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Gotico italiano

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Francesco Paolo Cinconza, racconti gotici Quelle raccolte in queste libro sono storie dell’orrore. Ma sono anche incursioni nello spaccato quotidiano dell’Italia e dei personaggi, con difetti e virtù, che la popolano. Qui troverete mostri e morti viventi. Streghe e ghoul. Creature orripilanti, feroci assassini, cannibali e molto altro ancora. Ma anche le nuove e non meno terribili mostruosità che nei nostri tempi hanno visto la luce. Come i personaggi di questi racconti, dovrete affrontare il mondo del lavoro e quello del condominio. La superstizione e la passione sessuale. L’arrivismo e l’incompetenza. La curiosità e l’insofferenza. La pubblicità e la fobia per la notorietà. E non solo questo…

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In uscita il 30/5/2016 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2016

(4,99 euro)

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FRANCESCO PAOLO CINCONZE

GOTICO ITALIANO

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GOTICO ITALIANO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-994-4 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A Vincenzo, mio padre. A Guerrina, mia madre.

A Laura, mia sorella. C’erano loro quando tutto è iniziato.

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Vidi il finire di tutte le sue feste Perché sui suoi abitanti falciò la peste.

A nulla valsero meriti e bandiere E inutili furono le umane preghiere.

Dimmi lavoratrice senza compenso:

Di questa vita qual è il senso?

La Morte e il Buffone – ne Il Compendio di Santo Direttore (Anonimo)

Uomini. Non meritate la carne in cui siete scolpiti.

Il Cavaliere del Male (Ernest Dickerson)

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PARTE PRIMA

AUTUNNO

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LA CENA DI GIULIA (Racconto d’Autunno)

Il lato posteriore della casa era rivolto a nord. In piedi sulla veranda, con una maglia di lana posata sulle spalle e una tisana fumante alla mandorla e cannella in una tazza stretta tra le mani, Giulia lasciava va-gare lo sguardo nella luce grigia del tardo pomeriggio. Il giardino po-steriore si estendeva fino al basso recinto di legno con il cancello pe-rennemente aperto, oltre il quale diventava un campo che continuava ad allungarsi fino a digradare dolcemente e sparire sprofondando giù dalla collina. Alla destra del campo spiccava scuro un castagneto e alla sua sinistra, più lontano, un nuovo campo risaliva la seconda collina, sulla cui cima si stagliava la sagoma di una solitaria villa. A valle, alla fine del sentiero che da basso separava le due colline, invi-sibile alla vista di Giulia, si sviluppava il paese con le sue poco più di quattromila anime. Il cielo, quella sera, era in parte coperto da un fronte di nuvole massicce e scure. Giulia preferiva quel lato della campagna a quell’ora nelle giornate au-tunnali. Sebbene le foglie sugli alberi sfoggiassero colori che dal verde arrivavano al rosso e al marrone, passando per il giallo e l’arancione, e la luce dell’imminente crepuscolo incendiava quelle tinte avviluppan-dole in un fulgore vitale e sanguigno, lei preferiva le piatte tonalità del freddo nord che variavano monotonamente dal grigio al blu. Piuttosto che osservare attraverso le grandi finestre della biblioteca il tramonto incendiare il bosco a ovest della casa, trovava maggior piacere ad ammirare lo stinto panorama dalla veranda sul retro. La fioca luce fredda le trasmetteva un senso di quiete, di pace. Era come se tutte le tensioni del giorno, le pene, gli affanni, la stanchezza e le preoccupa-zioni perdessero peso in quello smorto lucore. Come se la gravità delle cose si appiattisse in un'unica assenza di colore. C’era tregua in quella luminosità tenue. Una figura emerse dal castagneto. Era pallida e nuda. Giulia non poteva distinguerla bene per via della penombra e della distanza, ma era abba-stanza sicura che si fosse fermata al limitare degli alberi e che stesse

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guardando verso di lei. La figura rimase immobile per qualche istante, come se stesse cercando di vederla o di ricordare qualcosa che era an-data perduta nella sua elementare memoria. Poi tornò tra i tronchi dei castagni e scomparve dalla vista di Giulia. Giulia finì di sorseggiare la sua tisana, prese un lungo respiro di aria umida della sera e rientrò in casa chiudendosi la porta a vetri alle spalle. Andò nella sala grande, dove al centro aveva preparato la tavola per la cena di quella sera. Il grande tavolo di legno, che uno zio di Fabio ave-va costruito anni prima, troneggiava nell’ambiente dalle pareti in mat-toncini rossi e dal soffitto in travi di legno. Nel camino in pietra, posto in un angolo, la fiamma viva del fuoco riscaldava la sala. Giulia controllò per l’ennesima volta che la tavola fosse in ordine. Il mollettone per attutire i rumori dei piatti, dei bicchieri e delle posate sulla superficie del tavolo. La tovaglia rossa con le bordature color oro perfettamente stirata e senza tracce di piega. I tovaglioli coordinati, piegati a triangolo e posti alla destra dei piatti. I bicchieri allineati dal più piccolo sulla destra al più grande verso sinistra. I sottopiatti di vetro ambrato con sopra un piatto piano quadrato nero e un centrino color panna nel mezzo per separarli. Alla sinistra un piattino di colore e for-ma uguale per accogliere il pane. Le forchette alla sinistra dei piatti con i rebbi rivolti verso l’alto e i coltelli a destra con la lama girata verso il piatto. Le posate da dessert sopra i piatti in posizione orizzontale. I se-gnaposti, due piccole spighe, una d’oro e l’altra nera, intrecciate tra loro e legate con un nastro giallo con su scritto, con la grafia elegante di Giulia, i nomi dei destinatari, posti in alto a destra dei coperti. Due composizioni di saliera e pepiera a foggia di carro di legno. Due piccole brocche di vetro lavorato contenenti una aceto e l’altra olio. Due cande-lieri per singola allocazione con alte candele nere ancora spente. Posti su piattini dorati brillavano alla luce tremolante del fuoco due de-canter nei quali riposava, scuro dai riflessi rubini, del Saint-Emilion in-vecchiato di dodici anni. Sì, poteva essere soddisfatta. Andò in cucina dove a fuoco lento il suo menù per quella sera cuoceva e si amalgamava nei suoi bilanciati sapori. Lasciò la tazza vuota nel la-vello e salì in camera per prepararsi. Si cambiò indossando una gonna lunga color nocciola e una camicia marrone. Pensò di pettinare in qualche modo i capelli biondi e corti, ma alla fine decise di limitarsi a una poderosa strapazzata con una mano. Indossò dei sandali e tornò dabbasso.

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Gli ospiti arrivarono a partire dall’ora successiva. I primi, salendo dal viottolo che tagliava a sud la collina, furono don Claudio, il parroco dell’unica chiesa del paese, e Aurora. Vennero con il SUV grigio chiaro di Aurora. Giulia li accolse nel patio che precedeva l’ingresso. Don Claudio vestiva la Talare, era un uomo di media altezza con i capelli grigi perfettamente pettinati con una scriminatura a sinistra. Paffuto nel corpo quanto nelle guance cascanti, aveva occhi neri e profondi dietro grandi occhiali dalla montatura rotonda poggiati su un naso fino e un po’ lungo, in contrasto ai tratti rotondeggianti della sua fisionomia. Sa-lutò Giulia prendendole le mani e avvolgendole nelle proprie. «Giulia, mia cara. Quanto tempo. È dal funerale che non ci vediamo» disse con voce calda e morbida come la stretta delle sue mani. «Troppo tempo», rispose Giulia, «lo so. Ho avuto bisogno di solitudine e di stare un po’ con me stessa». Sorrise al prelato e nei suoi tratti, allo-ra ulteriormente ingentiliti, apparve sollievo. Don Claudio lo percepì e ne venne riscaldato. Ricambiò il sorriso e strinse dolcemente le mani di Giulia. Poi la lasciò ed entrò nella casa. Aurora aveva trentaquattro anni, il volto dai tratti proporzionati e gra-ziosi, e un corpo massiccio e sovrappeso. Indossava un vestito da sera in raso verde scuro che le lasciava in vista un abbondante décolleté, parzialmente celato da una sciarpa fumosa e da un bolerino scuro. Por-tava i capelli lunghi e castano scuro tirati indietro e raccolti in alto, fermati da un pettinino ornato da motivi floreali. Dalla spalla destra pendeva una pochette lucida e nera. Era la figlia di uno dei due notai del paese ed era anche il sindaco. Abbracciò Giulia e le sussurrò nell’orecchio la stessa cosa che Giulia ricordava di averle sentito dire l’ultima volta che l’aveva vista circa tre settimane prima: «Mi dispiace, Giulia, mi dispiace». Un groppone si fermò nella gola di Giulia e due solitarie lacrime le i-numidirono gli occhi. Represse il pianto con un lungo e lento respiro, un esercizio che ormai aveva imparato efficacemente, e restituì la stret-ta ad Aurora. Le due donne sciolsero l’abbraccio e Aurora raggiunse don Claudio all’ingresso. La seconda macchina arrivò subito dopo. Parcheggiò accanto al SUV e ne uscirono Mia e Maurizio. Mia era la pediatra del paese e aveva soli trentuno anni. Piccola e dal fisico asciutto, aveva due grandi occhi color nocciola e la bocca piccina, nonostante le labbra piene. Portava i capelli neri più corti di quelli di Giulia. Sulla fronte spaziosa svettava una

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frangetta corta. Ai lati della bocca e sul mento minuto le fossette le ad-dolcivano ulteriormente i tratti. Baciò Giulia sulle guance e la ringraziò dell’invito. Mentre passava oltre, fu la volta di Maurizio di salutare Giulia. Era un uomo sulla quarantina, ma l’aspetto sciatto e palesemen-te trascurato lo facevano sembrare più vecchio di almeno quindici anni. Una barba corta e grigia gli copriva le guance molli e, senza particolare successo va detto, il doppio mento. I capelli radi e grigi, di solito sfug-genti a qualsiasi ipotesi di ordine, quella sera erano pettinati all’indietro e fissati con il gel. Almeno, nella clemenza connaturata in Giulia, lei sperò che fosse gel. Maurizio era un costruttore e la sua era tra le attivi-tà più floride della zona. Quella sera indossava un elegante vestito completo di gilet e cravatta sorprendentemente abbinata su una camicia celeste pallido. Prese una mano di Giulia e si chinò su di essa esibendo-si in corretto baciamano. La terza macchina con l’ultimo ospite arrivò e parcheggiò dietro quella di Maurizio. Giulia sentì il cuore stringersi nel proprio petto nel vedere Chiara che ne scendeva. La ragazza raggiunse Giulia e si fermò davanti a lei senza dire una pa-rola. Era più magra dell’ultima volta che l’aveva vista e i lunghi capelli castani, cresciuti fino a scenderle alla vita, accentuavano ulteriormente quell’aspetto emaciato. I suoi occhi grandi e verdi, sorprendentemente identici a quelli di Fabio, erano velati di tristezza. Fissavano quelli di Giulia senza apparentemente raggiungerli per davvero. Sebbene le due donne fossero a poco più di due metri di distanza l’una dall’altra, un profondo e gelido abisso le separava. Chiara era la figlia di Fabio e del-la sua prima compagna e non aveva mai legato con Giulia. Dalla morte di Fabio le cose erano peggiorate, non solo tra loro, ma anche tra Chiara e il resto del suo mondo. Aveva trasformato il dolore e la non accetta-zione in una sorta di corazza che lasciava tutti fuori da lei e nel con-tempo la soffocava nella sua stretta. Non era più tornata nella casa del padre dopo la sua morte, anche se legalmente aveva il diritto di viverci. E non aveva più parlato a Giulia, negandole anche quelle poche frasi di circostanza che prima riusciva a concederle per amore del padre. «Sono felice che tu sia venuta» le disse Giulia. Si sorprese di come quelle parole gli fossero uscite di bocca mentre ancora stava pensando a cosa dirle. Aveva immaginato da tanto tempo quel momento e aveva elaborato e scartato più volte cosa dirle quando l’avesse rivista.

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Chiara rimase impassibile e non rispose. Il filo di trucco che le faceva risaltare i giovani lineamenti non riuscivano a celare minimamente la profonda malinconia che la tormentava. Giulia provò il desiderio cocente di annullare quella distanza che la se-parava da Chiara e avvolgerla nel suo abbraccio. Di posare il suo cuore sul suo. Di condividere con lei l’amore inestinguibile che ancora la le-gava a Fabio. Di mescolare le sue lacrime con quelle di lei. Avrebbe voluto strappare via da Chiara quel dolore che la imprigionava e di cui lei stessa non ne capiva appieno l’origine. Avrebbe voluto liberarla, in quello stesso momento. Ma non lo fece. Rimase lì, al suo posto, con una mano nell’altra, a tremare leggermente per la forza di quell’emozione che non trovava la strada per uscire, in attesa di una risposta che sapeva non avrebbe avuto. Non era così che dovevano andare le cose quella sera. «Posso entrare?» chiese Chiara con voce priva di ogni emozione. I suoi occhi e la sua espressione non tradirono un minimo cenno di cedimen-to. Per Giulia fu come se l’avesse schiaffeggiata. Ricacciò nel profondo del suo cuore l’impulso che poco prima l’aveva quasi fatta sciogliere. «Certo, questa è casa tua» le rispose e si fece da parte per farla passare. Raggiunsero gli altri ospiti che nel frattempo si erano radunati all’ingresso. Mia osservava i tomi nella libreria che scorreva lungo due delle pareti dell’ampio ambiente. Faceva scorrere le dita sulle coste e ne leggeva i titoli. «Prego, da questa parte» disse Giulia e fece strada fino alla sala dove aveva apparecchiato. Fece accomodare suoi ospiti. Don Claudio a capotavola, alla sua destra Aurora e a seguire Chiara. Mia e di seguito Maurizio alla sinistra del prete. Giulia lasciò per sé il posto all’altra estremità della tavola. Men-tre gli invitati prendevano posto, Giulia accese le due candele con un lungo fiammifero da camino e andò a prendere due caraffe d’acqua in cucina. Don Claudio recitò una breve preghiera di ringraziamento, al termine della quale Giulia prese gli antipasti. Servì delle piccole bruschette all’aglio e olio, al pomodoro e basilico e alla crema di carciofi, assieme a un piatto di bottoni di taleggio e gor-gonzola con miele, noci tritate, bresaola e pera.

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I commensali gradirono l’antipasto che, assieme ai primi assaggi di vi-no e al calore del fuoco, contribuì non poco a sciogliere l’atmosfera. Aurora si complimentò con Giulia per la casa, per il suo ordine e per la sua bellezza. Non l’aveva mai vista da dentro, ma sapeva che la fami-glia di Fabio era composta perlopiù da artigiani e muratori e che aveva-no sempre costruito e curato personalmente le loro abitazioni. Giulia ringraziò Aurora e rivolse lo sguardo verso Chiara per estendere a lei il complimento, ma questa sembrò non averlo neanche sentito. Se ne sta-va in silenzio, perduta nel suo labirinto emotivo, a giocare con la for-chetta con il cibo nel piatto senza neanche assaggiarlo. Aurora chiese un parere professionale a Maurizio riguardo la casa, ma lui, impegnato a iniziare a sorseggiare il secondo bicchiere di vino, si limitò ad annuire con quella che, con un minimo di fantasia, poteva es-sere un’approvazione. Seguì il primo, un risotto al tartufo bianco e robiola fusa. Don Claudio chiuse gli occhi e si sporse sul piatto fumante. Inalò, con quel suo naso che sembrava gli fosse stato trapiantato da un volto molto meno pingue del suo, il profumo della pietanza. «Che armonia di fragranze. Mia cara, tu devi essere una cuoca eccezio-nale». «Sono felice che le piaccia il profumo. Le confesso che cucinare mi ap-passiona, ma è sul sapore che mi deve dare il suo giudizio» rispose Giu-lia. «Tartufo bianco. Questa non è zona di tartufi e questi direi proprio che sono di buona qualità. Non certo roba che si trova al supermercato. Posso chiederti dove li hai rimediati?». «Ho ancora contatti con alcuni degli ex clienti di Fabio. Questi vengono da Alba». Mia assaggiò la pietanza e mugolò letteralmente di piacere. «Buonissimo, Giulia sei davvero brava». Mangiarono il risotto conversando sui prossimi programmi della par-rocchia e della giunta comunale. Don Claudio raccontò un paio di a-neddoti sui suoi parrocchiani che strapparono più di una risata agli altri commensali. Il vino veniva versato nei bicchieri dal lungo collo e spa-riva quasi subito dopo. Aurora narrò alcune vecchie storielle buffe ac-cadute a compaesani ormai anziani. Tutte storie veramente accadute, giurò, apprese da sua nonna materna. E quella era una fonte che crede-va che le bugie fossero i pungiglioni del diavolo.

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L’atmosfera, con il protrarsi della cena, continuò a mitigarsi e una leg-gera allegria prese a contagiare i presenti che mangiavano, bevevano e ridevano sempre più di gusto. Facevano eccezione Maurizio, che pur essendo una buona forchetta era notoriamente un uomo poco avvezzo all’umorismo, e Chiara, con palesemente nessun interesse per il cibo e tantomeno per la conversazione. «Hai deciso cosa ne farai del porcile?» chiese a un certo punto Mia. Giulia cercò ancora una volta, e ancora una volta senza successo, lo sguardo di Chiara. Benché la giovane se ne disinteressasse, tutto di quella proprietà apparteneva sia a Giulia sia a Chiara. Il tribunale dove-va ancora deliberare quanto in misura della prima e quanto della secon-da. «Ancora non lo so», rispose Giulia, «ci sono ancora molte cose da fare, da chiarire, prima di prendere qualsiasi decisione». Fabio teneva moltissimo al suo allevamento di maiali. Ci aveva investi-to tutta la sua energia e tutti i suoi risparmi. Fino a sei mesi prima della sua morte, aveva trentadue maiali, tra verri, scrofe e lattonzoli, nella sua porcilaia. «È stato un periodo difficile» ricordò con una nota solenne nella voce Don Claudio. Giulia sapeva bene quanto fosse stato difficile quel periodo. C’era stata l’epidemia. Improvvisa, inspiegabile. Una mutazione del DFTD, avevano decretato dopo una lunga serie di ricerche e analisi i veterinari e gli ispettori sanitari arrivati dalla città. Il tumore facciale del diavolo. Un raro cancro trasmissibile non virale che colpiva sola-mente i diavoli della Tasmania, un mammifero marsupiale che vive allo stato brado solo in Australia. Fino ad allora, almeno. Il cancro, senza che nessuno avesse capito co-me, aveva iniziato a colpire i maiali di Fabio. Non c’era cura che potesse salvare gli animali. Con un decreto ingiuntivo era stato ordinato a Fabio di abbattere tutte le sue bestie. Era stato un duro colpo per lui. Ma, purtroppo, non il solo. Il vitigno che aveva ereditato dal padre e i cui filari scendevano dal lato est della collina, dove sorgeva la casa, per quasi cinque ettari, aveva prodotto uva che era marcita prima che potes-se essere colta. Non si era riuscito a capire come questo fosse stato possibile.

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In paese nessuno ricordava che un episodio simile fosse mai accaduto in passato. C’era chi dava la colpa all’acqua, chi ai diserbanti, i più ol-tranzisti additavano le scie chimiche degli aerei che solcavano i cieli sopra la regione. Ma altri, i più anziani, erano rimasti taciturni, rifiutan-dosi di commentare l’accaduto, dando con il loro silenzio credito a teo-rie più antiche e oscure. Storie che circolavano nei recessi della loro i-gnoranza e che ammutolivano tutti coloro che al calare della notte non si fossero trovati in compagnia attorno al fuoco di una casa con le fine-stre ben chiuse. Vecchie credenze sussurrate di giorno e racchiuse di notte in gabbie di preghiere e riti pagani di liberazione e protezione. Più prosaico, ma altrettanto dannoso, fu inoltre l’atteggiamento della banca del paese, che non solo rifiutò a Fabio nuovi finanziamenti, ma revocò il fido fino ad allora concesso. Fabio tentò con le altre banche, ma tutte gli chiusero le porte in faccia una volta accertato il suo rischio di insolvenza. Giulia scorse velocemente, nella riservatezza dei suoi ricordi, i momen-ti più cupi di quei giorni. Lo sconforto, la fiducia che giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, scivolava via da Fabio come acqua tra le dita di una mano. La sconfitta e la rassegnazione che crescevano in lui come un cancro. Le parole di conforto che non le erano mai mancate per lui e quelle di speranza che erano finite per lei. Poi il silenzio, sem-pre più assordante. La chiusura, l’isolamento. La discesa irrefrenabile verso la sconfitta e il fallimento. Ripensò a tutto questo e celò il dolore che ne scaturì dietro il sorriso cortese che rivolse ai suoi ospiti. «Scusatemi, vado a prendere dell’altro vino» disse e si alzò. «Ti di-spiace venire a darmi una mano», aggiunse, rivolgendosi a Chiara. La ragazza apparve per un attimo confusa, come se non avesse capito la richiesta, poi seccata, ma alla fine posò sul tavolo il tovagliolo che te-neva sulle gambe e si alzò a sua volta per seguire Giulia in cucina. «Dobbiamo parlare» le disse una volta rimaste sole. «Non c’è nulla di cui parlare» rispose piatta Chiara. «Invece sì, Chiara, ci sono molte cose che devi sapere riguardo tuo pa-dre». «Tu non devi dirmi niente di lui. Tu non devi nemmeno parlare di lui». «Chiara, lo so che non ti sono mai piaciuta, ma credimi è importante quello che devo dirti». «Puoi tenerti la casa e tutto il resto. A me non interessa». «Ma come puoi pensare che si tratti di questo? No, il vero motivo è…».

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«Dov’è il vino?». Non fu l’interruzione di Chiara che le smorzò in gola quanto stava per dirle, ma fu il suo sguardo. Spento, lontano, disperato. Così simile a quello di Fabio pochi giorni prima che si immergesse nella vasca da bagno piena di acqua calda e si tagliasse le vene morendo dissanguato. Giulia capì che ogni possibile accesso a Chiara era del tutto precluso. Quegli occhi gliene davano inappellabile certezza. «È in cantina, prendi una bottiglia di Sangue di Moro d’Alba». Chiara raggiunse la porta che dalla cucina portava alla cantina e scese le scale. Giulia ebbe voglia di piangere. Gli sembrava di rivivere quella struggente impotenza che l’aveva ferita solo pochi mesi prima. Ma non lasciò che il dolore la pietrificasse svuotandola delle sue energie. Non lo permise. Afferrò un grande coltello da cucina e seguì Chiara in cantina. Dopo meno di dieci minuti Giulia risalì in cucina con la bottiglia di vi-no in mano. Chiuse la porta della cantina e andò all’ingresso. Aprì la porta e una fi-nestra e lasciò che il venticello umido e mite che tutte le sere, dopo il tramonto, in quel periodo dell’anno soffiava da sud - come più volte in passato gli aveva mostrato Fabio - le accarezzasse il volto surriscaldato e il corpo tremante e che invadesse tutta la casa. Poi andò alla veranda sul lato posteriore e spalancò la porta a vetro cre-ando una corrente che attraversava gli ambienti. Tornò in sala e posò il vino in tavola. La conversazione aveva ora come oggetto la politica e l’economia con i suoi ultimi incerti sviluppi. «Chiara si scusa, non si sente molto bene. Ha preferito andare a riposa-re nella sua stanza» mentì mentre stappava la bottiglia. «Povera piccola, è sempre così triste da quando suo padre…» Don Claudio lasciò sospesa la frase scuotendo mestamente la testa. «Mia cugina vive nello stesso palazzo dove alloggia anche lei. Giù, in paese. La incontra spesso e mi racconta che ogni giorno che passa sem-bra che qualcosa di lei se ne sia andato via. Dice che è come se si stesse svuotando un poco alla volta» commentò Aurora. «Torno subito» disse Giulia mentre toglieva i piatti del primo e tornava in cucina. Tornò pochi minuti dopo servendo del capaccio al tartufo nero, patatine novelle al vino rosso, una composizione di verdure grigliate e cipolline borettane all’aceto balsamico. Fu accolta con unanime approvazione e autentici mugolii di gradimento.

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La conversazione si fece meno fitta, tant’era impegnativa la nuova prova di degustazione. Ci furono sinceri e sentiti nuovi complimenti per il riconfermato talento culinario di Giulia. Nessuno diede segno di non apprezzare le pietanze dai gusti decisi, ma misuratamente miscelati. «Ti interessi di stregoneria?» chiese a un tratto Mia rivolgendosi a Giu-lia. «Mia, ma che razza di domanda fai?» disse Aurora, sorpresa. «È solo una domanda. Non ti disturba Giulia, vero? È che ho notato al-cuni libri in materia nella libreria all’ingresso. IL VASSALLO E LA PUERPERA di Agostino De la Guerre, CONSIDERAZIONI SULLA STAFFA DELL’ASTROLOGO di J.C. Quatermass, IL COMPENDIO DI SANTO DIRETTORE, IN ALTO COME IN BASSO di Imogene Vargas, CORPUS HERMETICUM di Ermete Trismegisto. Una serie troppo corposa per essere una casualità. Non ti pare?». «Conosci bene quei libri», rispose Giulia dopo aver finito di sorseggiare dell’acqua, «sicuramente più di me. Non sapevo neanche che trattassero di stregoneria. Comunque non sono miei, appartenevano a Fabio». «Stregoneria, metafisica, occulto e altre discipline blasfeme», interven-ne don Claudio, «conosco alcuni di quei titoli. Sciocchezze per vecchie comari di cui il paese di certo non difetta». «Mio padre era bibliotecario in città», proseguì Mia, «pertanto i libri erano spesso materia di conversazione in casa mia, inoltre il nostro è un paese dove ancora, e qui don Claudio potrà confermare, vive la super-stizione dietro l’apparente facciata di modernità. Lo sai cosa si diceva in giro di Fabio e della sua famiglia?». Giulia non rispose, ma sotto il tavolo stringeva talmente forte il tova-gliolo che le nocche delle sue mani si erano sbiancate. «Credo che sia il caso di cambiare argomento, Mia», si intromise Auro-ra, «non mi sembra di buon gusto da parte tua…». «Che erano streghe. Che lo erano da tempi antichi. Che la sua famiglia e qualche altra tra le più vecchie hanno per secoli dominato i destini degli abitanti del nostro paese. Decretando fortuna per alcuni, dispera-zione per altri…». «Adesso basta Mia» protestò don Claudio. «…che una volta rimasti in pochi il loro potere si è rivoltato contro loro stessi…». «Fesserie» commentò Maurizio continuando a mangiare e senza alzare lo sguardo dal suo piatto.

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«…che la sfortuna destinata ad altri si sia ritorta contro loro stessi. Con-tro lui stesso…». «MIA» urlò sdegnata Aurora. «…e che ora, dopo la morte di Fabio, l’ultima strega rimasta è Chiara. O forse non l’ultima. Tu sei per caso una strega, Giulia?». Cadde uno strano silenzio nella sala. Mia teneva il bicchiere del vino vicino alla sua faccia e lo faceva girare con aria sorniona nella sua mano. Il vino le aveva macchiate le labbra che ora avevano assunto un colore scuro, di fegato. Davano un tocco sporco al piccolo bocciolo della sua bocca fino ad allora grazioso. Giulia teneva le mani serrate e se non ci fosse stato il tovagliolo e pro-teggerli, avrebbe affondato le unghie nei suoi stessi palmi. L’unico che sembrava essere esente dalla strana atmosfera che si era creata era Maurizio che continuava a mangiare lentamente, ma senza posa. «Mi sembra proprio che tu abbia esagerato, Mia. Stai rasentando la ma-leducazione, io credo che tu ti debba scusare con la nostra ospite» disse don Claudio rompendo il pesante silenzio. «E perché dovrei, si sta solo parlando. Tutti noi sappiamo le storie del paese e le cose a cui la gente crede», poi rivolgendosi a Giulia, «di te non sappiamo nulla. Tu vieni da fuori, per noi non hai passato. È da quando sei arrivata tu che le cose per Fabio sono cominciate ad andare male. Prima tutto filava liscio. Poi, una disgrazia dopo l’altra. E alla fi-ne eccoti qui, padrona unica della magione. Signora della casa e dei suoi confini». Sollevò il bicchiere verso Giulia. «Complimenti, mia cara. Bel colpo davvero». Tracannò in un unico sorso il vino emettendo un rumore liquido, sgra-devole. Poi si asciugò la bocca con il dorso della mano e ruttò plateal-mente. Fu un gesto volgare, esagerato. Inaspettato. «Dimentichi Chiara» notò Aurora. Giulia scorse una macchia untuosa di condimento sopra la porzione di un seno lasciato libero del generoso decolté. Un frammento di cibo scivolò sull’olio e scomparve all’intero della scollatura lasciandosi dietro una scia di grasso. L’immagine la di-sgustò e voltò lo sguardo. «Ah già, la piccola, povera, malinconica Chiara. Una concorrente al la-scito. Chissà, cara Giulia, magari non è una strega esperta e forte come te. Magari hai in mente di sbarazzarti di lei. Già, perché non ci ho pen-sato prima? Senti che bella idea, mia cara Giulia, tu la elimini e ti pren-

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di tutto». Allargò le braccia a indicare la validità del suo pensiero: «u-nica erede universale». «Ma che razza di idea» disse don Claudio. Aveva uno strambo sorriso in faccia che gli dava un’aria innaturale. Rapace. Giulia sentiva la testa girarle, come se avesse bevuto troppo vino e se l’aria si fosse improvvisamente impoverita di ossigeno. «Magari, l’ha già fatto», disse Aurora, «potrebbe averla avvelenata. Stasera stessa. Con questa splendida cena. E potrebbe aver avvelenato tutti noi». Esplose in una fragorosa risata. Batté la mano sul tavolo tre volte, divertita dalla sua stessa conclusione. Giulia sentiva le braccia e le gambe intorpidirsi. Le mancava l’aria e la vista gli giocava degli scherzi. Gli sembrava che don Claudio, seduto di fronte a lei, si trovasse in fondo a un tavolo molto più lungo del suo. La luce nella stanza pareva che si fosse abbassata e che sui volti dei suoi ospiti ci fossero ombre che poco prima non c’erano. Gli occhiali di Don Claudio si reggevano sulla punta del suo naso, ma le stanghette non arrivavano più alle orecchie. «Cielo», fece falsamente divertita Mia, «ma allora se hai ragione, vuol dire che stiamo tutti per morire». Gli occhi di Mia sembravano essersi ingranditi. Spiccavano privi di ci-glia e luminosi sul suo minuto volto celato da un’ombra. Forse era solo uno scherzo delle luci, ma c’era qualcosa di orribile in quelle sue fat-tezze. «No, non tutti, Giulia ha mangiato poco o niente e i suoi piatti erano, come dire, meno colorati dei nostri. Meno conditi, direi». Don Claudio gli fece un occhiolino e sollevò le labbra da un lato, scimmiottando un’espressione di complicità. «L’ho notato per tutta la serata». «Posso servirmi altre cipolline?» chiese Maurizio e senza attendere ri-sposta si servì dal piatto da portata. Non pareva interessato a quanto stava - o non stava, perché Giulia cominciava a dubitare di ciò che ve-deva - accadendo in quella sala. «Cerrrrto», esordì Aurora, «lei non ha ingerito il veleno. E nemmeno Chiara. Anche lei non ha praticamente mangiato nulla». Mia emise un acuto verso di trionfo, simile a uno squittio amplificato, e prese a battere le mani divertita. «È vero, ora ci sono. L’hai portata di là con la scusa del vino e l’hai ammazzata in cucina. Visto che non sei riuscita ad avvelenarla, l’hai dovuta sopprimere in qualche altra maniera. Ma tu sei un genio, cara Giulia».

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«A pensarci bene, Mia, il tuo ragionamento mi colpisce. Mi sa che hai ragione». Don Claudio si rivolse poi a Giulia. «Dicci Figliuola, aprici il tuo cuore. Confessati a me che custodisco tut-te le anime di questo piccolo, ma con grandi potenzialità, paese. Sei tu forse una strega?». Giulia non poteva rispondere. Si sentiva debole, incapace di muoversi, di parlare. Era seduta, appoggiata sullo schienale, con la mente lucida e il corpo distante e sordo a ogni suo comando. Vedeva i volti di don Claudio, di Aurora e di Mia che la fissavano. Erano immobili. Troppo immobili. Sembravano congelati nei loro ghigni pieni di malvagia bra-mosia. Erano morti che imitavano i vivi. Era il vuoto che recitava l’allegria. Solo Maurizio non la stava guardando. Continuava a mangiare con la sua consueta flemma e metodica. Giulia avrebbe voluto distogliere lo sguardo da quei volti orribili e in-quietanti, ma anche se avesse potuto, non lo avrebbe fatto. Non avrebbe voltato le spalle a quegli esseri. «No», disse Don Claudio dopo un periodo che per Giulia fu infinita-mente lungo. «Tu non sei una strega. Non appartieni al male e alla cor-ruzione. Ci sono ombre in te, ma infine appartieni alla luce». «È deciso, quindi, la nostra Giulia qui non è una strega. Evviva». Mia prese ad applaudire. Aurora e don Claudio si unirono a lei. All’improvviso Mia afferrò un coltello dal tavolo e con un movimento rapido e preciso lo conficcò in un orecchio di Maurizio. Questo si irri-gidì di colpo, emise un verso strozzato di dolore sputando sulla tovaglia pezzi di cibo masticato, cercò di alzarsi e ricadde subito sulla sedia. Cominciò a muoversi in preda a convulsioni rovesciando sulla tavola piatti e bicchieri. Gli occhi spalancati pieni di sorpresa e paura. Giulia sentì il proprio corpo venire attraversato da una sferzata di puro panico. Cercò di alzarsi dalla sedia, ma aveva gli arti come fatti di stracci. Cercò di urlare riuscendo solo a emettere un debole lamento. «Però continuo a dire che la nostra ospite si intende di stregoneria», disse Mia con la voce che sembrava salita di tono, con qualcosa di ma-schile quasi, «e neanche poco, direi». Maurizio gorgogliava e aveva lo sguardo fisso in avanti. Era in preda a forti spasmi. Il manico del coltello e una parte della lama sporgevano

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dell’orecchio. Il sangue gli colava sulla guancia fino a scurirgli la giac-ca e la camicia. «Pane, olio e sale. Offerto a una strega. E questa non lascerà più la tua casa» disse Aurora. «Acqua e vino, come il sangue di Cristo nell’eucarestia, offerto a una strega. E questa si rivelerà a te» aggiunse don Claudio. «Metti una strega con le spalle rivolte a nord, essa risponderà a ogni tua domanda. Metti una strega con le spalle rivolte a est, essa ti scambierà per una sua sorella. Metti una strega con le spalle rivolte a ovest, essa dimenticherà la sua magia» proseguì Aurora. Maurizio emise un verso asciutto, rovesciò gli occhi all’insù, e infine crollò a faccia in giù sul tavolo. Cadde con la parte del manico del col-tello in avanti e questo sprofondò di più nella sua testa. Non si mosse più. «La disposizione dei nostri posti non è casuale, vero? Le mie spalle sono rivolte a est». «Le mie a nord» aggiunse don Claudio. «E le mie a ovest» concluse Aurora. Mia fece per alzarsi dalla sedia e un attimo dopo il suo volto era davanti a quello di Giulia. Più che vederlo, Giulia aveva percepito il suo movi-mento. Era come se per un istante si fosse accelerato, appena percettibi-le dall’occhio. I suoi lineamenti erano quelli di sempre, eppure qualcosa era cambiato in lei. Intravedeva, nei suoi tratti, un’antichità selvaggia. Pagana. Giulia sentiva il cuore batterle nel petto e nelle orecchie talmente forte che credette che fosse udibile da tutti nella stanza. Si sentiva impotente e minacciata. Mia la fissò per alcuni istanti, con occhi talmente freddi che sembrava-no di vetro, poi iniziò a cantilenare: «Brucia la strega, brucia la strega, brucia la strega, brucia la strega». Prese a ballare per la stanza continuando a cantare. «Brucia la strega, brucia la strega, brucia la strega, brucia la strega». La sua voce diventava sempre più acuta, simile a quella di una bambi-na. O di una vecchia. Aurora esplose in una fragorosa risata, divertita dallo spettacolo di Mia. Gettò la testa indietro e la risata si trasformò in un muggito lungo e possente. Le vene del collo gonfie e sporgenti per lo sforzo. Giulia desiderò disperatamente di coprirsi le orecchie per non ascoltare quel verso e quella canzone, ma le mani non riuscivano a e-saudire quel semplice desiderio.

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«A questo punto voglio darti qualche spiegazione, mia cara» disse Don Claudio. Il suo volto, parzialmente nascosto delle ombre e in parte il-luminato dal fuoco del camino, era ancora più vecchio e malvagio di quello di Mia. E come il suo, nel contempo, era rimasto quello di sem-pre. Era come se avessero due volti, un secondo sfumato e impalpabile, calato sul primo. «Noi serviamo il caos. Facciamo il male, puro e semplice. Corrompere, distruggere, è la nostra natura, viviamo per questo. Serviamo un Dio il cui nome non puoi pronunciare senza che ti sanguini la lingua. Da seco-li la nostra famiglia vive in questo paese e ne infetta la storia, ne mina la salute e l’integrità. A volte stringiamo dei patti con individui malin-tenzionati, come quel povero disgraziato lì» indicò con un dito assur-damente lungo, con un’unghia sporca e aguzza, il corpo senza vita di Maurizio. I movimenti di Mia avevano acquistato una sinuosità femminile, ma i-numana. Sembrava che la sua schiena e i suoi arti serpeggiassero. Il suo canto sempre più serrato, la sua voce acuta. «Brucialastregabrucialastregabrucialastregabrucialastregabrucialastrega…». Aurora aveva gli occhi rovesciati all’indietro e la bocca spalancata. Si muoveva sulla sedia al ritmo del canto di Mia. «Il patto è uno strumento come un altro, anzi, il più delle volte si rivela un ottimo viatico. C’è una tale perfidia nel cuore della gente che ci cer-ca, che a volte supera la nostra stessa fantasia. Il fine ultimo per noi è sempre il male. Questo sciocco voleva la collina dove sorge questa casa e il terreno del compianto Fabio, voleva costruirci un complesso di vil-lette a schiera. Ma Fabio non voleva vendere. Una vecchia parente di Maurizio conosceva il nostro segreto, avevamo fatto un patto con lei anni fa. Gliene ha parlato e lui ci ha convocate. Abbiamo usato i nostri poteri per portare la disperazione nel cuore di Fabio. Lo abbiamo male-detto fino ad annientarlo. Lo abbiamo condotto al suicidio. Siamo brave con la magia, cara… a proposito, se ti stai chiedendo perché ti senti come un sacco vuoto, inerme come un neonato…». Alla parola neonato, Mia fu scossa da un fremito voluttuoso e Aurora si leccò le labbra con bramosia. «…e perché sei all’interno dell’Anello di Salomone, l’ho disegnata io stessa con l’olio, mentre eri via con Chiara, lì in terra, intorno alla tua sedia. Finché sei al suo interno le tue forze restano fuori dal suo peri-metro».

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All’improvviso Mia fu di nuovo davanti a Giulia. «Ehi, senti che nuova idea mi è venuta» afferrò uno dei decanter e lo sbatté sul tavolo. Il vetro si ruppe in tanti pezzi e il coccio del collo ri-mase in mano a Mia. Poi prese un braccio di Giulia e lo distese in avan-ti con l’interno rivolto in alto. Con un gesto rapido fece scorrere il vetro rotto lungo il braccio causando lunghi e profondi tagli. Un attimo dopo le ferite diventarono rosse e parvero allargarsi fino a coprire tutto la pelle del braccio con un velo di sangue. Poi ripeté il gesto sull’altro braccio. Giulia provò un pizzicore lungo i tagli mentre Mia la feriva e nient’altro. Non provò paura mentre vedeva il proprio sangue uscire dalle ferite, ma solo un curioso senso di distacco, come se quelle non fossero le sue braccia e la vita che ne usciva fuori rossa e liquida non fosse la sua. «Giulia scopre che Maurizio ha portato Fabio alla morte. Lo invita a cena con Chiara per dirgli che ha scoperto tutto, nasce una lite, poi una colluttazione e Maurizio e Chiara restano uccisi. Poi, spinta dal panico o dal rimorso, Giulia decide di togliersi la vita. Proprio come ha fatto il suo Fabio pochi mesi prima. Che ve ne pare?». «Ottima idea» commentò Aurora battendo le mani con aria idiota. «Direi che si può fare. Devi sapere, Giulia, che Mia ha in cura il figlio del maresciallo dei carabinieri e che il dottor Quaranta, che sicuramente verrà chiamato a effettuare i rilievi sulla scena della disgrazia, è un buon cristiano. Pensa che è un Ministro dell’Eucarestia nella mia par-rocchia. Credo proprio che con le giuste pressioni potremo far passare anche questa. Brava Mia». Mia si gongolò felice come una bambina che aveva appena ricevuto un bel voto a scuola dalla sua maestra preferita. «Dovesti esserne quasi contenta Giulia. Sei riuscita in parte a compiere la tua vendetta. Ucciso Maurizio hai reso giustizia a Fabio, e uccidendo Chiara ti sei assicurata il lascito. A proposito, grazie di esserti occupata della piccola Chiara. Con la nostra arte magica stavamo portando al suicidio anche lei. Tu hai accelerato il suo destino. Inoltre ci hai solle-vato dal doverci occupare anche di te». Giulia cominciava a sentire freddo nonostante il camino acceso. Si sen-tiva stordita e aveva la nausea, ma pur sapendo che stava per morire non provava paura. Il sangue dalle sue ferite aveva intriso la sua cami-cia e la sua gonna scurendole.

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«In quanto a noi», riprese Don Claudio, «se hai messo del veleno nelle pietanze, come ha supposto Mia, devo darti una delusione. Noi siamo il vero veleno. Nelle nostre vene circola il laudano più puro. Niente che intossica la vita può nuocerci. Quindi non…». «Cos’è questo rumore?» Aurora fece scattare la testa in direzione della porta della sala. Aveva un’espressione allarmata. Scrutava il corridoio buio oltre l’uscio. D’un tratto si era fatta vigile, tesa. C’erano dei versi, bassi e selvaggi, provenienti da qualche parte della casa. Anche uno scalpiccio confuso, di molti piedi. No, non piedi. Qualcosa di più piccolo e duro. Tante cose piccole e du-re. Poi un tonfo, quello di qualcosa di grande che cade. Un raspare fre-netico. Vetri che andavano in frantumi. «Chi c’è di là?» chiese con don Claudio. La sua voce era trasfigurata. Parlava con due tonalità diverse e sovrapposte. Una acuta e infantile, l’altra cupa e vecchia. Entrambe femminili. Mia si era fermata, se ne stava immobile in atteggiamento guardingo. Aveva ancora il coccio di vetro in mano con il bordo frastagliato sporco del sangue di Giulia. Una cacofonia di suoni metallici e verso bassi, gutturali, provenne da oltre il disimpegno buio, al di là della porta. Pentole e posate che cadevano in terra. Veniva dalla cucina. I versi si fecero più forti. Più concitati. «Ti ho fatto una domanda» tuonò don Claudio rivolto a Giulia. «Cosa sono questi rumori, sorella?» chiese Aurora a don Claudio. Era visibilmente nervosa, quasi spaventata. Giulia cercò di parlare, ma non riusciva ed emettere niente di più che un flebile sussurro. I versi e i passi si fecero più vicini. Mia all’improvviso si irrigidì, come folgorata da una rivelazione. Si voltò verso Giulia e la fissò con aria astiosa. Il suo volto ora sembrava quello della donna più vecchia e malvagia del mondo. Aveva ricono-sciuto quei versi. Ringhiò furiosa in direzione di Giulia. (Pane, olio e sale. Offerto a una strega. E questa non lascerà più la tua casa). «RISPONDI, MALEDETTA» urlò don Claudio. Si alzò dal suo posto e si scagliò su di Giulia. La colpì in pieno petto con una violenta pedata e la fece cadere con tutta la sedia. Finì con la schiena a terra e picchiò la testa.

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Finita fuori dal cerchio magico sentì la propria energia tornare e percepì nuovamente appieno il proprio corpo. La testa e le braccia presero a fargli male e la nausea si intensificò. L’emorragia l’aveva fiaccata e la testa le girava vorticosamente. I rumori e i versi ora erano quasi un frastuono. Erano prossimi a entrare nella sala. Don Claudio si chinò sopra Giulia. Il suo volto era una maschera rab-biosa di rughe e macchie scure. Vecchia come il mondo e corrotta come l’anima di Caino. «COSA HAI FATTO, GIULIA. DIMMELO. COSA HAI FATTO». Giulia raccolse le forze per vincere la debolezza che stava tornando a impossessarsi di lei. Respirò a fondo e rispose alla strega con un filo di voce. «Questa… non… è… una… vendetta». Giulia aveva aperto la porta e una finestra all’ingresso e la porta a ve-tro della veranda nel lato posteriore della casa. Il vento proveniente da sud era entrato nella casa, aveva raccolto l’aria con tutti suoi pro-fumi e, uscendo dal retro, se li era portati via con sé. Aveva superato il giardino incolto e il recinto aperto. Aveva percorso il campo in pen-denza e si era sparso verso valle e in direzione della villa sulla collina di fronte. Prima però era filtrato tra gli alti alberi del castagneto. Lì, tra i tronchi in ombra, la prima creatura aveva sollevato il muso e aveva saggiato il vento, attirata da un odore, un aroma familiare, qual-cosa legato a un passato lontano, quando la creatura era una cosa di-versa. Un odore irresistibile che era diventato, in una vita diversa, parte in-scindibile della creatura stessa. Si alzò dal suo giaciglio di foglie e humus e cercò nel vento l’origine del profumo. Si incamminò verso di essa. Altre creature simili a lei fe-cero altrettanto. Si sollevarono dalle tenebre e si incamminarono al se-guito della prima, seguendo un istinto che gli era stato affinato tanto tempo prima. Procedettero verso la casa, attraversando il campo illuminato dalla lu-ce fredda proveniente dalla luna attraverso un varco nel banco di nu-vole. Erano pallide sagome unite in un branco nella notte autunnale. C’era luce, nella casa. E voci. E l’odore.

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La casa era proibita, ricordarono. Non era un luogo per loro. L’odore. La porta era aperta. Salirono sulla veranda ed entrarono in casa. Urtarono e fecero cadere delle cose. Tanto rumore nelle loro orecchie. Voci. Vicine. L’odore. Oltre la porta. Nella luce. Dove erano anche le voci. L’odore. La fame. Entrarono… Irruppero nella sala. Una moltitudine di corpi nudi e malati. I musi de-formati dal tumore facciale. Piaghe e gibbosità a devastare le fisiono-mie di quei suini. I maiali, quelli che Fabio, in un barlume di pietà o debolezza, non aveva voluto sopprimere, si riversarono nella stanza in un attimo. Abbandonati nei boschi, destinati nel giro di poche settimane a ritornare selvatici, le bestie avevano del tutto perso il senso di gerar-chia con l’uomo, il padrone. Avevano trovato rifugio nel castagneto, dove erano ritornati allo stato primitivo. Mia sibilò minacciosa in direzione degli animali. Fu un verso acuto, ter-ribile, che per un istante sovrastò i grugniti e il picchiettio delle unghie sul pavimento. I maiali la ignorarono. La stanza era piena dell’odore. E di uomini. Femmine. Un maschio. Morto. Le femmine odoravano di morte e sangue. E di qualcosa ancora più dolce. L’odore era nella stanza. No, non nella stanza. Era nelle femmine. Dentro le femmine. Si gettarono su Mia. Affamati e ubriachi di desiderio.

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Erano attratti dal tartufo. Fabio li aveva addestrati, raffinato la loro ca-pacità di scovarlo ovunque fosse sepolto. Era illegale usare i maiali per la ricerca del tartufo e poco pratico, perché una volta che un maiale di centocinquanta chili si posa sopra un sito pieno di tuberi, spostarlo può essere un vero problema. Fabio lo sapeva, ma li addestrava lo stesso per poi rivenderli ai suoi clienti produttori che li usavano solo per scopi sportivi o dimostrativi. Mia colpì le bestie con le unghie trasformate in micidiali artigli e con il coccio di vetro, lacerandogli le schiene e le zampe. Ma servì a ben po-co. La spinta dei suini le fece perdere l’equilibrio e in un attimo la sommersero con i loro corpi. Giulia cercò di alzarsi, ma la testa le girava troppo ed era debole. Una scrofa con un’escrescenza tumorale che gli scendeva dalla testa fino a coprirle un occhio la raggiunse e prese a sniffarla. Decise che non era interessante e si voltò per cercare qualcosa di più appetitoso. Un gruppo di maiali si avvicinò alla scrofa e la spinse nel tentativo di girarsi in quell’ambiente diventato angusto. La scrofa scivolò sul pavimento e piombò su Giulia schiacciandole il torace con il proprio peso. Il dolore fu lanciante, le esplose nel cervello. Sentì distintamente le proprie costole spezzarsi. Don Claudio era salito su tavolo e si girava repentino per fronteggiare gli animali che da ogni lato cercavano di raggiungerlo. Si era gettato carponi e si muoveva come un animale lui stesso. Urlava parole in una lingua sconosciuta. La scrofa riuscì a rialzarsi e si allontanò da Giulia. Il dolore al petto era terribile e non riusciva a respirare. Voltò la testa di lato e vomitò cibo impastato con sangue. Vide una massa di corpi pallidi, imbrattati di sangue, accanirsi contro qualcosa. Poi scorse, sovrastata dalla calca, il volto di Aurora. I capelli erano sciolti e intrisi di sangue, si appiccicavano al suo volto e ai corpi dei maiali più vicini. Non capiva se stesse urlando o ridendo. All’improvviso si mise a grugnire, come se stesse sfottendo i maiali che la stavano sbranando. Un attimo dopo scomparve, sepolta dai corpi in tumulto. Giulia provò di nuovo a respirare, ma ottenne solo nuovo dolore e la bocca le si riempì di sangue dal sapore metallico. Ci fu uno schianto a cui seguirono oscene bestemmie che divennero presto urla di dolore e rabbia. Il tavolo aveva ceduto alla pressione dei maiali.

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Giulia sputò via il sangue dalla bocca, ma questa si riempì di nuovo. Le forze l’abbandonavano velocemente. In un angolo, vicino al camino, un gruppo di maiali stava banchettando con il corpo di Maurizio. Il manico del coltello ancora sporgente dall’orecchio. Uno dei maiali sollevò il muso sporco di sangue. Aveva le palpebre di un occhio e le labbra arricciate dalla deformità. Annusò brevemente l’aria e tornò alla sua macabra occupazione. Il dolore cominciò ad allontanarsi da Giulia e con esso la nausea e il senso di debolezza. Finalmente i suoi pensieri poterono tornare su di Fabio. Pensò a quanto lo aveva amato e quanto ancora, in quel ridotto fram-mento di vita che gli rimaneva, lo amava ancora. Per quello che le aveva dato Per quello che le aveva tolto. La necessità di chiedere ancora. La preoccupazione che un domani le cose sarebbero state diverse. La triste sensazione di non appartenere al-la sua vita. L’aveva esentata dal temere che dietro a ogni parola, gesto o scelta si nascondesse qualcos’altro. L’aveva allontanata da qualsiasi altra ricerca che non fosse rivolta a quella di se stessa. Lui l’aveva protetta. Si era preso cura di lei. E lei lo aveva amato, pienamente. Ma non era riuscita a proteggerlo, infine. Ora, mentre il dramma si consumava nella casa, Giulia sperò di essere riuscita almeno in quell’ultimo atto d’amore nei suoi confronti. I suoi pensieri si confusero nel dolore per un attimo, per poi ricomporsi nel ricordo del volto di Fabio. Il suo sorriso, la sua voce, il suo odore. Il Fabio di prima che la depressione ne minasse la luce. Nel suo ricordo, Fabio cercava le sue mani da stringere, in quel gesto che invariabilmente anticipava un bacio che invariabilmente anticipava il sesso. Ma quel ricordo non finì di svilupparsi. Giulia voltò la testa di lato, verso la parete vicina, dove la luce tremo-lante del fuoco del camino faceva agitare le ombre intente in un osceno spettacolo. Chiuse gli occhi, e, allontanandosi da tutto quell’orrore, morì.

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Seguì la notte. Buia e antica, sprofondata in se stessa. Il vento cambiò, due ore circa prima dell’alba. Venne da nord ed era a-sciutto e freddo. Quando arrivò dietro la casa, trovò i maiali che attra-versavano di nuovo il campo, in senso opposto, per tornare tra i casta-gni a ridiventare ancora una volta selvatici. Soffiò tra le foglie ormai secche degli alberi e le fece fremere e cadere. Le fece scuotere, rieseguendo una melodia tra le più remote del mondo. Entrò dalla porta posteriore della casa e scacciò l’umidità che lo sciroc-co della sera precedente aveva lasciata sospesa nell’aria. Girò le pagine di libri caduti e gonfiò pigramente le tende appese sopra le finestre. Fe-ce ondeggiare i tegami e le padelle appese sull’asta sospesa sopra la pe-nisola della cucina e le fece tintinnare ogni volta che si scontravano. Fece cadere un vaso con dentro una Mammillaria Plumosa non ancora sbocciata, il coccio si ruppe e la terra si rovesciò sul pavimento. Fece cigolare le porte aperte e due di esse le chiuse facendole sbattere. Arrivò il mattino. Il sole salì in alto, il vento perse intensità e l’aria si scaldò un po’. Nella cucina di Giulia la porta della cantina si aprì e ne uscì Chiara cin-ta tra le sue stesse braccia. Aveva freddo, ma l’aria aveva un buon odore. Di pulito. Si sentiva frastornata, ma a ogni respiro le sembrava che la testa si schiarisse un poco. Impugnava un coltello da cucina. Gli sembrava di ricordare che qualcu-no glielo avesse dato. Che qualcuno (Giulia) le avesse detto di tenerlo, che sperava che non le dovesse servire, ma era meglio esser previdenti. Solo, non ricordava chi le avesse detto quelle cose e dato quel coltello. Ricordava una cena. Giulia e i suoi ospiti. Poi di essere andata giù, nel-la cantina, per prendere qualcosa. Un odore, forse, dolce, intenso. Poi più nulla. Posò il coltello sulla penisola e vide un piatto da dessert protetto da un coperchio trasparente. Sul piatto c’era una fetta di bianco mangiare al latte di mandorla e una forchetta. Il suo dolce preferito. Scoprì di essere affamata. Sollevò il coperchio e prese a mangiare il dolce.

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Si sentiva bene, come non si sentiva da mesi. L’appetito ritrovato ne era una prova. A ogni respiro, a ogni boccone, un lucido benessere si profuse in lei. Aveva dormito profondamente, ne era sicura e per la prima volta da tempo non aveva avuto incubi. Non aveva sognato le voci. Assaporò lentamente una piccola porzione del dessert e all’improvviso scoppiò a piangere. Si sorprese da sola. Pianse singhiozzando senza riuscire a controllarsi, ne volendolo fare. Non capiva perché lo stesse facendo. Se fosse per la consapevolezza di quanto fosse buono quel dolce e da quanto si fosse allontanata negli ultimi tempi. O se fosse per l’improvvisa nostalgia di suo padre. O ancora se fosse per il sollievo, illogico e inspiegabile, dato dalla certezza che un peso si fosse finalmente sollevato da lei. Qualunque fosse quel motivo, di fatto, Chiara sentiva che con le lacri-me anche un pericoloso veleno stava fluendo via da lei. Lasciò finire il pianto e quando finalmente si calmò posò sul lavello il piatto e la forchetta. Si sciacquò il viso e si rese conto del disordine che c’era in cucina. Sembra che un branco di animali avesse festeggiato un compleanno. In terra c’erano anche tracce di feci. Stranamente la cosa non la sorprese. Era come se tutto fosse come do-veva essere. Ricordò che non doveva entrare nella sala. Quella consapevolezza ap-parteneva alla stessa zona d’ombra dove aveva ricevuto il coltello. La porta dell’ingresso era aperta. Chiara la varcò e uscì all’aperto. Sebbene fosse il principio dell’autunno, la giornata era limpida e asso-lata. L’aria frizzante e fresca. Ogni traccia di confusione sparì via del tutto da Chiara e lei seppe in quel preciso momento che un male, vecchio come il mondo e perfido come la gelosia, era finalmente evaporato via da lei. Giulia. Provò un lanciante desiderio di parlare con lei. Di capire quello che non le era stato precedentemente concesso di chiederle. Voleva vederla. Ma in un altro momento. Scese sul viottolo e superò le macchine parcheggiate per salire sulla sua. Mise in moto e fece manovra. Arrivò al bivio che conduceva al paese e si fermò.

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Ascoltò il proprio cuore liberato e fece la sua scelta. Girò la macchina nell’altra direzione e si diresse verso la città. Verso la vita. Via da lì. Fine anteprima.Continua...