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Gli statuti dell’Azione cattolica del 1946 Il quaderno 2295 della rivista « La civiltà cattolica » in data 26 gennaio 1946 ripor- tava nella rubrica « Cronaca contemporanea » sotto il titolo Verso un nuovo ordi- namento dell’Azione cattolica, senza commento ed in posizione di scarso rilievo, il seguente comunicato : L’Em.mo Card. Lavitrano, nominato prefetto della Congregazione dei religiosi, ha espo- sto al Santo Padre il desiderio di essere esonerato dalla carica di presidente della Com- missione cardinalizia per l’alta direzione dell’Azione cattolica. Accogliendone la richie- sta, e conservandogli l’incarico fino a quando non siano dati nuovi ordinamenti agli organi centrali dell’AC, Sua Santità ha affidato a una Commissione episcopale di stu- diare la revisione dello Statuto generale e i suoi rapporti con gli altri organismi e mo- vimenti di apostolato, particolarmente quelli sorti nel campo sociale. Ne fanno parte: l’Em.mo Card. Piazza, Patriarca di Venezia, presidente; gli Ecc.mi monsignor Marcello Mimmi, arcivescovo di Bari; Antonio Lanza, arcivescovo di Reggio Calabria; Evasio Colli, vescovo di Parma; Gilla Gremigni, vescovo di Teramo; Giuseppe Siri, ausiliare di Genova. Segretario della Commissione è stato nominato monsignor Giovanni Urbani, Delegato Patriarcale per l’AC a Venezia Non compariva qui il nome di monsignor Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, che partecipò in seguito ai lavori della commissione. Questa si radunò per la pri- ma volta dall’11 al 18 febbraio elaborando uno schema che venne sottoposto al pontefice ed una seconda volta dal 24 al 27 giugno per la stesura definitiva. Il papa, dopo aver personalmente esaminato quest’ultimo progetto, concesse la sua appro- vazione 1’11 ottobre 1946. Queste le tappe della revisione statutaria dell’Azione cattolica italiana, « ordinamen- to principe dei cattolici militanti » 1 2, già definita dal pontefice Pio XI, che ne pro- mosse la più larga diffusione, « collaborazione dei laici all’apostolato della gerar- chia ecclesiastica » 3. L’incarico di operare tale revisione fu dunque affidato ad una commissione di vescovi residenziali in rappresentanza delle diverse zone d’Italia, con una prevalenza, giustificata probabilmente dal prestigio di un’antica e solida tradizione, per il Ve- neto. Essi avevano in comune uno stretto rapporto con l’AC che ne faceva per così dire degli « esperti » 4, caratteristica questa non sempre presente allora nell’epi- 1 Verso un nuovo ordinamento dell’Azione cattolica, in «La civiltà cattolica», 1946, voi. I, pp. 229-30. 2 Statuto deìVAzione cattolica italiana (St. 46), Roma, 1962, cap. I, art. 2, p. 8. 5 Statuti dell’ACI (St. 40), Roma, 1940, cap. i, art. 1. p. 7. * Fra i prelati chiamati a far parte della commissione il vescovo di Teramo, monsignor Gilla

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Gli statuti dell’Azione cattolica del 1946

Il quaderno 2295 della rivista « La civiltà cattolica » in data 26 gennaio 1946 ripor­tava nella rubrica « Cronaca contemporanea » sotto il titolo Verso un nuovo ordi­namento dell’Azione cattolica, senza commento ed in posizione di scarso rilievo, il seguente comunicato :

L’Em.mo Card. Lavitrano, nominato prefetto della Congregazione dei religiosi, ha espo­sto al Santo Padre il desiderio di essere esonerato dalla carica di presidente della Com­missione cardinalizia per l’alta direzione dell’Azione cattolica. Accogliendone la richie­sta, e conservandogli l’incarico fino a quando non siano dati nuovi ordinamenti agli organi centrali dell’AC, Sua Santità ha affidato a una Commissione episcopale di stu­diare la revisione dello Statuto generale e i suoi rapporti con gli altri organismi e mo­vimenti di apostolato, particolarmente quelli sorti nel campo sociale. Ne fanno parte: l’Em.mo Card. Piazza, Patriarca di Venezia, presidente; gli Ecc.mi monsignor Marcello Mimmi, arcivescovo di Bari; Antonio Lanza, arcivescovo di Reggio Calabria; Evasio Colli, vescovo di Parma; Gilla Gremigni, vescovo di Teramo; Giuseppe Siri, ausiliare di Genova. Segretario della Commissione è stato nominato monsignor Giovanni Urbani, Delegato Patriarcale per l’AC a Venezia

Non compariva qui il nome di monsignor Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, che partecipò in seguito ai lavori della commissione. Questa si radunò per la pri­ma volta dall’ 11 al 18 febbraio elaborando uno schema che venne sottoposto al pontefice ed una seconda volta dal 24 al 27 giugno per la stesura definitiva. Il papa, dopo aver personalmente esaminato quest’ultimo progetto, concesse la sua appro­vazione 1’11 ottobre 1946.Queste le tappe della revisione statutaria dell’Azione cattolica italiana, « ordinamen­to principe dei cattolici militanti » 1 2, già definita dal pontefice Pio XI, che ne pro­mosse la più larga diffusione, « collaborazione dei laici all’apostolato della gerar­chia ecclesiastica » 3.L’incarico di operare tale revisione fu dunque affidato ad una commissione di vescovi residenziali in rappresentanza delle diverse zone d’Italia, con una prevalenza, giustificata probabilmente dal prestigio di un’antica e solida tradizione, per il Ve­neto. Essi avevano in comune uno stretto rapporto con l’AC che ne faceva per così dire degli « esperti » 4, caratteristica questa non sempre presente allora nell’epi­

1 Verso un nuovo ordinamento dell’Azione cattolica, in «La civiltà cattolica», 1946, voi. I, pp. 229-30.2 Statuto deìVAzione cattolica italiana (St. 46), Roma, 1962, cap. I, art. 2, p. 8.5 Statuti dell’ACI (St. 40), Roma, 1940, cap. i, art. 1. p. 7.* Fra i prelati chiamati a far parte della commissione il vescovo di Teramo, monsignor Gilla

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scopato italiano. La qualità inoltre di vescovi residenziali rappresentava un dato nuovo nella storia dei rapporti fra l’Azione cattolica intesa come complesso unita­rio e la gerarchia. Prima di allora, a partire dal 1939, l’Azione cattolica era stata retta infatti da una commissione di cardinali che, assumendone l’alta direzione, ga­rantivano, oltre ad una quanto mai opportuna protezione nei confronti del regime, una più stretta dipendenza dalla Santa Sede. I membri di tale commissione erano titolari di diocesi, ma anche parte del Sacro Collegio, il che, almeno in linea di principio, avrebbe dovuto compensare i rischi della « diocesanizzazione », cioè di un possibile venir meno dell’unità direttiva in seguito all’attribuzione ai vescovi del­l’alta direzione nelle rispettive sedi. La commissione cardinalizia inoltre, per la moda­lità stessa del suo nascere e per la qualifica dei suoi componenti, non si poneva se non del tutto implicitamente quale rappresentante dell’episcopato. L’articolo 5 dello statuto del 1940 del resto, subordinando la « direzione immediata» degli ordi­nari diocesani alle « direttive generali » impartite dalla commissione5, metteva in luce, nel rapporto intercorrente fra le varie autorità ecclesiastiche, la priorità gerar­chica dell’organo emanazione più diretta della Santa Sede.Ora, a differenza del 1939, la commissione cui venne demandata la revisione degli statuti si componeva di vescovi « in quanto tali » e questo, pur nella continuità di un’iniziativa di cui la Santa Sede persisteva ad attribuirsi l’esclusiva, era un muta­mento che alla lunga non sarebbe stato privo di rilievo 6. Se la compattezza dell’epi­scopato italiano attorno al papa appariva tale da garantire oltre ogni dubbio l’uni­tarietà della conduzione, la nuova formula, dando spazio ed autorità ad un suo mo­mento collettivo, contribuiva all’instaurarsi di una diversa concezione del ruolo dei vescovi stessi nel governo della chiesa (collegialità). Tale aspetto, del tutto embrionale nel 1946, alimentato dalla preesistenza di tradizioni particolari e dal confronto con la più ampia parabola dell’episcopato di altri paesi, si sarebbe rive­lato ricco di frutti nel lungo periodo. La scelta di una commissione di vescovi in questo momento aveva probabilmente avuto soprattutto la funzione — secondo una costante del pontificato di Pio XII — di stimolare i capi delle diocesi a farsi promotori dell’Azione cattolica, un compito fino ad allora adempiuto con slancio ed ottimi risultati al nord, non altrettanto al centro ed al sud.Le varie fasi della stesura furono (e sono tuttora) come di consueto circondate dalla più impenetrabile riservatezza, cosicché lo statuto si presentò nella sua redazione finale come un tutto compatto e privo di sbavature. Se anche vi furono all’interno della commissione linee diverse, nulla di questo trapelò. Fra una stesura e l’altra furono senz’altro consultati in qualità di esperti i presidenti nazionali di ramo, ma sempre con la massima discrezione e senza che si verificasse alcuna fuga di noti­zie. Per usare una perifrasi, consultati in grazia del ruolo che ricoprivano e delia loro capacità di «sentire cum Ecclesia», essi furono costretti ad «indossare l’abito talare ». Gli statuti furono presentati infine come il coerente epilogo di una linea senza soluzione di continuità, naturale adattamento dell’apparato organizzativo ai tempi mutati, adattamento che lasciava però intatto l’essenziale: la natura pro­fonda dell’Azione cattolica ed il suo ruolo nella società.

Gremigni aveva ricoperto nell’ultimo periodo della guerra l’incarico di direttore generale ad interim.s St. 40, cap. i, art. 5, p. 8.6 Nel testo dello statuto la nomina dei membri della commissione avverrà dietro designazione dei presidenti delle conferenze episcopali « udite le Conferenze stesse come rappresentanti delle rispettive regioni», in St. 46, cap. ir, par. i, art. 10, p. 12. Sul ruolo attribuito alle varie conferenze ecclesiastiche cfr. voce «Conferenze» nell’Enciclopedia cattolica, voi. iv, pp. 218-19.

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Non si trattava della prima revisione statutaria cui l’AC venisse sottoposta : le revi­sioni e le modifiche di ampia portata erano state, adottando come termine a quo l’inizio del pontificato di Pio XI, ben tre, con mutamenti di minor peso tra l’una e l’altra, sempre in corrispondenza di avvenimenti che in qualche modo intac­cavano il sistema di rapporti intercorrente fra l’organizzazione ecclesiastica e lo stato (o il regime che con esso si identificava)7. L’arco di tempo che va dal 1922-23, gli anni della prima revisione, ed il 1939-40, quando giunse a compimento la terza, vide la costante crescita quantitativa dell’organizzazione ed il suo progressivo con­figurarsi come organizzazione di massa. Non si trattò però semplicemente di una crescita « naturale », di un incremento inevitabile per l’abbinarsi della soggettiva dedizione e l’oggettiva capacità di un personale dirigente sempre più qualificato (e « professionale ») con la messa in opera di una formula particolarmente « adat­ta » ai tempi. L’uno e l’altro aspetto furono indubbiamente presenti, ma ricevette­ro spessore storico dal loro collocarsi entro una scelta consapevole della gerarchia ecclesiastica, quella cioè di incanalare — o permettere l’incanalarsi — di un patri­monio di energie individuali e collettive in « quella » immagine organizzativa (e non in una diversa), in una « collaborazione all’apostolato gerarchico » che, strut­turandosi in una rete estremamente capillare ed articolata di momenti associativi, investisse fin nelle sue pieghe la società tutta e la cambiasse o comunque neutraliz­zasse ciò che in essa vi era di contrario alla vita, ai principi ed agii interessi della chiesa stessa.In quest’ottica, che tiene presenti entrambe le caratteristiche dell’AC — di mo­mento organizzativo interno al mondo cattolico e di strumento della chiesa nella realizzazione del suo progetto sulla società — e ne coglie la dinamica, andrebbe approfondita la storia delle successive revisioni statutarie. Non è questa la sede per un’analisi dettagliata delle linee di tendenza peculiari alla chiesa cattolica nel suo rapporto con la società italiana e dei riflessi di tale rapporto sulla vicenda più specificamente organizzativa e giuridico-dottrinale. Dietro alle diverse formule organizzative, nel delinearsi di una strategia fissata nelle sue linee fondamentali da Pio XI ed espressa compiutamente a livello teorico-dottrinale durante il ponti­ficato di papa Pacelli, stanno infatti giudizi ed impostazioni maturati nel lungo periodo8. Già al tempo della nascita delle prime organizzazioni di laici cattolici la difesa del pontefice nei confronti dello stato italiano si inseriva nella più ampia lotta ai principi del « mondo moderno » condannati dal Sillabo, pericolosi perché portatori di una logica disgregatrice, alternativa a quella della chiesa e supporto delle misure prese contro di essa. La formazione dello stato unitario aveva portato all’esproprio di parte dei beni ecclesiastici e ad una diminuita libertà d’azione per il clero. L’anticlericalismo di gran parte della classe dirigente liberale rendeva ine­vitabile l’attacco che contro di essa sviluppò la Santa Sede, facendone il cemento unificante dei primi circoli di nobili e borghesi cattolici.Successivamente il decollo industriale ed una diversa organizzazione del lavoro nel­le campagne iniziarono ad incidere sulle condizioni di vita ed i modi di essere delle masse cattoliche, sullo stesso modularsi dell’esperienza religiosa e sul rapporto

7 Cfr. Gabriele de rosa, Il Partito popolare italiano, Bari, 1972, pp. I l i sgg.; maria cristina giuntella, 1 fatti del ’31 e la formazione della « seconda generazione », in I cattolici tra fascismo e democrazia, a cura di Pietro scoppola e Francesco traniello, Bologna, 1975, pp. 185-233; Francesco lu igi Ferrari, L ’Azione cattolica e il regime, Firenze, 1957, Renzo de felic e , Mus­solini, il duce. Gli anni del consenso (1928-1936), Torino, 1974, p. 246 sgg.* Cfr. Francesco magri, L’Azione cattolica in Italia, 2 voli., Roma, 1953, che si presta ad essere usato come fonte per una certa rivisitazione di parte cattolica delle vicende dell’Opera dei congressi prima e dell’ACI in seguito allo scioglimento di quella.

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del singolo credente con i punti di riferimento istituzionali di questa9. In seguito al primo apparire di propagandisti e sindacalisti anarchici e socialisti, la cui critica allo sfruttamento si mescolava ad un violento anticlericalismo, si fece strada fra gli elementi più avvertiti del clero e del laicato la consapevolezza dell’insufficienza delle pratiche tradizionali a mantenere saldo l’attaccamento degli strati popolari, soprattutto della nascente classe operaia, alla chiesa. Queste considerazioni, oltre al crescere in alcuni ambienti di una sensibilità orientata ai temi della giustizia sociale, determinarono un’azione di allargamento dell’area del movimento cattolico organizzato a contadini, artigiani ed, anche se in misura minore, operai con strut­ture che venivano incontro alle loro esigenze più immediate (casse rurali, cucine economiche ecc.). L’ampliarsi dello scontro di classe alla fine del secolo e soprat­tutto agli inizi del novecento comportò per la chiesa l’ingigantirsi del timore di una prossima rivoluzione socialista, ben più pericolosa per essa di quella liberale. L’appoggio dato al Partito popolare ed alla CIL, condizionato da tali esigenze di difesa e prontamente ritirato di fronte ad aperture al « nemico », venne a cadere nel momento in cui un’altra forza, il fascismo, si propose come più efficace garan­te dell’ordine. Il periodo successivo, benché caratterizzato da forti restrizioni al­l’intervento dell’ACI che della varia realtà del movimento cattolico precedente era l’erede, si rivelò intenso dal punto di vista organizzativo secondo criteri deter­minati, oltre che dalle esigenze del rapporto con il regime, dalla valutazione delle esperienze passate e dall’individuazione degli avversari che ne era via via scaturita 10 11.Mutamenti sociali e mutamenti politici dunque : il movimento cattolico organiz­zato che si propone di intervenire nella società per « cristianizzarla » non può non esserne coinvolto. Cambia il rapporto del cittadino con lo stato e le istituzioni, e la Santa Sede saprà gestire con avvedutezza tale cambiamento; cambia la fisio­nomia del militante, e di questo si coglierà solo l’aspetto del pericolo proveniente dall’esterno, la necessità di un « serrate le file » più energico. Analizzare uno sta­tuto o una serie di statuti alla luce di una problematica di questo tipo permette di coglierne le ragioni reali, sottraendo i mutamenti organizzativi all’apparenza di gioco delle parti tutto interno ad un ambiente ed estraneo alla concretezza dei pro­cessi in corso nella società. Nel caso specifico di questi nuovi ordinamenti dell’ACI elaborati nel 1946, proponendosi la commissione di esaminarne i « rapporti con gli altri organismi e movimenti di apostolato, particolarmente quelli sorti in cam­po sociale », ci si offre l’opportunità di tratteggiare un quadro ampio che trava­lica l’organizzazione stessa, l’immagine del mondo cattolico militante e dei suoi compiti prevalente in quel momento nella gerarchia e le direzioni in cui si svilup­

9 Per questi aspetti di storia della pietà cfr. aa.w ., Spiritualità e azione del laicato catto­lico italiano, Padova, 1969, 2 voli.10 È necessario, su questo piano di interpretazioni generali, superare la contrapposizione tra due linee che, pur contenendo a mio avviso una parte di verità, sono viziate da una fonda- mentale astrattezza. Una, di tradizione marxista, privilegia l’elemento reattivo (— reazionario) del movimento cattolico subordinandone l’iniziativa alla necessità di controbattere l’inevitabile sviluppo della società italiana dall’assetto feudale, attraverso la fase borghese, alla vittoria del proletariato e così facendo sottovaluta le caratteristiche di originalità e di spontaneità — non sempre patrimonio di frange emarginate e « ribelli » — che furono pure presenti in un lungo periodo della sua storia e che sopravvivono in modi diversi fino ai tempi più recenti. Cfr. Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, 1972. L’altra, di matrice cattolica, rifiutan­do tale subordinazione e privilegiando invece la specificità dell’attività dei cattolici, rischia con­tinuamente di sovrapporre l’essere con il dover essere (dottrina sociale della chiesa) di tale attività, ricadendo nel giustificazionismo ogni qual volta debba prendere in esame fatti in cui11 condizionamento delle ideologie e del « mondo » sul muoversi della chiesa appaia incontrover­tibile. Cfr., quale esempio tipico di tale impostazione, aa.w ., Questione cattolica e movimento cattolico, Milano, 1975.

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perà il suo intervento nel paese11. Gli statuti promulgati nell’autunno del 1946 si inseriscono in particolare in una più ampia linea tendente alla centralizzazione del­l’assetto organizzativo ed alla sua articolazione interna secondo le linee d’inter­vento indicate di volta in volta dalla gerarchia come prioritarie. Da un lato abbia­mo l’assunzione sempre più completa del ruolo dirigente da parte della gerarchia stessa, dall’altro il tentativo di un inserimento capillare ai vari livelli della società civile secondo la più vasta gamma di strumenti e di tecniche.Il limite più evidente di un’analisi che voglia affrontare questi problemi è indubbia­mente la mancanza di documentazione d’archivio. Non è possibile così cogliere, se non per via d’ipotesi, la complessità della discussione all’interno della commis­sione episcopale e l’eventuale presenza di ipotesi alternative a quella risultata poi predominante, presenza che è legittimo supporre data l’esistenza di precedenti a questo riguardo, attestati ad esempio da un memoriale inviato nel 1939 dai vescovi alla Santa Sede, con perplessità ed obiezioni in merito allo statuto allora in prepa­razione n. Ben al di là del gusto futile per i retroscena ecclesiastici e per le « bat­taglie curiali » che ha contraddistinto molta produzione, specie giornalistica, su tali argomenti, la disponibilità di alcuni verbali o almeno degli schemi provvisori permetterebbe di restituire alla vicenda statutaria una ben maggiore articolazione e ricchezza di significati. Permetterebbe in definitiva, scartate o recuperate che siano tali ipotesi alternative, di togliere ai lavori della commissione ed agli statuti che ne furono il risultato l’apparenza un po’ statica di un tutto compatto, fatto discendere senza residui e contraddizioni dal modello ipostatizzato di ciò che l’apo­stolato dei laici « doveva » essere e perciò stesso era. Un’interpretazione questa che assume meccanicamente l’immagine ufficiale e rivolta all’esterno degli statuti. La storia delle ipotesi alternative non è infatti necessariamente storia di conflittua­lità e disobbedienze e, nel giusto rapporto con la realtà complessiva, metterebbe in luce uno sviluppo dell’organizzazione ecclesiastica non vincolato perennemente a preoccupazioni di repressione del « diverso », ma animato da valori propri ed originali e da un desiderio di piena attuazione del messaggio evangelico che non è esclusivo patrimonio di frange minoritarie e profetiche.Non mi pare invece un limite la scelta di un’ottica particolare, quella organizzativa, per la sua natura di nodo complesso di problemi diversi e di osservatorio sensibi­lissimo dei processi che coinvolgono la chiesa italiana e la composita realtà del movimento cattolico. È nell’organizzazione infatti che prendono carne e slancio operativo linee d’intervento e modelli pastorali; in essa si incontrano la specificità interna all’ambito ecclesiale e la società civile, due piani che, coinvolgendo la medesima base (i fedeli-cittadini), interagiscono modificandosi continuamente. Lo statuto di un’organizzazione quale è l’AC, per il posto che occupa all’interno del 11 12

11 A questo proposito conviene preliminarmente rifiutare distinzioni astratte fra aspetti pro­fondamente legati fra di loro e condizionantisi a vicenda quali il « politico » e la « religiosità »0 «pietà»; tali categorie vengono indubbiamente usate, e con funzione discriminante, nel di­scorso del magistero ecclesiastico e dell’Azione cattolica stessa, ma con una tale elasticità che, lungi dal favorire un’effettiva separazione dei campi, paiono piuttosto funzionali all’am­pliamento del raggio d’intervento dell’autorità ecclesiastica.12 È indubbio che se nel 1946 sono dei vescovi a redigere il testo, questo fatto di per sé non basta ad eliminare il significato delle obiezioni espresse nel 1939. Resta da aggiungere che1 membri di questa commissione erano stati scelti dalla Santa Sede per le loro particolari qualità e non espressi dalle conferenze (per quanto limitato potesse essere il potere di queste ultime). Ringrazio Mariangiola Reineri per la gentile segnalazione del memoriale dei vescovi [Osservazio­ni degli Ecc.mi vescovi sullo schema di statuto, Archivio Curia Arcivescovile Torino, Carte Frassati, Cart. Azione cattolica (Statuti)].

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movimento cattolico italiano (e non solo italiano), ci permette di affrontare il cuore di tale dialettica cogliendone le linee di tendenza fondamentali.La traiettoria determinata fin dairinizio degli anni venti dall’evoluzione dei rapporti fra la chiesa ed il regime e dalla valutazione del magistero sui progressi del « mon­do moderno » nella vita sociale nonostante l’azione di contenimento svolta da alcu­ni settori della politica del fascismou, con le vicende degli ultimi due anni di guerra fu costretta a piegarsi ad alcuni elementi nuovi ed in una certa misura imprevisti. Il progressivo raffreddamento dei rapporti fra il regime e la gerarchia, accompagnato da un più intenso sforzo organizzativo nel campo dell’AC (le pre­sidenze Gedda e Panighi rispettivamente per la GIAC e per gli Uomini cattolici), non prevedeva, nella presa di distanza da quelli che si consideravano tradimenti ed insufficienze del fascismo, un rivoluzionamento del quadro politico generale. Il giudizio duramente negativo, fino a raggiungere toni apocalittici, che l’oratoria pacelliana esprimeva sulla società contemporanea e sui regimi che la governavano si era sempre indirizzata, con l’invito al « grande ritorno » ai dettami della dottrina sociale cattolica, ad un superamento graduale dell’« errore ». I rapporti sociali avrebbero dovuto cambiare radicalmente, ma gradualmente, in una « evoluzione concorde » 13 I4, nel recupero costante entro un quadro organico, precostituito in quanto proiezione storica di valori eterni, di ogni situazione di conflittualità po­tenzialmente rivoluzionaria. Con la caduta del fascismo tale potenzialità si rivelò nella preoccupante realtà del periodo badogliano, estremamente fluido nel gioco degli equilibri, quando forti nuclei della classe operaia variamente orientati verso il partito comunista dimostrarono, dopo le prime prove del marzo, una capacità di mobilitazione che, con tutti i suoi limiti, era senz’altro sufficiente a destare i timori della gerarchia e della Santa Sede 1S. Ciò che la preoccupava — e qui si contesta il discorso che nega la specificità delle motivazioni ecclesiastiche dissol­vendole nella logica di una posizione di classe 16 — non era tanto il fatto che dei partiti, uno in particolare, godessero della libertà di esprimere un programma di riforme sociali innovatrici rispetto all’ordine economico liberista (che la chiesa dal canto suo tradizionalmente riprovava) o ad un particolare assetto istituzionale (cui si dichiarava indifferente), quanto gli esiti concreti di un simile programma, so­prattutto se attuato da « nemici della chiesa », sul tessuto sociale di un paese « cat­tolico » come l’Italia 17. Si temeva in definitiva che i fedeli, non più sorretti da una salda impalcatura di istituzioni « pedagogicamente » cristiane e rischiando, in re­gime democratico, di confondere il bene con la volontà della maggioranza, « si perdessero » acquistando altri criteri di giudizio, altre abitudini ed allontanandosi infine dalla chiesa. Il nesso fra la pratica di una serie di gesti più o meno attinenti all’area del culto e l’adesione alla chiesa, condizione per il conseguimento della salvezza, aveva alla base, in questo contesto, una precisa concezione dell’uomo in

13 Aspetti graditi della politica del regime furono quelli riguardanti la moralità ed in gene­rale la repressione degli « abusi » della libertà (di stampa, d’opinione ecc.)14 s. s. pio x ii , AI popolo lavoratore, 13 giugno 1943, in Atti e discorsi di Pio XII, Roma, 1944, voi. v, pp. 141-56: « [...] una evoluzione progressiva e prudente, coraggiosa e consentanea alla natura, illuminata e guidata dalla santa norma cristiana di giustizia e di equità » (p. 147).15 Cfr. paolo spriano, Storia del Partito comunista italiano. La fine del fascismo. Dalla riscos­sa operaia alla lotta armata, voi. IV, Torino, 1973, pp. 278 sgg.18 Cfr. Mario g. ro ssi, Movimento cattolico e capitale finanziario: appunti sulla genesi del blocco clerico moderato, in «Studi storici», 1972, n. 2, pp. 249-88.17 Forse non è opportuno l’uso del termine « ordine » riferendosi al collettivismo ed al liberalismo proprio perché ciò che si contesta loro nella tematica sociale cattolica è di essere in modi diversi il risultato storico di una frattura, di un allontanamento dalla « società orga­nica », modello che, lungi dal ritenere appartenente ad una dimensione utopica od escato­logica, si considera già realizzato in alcuni momenti della storia medievale.

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generale come incapace di reggersi da sé secondo i criteri della morale naturale e divina, fatalmente fuorviato dalla tentazione di rivolgersi ad altri lidi. L’uomo del popolo in particolare, la cui adesione al fatto cristiano non poteva che essere — pur con qualche concessione al « retto sentire » dei « semplici » — che rozza e superficiale, era in quest’ottica ancora di più predisposto a soggiacere a tale tentazione e quindi maggiormente da tutelare.

L’impressione più immediata ad un primo approccio con lo statuto, soprattutto in raffronto ai precedenti, è quella di una grande compattezza sia nel contenuto che nella struttura compositiva. I regolamenti dei quattro rami fondamentali infatti, prima autonomi, sono stati assorbiti in un « ordinamento generale » molto ampio cui si connettono alcuni succinti paragrafi relativi ai fini specifici di ogni branca. L’ordinamento generale, articolato nei capitoli Natura ed ordinamento generale, Organizzazione nazionale, Organizzazione diocesana ed Organizzazione parroc­chiale, fa emergere un minuzioso parallelismo nell’organizzazione dei rapporti in­terni ai vari livelli insieme ad una semplificazione della nomenclatura. A carattere unitario sono ancora i capitoli VI, VII e V ili riguardanti le Disposizioni comuni, gli Assistenti ecclesiastici ed il Coordinamento dell’apostolato dei laicils. Nella sto­ria degli statuti dell’ACI tutto questo fa parte di una tendenza facilmente docu­mentabile. Non si tratta soltanto di una semplificazione tecnico-giuridica, ma di un aspetto della spinta costante della Santa Sede, a partire dal pontificato di Pio XI, ad « organizzare » realtà associative all’origine spiccatamente indipendenti l’una dall’altra — anche se accomunate dalla devozione alla gerarchia ed al Papa in particolare — trasformando un legame di tipo blandamente federativo, alla base come al vertice, in una fattiva e solida unità, anzi in una sola realtà variamente articolata al suo interno. Tale tentativo si manifestò nella costituzione, già nel 1923, di un organismo coordinatore, la giunta centrale, il cui statuto era però an­cora giustapposto a quelli dei singoli rami. Il vero e proprio salto di qualità fra di essi stava, a mio giudizio, nella fisionomia tendenzialmente « ecclesiastica » del pri­mo di contro a quella più tipicamente « laicale » dei secondi19. La logica « eccle­siastica » che presiedeva al primo statuto si manifestò nella sostituzione dei mec­canismi di tipo democratico-rappresentativo con la nomina dei dirigenti da parte dell’autorità ecclesiastica stessa. Nelle successive revisioni gli statuti delle associa­zioni nazionali sarebbero stati sempre di più improntati ai criteri di quello gene­rale, in un vero e proprio processo di assimilazione. Si può dunque affermare che Pio XI fu il vero ideatore dell’Azione cattolica: non si limitò infatti a stimolarne l’espansione organizzativa e l’efficienza operativa, ma le impresse un carattere par­ticolare che la differenziò nettamente dagli organismi del movimento cattolico ottocentesco se non nei principi senz’altro nella struttura. I margini di autonomia e di iniziativa spontanea che, se ne avevano formato la ricchezza, erano stati fonte di preoccupazione nella gerarchia per le scelte concrete cui davano spazio, furono progressivamente eliminati mentre si accentuavano gli aspetti di subordi­nazione all’autorità ecclesiastica. L’Azione cattolica anzi, in quanto organismo laicale, alla fine di questa parabola, trovava la propria consistenza proprio in tale

l! St. 46, cap. I, artt. 1-8, pp. 7-10; cap. II, parr. I-IV, artt. 9-33, pp, 11-24; cap. Ili, parr. I-III, artt. 34-51, pp. 25-33; cap. IV, parr. I-III, artt. 52-61, pp. 35-38; cap. V, parr. I-VII, artt. 62-95, pp. 39-50; cap. VI, artt. 96-105, pp. 51-54; cap. VII, artt. 106-110, pp. 55-57; cap. V ili, artt. 111-13, pp. 59-60.19 I due termini, necessariamente molto imprecisi e schematici, non pretendono di conno­tare adeguatamente una diversità complessa, ma possono servire a segnare una linea di tenden­za e a delimitare due logiche di cui una almeno, quella ecclesiastica, è in questo periodo acu­tamente cosciente della propria « particolarità ».

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subordinazione che ne faceva ia più accreditata fra le organizzazioni cattoliche in Italia. Un’ACI compatta, forte e docile : queste le caratteristiche che dovettero essere apparse più opportune dopo che i fatti del ’31 ebbero rimesso in campo conflitti e limitazioni che si pensavano superati l’i l febbraio 1929. Un esercito capace di sottrarre la gioventù alla tendenza totalizzatrice del regime fascista sfrut­tando allo stesso tempo ogni aspetto positivo della sua politica. Una scuola in cui formare un personale qualificato, capace di intervenire individualmente, ma effi­cacemente a tutti i livelli della società per combattervi il « mondo moderno ».In un « esercito » di questo genere non vi era spazio per una logica diversa da quella dell’obbedienza assoluta afl’autorità, un principio che il pur ripetuto richia­mo alla carità lasciava immutato nei suoi esiti concreti. Il ruolo dei laici negli organismi di Azione cattolica diventava così « partecipazione » all’apostolato ge­rarchico e tale definizione si sarebbe affermata sul piano dei valori come descri­zione di ciò che l’AC «era» ed «era sempre stata». Il risultato di una necessità contingente diventava così un assoluto e come tale lo troviamo negli statuti del

•02 91761Pio XII riprese in pieno tale aspetto della linea del proprio predecessore, semmai accentuandolo. Abbiamo così nel primo capitolo un articolo che dice : « L’Azione cattolica italiana è l’organizzazione nazionale del laicato cattolico per una speciale e diretta collaborazione con l’apostolato gerarchico della chiesa » 21, con la preci­sazione che proprio questo « distingue [l’AC ndr] dalle altre associazioni di aposto­lato, che pure hanno con essa comune l’intento di promuovere il regno di Dio nelle anime e nella società » 22. Tale distinzione non avviene dunque sul piano del­la suddivisione dei compiti, ma su quello della priorità gerarchica (« ordinamento principe dei cattolici militanti »). L’unico soggetto dell’apostolato è dunque la chiesa intesa come corpo ecclesiastico depositario del sacramento dell’ordine; i laici trovano il proprio compimento nella « collaborazione », ovvero nell’azione sussi­diaria e subordinata. Questo si esplica al massimo grado negli appartenenti all’orga­nizzazione che risolve tutta se stessa, senza riserve ed altri fini, in tale strumenta- lità e, diventando quasi un prolungamento dell’organizzazione ecclesiastica, esplica tale funzione nel suo rapporto con le altre organizzazioni, in particolare con le Opere e le istituzioni « in genere di utilità sociale » che, assumendo il compito di

!0 II termine « partecipazione » che Pio XI alterna con « collaborazione » (Pio XII userà preva­lentemente quest’ultimo per meglio sottolineare la natura ausiliaria del laicato), applicato alla storia della chiesa, porta alla ricostruzione (di parte cattolica) di una genealogia dell’ACI a partire dalle comunità primitive. Ne risulta una storia a tesi in cui il ruolo del laico, pur in epoche diverse, rimane immutato perché rispondente ad un’immagine metastorica, valida in assoluto (cfr. Luciano Santarelli, L ’Azione cattolica, Catania, 1959, pp. 8 sgg.).21 St. 46, cap. I, art. 1, p. 7.22 « L’ACI considera come suo precipuo dovere ed onore essere chiamata a prestare speciale e diretta collaborazione all’apostolato gerarchico e perciò si distingue dalle altre associazioni di apostolato, che pure hanno con essa comune l’intento di promuovere il Regno di Dio nelle anime e nella società.L’ACI può promuovere o riconoscere Opere cattoliche, da essa direttamente dipendenti o ad essa semplicemente coordinate, le quali si propongano di curare la formazione spirituale dei propri membri e di estendere l’apostolato dell’ACI a scopi specificamente determinati: esse sono campo particolare di attivià per i soci dell’ACI. L’ACI può anche accettare l’adesione di Istitu­zioni cattoliche di educazione, di propaganda, di beneficienza, di credito e in genere di utilità sociale, come strumenti qualificati del suo apostolato.Benché sia l’ordinamento principe dei cattolici militanti, TACI comporta accanto a sé altre Associazioni pure dipendenti dall’Autorità ecclesiastica, di cui alcune, aventi fini e forme di apostolato, sono da essa considerate collaboratrici nell’apostolato gerarchico. Fra queste Associazioni e quelle dell’ACI è necessario che esista una mutua benevolenza, una larga com­prensione, una sincera collaborazione » (St. 46, cap. I, art. 2, pp. 7-8).

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« estendere l’apostolato dell’ACI » (« strumenti qualificati del suo apostolato ») si pongono nell’area di una strumentalità ulteriormente subordinata. Costituite fra il 1944 ed il 1946 per iniziativa di esponenti centrali dell’AC, se non per esplicito comando con la benevola attenzione della Santa Sede, esse documentano con il proprio nascere (o rinascere) in stretto rapporto con l’Azione cattolica la volontà di riprendere un intervento già praticato prima del fascismo senza i rischi di devia­zioni che l’esperienza precedente aveva messo in luce.In una posizione particolare si trovano le « altre associazioni pure dipendenti dal­l’autorità ecclesiastica, di cui alcune, aventi fini e forme di apostolato, sono da essa considerate collaboratrici nell’apostolato gerarchico », per lo più sodalizi di antica tradizione con un ampio campo di intervento e spesso un larghissimo seguito anche fuori d’Italia, i cui rapporti con l’Azione cattolica sono stati spesso impron­tati ad una viva concorrenzialità. L’esempio più immediato: le Congregazioni ma­riane. Con tali organizzazioni si auspica l’instaurarsi di un rapporto di « mutua be­nevolenza [...] larga comprensione [...] sincera collaborazione ».L’ACI nel suo aspetto unitario è « governata da propri organi » 23 composti da laici : le presidenze e le giunte (nazionali, diocesane, parrocchiali) e « dipende dal­la Santa Sede » 24. Le associazioni nazionali hanno inoltre giunte e presidenze pro­prie. Lo schema dei rapporti tra i diversi organi è più o meno lo stesso sia al centro che in periferia, il che costituisce — almeno in apparenza —- una sempli­ficazione rispetto agli statuti precedenti25.Al livello unitario l’organizzazione è diretta dunque da due organismi : la giunta centrale e la presidenza generale, aventi rispettivamente carattere deliberativo ed esecutivo ed una comune funzione di coagulo rispetto al complesso dell’organiz­zazione. La presidenza generale, « organo esecutivo responsabile a cui spetta di­rigere tutta TACI » 26, ha il compito di trasmettere all’autorità ecclesiastica i pro­grammi delle associazioni, convocare la giunta almeno due volte all’anno, sosti­tuire la giunta centrale in casi di particolare urgenza e vigilare sugli uffici dipen­denti. Oltre a tali incombenze particolari « ha autorità su tutte le associazioni na­zionali dell’ACI e ne dirige le attività » promuovendone « il regolare funziona­mento e [...] attività di apostolato » 27.La giunta centrale, « organo deliberativo superiore dell’ACI » 28, ha il compito di « promuovere l’AC in tutta Italia e deliberare circa le norme direttive e le inizia­tive generali », promuovere l’unità delle associazioni, coordinarne le attività prov­vedendo a tutto ciò che supera le loro competenze e disciplinare le Opere catto­liche 29.Le associazioni nazionali30 sono rette ognuna dalla propria presidenza centrale qua­le « organo direttivo ed esecutivo permanente » 31 e da un consiglio centrale quale « organo deliberativo »32. Quest'ultimo, la cui composizione ricalca quella della giun­

23 Ibid., cap. I, art. 4, p. 9.24 Ibid., cap. I, art. 5, p. 9.25 Cfr. Stallili e regolamenti deU’ACI, Roma, 1924 (Si. 23).26 Si. 46, cap. II, par. II, art. 15, p. 15.27 Ibid., cap. II, par. II, art. 16, p. 16.28 Ibid., cap. II, par. II, art. 19, p. 17.29 Ibid., cap. II., par. II, art. 20, p. 18.30 Gioventù italiana di azione cattolica (GIAC), Gioventù femminile di azione cattolica (GFAC),Unione uomini di AC (UUAC), Unione donne (UDAC), Movimento maestri, Movimento laureati, Federazione universitaria cattolica italiana.31 Si. 46, cap. II, par. Ili, art. 23, p. 19.32 Ibid., cap. II, par. Ili, art. 26, p. 21.

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ta centrale, deve « definire i problemi organizzativi [...] formulare i programmi [...] vigilare e coordinare il lavoro generale di apostolato » 33 fornendo a tutta l’associa­zione gli strumenti adeguati al conseguimento dei suoi fini. Alla presidenza invece spetta l’esercizio dell’« autorità » su « tutte le rispettive associazioni diocesane e parrocchiali nonché sulle Opere da esse dipendenti »M e quindi la vigilanza su ogni iniziativa, i rapporti con la periferia, la gestione economica e ordinaria.Tale schema organizzativo si ripropone con differenze minime nelle diocesi e nelle parrocchie. Si tratta dunque di uno statuto che, almeno in apparenza, rivela qua­lità spiccatissime di precisione ed organicità. Non potrebbe del resto essere diver­samente considerandone la fonte e la procedura tradizionalmente accuratissima di redazione per più stesure, ad opera di esperti in campo teologico e giuridico35. Il termine « apparenza » usato a proposito di tale compattezza è cionondimeno giustificato dalla persistenza di alcune ambiguità che già in passato sussistevano fra associazioni nazionali ed organismi unitari in materia di distinzioni di compe­tenze. La presidenza generale attorno alla quale, secondo lo spirito unificatore dello statuto, dovrebbe ruotare tutta l’organizzazione, ha infatti competenze amplis­sime quanto vaghe, spesso in conflitto con quelle degli organi di ramo. La sua « autorità » su di essi si limita così al richiedere loro i programmi da trasmettere alla commissione episcopale : il suo ruolo più definito quindi — ordinaria ammi­nistrazione a parte —■ finisce per essere la mediazione tra le varie branche e la gerarchia36. Del pari la giunta — l’altro organismo su cui, al centro come in peri­feria, poggia la responsabilità di unificare FACI — ha una frequenza di convoca­zione troppo bassa per essere un organo realmente deliberativo e, piuttosto che promotrice di un vero e proprio indirizzo comune, si limita a coordinare pro­grammi formulati dai consigli e dalla presidenza, grazie soprattutto all’ancor vaga distinzione tra fini specifici e fini comuni delle organizzazioni. Già nel testo del 1923 tale distinzione si presentava non ben definita37. In un’ACI all’inizio della propria parabola verso la centralizzazione cambiava però il segno di tale indetermi­natezza. Allora, di fronte all’autonomia anche giuridicamente quasi completa dei rami, l’introduzione del termine « fini comuni » fungeva da spiraglio per la neoco­stituita giunta centrale. Nel 1946 la persistenza di un margine di indeterminatezza e di sovrapposizione nei poteri ha piuttosto la funzione di non irrigidire lo statuto in una direttiva che, pur corrispondendo ad una linea concretamente operante da parte della gerarchia e di certa dirigenza laica, era ben lungi dall’essere attuata

J3 Ibid., cap. II, par. Ili, art. 27, p. 22.14 Ibid., cap. II, par. Ili, art. 24, p. 20.3S Non sarebbe infruttuosa un’indagine puntuale dei termini usati nello statuto per verificarne il grado — a mio parere crescente a partire dal 1923 — di analogia con gli ordinamenti del diritto canonico.34 Attraverso quella che sul piano più strettamente giuridico potrebbe essere interpretata come una limitazione, passa la forza reale della presidenza, l’interprete più accreditata della linea della Santa Sede. Allo stesso modo si può affermare — ma qui si va al di là dello statuto — che gran parte dell’autorità di una presidenza generale dipende dal rapporto fra il presidente ed il pontefice e dall’identità delle loro vedute. È il caso di Gedda e dell’appoggio costantemente concesso (anche in periodi di tensioni) da parte di Pio XII alla sua gestione. Per quanto riguarda i meccanismi dello statuto del 1946 da un punto di vista più stretta- mente sociologico cfr. Gianfranco poggi, Il clero di riserva, Milano, 1963, pp. 106 sgg.37 « Queste organizzazioni procedono secondo i rispettivi statuti e regolamenti in pienaautonomia e sotto la direzione e responsabilità dei loro organi statutari per quanto concerne il raggiungimento dei loro fini specifici, e precipuamente per la formazione, l’addestramento e l’applicazione degli associati all’esercizio dei doveri dell’Azione cattolica. Il loro concorso nel raggiungimento degli scopi generali dell’azione stessa e il loro coordinamento si attuano sotto la superiore guida della Giunta centrale dell’Azione cattolica italiana » (Si. 23, tit. I, art. 6, p. 13).

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fino in fondo ed avrebbe rischiato di renderlo non aderente alla realtà ed ultima­mente inoperante. Lo stesso vale per le giunte parrocchiali e diocesane che, pure investite della più grande responsabilità nei confronti delle diverse branche, non avevano alcuno strumento reale di controllo su di esse. Il loro funzionamento presupponeva infatti 1’esistenza di disponibilità e consenso alla base, pena lo sca­tenarsi di confusioni e conflitti di competenze. La singola associazione parrocchiale dipendeva infatti dalla giunta e dai propri organismi diocesani e nazionali. Le opere a loro volta dipendevano insieme dalla presidenza generale e dall’associa­zione che le aveva promosse. Anche in questo caso però le possibilità della presi­denza generale di intervenire concretamente sul loro orientamento era, anche sul piano giuridico, molto scarsa data la provenienza dei dirigenti dell’Opera stessa dai quadri dell’associazione promotrice.Quelle che in un documento simile sarebbero incrinature inspiegabili, si capiscono però alla luce dei limiti dello statuto come strumento atto a determinare il com­portamento di un gruppo. È già emerso che i rapporti all’interno dell’ACI sono molto complessi e spesso non rispondenti alla formula giuridica. Il testo dello sta­tuto ci può illuminare sulla volontà di conseguire un determinato risultato organiz­zativo — cui corrisponde una particolare impostazione religiosa e culturale — da parte di chi l’ha formulato, ma, condizionato com’è in fase di applicazione da altri fattori, non riesce da solo a fornire un’immagine del tutto reale della vita del gruppo cui si riferisce. Gli elementi condizionanti sono diversi: dal peso di tradizioni affermatesi in cerehie più o meno estese che riescono ad opporre valida resistenza alle novità non gradite, all’impronta determinante di alcuni leader, fon­datori o rifondatori a volte di un ramo, divenuti agli occhi dei soci l’incarna­zione stessa di uno stile di vita. Ricordiamo Armida Barelli, la « sorella mag­giore » fondatrice della Gioventù femminile e lo stesso Gedda, con le sue spic­catissime doti di organizzazione, per la GIAC (Gioventù italiana di Azione catto­lica).Non è difficile immaginare come personalità di questo calibro, anche se formal­mente dipendenti da un superiore ecclesiastico e pur mantenendosi in un sincero atteggiamento di ossequio, siano riuscite ad esercitare una direzione reale. Pur evitando la semplificazione della storia di personaggi, non possiamo sottovalu­tarne l’influenza individuale e gli esiti che un determinato tipo di rapporto base- leader ha avuto su certo mondo cattolico.Ogni soluzione organizzativa elaborata al vertice declinandosi nella realtà trova nell’ambiente delle resistenze. Se quest’ultimo, com’era in questo periodo della società italiana, fosse stato coinvolto in una serie di mutamenti, qualsiasi linea — e di questo la gerarchia era ben cosciente — avrebbe rischiato ben presto di rivelarsi inadeguata. Di qui l’esigenza di aggiustamenti che, pur non ponendosi in alternativa alle direttive fondamentali, di fatto potevano giungere a stravolgerne il segno. Di più, è possibile che nella formulazione stessa dell’immagine organiz­zativa si giungesse a prevederne la possibilità optando per un assetto elastico, con alcune ambiguità, aperto a più soluzioni.Tenendo presente il funzionamento reale dell’organizzazione quale si intravvede dal­la stampa interna diventa quindi possibile una lettura del fenomeno associativo non schematicamente sociologica o politica, ma attenta a cogliere la realtà, sia pure da una prospettiva particolare, in tutti gli elementi che la compongono. Per l’ACI si deve tener conto infatti del rapporto non sempre lineare fra un gruppo diri­gente ecclesiastico ed una base « fedele » per definizione, ma non unitaria, fram­mentata anzi in organismi spesso separati fra di loro da steccati difficilmente vali­cabili (ad es. la separazione fra organizzazioni maschili e femminili). Uscendo dal­

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l’Azione cattolica troviamo poi una congerie di realtà che, nate spesso da questa, rivendicano ognuna un proprio spazio di esclusiva competenza, sovrapponendosi ad altre, dedite all’apostolato o all’assistenza caritativa, di origine esterna all’ACI e di tradizioni anche lontane nel tempo 3S. L’esigenza di un coordinamento attorno ad un centro unificante tra questi diversi soggetti, fuori e dentro l’Azione catto­lica, è indubbiamente l’aspetto più rilevante degli statuti del 1946, ma, appunto per tutte le osservazioni svolte in precedenza, piuttosto che lo specchio di rapporti reali, essi restavano una normativa di carattere pedagogico e di prospettiva. Illu­minante a questo proposito è il capitolo V ili dedicato al Coordinamento dell’apo­stolato dei laici. L’esistenza stessa di tale capitolo che non aggiunge nulla di nuovo a quelli precedenti (della funzione di giunte e consulte si era già parlato) denuncia la consapevolezza che la gerarchia aveva dell’incapacità dello statuto di risolvere sul piano della norma i problemi di un’armonica convivenza tra istituti diversi e di un rapporto efficiente tra base e vertice. Alla regolamentazione di tipo giuri­dico si sostituisce infatti l’indicazione di « principi fondamentali » 38 39, di criteri che vanno al di là della norma puntuale indicando atteggiamenti e modi di essere, che richiedono un « senso vivo dell’organizzazione unitaria dell’ACI » capace di supe­rare i margini di ambiguità presenti nella norma stessa :

Al senso vivo dell’organizzazione unitaria dell’ACI dovrà ispirarsi il necessario affiatamen­to tra le diverse associazioni, come pure fra i soci, per una concorde, volonterosa ed efficace collaborazione e per una cristiana amicizia.Dallo spirito di mutua comprensione e di reciproca stima e dal fervido attaccamento al- l’AC sarà favorito il passaggio dei soci dalle Associazioni giovanili a quelle degli Uomini e delle Donne, dei Laureati e dei Maestri.Art. 112. — Giova tener presenti alcuni principi fondamentali:1) scopo dell’apostolato è di realizzare l’ideale cristiano nelle opere ordinate all’avvento e alla dilatazione del regno di Dio nelle anime e nella società;2) i frutti dell’AC, milizia volontaria al servizio immediato della gerarchia ecclesiastica, sono proporzionati allo spirito soprannaturale da cui essa è animata, al grado di form a­zione religiosa e morale dei soci, al loro fervido, devoto e pratico attaccamento al som­mo Pontefice e a tutti i pastori d’anime;3) norm a inderogabile per i rapporti interni ed esterni dell’AC e delle altre organizza­zioni di apostolato dei laici, allo scopo del fraterno coordinamento delle forze cattoliche verso i comuni ideali — senza pregiudizio della natura e della giusta autonomia dei sin­goli organismi — è conservare « l’unità dello spirito nel vincolo della pace » (Efes. 4, 3)40.In quanto articoli dello statuto, essi sono, più che una generica esortazione, una chiave interpretativa per lo statuto stesso. Il rapporto fra il singolo e l’organizza­zione risulta sottratto ad un rapporto diritto-dovere di tipo contrattuale e regolato invece da condizioni quali il « necessario [...] fervido attaccamento », lo « spirito di mutua comprensione e di reciproca stima » alla cui radice vi è il « senso vivo dell’organizzazione unitaria dell’ACI ». Nella natura di quest’ultima sta a mio parere il nocciolo del problema, nel suo essere « milizia volontaria al servizio im­mediato della gerarchia ecclesiastica », una definizione che, ancor di più di quella classica di « speciale e diretta collaborazione con l’apostolato gerarchico della chie­sa », indica il vero punto di mediazione e la condizione per il « fraterno coordi­namento » nella dialettica fra organismi unitari e particolari. La « milizia volon­taria», cioè il «fervido, devoto e pratico attaccamento al Sommo Pontefice e a tutti i pastori d’anime» trova concreta applicazione nel conclusivo articolo 113:

38 È il caso della presenza nel mondo del lavoro alla quale, alla fine dela guerra, si dedi­cano in modi diversi e con forti attriti la Gioc, le Adi e l’Onarmo. Cfr. Giu se ppe Pa sin i, Le A d i delle origini 1944-1948, Roma, 1974, pp, 84 sgg., 98.39 St. 46, cap. vili, art. 112, p. 59.40 lbid., cap. V ili, artt. 111-112, p. 59.

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Le Associazioni non possono introdurre innovazioni o mutamenti organizzativi e pro­grammatici senza intesa con la Presidenza generale ed approvazione della Commissione episcopale per TACI. L’interpretazione e le modifiche del presente Statuto sono di com­petenza della stessa Commissione episcopale 41.

L’autonomia dei rami appare condizionata qui più che dal coordinatore laico — con il quale è sufficiente raggiungere un’« intesa » — dall’autorità ecclesiastica da cui proviene la ben più necessaria « approvazione ». L’ultimo comma, assegnan­dole 1’« interpretazione » dello statuto, le consente il più ampio spazio di intervento e di mediazione nei conflitti che i già citati margini di ambiguità potrebbero su­scitare.Secondo lo statuto l’autorità ecclesiastica è presente a più livelli nella vita dell’or­ganizzazione, presenza che si concretizza tramite l’esercizio della giurisdizione42 e la nomina di assistenti cui è affidata la cura della formazione religiosa. La figura del prelato segretario, contemporaneamente assistente ecclesiastico generale del- l’AC, li riunisce e sintetizza entrambi. Nell’ambito dell’esercizio della giurisdizione, alla commissione spetta la nomina delle presidenze, l’approvazione dei regolamen­ti, dei programmi annuali e della gestione finanziaria, il riconoscimento delle Ope­re cattoliche e la loro direzione43. Il prelato segretario, oltre a fungere da tramite fra presidenza generale e Santa Sede, deve « vigilare, per tramite dei rispettivi Assistenti ecclesiastici centrali, tutte le organizzazioni e l’intera attività di aposto­lato » 44. Non servono ulteriori commenti per mettere in evidenza la situazione di sostanziale responsabilità vigilata degli organismi laici al centro come in periferia. I vescovi infatti, a norma del presente statuto, provvedono alla nomina dei presi­denti diocesani e parrocchiali, confermano la scelta dei membri della presidenza, adattano infine i programmi del centro alle esigenze della diocesi riservandosi l’ap­provazione di ogni iniziativa proposta in loco 4S. Il parroco riceve le direttive dal proprio ordinario e « promuove nella parrocchia l’organizzazione [...] lasciandone tuttavia la direzione pratica e organizzativa alla Giunta e alla Presidenza » 46, con­cessione questa che non allarga di molto lo spazio d’autonomia dei laici in quanto le « deliberazioni della Giunta devono essere approvate dal parroco »47.Oltre alla direzione immediata la gerarchia dispone di un ulteriore canale nella presenza degli assistenti, nominati dall’alto e disciplinati da uno speciale capitolo, in tutti i gangli dell’organizzazione. Essi vi rappresentano l’autorità ecclesiastica e garantiscono di fronte ad essa l’osservanza delle direttive, la spiritualità e l’orto­dossia48: ogni deliberazione dei consigli centrali deve essere ratificata dall’assisten­te che acquista una possibilità di controllo su un campo praticamente illimitato.

" Ibid., cap. V ili, art. 113, p. 60.*2 In particolare in sede nazionale si parla di « alta direzione » da parte della commissione episcopale (cap. II, par. I, art. 9, p. 11), in diocesi il vescovo « esercita la propria giurisdizione e vigilanza » (cap. Ili, par. I, art. 34, p. 25); in parrocchia « l’AC parrocchiale è sottoposta all’autorità del parroco » (cap. IV, par. I, art. 52, p. 35). Si percepisce una gradualità nell’uso dei tre termini. « Direzione » implica la promozione di una linea; « giurisdizione », ribadito da « vigilanza », il controllo che tale linea sia seguita e la facoltà di comminare sanzioni ai trasgressori. « Autorità » è il più generico e, come già nel caso della presidenza generale, sembra implicare un tipo di attribuzioni ampie, ma non specifiche, comuni ad altri organismi. In realtà la funzione del parroco, quasi sempre promotore ed assistente dell’associazione, è determinante.13 Si. 46, cap. II, par. I, art. 11, p. 12.*' Ibid., cap. II, par. I, art. 12, p. 14.15 Ibid., cap. Ili, par. I, art. 36, pp. 25-26.“ Ibid., cap. IV, par. I, art. 53, pp. 35-36.17 Ibid., cap. IV, par. II, art. 58, p. 37.*8 Ibid., artt. 107-108, pp. 55-56.

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Un’ultima serie di problemi scaturisce dal nodo dei rapporti centro-periferia. A partire dal 1923 la serie degli statuti presentò, con l’eliminazione progressiva di ogni meccanismo rappresentativo e la subordinazione sempre più marcata dei laici alla guida ecclesiastica, un parallelo processo di centralizzazione dei poteri nelle mani delle dirigenze nazionali a scapito dei centri diocesani. Ognuna delle revisioni tendeva infatti ad eliminare il carattere federativo che aveva contraddistinto gli inizi di ogni ramo. Significativi in questo senso furono il mutamento di nome im­posto alla Federazione italiana degli uomini cattolici diventata nel 1931 Unione uomini e lo stile impresso alla Gioventù dalla presidenza di Luigi Gedda (1934-46), da questi motivata con la necessità di difendere l’organizzazione dal fascismo che in essa vedeva un ostacolo al proprio monopolio in campo giovanile49. Indubbia­mente la necessità di consolidare la propria compagine di fronte ad un interlo­cutore che non aveva esitato, pur dopo gli accordi del 1929, a far ricorso alla violenza fu una delle ragioni della centralizzazione: questa fu però l’occasione con­tingente di una tendenza di origini più lontane che neppure la caduta del regime valse a mettere in discussione. Il rapporto fra le dirigenze centrali e la base (dioce­sana piuttosto che parrocchiale50), se dalla stampa interna appare caratterizzato da una netta divisione dei ruoli (il centro elabora i programmi, la periferia li met­te in pratica con più o meno fantasia e capacità) nella realtà vede un ben mag­giore resistenza delle situazioni locali ad ogni direttiva del centro che sembri loro inadeguata. Sarebbe interessante a questo proposito verificare quanti progetti, quante « campagne » ed iniziative fallirono perché lasciati cadere dalla periferia. Le mo­tivazioni di tali resistenze — talvolta, soprattutto al sud, rifiuti dell’AC in quanto tale — variano da zona a zona: alcune propongono il problema del rapporto fra sottosviluppo economico-sociale e pratica ancora superstiziosa ed epidermica del­la religiosità; in altri casi una fiorente ed antica tradizione di movimento cattolico locale (nel Veneto e soprattutto in Lombardia) rivendica una certa autonomia da Roma per principio prima ancora che su questioni di contenuto. Non sono da escludersi neppure le antipatie che la personalità di un dirigente (laico od eccle­siastico) può proiettare sulla sua impostazione 51.Lo statuto è dunque anche lo specchio dei limiti e degli ostacoli cui lo sforzo verso la centralizzazione è andato incontro, rendendo necessari dei correttivi che appa­rentemente deviano dalla linea fondamentale. Un esempio ne è l’introduzione di alcuni membri elettivi negli organi di governo unitari e di associazione52. Tale

” Cfr. luigi gedda, Addio gioventù!, Roma, 1947 pp. 85 sgg.50 Si può formulare l’ipotesi di un livello di autonomia (intesa in assoluto, come capacità di formulare una linea generale) molto diverso tra i dirigenti parrocchiali e quelli diocesani. La funzione di questi ultimi infatti, almeno nelle diocesi più grandi •—■ includendo la « propagan­da», il contatto dunque con molte parrocchie ed il rapporto, spesso personale, con il vesco­vo — permette loro di vivere l’AC in una dimensione meno limitata al quotidiano e di per­cepire le varie iniziative come facenti parte di una linea. Se da un lato questo può portare al « funzionariato », dall’altro consente la formazione di un personale addentro ai problemi reali della base, spesso preparato e capace di porsi, grazie anche all’appoggio del vescovo, in un atteggiamento se -non critico almeno propositivo nei confronti del centro. Naturalmente si deve tener conto a questo riguardo delle diverse realtà locali ed in particolare della più volte ricordata disparità nord-sud.51 Queste osservazioni vogliono proporre un’ottica attraverso cui impostare una storia locale che non sia cronachistica o legata ai soli fenomeni del luogo cui si riferisce. Le situazioni periferiche infatti non hanno un rapporto univoco, ma dialettico con Roma. Le loro partico­larità — risalenti alla diversità di tessuti economico-sociali e culturali — ne favoriscono la frammentazione in un arcipelago di traiettorie differenti (per cui non esiste una «linea» della periferia) ma di cui Roma, punto comune di convergenza, non può non tener conto nel modulare la propria linea complessiva.52 St. 46, cap. II, par. II art. 19, p. 18; ibid., cap. II, par. Ili, art. 26, p. 21.

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innovazione si spiega con la necessità di avere costantemente il polso delle diverse situazioni locali certo vivamente sentita dal centro romano dopo il lungo distacco da gran parte della periferia iniziato con i’8 settembre, e soprattutto in previsione di un intervento molto più ampio ed articolato di quello attuato durante il fascismo. I consiglieri elettivi, conoscendo a fondo la realtà da cui provenivano, avrebbero saputo prevenirne le difficoltà, renderne presenti le esigenze e mediare infine con maggior forza persuasiva le direttive. Il grado di unitarietà richiesto dalla nuova situazione, dato lo spiccato attivismo richiesto dalla gerarchia nel primo dopo­guerra, era certamente uguale, se non maggiore, rispetto a quello precedente, ma avrebbe dovuto essere integrato dall’adesione creativa dei dirigenti periferici. Tutto lo statuto punta su tale « responsabilizzazione » e l’introduzione dei consiglieri elettivi, insieme alle dirigenze laiche, ne è un sintomo.Del tutto astratta era in ogni caso la possibilità di una contrapposizione frontale e programmatica alle dirigenze centrali da parte della periferia; la impedivano la comune formazione dei dirigenti intorno ai problemi di fondo ed il vivo senso della disciplina di fronte alle direttive ecclesiastiche, prerequisito indispensabile all’assunzione di qualsiasi ruolo di responsabilità. Un qualche contrasto avrebbe potuto sussistere dunque solo come posizione localistica o come dissenso sull’in­terpretazione da dare a tali direttive; anche in questo caso però il magistero sa­rebbe stato pronto ad intervenire direttamente per chiarire, dirimere e, se neces­sario, censurare.Accentuazione del carattere di subordinazione de! laicato all’interno dell’organiz­zazione e del processo di unificazione dei rami tramite il potenziamento degli orga­nismi unitari; razionalizzazione del rapporto centro-periferia; tentativo di dare un’immagine organica alla congerie di attività associative di cui si compone il mondo cattolico in vista di un’azione comune. Queste le linee di tendenza, non sempre espresse in modo limpido nella formulazione degli articoli, soprattutto a causa dell’ancor scarsa rispondenza fra le esigenze di funzionalità ed efficienza cui l’ordinamento dovrebbe venire incontro e la realtà dell’organizzazione nel paese. Di qui la necessità da parte della Santa Sede che ne fu l’unica autrice di spiegare e commentare gli statuti chiarendone ogni oscurità. Molto restava infatti da chiarire sul significato dell’iniziativa, soprattutto alla luce delle attese manife­statesi nel periodo immediatamente seguente la fine della guerra.La revisione statutaria del 1946 non giunse infatti inaspettata come poteva essere accaduto per quella precedente, anzi, quasi presupposta dal carattere dichiarata- mente « contingente » di quella53, veniva a coronare un’attesa manifestatasi in modo particolarmente vivace in alcuni settori dell’Azione cattolica e specialmente nella Gioventù che già nel 1945 dei futuri ordinamenti fece argomento di serrate discussioni. Le succinte cronache dei consigli superiori e di altri incontri di livello nazionale ben poco lasciano trapelare del dibattito interno che in questo periodo raggiunse anche punte di una certa asprezza (ad esempio sul ruolo e la fisionomia

53 Nella lettera al cardinale Lavitrano, presidente della commissione cardinalizia, gli statatidel 1940 sono definiti « corrispondenti alle attuali circostanze e alle particolari esigenze dell'atti­vità cattolica in Italia » (Cfr. Approvazione della Segreteria di stato con lettera al cardinale La­vitrano in Statuti dell’Azione cattolica italiana, Roma, 1940, p. 4); adeodato g. piazza, Dedu­zioni e vantaggi dei nuovi ordinamenti, in «L ’assistente ecclesiastico», gennaio 1940, n. 1, pp. 1-5 : « 11 fatto di non avere la responsabilità delle decisioni è tutto in favore dei laici che,per effetto dell’intervento e dell’approvazione della gerarchia, si sentono meglio garantiti epiù sicuri nello svolgimento delle loro attività (p. 2). Cfr. anche delio cantim ori, I nuovi sta­tuti dell’ACl, in «Civiltà fascista» settembre 1940, n. 9, pp. 705-714, e Ancora sull’Azionecattolica, ìbid., ottobre 1940, n. 10, pp. 800-809.

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della neocostituita Gioc s4), ma permettono di individuare alcuni episodi i cui par­ticolari varrebbe la pena di approfondire e che qui mi limito a citare sommaria­mente, in cui emerge con chiarezza come per alcuni ambienti dell’organizzazione giovanile l’attesa degii statuti comportasse anche uno sforzo di elaborazione critica e di proposizione autonoma di contenuti. Vale la pena di citare un artico­lo di Diego Fabbri apparso su « Gioventù » a commento del consiglio superiore dell’8 dicembre 1945 in cui si accennava alla proposta emersa in sede di discus­sione di un ritorno addirittura agli statuti del 1923 e quindi all’elettività dei diri­genti 54 55 56. Ancora più stimolanti — avrebbero dovuto far parte di una serie che evi­dentemente non si ritenne opportuno pubblicare —• gli articoli di due dirigenti della Gioventù romana, Cossovich e Moruzzi, il primo dei quali faceva esplicito riferimento ad un dibattito in corso alla base dell’organizzazione M. 11 ritorno all’elet- tività dei dirigenti era la richiesta comune a questi interventi e dimostrava come l’attesa degli statuti fosse avvertita negli ambienti giovanili ■—• i più vivaci dell’Azio­ne cattolica — come un ritorno a condizioni di maggior autonomia e responsabilità del laicato caratteristiche di tempi passati, una riapertura di spazi che, dall’inizio del pontificato di Pio XI, erano andati progressivamente restringendosi. La consa­pevolezza di una rottura con il passato avvenuta nella società italiana e dei nuovi compiti di cui le organizzazioni cattoliche erano state investite, insieme a quella della caduta delle restrizioni imposte dal regime, portava naturalmente all’attesa di un recupero delle caratteristiche che erano state patrimonio del movimento cattolico in epoca prefascista. L’assunzione di sempre maggiori responsabilità da parte della gerarchia era stata del resto più volte presentata da questa come una misura imposta dalla situazione, un ombrello protettivo per i laici.

Quanta rispondenza abbiano trovato tali attese nei nuovi statuti ed il perché di questo è il punto fondamentale da verificare. Per quanto riguarda la discussione all’interno della Gioventù, essa fu di fatto troncata dagli ordini del giorno emessi dal consiglio superiore del 30 giugno 1946 57, a lavori della commissione ormai avanzati, che, non facendo neppure cenno all’elettività dei dirigenti come possibile correttivo della più volte lamentata passività dei quadri, chiuse ogni discussione a tale proposito. Veniva così riconfermata, nel metodo ancor prima che nei con­tenuti, una prassi già ribadita da Gedda nel corso del consiglio superiore dell’8 dicembre 1945 58 : la commissione ecclesiastica anche in tempi mutati rimaneva l’unico attore della riforma statutaria, l’unico giudice autorizzato a definire il ruolo, la fisionomia, le finalità dell’Azione cattolica e più ampiamente dell’apostolato organizzato dei laici.Non è documentata in altri settori (laici od ecclesiastici) l’esistenza di discussioni o richieste. L’intonazione particolarmente « persuasiva » dei commenti apparsi sul­

54 Cfr. All’ombra del San Cartone si definiscono i compiti della Gioventù studentesca e della Gioventù operaia, in «Gioventù», 18 agosto 1945, n. 16, p. 1. In questa cronaca del convegno tenuto ad Arona il 25-27 giugno 1945 compare una delle rare testimonianze di un dibattito all’interno della gioventù e della presenza di un’ipotesi jocista ispirata all’esperienza franco­belga. Ringrazio a questo proposito il sig. Piercostante Righini, allora delegato centrale dei lavoratori, per avermi concesso di consultare un suo fascicolo dattiloscritto ricco di interes­santi informazioni sui primi anni della Gioc.55 d. fabbri, L’appello, in « Gioventù », 8 dicembre 1945, n. 24, p. 1.56 A. cossovich... E m olti altri, Idee e proposte in tema di nuovi statuti dell’ACI, ibid., 4 aprile 1946, n. 6, p. 2; c. m oruzzi, Attori, non spettatori ibid., 25 luglio 1946, n. 14, p. 2. 11 fatto che l’articolo di Moruzzi venga pubblicato dopo l’odg che conclude la discussione non rappresenta una contraddizione, vista la secca nota redazionale che lo accompagna.57 Tre ordini del giorno, ibid., 11 luglio 1946, n. 13, p. 1.58 A.N., Consiglio superiore, ibid., 22 dicembre 1945, n. 24, p. 1.

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la rivista « L’assistente ecclesiastico » la lascia supporre almeno per quanto riguar­da i sacerdoti. Le successive restrizioni della responsabilità dei laici e degli stessi assistenti in seno agli organismi unitari dell’ACI 59, culminate negli ordinamenti del 1940, erano state motivate con la necessità di difendere l’organizzazione dall’inva­denza totalitaria del regime; se andavano dunque contro l’opinione, che si poteva riconoscere legittima, di molti60, era giocoforza fare buon viso. Accanto a tale sottolineatura del carattere contingente e temporaneo delle misure se ne era recu­perato però anche un aspetto di positività nella maggior dipendenza dalla gerar­chia che rendeva TACI più simile al suo modello ideale. Tale il discorso di un organo quale «L ’assistente ecclesiastico», indiscutibilmente rivolto ad una cerchia ristretta di lettori e certo non scritto ad uso e consumo delle autorità fasciste.Nella dichiarata provvisorietà degli statuti del 1940 vi era dunque un nucleo consi­derevole di acquisizioni definitive 61 maturati nel corso di un ventennio, non legate tanto alla presenza del regime fascista quanto al tipo di intervento nella società che la chiesa durante il periodo fascista aveva intrapreso. Un tipo di intervento che non si era limitato a rivolgersi all’esterno, ma aveva inciso di riflesso anche sui rapporti interni al complesso ecclesiale condizionando la gerarchia nel suo ruolo di unico elaboratore culturale (intellettuale organico) del mondo cattolico, interprete esclusiva delle implicazioni della fede nella storia62.Con la caduta del fascismo erano mutate le condizioni del quadro politico; il ritorno al sistema democratico aveva creato nuovi spazi d’intervento, ma questo non basta­va a spostare i termini del grande conflitto tra la società cristiana ed il « mondo moderno » di cui la chiesa si sentiva protagonista. Coloro che si erano aspettati una reale restituzione di responsabilità al laicato avevano evidentemente frainteso il significato degli statuti del 1940 sopravvalutandone l’aspetto di provvisorietà e non cogliendo la natura tendenzialmente irreversibile di un processo di lungo perio­do entro il quale non era stato previsto alcun tipo di ritorno alle «origini». Agli occhi della Santa Sede un mutamento di regime non aveva del resto rilevanza in

s’ « Quanto agli assistenti ecclesiastici, se non possono considerarsi quali rappresentanti auto­revoli della gerarchia in quegli organi dove questa è presente [...] essi tuttavia sanno di avere ricevuto dalla medesima, mediante la nomina ad assistenti, una missione di grande fiducia, di estrema delicatezza e di immensa utilità presso le rispettive associazioni [...] » (a. c. piazza , Deduzioni e vantaggi, cit., p. 2).60 « Le facili critiche per i frequenti cambiamenti di statuti — i quali sono semplici mezzi -—non tengono dunque conto di una realtà esterna che è al di là della volontà del legislatore. Anche nel caso in cui tali cambiamenti non siano veri miglioramenti, o non siano conformi ai gusti particolari, o turbino tradizioni care e situazioni locali vantaggiose, bisogna accettare con spirito di generosa disciplina, pensando che il bene generale è preferibile a quello parti­colare, e che il meglio è nemico del bene. » (l . civardi, I nuovi ordinamenti deir Azione catto­lica italiana, in «L ’assistente ecclesiastico», agosto 1940, n. 8, pp. 313-16, cit. p. 314). u Cfr. L. civardi, Dopo il discorso pontificio sull’ACI. La novità dei nuovi statuti, ibid., ottobre 1940, n. 10, pp. 395-99.42 Se al laicato viene riconosciuto un ruolo importante, persino — anche se più raramente — insostituibile, esso deve restare nell’ambito delle competenze concessegli, cioè nell’applicazione pratica della « cultura ecclesiastica ». Non esiste in questo periodo — se non episodicamente ed in gruppi ristretti — la coscienza della possibilità, se non di una pluralità di culture, almeno di interpretazioni delle direttive pontificie diverse da quelle autorizzate. Qualsiasi tentativo in questo senso è considerato un conato « laicista » di per sé condannabile. Questo non vuol dire che i laici non possano «produrre» cultura: in fondo è ciò che si chiede all'intellettuale catto­lico. L’unica e fondamentale condizione è che il punto di riferimento e di confronto siano i docu­menti del magistero secondo il commento esplicativo degli organi tradizionalmente depositari dell’ortodossia. Ai laici poi il compito di sviluppare ed inverarne le tematiche. L’« enciclope­dismo » di Pio XII non è altro che un risvolto di tale concezione che pretende di dedurre dalla dottrina tutte le implicazioni possibili.

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sé, ma solo in rapporto allo spazio che in esso sarebbe stato concesso all’attività della gerarchia e delle organizzazioni cattoliche, un rapporto che potremmo defi­nire più che di subordinazione di tendenziale strumentalità, senza mutamenti di sostanza rispetto al periodo precedente.Nel modo stesso con cui vennero alla luce, opera esclusiva di una commissione epi­scopale con l’attenta supervisione dello stesso pontefice, gli statuti, piuttosto che sot­tolineare i mutamenti avvenuti, si ponevano in stretta e consapevole continuità con la linea precedente. Al laicato vennero restituite infatti alcune responsabilità, ma risultava in cambio definitivamente riconfermato il ruolo di « gregge » bisogno­so di guida e di educazione.Il primo e più importante dei commenti ufficiali è certamente la lettera che Pio XII indirizzò al cardinale Piazza, presidente della commissione episcopale, dive­nuta in seguito introduzione a tutte le edizioni degli statuti ed unica fonte dei commenti pubblicati da «L ’assistente ecclesiastico». Vale la pena di riportare quasi per intero tale dichiarazione proprio per il suo carattere di sintesi degli in­tendimenti della Santa Sede :

Ci piace rilevare come tale ordinamento, se è ancora suscettibile di ulteriori modifica­zioni che l’avvenire potrà suggerire opportune, raccolga tuttavia in form a sintetica e fissi in norme collaudate dall’esperienza una non breve tradizione di lavoro, a cui il lai­cato cattolico italiano, di concerto col clero, ha consacrato immensa copia di cure e di energie, esercitando una funzione via via più determinata nel campo dell’apostolato eccle­siastico e dando alla società, gradatamente dimentica dei principi cristiani, l’impareg­giabile beneficio della loro moderna illustrazione nella dottrina e della loro viva profes­sione nella pratica.Così che compiendo questo Nostro atto, Ci conforta il pensiero di poter degnamente rico­noscere i lunghi e faticosi sforzi di quei cattolici che, di non altro arm ati all’infuori di un saldo amore a Cristo e alla sua Chiesa, diedero in questi ultimi tempi valido contri­buto alla milizia del nome cristiano, e di coronare in tal guisa la diuturna e sapiente opera dei nostri Predecessori, che all’Azione cattolica rivolsero sempre paterna solleci­tudine e fecero di essa forte e fedele strumento per la difesa della Chiesa e la diffu­sione dei suoi insegnam enti63.

Il brano nel suo complesso è indubbiamente un riconoscimento delle beneme­renze del laicato: quella che gli statuti sanciscono è un «tradizione di lavoro» di cui esso è stato ed è protagonista (non autore, almeno secondo l’uso dei verbi che indicano piuttosto l’azione di dare un contributo: « tradizione [...] a cui [...] ha consacrato»; «esercitando [...] una funzione»; «dando [...] illustrazione [...] pro­fessione »). Il clero appare infatti un po’ sullo sfondo anche se la citazione che lo riguarda non è certo casuale, ma anzi suscettibile di ampi sviluppi.Tale riconoscimento è dunque indubbio, ma con due caratterizzazioni che un più accurato esame dei due complessi paragrafi rivela : in primo luogo la « stori- cizzazione », la datazione di tale ruolo dei laici. Se infatti la tradizione è « non breve » e gli sforzi sono stati « lunghi e faticosi », tale contributo è stato esercitato « negli ultimi tempi » e particolarmente nel momento in cui « la società (si dimo­strava) gradatamente dimentica dei principi cristiani». Una tradizione che data dagli ultimi decenni dell’ottocento qui viene presentata come relativamente recente e legata alle « innaturali » condizioni di un periodo, nata dunque da esigenze di difesa piuttosto che dall’espressione di una linea originale ed autonoma. Si tratta poi di qualcosa di sussidiario rispetto all’opera della chiesa: «una funzione via

63 Al diletto figlio nostro il Cardinale Adeodato Giovanni Piazza, Patriarca di Venezia, Presi­dente della Commissione Episcopale per l’alta direzione dell’Azione Cattolica Italiana, in St. 46 pp. 3-5.

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via più determinata nel campo dell'apostolato ecclesiastico » e « un valido contri­buto alla milizia del nome cristiano». Operativamente questo si traduce nell’« im­pareggiabile benefìcio della [...] moderna illustrazione (dei principi cristiani) nella dottrina e della loro viva professione nella pratica » e nell’essere « forte e fedele strumento per la difesa della Chiesa e la diffusione dei suoi insegnamenti ». I catto­lici militanti, causa il traviamento della società, hanno preso su di sé nuovi com­piti coadiuvando quello che è sempre stato il soggetto dell’apostolato, la chiesa (= istituzione ecclesiastica) nell’« illustrazione » e « professione » di quei « prin­cipi cristiani » di cui essa è la sola depositaria.Se gli statuti sanciscono una benefica tradizione dei laici, « coronano » nello stes­so tempo « la diuturna e sapiente opera » dei predecessori del pontefice regnante che con « paterna sollecitudine » realizzarono la vocazione profonda dell’Azione cattolica di essere « fedele strumento » della chiesa. Questo aspetto di coronamen­to di una vocazione, di raggiungimento della propria vera funzione da parte del- l’ACI è implicito nella maggiore accentuazione della definitività degli statuti rispet­to ad una loro possibile ulteriore perfettibilità. Eventuali « ulteriori modificazioni » potranno infatti essere « suggerite » come « opportune », quindi provocate da mu­tamenti esterni e non coinvolgenti i dati di fondo.L’accenno al « nuovo periodo di feconda operosità » sanziona poi autorevolmente le innovazioni organizzative e l’apertura di nuovi fronti delineatesi negli ultimi anni della guerra in parte per iniziativa spontanea di cattolici in parte dietro pre­cise indicazioni della gerarchia. Nell’enucleare i temi fondamentali di tale « rifor­ma » si precisano anche i limiti e la fisionomia delle nuove responsabilità:

[...] chiamati i Vescovi a condividere con Noi il governo di queste crescenti schiere di fedeli desiderosi di perfezionamento spirituale e di attività sociale; nuovamente affidate a diri­genti laici, opportunamente scelti, proprie e responsabili funzioni esecutive; impegnato il clero ad autorevole e ben distribuita missione di assistenza spirituale e morale; perfe­zionati gli organi direttivi dei vari gradi dell’intera amministrazione, aperta la possibilità di espansione con la creazione di nuove opere e l’adesione di nuove istituzioni; affermata legittima 1’esistenza di altre differenti associazioni cattoliche e promossa fra tutte una solidale fraterna collaborazione.Una razionalizzazione organizzativa dunque, richiesta dalla nuova situazione ed ac­compagnata da una redistribuzione delle competenze che ha il fine di « stabilire » « quell’equilibrio e quella vitalità che debbono caratterizzare movimenti nati dalla carità di Cristo e agenti nella sua Chiesa, e che ancor oggi ne dimostrano la perenne fecondità». I criteri dell’« equilibrio » e della «vitalità» hanno dunque presieduto alle suddette modificazioni. L’uso del primo termine è interessante poi­ché implica 1’esistenza di uno squilibrio nella precedente distinzione delle compe­tenze (senza peraltro specificarne la natura). Si delineano chiare le parti attribuite alle ripristinate dirigenze laiche ed all’autorità ecclesiastica: «funzioni esecutive» per le prime, « governo » per la seconda. La « missione » del clero è « autorevole », appartenente cioè, anche se mediatamente, all’area del « governo » e « ben di­stribuita», specificazione questa che rivela la necessità di una presenza dell’assisten­te a tutti i livelli dell’organizzazione M.« Vitalità » si traduce con « espansione » : le « crescenti schiere di fedeli », ora organizzate in modo « perfezionato », determinano la « creazione di nuove opere e l’adesione di nuove istituzioni». Il riconoscimento infine della «legittimità» de­gli organismi esterni all’Azione cattolica riconferma l’impressione già suscitata dal­lo statuto di una loro posizione subordinata rispetto ad un’AC i cui contorni si 44

44 Interessante a questo proposito la vicenda dello statuto delle ACLI, cfr. G. Pa sin i, Le A di delle origini, cit., pp. 48 sg.

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ampliano fino a comprendere ogni tipo di intervento, da quelio strettamente pa­storale a quello economico 6S.La lettera di Pio XII ha anche il significato di un appello rivolto alla globalità del mondo cattolico italiano : « un invito che si rivolge a tutti i buoni cattolici, vera­mente coscienti dei bisogni dei tempi, di dare alla professione della loro fede uno spirito operante e militante [...] e vedano i laici nell’Azione cattolica uno sti­molo a servire la Chiesa liberamente, ma con disciplina [...] ». Si tratta di una pre­cisa equazione: i tempi richiedono ad ogni cattolico di passare da un tipo di ade­sione individuale alla chiesa ad un altro, mediato dalla partecipazione ad un’orga­nizzazione precisa; PACI. Si consolida così in modo inequivocabile il suo titolo di « primogenita » e viene posta la premessa per un altro appello, certo più im­mediato e cogente, rivolto al clero : « Veda perciò il clero nell’Azione cattolica affermato il bisogno, reso impellente dalle condizioni della vita moderna e dalla scarsezza dei sacerdoti, di crearsi fra i laici collaboratori generosi, ed offerto il metodo ben provato per procedere alla loro formazione e alla loro organizzazione. » Più che un invito è un comando: debbono cessare tutte le resistenze che fino a quel momento una parte del clero ha opposto alla diffusione dell’ACI nel paese. Se i laici possono essere invitati e stimolati, i sacerdoti si trovano di fronte ad un preciso dovere reso ancor più impellente dal fatto di doverne rispondere al pro­prio vescovo. Non è un’attività facoltativa, ma parte integrante — e non poca — dei compiti di un curatore d’anime. Tale linea, portata avanti con estrema decisione durante l’intero pontificato di Pio XII, avrà pesanti conseguenze sullo sviluppo del­l’organizzazione, soprattutto in alcune zone del sud : ad un tesseramento in conti­nuo aumento corrisponderanno, per ammissione della stessa stampa interna, mol­to spesso associazioni fantasma, « gonfiate » da iscrizioni fatte d’ufficio dai parroci per evitare richiami dall’alto.Il pontefice si rivolge infine al « popolo intero » definendo la natura ed i confini dell’intervento civile dell’AC:

E vorremmo altresì che il popolo intero avesse a ravvisare nell’Azione cattolica, non già una chiusa cerchia di persone iniziate ad esclusivi ideali, ovvero uno strumento di sterile lotta o di ambiziosa conquista, ma piuttosto un’amica schiera di cittadini che hanno fatto propria la m aterna intenzione della Chiesa di tutti redimere e di garantire alla società l’insostituibile e indispensabile fermento della vera civiltà.

«Insostituibile», «indispensabile fermento», «vera civiltà»: queste le connota­zioni che rendono « amica » la schiera dei cattolici-cittadini riscattandone l’inter­vento da ogni critica. Dico cattolici-cittadini e non il contrario perché in questo passo l’azione civile non pare avere un’origine diversa ed autonoma dalla « ma­terna intenzione della Chiesa». Compito del cristiano e compiti del cittadino si sovrappongono in un orizzonte operativo che non ha confini come non ne ha la chiesa quando interviene autorevolmente in tutto ciò che riguarda il bene comune.Un’appendice alla lettera del papa è quella che il cardinale Piazza inviò il 20 otto­bre 1946 al neo-nominato presidente generale avvocato Vittorino Veronese, una comunicazione ufficiale che unisce a frasi di circostanza alcune ben calibrate indi­cazioni sulle qualità dei dirigenti ed i requisiti che essi debbono possedere per cor­rispondere alle attese del pontefice. Il dirigente di AC deve essere prima di tutto testimonianza vivente di incondizionata fedeltà alla chiesa. Solo subordinatamente a tale requisito avranno valore capacità culturali ed organizzative. Il compito che

65 Fra gli istituti aderenti possono esservi infatti « Istituzioni [...] di educazione, di propagan­da, di beneficienza, di credito e in genere di utilità sociale [...] » (St. 46, cap. I, art. 2, p. 8).

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la Santa Sede affida a Veronese è di vigilare che tale gerarchia di valori sia rispet­tata. L’« ufficio di grave responsabilità e di [...] impegnativo onore » 66 è quello di far sì che mai, a nessun livello dell’organizzazione, ma soprattutto al centro, l’opi­nione personale prevalga sul criterio dell’obbedienza e della fedeltà.Tutti questi temi vengono poi sviluppati con dovizia di citazioni e di puntualizza­zioni dall’assistente generale e da altri autorevoli ecclesiastici impegnati nell’Azione Cattolica. I loro articoli servono infatti agli assistenti periferici come sussidio per­sonale e strumento per le adunanze esplicative che essi a loro volta indicono alla base. Monsignor Borghino, vice direttore generale uscente, mette in evidenza nel suo contributo tre aspetti inerenti al rapporto clero-laicato, alla fisionomia del laico ed al suo ruolo nella chiesa ed alla configurazione complessiva del mondo catto­lico: la maggiore dipendenza dalla gerarchia, la nuova responsabilità dei laici, il coordinamento interno dell’AC e quello di tutto il mondo cattolico.La precisazione che gli eventuali mutamenti introdotti dagli statuti a tale riguardo debbono essere considerati mutamenti « di forma » e non « di sostanza », un « ag­giornamento » dei « suoi organi alle nuove funzioni » « mutate come sono le con­dizioni ambientali » 67 ridimensiona immediatamente attese di tipo diverso; nessuno dei « lineamenti sostanziali » dell’AC (che non significa necessariamente formula­zioni dottrinali) consolidati nel corso della sua storia e passati di volta in volta dal piano delle soluzioni contingenti a quello dei principi generali è stato infatti messo in discussione.

Nel nuovo statuto si pone in più evidente rilievo la dipendenza dell’AC dalla Gerarchia; ma questa dipendenza di filiale illimitata devozione e obbedienza è sempre stata ed è caratteristica essenziale dell’AC stessa, quale collaboratrice dell’apostolato gerarchico, e per intenderla rettamente giova ricordare che la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo stesso continuato e diffuso, e la Gerarchia continua per suo mandato la sua opera di Maestro, di Santificatore, di Pastore. Dipendere dalla Gerarchia dunque è dipendere da Cristo; collaborare con la Gerarchia è collaborare con Cristo e con Dio, onde l’Apo­stolo arditamente afferma: Siamo gli aiutanti di D io 68.

Il principio della corresponsabilità dei vescovi con il papa nel governo dell’Azione cattolica affermato nella lettera di Pio XII (« chiamati [...] a condividere [...] il governo ») non va interpretato alla luce del significato datogli dal Vaticano II. « Corresponsabilità » in questo contesto significa piuttosto « collaborazione ». L’apo­stolato dei laici dipende infatti in primo luogo dalla Santa Sede e, solo « in con­formità alle sue norme direttive » 69, da una commissione che rappresenta l’episco­pato italiano, e questo in conseguenza del processo di centralizzazione, culminato nella dichiarazione dell’infallibilità papale, che nell’ottocento portò alla concentra­zione della maggior parte dei poteri nelle mani della curia romana limitando dra­sticamente l’autonomia dell’episcopato, in particolare di quello italiano70. Anche i vescovi sono dunque, in linea di principio, esecutori delle direttive della Santa Sede, il tramite dell’unità fra il popolo fedele ed il capo della chiesa. Questo si verifica poi anche di fatto nell’allineamento pronto alle direttive romane docu­mentato dalle lettere pastorali dell’episcopato italiano che mettono in luce resisten­za di una solida ed omogenea piattaforma culturale e di valori71. I temi proposti

66 Lettera del card. Piazza all’avv. Veronese, in « Bollettino ufficiale dell’Azione cattolica italiana», settembre-novembre 1946, nn. 9-11, pp. 147-48.67 G. borghino, Il nuovo ordinamento deU’ACI, ibìd., pp. 133-40.68 Ibid., p. 134.6’ St. 46, cap. I, art. 5, p. 9.70 Cfr. Giovanni m icco li, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano I (1870) al ponti­ficato di Giovanni XXIII, in Storia d’Italia, voi. V, Torino, 1973, pp. 1536 sgg.71 Esempi molto significativi in questo senso, anche se per anni più recenti, in P. francescani di cittadella (a cura di), Lettere pastorali, Padova, 1960-64, 3vv.

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da Roma, siano essi spunti di spiritualità o direttive coinvolgenti la sfera politica, vi appaiono immediatamente ripresi e riproposti con variazioni insignificanti di so­stanza alle comunità locali. La « chiamata al governo » già implicita nella scelta di affidare ad una commissione episcopale la revisione degli statuti, perseguiva dun­que probabilmente l’obbiettivo di coinvolgere più strettamente i presuli nella pro­mozione dell’Azione cattolica e di prevenirne obiezioni simili a quelle già espresse nel 1939. Solo un episcopato attivamente e compattamente impegnato nell’attua­zione degli statuti avrebbe potuto garantire infatti l’adeguamento sollecito dell’Azio­ne cattolica al grado di efficienza ritenuto necessario nella nuova situazione.Ogni militante dell’AC dipende dunque, tramite il proprio vescovo, dalla Santa Sede ed in particolare dalla persona del papa. Tale vincolo di dipendenza è con­naturato alla sua vocazione di laico come il modo concreto in cui si esplica l’obbe­dienza a Cristo. In grazia dell’equazione Cristo= chiesa= gerarchia= papa (una sem­plificazione della Mystici Corporis che può essere rozza rispetto al contenuto del­l’enciclica, ma che rispecchia il tono di tante sue utilizzazioni) il rapporto fra il militante e l’autorità ecclesiastica non potrebbe, neppure in tempi diversi, in diverse « condizioni ambientali », non essere quello che è. Il presente statuto non ha fatto che evidenziare meglio tale realtà.Solo in seconda istanza e come di passaggio il commentatore illustra il nesso tra il « più intimo vincolo di filiale dipendenza » e le « mutate condizioni ambientali » :

Riflettendo poi alla singolare gravità dell’ora attuale in cui le forze deU’anticristianesimo, anche in Italia, muovono compatte all’aija//o totale contro la civiltà cristiana, si com­prende l’opportunità di rinsaldare sempre di più il vincolo che unisce l’AC alla Gerarchia per renderne più salda l’unità e più vigorosa l’efficienza72.

Tra le motivazioni che si situano sul piano del diritto e quelle basate sull’oppor­tunità storica si accentuano complessivamente le prime, ed è naturale se si pensa all’esigenza di evidenziare la rispondenza dello statuto all’« ideale » di azione catto­lica. Non si deve assumere però la secondarietà delle sollecitazioni contingenti come un’effettiva categoria d’interpretazione; il rapporto fra queste ultime ed il vario atteggiarsi delle « immagini ideali » è di stretta interdipendenza e deve essere valutato volta a volta più sulla base dei comportamenti concreti che su quella delle dichiarazioni di principio. In questo caso specifico del resto 1’« assalto tota­le », proprio perché tale, non minaccia soltanto lo spazio « esterno » di espressione della chiesa, ma la sua stessa consistenza e fisionomia : la « civiltà cristiana » non è infatti un’aggiunta, ma il naturale esplicarsi dei rapporti tra la gerarchia ed i fedeli, ciò che ora le « forze dell’anticristianesimo » vogliono sottrarle. Motivazio­ni « interne » e « storiche » contribuiscono infine oggettivamente a rinsaldare la direttiva predominante nel mondo cattolico in questi anni: l’unità d’azione.

11 laico, secondo una definizione coniata nel 1922 dal cardinale Gasparri73, è un « esecutore nell’ordine pratico ». A tale definizione si richiama anche monsignor Borghino continuando così : « Questi concetti vengono riaffermati nella lettera apostolica e nel nuovo ordinamento con le parole <funzioni esecutive [...]>. Questo non significa però <che i laici, chiamati nell’AC a prestare la loro collaborazione alla Gerarchia, non abbiano anch’essi le loro responsabilità di iniziativa e d’azio­ne) »74. Rispetto allo statuto del 1940 si registra una «restituzione» ai laici delle 12

12 G. borghino, Il nuovo ordinamento dell’Aci, cit., p. 135.73 p. gasparri, Lettera agli Ordinari d’Italia (2 ottobre 1922), in a.m . cavagna, Pio X I e l'Azione cattolica, Roma 1929, p. 332-33.74 G. borghino, Il nuovo ordinamento dell’Aci, cit. p. 136.

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« proprie responsabili funzioni esecutive », ma questa non implica il ristabilimento della situazione precedente (come sembrerebbe affermare l’uso della parola « nuova­mente »). La « responsabilità » dei dirigenti laici, richiesta da alcuni ambienti del­la GIAC, è interpretata qui in modo diverso e limitativo. Il laico è infatti respon­sabile in quanto esecutore nell’ambito di alcune competenze affidategli (e nelle quali ha dimostrato di ben meritare). Anzi, i « credenti [...] hanno il dovere di decidersi a compiere le opere a cui dalla Chiesa apprendono di essere obbligati » in ogni campo della loro attività affinché sia eseguito « il magnifico programma di lavoro da cui solo verrà la salvezza delle nazioni » 75.Monsignor Civardi aggiunge che

[...] la « restituzione » ai laici di un limitato potere deliberativo non implica una dimi- nutio capitis per l’alta direzione spettante all’autorità ecclesiastica. Poiché gli ordinamenti del 1946 hanno mantenuto sostanzialmente, a questo proposito, le linee degli ordinamenti del 1940 [...] Così che possiamo ben dire che nei nuovi statuti dell’Azione Cattolica Ita­liana le due direzioni — ecclesiastica e laica — trovano il loro perfetto equilibrio, il loro punto d’incontro in una coordinazione e subordinazione di competenze e di mezzi che costituiscono non solo una caratteristica, m a anche una forza dell’Azione C atto lica76.

Torna qui e si chiarisce il termine « equilibrio » come equilibrio fra due tendenze esistenti nella gerarchia in merito ai limiti della responsabilità laicale. Se alcuni ecclesiastici erano favorevoli -— per ragioni di principio o di opportunità — ad una delega più ampia al laicato, altri trovavano eccessiva persino la soluzione adottata negli statuti. « Vogliamo sottolineare questo concetto, perché da alcuni non è ancora sufficientemente compreso ed apprezzato, vedendo nella direzione dei laici quasi un assurdo giuridico ed un pericolo per la giurisdizione della Chiesa »77.Monsignor Civardi però, più che difendere l’orientamento dei fautori della respon­sabilità, tende a rassicurare gli altri volgendo decisamente a loro favore l’interpre­tazione di quell’« equilibrio » di cui la formula giuridica doveva essere espressione: « i laici dirigono, ma sono diretti. Ad essi viene affidata una direzione subordi­nata » 78.Ulteriori chiarimenti vengono dal significato che monsignor Civardi dà alla dire­zione dei laici « rettamente intesa » : « nient’altro che un’applicazione concreta, nel campo apostolico, di quel metodo attivo, che è tanto raccomandato nel campo educativo, e porta realmente abbondanti frutti, perché rispondente ad un’innega­bile legge psicologica » 79; non il riconoscimento di un diritto quindi, ma l’uso di un espediente pedagogico legato ad un momento particolare (e quindi revocabile a favore di altri «metodi»): l’eccessiva ingerenza del clero ora che le capacità di mobilitazione e di iniziativa del laicato sono necessarie, non è opportuna e po­trebbe persino essere dannosa. E « inopportuno » ed « illegittimo » sono due termi­ni di ben differente significato.

Anche l’unità trae origine, prima che dalle esigenze della situazione storica, da un « fatto di ordine spirituale » :

Questo carattere unitario, che è prima di tutto un fatto d’ordine spirituale, frutto della

75 Ibid., p. 137.76 L. civardi, La direzione dei laici nel nuovo statuto, in « L’assistente ecclesiastico », dicem­bre 1946, n. 12, pp. 297-98.77 Ibid., p. 297.78 Ibid., p. 298.79 Ibid., p. 298.

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vita divina che la pervade, forma delle varie schiere, una sola disciplinata milizia; dei vari rami un solo albero rigoglioso, ciò che è soprattutto necessario nell’ora attuale in cui anche le forze anticristiane si costituiscono in organizzazioni vigorose e com patte80.

La si sottrae così ad ogni storicizzazione e ad ogni critica. È un’unità che si con­figura come « milizia » (il che presuppone un nemico) o come « albero rigoglioso » (che necessariamente darà dei frutti), capace nella sua concretizzazione materiale di contrapporsi alle « organizzazioni vigorose e compatte » del nemico 81.Attorno all’Azione cattolica, che ne diventa strumento e centro, dovrà dispiegarsi poi l’unità di tutte le organizzazioni cattoliche. Trova così ulteriore sanzione il convincimento diffuso nell’AC di essere la guida designata ed il cuore del mondo cattolico secondo un progetto rimasto però inattuato per la resistenza delle altre organizzazioni anche quando sarà il pontefice stesso a rilanciarlo; alla crescente complessità di progetti di unificazione elaborati anche al di fuori dell’ACI corri­sponderà una generale tendenza centrifuga cui non si sottrarranno neppure le Opere, dipendenti strettamente e strutturalmente dal ramo che ne era stato pro­motore.L’articolo del nuovo assistente generale monsignor Urbani risponde alle obiezioni che un « lettore affrettato » potrebbe muovere « sembrandogli il nuovo ordinamento piuttosto complesso e troppo minuzioso, più geloso del passato che ardito verso l’avvenire. Che se il lettore fosse per di più ignaro della reale efficienza dell’ACI nelle sue forze e nei suoi organismi ed alquanto scettico delle sue possibilità di svi­luppo e di innovazione non sarebbe improbabile che fosse tentato di giudicare lo strumento [...] più atto a paralizzare che ad aiutare la mano chiamata ad adope­rarlo » 82. Sono obiezioni queste frequenti soprattutto fra il clero delle piccole diocesi cui sembra esagerata l’attuazione di una macchina tanto complessa: obie­zioni da prevenire perché presuppongono (anche al di là delle intenzioni soggetti­ve) la pretesa di operare una selezione nelle direttive di carattere organizzativo; se compimento di un impegno militante è l’azione cattolica questa dovrà essere attua­ta secondo tutte le modalità prescritte: deve essere l’ACI.Tradizionale è a tale riguardo il richiamo allo spirito dello statuto, alla libera accettazione cioè della disciplina: i sacerdoti si immedesimino nelle motivazioni che hanno ispirato la commissione e le facciano proprie.

Posto fra la Gerarchia che governa per mandato apostolico ed il laicato che eseguisce con proprie e responsabili funzioni, l’Assistente nello svolgimento della sua altissima e insostituibile missione spirituale e morale assicura all’Autorità ecclesiastica l’ortodossia del pensiero e la disciplina dell’azione, mentre conforta e sostenta i laici con la Parola della Verità e con il Pane della v ita 83.

L’assistente è dunque colui che vigila affinché lo « spirito » dello statuto sia com­preso ed accettato da laici, il primo esempio di docilità nei confronti della gerar­chia, e questa sua caratteristica è ancor più importante di quella di controllore dell’ortodossia, o meglio ne è la condizione. L’obbedienza forzata e meccanica di-

60 G. borghino, II nuovo ordinamento dell’Aci, cit., p. 138.“ La distinzione fra primario e secondario nel discorso sull’unità si può schematizzarecosì: l’unità, generata dalla comunione spirituale, è un dato costante; la sua forma materiale, il modo con cui essa si organizza, dipende dalle necessità storiche. In questo caso le esigenze della difesa dalle organizzazioni del «nemico» impongono un assetto determinato: 1’« esercito ».82 Giovanni urbani, La lettera e lo spirito in «L ’assistente ecclesiastico», dicembre 1946, n. 12, pp. 289-92 (il passo cit. a p. 289).83 Federico sargolini, Le funzioni dell’Assistente secondo il nuovo statuto, in « L’assistente ecclesiastico», dicembre 1946, n. 12, p. 293-96.

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struggerebbe infatti in breve tempo le associazioni, che si fondano sull’adesione volontaria dei soci, provocando pericolosi contrasti.

Nelle sue parole, nei suoi atteggiamenti e nei suoi consigli i laici vedono non il suo parere personale [...] bensì la volontà, il desiderio, le direttive delle superiori autorità [•••] Gli è affidato il compito delicato di trasmettere le prescrizioni e le direttive ricevute, sen­za aggiunte e senza diminuzioni, senza attenuarle e senza colorirle: egli dà per primo l’esempio di docilità filiale, di obbedienza pronta, devota e gioiosa, con la leale rinunzia ad ogni veduta personale.

È una descrizione dell’assistente strettamente funzionale alle esigenze di unità e dipendenza sopra individuate, ma non esaurisce certo quello che fu il suo ruolo reale nelle varie situazioni. Il graduale allontanamento dell’assistente dalle man­sioni direttive in senso stretto non aveva tolto nulla all’influenza reale del sacerdote nelle associazioni, specie giovanili, ed ai massimi livelli dell’organizzazione. Tutto ciò è previsto e desiderato, ma in linea di principo se ne vuole rimarcare l’atti­nenza alla funzione esecutiva, sia pure di grado maggiore. L’assistente svolge una preziosa funzione educativa tra i laici:

Naturalmente non è proibito ai laici di esprimere il loro parere con filiale franchezza, anzi bisogna desiderare che lo manifestino senza nessuna reticenza e con piena sponta­neità: m a quando l’A utorità, vagliate le proposte e i pareri, dà il suo giudizio, deve cessare ogni dissenso e si deve rinunziare con generosità al proprio punto di vista per eseguire senza riserve o restrizioni le sue norme direttive.

In questo consiste la maturità cristiana di cui l’assistente deve essere modello affinché i laici imparino a « sentire in ogni circostanza coi vescovi e col papa » e non subiscano il condizionamento di « correnti di ingiusta diffidenza ed ostilità contro di loro ».Grazie alla delega dei compiti più strettamente organizzativi ai dirigenti laici, il sacerdote potrà inoltre occuparsi con maggiore cura della formazione dei singoli, aspetto particolarmente importante soprattutto ai fini della formazione dei diri­genti. Di fronte agli impegni che TACI si è assunta è necessaria infatti una forte tensione spirituale e morale : « Bisogna aprire i vasti orizzonti della perfezione cri­stiana, sospingendo arditamente verso la santità, alla quale sono chiamati non solo i sacerdoti e i religiosi, ma anche i laici, e fra questi particolarmente coloro che han­no avuto la vocazione di far parte della milizia dell’ACI ».Questo è tanto più necessario quanto più incombe il pericolo che l’attivismo inari­disca la vita spirituale. Il tema dell’« eresia dell’azione » non è diventato ancora, come negli anni cinquanta, un motivo polemico: chi lo agita, come monsignor Urbani 84, si limita ad esternare preoccupazioni generate in lui dagli ultimi macro­scopici sviluppi organizzativi dell’ACI. Ma di crollo di « istituzioni prive di fon­damento » 85 non si può certo parlare nel momento in cui caso mai si registra a tutti i livelli la più entusiastica adesione alla linea d’intervento nella società che la chiesa ha indicato all’ACI.Gli statuti del 1946 sono dunque strettamente legati al più generale problema del delinearsi di un orientamento della chiesa italiana di fronte alla nuova situazione politica. Il periodo da prendere in esame è certo più ampio di quello che va dalla nomina della commissione episcopale all’approvazione pontificia e, prendendo le mosse dal famoso radiomessaggio del Natale 1942, si protrae — comprendendo 81 *

81 G. urbani, La lettera e lo spirito, cit., p. 289.85 Ibid.

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la prima applicazione degli statuti — fino alle elezioni del 1948 e alla rottura del­l’unità sindacale. Tale arco cronologico, ampio e denso di avvenimenti, vede un’evo­luzione nell’atteggiamento della Santa Sede e nelle valutazoni che essa esprime sulla situazione politica stessa. Il 1946 è un anno centrale in questa parabola, l’anno delle prime elezioni, dello svilupparsi di ampie lotte nel mondo contadino; è l’anno del tripartito e del maturare delle condizioni della sua fine. La prepara­zione degli statuti si situa dunque nel cuore di un momento estremamente fluido (da cui l’elasticità dello statuto) in cui già si delinea la gerarchia degli interventi per il movimento cattolico ed al suo interno la distinzione delle competenze.Questi alcuni dei fatti nuovi di cui la chiesa deve prendere atto e che incidono sulla sua linea apportandovi ulteriori modificazioni. Si tratta in primo luogo dell’af­fermazione del Partito comunista italiano in larghi strati del mondo operaio e, anche se in modo iniziale e limitato ad alcune zone, di quello contadino assieme all’accentuarsi dello scontro di classe; dell’insorgenza di un anticlericalismo che si pensava ormai debellato; è l’affermazione di un regime di democrazia rappre­sentativa che ridà peso ad una formula ritenuta spesso « rischiosa » quale il suf­fragio universale; sono i fermenti che portano a nuove realtà organizzative dentro e fuori del mondo cattolico.Una fonte tra le più adatte a seguire lo svolgersi di tali esperienze nel modo in cui furono percepite e giudicate dalla Santa Sede è l’organo dei gesuiti « La civiltà cattolica». Da un esame attento della rivista negli anni 1943-48 si evidenzia una linea di tendenza che potremmo definire schematicamente e con largo margine di approssimazione nel modo seguente : dalla terza via al baluardo. In altre parole, una serie di ipotesi desunte dal patrimonio tradizionale della dottrina sociale catto­lica — patrimonio che travalica i confini della chiesa italiana — che, implicando il tentativo di un superamento del binomio liberalismo-collettivismo, avevano reso il distacco della chiesa dal regime fascista qualcosa di diverso e di più di un sem­plice aggiustamento tattico, in quest’arco di tempo, attraverso il vaglio di determi­nate esperienze, vengono progressivamente messe in ombra a favore delle piùurgenti necessità della difesa da quello che dei due termini si ritiene il più imme­diatamente pericoloso: il comuniSmo.Ancor prima della fine della guerra l’instaurarsi di un assetto democratico veniva associato inscindibilmente all’idea di un pericolo: al possibile prevalere del ne­mico per eccellenza, il partito comunista. La constatazione deH’allontanamento delle masse operaie dalla chiesa era un fatto ormai acquisito con Pio XI, lo scon­tro coi socialisti un’esperienza già vissuta in passato che aveva reso gradita la funzione di argine svolta dal fascismo. La disgregazione delle basi di massa del regime, acceleratasi durante la guerra, ha fatto però sì che gradatamente un altro partito — erede di fatto dell’antico nemico socialista — inizi ad affondare le proprie radici nel paese incanalando lo scontento in una lotta che ha conno­tati ampiamente politici ed imponendo la propria egemonia su vasti strati dellapopolazione. Sono gli scioperi del marzo 1943 che per primi rendono evidente tale realtà. Non solo, ma gli sviluppi della lotta di liberazione, combattuta per lo più nelle campagne, favoriscono l’allargarsi di tale egemonia in tale settore rite­nuto tradizionalmente e solidamente cattolico, ma che già nel 1942 appare coinvol­to in un avanzato processo di scristianizzazione.L’individuazione del nemico fondamentale nel partito comunista, « intrinseca­mente perverso », è un dato costante ed indiscusso, come mai è posta in discus­sione la natura tattica del tema della « mano tesa » e della « democrazia progres­siva». La serie degli articoli di padre Lombardi, Inesperto» del settore ne «La