mu-nicipio ecc. – i software Linux verso la fine degli anni Novanta (come è avvenu-to in altre realtà brasiliane, indiane e cinesi). In Cina la possibilità di essere spia-ti dal governo americano con il cosiddetto back doors built sta aumentando lapopolarità dei software liberi locali170.

In conclusione ricordiamo che il programma open source non si può vende-re, ma lo si può utilizzare in modo gratuito (per incrementare l’interconnessio-ne tra le reti produttive e di servizio interne alle grandi corporation e, soprat-

Fabio Massimo Parenti2 0 2

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 202

Page 203: Gli spazi della globalizzazione

tutto, alle piccole aziende) e modificare liberamente (per risolvere quanti piùproblemi possibile in base alle singole esigenze)171. Tutto ciò riguarda sia colo-ro che non lavorano propriamente nella produzione di software, sia coloro cheinvece vi investono direttamente per produrli. In quest’ultimo caso i profittiderivano dal fornire tutta una serie di servizi all’utente-cliente, al quale si pro-pongono i programmi informatici open source. Questi servizi concernono, adesempio, l’ideazione di programmi specifici, la consulenza sul loro uso e la pro-duzione di manuali.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 0 3

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 203

Page 204: Gli spazi della globalizzazione

Capitolo quartoConclusioni teoriche

4.1 Sviluppo ineguale e relativi limiti teoriciIl sistema economico mondiale si presenta come un insieme di reti informa-

zionali, commerciali e produttive in movimento, che si fondano, in modo sem-pre più marcato, su un complesso mosaico di macro e micro regioni (non tuttedotate dello stesso grado di visibilità).

Anche se la dinamica economica reticolare è espansiva, essa si riproduce, nelcontempo, in modo accentuatamente diseguale e polarizzato; ossia, aumentano inodi (hubs) su scala globale, con un incremento del processo di polarizzazione me-tropolitana e di agglomerazione172, senza che cresca in modo significativo la par-tecipazione da parte delle varie società (cfr. saggio introduttivo). Tra le maglie diquesto insieme di reti s’individuano, infatti, dei «buchi neri», che sono localizzatiprevalentemente nell’Asia centrale, in molte regioni interne dell’America Latina ein quasi tutta l’Africa (un vero e proprio apartheid tecnologico-informatico – cfr.par. 2.3). In quest’ultimo continente, in cui vive il 12% della popolazione mon-diale, il reddito è drammaticamente caduto proprio nel decennio 1990-2000173.Inoltre, fra la metà degli anni Ottanta e degli anni Novanta,

come documenta lo Human Development Report pubblicato dalle Nazioni Unite nel1996, la povertà urbana, la crisi dell’agricoltura (quella di sussistenza, in particolare),la disgregazione istituzionale, la violenza diffusa e i massicci movimenti di popolazio-ne si sono sommati tra loro, aggravando notevolmente le condizioni di vita di granparte della popolazione africana174.

Ma l’Africa non è priva di nodi regionali/globali. In generale, semplificando molto, possiamo distinguere fra tre ordini di hub

al livello mondiale: quelli dell’innovazione hi-tech (con i suoi lavoratori altamen-te qualificati e specializzati), appartenenti alla geografia dell’information techno-logy; quelli degli impianti industriali nell’hinterland dei vari centri urbani (con lamanodopera poco qualificata del vecchio e nuovo proletariato urbano); e infinequelli delle risorse naturali (giacimenti petroliferi/minerari, aree ricche di biodi-versità ecc.), che si trovano nelle zone più conflittuali e povere del mondo, sullecui dinamiche molto si deve ancora indagare e documentare. Allargando ulte-riormente questo terzo ordine di hub, potremmo far rientrare anche tutti i terri-

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 204

Page 205: Gli spazi della globalizzazione

tori ove si realizzano quelle innovazioni agroecologiche che rappresentano delleconcrete alternative alla miseria di chi vive nei «buchi neri» del sistema globale.

Resta il fatto che Hong Kong, Taiwan, Singapore, Seul, il Messico centrale,Bangkok, Pechino, Guangzhou, Kuala Lumpur e altri spazi urbani, in cui è enor-memente cresciuto il reddito medio pro capite, sono pervasi, in maniera diversa,da disuguaglianze interne, rappresentando, in ultima analisi, una ristretta mi-noranza della popolazione mondiale.

Alla scheletricità dei sistemi regionali e di quello globale contribuisce, inol-tre, la finanziarizzazione dell’economia e la concentrazione e il controllo dellaconoscenza “scientifica” (economicamente utile), nonché la frammentazione ela riorganizzazione dei processi produttivi.

È importante monitorare i trasferimenti di tecnologie al livello globale, leasimmetrie da essi prodotte e le correlate dinamiche di inclusione/esclusione diluoghi e di gruppi umani. Purtroppo, però, bisogna registrare un’enorme falladella teoria economica di fronte alla questione dello «sviluppo ineguale», che,dopo tutto, è l’unico modo attraverso cui il processo economico ha sempre fun-zionato, tanto al livello regionale, quanto al livello globale. Scrive Allen J. Scott,che nel suo lavoro sulle regioni economiche mondiali utilizza spesso le categorieanalitiche della teoria esistente:

Sia che si segua il paradigma neoclassico […] o le dottrine sulla teoria della dipen-denza […] o le nozioni attuali sull’industrializzazione orientata all’esportazioni, dob-biamo sempre confrontarci con la realtà empirica per cui la crescita si realizza in mo-do più intenso in alcuni luoghi rispetto ad altri ed è principalmente, anche se nonesclusivamente, un fenomeno urbano175.

Effettivamente, quando si vuole affrontare la spiegazione della forma ine-guale dello sviluppo, emergono all’interno della scienza economica dei rilevan-ti limiti teorici – non è un caso che ci siamo più volte riferiti a un sociologo comeCastells – soprattutto per quanto riguarda le teorie del commercio internazionaleincentrate sul principio dei vantaggi comparati176.

Una recente critica di Vittorangelo Orati177 ci fornisce un aiuto per il ripen-samento teorico di tali problemi. Secondo questo economista, difatti, l’analisiempirica non ha ancora un solido fondamento nella teoria economica (sia nellasua forma ortodossa dominante, classica e neoclassica, sia nella letteratura ete-rodossa sullo «sviluppo ineguale»)178. I vari filoni della teoria economica inter-nazionale, in realtà, non fornirebbero modelli dinamici soddisfacenti (rimanen-do ancorati ad approcci statico-comparativi).

Tale critica si concentra sull’incapacità di tutta la teoria di spiegare tre gran-di questioni del processo economico: primo, l’andamento diseguale del proces-so d’accumulazione capitalistica nel tempo; secondo, il passaggio da una condi-zione d’autarchia al libero scambio; terzo, la dinamicità del rapporto svilup-po/sottosviluppo.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 0 5

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 205

Page 206: Gli spazi della globalizzazione

Queste carenze esplicative sarebbero dovute a un attaccamento generalizza-to alla «regola ricardiana» dei costi e dei vantaggi comparati, che, secondo Ora-ti, non consente di avvicinarsi alla realtà: essa ipotizza e non spiega lo scambio etrascura completamente il cambiamento tecnologico, considerando solo il fat-tore lavoro. Così, se la teoria degli ortodossi – l’interpretazione statica del mo-dello ricardiano fornita da Hecksher-Ohlin – è lontana dalla realtà, gli sforzi de-gli eterodossi, come A. Emmanuel e S. Amin, che hanno tentato di definire un’al-ternativa teorica, hanno prodotto analisi più realistiche, ma prive di un coerenteimpianto concettuale179. La critica di Orati è tesa peraltro alla produzione, congli strumenti interni alla disciplina, di una nuova teoria del commercio interna-zionale che contempli un «protezionismo illuminato»: una sistematizzazione in-tellettuale in cui l’innovazione tecnologica e lo sfruttamento del lavoro sintetiz-zino l’approccio schumpeteriano con quello marxiano. (In quest’ottica è neces-sario riaffermare la dignità teorico-empirica del lavoro di Friedrich List sulprotezionismo a difesa delle industrie nascenti; un lavoro che ha fornito tanteimportanti intuizioni alle moderne teorie dello sviluppo regionale – come ci ri-corda A.J. Scott).

L’apprezzabile sollecitazione di Orati può trovare, a nostro avviso, un utilecomplemento nella prospettiva interdisciplinare di Georgescu Roegen. Que-st’ultimo, con maggiore profondità epistemologica, ha tentato di contribuire alsuperamento dei limiti propri della scienza economica tramite la radicale messain discussione dell’immanente dominio delle leggi della meccanica in economia.Richiamando alcune intuizioni di grandi pensatori come Malthus, Marx, Mar-shall e Chamberlin, Georgescu ha posto in evidenza proprio l’affinità dell’eco-nomia alla biologia, piuttosto che alla meccanica. Egli ha sostenuto, dimostran-dolo, che «anche se i problemi connessi con l’attività esosomatica (tecnologicain senso ampio) non sono tutti di natura puramente biologica, i più profondi lo so-no»180. Con i suoi studi, Georgeascu ha così aperto la strada a una visione fluida,interagente e unitaria del rapporto fra economia e natura.

Lo sforzo intellettuale di Orati nasce dall’insoddisfazione delle teorie mec-caniche del commercio internazionale, che, sulla mera base dei prezzi relativi(e non assoluti), pretendono di spiegare il raggiungimento dell’equilibrio ne-gli scambi commerciali tra Paesi (condizione che nella realtà non si realizza)sulla base di quel processo che in realtà ipotizzano (l’apertura d’una econo-mia). Tuttavia la sua critica utilizza gli strumenti della teoria economica, che loportano a parlare di «meccanismo dello sviluppo ineguale». Inoltre, i limiti del-la sua proposta emergono dalla sua stessa affermazione secondo la quale lateoria da lui proposta «ha un suo proprio livello d’astrazione che deve essereabbassato per spiegare i mutamenti effettivi della divisione internazionale dellavoro, che in ogni caso non è congruente con la teoria main stream»181.

Per dare un’ulteriore idea dell’incapacità di uscire fuori dalla gabbia dell’e-conomia meccanicistica e per confermare l’importanza di far tesoro delle sol-lecitazioni appena richiamate, riportiamo due esempi di “riduzionismo” tratti

Fabio Massimo Parenti2 0 6

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 206

Page 207: Gli spazi della globalizzazione

dal pur interessante libro di Joseph E. Stiglitz (2002) sulla globalizzazione. Nel suo dettagliato e utile contributo sul funzionamento del Fondo Mone-

tario Internazionale, Stiglitz non ci fornisce elementi teorici nuovi – come pe-raltro rileva lo stesso Orati – al di fuori della teoria neoclassica del commercio in-ternazionale. Rimanendo prigioniero dell’approccio “crescita-sviluppo”, egligiunge ad affermare, per esempio, che «se da una parte l’apertura del mercatodel latte giamaicano alle importazioni dagli USA, decisa nel 1992, può aver dan-neggiato gli allevatori di bovini locali, dall’altra ha fatto sì che i bambini poveripotessero usufruire di latte più a buon mercato»182. Come se i bambini (econo-micamente indipendenti?) e gli allevatori di bovini fossero entità astratte, tra lo-ro sconnesse e su un piano socioeconomico irrilevante rispetto a quello dellamera attenzione ai “prezzi”.

Inoltre, scrivendo di proteste sociali provocate dall’introduzione di centri didistribuzione della Wal Mart183, Stiglitz ricorda ingenuamente che «sebbene sia-no legittime [preoccupazioni e proteste], occorre sempre ricordare come mai WalMart abbia tanto successo: vende i prodotti a prezzi più bassi […]» e via dicen-do con la distribuzione più efficiente per chi vive ai limiti della sussistenza184. Aquesto punto ci chiediamo: è possibile ridurre le preoccupazioni e le protestesociali di chi vive ai margini della società a una questione di prezzi (tra l’altro re-si possibili, nel caso Wal Mart, da condizioni di lavoro di vero e proprio sfrutta-mento anche negli USA)185, senza minimamente considerare il contesto?

Sia sufficiente ricordare che in condizioni di povertà si sopravvive se si riescea garantire l’accesso alle risorse naturali per l’autoproduzione (base economicadi un’enorme quota di agricoltori in Asia, Africa e America Latina) e/o se si rie-sce a ottenere un minimo reddito dall’allevamento, dalla piccola coltivazione oda qualsiasi altro lavoro, che, comunque, difficilmente forniscono più di un dol-laro al giorno. Diversamente, l’approccio appena ricordato, del tipo “distruggola tua struttura economico-sociale, ma in cambio ti offro prezzi migliori”, è cosìparadossale da sembrarci folle186.

4.2 Il contributo di MarxDa Schumpeter a Marx (andando un po’ a ritroso)

L’analisi svolta finora ha potuto dimostrare quanto importanti siano stati al-cuni dei concetti basilari del quadro teorico sviluppato da Schumpeter (comeinnovazione e “trustificazione”). In particolare, la centralità dell’innovazionetecnologica nella dinamica di un dato sistema economico è uno degli argomen-ti per cui viene giustamente ricordato questo studioso.

Se Schumpeter ha parlato di tecnologia in senso ampio in relazione alla fun-zione di produzione, Marx le aveva attribuito un significato ancora più esteso.Egli infatti interpreta le tecnologie come un processo sociale in cui si realizza il «ri-cambio organico tra uomo e natura» – un ricambio che con il dominio della tec-nologia si distorce e diventa sempre più difficile da individuare187.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 0 7

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 207

Page 208: Gli spazi della globalizzazione

Nathan Rosenberg, che ha indagato a fondo il rapporto fra tecnologia ed eco-nomia, ha dimostrato che Marx «fu un attento studioso di tecnologie» e che pro-prio da ciò dipende la fecondità del suo studio sul cambiamento sociale188.

Premesso ciò, crediamo che una schematizzazione del contributo di Marx in ta-le campo possa offrirci ulteriori strumenti teorici a sostegno di quell’approcciometodologico ampio che abbiamo seguito lungo questa trattazione.

La critica alla tecnologia Collegandoci alle precedenti considerazioni sul “software libero”, relative ai

vantaggi auspicati e qualche volta realizzati tramite un uso critico delle tecnolo-gie informatiche (come l’accesso alla conoscenza, la cooperazione allargata e ilcontrollo virtuoso della tecnologia o di una sua parte, lì dove viene fruita), rile-viamo come lo stesso Marx abbia criticato la tecnologia non in sé, ontologica-mente, ma per l’uso che ne veniva fatto dal capitalismo (ovvero, per «la forma so-ciale del suo sfruttamento»). Nel tredicesimo capitolo del Capitale questa tesiemerge chiaramente, in particolare nell’analisi del passaggio graduale dalla ma-nifattura alla grande industria, «il sistema di fabbrica moderno». Nella manifat-tura – scrive Marx – domina «il corpo lavorativo sociale» che si pone come sog-getto di fronte «all’automatismo meccanico che appare suo oggetto»; nella gran-de industria, invece, «l’automatismo del sistema delle macchine è il soggetto»,mentre gli operai si trasformano in ingranaggi del sistema automatico (diven-tando in qualche modo essi stessi l’oggetto dell’elemento tecnologico dominan-te: processo di reificazione)189.

Dall’esame attento che Marx ha fatto dell’evoluzione del sistema capitalisti-co, emerge, inoltre, l’annuncio (sicuramente d’anticipo rispetto ai tempi) delgrande capovolgimento dei mezzi (della tecnologia) in fini. Scrivendo di Marx,il filosofo Umberto Galimberti spiega con chiarezza che

Abolendo i fini e autonomizzando quelli che, al tempo del primato della natura, era-no i mezzi, la logica del mercato dischiude quello scenario che prevede il dominiodella cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore, perché, in un processo di totalereificazione, è la cosa a definire l’uomo, che così risulta oggettivato e istituito dal ge-nere della propria attività, la quale, a sua volta, non è più ricambio organico con la na-tura, ma pura produzione di merci, che non solo conducono vita autonoma rispettoai bisogni umani, ma definiscono, attraverso la loro circolazione, il senso dell’attivitàumana e il valore delle cose190.

Il metodo d’analisiLa reciprocità fra l’ampiezza del ragionamento di Marx e la consistenza filo-

sofica che ne è derivata (e che ha alimentato il suo lavoro scientifico) non trovagiustizia nella critica di determinismo tecnologico che in passato è stata solleva-ta da alcuni suoi studiosi191. Tale tesi decade, infatti, quando di Marx si prendaattentamente in considerazione il metodo di analisi dialettico (tramite il qualeogni cosa è vista come il risultato di una reciproca azione/reazione di tutti i fat-

Fabio Massimo Parenti2 0 8

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 208

Page 209: Gli spazi della globalizzazione

tori coinvolti) e la centralità del processo storico (il cui andamento è caratterizza-to da periodiche discontinuità).

Per dare una parziale idea della gradualità e spontaneità, ma anche dellamutabilità brusca e turbolenta del processo di sviluppo del sistema capitali-stico secondo Marx, proviamo a fornire una piccola esemplificazione.

Il lavoro artigianale è stato sostituito nel corso del processo d’industrializza-zione capitalistica dalla manifattura, che a sua volta è stata sostituita dalla gran-de industria (sussunta, nel XX secolo, dapprima dalla internazionalizzazione epoi dalla transnazionalizzazione delle imprese negli ultimi venti anni). In questoprocesso Marx ha rilevato che nel periodo della manifattura le macchine si ba-savano quasi sempre su princìpi comuni ai precedenti strumenti artigianali, cuiseguirono modificazioni tecniche continue, più o meno graduali.

Proprio nella manifattura, infatti, hanno iniziato a svilupparsi le prime mac-chine per la grande industria; e ciò è andato avanti finché non si sono create lecondizioni per produrre, nella fabbrica, delle macchine per la produzione di al-tre macchine.

Aumentando il numero delle invenzioni e richiedendosi con nuova intensità macchinedi nuova invenzione, s’è andata sempre più sviluppando da un lato la ripartizione del-la fabbricazione di macchine in vari rami indipendenti, dall’altro la divisione del lavo-ro all’interno della manifattura di macchine. Per questo è possibile vedere nella mani-fattura la diretta base tecnica della grande industria192.

È necessario tuttavia fare attenzione alle letture che interpretano in modounilineare lo schema di sviluppo marxiano. Il fatto che si individuino cambia-menti che portano a un nuovo modo di produzione (che diventerà dominante),non significa assolutamente che non possano convivere più modi di produzionetra loro interagenti (condizione da considerarsi, anzi, una costante di ogni epo-ca storica)193. Per di più, lo stesso Marx scrive che:

Metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale inuna teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli,in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma econo-mica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura ilpiù integrale sviluppo dell’uomo… è insieme farmi troppo onore e troppo torto194.

Tecnologie come processo sociale e come forma di relazione con la naturaLa nostra attenzione alle dinamiche, agli ambiti e ai contesti territoriali è stret-

tamente connessa all’evidenza che le invenzioni (e ancor di più le innovazioni)siano dei processi sociali caratterizzati da varie forme di rapporto tra l’uomo e lanatura, e non «lampi di genio di una singola mente». Nello studio che abbiamo ci-tato, Rosenberg riporta alcune acute considerazioni di Abbott Patton Usher195,di cui ci piace riprendere quella secondo la quale «non è necessario spiegare l’at-to finale d’intuizione; si tratta di spiegare come viene allestita la scena per giungerealla soluzione del problema individuato».

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 0 9

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 209

Page 210: Gli spazi della globalizzazione

In quest’ottica, per Marx la tecnologia è un’importante chiave di lettura perrendere intelligibili le relazioni tra gli uomini e tra loro e la natura. Dopo aversostenuto l’importanza di dedicarsi all’elaborazione di una «storia critica dellatecnologia», nella quale la parte del singolo individuo in un’invenzione risulta,a suo dire, piccolissima, Marx rileva un altro importante modo di intendere latecnologia:

la tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura, l’immediatoprocesso di produzione della sua vita, e insieme ad essi mette in luce pure l’imme-diato processo di produzione dei suoi vitali rapporti sociali e delle idee dell’intellet-to che da essi provengono196.

E ancora:

Nel suo produrre, l’uomo può agire solo come la stessa natura, cioè solo modifican-do le forme dei materiali. Ancor di più: in questo lavoro egli è costantemente aiuta-to da forze naturali197.

L’uomo, agendo tecnicamente (tramite i mezzi di produzione), umanizza,cambiandolo, l’ambiente naturale nel quale insiste ed esiste; così facendo mo-difica la sua essenza, che, proprio per mezzo di questo immane ricambio orga-nico con la natura, non è mai immutabile198.

Alla luce di queste considerazioni conclusive si dovrebbe capire meglio per-ché, ancor oggi, sia quanto mai necessario risalire ai “classici”199 per ridare unsenso e un ruolo più autentico alla teoria nelle scienze sociali. Ancora una voltal’auspicio più sentito è quello di aprire a un dialogo più sistematico con le scien-ze naturali. Una sfida particolarmente significativa per la costruzione di un nuo-vo sapere geografico, che, proprio nella capacità d’armonizzazione tra diversisaperi, può garantire quella migliore comprensione per aiutare a trovare e a spe-rimentare nuove soluzioni ai problemi dello sviluppo/sottosviluppo di cui ab-biamo scritto.

Note

1. Per un approfondimento sulla definizione di tecnologia si veda G. Panati, G. Golinelli, Tecni-ca industriale e commerciale, Roma, NIS, vol. 1, pp. 223-228. Per gli aspetti storico-filosofici sultema della tecnica, senza distinzione fra tecnica e tecnologia, si veda U. Galimberti, Psiche eTechne, Feltrinelli, Milano 1999.

2. R. Maiocchi, L’evoluzione del significato di tecnica, in Istituto Geografico De Agostini, GrandeEnciclopedia della scienza e della tecnologia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1997, p.1014.

3. Seguendo C. Freeman, possiamo distinguere, in generale, le innovazioni radicali o di sfonda-mento da quelle incrementali di miglioramento.

4. È necessario peraltro ricordare che diverse innovazioni radicali in agricoltura hanno soste-nuto e reso possibile lo sviluppo del settore industriale manifatturiero. Ciò è tanto più evi-dente se si considera che, in generale, tra questi due macro-settori vi è sempre stata una con-tinua interazione.

Fabio Massimo Parenti2 1 0

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 210

Page 211: Gli spazi della globalizzazione

5. L’elaborazione dei concetti schumpeteriani di nostro interesse, formulata in questo primo pa-ragrafo, fa riferimento a due opere fondamentali di J. Schumpeter: Theorie der wirtschaftlichenEntwicklung (1912), trad. it. Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze 1971, e Busi-ness Cycles. A Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process (1939),trad. it. Il processo capitalistico: cicli economici, Bollati Boringhieri, Torino 1977. Va ricordato che le prime teorie cicliche dello sviluppo si devono al lavoro di Marx, su cui tral’altro Schumpeter costruì la propria. La differenza fondamentale tra i due grandi economi-sti è costituita dal fatto che, mentre per Marx lo sviluppo capitalistico si basa sull’estrazionedi plusvalore in relazione, soprattutto, all’aumento dello sfruttamento del lavoro (cui l’im-piego delle «macchine» è funzionale), per Schumpeter esso dipende soprattutto dall’inno-vazione. Al riguardo si veda P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, Laterza, Ba-ri 1970, cap. II.

6. Come egli stesso sottolinea con veemenza, la sua costruzione teorica è saldamente ancorata al-la ricerca storica. Per questo motivo, i modelli analitici sull’evoluzione ciclica di un sistemaeconomico, da lui formulati, saranno a suo parere rimessi in discussione dalle progressive tra-sformazioni del contesto storico-economico di riferimento.

7. Come si evince dal cap. XIII de Il Capitale di Karl Marx, gli strumenti semplici o complessiper la produzione hanno conosciuto un continuo perfezionamento. Un perfezionamento cheè spesso avvenuto in maniera molto lunga: si pensi che la prima macchina a vapore è stata in-ventata nel XVII secolo, anche se quella di Watt, cui si fa sempre riferimento per il suo ampioimpiego rivoluzionario, risale al 1780.

8. S. Lorusso, Tecnologia ed innovazione nei processi di produzione, Edizioni Kappa, Roma 1987.Va ricordato, inoltre, che l’evoluzione nel campo delle innovazioni industriali è quasi sempreda correlare a quella nel campo energetico.

9. Espressione quanto meno impropria. «Nel corso del XIX e all’inizio del XX secolo, i dazi do-ganali erano relativamente bassi in Francia e in Germania (attorno al 15-20%), mentre, fino al1911, trattati rigidissimi bloccavano al 5% quelli del Giappone. In quegli stessi anni, le tariffedoganali medie sui prodotti industriali di Stati Uniti e Gran Bretagna si collocavano in una for-bice tra il 40% e il 50%» (Ha-Joon Chang, Una frode storica: i vantaggi del libero scambio, in«Le Monde diplomatique», X, n. 6, giugno 2003).

10. Anche in questo caso, il ruolo fondamentale che Schumpeter riconosce al credito nella realiz-zazione delle innovazioni è un aspetto di gran rilevanza teorico-empirica.

11. P. Ortoleva, M. Revelli, Storia dell’età contemporanea, Mondadori, Milano 1993, pp. 33, 34.12. Ivi. Solo con la catena di montaggio fordista (Henry Ford fu il primo a sperimentarla), che

aveva per oggetto le macchine e non gli uomini, l’organizzazione razionale del lavoro umanosi coniugò con quella delle macchine (…). Va detto, peraltro, che la nota espressione “orga-nizzazione scientifica del lavoro” è stata funzionale al consolidamento della divisione verticaledel lavoro tra controllati e controllori. A prescindere dalla pretesa “scientificità”, si trattava inrealtà di conoscenza tecnica recuperata direttamente dall’esperienza degli operai. Si veda U.Melotti, Divisione del lavoro, organizzazione economica e classi sociali, Centro Studi TerzoMondo, 1976.Infine, non deve essere trascurato il fatto che, come in altre fasi della rivoluzione industriale, funel settore agroalimentare che si applicarono in anticipo molte innovazioni: lo stesso Ford pre-se spunto dai macelli di Chicago per la sperimentazione della catena di montaggio.

13. I primi casi di forte speculazione finanziaria iniziarono nella seconda metà degli anni Ventidel XX secolo, quando negli USA il «potere finanziario nel settore elettrico fu definitivamen-te sottratto all’industria manifatturiera» (Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economi-ci, cit., p. 381). Nonostante ciò, nel complesso vi era circolarità fra flussi di merci e flussi di ca-pitali finanziari.

14. P. Ortoleva et M. Revelli, op. cit., p. 36.15. N.G. Fradkin et Ja.G. Masbic, La società capitalistica, in Istituto di Geografia dell’Accademia

delle Scienze dell’URSS, C̆elovek, obs̆cestvo i okruz̆ajus̆ c̆aja sreda (1973), trad. it. G. Cotti-Co-metti, L’Uomo, la Società e l’Ambiente, Cesviet, Milano 1977, p. 64.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 1 1

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 211

Page 212: Gli spazi della globalizzazione

16. Ivi, p. 67.17. S. Amin, Verso una nuova crisi strutturale del capitalismo?, in «Terzo Mondo», VII, n. 24-25,

giugno-settembre 1974, pp. 9-34. 18. Tra i fornitori delle principali materie prime ricordiamo: l’India e le regioni dell’Asia centro

meridionale per seta, iuta e cotone; l’America del Sud per stagno, rame, cacao, pelli, carni e la-na; l’Africa per oro, lana, cotone, arachidi, gomma arabica, avorio, diamanti; l’Australia per la-na, grano ecc. Naturalmente regioni più ricche facevano la parte del leone, come ad esempio ilMadagascar per pelli, zucchero e vaniglia.

19. Più in particolare, possiamo dire che l’ingrandimento dell’impianto, grazie allo sviluppo diun’innovazione, consente di aumentare anche l’efficienza dell’organizzazione del lavoro, finoa tendere a un livello di utilizzo ottimale degli input produttivi (cfr. G. Rodano, E. Saltari, Li-neamenti di teoria economica, NIS, Roma 1994, pp. 135-138). Tuttavia, con l’aumentare dellagrandezza dell’impianto possono insorgere delle diseconomie di scala di tipo manageriale (ivi,p. 138) o di tipo ambientale (che sono connesse alla congestione complessiva dello spazio in-dustriale). Così sono proprio le diseconomie, e i conseguenti fenomeni di decentramento, a fa-vorire la diffusione geografica dell’industria.

20. Cfr. Istituto di Geografia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, op. cit., p. 62.21. Il rapporto tra le fasi d’estrazione, di produzione e di distribuzione.22. Fenomeni simili, per le cui differenze si veda S. Conti, L’industria manifatturiera, in S. Conti et

al. (a cura di), Geografia dell’economia mondiale, UTET, Torino 1993, pp. 170-173. 23. G. Myrdal nel 1957 e A.O. Hirschman nel 1958 furono i primi a interpretare lo sviluppo eco-

nomico nella dialettica centro/periferia, anche se questo veniva fatto nell’ambito d’analisi sul-le disuguaglianze socioeconomiche e territoriali interne alle economie nazionali. Al livello in-ternazionale, invece, tali categorie analitiche rientrano in un’ampia tradizione marxista (si ve-dano ad esempio P. Sweezy, P.A. Baran, The Present as History (1953), trad. it. Il presente comestoria, Einaudi, Torino 1962; P.A. Baran, The Political Economy of Growth, New York-Lon-don 1957; A.G. Frank, Lo sviluppo del sottosviluppo, in «Monthly Review», ed. it., n. 5-6, mag-gio-giugno 1968; S. Amin, op. cit.).

24. La questione del trasferimento di tecnologie è stata sollevata al livello internazionale dal do-cumento di Lima (approvato da un gruppo di 96 Paesi del Terzo Mondo) alla vigilia dellaConferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo, che si tenne a Santiago del Ci-le nel 1972 (cfr. A. Castagnola, Da Algeri a Lima: le richieste dei Paesi sottosviluppati per laTerza UNCTAD, in «Terzo Mondo», VII, n. 24-25, giugno 1972, pp. 5-20).

25. U. Melotti, op. cit.26. I. Wallerstein, Historical Capitalism with Capitalist Civilization (1995), trad. it. Capitalismo sto-

rico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000, p. 111. 27. Ivi, p. 115.28. G. Arrighi, Le relazioni Nord-Sud in una prospettiva storica mondiale, in «Nord e Sud», n. 4,

1989, pp. 123-132.29. R. Vernon, International Investment and International Trade in the Product Cycle, in «Quar-

terly Journal of Economics», vol. 80, maggio 1966, pp. 109-207.30. M.V. Posner, International Trade and Technical Change, in «Oxford Economic Papers», otto-

bre 1961, vol. 13. Questa teoria considera l’innovazione di prodotto in un dato Paese come l’e-vento che dà origine, dopo un arco di tempo breve, all’esportazione, a sua volta giustificata dalformarsi di una prima domanda nel Paese in cui non si è verificata l’innovazione. Dopo un ul-teriore trascorrere del tempo, il flusso d’esportazione si ridurrà in ragione del processo d’imi-tazione avviatosi nel Paese importatore, fino a quando quest’ultimo non avrà raggiunto unacondizione d’autosufficienza produttiva. Si veda V. Orati, Globalizzazione scientificamenteinfondata, Editori Riuniti, Roma 2003, cap. XI.

31. E. Ciciotti, Competitività e territorio, NIS, Roma 1993 (terza ristampa, 1997), pp. 68-73.32. R. Gilpin, The Political Economy of International Relations (1987), trad. it. Politica ed Econo-

mia delle Relazioni Internazionali, il Mulino, Bologna 1990.33. Ivi, pp. 313-314.

Fabio Massimo Parenti2 1 2

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 212

Page 213: Gli spazi della globalizzazione

34. S. Conti, op. cit., p. 192.35. F. Eva, La crisi asiatica 1997-1999: solo crisi economica o anche crisi socioculturale?, in Dell’A-

gnese E. (a cura di), Geografia e geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, p. 36.36. Ivi, p. 37. 37. M.T. Di Maggio Alleruzzo, Gli studi di geografi italiani sull’Asia Orientale, in Dell’Agnese E.

(a cura di), Geografia e geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, p. 26. Inoltre inquegli anni le esportazioni di materie prime agricole dai PVS furono per la prima volta inferio-ri a quelle di manufatti (a conferma della diffusione spaziale dell’industria); sul versante delcommercio ci fu, quindi, un’esplosione degli scambi di manufatti, che all’inizio degli anni Ses-santa costituivano il 17% del valore totale delle esportazioni e all’inizio degli anni Ottanta ar-rivarono al 50% (S. Conti, op. cit., p. 197).

38. R. Gilpin, op. cit.39. Ivi, p. 342. 40. Ibid. Per esempio Messico, Singapore, Hong Kong, Taiwan, Sud Corea, e poi Malaysia, Filip-

pine, Thailandia, Indonesia e Cina.41. Si veda M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker e lo

spirito della network society, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 117-132.42. È importante tenere presente che il pianeta Terra è ancora ampiamente abitato da comunità ru-

rali (la componente rurale della popolazione mondiale è superiore al 50%), che nella maggiorparte dei casi vivono senza alcuna capacità d’accesso alle reti globali, se non indirettamente.

43. D. Infante, Innovazione, in Jedlowski P. (a cura di), Dizionario delle scienze sociali, il Saggiato-re, Milano 1997, sub voce.

44. Cfr. box 2. Internet, in particolare, è stata una grande illusione collettiva che ha condizionatole opinioni di politici, economisti, uomini d’affari e una parte consistente dell’opinione pub-blica mondiale. Al riguardo si veda L. De Biase, Edeologia. Critica al fondamentalismo digita-le, Laterza, Roma-Bari 2003.

45. C. Antonelli, The Economics of Innovation, New Technologies and Structural Change, Routled-ge, Londra 2003.

46. Su questo argomento cfr. J. Rifkin, The Biotech Century, trad. it. Il secolo biotech, Baldini &Castoldi, Milano 1998; M. Buiatti, Le biotecnologie. L’ingegneria genetica fra biologia, etica emercato, il Mulino, Bologna 2001.

47. J. Rifkin, op. cit., p. 305; si consiglia, in particolare, la lettura del capitolo “Il Dna nel com-puter”, che non lascia dubbi sul processo d’interazione e compenetrazione fra i due campidel sapere.

48. OECD, Information Technology Outlook, 2002.49. J. Rifkin, op. cit., pp. 308, 309.50. La coincidenza della rivoluzione dell’information technology con la ristrutturazione del capi-

talismo in senso finanziario, le difficoltà e il fallimento dello statalismo, i movimenti culturali epolitici (anni Sessanta e Settanta) concentrati sull’esperienza più che sulla presa del potere, so-no i fenomeni che sintetizzano, secondo Castells, la genesi storica dell’informazionalismo.

51. UNCTAD, World Investment Report 2003, United Nations, New York and Geneva 2003.52. Seppure tale tradizione rimandi alla filosofia economica del laissez faire e della mano invisibi-

le di matrice smithiana, cui spesso ci si riferisce in opposizione alla successiva fase di welfare,va sottolineato che lo Stato liberale veniva giustificato tradizionalmente per il suo ruolo fun-zionale e pragmatico, necessario ad arginare o bloccare le conseguenze dannose derivanti dal-le condotte dei singoli.

53. T.J. Lowi, La scienza delle politiche, il Mulino, Bologna 1999, p. 125.54. Sempre nei lavori di Lowi troviamo l’analisi dettagliata dell’evoluzione di quelle contraddi-

zioni del pensiero e della prassi liberale che spiegano (almeno in parte) l’ascesa del pensieroneoconservatore negli anni Settanta. È in tale movimento che si rinvengono le versioni piùestremizzate del liberismo economico (neoliberismo); un movimento che, insieme a una ideo-logia politica moralista (quindi antiliberale), vede lo Stato come lo strumento per imporre va-lori e princìpi per una “giusta condotta”, secondo la logica, purtroppo attualissima, del tipo

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 1 3

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 213

Page 214: Gli spazi della globalizzazione

“l’economia s’aggiusta automaticamente, mentre i popoli devono accettare le ‘guerre giuste eumanitarie’ necessarie per raddrizzare la condotta di singoli governanti”.

55. Al riguardo si veda P. Krugman, Il grande bluff dei tagli alle tasse, in «Internazionale», X, n.509, 10/16 ottobre 2003, pp. 30-37. Negli USA le riduzioni fiscali sono avvenute, negli ultimi 25anni, soprattutto a favore delle classi più ricche.

56. P. Ortoleva, M. Revelli, op. cit., p. 773. 57. Si tratta delle linee guida del WTO, usate strumentalmente soprattutto dalle lobby economico-

finanziarie mondiali e dagli stessi USA e UE per le proprie esportazioni verso il resto del mon-do (al contrario, tali macroregioni proteggono strenuamente i propri mercati agricoli e tessili). Secondo alcuni calcoli, i Paesi poveri esportatori di materie prime perdono circa 20 miliardidi dollari ogni anno a causa delle barriere al commercio poste nei Paesi economicamente piùinfluenti dell’OECD (una somma equivalente al 40% della spesa complessiva per l’assistenzaallo sviluppo); cfr. W. Sachs, Rio+10 and The North South Divide, Heinrich Boll Foundation,Berlin 2001. Inoltre, USA e UE possono permettersi di sostenere una guerra commerciale, per-ché hanno le risorse per affrontare le costose procedure in seno al WTO. E infatti lo fanno:basti ricordare la condanna recente del WTO contro i dazi USA sull’acciaio, oppure le ormainote sanzioni pagate dall’UE per la chiusura nei confronti della carne (agli ormoni) america-na. Più vulnerabili e incapaci di avviare procedure contro un Paese forte sono i Paesi in Via diSviluppo e i Paesi emergenti, già profondamente penalizzati da rapporti commerciali sleali.L’insieme delle contraddizioni e dei progressivi cambiamenti nei rapporti di forza interna-zionali è infatti emerso chiaramente prima e durante il vertice del WTO tenutosi a Cancùn nelsettembre del 2003.

58. J. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, trad. it. La globalizzazione e i suoi oppositori, Ei-naudi, Torino 2002, p. 124.

59. L. Secor, Mind the gap the debate over global inequality heats up, in «Globe Newspaper Com-pany», Boston 2002; C. Zanier, Cina, in Dizionario di Storia, Mondadori, Milano 1993, sub voce.

60. L. Secor, art. cit.61. G. Rossini, La globalizzazione debole, in «il Mulino», L, n. 397, 5/2001, pp. 883-892; J. Stiglitz,

op. cit.62. Ivi; R. Panizza, La globalizzazione della povertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Vo-

lontari e terzo mondo», XXX, n. 3, luglio-settembre 2002; F.M. Parenti, Argentina. Perché?, in<www.ilgruppodilugano.it>, 2002; G. Chiesa, Russia addio. Come si colonizza un impero, Edi-tori Riuniti, Roma 2000; Id., Roulette Russa, Guerini e Associati, Milano 1999.

63. J. Stiglitz, op. cit., 2002, p. 187.64. H.W. Yeung, Questioning the Uneven Terrains of Economics Globalization, paper, Clark Uni-

versity, USA, ottobre 2001. Non va dimenticato, inoltre, che si tratta di sistemi politici, culturalied economici profondamente diversi, in cui i processi della globalizzazione economica avven-gono tramite una localizzazione altamente differenziata: alcune aree della Cina meridionale ri-cevono ad esempio molti più flussi finanziari di Seul.

65. McConnell, WITSA, Ready? Net.Go! Partnerships Leading the Global Economy, WashingtonDC maggio 2001.

66. Espressione avanzata per la prima volta da McLuhan in The Gutemberg Galaxy: the Making ofTypographic Man del 1962. McLuhan ha studiato le implicazioni antropologiche relative aglisviluppi dei mezzi di comunicazione ed è stato l’anticipatore delle teorie sulla compressionedella dimensione spazio-temporale.Brevemente, sarà necessario ricordare che le reti telematiche hanno avuto origine dal proget-to Arpanet, sviluppato alla fine degli anni Sessanta nell’ambito di un programma del Pentago-no. Non è stata però una tecnologia direttamente militare, visto che il suo scopo originario eraquello di creare una rete di scambio d’informazione sicura, che, nel caso di un blocco in unpunto del sistema, potesse continuare a trasmettere le informazioni (G. Di Carlo, La rivolu-zione di Internet, in Corriere Economia, Net Economy. La rivoluzione che sta cambiando il mon-do, ETAS, Milano 2000). Lo stesso Castells (2001) sostiene, infatti, che sebbene negli anni Cin-quanta e Sessanta i principali centri di ricerca tecnologici nelle università degli Stati Uniti go-

Fabio Massimo Parenti2 1 4

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 214

Page 215: Gli spazi della globalizzazione

devano dei finanziamenti dei mercati militari, i progressi avvenuti negli ultimi 20 anni nella mi-croelettronica sono stati indipendenti dalle applicazioni militari dirette.

67. V. Bianchini, A. Desiderio, Atlante del Divario Digitale, in «I quaderni speciali di Limes», n. 1,Roma 2001, p. 53; The Future of Technology, in «Businessweek», 18/25 agosto 2003.

68. N. Furini, Comunicare senza logo, in «Volontari per lo sviluppo», XXI, dicembre 2003. Nonmancano, anche in questo caso, articolazioni regionali del divario digitale nell’ambito di grup-pi di Paesi diversi, sia ricchi, sia poveri. Deve essere ricordato, però, che le questioni delle di-suguaglianze d’accesso al cibo e all’acqua rendono grottesche le speculazioni sulle nuove tec-nologie. Solo dopo aver garantito l’accesso alle risorse per soddisfare i bisogni primari di so-pravvivenza può essere intelligente pensare all’espansione delle nuove tecnologie. Questeinfatti forniscono notevoli potenzialità di autosviluppo anche in condizioni di povertà; è tut-tavia necessario un contesto di minimo benessere perché si possa garantire un accesso a talitecnologie e un loro uso adeguato.

69. M. Castells, End of Millenium (2000), trad. it. Volgere di millennio, in L’età dell’informazione: po-litica, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano 2003, p. 101.

70. UNCTAD, op. cit. Sul tema delle nuove tecnologie si pensi, in particolare, al fatto che gli USA so-no in ritardo rispetto all’UE sia per quanto riguarda i costi dei servizi a banda larga, sia per la te-lefonia mobile.

71. OECD, Towards a Knowledge Based Economy – Recent Trends and Policy Directions from theOECD, Singapore 21-22 novembre 2002.

72. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, United Nations, New York - Geneva 2003.73. J. Kleinert, The Role of Multinational Enterprises in Globalization: An Empirical Overview,

Working Paper n. 1069, Kiel Institute of World Economics 2001.74. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, cit.75. La Cina, che è il più grande produttore manifatturiero del mondo e il primo Paese ad attrarre

investimenti diretti esteri, ha senza dubbio sostenuto il commercio intraregionale (anche delGiappone) con i suoi volumi d’import e d’export. Questo grande Paese, infatti, analogamen-te ad altri Paesi asiatici, ha adottato politiche espansive per sostenere la domanda interna e hamantenuto dei tassi di cambio fissi con il dollaro.

76. OECD, Towards a Knowledge Based Economy, cit.77. Questo indicatore può però essere in parte fuorviante, soprattutto per le differenze esistenti fra

i vari sistemi brevettuali.78. WTO, World Trade Report 2003, Geneva 2003, pp. 24-25.79. Ivi.80. Ivi, pp. 25-26.81. Ivi, p. 28.82. Ivi, appendice, graf. IB.1.83. J. Kleinert, op. cit., 2001.84. UNCTAD, World Investment Report 2003, cit., p. 46. Da non dimenticare, tuttavia, che alcuni

Paesi appartenenti all’ASEAN, come la Cambogia, il Laos e il Myanmar, sono classificati dalWTO come Least-developed countries (Paesi meno sviluppati al livello mondiale). Molto diffe-renti, come già ricordato, sono invece le posizioni della Malaysia, Singapore, Thailandia, Viet-nam, Indonesia e Filippine.

85. Ivi, pp. 4, 46.86. WTO, op. cit., p. 29.87. Ivi, p. 30.88. J. Kleinert, op. cit.89. P. Krugman, M. Obstfeld, International Economics. Theory and Policy, trad. it. Economia in-

ternazionale. Teoria e politica del commercio internazionale, Hoepli, Milano 2003, vol. 1, p. 185.90. C. Antonelli, op. cit.91. Per questo i livelli delle tariffe all’importazione sono spesso più elevati sui prodotti hi-tech (nei

Paesi a basso reddito) che sui beni a basso contenuto tecnologico. Ciò è considerato dal WTO unlimite al trasferimento di tecnologia. Tale interpretazione è però riduttiva. È possibile rilevare in-

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 1 5

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 215

Page 216: Gli spazi della globalizzazione

fatti che molti Paesi in Via di Sviluppo o meno sviluppati adottano strategie diversificate, apren-do in alcune aree e non in altre. Così, ad esempio, la Cina, che in tal modo è riuscita a beneficia-re delle nuove tecnologie, portando a termine il processo d’acquisizione tecnologica: un pro-cesso graduale che riguarda la conoscenza pura (know-why) di una data tecnologia, il suo uso(know-how), l’adattamento locale, la diffusione e l’eventuale miglioramento. Per di più, la struttura agricola e artigianale di molti Paesi a basso sviluppo a volte non favori-sce un’introduzione efficace di nuove tecnologie. Si tratta spesso di contesti caratterizzati dal-la eccessiva dipendenza dalle esportazioni, dalle inique condizioni di scambi e di prezzi (dum-ping), dallo smantellamento dello Stato sociale per l’applicazione delle politiche del FMI, non-ché dalla presenza di guerre e di tanti altri problemi creati o accentuatisi negli ultimi duedecenni.

92. Per casi studio approfonditi sui poli tecnologici francesi, si veda A. Tosi, Reti e parchi per l’in-novazione, Franco Angeli/Urbanistica, Milano 1995.

93. G. Pepi, Dal modello americano ai tecnopoli, in «il Sole-24Ore», 7 ottobre 2002.94. UNDP, Human Development Report 2001. Making New Technologies. Work for Human Deve-

lopment, UNDP, Oxford University Press, New York - Geneva 2001.95. Questa espressione sta ad indicare che «le highway possono anche essere private o in conces-

sione, ma non devono fare nessuna discriminazione tra i loro clienti e per lo stesso prezzo de-vono poterci passare i camion di qualunque trasportatore» (F. Carlini, Divergenze digitali, ma-nifestolibri, Roma 2002, p. 50).

96. A.J. Scott, Regions and the World Economy. The Coming Shape of Global Production, Compe-tition and Political Order (1998), trad. it. Le regioni nell’economia mondiale. Produzione, com-petizione e politica nell’era della globalizzazione, il Mulino, Bologna 2001, pp. 68-80.

97. S. Breschi, The Geography of Innovation: A Cross-sector Analysis, in «Regional Studies», 2000,vol. 31.3, pp. 213-229.

98. J. Kleinert, op. cit.99. Le nuove tecnologie che rientrano nei due campi scientifici sopra menzionati sono numero-

sissime; per questo motivo, l’analisi della dinamica spaziale delle tecnologie nel periodo dellaglobalizzazione non potrà essere esauriente.

100.P. Krugman, M. Obstfeld, op. cit., p. 186. Per un recente e interessante tentativo di concettua-lizzare l’organizzazione dell’impresa in epoca di globalizzazione si veda C. Pepe, Connotati or-ganizzativi dell’impresa per il mercato globale, in «Sinergie», n. 60, 2003, pp. 103-128.

101. J. Ziegler, Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent (2002), trad. it. La privatiz-zazione del mondo, Marco Tropea Editore, Milano 2003, pp. 143-144.

102. Dati UNCTAD tratti da A.J. Scott, op. cit., p. 51.103. OECD, Towards a Knowledge Based Economy, cit.104. C. Antonelli, op. cit.105. Il settore infatti necessita di una grande spesa per l’innovazione.106. F.M. Mennillo, Gli strumenti informatici negli affari internazionali, tesi di laurea in economia

e commercio (relatore Golinelli Gaetano), Università degli Studi di Roma “La Sapienza” 1996.107. Ivi.108. L’andamento schizofrenico e spesso irrazionale delle acquisizioni e fusioni degli ultimi anni lo

conferma.109. OECD, Information Technology Outlook, cit.110. R. Gemmiti, Appunti di Geografia dell’Impresa, gennaio 2003,

<http://geostasto.eco.uniroma1.it/didattica/matdid/geo>.111. «Businessweek», art. cit. Ancora una volta vediamo che sono le ex start-up della nuova epoca

tecnologica a perseguire con caparbia le fusioni più rischiose: per esempio Hewlett-Packard suCompaq e Oracle su PeopleSoft.

112. «Businessweek», art. cit.113. J. Ziegler, op. cit., p. 89.114. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, cit. 115. OECD, Information Technology Outlook, cit.

Fabio Massimo Parenti2 1 6

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 216

Page 217: Gli spazi della globalizzazione

116. Secondo Freeman, l’invenzione può essere il prodotto sia di singoli individui, sia di appositicentri di ricerca. In generale, nondimeno, ogni invenzione si posa su un substrato di cono-scenze e di precedenti invenzioni tra loro interagenti, un substrato che è quindi identificabileper il suo carattere sociale e collettivo.

117. Di questo argomento tratta un articolo inserito in un più ampio rapporto di Newsweek del lu-glio 2003, dedicato alle invenzioni del futuro prossimo. Dopo aver descritto il ruolo delle atti-vità individuali nel ciclo di vita delle invenzioni, l’articolo pone un’attenzione particolare sul-l’evoluzione dell’aviazione, caratterizzata da invenzioni continue che sono nate da attività qua-si-ludiche (comunque da motivazioni non economiche), per poi sottolineare in ultima istanzala straordinaria e misteriosa alleanza tra gli imprenditori dot-com e il caotico mondo dei volispaziali. È il caso di razzi spaziali che diventano giocattoli nei computer d’imprenditori priva-ti, come Burt Rutan, che costruisce il maggiore aviorazzo (SpaceShipOne) facendosi finanzia-re, sembra, da persone della Microsoft, o Jeff Bezos, dell’Amazon.com, che forma una nuovaimpresa per costruire navi equipaggiate con razzi o John Carmark, un programmatore di vi-deogame, che pensa di mostrare alla NASA un lanciatore spaziale a perossido d’idrogeno (B.Sterling, Single Vision, in «Newsweek», 30 giugno-7 luglio 2003).

118. OECD, Information Technology Outlook, cit. 119. Tutti gli articoli e i rapporti internazionali citati in questo capitolo confermano tali tendenze.120. Come fa notare D. Infante (op. cit.), l’innovazione rappresenta il completamento di un processo

che inizia con il concepimento di un’idea e include la sua accettazione e realizzazione.121. P. Ceri, Dov’è il potere nella globalizzazione?, in «il Mulino», L, n. 396, 4/2001, p. 591.122. J. Rifkin, The End of Work (1994), trad. it. La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano 1995;

D. Mèda, Società senza lavoro, Feltrinelli, Milano 1995.123. OECD, Information Technology Outlook, cit.124. B. Sterling, art. cit.125. J. Kleinert, op. cit.126. Ivi. Aumentano significativamente, quindi, i brevetti rilasciati da autorità di Paesi stranieri.127. J. Kleinert, op. cit.128. Ivi. Sull’asimmetria delle varie legislazioni relative ai brevetti si veda U. Allegretti, Diritti e sta-

to nella mondializzazione, Città Aperta, Troina (En) 2002.129. UNDP, Human Development Report 1998. Globalization and Liberalization, UNDP, Oxford

University Press, New York - Geneva 1998.130. McConnell, WITSA, op. cit. La scuola d’informatica più prestigiosa è l’Indian Institute of Te-

chnology (IIT), dalla quale escono ogni anno 2.500 persone qualificatissime. Il 20% dei nuoviimprenditori della Silycon Valley hanno studiato all’IIT (D. Demichelis, L’India, Arul, i bambinie i chip, in D. Demichelis et al., No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà, sul-l’ambiente e sul debito, Baldini & Castoldi, Milano 2002, pp. 397-405).

131. S. Guarracino, L’età medievale e moderna, Mondadori, Milano 1993, pp. 344-345.132. L. De Biase, Globalizzazione delle produzioni, in «Panorama Web», <panora-

maweb.mondadori.com/paweb/news/>, 18 febbraio 2003.133. J. Stiglitz, op. cit.134. World Watch Institute, State of the World ’01, Edizioni Ambiente, Milano 2001, pp. 72-73.135. Classifica elaborata dalla rivista Wired, pubblicata in Italia dalla rivista di geopolitica Limes,

supplemento al n. 1 del 2001, cit.136. V. Bianchini, A. Desiderio, op. cit., p. 57.137. «Businessweek», art cit.138. D. Demichelis, op. cit.139. L. De Biase, art. cit.; UNCTAD, World Investment Report 2003, cit.140. Ivi.141. McConnell, WITSA, op. cit.142. Ivi. 143. Ivi.144. D. Demichelis, op. cit., p. 400.

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 1 7

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 217

Page 218: Gli spazi della globalizzazione

145. C. Jaffrelot, L’India che resiste alla globalizzazione, in «Le Monde diplomatique», XI, n. 1, gen-naio 2004.

146. A.J. Nathan, B. Gilley, China’s New Rules, New York Review Books, New York 2002.147. S. Cristaldi, L’avanzata di Pechino, in Cina, la grande sfida, «Dossier del Sole-24Ore», 18 no-

vembre 2003.148. Ivi. Basti pensare, per esempio, che Wall Mart, il gigante statunitense della grande distribu-

zione, ha acquistato in Cina 12 miliardi di dollari di merci, equivalenti a quasi il 10% delleesportazioni cinesi verso gli USA (ivi).

149. La Cina ha visto infatti ampliare sempre più la struttura e l’entità della propria domanda in-terna (di stimolo all’offerta): nel 2002 il 90% della crescita cinese è da imputare proprio a talefenomeno (D. Rosen, Miracolo o leggenda?, in Cina, la grande sfida, cit.), che in questo caso èstato strettamente correlato al peso degli investimenti stranieri.

150. Si veda il rapporto di Amnesty International del 2003.151. V. Amato, Cina tra sviluppo economico e crisi ambientale, in Dell’Agnese E. (a cura di), Geo-

grafia e geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, pp. 166-184.152. Questi e altri problemi, che s’acuiscono a causa dei miglioramenti economici asimmetrici, e che

ripropongono quei dilemmi di un certo “sviluppo” ben conosciuto in Occidente, non posso-no essere affrontati in questa sede a causa della loro complessità (che richiederebbe un lavoroa parte) e per la loro parziale estraneità al nostro oggetto di studio.

153. F. Sisci, Chi vince in Cina vince nel mondo, in «I quaderni speciali di Limes», n. 1, Roma 2001,pp. 127-133.

154. J. Stiglitz, op. cit., p. 184.155. Consulate-General of the People’s Republic of China in New York, China’s Macroeconomic

Update: World Bank Report, New York 6 novembre 2003.156. Ivi, 2002.157. Articoli scientifici sulle imponenti migrazioni “interne” alla Cina si possono trovare nella ri-

vista «International Migration Review».158. G. Ragozzino, Povero globo. Investito dagli investimenti, in «il manifesto», 5 settembre 2003.159. Tra il 2001 e il 2002, al contrario, gli investimenti diretti esteri mondiali crollano, in particola-

re negli Stati Uniti, in Germania e in Francia, a causa della cosiddetta “finanziarizzazione” del-l’economia, che disincentiva gli investimenti produttivi in favore di quelli speculativi. È la pri-ma volta che gli USA non compaiono primi in classifica per quantità di investimenti esteri ri-cevuti e scendono addirittura al 5° posto (33 miliardi di dollari) (UNCTAD, World InvestmentReport 2003, cit.)

160. Ricordiamo che da un punto di vista temporale il primo gruppo di NICs è composto da Taiwan,Hong Kong, Singapore e Corea del Sud; mentre il secondo gruppo è formato da Messico, Thai-landia, Filippine, Malaysia, Indonesia, Vietnam. Naturalmente le differenze tra i Paesi sonospesso enormi e, nel complesso, solo alcune località e regioni sub-nazionali sono coinvolte in unprocesso di forte industrializzazione/informazionalizzazione.

161. R. Gemmiti, op. cit.162. Ivi.163. L. Vinciguerra, Piccole multinazionali crescono, in Cina, la grande sfida, cit. 164. V. Amato, op. cit., pp. 171-172.165. Open source vuol dire “a fonte aperta”. È il contrario di quei prodotti chiusi e super-brevettati

(di Microsoft soprattutto) che cercano di impedire la diffusione del know-why e del know-howalla base di un determinato prodotto informatico, in modo da mantenere una posizione di pri-vilegio. Va detto però che il software libero ha anch’esso delle sue regole che ne permettono l’e-sistenza. In particolare, si tratta della licenza d’uso GPL (GNU Public License) – inventata daStallman – che riguarda la possibilità di usare liberamente (per chiunque lo voglia) il software co-perto da tale licenza, a condizione però che il “codice sorgente” rimanga aperto e che, in caso dimodifica, sia segnalato il programma d’origine. Si tratta del tipo di norma che permette l’esi-stenza del software libero, altrimenti esposto all’azione degli approfittatori. La licenza GPL èquindi un apparato legale – tipico del software privato – che, se usato a protezione della libera

Fabio Massimo Parenti2 1 8

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 218

Page 219: Gli spazi della globalizzazione

circolazione, può evitare lo sfruttamento privatistico di conoscenze altrui. 166. F. Carlini, op. cit. La società di Bill Gates è stata più volte inquisita e messa sotto accusa nel cor-

so degli anni Novanta per comportamenti monopolistici sleali; l’ultimo provvedimento san-zionatorio è stato approvato dall’Unione Europea nel marzo 2004.

167. Molti esperti dichiarano che i software Microsoft sono troppo complicati e, anche a causa diciò, inclini alla rottura e al mal funzionamento (problemi cui vanno legate, inoltre, questioni disicurezza). I pacchetti Windows sono standardizzati, mentre Linux ha più opzioni e può esse-re rivisto e migliorato dagli utilizzatori.

168. B. Marchetti, Linux nella tana del lupo, in «il manifesto», giovedì 7 agosto 2003. La piccolaazienda tedesca, che non era in grado di pagare questa somma, è stata aiutata dall’IBM, la cuistrategia sta puntando molto su Linux per rompere il monopolio di Microsoft.

169. The Economist, Open source’s local heroes, n. 8353, 6-12 December 2003; inoltre, molti arti-coli e libri utili alla comprensione dei benefici dei software liberi si possono trovare su<www.softwarelibero.it>.

170. M. Mahlow, Free for All, in «Newsweek», 30 giugno/7luglio, 2003; The Economist, art. cit.171. Le compagnie tendenzialmente monopolistiche non hanno interesse, al contrario, a risolvere

tutti i problemi in una sola volta. Ciò infatti impedirebbe loro di proporre nel tempo le “nuo-ve” versioni, che comportano rendite sicure.

172. Seppure la segmentazione socio-spaziale delle città non riguardi più la distinzione netta tra col-letti blu e colletti bianchi che vivevano in quartieri differenti (A.J. Scott, op. cit.), è fuor di ognidubbio il fatto che stia aumentando la biforcazione tra lavoratori a differente grado di qualifi-cazione (abitanti spesso negli stessi quartieri) tra chi è altamente qualificato ad alto salario e chinon lo è. Un processo scandito peraltro dalla continua perdita di posti di lavoro, cui vanno som-mate le tensioni connesse all’aumento del numero e della varietà culturale dei migranti.

173. UNDP, Human Development Report 2003. Millennium Development Goals: A Compact amongNations to the End Human Poverty, UNDP, Oxford University Press, New York and Geneva2003.

174. M. Castells, L’età dell’informazione, cit., pp. 129-130. 175. A.J. Scott, op. cit., p. 152.176. Sinteticamente, il “vantaggio comparato” può essere spiegato come un orientamento a pro-

durre a costi ridotti pochi prodotti da destinare anche all’esportazione e comprare quel cheserve con gli utili.

177. V. Orati, Globalizzazione scientificamente infondata, Editori Riuniti, Roma 2003.178. Nel primo caso Orati fa riferimento a Ricardo e a Hecksher-Ohlin (che costruiscono un mo-

dello statico per l’applicazione della teoria ricardiana), nel secondo caso a S. Amin e A. Em-manuel (che si sono concentrati sulle impari ragioni di scambio tra Paesi del “centro” e della“periferia” del mondo).

179. V. Orati, op. cit.180. N. Georgescu-Roegen, L’economia politica come estensione della biologia, in Bonaiuti M. (a

cura di), Bioeconomia, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 65-78.181. V. Orati, op. cit., p. 90.182. J. Stiglitz, op. cit., p. 4.183. Wal Mart è la catena di distribuzione più grande del mondo che, per di più, è diventata nel

2003 la prima corporation non finanziaria, con un giro d’affari due volte superiore a quello del-la General Electric e otto volte superiore a quello della Microsoft. Si veda L. Celada, Il super-market del predone, in «il manifesto», domenica 21 dicembre 2003; Id., Wal-martirizzati di tut-to il mondo, in «il manifesto», mercoledì 24 dicembre 2003.

184. J. Stiglitz, op. cit., p. 67.185. L. Celada, art. cit.186. In Somalia, Paese in passato caratterizzato da un’economia incentrata sulla pastorizia (in par-

ticolare sullo scambio di prodotti tra pastori nomadi e contadini), la liberalizzazione delle im-portazioni imposte dalle politiche del FMI ha determinato il collasso dell’economia locale,espellendo i contadini dalle proprie terre. Così la Somalia, già paese autosufficiente dal punto

Tecnologie, industrialismo e globalizzazione 2 1 9

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 219

Page 220: Gli spazi della globalizzazione

di vista alimentare, si trova oggi a dipendere dagli aiuti internazionali in condizioni di gravissi-mo indebitamento (V. Shiva, Biopiracy. The Plunder of Nature and Knowledge (1997), trad. it.Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, CUEN, Napoli 1999). In Kenia, le im-portazioni di granoturco hanno provocato una riduzione dei prezzi così forte che i produttorilocali non sono stati in grado di coprire neanche i costi di produzione (V. Shiva, Stolen Harve-st. The Hijacking of the Global Food Supply (2000), trad. it. Vacche Sacre e Mucche Pazze, Deri-ve e Approdi, Roma 2000). Sono solo alcuni esempi degli effetti di una sregolata apertura allemerci estere e di scambi incentrati sulla concorrenza sleale (pratiche di dumping). In India, nel-lo Stato del Kerala, le piantagioni di gomma sono divenute superflue a causa delle importazio-ni di gomma dall’estero (ivi, 2000). Per ulteriori esempi cfr. LEISA (rivista su Low External Input and Sustainable Agriculture), Goglobal or stay local?, Netherlands, luglio 2001, vol. 17, n. 2; e anche una parte della bibliogra-fia relativa alla parte prima di questo testo.

187. Da qui, secondo alcuni, deriverebbe il significato che Marx attribuisce al concetto d’alienazio-ne. Si veda U. Galimberti, Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999,pp. 317-330.

188. N. Rosenberg, Marx studioso di tecnologie, in Dentro la scatola nera. Tecnologia ed economia,il Mulino, Bologna 2001, pp. 57-78.

189. K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie (1867), trad. it. Il Capitale. Critica del-l’economia politica, Avanzino e Torraca editori, Roma 1969, Libro I, cap. XIII, pp. 72, 73,87. Si veda anche K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858),trad. it. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 2, La Nuova Italia, Fi-renze 1978, p. 93.

190. U. Galimberti, op. cit., p. 325.191. L’inconsistenza di queste critiche si fa notare ad esempio in F. Ferrarotti, Tecnologia e svilup-

po sociale, in Macchina e uomo nella società industriale, ERI, Torino 1963, pp. 45-59, e N. Ro-senberg, op. cit., pp. 59-63.

192. K. Marx, Il Capitale, cit., cap. XIII, p. 21.193. U. Melotti, Marx e il Terzo Mondo, il Saggiatore, Milano 1972. U. Melotti, Sociologia, Storia e

Marxismo, Milano, Unicopli, 1979. 194. K. Marx, lettera alla redazione dell’«Otecestvennye Zapiski», novembre 1877. Citazione trat-

ta da U. Melotti, op. cit., p. 54.195. Definito da Rosenberg come «probabilmente il più attento studioso nel nostro secolo della

storia della tecnologia».196. K. Marx, Il Capitale, cit., cap. XIII, p. 7.197. Ivi, cap. I, p. 33. 198. Si veda U. Galimberti, op. cit.199. A nostro avviso, Nicholas Georgescu-Roegen non ha torto quando, per spiegare l’estinzione di

grandi pensatori, afferma che «se talenti come Malthus o Marx fossero nati in questo mezzo se-colo, sarebbero diventati certamente dei geniali econometrici, che avrebbero passato la maggiorparte del loro tempo nel tempio del computer in stretto contatto religioso con l’oracolo, impres-sionandoci con la loro straordinaria abilità di giocolieri nel maneggiare modelli elucubratissimi».

Fabio Massimo Parenti2 2 0

04 Parenti impag:04 Parenti impag 23-08-2012 10:50 Pagina 220

Page 221: Gli spazi della globalizzazione

Riferimenti bibliografici per argomento

LO SPAZIO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

ALLEGRETTI U., Diritti e stato nella mondializzazione, Città Aperta, Troina (En) 2002.ALTIERI M.A., Agroecology (1987), trad. it. Verso un’agricoltura biologica, Muzzio, Padova 1991. AMOROSO B., Europa e mediterraneo, Dedalo, Bari 2000.BOSIO R., Verso l’alternativa, EMI, Bologna 2001.CASTELLS M., L’informazionalismo e la network society, in Himanen P., L’etica hacker e lo spirito del-la network society, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 117-132.CHOUSSUDOVSKY M., War and Globalization. The Thruth Behind September 11 (2002), trad. it.Guerra e globalizzazione, EGA, Torino 2002.COLOMBO L., Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare, Jaca Book, Milano 2002.CORNA PELLEGRINI G., DELL’AGNESE E., Manuale di geografia politica, NIS, Roma 1995.COTTI-COMETTI G. (a cura di), Alcune cose sulla geografia, Cesviet, Milano 1988. FINARDI S., TOMBOLA C., Le strade delle armi, Jaca Book, Milano 2002.GALLI C., Spazi politici, il Mulino, Bologna 2001.GEERTZ C., Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, il Mulino,Bologna 1998.HELD D., MCGREW A., The Great Globalization Debate: An Introduction, in The Global Tran-sformations Reader (2000), trad. it. Globalismo e antiglobalismo, il Mulino, Bologna 2001.HERTZ N., The Silent Takeover. Global Capitalism and the Death of Democracy, trad. it. La Con-quista silenziosa. Perché le multinazionali minacciano la democrazia, Carocci, Roma 2001. JEAN C., Manuale di geopolitica, Laterza, Bari 2003.LANTERNARI V., Ecoantropologia, Dedalo, Bari 2003.NEBBIA G., Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano 2002.PAGNINI M.P., Introduzione alla storia della geografia politica, in Corna Pellegrini G., Dell’Agne-se E., Manuale di geografia politica, NIS, Roma 1995, pp. 229-261. PANIZZA R., La globalizzazione della povertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Volontari eterzo mondo», XXX, n. 3, luglio-settembre 2002, pp. 50-66.PARENTI F.M., Sviluppo sostenibile e comunità rurali nel nord ovest del Vietnam, L’Harmattan Ita-lia, Torino 2002.PHAM XUAN NAM ET AL., Rural Development in Vietnam, Social Sciences, Hanoi 1999.QUAINI M., La mongolfiera di Humboldt, Diabasis, Reggio Emilia 2002.REMOTTI F., Luoghi e corpi, Bollati e Boringhieri ,Torino 1993.REMOTTI F., FABIETTI U., Dizionario di antropologia, Zanichelli, Torino 2001. RENNER M., Rompere il legame tra risorse e conflitti, in World Watch Institute, State of the World’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002, pp. 215-243.

Page 222: Gli spazi della globalizzazione

RIFKIN J., The Age of Access (2000), trad. it. L’era dell’accesso, Mondadori, Milano 2000.SAPELLI G. (a cura di), Antropologia della globalizzazione, Mondadori, Milano 2002. SCOTT A. J., Regions and the World Economy. The Coming Shape of Global Production, Competitionand Political Order (1998), trad. it. Le regioni nell’economia mondiale. Produzione, competizione epolitica nell’era della globalizzazione, il Mulino, Bologna 2001. SEN A. K., Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002.SHIVA V., Stolen Harvest. The Hijacking of the Global Food Supply (2000), trad. it. Vacche sacre emucche pazze, Derive e Approdi, Roma 2000.SOCIAL WATCH REPORT 2002, The Social Impact of Globalization in the World, Instituto del Ter-cer Mundo, Montevideo 2002.TUAN YI-FU, Cosmos and Hearth, a Cosmopolite’s Viewpoint (1996), trad. it. Il cosmo e il focolare.Opinioni di un cosmopolita, Elèuthera editrice, Milano 2003.WALLERSTEIN I., Historical Capitalism with Capitalist Civilization (1995), trad. it. Capitalismo sto-rico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000.WORLD WATCH INSTITUTE, State of the World ’01, Edizioni Ambiente, Milano 2001.WORLD WATCH INSTITUTE, State of the World ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002.YEUNG H.W., Questioning the Uneven Terrains of Economics Globalization, paper, Clark University, ottobre 2001.ZIEGLER J., Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent (2002), trad. it. La privatizza-zione del mondo, Marco Tropea Editore, Milano 2003.

MOVIMENTI INTERNAZIONALI DI CAPITALI DAL RINASCIMENTO AI NOSTRI GIORNI

ARNDT H.W., The Economic Lessons of the Nineteen-Thirties, 1944, ripubblicato da Frank Cass,London 1972.ARRIGHI G., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Mila-no 1996.BANCA DEI REGOLAMENTI INTERNAZIONALI, Evoluzione dell’attività sui mercati bancari e finan-ziari internazionali, Rassegna trimestrale, Basle vari anni.BANK FOR INTERNATIONAL SETTLEMENTS, Recent Innovations in International Banking, Ba-sle vari anni.BLOCK F.L., The Origins of International Economic Disorder. A Study of United States InternationalMonetary Policy from World War II to the Present, University of California Press, Berkeley 1977.BLOOMFIELD A.I., Short-term Capital Movements under the Pre-1914 Gold Standard, in «PrincetonStudies in International Finance», n. 31, 1963.BRAUDEL F., Civiltà materiale, economia e capitalismo, trad. it., Einaudi, Torino 1982.CARGILL T.F., ROYAMA S., Il processo di trasformazione dei sistemi finanziari. Le esperienze giap-ponese e statunitense a confronto, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1991.DE CECCO M., Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914, Einaudi,Torino 1979.ECKES A.E., A Search for Solvency. Bretton Woods and the International Monetary System, 1941-1971, University of Texas Press, Austin 1975.EICHENGREEN B., Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la Grande Depressione, 1919-1939, trad. it., Ca-riplo-Laterza, Roma-Bari 1991.GARDNER R.M., Sterling-Dollar Diplomacy, McGraw Hill, New York 1969.GOLDSMITH R.W., Sistemi finanziari premoderni, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1990.

Riferimenti bibliografici2 2 2

Page 223: Gli spazi della globalizzazione

KALDOR N., Il flagello del monetarismo, trad. it., Loescher Editore, Torino 1981.KINDLEBERGER CH., Storia della finanza in Europa occidentale, trad. it.,Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1987.PARBONI R., Il conflitto economico mondiale. Finanza e crisi internazionale, Etas Libri, Milano 1985.POLANYI K., La grande trasformazione, 1944, trad. it., Einaudi, Torino 1974.ROSELLI A., La finanza americana tra gli anni Ottanta e i Novanta. Instabilità e riforme, Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1995.STRANGE S., Sterling and British Policy. A Political Study of an International Currency in Decline,Oxford University Press, London 1971.TEW B., L’evoluzione del sistema monetario internazionale, trad. it., Il Mulino, Bologna 1984.TOBIN J., Policies for Prosperity: Essays in a Keynesian Mode , The MIT Press, Cambridge (Mass.)1987.TRIFFIN R., Europe and the Money Mudle, Yale University Press, New Haven 1957.ID., Gold and the Dollar Crisis, Yale University Press, New Haven 1961.ID., Il sistema monetario internazionale. Ieri, oggi e domani, trad. it., Einaudi, Torino 1973.UNCTAD, World Investment Report 2003. FDI Policies for Development : National and Interna-tional Perspective, Geneva , vari anni.UNCTAD, Trade and Development Report 2003, Geneva, vari anni.WORLD BANK, Global Development Finance, Washington (DC), vari anni.

LE NUOVE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI

AMBROSINI M., Utili invasori. L’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, Ange-li, Milano 1999. BONAZZI T., DUNNE M. (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, Il Mulino,Bologna 1994.BRUBAKER W.R., Citizenship and Nationhood in France and Germany, Harvard University Press,Cambridge, Mass. 1992, trad. it. Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Il Mulino, Bo-logna 1997.DAVIES K., The migrations of human populations, in «Scientific American», vol. 231, n. 3, 1974,pp. 85-105.DELLE DONNE M., MELOTTI U., PETRILLI S. (a cura di), Immigrazione in Europa: solidarietà econflitto, Dipartimento di Sociologia, Università “La Sapienza”, Roma 1993, pp. 143-156.GOLINI A., La futura mappa demografica del mondo, in «Politica internazionale», n. 12, 1986, pp.43-52. MACIOTI M.I. (a cura di), Per una società multiculturale, Liguori, Napoli 1991.MELOTTI U., Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in «TerzoMondo», n. 37-38, 1979, pp. 3-14.ID. (a cura di), La nuova immigrazione a Milano, Mazzotta, Milano 1985.ID. (a cura di), Dal Terzo Mondo in Italia. Studi e ricerche sulle immigrazioni straniere, in «TerzoMondo», n. 57-58, 1988. ID., Migrazioni, divisione del lavoro, cultura, in Demetrio D., Favaro G., Melotti U., Ziglio L. (a cu-ra di), Lontano da dove: la nuova immigrazione e le sue culture, Angeli, Milano 1990, pp. 15-65. ID., L’immigrazione straniera in Italia: da caso anomalo a caso esemplare, in Cocchi G. (a cura di),Stranieri in Italia, Istituto Cattaneo, Bologna 1990, pp. 31-44.ID., Specificità e tendenze dell’immigrazione straniera in Italia, in Macioti M.I. (a cura di), Per unasocietà multiculturale, Liguori, Napoli 1991, pp. 71-88.

Riferimenti bibliografici 2 2 3

Page 224: Gli spazi della globalizzazione

ID., L’atteggiamento degli italiani nei confronti dell’immigrazione extracomunitaria. Analisi e inter-pretazione dei dati (indagine dell’Ispes [Istituto di studi politici, economici e sociali] per la Presi-denza del Consiglio dei Ministri), Ispes, Roma 1991 (testo policopiato).ID., L’immigrazione, una sfida per l’Europa, Edizioni Associate, Roma 1992.ID., Immigrazioni e culture politiche in Europa, in «Studi Emigrazione», n. 107, 1992, pp. 448-466.ID., Relativisme et universalisme dans les politiques migratoires en Europe, in Berthoud G., Centli-vres P., Giordano C., Kilani M. (a cura di), Universalisme et relativisme, Éditions Universitaires,Fribourg 1993, pp. 164-175.ID., International Migration in Europe: Problems, Projects and Prospects, in Atteslander P. (a cura di),Kulturelle Eigenentwicklung, Campus, Frankfurt a. M. - New York 1993, pp. 123-140.ID., Xenofobia e razzismo: concetti, dati, analisi, in Gindro S. (a cura di), Xenofobia, fratelli da odia-re, Guida, Napoli 1993, pp. 114-139. ID., Immigrazione, differenza e multiculturalità: un confronto fra i Paesi europei, in Autori Vari, At-ti del 3° convegno internazionale delle città educative (Bologna, 10-12 novembre 1994), Comune diBologna, Bologna 1994, pp. 154-176 (con traduzione in spagnolo, pp. 381-404).ID., L’immigrazione in Italia: da modello senza progetto a progetto senza modello, in «Annali di Socio-logia / Soziologische Jahrbuch», n. 10, 1994, pp. 211-232 (con traduzione in tedesco, pp. 233-258).ID., Quelli che l’immigrazione…, in «Il Mondo 3», n. 1-2, 1996, pp. 448-489.ID., International Migration in Europe: Social Projects and Political Cultures, in Modood T. e Werb-ner P. (a cura di), The Politics of Multiculturalism in the New Europe, Zed Books, London 1997,pp. 73-92.ID., Intervento al “Seminario sul Multiculturalismo” (Milano, gennaio 1998), in Domande sul mul-ticulturalismo, a cura di Marazzi A., «Quaderni Ismu», n. 2, 1999, pp. 55-59. ID., L’immigrazione e la nazione italiana, in Bartocci E., Cotesta V. (a cura di), L’identità italiana: emi-grazione, immigrazione, conflitti etnici, Edizioni Lavoro, Roma 1999, pp. 219-230.ID., L’abbaglio multiculturale, in «Sociologia», n. 1, 1999, pp. 3-20.ID., (a cura di), Etnicità, nazionalità e cittadinanza, Seam, Roma 2000.ID., (a cura di) L’abbaglio multiculturale, Seam, Roma 2000.ID., L’immigrazione e la cultura politica italiana, in Cersosimo D., Istituzioni, capitale sociale e svi-luppo locale, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2001, pp. 227-242.ID., Le retoriche dell’immigrazione, in «MondOperaio», n. 2, 2001, pp. 65-81.ID., Migrazioni internazionali, Bruno Mondadori, Milano 2004. PASTORE F., Governance globale e migrazioni, in Annunziato P., Calabrò A., Caracciolo L., Lo sguar-do dell’altro. Per una governance della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 155-179.SAUVY A., Le renversement du courant d’immigration séculaire, in «Population», n. 1, 1962, pp.51-59.SCHLESINGER A. jr. The Disuniting of America. Reflections on a Multicultural Society, Norton, NewYork 1992 (2a ed. riv. e ampl. 1998); trad. it. La disunione dell’America. Riflessioni su una societàmulticulturale, Diabasis, Reggio Emilia, 1995.TOURAINE A., Face à l’exclusion, in «Esprit», n. 169, 1991, pp. 7-13 (trad. it. Di fronte all’esclusio-ne, in «Iter», n. 2-3, pp. 13-20).

TECNOLOGIE, INDUSTRIALISMO E GLOBALIZZAZIONE

AMATO V., Cina tra sviluppo economico e crisi ambientale, in Dell’Agnese E. (a cura di), Geografiae Geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, pp. 166-184.AMIN S., Verso una nuova crisi strutturale del capitalismo?, in «Terzo Mondo», VII, n. 24-25, giu-gno-settembre 1974, pp. 9-34.

Riferimenti bibliografici2 2 4

Page 225: Gli spazi della globalizzazione

ANTONELLI C., The Economics of Innovation, New Technologies and Structural Change, Routled-ge, Londra 2003. ARRIGHI G., Le relazioni Nord-Sud in una prospettiva storica mondiale, in «Nord e Sud», n. 4, 1989,pp. 123-132. BRESCHI S., The Geography of Innovation: A Cross-sector Analysis, in «Regional Studies», vol. 31.3,2000, pp. 213-229.CAFIERO C., Compendio del Capitale, Garzanti, Milano 1976.CARLINI F., Divergenze Digitali, manifestolibri, Roma 2002.CASTELLS M., L’età dell’informazione: politica, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano2003.CERI P., Dov’è il potere nella globalizzazione?, in «il Mulino», L, n. 396, 4/2001, pp. 589-595.CICIOTTI E., Competitività e Territorio. L’economia regionale nei paesi industrializzati, NIS, Roma1993. CONSULATE-GENERAL OF THE PEOPLE’S REPUBLIC OF CHINA (in New York), China’s Macroe-conomic Update: World Bank Report, New York 6 novembre 2003. CONTI S., L’industria manifatturiera, in Conti S. et al. (a cura di), Geografia dell’Economia Mon-diale, UTET, Torino 1993, pp. 155-205. DI MAGGIO ALLERUZZO M.T., Gli studi di geografi italiani sull’Asia Orientale, in Dell’Agnese E.(a cura di), Geografia e Geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, pp. 22-34.EVA F., La crisi asiatica 1997-1999: solo crisi economica o anche crisi socioculturale?, in Dell’AgneseE. (a cura di), Geografia e Geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, pp. 35-49.FERRAROTTI F., Tecnologia e sviluppo sociale, in Macchina e uomo nella società industriale, ERI, To-rino 1963, pp. 45-59.GALIMBERTI U., Psiche e Teche. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999. GEORGESCU-ROEGEN N., L’economia politica come estensione della biologia, in Bonaiuti M. (a cu-ra di), Bioeconomia, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 65-78.GILPIN R., The Political Economy of International Relations (1987), trad. it. Politica ed Economiadelle Relazioni Internazionali, il Mulino, Bologna 1990.GOLINELLI G.M., PANATI G., Tecnica economica industriale e commerciale. Imprese strategie e ma-nagement, NIS, Roma 1991.GUARRACINO S., L’età medievale e moderna, Mondadori, Milano 1993. ISTITUTO DI GEOGRAFIA dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, L’Uomo, la società e l’ambien-te, (trad. it. di Cotti-Cometti G.), Cesviet, Milano 1977. ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI, Grande enciclopedia della scienza e della tecnologia, IstitutoGeografico De Agostini, Novara 1997.JEDLOWSKI P. (a cura di), Dizionario delle scienze sociali, il Saggiatore, Milano 1997.KLEINERT J., The Role of Multinational Enterprises in Globalization: An Empirical Overview,Working Paper n. 1069, Kiel Institute of World Economics 2001. KRUGMAN P.R., OBSTFELD M., International Economics. Theory and Policy, trad. it. Economia in-ternazionale. Teoria e politica del commercio internazionale Hoepli, Milano 2003, vol. 1.LIBERTI S., RAGOZZINO G. (ediz. it. a cura di ), Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto,Roma 2003.LOWI T.J., La scienza delle politiche, il Mulino, Bologna 1999. LORUSSO S., Tecnologia ed innovazione nei processi di produzione, Edizioni Kappa, Roma 1987.MARX K., Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), trad. it. Lineamenti fonda-mentali della critica dell’economia politica 2, La Nuova Italia, Firenze 1978.ID., Das Kapital. Kritic der politischen Ökonomie (1867), trad. it. Il Capitale. Critica dell’economia

Riferimenti bibliografici 2 2 5

Page 226: Gli spazi della globalizzazione

politica, Avanzino e Torraca editori, Roma 1969, libro I, capp. 1 e 13.MCCONNELL, WITSA, Ready? Net.Go! Partnerships Leading the Global Economy, WashingtonDC, maggio 2001.MELOTTI U., Marx e il terzo mondo, il Saggiatore, Milano 1972.ID., Sociologia, Storia e Marxismo, Unicopli, Milano 1979. ID., Divisione del lavoro, organizzazione economica e classi sociali, Centro Studi Terzo Mondo, 1976OECD, Towards a Knowledge Based Economy - Recent Trends and Policy Directions from the OECD,Singapore 21-22 novembre 2002.OECD, Information Technology Outlook, 2002.ÓH UALLACHÁIN B., Restructuring the American Semiconductor Industry: Vertical Integration ofDesign Houses and Wafer Fabricators, in «Annals of the Association of American Geographers»,Blackwell Publishers, Oxford 1997, 87(2), pp. 217-234.ÓH UALLACHÁIN B., WASSERMAN D., Vertical Integration in Lean Supply Chain: Brazilian Auto-mobile Components Parts, in «Economy Geography», 1999. ORATI V., Globalizzazione scientificamente infondata, Editori Riuniti, Roma 2003. ORTOLEVA P., REVELLI M., Storia dell’età contemporanea, Mondadori, Milano 1993.PEPE C., Connotati organizzativi dell’impresa per il mercato globale, in «Sinergie», n. 60, 2003, pp.103-128.POSNER M.V., International Trade and Technical Change, in «Oxford Economic Papers», vol. 13,ottobre 1961. RIFKIN J., The Biotech Century, trad. it. Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano 1998.RODANO G., SALTARI E., Lineamenti di Teoria Economica, NIS, Roma 1994.ROSENBERG N., Marx studioso di tecnologie, in Dentro la scatola nera. Tecnologia ed economia, ilMulino, Bologna 2001, pp. 57-78.ROSSINI G., La globalizzazione debole, in «il Mulino», L, n. 397, 5/2001, pp. 883-892.SCHUMPETER J., Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1912), trad. it. Teoria dello sviluppoeconomico, Sansoni, Firenze 1971.ID., Business Cycles. A Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process (1939),trad. it. Il processo capitalistico: cicli economici, Bollati Boringhieri, Torino 1977. SHIVA V., Biopiracy. The Plunder of Nature and Knowledge (1997), trad. it. Biopirateria. Il saccheg-gio della natura e dei saperi indigeni, CUEN, Napoli 1999. Stiglitz J., Globalization and Its Discon-tents, trad. it. La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002.SYLOS LABINI P., Problemi dello sviluppo economico, Laterza, Bari 1970, cap. 2.UNCTAD, World Investment Report 2003, United Nations, New York-Geneva 2003.UNCTAD, Trade and Development Report 2003, United Nations, New York-Geneva 2003.UNDP, Human Development Report 2003. Millennium Development Goals: A Compact AmongNations to the End Human Poverty, UNDP, Oxford University Press, New York-Geneva 2003. UNDP, Human Development Report 2001. Making New Technologies. Work for Human Develop-ment, UNDP, Oxford University Press, New York-Geneva 2001.VERNON R., International Investment and International Trade in the Product Cycle, in «QuarterlyJournal of Economics», vol. 80, maggio 1966, pp. 109-207.WTO, World Trade Report 2003, Geneva 2003.

Riferimenti bibliografici2 2 6

Page 227: Gli spazi della globalizzazione

Adepoju, A. 35nAlbert, M. 103n, 105nAlberoni, F. 150nAldcroft, D.M. 102nAllegretti, U. 18, 34n, 217nAltieri, M.A. 36nAmato, V. 218nAmin, S. 103n, 206, 212n, 219nAmoroso, B. 35nAntonelli, C. 213n., 215n, 216nArcelli, M. 104nArndt, H.W. 102nArrighi, G. 100n, 106n, 163, 212n

Baffi, P. 69, 70, 104nBaget-Bozzo, G. 144Baglioni, G. 150nBarabàsi, A.L. 171Baran, P.A. 212nBauer, O. 124Bell, G. 102nBernstein, P. 106nBezos, J. 217nBianchini, V. 215n, 217nBianco, G. 140Biasco, S. 103nBiffi, G. 144Bilson, J. 104nBlaschke, J. 150nBlock, F.L. 102nBloomfield, A.I. 100n, 101n, 102nBlunkett, D. 137, 151nBocca, G. 151nBollino, C.A. 106nBonaiuti, M. 219nBosio, R. 34nBossi, U. 138, 146, 147, 148

Bossons, J. 101nBowels, S. 105nBoxer, C.R. 100nBoyer, R. 105nBraudel, F. 23, 40, 41, 44, 100n, 195Breschi, S. 187, 216nBresolin, F. 76nBryant, R.C. 105nBuchanan, M. 171 Buiatti, M. 213nBuist, M.G. 100nBurlando, R. 103nBush, G. senior 84, 86Bush, G.W. jr. 86

Calleo, D.P. 105nCampagna, F. 104nCardini, F. 100nCargill, T.F. 102n, 103nCarli, G. 69, 103nCarlini, F. 216n, 219nCarlo V 41Carlo d’Inghilterra 137Carlo Magno 97Carmark, J. 217nCarter, J. 72, 81Cassandro, M. 100nCastagnola, A. 212nCastellina, L. 34nCastells, M. 16, 19, 28, 33n, 34n, 35n, 36n,

170, 171, 172, 194, 205, 213n, 214n,215n, 219n

Castles, S. 36nCelada, L. 219nCeri, P. 193, 217nChamberlin, E.H. 206Chancellor, E. 105n

Indice dei nomi

Page 228: Gli spazi della globalizzazione

Chandler, L.V. 101nChang, Ha-Joon 211nChiesa, G. 214nChirac, J. 136Chossudovsky, M. 35n, 106n Ciampi, C.A. 70, 145Ciciotti, E. 212nClapham, J. 101nClarke, S.V.O. 102nClay, E. 101nClinton, B. 85, 86Cohen, B.J. 103nColombo, L. 36nConti, S. 165n, 212n, 213nContri, F. 146Coombs, Ch. A. 103nCorden, W.M. 103nCorna Pellegrini, G. 33nCotti-Cometti, G. 33n, 212nCox, R. 100nCraxi, B. 137, 143Cristaldi, S. 218nCuddington, J. 104n

D’Alema, M. 146Dal Lago, A. 151nDe Biase, L. 213n, 217nDe Cecco, M. 101n De Crèvecoeur, J. 150nDe Gaulle, C. 60, 103nDe Grauwe, P. 106nDe Michelis, G. 137, 143De Rochas, B. 158De Roover, R. 100nDeaglio, M. 105n, 106nDelle Donne, M. 150nDell’Agnese, E. 33n, 213nDemichelis, D. 217n, 218nDesiderio, A. 215n, 217nDi Carlo, G. 214nDi Maggio Alleruzzo, M.T. 213nDini, L. 145Dornbusch, R. 101nDrache, D. 105n

Eatwell, J. 105nEckes, A.E. 103nEdoardo III 40

Eichengreen, B. 51, 52, 100n, 101n, 102nEmmanuel, A. 206, 219nEmminger, O. 103nEva, F. 168, 213n

Fabietti, U. 33nFallaci, O. 144Faure, D. 35nFelloni, G. 100nFerrarotti, F. 220nFetter, F.W. 100nFilippo II 41Finardi, S. 34nFini, G. 138, 146, 147, 148Fisher, S. 101nFord, H. 211nFradkin, N.G. 212nFrank, A.G. 212nFreeman, C. 210n, 217nFried, R. 103nFriedman, M. 72, 104n, 105nFurini, N., 215n

Galbraith, J.K., 102n, 174Galimberti, U. 208, 210n, 220nGalli, C. 15, 16, 33nGandolfo, G. 104n Gardner, R.M. 103nGates, B. 172, 219nGeertz, C. 12, 16, 33nGemmiti, R. 216n, 218nGeorgescu-Roegen, N. 206, 219n, 220nGilley, B. 218nGilpin, R. 168, 213nGiordano, C. 150nGiordano, G. 150nGiovanardi, C. 147Goldsmith, R.W. 100nGolinelli, G. 210nGoodhart, C.A. 101nGordon, D.M. 105nGraham, G.S. 101nGreenspan, A. 81, 85, 86, 87, 92Guarracino, S. 217nGutiérrez, D.A. 105n

Haberler, G. 102nHalevi, J. 21, 35n

Page 229: Gli spazi della globalizzazione

Halweil, B. 36nHarris, S.E. 102n Hecksher, E. 206, 219n Heilbroner, R. 106nHeld, D. 27, 36nHelleiner, H. 105nHeller, H.R. 104nHertz, N. 34nHickman, B.G. 102nHiggins, J.P.P. 101nHimanen, P. 36n, 213n Hirschman, A.O. 212nHitler, A. 15Hoffman, R.J. 101nHuntington, S.P. 151nHymer, S. 103n

Infante, D. 213n, 217nIsrael, J. 100n

Jaffrelot, C. 197, 218nJean, C. 21Jedlowski, P. 213nJones, D.M. 105n

Kahler, M. 104nKaldor, N. 103n, 104nKaufman, H. 105nKemmerer, E.W. 101nKeynes, J.M. 48, 49, 50, 52, 54, 101n, 102n,

104nKindleberger, Ch. P. 46, 101n, 102n, King, W.T. 101nKissinger, H. 103n Khan, M.S. 104nKjellen, R. 33nKlare, M.T. 36nKleinert, J. 188, 215n, 216n, 217nKrugman, P. 34n, 104n, 106n, 183, 214n,

215n, 216n Kuznets, S. 170

Lanternari, V. 36nLayton, W. 101nLee, E. 106nLeibniz, G.W. 195Levine, A.L. 101nList, F. 206

Livi Bacci, M. 151n Lorusso, S. 211n Lowi, T.J. 173, 213nLuzzato, G. 100n

Maggiolini, A. 144Mahlow, M. 219nMaier, Ch.S. 101nMaiocchi, R. 210nMalthus, T. 206, 220nMarchesini, E. 187Marchetti, B. 219nMarchisio, S. 105nMarconi, M. 103nMarsh, D. 104nMarshall, A. 55, 56, 59, 100, 206Marston, R. 104nMartelli, C. 138, 143Marx, K. 207, 208, 209, 210, 211n, 220nMasbic, Ja.G. 212nMaurus, V. 187McGrew, A. 27, 36nMcLuhan, M. 214n Meade, J. 103n Méda, D. 217n Melman, S. 103nMelotti, U. 36n, 150n, 151n, 164, 167, 211n,

212n, 220nMennillo, F.M. 216nMerlo, A.M. 34nMichalos, A.C. 104nMichelsons, A. 103nMigone, G.G. 102nMikesel, R.F. 102nMilken, M. 172Miller, M.J. 36nMoggridge, D. 102nMorelli, A. 36nMoro, R. 105n, 106nMurty, N. 198Myrdal, G. 212n

Napolitano, G. 138, 140, 145, 146, 147Nathan, A.J. 218n Nebbia, G. 36nNeikirk, W.R. 104nNorman, M. 51, 54

Page 230: Gli spazi della globalizzazione

O’Donnell, M. 150nObstfeld, M. 183, 215n, 216nOhlin, B. 206, 219nÓh Uallacháin, B. 190Orati, V. 205, 206, 207, 212n, 219nOrtoleva, P. 211n, 214nOssola, R. 70, 104nOzeki, Y. 103n

Pacioli, L. 39Padoan, P.C. 106nPagnini, M.P. 33nPalidda, S. 151nPanati, G. 210nPanizza, R. 15, 25, 35n, 36n, 103n, 104n,

105n, 176, 214n Paracelso 13Parboni, R. 103n, 104nParenti, F. M. 31, 34n, 35n, 214nParis, F. 105nPatterson, G. 103nPepe, C. 216n Pepi, G. 216nPersson, T. 106n Peterson, W.C. 106nPetilli, S. 150nPham Xuan Nam, 31Piccone Stella, S. 151nPiore, M.J. 104nPisanu, G. 134Polanyi, K. 102nPollard, S. 101nPosner, M.V. 164, 212nPrice, H.B. 102nProchnow, H.V. 102nProdi, R. 146, 149

Quaini, M. 13, 16, 30, 33n, 36n

Ragozzino, G. 218nRampini, P. 106nRatzel, F.15, 33nReagan, R. 73, 81, 84, 169Remotti, F. 14, 33nRenner, M. 24, 35nRevelli, M. 211n, 214nRicardo, D. 219nRiesser, J.101n

Rifkin, J. 213n, 217n Rist, Ch. 54 Rodano, G. 212nRoselli, A. 105nRosen, D. 218nRosenberg, N. 208, 209, 220nRossi, E.A. 102nRossini, G. 214nRoyama, S. 102n, 103nRuini, C. 148Rusconi, G.E. 151nRutan, B. 217n

Sabel, F. 104nSaccomanni, F. 106nSachs, W. 214nSaltari, E. 212nSantori, C. 34nSantow, L.J. 105nSapelli, G. 36nSarcinelli, M. 70Sarkozy, N. 136Sartori, G. 144Saul, S.B. 101nSayers, R.S. 101nScalfaro, O. L. 146Scammel, W.M. 101nSchacht, H. 50, 54, 101nSchiller, D. 176Schipani, S. 105nSchlesinger jr., A. 150nSchubert, A. 102nSchultz, Ch.L. 103nSchumpeter, J. 156, 157, 158, 159, 207, 211nScott, Allen J. 29, 34n, 36n, 205, 206, 216n,

219nSecor, L. 214nSen, A.K. 22, 35n, 36n, 105n, 106nShiva, V. 36n, 220nSisci, F. 200, 218nSkidelsky, R. 104nSmith, A. 43, 100nSolomon, R. 103nStallman, R. 202, 218nStasi, B. 136Stellin, M. 151nSterling, B. 217nStewart, M. 104n

Page 231: Gli spazi della globalizzazione

Stiglitz, J. 175, 207, 214n, 217n, 218n, 219nStrange, S. 103n, 105nStrong, B. 51, 101nSuzuki, Y. 105nSweezy, P. 212nSylos Labini, P. 211nSzego, C.105n

Tabellini, G. 106nTavlas, G. 103nTaylor, L. 105n Tew, B. 102n, 103nThatcher, M. 72, 169Thomas, W.A. 105nTobin, J. 103n, 104nTombola, C. 34nTonini, E. 145Torvalds, L. 202Tosi, A. 216nTouraine, A. 150nTricarico, A. 19Triffin, R. 66, 101n, 103nTriulzi, U. 106n Trudeau, P. E. 129Tuan, Yi-Fu 33nTurco, L. 138, 140, 145, 146, 147Tutino, F. 104n

Usher, A. P. 209

Valli, V. 106nVan Dormael, A. 102n

Vernon, R. 164, 165, 168, 212n Vinciguerra, L. 218nViola, S. 198Vitali, G. 106nVolcker, P. 74, 83

Wade, R. 34nWallerstein, I. 36n, 163, 164, 212n Warren, G. F. 103nWasserman, D. 190Watt, J. 211nWeber, A. 161Weisskopf, T.E. 105nWhale, P.B. 100nWhite, H.D. 54Woodward, B. 106n

Yeung, H. W. 32, 36n, 214nYomo, H. 105n

Zambruno, G. 105nZanier, C. 214nZanotelli, A. 148Ziegler, J. 17, 33n, 34n, 35n, 176, 191, 216n Zincone, G. 151n

Page 232: Gli spazi della globalizzazione
Page 233: Gli spazi della globalizzazione

Nellamutevole geografia

del mondo e dell’agire umanoprova a definire

le dinamicheindispensabili a comprendere

gli spazi e i flussiquesto libro stampato

nel carattere Simoncini Garamondsu carta Arcoprint

delle cartiere Fedrigonidalla tipografia Sograte

di Città di Castelloper conto di Diabasis

nel settembre dell’annoduemilaquattro

Page 234: Gli spazi della globalizzazione
Page 235: Gli spazi della globalizzazione

DAL CATALOGO DIABASIS

BIBLIOTECA DI CULTURA CIVILE

F. Andolfi, Lavoro e libertà. Marx, Marcuse, Arendt

P. Bagnoli, Il metodo della libertà. Piero Gobetti tra eresia e rivoluzione

G. Calogero, La scuola dell’uomo, a cura di P. Bagnoli

G. Calogero, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, con una testimonianza di Norberto Bobbio

M. Nussbaum, Democrazia sociale e capacità personale, a cura di G. Zanetti

R. Petrella, Il bene comune. Elogio della solidarietà

J. Raz, I valori fra attaccamento e rispetto, a cura di F. Belvisi

M. Walzer, Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, a cura di Th. Casadei

Legge, razza e diritti. Antologia sui critical race studies, a cura di K. Thomas e G. Zanetti (di prossima pubblicazione)

Cyberspazio e cyberdiritto, a cura di V. Colomba, con un saggio di Lawrence Lessig (di prossima pubblicazione)

FILOSOFIA

Camus, A., Metafisica cristiana e neoplatonismo, a cura di L. Chiuchiù

A. Czajka, Tracce dell’umano. Il pensiero narrante di Ernst Bloch

I. Kant, Guerra e pace: politica, religiosa, filosofica, a cura di G. Cunico (di prossima pubblicazione)

F. Rosenzweig, Il filosofo è tornato a casa. Scritti su Herman Cohen, a cura di R. Bertoldi

Davar 1.2003 “Solitudini”, a cura di A. Giannatiempo Quinzio

Davar 2.2004 “Paradisi”, a cura di A. Giannatiempo Quinzio

Page 236: Gli spazi della globalizzazione

GEOGRAFIA, PAESAGGIO E LETTERATURA DI VIAGGIO

V. Blengino, Il vallo della Patagonia. I nuovi conquistatori: militari, scienziati, sacerdoti, scrittori

V. Blengino, La Babele nella “Pampa”. Gli emigrati italiani nell’immaginario argentino(di prossima pubblicazione)

N. Bouvier, Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi

N. Bouvier, La polvere del mondo

L. Rossi, L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe (sec. XVI-XIX),introduzione di Margherita Hack (di prossima pubblicazione)

E. Turri, Viaggio a Samarcanda

E. Turri, Il viaggio di Abdu. Dall’Oriente all’Occidente

M. Quaini, La mongolfiera di Humboldt

Page 237: Gli spazi della globalizzazione
Page 238: Gli spazi della globalizzazione
Page 239: Gli spazi della globalizzazione
Page 240: Gli spazi della globalizzazione