Upload
others
View
1
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
Grazia Maria Di Cosmo Tesi di diploma
Corso triennale di formazione in Counseling a indirizzo biogestaltico della SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt®,
riconosciuto da AssoCounseling (CERT- 0078-2012)
MAL D’AMORE Legami amorosi confusivi e patologici
relatori
Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky
Milano, 17 dicembre 2016
SIBiG – Scuola Italiana di BioGestalt®, di Brunella Di Giacinto - Via Fiamma 13, Milano - P. IVA 05228810965 Sedi didattiche: via Marcona 24, Milano; via Moroni 8, Sesto San Giovanni (MI); Centro Miri Piri, Pigazzano di Travo (PC)
E-mail: [email protected] - [email protected] - Sito web: www.biogestalt.it
2
INDICE
INTRODUZIONE p. 3
CAPITOLO 1 LA PSICOLOGIA DELL’AMORE OGGI p. 4 Il paradosso dell’amore Interpretazione psicologica dell’amore Il mistero dell’amore e le strutture caratteriali Amore e piacere CAPITOLO 2 LA RELAZIONE DI COPPIA TRA NORMALITA’ E PATOLOGIA p. 19 La natura della relazione di coppia L’attaccamento come motivazione alla relazione di coppia Come funziona una relazione: intimità e parità Il dialogo intimo Legami stabili: coppie felici e coppie infelici Legami instabili: coppie fluttuanti e coppie in crisi CAPITOLO 3 LE FERITE RELAZIONALI p. 32 Relazioni nevrotiche: vivere nella menzogna Relazioni conflittuali Rottura del legame e lutto amoroso Dipendenza amorosa e coppie simbiotiche Amore narcisistico Il doppio legame CAPITOLO 4 IL LAVORO SULLA COPPIA p. 50 Obiettivi della terapia Continuità e cambiamento nella coppia CONCLUSIONI p. 56 Guarire il chakra del cuore Qual è il segreto? Imparare a litigare bene
BIBLIOGRAFIA p. 62
3
INTRODUZIONE
L’amore
Quando l’amore vi fa cenno, seguitelo,
benché le sue strade siano aspre e scoscese.
E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui,
benché la spada che nasconde tra le penne possa ferirvi.
E quando vi parla, credetegli,
anche se la sua voce può mandare in frantumi i vostri sogni
come il vento del nord lascia spoglio il giardino.
Perché come l’amore v’incorona, così vi crocifigge.
E come per voi è maturazione, così è anche potatura.
E come ascende alla vostra cima e accarezza i rami più teneri che fremono al sole,
così discenderà alle vostre radici, che scuoterà dove si aggrappano con più forza alla terra.
(Khalil Gibran)
4
CAPITOLO 1
LA PSICOLOGIA DELL’AMORE OGGI
1.1 Il paradosso dell’amore
“Ditemi la verità, vi prego, sull’amore. Alcuni dicono che l’amore è un bambino e alcuni che
è un uccello. Alcuni dicono che fa girare il mondo e altri che è solo un’assurdità…” (Wystan
Hugh Auden)
Difficile definire l’amore.
C’è qualcosa di strano, di paradossale nell’amore, il sentimento più universale e allo stesso
tempo il più esclusivo, il più vitale e anche il più distruttivo, il più dolce e anche il più
amaro, il più conosciuto e il più misterioso, il più forte e il più fragile, il più naturale e il più
culturale… L’amore è tutto e il contrario di tutto, perché è un paradosso. Incanta e
disincanta, promette e non mantiene, libera e imprigiona, rivela e nasconde, esalta e
avvilisce, riempie e svuota… L’amore è esperienza di tutti. Eppure quando si è innamorati
si pensa di essere le sole persone al mondo a vivere questa condizione speciale. Di amore
si parla sempre e se ne è sempre parlato. È un tema di cui letteratura, musica, arte
traboccano, eppure rimane un sentimento sfuggente, il più chiacchierato e il più elusivo.
Tutti sanno che cos’è, ma nessuno lo conosce. Combattuti tra ferite narcisistiche e sogni di
un’unione scritta per sempre, ci ritroviamo a interrogarci sulle componenti che possono
fare della nostra vita amorosa un’esperienza degna di essere vissuta.
L’amore si lega alle radici dell’essere della natura umana, perché è strettamente connesso
alla riproduzione della specie e dunque alla biologia, ma è anche culturale: l’amore infatti
ha una storia che emerge dalle modalità con cui, nelle diverse epoche, viene
rappresentato. Il modo in cui amiamo è plasmato dallo spirito del tempo in cui viviamo e
oggi, come ci ricorda Zygmunt Bauman, lo spirito del tempo ci confina nella sfera
“dell’amore liquido”, caratterizzato dalla fragilità e dalla precarietà dei legami affettivi.
Qual è esattamente il significato della parola amore?
Qui mi imbatto subito in un problema, dato che questo termine viene utilizzato per
designare diversi tipi di amore, in primis per l’amore al maschile e per l’amore al
5
femminile, che non sono necessariamente la stessa cosa. Consapevoli dell’esistenza di una
molteplicità di amori, gli antichi Greci avevano dato termini diversi a ciascuno di essi: Eros,
l’amore erotico che si esprime nella sessualità (ma non solo) e tende alla ricerca
“dell’oggetto mancante”; Philìa, l’amore affettuoso, che si esprime nell’amicizia (è l’amore
“stimativo”, o amore del padre); Agàpe, l’amore incondizionato e disinteressato (o amore
della madre), che viene utilizzato anche nella teologia cristiana per indicare l’amore di Dio
nei confronti dell’umanità. E questa teoria dei tre amori viene ripresa, per esempio, da
Claudio Naranjo (2011).
Ciascuno di noi esprime il tipo di amore che gli viene naturale, mettendone in campo altri,
perché costretto. Oltre all’amore verso gli altri, dobbiamo considerare anche l’amore verso
noi stessi, inteso come accettazione, stima e fiducia in se stessi e non, come a volte si
pensa, come soddisfazione del proprio egoismo. L’amarsi in senso psichico è la
conseguenza del funzionamento equilibrato e armonico dell’essere umano in tutte le sue
esigenze; è quindi una sensazione globale di benessere che deriva da una vita istintiva e
razionale sana, vissuta con serenità; la capacità sempre nuova di sapersi adattare alle
mutevoli situazioni dell’esistenza, senza precipitare nell’ansia, nell’angoscia, nella
depressione, quindi nella nevrosi. Adottando una prospettiva gestaltica, diremmo che
questa condizione si ottiene attraverso l’autoregolazione organismica, ossia la capacità
dell’organismo di far fronte all’emergere spontaneo dei bisogni. La disistima e l’iper
valutazione di se stessi, l’auto aggressività o l’apatia nei propri confronti sono situazioni
nevrotiche, sono vere “mutilazioni” della salute fisica e mentale, mentre l’amarsi e il volersi
bene in modo sano corrispondono alla pienezza di vivere.
Soltanto la realizzazione dell’amarsi consente l’amore “relazionale”. Se non ci prendiamo
cura di noi stessi è come se al nostro “bambino interiore” venissero a mancare i genitori
(Grossi, 2016), come se non ci mettessimo in contatto con i suoi bisogni profondi e non lo
amassimo. I sogni possono aiutarci a prendere consapevolezza di questa condizione:
ricordo ancora l’angoscia legata al sogno della “mia” bambina che stentava a riconoscere
sua madre nascosta tra una miriade di donne senza volto, e quello in cui girovaga senza
meta, rischiando di essere calpestata dalla folla dopo essere ruzzolata dalle scale! I sogni
sono veri e propri messaggi esistenziali, per questo la decodificazione del messaggio in
esso contenuto è molto importante, ed è uno dei capisaldi della terapia gestaltica.
6
Spesso si crede di non incontrare il partner adatto; in realtà, per problemi di immaturità
psicoaffettiva, non si è in grado di “liberare l’amore”, cioè di iniziare un rapporto e di
gestirlo in modo gratificante e continuativo. Si fugge, quindi, prima di iniziarlo, o lo si
rovina fin dall’inizio con le proprie mani, oppure lo si vive con un coinvolgimento
disturbato. Le conseguenze di questa conflittualità affettiva sono che, pur incontrando
nell’arco della vita, più partner validi, si rimane soli o si vive il rapporto in maniera
insoddisfacente. È come dire che soltanto “l’essere per sé’” porta a “essere per gli altri”.
Per parlare dell’amore si deve tener conto dei vari approcci con cui viene decodificato:
l’approccio romantico, che lo pone come un ideale trascendente e universale; l’approccio
del relativismo storico-culturale che ne analizza le diverse forme in cui si esplica nelle varie
culture; l’approccio biologico che ricerca le componenti fisiologiche e biochimiche che
attivano il processo dell’innamoramento; l’approccio simbolico che analizza gli archetipi
associati all’amore; l’approccio psicologico che ne individua le motivazioni affettive dovute
alla storia individuale, la quale influisce, a sua volta, sul modo specifico che ciascuno ha di
amare; l’approccio psicoanalitico che indaga le strutture inconsce, le pulsioni e i conflitti
psichici.
1.2 Interpretazione psicologica dell’amore
Freud e l’innamoramento
Secondo Freud l’amore è sempre narcisistico. Egli ritiene infatti che, oltre alla madre, il
primo oggetto d’amore di ogni individuo sia se stesso, la propria persona. Questo
investimento affettivo si verifica nella fase iniziale della vita: qui si vivono le sensazioni e le
percezioni che provengono da se stessi e quindi, essendo il bambino allo stesso tempo
soggetto e oggetto delle sensazioni, esse investono narcisisticamente il proprio corpo. In
un secondo momento, la madre diventa oggetto d’amore perché è la persona che nutre e
quindi viene riconosciuta come fonte del piacere e della vita. Il narcisismo prende dunque
le mosse dall’amore per il proprio corpo. È nell’amore di sé che ha origine l’amore per
l’altro. Nella scelta dell’oggetto d’amore nell’età adulta, l’amore di sé, nell’interpretazione
freudiana, comporta le seguenti tre possibili posizioni: 1) amo l’altro perché l’altro mi
rispecchia, 2) perché nell’altro ritrovo ciò che vorrei essere (l’ideale dell’Io), 3) perché
rappresenta “l’Io perduto”, ciò che sono stato. Queste posizioni portano tutte e tre a esiti
7
infelici nella relazione di coppia perché l’amore narcisistico non permette di “vedere”
l’altro: lo amo solo in quanto proiezione di me. Un “oggetto in sé” che possa essere amato
“in quanto tale” non è pensabile per Freud, perché amare ha come finalità quella di
ripristinare una mitica pienezza dell’origine, ossia il narcisismo perduto dell’infanzia e il
ricongiungimento al primo oggetto amato.
Quella freudiana è una concezione per la quale l’amore per l’altro è dunque pura illusione:
siamo noi stessi a essere amati in lui. Nell’altro cerchiamo invano il risanamento dell’antica
ferita della separazione dalla madre. Ma la segreta (inconscia) illusione che l’oggetto
d’amore possa far parte dell’Io, cioè che sia riassorbito come parte indistinguibile, è
inesorabilmente frustrata quando avviene la perdita e si ha così il crollo del miraggio.
L’oggetto d’amore che si è sottratto all’illusione della fusione diviene altro, si concretizza
per quello che è veramente: una entità separata e allora nemica. La grande illusione che
l’oggetto d’amore possa ricostituire l’Io perduto, restituendogli la compiutezza originaria,
svanisce miseramente. Tuttavia l’Io continua a mantenere il proprio investimento
(ambivalente) sull’oggetto d’amore: non ne vuole sapere di ammettere la perdita. In altre
parole: all’inizio vi è una scelta oggettuale, un vincolamento della libido a una determinata
persona; successivamente, a causa di una delusione (della relazione) patita dalla persona
amata, questa relazione oggettuale è gravemente compromessa. L’esito non è quello
normale, ossia il ritiro della libido dall’oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto,
ma è diverso: la libido, divenuta libera, viene riportata nell’Io. Di conseguenza si verifica
una identificazione dell’io con l’oggetto abbandonato. Così la perdita dell’oggetto si
trasforma in una perdita dell’Io, che darà luogo all’elaborazione di un ”lutto per la perdita”.
(Nella teoria freudiana il lutto rappresenta proprio una perdita che riguarda l’Io).
Jung e l’amore nella psicologia analitica
L’attenzione che Jung ha per l’amore non è caratterizzata da una particolare elaborazione
scientifica, ma risente invece di un approccio molto sentimentale e di un profondo senso di
irrazionalità. Spesso Jung sembra suggerirci che nessuna cura può effettivamente ottenere
un risultato in termini di guarigione se non interviene la follia dell’amore. Diversamente da
Freud, che ne parla unicamente in accezione sessuale, Jung concepisce la libido come
un’energia psichica unitaria, omnipervasiva: essa non si esprime solo nella pulsione all’atto
riproduttivo, ma nell’arco dell’intera vita pervade altre forme di attività e i suoi principi
8
sono fortemente influenzati dagli archetipi. Per Jung l’amore non è solo un sentimento, è
qualcosa di molto più complesso, caratterizzato da una particolare diponibilità che
consente il coinvolgimento di tutta la persona. Inoltre suggerisce che quel che sembra,
spesso, un “amore a prima vista” è semplicemente una proiezione. Secondo lui, le persone
riconoscono il loro Animus (l’elemento maschile inconscio della donna) o la loro Anima (il
femminile che fa parte dell’uomo come sua femminilità inconscia), e sono attratte da
quella che individuano come la parte inconscia e nascosta di se stessi (Ombra).
Importante è che venga compreso questo aspetto della propria psiche al fine di imparare a
interagire con la propria Anima o Animus e poter scegliere il/la partner con maggiore
saggezza per formare un rapporto di coppia adulto. In uno scritto del 1925, Jung asseriva
in modo davvero pioneristico che il presupposto della relazione è la coscienza unitaria,
demolendo così il mito dell’unità simbiotica e del ritorno all’identità prenatale teorizzato da
Freud. Il legame consapevole affonda le sue radici nel rapporto di ciascun partner con i
propri genitori e, quindi, con i propri antenati.
L’amore secondo Donald Winnicott
Winnicott considera “l’incontro amoroso” un processo di crescita, di maturazione e di
arricchimento del soggetto nell’ambito delle sue relazioni sociali. Il bambino comunica
tutte le sue sensazioni alla madre attraverso il contatto corporeo che viene definito “Io
pelle”: e infatti è ormai definitivamente riconosciuto che la pelle del bambino comunica
con la pelle della madre. Se il bambino ha la possibilità di vivere quello che Winnicott
individua come attachment (particolare stile di attaccamento sviluppato nella prima
infanzia) in maniera fisiologicamente sana, e a seguire una graduale separazione (de-
attachment) con conseguente autonomia, svilupperà una capacità di costruire con le altre
persone legami sani, e quindi anche sane relazioni d’amore.
Per Winnicott amare comporta il sentirsi attratti dall’altro al punto tale da lasciarsi andare
verso di lui fino al raggiungimento della sensazione di perdercisi, anche tramite l’incontro
tra i corpi. Lo psicoanalista ricorda che la sensazione di fusione con l’altro è la prima
esperienza di pienezza che l’essere umano prova da neonato e durante la prima infanzia,
quando la madre stabilisce quella relazione simbiotica del tutt’uno di corpi e menti. Da
questa prospettiva si desume che il primo amore è quello che si stabilisce tra madre e
bambino. I diversi studi sul legame di attaccamento concordano sul fatto che un bambino
9
all’età di tre anni “ha già interiorizzato uno stile di attaccamento ben preciso, che lo
guiderà nel modo di legarsi agli altri per il resto della sua vita”. Poiché, quindi, la prima
esperienza di attaccamento non sempre è equilibrata, Winnicott ribadisce l’importanza
della psicoterapia come strumento per aiutare la persona a emanciparsi dalle influenze
genitoriali negative e a scoprire che, comunque, si possono trarre capacità e
consapevolezza elaborando il proprio vissuto infantile e approfondendo attraverso l’analisi
la conoscenza dei propri genitori, i quali, a loro volta, sono stati bambini e hanno ereditato
dai loro genitori problematiche che probabilmente non hanno saputo riconoscere. Uno dei
processi più adatti a questo scopo, da me personalmente sperimentato, è il Fisher-
Hoffman, perché capace di metterci nelle condizioni di perdonare i nostri genitori a un
livello profondo: con l’esperienza, emozionalmente e intellettualmente, per renderci liberi
dai modelli che abbiamo ereditato. Questo processo è essenziale per “ricostruire la
capacità di amare senza la quale non ci può essere soddisfazione profonda, né fine alla
sofferenza” (Naranjo, 1991). Svilupperò questo argomento nel capitolo dedicato al “lavoro
sulla coppia”.
La “teoria dell’attaccamento” di John Bowlby
John Bowlby (1907-1990) ha elaborato la teoria dell’attaccamento, interessandosi in
particolar modo agli aspetti che caratterizzano il legame madre-bambino e a quelli correlati
alla realizzazione dei legami affettivi all’interno della famiglia. Come altri psicologi e
psicoanalisti, si è cimentato nella concettualizzazione dell’amore sentimentale, utilizzando
le ricerche sull’attaccamento per comprendere la natura delle relazioni amorose. Già nel
1982 Bowlby paragonava la costruzione del legame di attaccamento all’innamoramento.
L’argomento merita un particolare approfondimento in quanto l’esperienza delle relazioni
primarie costituirebbe il primo passo capace di indirizzare lo sviluppo successivo della
capacità di regolare tutte le emozioni e influenzerebbe quindi anche gli stili di
attaccamento nelle relazioni adulte. Secondo Bowlby “ogni individuo costruisce modelli
operativi (rappresentazioni mentali) del mondo e di se stesso nel mondo”. In queste
rappresentazioni mentali la caratteristica principale è “chi” sono le figure di attaccamento,
“dove” possono essere trovate, e “come” ci si aspetta che rispondano. In modo analogo,
nelle rappresentazioni mentali del “sé” che ognuno costruisce la caratteristica principale è
“quanto” l’individuo sente di essere degno o non degno di amore agli occhi delle sue figure
10
di attaccamento. Per prendere in esame la dinamica delle relazioni affettive, Bowlby parte
dal bisogno iniziale del bambino di vicinanza e di protezione da parte della madre.
Tra i modelli principali di attaccamento emersi dagli studi di Bowlby, il primo è quello
dell’attaccamento sicuro, caratterizzato da un’immagine di sé positiva, in cui il bambino ha
fiducia nella disponibilità, nella comprensione e nell’aiuto che il genitore gli darà in caso di
situazioni avverse o terrorizzanti. Questo tipo di attaccamento comporta bassa ansia e
basso evitamento nelle relazioni, quindi prelude a relazioni adulte soddisfacenti. Il secondo
modello è quello ansioso, con un’immagine di sé negativa, in cui l’individuo non ha la
certezza che il genitore sia sempre disponibile o pronto a dare aiuto se chiamato in causa.
Questo provoca molta ansia e un alto bisogno di dipendenza, con discreto evitamento
delle relazioni. Il terzo modello è quello evitante, che si articola in evitante distaccato, con
Sé positivo e “altro” negativo e evitante timoroso, con Sé negativo e “altro” negativo.
L’individuo con questo stile di attaccamento non possiede la fiducia che quando richiederà
delle cure riceverà una risposta sollecita, ma al contrario si aspetta di essere rifiutato
seccamente; tenta di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e senza il sostegno degli
altri e diventerà quello che viene definito un narcisista o una persona con un falso Sé. Egli
diventerà autosufficiente sul piano emotivo, quindi con un basso bisogno di dipendenza e
un alto grado di evitamento nelle relazioni. Il quarto modello è definito disorganizzato e si
manifesta in bambini fortemente trascurati dai genitori, o maltrattati fisicamente, oppure
con una madre affetta da una grave forma di depressione bipolare che, quindi, tratta il
bambino in modo imprevedibile e bizzarro. Questo tipo di attaccamento è riconducibile
anche a bambini con madri ancora immerse nel lutto per una figura parentale morta
durante la loro infanzia, abusate o maltrattate fisicamente. Si distingue per un’immagine di
sé e dell’altro negativa, quindi comporta molta ansia, un forte bisogno di dipendenza e un
notevole evitamento delle relazioni anche in età adulta.
Le persone con alta ansia vivono la relazione con il partner in modo emotivamente molto
intenso e tendono a controllarlo, rimuginando circa la possibilità di essere rifiutati e
abbandonati, per cui si dedicano attivamente alla ricerca di segnali di mancanza o
diminuzione di prossimità fisica o emotiva. La loro iper vigilanza può condurre a
interpretare le informazioni in un modo che confermi le aspettative negative. La ricerca di
vicinanza può essere realizzata attraverso tentativi insistenti ed energici per avere
11
sostegno e amore, e sforzi cognitivi e comportamentali mirati a minimizzare la distanza.
Questi sforzi possono essere finalizzati a stabilire non solo un contatto fisico, ma anche la
percezione di una somiglianza, intimità e identità con l’altro. Quindi vivono l’amore come
un’esperienza che implica ossessione, desiderio di reciprocità e di unione, alti e bassi
emotivi, una fortissima attrazione sessuale e sentimenti di gelosia. Il sesso verrebbe
utilizzato al fine di ricevere rassicurazione dell’amore e della disponibilità del partner,
oppure protezione dall’ostilità e dai suoi stati emotivi negativi. Inoltre, da ricerche recenti è
emerso che persone con attaccamento ansioso utilizzano il comportamento sessuale per
esercitare un potere nei confronti del partner: il bisogno di controllare il partner si
manifesta attraverso l’espressione di desideri sessuali. Per gli stessi motivi le persone
ansiose mettono in atto comportamenti sessuali indesiderati, sia spontaneamente, sia
perché indotti dal partner, al fine di mantenere il suo amore e la sua attenzione. Alcuni
autori hanno osservato che, per le donne, l’ansia è associata a relazioni sessuali precoci,
elevato numero di partner e infedeltà (Hazan, Zeifman, Middleton, 1994).
Le persone con attaccamento ansioso possono vivere il sesso come mezzo per attirare
l’attenzione dell’altro e creare un’alleanza: esse cercherebbero di dimostrarsi vulnerabili in
modo accattivante, attraverso intense manifestazioni affettive, al fine di ottenere aiuto,
protezione e conferme. Nell’attaccamento disorganizzato invece (quarto modello), i
ricercatori hanno evidenziato che l’esperienza sessuale non è realmente sessuale. Spesso i
bisogni del proprio Sé e del Sé-con l’altro non sono soddisfatti e non vi è né amore, né
intimità, né piacere sessuale di qualche tipo. Inoltre non vi è né un Sé integrato, né un Sé
consolidato, né un forte legame con l’altro. L’esperienza sessuale di queste persone è
spesso sgradevole o dolorosa, oppure anestetizzata a causa dei tentativi del Sé di auto-
proteggersi grazie a meccanismi di dissociazione. In un interessante studio sulle relazioni
extra-diadiche gli autori riferiscono che persone che manifestano ansia nell’attaccamento
riportano di aver vissuto un numero maggiore di esperienze romantiche intense e
ossessive e le persone con attaccamenti contraddistinti da alta ansia (ansioso o evitante),
caratterizzati da un’immagine negativa del sé e quindi da bassa autostima, riferiscono
maggiori motivazioni alla costruzione di un rapporto, collegate all’autostima. Durante
l’esperienza di tirocinio mi è capitato diverse volte di conoscere persone con questo tipo di
problematica.
12
Le persone con attaccamento evitante presentano alti livelli di promiscuità. È quindi
ipotizzabile che vivano relazioni extra-diadiche (con più partner) con motivazioni collegate
all’autonomia e alla libertà. Per questi soggetti le relazioni extra-diadiche possono essere
un modo per entrare fisicamente in intimità senza diventare emotivamente vulnerabili,
dipendenti o entrare in relazioni intime prolungate. L’ansia nell’attaccamento è quindi
collegata anche alle relazioni extra-diadiche, in quanto sembra che queste incrementino
l’autostima e un senso di desiderabilità. In particolare le donne, in misura maggiore degli
uomini, indicano come motivazione un sentimento di trascuratezza, di solitudine e di rifiuto
nella relazione primaria e un desiderio di intimità e di cure (Allen e Baucom, 2004).
Concludendo, le ricerche cui ho fatto riferimento in questo capitolo sostengono l’ipotesi
che le relazioni intime possano essere utilizzate al fine di compensare e soddisfare i
bisogni di attaccamento che non sono stati adeguatamente riconosciuti nel passato e che
la persona non è in grado di esprimere e gratificare nel presente.
I post-freudiani: amore come legame
“La cosa più difficile da trovare nei legami amorosi è l’amore”. (François de La
Rochefoucauld).
La psicoanalisi contemporanea mette in evidenza il ruolo fondamentale delle relazioni con
gli altri. Renè Kaes (2010) afferma che la relazione d’amore è uno scambio che coinvolge
profondamente i due protagonisti del legame, cioè un dialogo interiore che prende forma
in ciascuno di noi e anima la nostra soggettività inconscia: ”Non l’uno senza l’altro e senza
l’insieme che li unisce”. Secondo Kaes il legame incide sul funzionamento dell’inconscio del
soggetto e quindi la relazione è una realtà psichica specifica. In questa prospettiva il
legame viene considerato come costruzione di uno spazio psichico dotato di una realtà
propria, comune e condivisa da due o più soggetti. L’attenzione è portata non più in modo
prioritario sui soggetti, ma su ciò che unisce questi soggetti. Questa prospettiva lascia
intravedere un soggetto il cui inconscio è, in misura variabile e a livelli più o meno
patogeni, extratopico. In altre parole il soggetto condivide uno spazio psichico con altri
soggetti. Il legame d’amore è una relazione caratterizzata da intimità e complicità, quindi
va inteso come un tipo particolare di legame intersoggettivo perché sottintende una forte
idealizzazione reciproca.
13
Per Jessica Benjamin (1991) il legame d’amore è caratterizzato dalla laboriosa ricerca di un
equilibrio tra l’affermazione di sé e il riconoscimento dell’altro. Questo altro è una persona
a pieno titolo, quindi la relazione non è caratterizzata dall’interiorizzazione dell’oggetto
d’amore (l’altro) come nella psicoanalisi classica. Questo modifica l’ipotesi teorica
tradizionale psicoanalitica di come si possa strutturare una relazione d’amore. L’oggetto
esterno, suscettibile di innamoramento, è situato nella realtà e non è più un oggetto
fantasmatico della psiche. I legami d’amore sono costruiti in maniera originale attraverso
l’imprevedibilità dell’incontro con l’altro che, proprio in quanto tale, “non può essere ridotto
alla posizione e alle funzioni del doppio narcisistico o di oggetto delle relazioni oggettuali.
Il “Noi” è “un insieme costituito” che si mantiene in una omeostasi sempre più
indipendente dalle variazioni di ogni Soggetto e di ogni Io. L’amore è “una psiche diadica”
(Ruffiot, 1984, cit. in Slepoj, 2015).
Il tema del noi è sviluppato in modo chiaro anche da Umberto Galimberti, per il quale
“l’amore è una follia, l’unica cosa al mondo capace di trasformarci” (Galimberti, 2004).
L’amore è una relazione, non una fusione, e non è possesso, “perché il possesso non
tende al bene dell’altro, né alla lealtà verso l’altro, ma solo al mantenimento della relazione
che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di sé, la
sacrifica in cambio della sicurezza. Siamo in due, non sappiamo più chi siamo, ma siamo
insieme ad affrontare il mondo. Due esistenze negate, ma tutelate […] Spesso l’amore è
una cosa intricata perché non ci si chiarisce se si ama l’altro o si ama la relazione, se si
soddisfa il nostro bisogno di sicurezza o il nostro bisogno di felicità, è un gioco di forze
dove si decide a quale dio offrire la propria vita: al dio della felicità che sempre
accompagna la realizzazione di sé, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla
negazione di sé. Una cosa è certa: che nella relazione, nel “Noi” non ci si può seppellire
come in una tomba. […] Nel viaggio che si intraprende fuori dal “noi” e che prescinde dal
noi è il noi che si tradisce, raramente il tu”.
Galimberti sostiene che nell’età della tecnica l’amore è diventato l’unico spazio in cui ogni
individuo può esprimere davvero se stesso, al di là dei ruoli che è costretto ad assumere in
una società tecnicamente organizzata, ma nello stesso tempo “è diventato il luogo della
radicalizzazione dell’individualismo, dove uomini e donne cercano nel tu il proprio io, e
nella relazione non tanto il rapporto con l’altro, quanto la possibilità di realizzare il proprio
14
sé profondo…”. Nella relazione d’amore, afferma il filosofo, ciò che si cerca non è l’altro,
ma, attraverso l’altro, la realizzazione di sé. L’individuo che cerca l’intimità per sé e non
per l’altro, però, “non esce dalla sua solitudine e dalla sua impermeabilità, non apre
nessuna breccia nella sua identità protetta”. L’amore, ribadisce Galimberti, è una sorta di
“rottura di sé perché l’altro lo attraversi […] Non una ricerca di sé, ma dell’altro, che sia in
grado, naturalmente a nostro rischio, di spezzare la nostra autonomia, di alterare la nostra
identità, squilibrandola nelle sue difese”. In altre parole è “un’incondizionata consegna di
sé all’alterità che incrina la nostra identità, non per evadere dalla nostra solitudine, né per
fondersi con l’identità dell’altro, ma per aprirla a ciò che noi non siamo, al nulla di noi”.
1.3 Il mistero dell’amore e le strutture caratteriali
“Per un essere umano amare un altro essere umano: questo è forse il compito più difficile
che ci è stato dato, il compito ultimo, il test e l’esame finale, l’opera per cui tutte le altre
opere non sono che una preparazione” (Rainer Maria Rilke)
Ponendoci ora da una diversa prospettiva, vediamo che cos’è l’amore attraverso il sistema
dei chakra e lo studio degli stili caratteriali, i quali, in una visione caratterologico-evolutiva,
sono il prodotto del modo in cui ogni individuo ha affrontato, nella sua infanzia, le
problematiche relative alle diverse fasi evolutive. Per citare alcuni esempi e utilizzare il
linguaggio di Alexander Lowen, un bambino che ha sperimentato freddezza e distacco
emotivo da parte dei genitori sin dai primi giorni di vita, o, nei casi estremi, non è stato
desiderato, è predisposto a strutturare un carattere di tipo schizoide, una personalità che
manifesta ritiro rispetto al mondo. E così, un bambino che non è stato amorevolmente
nutrito, sostenuto e toccato, sperimenta precocemente uno stato di abbandono e molto
probabilmente costruirà un’armatura caratteriale di tipo orale, che descriverò in seguito.
“L’incantesimo dell’amore apre la via a una coscienza più ampia. Quando ci innamoriamo
siamo improvvisamente spogliati delle nostre difese […] e proiettati verso una visione
allargata del mondo. L’amore scioglie le nostre rigide attitudini e trasforma la nostra
struttura psichica. Quando ci innamoriamo vediamo le cose come fossero nuove, i colori
sono più intensi, i luoghi assumono un nuovo senso, gli interessi della persona amata
diventano i nostri interessi. […] L’intimità dell’amore rivela e integra l’ombra.
L’accettazione amorevole di un altro fa sì che le parti rifiutate della nostra psiche
15
emergano senza pericolo, l’intimità ci invita a condividere queste parti più profonde e
nascoste di noi stessi. Questa accettazione costituisce il terreno per l’espressione di sé,
poiché soltanto attraverso l’auto accettazione possiamo rivelare la nostra verità in piena
luce e avere il coraggio di esprimerla. Essere amati da un altro accresce la nostra
esperienza del sé, poiché siamo riflessi negli occhi, nelle parole e nel comportamento di
chi ci ama. L’amore porta un risveglio spirituale e la sua perdita produce una profonda
disperazione. Quando l’amore svanisce, siamo riproiettati nel nostro stato infantile di
vulnerabilità in cui tornano nuovamente alla luce le nostre necessità, i nostri aspetti e
processi. […] Tanto la sua presenza che la sua assenza ci spingono a esaminare noi stessi
sotto una nuova luce. Siamo costretti ad affrontare e a curare il nostro dolore per poter
andare avanti…” (Judith, 2014).
L’amore è un mistero, afferma l’autrice, descrivendo le caratteristiche essenziali del quarto
chakra, il chakra del cuore. Lavorare sul quarto chakra (uno dei nostri sette centri vitali)
implica lavorare su un’area importante della salute psichica umana: quella dell’amore. Con
il quarto chakra si reintegrano i principi energetici del protendersi e accogliere. La paura e
il dolore bloccano una o entrambi i movimenti energetici e alla fine possono bloccare lo
stesso chakra del cuore. Si può osservare che quando l’energia del quarto chakra è
bloccato, anche i movimenti fisici che esprimono queste qualità sono bloccati. È attraverso
le braccia che ci protendiamo e tocchiamo, e attraverso le braccia attiriamo a noi quello
che ci è necessario, sia fisicamente che emotivamente. Se il petto è pieno e rigonfio ciò
potrebbe significare un rifiuto di protendersi, il timore di arrendersi, caratteristica propria
del “trattenere” della struttura psicopatica, come viene definita da Wilhelm Reich.
Se le braccia sono deboli, si muovono senza scopo e il petto è infossato (come nella
struttura orale), ciò sta allora ad indicare l’incapacità di accogliere e nutrire se stessi. Il
protendersi può aver subito un blocco perché nel passato si è rivelato infruttuoso. Il
carattere orale infatti, come spiega Lowen, psicoanalista allievo di Reich e fondatore della
bioenergetica, ha origine nel bambino se non viene soddisfatto il suo “diritto ad aver
bisogno”. Questo può avvenire per diverse ragioni: per incompetenza emotiva dei genitori
che non sono capaci di occuparsi del figlio o non ne hanno voglia, oppure per il metodo
educativo che scelgono. Dopo ripetuti tentativi andati a vuoto, il bambino non ha più a
disposizione l’energia per chiedere il soddisfacimento del suo diritto e si sente
16
abbandonato. Il carattere orale ha vissuto quindi una situazione di carenza affettiva: è una
persona che ha avuto troppo poco, che non ha ricevuto secondo il suo bisogno, tanto da
convincersi di non avere il diritto di ricevere. Da adulto il carattere orale si muove tra due
polarità: depressiva ed euforica. Impiega poco tempo a riempirsi di nutrimento affettivo,
ma impiega altrettanto poco a svuotarsi e la sua condizione si ripercuote inevitabilmente
sulla relazione d’amore, creando molto spesso legami di dipendenza.
Quando le nostre relazioni primarie vengono distorte, diminuisce la nostra capacità di
amare e di entrare in contatto, di diventare relazionali. Essere relazionali significa
semplicemente essere in grado di porsi in relazione o di adeguare le nostre esperienze a
un più ampio contesto esterno. Ponendoci in relazione, ci colleghiamo alle cose e vediamo
come esse sono connesse l’una all’altra. Se le relazioni sono distorte, distorto è anche il
nostro senso di come le cose sono collegate. Viene danneggiata una visione più ampia
delle cose, il che ci impedisce di elevarci a un livello più alto del nostro essere. Un
bambino piccolo è un essere aperto, privo di armature, dipendente dalle persone che si
prendono cura di lui. A questo stadio il bambino è un canale d’amore privo di inibizioni.
Se può rispecchiarsi e viene accudito e quando la sua autonomia viene supportata,
significa che è anche amato. Se tutto è andato bene, quando il bambino ha raggiunto lo
stadio del quarto chakra, tra i 4 e i 7 anni, ossia quando la zona del cuore è ben irrorata di
energia, sono state gettate le fondamenta per le relazioni adulte. Se di un bambino ci si
prende cura solo superficialmente, ma non viene toccato o non gli viene prestata
particolare attenzione, anche il suo amore per gli altri sarà superficiale. La sofferenza per
la mancanza di contatto è fisica, il bambino soffre emotivamente per un senso di vergogna
e psicologicamente per un concetto distorto dell’amore. Se viene ignorato o fatto
vergognare proprio dalle persone che sono più importanti nella sua vita, egli interiorizzerà
quella distorsione nella sua relazione con se stesso. La sua voce interna farà da critico e lo
terrà in uno stato di ulteriore svalutazione, perpetuando il circolo vizioso.
Anche nel carattere rigido si è verificata una carenza affettiva e, conseguentemente, un
blocco emozionale. Il suo cuore è stato costretto a chiudersi durante la fase edipica (dai
tre ai sei anni), spesso in seguito a una reazione negativa e umiliante dei genitori al
manifestarsi dei sentimenti teneri del bambino. Questo accade quando il bambino, mosso
da una forte carica energetica che si esprime in un movimento naturale verso il genitore
17
del sesso opposto, riceve da questi un messaggio di seduzione, e dall’altro genitore un
messaggio colpevolizzante. Oppure può verificarsi il caso che, benché all’inizio amorevoli e
presenti, i genitori pretendano all’improvviso che il bambino sia già cresciuto (ad esempio
in seguito alla nascita di un fratellino) e lo rimproverino per il suo bisogno “immaturo” di
amore e sicurezza. Da quel momento il bambino farà in modo di trattenere l’energia e avrà
paura di arrendersi ai sentimenti. Da adulti questi individui avranno perso il contatto con il
loro bambino interiore, dal momento che non è stato permesso loro di essere bambini
molto a lungo, avranno perso la certezza di avere diritto a sentire e volere, vivranno
nell’illusione che il risultato sia tutto e saranno quindi aggressivi, orgogliosi, competitivi.
Ma per quanto grandi siano i risultati che raggiungono, non hanno mai la sensazione di
averne abbastanza e non riescono mai ad arrivare al punto in cui poter lasciare che le cose
vadano come devono andare. È un tratto caratteriale in cui, per certi aspetti, mi sono
riconosciuta in varie circostanze e su cui ho lavorato parecchio!
I tratti somatici del “rigido” sono caratterizzati da un blocco al centro del corpo a causa
dell’energia immobilizzata all’altezza del petto. Spesso il torace non si espande e non si
contrae in modo pieno perché è trasformato in un rigido contenitore per l’energia emotiva
che non può affluire al cuore. Il suo tenersi indietro dal coinvolgimento affettivo si
manifesta con “potenti tensioni alla schiena che possano prevenire lo schiudersi della
tenera parte frontale strutturalmente predisposta all’incontro amoroso. Se lo si guarda di
profilo, si vede chiaramente che lo stare indietro riguarda il petto, il cuore. E poiché è il
petto a essere tenuto indietro, l’atteggiamento è altero” (Marchino, Mizrahil, 2014),
accentuato anche dalla testa alta.
Guarire il “rigido realizzatore” comporta scontrarsi con il bambino vulnerabile e fargli
capire che viene accettato così com’è. Incoraggiando i sentimenti più teneri con un
rispecchiamento positivo, si aiuta il tipo rigido a scoprire le sue emozioni interne e se ne
accresce il flusso. Aiutandolo ad allentare la stretta nel petto con esercizi di bioenergetica
e a esprimere i sentimenti con le braccia, si sblocca il chakra del cuore e si aiuta l’energia
a scendere verso terra. In questo, il corso di counseling gestaltico-bioenergetico è stata
per me un’importante scuola!
18
1.4 Amore e piacere
Vorrei concludere questa introduzione al mio lavoro con un breve cenno alle parole di
Lowen: “Se l’amore è qualcosa di più che una pura parola, deve basarsi sull’esperienza del
piacere”. Per Lowen, alla base dell’emozione dell’amore c’è il bisogno biologico di contatto
e di intimità con un’altra persona. Con questo contatto il corpo viene stimolato e si trova in
uno stato di eccitazione; senza di esso diventa freddo e contratto. Ho accennato sopra
all’importanza del contatto fisico tra genitori e bambini: infatti i bambini hanno un enorme
bisogno di contatto. Anche se diminuisce di intensità durante il periodo di latenza, riappare
nell’adolescenza, quando si attivano le funzioni sessuali. La persona innamorata è
cosciente dell’oggetto d’amore come fonte di piacere. Lowen fa un interessante distinzione
tra amore e desiderio: la differenza si manifesta nel comportamento e nei modi di fare di
una persona. Chi ama anticipa il piacere, il suo corpo è piacevolmente caldo e disponibile
al contatto. La persona che desidera invece è triste e appartata. “Questo intenso desiderio
è anche conosciuto come amore dipendente ed è spesso confuso con il vero amore. Se
una persona dipende da un’altra, verbalizza il suo sentimento come se si trattasse di
amore. Dice: ”Ti amo”, quando questa frase significa: ”Ho bisogno di te”. Il bisogno e
l’amore non sono la stessa cosa. Il bisogno denota una mancanza; l’amore è
appagamento. La dipendenza può essere dolorosa; l’amore è piacevole. L’amore
dipendente lega una persona a un’altra; il vero amore favorisce la libertà e la spontaneità,
che sono gli elementi essenziali del piacere. L’atteggiamento dipendente diminuisce le
possibilità di provare piacere e rende il vero amor difficile, se non impossibile. L’amore
dipendente è caratterizzato dalla richiesta di amore o di piacere; il vero amore dal dare
piacere” (Lowen, 1984)
Tratterò il tema della dipendenza affettiva nel prossimo capitolo.
19
CAPITOLO 2
LA RELAZIONE DI COPPIA TRA NORMALITÀ E PATOLOGIA
2.1 La natura della relazione di coppia
“Una relazione è fluida, è un movimento, un processo…” (Osho, Intimità).
Se la relazionalità è importante per la vita dell’uomo sin dalla nascita, la relazione affettiva
di coppia lo è in modo particolare nella vita adulta. La coppia è innanzitutto un’unità
sistemica, intesa, come affermava Ludwig von Bertalanffy (1968, cit. in Raffagnino, 2010)
a proposito dei sistemi umani, come un’organizzazione dinamica di parti e di processi che
interagiscono tra di loro. L’attenzione è focalizzata non tanto sulle singolarità che
compongono il sistema, quanto su ciò che accade tra loro, sulle dinamiche interpersonali e
relazionali che permettono di identificare una realtà che va oltre le singolarità. Anche il
modello gestaltico ci ha abituato a pensare che nessun aspetto può essere considerato in
se stesso buono o cattivo, funzionale o disfunzionale, ma solo in relazione alla totalità di
cui è parte. Ciò che ognuno dei due partner vive ed esprime è comprensibile se osservato
nel contesto più ampio della coppia paragonabile, per utilizzare una metafora della Gestalt,
allo sfondo da cui ritagliare le figure emergenti che di volta in volta vogliamo conoscere, o
su cui è utile intervenire. Quando si decide di vivere insieme a un’altra persona, il proprio
modo di essere nel mondo inizia a costruirsi in relazione all’altro. Io non sono più solo Io,
ma sono Io in relazione a Te e mi percepisco sia soggetto che oggetto nella relazione e,
nello stesso tempo, percepisco Te in relazione a Me; una reciprocità che è integrata per
formare il senso del Noi.
Il valore della relazione è oltre il valore del sé e dell’altro, è “una metafora a tre termini
che lega il sé, l’altro e il sé più l’altro” (Bateson e Bateson, 1987). L’unità relazionale
presuppone, quindi, un continuo conoscersi e riconoscersi nella realtà costruita e definirsi
in essa. Esiste la coppia nel momento in cui ognuno dei partner riesce a osservarsi e a
viversi come parte integrante di una realtà relazionale e a costruire su tale appartenenza
l’immagine di sé (“io sono in relazione a te”), analogamente a quanto avviene per la
formazione dell’identità sociale (infatti l’appartenenza a gruppi sociali rappresenta un
aspetto fondamentale per la costruzione e la valorizzazione del sé). Sentire di appartenere
significa anche accettare questa realtà e sentirsi accettati dall’altro, significa acquisire la
responsabilità del rapporto, essere motivati cognitivamente ed emotivamente a vivere la
20
propria vita insieme all’altro, significa impegnarsi perché questo progetto possa continuare
a esistere nel tempo. Essere una coppia quindi non è soltanto un modo di comportarsi, ma
un modo di essere. L’identità relazionale si costruisce anche attraverso la capacità della
coppia di differenziarsi da ciò che è altro da sé: una coppia è una realtà che ha bisogno di
definire confini chiari per delimitare l’appartenenza a essa (la non chiara definizione dei
confini con l’ambiente esterno può rappresentare una fonte importante di disagio, difficoltà
e crisi; ad esempio quando non è chiara la distinzione con la famiglia di origine). La coppia
si può considerare una realtà stabile ma in continua evoluzione che, paradossalmente,
riesce a mantenere la propria continuità attraverso il cambiamento, affrontando le sfide
che si presentano nel percorso della vita con un atteggiamento di apertura e un’attitudine
a mettere in discussione ciò che è stato costruito per trovare sempre nuovi e più funzionali
adattamenti. È come dire che l’altro mi serve per crescere ma, nello stesso tempo, la
crescita mi serve per “incontrare” l’altro!
2.2 L’attaccamento come motivazione alla relazione di coppia
Il punto di partenza per comprendere come la teoria dell’attaccamento sia stata applicata
alle relazioni di coppia va cercato, come dicevo nel capitolo precedente, nell’ipotesi di
Bowlby secondo cui, durante la vita, gli individui stabiliscono alcuni legami preferenziali (di
“attaccamento”) ai quali sono affidate quattro funzioni: ricerca della prossimità (vicinanza
fisica ed emotiva); rifugio sicuro (per ricevere conforto nei momenti di disagio); protesta
alla separazione (anche in una coppia adulta si attivano segnali che esprimono dolore per
l’assenza del proprio partner); base sicura (fiducia nella disponibilità del partner). Il
legame d’attaccamento adulto così come quello infantile, una volta instauratosi, spinge a
ricercare il contatto e la vicinanza di una persona specifica che non è sostituibile con altre;
questo diventa evidente soprattutto in situazioni di disagio e di stress, quando si attiva la
richiesta di accudimento nei confronti del proprio partner che è chiamato a svolgere la
funzione di “base sicura”.
Nei rapporti di coppia adulti, ovviamente, questa funzione non va intesa come vicinanza
fisica, ma come sensazione di protezione, cioè sentire il partner emotivamente vicino. In
questo senso si può affermare che la funzione più importante dell’attaccamento è
collegata alla capacità di regolazione delle emozioni. Una relazione tra due adulti che
“s’innamorano”, oppure una fase di forte passione che poi si spegne, non può essere
21
intesa di per sé come un legame d’attaccamento perché quest’ultimo è da considerarsi
come qualcosa di diverso dall’attrazione che può portare due individui a dare inizio a una
relazione; in altre parole anche il legame tra adulti, come accade nelle relazioni infantili,
deve essere duraturo e non transitorio. “La caratteristica del legame d’attaccamento come
legame duraturo spiega anche il permanere della coppia in una situazione altamente
conflittuale, se non di esplicita violenza, proprio per il significato vitale che tale legame
presenta. Come infatti accade al bambino che rimane attaccato al genitore abusante
sviluppando comunque un intenso legame, allo stesso modo nella coppia si può creare una
situazione vittima-abusante che si perpetua in un circolo che può durare per tutta la vita”
(Allen e Fonagy, 2008).
La funzione di base sicura non si stabilisce, dunque, fin dalle fasi iniziali di una relazione di
coppia. Così come i legami di attaccamento che si sviluppano nel corso dell’infanzia
impiegano diverso tempo per organizzarsi, allo stesso modo le relazioni di coppia possono
essere qualificate come legami di attaccamento solo quando perdurano per un certo
tempo che, secondo alcuni, è superiore a due anni. Nella vita quotidiana tuttavia le
funzioni di rifugio sicuro e di base sicura non sempre si realizzano in modo armonioso, ma
dipendono dalle strategie attraverso le quali un individuo regola i propri stati emotivi, che
potrebbero essere di tipo insicuro in relazione alla percezione di sé come persona non
amabile e dell’altro come persona non disponibile: nei momenti di difficoltà infatti, anche
se la relazione di coppia rappresenta un legame sicuro, queste funzioni vengono
“disattivate”. Persone insicure avvertono un forte bisogno di vicinanza che si esprime con
continua espressione di paure, dubbi e bisogni; mentre le persone con un attaccamento
evitante mettono in atto strategie di distanziamento o ritiro.
Alcuni ricercatori si sono posti l’obiettivo di trovare dei punti di contatto tra la teoria
dell’attaccamento e le precedenti teorie dell’amore. Essi hanno trovato una correlazione tra
gli stili di attaccamento e gli stili di amore (Lee, 2009). In particolare, l’attaccamento
sicuro era correlato positivamente all’eros (amore passionale) e all’agape (amore
disinteressato) e negativamente al ludus (amore senza impegno, per gioco);
l’attaccamento evitante si correlava positivamente al ludus e negativamente all’eros; e
l’attaccamento ansioso si correlava positivamente alla mania amorosa (amore dipendente
e possessivo). Sono state valutate anche le componenti della teoria dell’amore triangolare
22
di Sternberg (1986): intimità, passione e impegno. Si è riscontrato che tutte e tre le
componenti erano correlate positivamente con l’attaccamento sicuro e negativamente con
l’attaccamento evitante e ansioso. Tale risultato dà valore all’idea di un legame tra
attaccamento sicuro e qualità della relazione, ma non riesce a stabilire un unico insieme di
correlazioni per i due stili di attaccamento insicuri. Altre variabili misurate distinguono fra
stili evitanti e ansiosi, per esempio gli individui ansiosi riferiscono uno stile di
comportamento conflittuale più dominante.
2.3 Come funziona una relazione: intimità e parità
Lo studio degli aspetti che caratterizzano un rapporto di coppia implica la valutazione di
diverse dimensioni che, interagendo tra loro, creano complesse combinazioni. Il legame
tra i partner infatti può essere pienamente compreso solo considerando oltre al sistema
dell’attaccamento gli altri sistemi motivazionali con cui interagisce: il sistema
dell’accudimento e della sessualità. Questi tre sistemi opererebbero in maniera integrata:
garantirsi la protezione quando si percepiscono situazioni di pericolo (sistema
dell’attaccamento); offrire protezione per rassicurare, sostenere emotivamente ed aiutare
il compagno (sistema dell’accudimento); garantire la trasmissione generazionale del
patrimonio genetico e cementare il legame uomo-donna (sistema sessuale).
Anche se il modello dell’attaccamento permette di fare molte ipotesi sul rapporto tra
l’attaccamento dei partner e il modo in cui essi vivono la loro relazione, dobbiamo tenere
ben presente che la realtà individuale è ben più complessa di quanto si possa leggere nelle
tipologie in esso descritte. Nella relazione affettiva tra adulti, inoltre, c’è una differenza
sostanziale rispetto al legame d’attaccamento nell’infanzia: il rapporto dovrebbe essere
simmetrico, caratterizzato cioè da una reciprocità negli scambi. La reciprocità infatti è un
elemento fondamentale nella vita di coppia, è il fondamento del “Noi” perché presuppone
il riconoscersi su un piano di parità. A questo proposito potremmo dire che la coppia è un
processo di costruzione che parte “dall’a priori della parità”, proprio perché un “Noi” può
esistere solo quando “tutti e due siamo sullo stesso piano”. In caso contrario ci sono un
“Io” e un “Tu” separati.
La disparità comporta delle conseguenze. Se ad esempio uno dei due partner si considera
più “adatto” a prendere delle decisioni, la relazione diventa di tipo gerarchico, perché uno
23
dei due membri assume il ruolo della figura genitoriale, non è sullo stesso piano dell’altro.
In questo caso la sessualità spesso scompare perché non c’è una relazione davvero intima,
viene a mancare il principio dell’Eros che presuppone “dare e ricevere”. La reciprocità va
distinta dalla similarità, ossia dall’assimilare l’altro. Nell’assimilazione l’altro viene
squalificato e spesso ritenuto la causa della sofferenza. La similarità impedisce la
costruzione del Noi perché la categoria di riferimento è “Me medesimo”. In un incastro di
questo tipo non vi è un adeguato riconoscimento della “differenza”. La reciprocità, invece,
comporta una valorizzazione della differenza, nell’ottica che “la differenza fa crescere”. La
reciprocità rappresenta, inoltre, un investimento verso il futuro della coppia perché il senso
del Noi va supportato e questo si verifica appunto in una situazione di reciprocità.
Il secondo elemento costitutivo di una relazione di coppia è l’intimità, intesa come senso di
prossimità, l’esperienza di vicinanza e calore che si può sperimentare nelle relazioni
d’amore. Affinché in una relazione possa essere conseguita questa sensazione di intimità,
dovrebbero essere presenti almeno quattro competenze: la capacità di richiedere un
accudimento al partner nei momenti di bisogno; la capacità di fornire accudimento al
partner quando richiesto; la capacità di sentirsi a proprio agio con se stessi in quanto
persona autonoma e indipendente, pur stando in coppia; la capacità di negoziazione
rispetto a eventuali discussioni che possono sorgere. I primi due punti fanno riferimento
all’equilibrio ideale tra capacità di dare accudimento e cercare accudimento.
Il terzo quesito richiama i concetti di autonomia e indipendenza all’interno delle relazioni,
per cui il senso di intimità in una relazione di coppia dovrebbe essere colto rispetto al
modo in cui i partner sperimentano il loro livello di indipendenza. In altre parole, come
confermano altri teorici che non abbracciano esclusivamente la teoria dell’attaccamento,
“un certo livello di indipendenza sembra essere un elemento necessario allo stabilirsi di
relazioni in cui vi sia un’effettiva intimità” (Erikson 1955; Winnicott 1958; Mitchell 2002 cit.
in Castellano, Velotti, Zavattini, 2010), nel senso che in una coppia “equilibrata” ci si
aspetta la presenza di due Sé separati e autonomi che vogliono stabilire un contatto e, allo
stesso tempo, vogliono preservare le loro differenze. Si parla non solo del bisogno della
vicinanza dell’altro, ma anche dell’equilibrio armonico che dovrebbe stabilirsi tra il bisogno
di prossimità fisica e psichica e la capacità di esplorazione dell’ambiente. Le persone sicure
si sentono più libere di dedicarsi contemporaneamente ad attività esterne alla coppia
24
sentendo il partner “vicino” e in realtà tale libertà segna addirittura l’acquisizione della
funzione di base sicura all’interno della relazione di coppia. Al contrario, nei casi in cui la
funzione di base sicura “fallisce”, ad esempio per le persone ansiose che nella relazione di
coppia ricercano livelli di vicinanza e condivisione di sentimenti irrealistici, queste attività
“esterne” possono essere sentite come una minaccia, perché allontanano il partner e ne
distolgono l’attenzione che viene deviata dalla coppia verso altri interessi. Le persone
evitanti che tendono a rifuggire l’intimità possono incoraggiare in maniera eccessiva il
comportamento esplorativo del proprio partner, enfatizzando l’autonomia e l’indipendenza;
per esempio lo spingono verso un forte impegno lavorativo, suggerendo così a
quest’ultimo l’idea di non dover essere troppo presente fisicamente.
2.4 Il dialogo intimo
Che cos’è l’intimità e in che modo è possibile il suo raggiungimento? L’intimità è stata
considerata in modo diverso da studiosi di differenti aree della psicologia e implica un
insieme ampio di fenomeni e di processi. A volte è associata alla sessualità, altre volte alla
vicinanza emotiva tra gli individui. Hall (1966), per esempio, ha osservato la presenza di
una zona intima in cui gli interlocutori sono così vicini da entrare nello spazio personale
dell’altro. Facendo una digressione filosofica, potremmo dire che c’è intimità “quando il
ritirarsi all’interno di sé sfocia nella relazione con l’Altro; o, all’inverso, per dirla altrettanto
chiaramente, quando è attraverso l’apertura all’Altro che si scopre un più interno a sé, e
l’approfondimento dell’intimità all’interno di me avviene attraverso l’accesso al fuori di me
stesso” (Jullien, 2014).
All’interno di una coppia l’intimità è caratterizzata da vari aspetti: capacità di comunicare,
di negoziare i conflitti, di condividere attività, idee, tempo libero, di sentirsi liberi di
esprimere i sentimenti, di sostenere il partner in un periodo di crisi e di arricchirsi
attraverso uno scambio reciproco di sentimenti, bisogni, valori, attenzioni. Sintetizzando
potrebbe essere definito come un processo di conoscenza dell’altro e di reciproca
espressione di sé. Per poter raggiungere un buon livello di intimità occorre valutare il ruolo
della regolazione affettiva, nel senso che una coppia non può raggiungere uno stato di
intimità se non è in grado di regolare reciprocamente i propri stati affettivi e mentali in
funzione degli scambi con il partner. È importante vedere quali sono le micro oscillazioni
tra la prossimità e la distanza emotiva nelle interazioni tra i due partner. Possiamo
25
chiederci se una coppia è in grado di mantenere un certo equilibrio tra questi due poli o se
invece c’è uno spostamento marcato verso uno dei due, ma è anche vero che una coppia
perviene a un proprio senso di soddisfazione, nel senso che potrebbe essere più funzionale
mantenere un’organizzazione che pende verso il polo della distanza (ad esempio relazioni
in cui i partner si sentono soddisfatti pur condividendo pochi interessi e in cui molto tempo
viene dedicato ad attività esterne alla coppia stessa, senza che questo rappresenti un
problema). Sul versante opposto esistono coppie che trovano un loro equilibrio pendendo
marcatamente verso il polo della vicinanza, come in quelle situazioni in cui i partner
conducono vite caratterizzate da una certa riduzione degli spazi individuali, nelle quali
tutto viene fatto insieme e dove le relazioni esterne sono molto limitate o addirittura
assenti.
La maggior parte delle interazioni tra i due membri della coppia si basa quindi su episodi di
rottura del contatto affettivo, cui segue la riparazione e dunque il ripristino del contatto,
che equivale anche al ripristino della sintonizzazione affettiva. Questo processo appare
destinato a ripetersi idealmente “all’infinito” (direi come un succedersi di gestalt), dando ai
membri della coppia la percezione complessiva della loro intesa. In effetti alcuni studiosi
hanno osservato che il fattore saliente per un normale sviluppo della personalità non è
tanto la sintonia affettiva tra il bambino e la sua figura di riferimento, o la stabilità affettiva
positiva in assoluto, ma al contrario è proprio la capacità di riparazione degli errori
interattivi: con l’accumulo esperienziale di riparazioni di successo, il bambino svilupperà
una rappresentazione di sé come soggetto efficace e dell’altro come attendibile e degno di
fiducia. “Questo senso di fiducia è cruciale per lo sviluppo di relazioni stabili e sicure”
(Bromberg, 2009).
Un rapporto di coppia funzionale non è quindi quello nel quale i due partner permangono
in stati di sintonia indefinitamente: in tal caso infatti potremmo essere di fronte a una
funzionalità apparente. È possibile in realtà che in questo tipo di coppie i partner non
avvertano le transizioni tra momenti di contatto e perdita di contatto, perché non arrivano
a percepire gli stati affettivi propri e del partner. Osservando i vari stili di attaccamento, gli
studiosi hanno rilevato che la relazione tra partner sicuri si caratterizza per la fiducia e la
capacità di accettare e aiutare l’altro, sentendosi a proprio agio vicino a lui. Inoltre i
partner sicuri sperimentano la sensazione che le rotture relazionali possono essere riparate
26
senza perdere la rassicurante continuità del legame d’attaccamento, mentre nei partner
insicuri tale sensazione potrebbe essere sentita come incerta e di conseguenza le rotture
potrebbero essere considerate come qualcosa di deleterio e dunque da evitare oppure
potrebbero essere subite come evento inevitabile. Queste relazioni perderebbero in questo
modo la loro autenticità e dinamicità, sia per incapacità di segnalare le situazioni di perdita
del contatto affettivo, sia per l’incapacità di affrontare la fase di rottura e le emozioni che
comporta. Nelle coppie con stili di attaccamento insicuro ed evitante si osservano
comportamenti di difficoltà nella strutturazione dell’intimità, di insoddisfazione e infelicità
coniugale. In particolare i partner che presentano uno stile di attaccamento ansioso
provano disagio nella relazione, hanno difficoltà a esprimere sentimenti ed emozioni
positive, esprimono ansia di abbandono e vivono l’amore come ossessione coinvolgente. I
partner con attaccamento evitante avvertono disagio vicino agli altri, hanno paura
dell’intimità, sono gelosi, provano emozioni come ostilità, disprezzo e risentimento che
tendono a negare.
Riassumerei questo paragrafo affermando che nel funzionamento di una relazione gli
elementi fondamentali in gioco sono: la reciprocità, l’intimità, la relativa indipendenza, la
valorizzazione della differenza, l’equilibrio tra distanza e vicinanza emotiva, la capacità di
riparazione degli errori, la fiducia in se stessi e nell’altro. A questi elementi aggiungerei
l’importanza della complicità, della progettualità e dell’equilibrio tra accudimento,
attaccamento e sessualità. In molte coppie, infatti, lo sbilanciamento tra il sistema
motivazionale dell’attaccamento e quello dell’accudimento provoca schemi di interazione
rigidi in cui un partner assume esclusivamente il ruolo di accudente e l’altro quello di
ricevente, anche se in alcuni momenti del ciclo di vita questo sbilanciamento è fisiologico.
Pensiamo alle situazioni in cui un partner si trovi in una posizione asimmetrica rispetto
all’altro, cioè quando è particolarmente bisognoso di sostegno (ad esempio per problemi di
lavoro, salute o lutto).
Riguardo all’interazione tra attaccamento, accudimento e sessualità si può tentare uno
schema di questo tipo: le persone con un attaccamento sicuro sarebbero in grado di
negoziare con maggior successo l’integrazione tra sessualità e attaccamento, mentre gli
evitanti si contraddistinguerebbero per la tendenza a separare rigidamente passione e
amore (il famoso “sesso senza amore”: relazioni di breve durata con basso livello di
27
coinvolgimento emotivo perché quest’ultimo potrebbe essere considerato pericoloso in
base alle esperienze passate di rifiuto); infine gli ansiosi tenderebbero a confondere i due
sistemi e mostrerebbero un coinvolgimento intenso e forte vicinanza, che è da collegarsi
alle risposte imprevedibili ricevute in passato, le quali hanno portato a un senso di sfiducia
nella disponibilità dell’altro. La scissione tra legame (attaccamento) e desiderio (sessualità)
che si può riscontrare in alcune relazioni può sfociare nella precarietà del legame.
Desiderio e attrazione sessuale vengono considerati da molti studiosi come funzionali
all’attaccamento perché stimolano la ricerca del contatto con l’altro e alimentano il
mantenimento del legame. Ma queste considerazioni, anche se apportano utili informazioni
al funzionamento della coppia, hanno il limite di rimanere centrati sui singoli partner.
Infatti andrebbe considerato anche l’aspetto interpersonale dei comportamenti sessuali e
le esperienze vissute nel presente con “quel” partner, ed è noto che i conflitti relazionali
possono interferire pesantemente con il desiderio e la soddisfazione sessuale. Piuttosto
frequenti sono anche le coppie in cui la componente della sessualità è assente (Fonagy,
2001), in cui cioè i partner appaiono intensamente attaccati l’uno all’altro con una relativa
assenza di interesse sessuale. A mio parere, il punto che va sottolineato, a conclusione di
questo paragrafo, è che ogni coppia ha una propria organizzazione funzionale rispetto a
questi sistemi motivazionali per cui non necessariamente uno sbilanciamento è da
intendersi come patologico. È anche possibile che, per alcune coppie, un’organizzazione
sbilanciata sia l’unica capace di “far sentire bene” i partner, che trovano così un equilibrio
nella loro relazione. Si tratterebbe, in questo caso, di copioni sentimentali stabili e poco
flessibili che, pur implicando un adattamento “difensivo”, non risultano tuttavia patologici.
2.5 Legami stabili: coppie felici e coppie infelici
L’esistenza di legami affettivi consolidati sembra essere un elemento fondamentale nella
promozione della salute, del benessere e della sicurezza individuale delle persone. Una
relazione riuscita è qualcosa di più di una relazione stabile, in quanto essa dovrebbe anche
consentire ai partner di sperimentare emozioni positive e percepire un senso di
soddisfazione (Simpson 1987, Vangelisti, 2004, cit. in Castellano, Velotti, Zavattini, 2010).
Ci sono relazioni in cui alla stabilità si associa un senso di felicità e quindi di riuscita, altre
in cui questo non accade. I macro e i micro eventi di vita che attraversano la relazione
impongono alla coppia continue riorganizzazioni o “aggiustamenti” che comportano delle
28
modificazioni nei livelli di soddisfazione percepiti. Esistono infatti coppie che in linea
generale si ritengono soddisfatte, ma che comunque vivono nel quotidiano periodi di
benessere e felicità alternati a periodi di difficoltà, per circostanze di vita o per particolari
situazioni. Queste coppie si contraddistinguono per la capacità di gestire e tollerare le
difficoltà tramite la riconnessione emotiva e meccanismi di adattamento volti a superare il
disequilibrio.
Gli studi più recenti si sono focalizzati sulle diverse fasi della vita di una coppia osservando
che, per alcune coppie, la soddisfazione è fluttuante, ma tendenzialmente alta, mentre per
altre è fluttuante, ma tendenzialmente bassa (Bradbury, Fincham e Beach, 2000, cit. in
Castellano, Velotti, Zavattini, 2010). Queste ricerche rappresentano un superamento dei
risultati di studi precedenti che ipotizzavano fasi specifiche e regolari nel corso di un
matrimonio osservando, ad esempio, che nei primi anni di vita coniugale i livelli di
soddisfazione sono alti, per poi decrescere progressivamente dopo il decimo anno di
matrimonio o, secondo le ultime ricerche, dopo il terzo. In generale si può affermare che
per decidere quali sono le coppie felici dovremmo intenderci sul significato del termine
“felicità”. La felicità non dovrebbe essere intesa come una caratteristica stabile di una
relazione ma, al contrario, come uno “stato” che ogni coppia attraversa con modalità
diverse e per periodi più o meno lunghi. È quindi possibile affermare che ci sono relazioni
in cui alla stabilità si associa un senso di felicità e quindi di riuscita, altre in cui questo non
accade.
I partner che si trovano a vivere relazioni stabili ma infelici sembrano avere una
prevalenza di attaccamenti insicuri sia all’inizio della relazione, sia nel corso del tempo.
Alcuni studi hanno tentato di chiarire quali siano le esigenze emotive che inducono alcune
persone a rimanere all’interno di una relazione infelice, ossia, utilizzando il punto di vista
dell’attaccamento, quali siano le esigenze connesse al bisogno di mantenere il legame
d’attaccamento con il partner. Alcuni dati ci suggeriscono l’ipotesi che una persona che
abbia vissuto esperienze di attaccamento, nell’infanzia, con genitori sensibili e responsivi,
abbia appreso a riconoscere l’importanza di esprimere i propri bisogni di conforto nei
momenti di crisi e si consideri meritevole di avere sostegno (funzione del rifugio sicuro);
nello stesso tempo si può presupporre che questa persona abbia appreso a valorizzare il
proprio senso di autonomia e di crescita sapendo di non nuocere all’altro, con la fiducia
29
che l’altro gli starà accanto e lo incoraggerà nella sua realizzazione personale (funzione
della base sicura). Se a un certo punto, nella relazione di coppia, a questa persona
vengono a mancare tali sensazioni di sicurezza dovremmo aspettarci che sia in grado di
avere una percezione chiara di quanto sta vivendo e di valutare i costi e le rinunce che tale
relazione potrebbe comportare in termini di senso di crescita del Sé con l’altro. Questo non
significa automaticamente che lascerà il partner perché gli trasmette insicurezza, ma che
sarà in grado di comprendere correttamente la situazione e cercherà di analizzare insieme
a lui (o lei) che cosa ha determinato la crisi, tentando di comprendere in che modo
“riparare” per ristabilire un contatto emotivo.
Pensiamo, invece, a una persona che abbia avuto esperienze infantili connotate da forte
preoccupazioni (stile ansioso-preoccupato) riguardo l’abbandono e che abbia una
considerazione di sé come non meritevole di conforto e di approvazione, tanto da sentirsi
in balia degli umori dell’altro: è probabile che la sua decisione di perpetuare un legame
anche se insoddisfacente sia dovuta al bisogno di avvertire la costante presenza di una
figura d’attaccamento al suo fianco, perché la sua assenza rappresenterebbe una
conferma del suo percepirsi come privo di interesse e di valore. Se un ipotetico partner
non sarà in grado di mettersi empaticamente in contatto con i suoi bisogni emotivi e
rifiuterà di starle sempre accanto, sentirà come oppressive le sue richieste e percepirà a
sua volta una profonda insoddisfazione. Tuttavia questa persona, piuttosto che non avere
accanto un partner, sceglierà di stare all’interno di queste emozioni che costituiscono
comunque una modalità di contatto con l’altro.
2.5 Legami instabili: coppie fluttuanti e coppie in crisi
Alcuni legami si contraddistinguono per un senso di instabilità. In questo caso può
verificarsi che le coppie, pur avvertendo l’instabilità della relazione, la possano
sperimentare come soddisfacente, oppure sentire che il loro legame è minacciato da un
senso indefinito di pericolo e di fallimento. Possiamo pensare di collocare queste due
tipologie di coppia ai due poli di un continuum. Da un lato possiamo collocare le coppie
“fluttuanti”, ossia quelle caratterizzate dalla percezione di momenti di estrema euforia e
felicità alternati a momenti in cui nulla sembra funzionare. Queste relazioni sono connotate
dalla percezione di una continua oscillazione, tra “alti e bassi”. All’altro polo troviamo le
coppie “in crisi”, cioè relazioni in cui l’instabilità del legame è accompagnata da una
30
maggiore percezione di sentimenti negativi che portano uno, o entrambi i partner, a
denunciare lo stato di crisi del rapporto. Si tratta ad esempio di alcune delle coppie che
richiedono una psicoterapia. Nella maggior parte dei casi vi è un partner che denuncia la
crisi del rapporto e l’incapacità del proprio compagno di cogliere la gravità della situazione.
Chi all’interno della relazione si sente abbandonato o deluso prova spesso emozioni molto
forti: angoscia, dolore, rabbia. Le reazioni possono variare in relazione al grado di
consapevolezza di ciascuno di poter perdere la persona amata in virtù della crisi che si è
determinata. La possibilità di restare soli spinge ogni individuo a evitare questa
circostanza. Bowlby attribuisce l’origine di questo sentimento alla storia ancestrale
dell’uomo, facendo riferimento a quella fase del nostro passato remoto nel quale essere
soli significava essere esposti al pericolo dei predatori. Per queste ragioni “la minaccia di
perdere la figura d’attaccamento suscita angoscia e una vera e propria disperazione;
entrambe queste emozioni, inoltre, suscitano facilmente rabbia” (Bowlby, 1969).
La paura, la rabbia e la tristezza sono le risposte emotive universalmente riconosciute della
mancanza di disponibilità dell’altro: la paura attiva il sistema d’attaccamento in modo che
l’individuo possa ristabilire un contatto con la figura che ha un ruolo significativo sul piano
dell’attaccamento; la rabbia “sostiene” la persona nei suoi sforzi di ricongiungersi al
partner e rappresenta un segnale comunicativo volto a contrastare la mancanza di
disponibilità dell’altro (Bowlby, 1969). La tristezza subentra quando l’individuo riconosce
l’inutilità dei suoi sforzi per ripristinare la vicinanza alla figura d’attaccamento. In questo
caso la rabbia avrebbe una “funzione biologica”: infatti il partner che sperimenta un senso
di rabbia rispetto alla minaccia di abbandono è portato ad attivarsi per evitare che ciò
accada fino al punto di mettersi in discussione per cercare di recuperare il legame col
partner. Quando, invece, la sensazione di perdita è sentita come ineluttabile subentra un
altro tipo di rabbia, la rabbia della disperazione, che è priva di funzionalità ed è diretta
contro la persona che si sente ormai perduta. Il sentimento di rabbia in questi casi è
intriso di disperazione perché la persona non nutre più alcuna speranza di poter modificare
la situazione, per cui tutto l’odio viene riversato su colui il quale sembra impassibile di
fronte al dolore che l’altro sta provando. In casi opposti, un individuo può arrivare a
diventare così irritato al punto da spingere il proprio partner ad allontanarsi ulteriormente
sul piano emotivo. La rabbia e l’ostilità dirette contro la figura d’attaccamento sono
31
dunque delle reazioni alla frustrazione e da questo quadro possono scaturire anche
comportamenti aggressivi e violenti.
Anche le altre emozioni possono evolversi in sintomi disfunzionali (Kobak, 1999, cit. in
Castellano, Velotti, Zavattini, 2010): la paura può trasformarsi in disturbo d’ansia o persino
in sintomi dissociativi; la tristezza in sintomi depressivi. Ciò avverrebbe soprattutto nelle
situazioni in cui queste emozioni non possono essere liberamente espresse perché
provocherebbero, ad esempio, ulteriore risentimento o conflitto con il partner. È possibile
anche che queste forti emozioni, per orgoglio o per tentativo di proteggersi, vengano
celate dietro una maschera di indifferenza. Un ulteriore approfondimento ci porta a
esplorare i motivi di queste reazioni così diverse. Mantenendo sempre valido il riferimento
alla teoria dell’attaccamento, è stato osservato, ad esempio, che le persone con
attaccamento ansioso tenderebbero a reagire in modo più forte alla minaccia della crisi,
sentendo che il pericolo della perdita è incombente. Le risposte d’attaccamento
diventerebbero intense, con reazioni di rabbia più forti durante la fase di crisi della
relazione, oppure con comportamenti altamente ansiosi e possessivi scaturiti dalle ripetute
minacce di separazione. Le persone con attaccamento evitante tenderebbero a esprimere
la sensazione di pericolo in modo meno manifesto, spesso minimizzando l’entità della crisi,
oppure chiudendosi ancora di più in se stesse. Queste persone potrebbero manifestare
indifferenza, sottolineare la loro autonomia e dichiarare di poter andare avanti benissimo
da sole, oppure possono sviluppare reazioni somatiche seguendo, per così dire, una
strategia di “materializzazione” delle problematiche affettive e dei sentimenti.
32
CAPITOLO 3
LE FERITE RELAZIONALI
3.1 Relazioni nevrotiche: vivere nella menzogna
A volte la tensione emotiva tra i partner diventa talmente agghiacciante da ferire molto
seriamente la relazione. Il danno è proporzionale a quanto marito e moglie si sono scelti
per compensare deprivazioni subite nell’infanzia. Ognuno dei due coniugi infatti spera che
il partner possa lenire quelle manchevolezze che nel passato gli sono state inferte da
genitori egocentrici o distratti. Ma colmare le lacune e calmare le ferite del compagno è
impossibile: spesso la fame di appagamento aumenta e quindi chi durante l’infanzia era
stato deprivato dell’amore di cui aveva bisogno si scatena e vuole sempre di più. Il
bambino interno ferito riemerge costantemente, desideroso di provare una perfetta
beatitudine: pretende, reclama e protesta. Questo succede perché la sofferenza dimora
stabilmente nel mondo interiore di ogni adulto “incompiuto” ed esce impetuosamente allo
scoperto. Quando trova un ambiente relazionale deludente, la fame d’amore si amplifica e
diventa devastante. Qualche volta la disillusione allontana dalla realtà facendo “ammalare”
la coppia (e l’intera famiglia se sono presenti dei figli). Qualche altra volta invece lo
sconforto viene messo a tacere con l’uso smodato di sostanze che calmano ogni
inquietudine. Altre volte il caos familiare viene mimetizzato dal silenzio.
Anche se all’interno del nucleo familiare covano rabbia e dolore, genitori e figli sembrano
abbastanza adeguati e adattati. La famiglia struttura così un legame confusivo,
apparentemente normale ma di tipo narcisista, in cui abita un individuo (o più) confuso e
immaturo. Questa famiglia infatti sembra sufficientemente attrezzata per far fronte alla
vita quotidiana nonostante sia disorganica al suo interno e caratterizzata da frequenti litigi,
e diventa impenetrabile. È infatti complesso conoscere da vicino i giochi relazionali che la
attraversano e la soffocano. Le coppie patologiche costruiscono spesso attorno al nucleo
familiare, al di là di ogni apparenza, un involucro protettivo inviolabile.
Prendiamo ad esempio il modello della coppia in cui uno dei due crea un’immagine
grandiosa di sé e onnipresente, mentre l’altro è silenzioso ed evitante. Entrambi
rimangono vicendevolmente incastrati e mettono in atto un copione relazionale difficile da
modificare. Pur non sentendosi intimamente e teneramente uniti e pur accorgendosi ben
33
presto che quello che avevano intravisto era un totale abbaglio, non possono allontanarsi
e si feriscono quotidianamente. La slealtà, la bugia e l’inganno sono il segno di una
psicopatia di coppia. In queste famiglie l’amorevolezza è dunque pura apparenza e ogni
smascheramento di questa verità mette in moto una reazione furiosa. Un coniuge accusa,
l’altro si difende. Anche se il primo sa da sempre che l’amore che riceve non lo soddisfa,
pretende di rimanere nel suo mondo dei sogni. L’inganno permette di rimanere nella
dimensione confusiva che lo rassicura. Si crea una complicità patologica. La menzogna
funziona da rassicurazione nella mente di chi si sente offeso, così entrambi si ritrovano
nella condivisione della falsità e nel supporto reciproco che si danno per sostenerla.
Ci si può chiedere come mai una relazione così nevrotica duri nel tempo e uno dei due
partner non si ponga la domanda “Se non ti amo, perché sto con te?”. Due individui
patologici uniti da un rapporto di tipo collusivo non possono rompere il loro rapporto,
perché la coppia patologica si fonda su di un unico inconscio relazionale che la tormenta
sia se convive, sia se si separa. È come se a livello inconscio ciascuno dei due cercasse
proprio quella persona per trovare una soluzione ai propri drammi personali. Per ognuno
dei due partner lasciar allontanare il compagno o decidere di andarsene di casa
rappresenta un’azione difficile, visto che la sua struttura di personalità si regge sulla
presenza del partner. Da solo sente di non avere nessun valore. Ho già accennato nel
primo capitolo a quanto il dolore e la paura di essere abbandonato riguardi, ad esempio, la
struttura orale, accanto alla rabbia contro “l’oggetto d’amore” che abbandona (Marchino,
Mizrahil, 2014).
La coppia patologicamente fusa non riesce a slegarsi: l’uno è la tessera mancante
dell’altro, il partner è quel carnefice che fa sentire buoni, oppure il poveretto che fa sentire
di essere delle persone di grande valore, o il bisognoso che non si lascia senza aiuto. Da
soli sentono di perdere la stabilità: il marito sente di avere un assoluto bisogno di una
moglie su cui scaricare rabbia, collera e sdegno, così come una donna arriva a credere di
aver bisogno del proprio compagno per addossargli i suoi malumori. La coppia incastrata
da un sentimento di oppressione, e bloccata da un attaccamento patologico, non riesce ad
affrontare un cambiamento. Uno va quindi sempre appresso all’altro: lo tiene
costantemente d’occhio, legge le sue mail, vuole condividere ogni situazione sociale in cui
è invitato il compagno. Ed è immensamente geloso del suo spazio privato. Mette lingua
34
anche nei campi nei quali il compagno è sicuramente più competente, cimentandosi nelle
stesse attività per cercare di eguagliarlo e, se non riesce nell’intento, si accontenta di
denigrarlo, svalutarlo, svilirlo per metterlo sul suo stesso piano. Diventa quindi un pesante
rivale in tutto. L’angoscia di essere una nullità alimenta l’unione infedele, unito al bisogno
di trovare un nuovo appoggio e una nuova opportunità per recuperare autostima.
La logica del legame disperato e disperante tiene unita la coppia afflitta da un incurabile
mal d’amore. La mancanza di soluzioni si trasforma in pretesa, rabbia e rivendicazioni che
va a colpire il partner il quale si difende al fine di non essere svalutato. Nessuno dei due
quindi si stacca, pur sentendosi ingiustamente aggredito perché nessuno dei due tollera di
portare la colpa per una qualsiasi azione che danneggi il coniuge. Entrambi hanno bisogno
di credersi una vittima che si sacrifica per il bene dell’altro. Le colpe depressive, che
porterebbero a una riparazione risolutiva, spariscono e restano a galla solo le colpe
persecutorie. È infatti più tollerabile riconoscere ciò che si subisce di quanto sia possibile
ammettere ciò che si infligge. Espiare giorno dopo giorno libera da un opprimente senso di
colpa, permettendo di addossare, attraverso processi di scissione e di negazione, ogni
responsabilità al coniuge. Quale miglior sacrificio si può compiere di quello di rimanere
accanto a un compagno che si detesta? Un’unione conflittuale quindi, o un divorzio
travagliato, rappresentano il “castigo” che allevia la colpa.
3.2 Relazioni conflittuali
“Quando la sofferenza scende nella nostra anima, gli orizzonti della speranza del futuro si
oscurano” (Eugenio Borgna)
Prima di affrontare il conflitto di coppia credo sia opportuno chiarire se il conflitto sia un
bene o un male per la relazione.
Il conflitto è vissuto e interpretato da ognuno di noi come negativo, è considerato un
termometro importante della crisi della coppia, l’espressione di ciò che non va nella
relazione, la difficoltà dei partner a comunicare e accettare le differenze tra loro. Può
manifestarsi a livelli tali da impedire ai partner di affrontare le situazioni relazionali
problematiche che incontrano nel percorso di vita insieme. Alcune ricerche dimostrano
però che la situazione relazionale non è migliore in coppie che evitano la discussione dei
problemi relazionali e, in modo più generale, ogni forma di conflitto. A volte l’evitamento
35
del conflitto è espressione della credenza che per essere felici bisogna andare sempre
d’accordo. Questa credenza mitica può nascondere la paura di perdere la stabilità
conquistata per cui ogni discussione conflittuale in cui si esprime la differenza tra i partner
acquista il significato di una minaccia di cambiamento che viene vissuta come possibile
rottura e non come una crescita.
Quando i conflitti sono evitati, il legame affettivo tende a strutturarsi sui “non detti”, su
un’illusione di stabilità e di serenità e la relazione tra i due partner viene vissuta “come se
tutto andasse bene” (relazioni patologiche). Si configurano così schemi che escludono la
possibilità di esistere come soggettività, di esprimere se stessi, di sentirsi individui liberi
all’interno della relazione. I bisogni personali, l’espressione di ciò che si desidera di più
dall’altro e dalla relazione sono evitati, in quanto possono facilmente distogliere
dall’obiettivo principale: la stabilità familiare. La vita è vissuta all’insegna dei devo (“Devo
cercare di assolvere a tutti i miei compiti”, “Devo proteggere la mia famiglia e per questo
devo lavorare per sostenerla in modo adeguato”). Il legame viene avvertito come stretto e
rigido ed è facile che i partner possano cercare il senso di “libertà di essere e di sentire” in
relazioni extraconiugali.
In una coppia l’evitamento della conflittualità può essere anche espressione di rapporti di
potere tra i partner. In una relazione affettiva autentica il riconoscimento delle differenze e
la capacità di esprimere il proprio disaccordo rispetto a opinioni, idee, atteggiamenti
comunicati dal partner sono ingredienti fondamentali per essere soddisfatti e felici. A volte
però accade che un coniuge neghi all’altro la possibilità di esprimere liberamente opinioni
contrarie alle sue e si arrabbia se il suo modo di pensare e di vivere la relazione di coppia
non corrisponde al proprio. Questo può accadere sia in modo manifesto, sia in modo più
sottile: attraverso la squalifica dell’altro. Di solito questo avviene perché il partner
interpreta l’espressione della diversità come una sfida alla sua autorità. Centrato su di sé,
sulle proprie convinzioni, pensa che il mondo sia soltanto come lui lo vede e non ammette
contraddittorio.
Concludendo, il conflitto sembra non essere un fattore di rischio per la qualità della
relazione coniugale (Raffagnino, 2010). Nonostante questo, però, molte coppie vanno in
terapia, come la letteratura conferma, perché la loro vita è un inferno per i continui litigi,
anche violenti, che caratterizza il loro rapporto. Chiedono di essere aiutati a ritrovare il
36
piacere di un dialogo tranquillo, che non vuole dire accettare passivamente l’opinione o le
richieste del partner per il quieto vivere, ma riuscire a sostenere la differenza, la possibilità
di affermare ciò che non va senza distruggersi. Comprendere il valore positivo del conflitto
potrebbe già essere un primo aiuto per la coppia, considerarlo come un momento di
confronto in cui si chiariscono i punti di disaccordo, si accettano le diversità e sia possibile
manifestare liberamente opinioni e sentimenti. Il concetto da accettare è che un’ostilità
aperta, anziché essere distruttiva del dialogo, può aiutare a sostenere la relazione. Dietro
ai comportamenti distruttivi del dialogo conflittuale (rabbia, critica, accuse, violenza) si
nascondono spesso i bisogni e i desideri insoddisfatti, le aspettative deluse, i “non detti” e
le paure. Spesso il ricordo di discussioni in cui non ci siamo sentiti compresi dal partner
può attivare l’aspettativa che anche in una successiva discussione possiamo non essere
compresi. Se tale episodio conferma questa aspettativa è facile che, nella nostra mente, si
formi l’immagine del partner come di una persona che non riesce a comprendere e questo
induce ancora a pensare che non si verrà mai compresi. Questa fantasia ci rende sensibili
a tutti quei comportamenti e atteggiamenti che tendono a confermarla, creando così una
profezia che si auto avvera.
Le ricerche hanno confermato che nelle unioni felici i partner tendono a scambiarsi
comportamenti positivi, come empatia, umorismo, interesse, sorriso, che facilitano la
comprensione reciproca. Inoltre svolgono di frequente una funzione di sostegno all’altro,
cosa che ha un ruolo importante nella mediazione del conflitto, e sono capaci di utilizzare
processi sociali come la meta comunicazione, l’esplorazione dei sentimenti, lo scambio
delle informazioni, la distrazione, la scoperta di aree comuni e anche il pettegolezzo. I
“processi sociali”, secondo gli studiosi, sono in grado di aggiustare le interazioni conflittuali
(Gottman e Silver, 1999, cit. in Raffagnino, 2010).
Spesso, nelle coppie in crisi, durante un litigio i partner tendono a comunicare valutazioni
negative sull’altro, a esprimere sentimenti ostili relativi alla relazione o a manifestare
atteggiamenti di critica e di disprezzo verso il partner. Le ricerche hanno identificato in
particolare quattro tipi di comportamento che possono avere effetti molto negativi
sull'interazione coniugale: critica, disprezzo, difensiva, ostruzionismo (i cosiddetti “quattro
cavalieri dell’apocalisse”). La critica va distinta dalle lamentele, che non sono negative in
quanto, attraverso esse, esprimiamo una nostra insoddisfazione; la critica, invece, è un
37
attacco alla persona, al suo essere, alla sua personalità e quando diventa abitudine apre la
strada al disprezzo che implica l’umiliazione dell’altro. “Il disprezzo è velenoso per un
rapporto in quanto trasmette disgusto. È praticamente impossibile risolvere un problema
quando il partner si accorge di essere oggetto del vostro disprezzo” (Gottman e Silver,
1999). Critica e disprezzo, di solito, determinano un atteggiamento di difesa “che è un
modo di rimproverare il proprio partner” o, ancora di più, un atteggiamento di
ostruzionismo, un evitare, un disimpegnarsi emotivamente dalla relazione. La reazione
difensiva è il terzo cavaliere dell’apocalisse: il partner ripetutamente attaccato con offese,
critiche, disprezzo, reagisce mettendosi in una posizione di difesa, non ascolta più l’altro,
nega le sue responsabilità, s’inventa pretesti per i problemi che si verificano. Dalla
reazione difensiva, il passo verso una relazione in cui i partner non hanno più nulla da dirsi
è breve: la reazione difensiva porta al silenzio e poi alla separazione perché si sente che
ormai è perduto l’interesse di stare insieme.
A mio parere esistono altri comportamenti che portano la coppia a un dialogo fallimentare
e quindi a un conflitto sterile: recriminare, rinfacciare, predicare. Recriminare, ossia
sottoporre il partner a un processo in cui vengono puntualizzate le sue colpe, tende a
produrre in chi è accusato reazioni di ribellione in cui le emozioni in gioco sono il rifiuto e
la stizza. È come se questa reazione emotiva cancellasse la colpa e facesse nascere solo la
voglia di scappare o di aggredire. Infatti nella comunicazione non conta soltanto il
significato di ciò che diciamo: il come lo diciamo ne amplifica o ne trasforma l’effetto. Il
rinfacciare è un atto comunicativo che produce effetti ancora più disastrosi del recriminare.
La persona che rinfaccia si pone come vittima dell’altra, accusandola di averla fatta soffrire
con le sue azioni, quindi usa la propria sofferenza per indurre il partner a cambiare
comportamento. Ma purtroppo spesso il risultato è che il partner non solo non cambia
comportamento, ma si arrabbia e diventa ancora più opprimente. Questo risultato
paradossale può essere spiegato ricorrendo allo studio delle relazioni interpersonali e dei
loro effetti. Gli studi confermano infatti che chi si pone come “vittima” costruisce i propri
“aguzzini”. Si viene a stabilire cioè tra i partner una forma di complementarità patogena
della comunicazione che tende a strutturarsi come un vero e proprio copione relazionale in
cui chi è colpevolizzato è portato a reagire rifiutando o aggredendo l’altro che,
vittimisticamente, lo mette in questa posizione. Pur non avendo ancora svolto sessioni di
counseling con coppie, durante la mia esperienza di tirocinio ho potuto osservare più volte
38
questo comportamento vittimistico in giovani donne che hanno chiesto supporto attraverso
la relazione di aiuto. In genere ho trovato che il conflitto di coppia è uno dei motivi per i
quali ci si rivolge più spesso al counselor o al terapeuta.
Per quanto riguarda il predicare, Nardone afferma che questo atteggiamento rappresenta
il “trasporre nella relazione a due un metodo preso a prestito dalla sfera del sermone
morale e religioso” (Nardone, 2013). Infatti la struttura del fare la predica è il proporre ciò
che è giusto o ingiusto a livello della morale e, sulla base di questo, esaminare e criticare il
comportamento altrui. L’effetto di questa azione comunicativa è di far venire la tentazione,
anche in chi non ce l’ha, di trasgredire le regole morali poste a fondamento della predica
stessa! È interessante notare che all’interno di una “buona predica” possiamo trovare sia la
recriminazione che la puntualizzazione e il rinfaccio vittimistico. In questo senso fare le
prediche rappresenta la quintessenza di un dialogo disastroso. Le stesse reazioni di
irritazione e allontanamento del partner si generano in altre forme di comunicazione, come
l’affermare: “Te l’avevo detto” e “Lo faccio solo per te”. Questa affermazione fa sentire
l’altro in debito e lo costringe a subire qualcosa che lo fa sentire inferiore, bisognoso di un
generoso atto altruistico. Il più delle volte questo aiuto arriva non richiesto ed è irritante
perché mette in una condizione emotiva ambivalente: “dovrei ringraziarlo per la
generosità, ma sono in difficoltà in quanto non è stata da me richiesta, né desiderata”.
Quando uno dei due partner fa pesare all’altro un proprio sacrificio o addirittura un piccolo
favore, questo indica il proprio bisogno di essere riconosciuto e gratificato per ciò che, se
fosse stato davvero generoso, dovrebbe aver fatto senza averlo fatto notare. Credo di
poter individuare in questo atteggiamento il tratto caratteriale dell’“enneatipo due” (uno
dei nove tipi di cui è composto l’Enneagramma, una mappa di personalità). Questo tipo di
personalità infatti è bloccato in questo comportamento nevrotico, la falsa generosità, che
si manifesta attraverso un continuo bisogno di “dare” e un continuo bisogno di ricevere, in
cambio, approvazione e riconoscimento.
3.3 Rottura del legame e lutto amoroso
I legami di attaccamento ci accompagnano “dalla culla alla tomba”. Infatti, come ho già
scritto, una relazione di coppia soddisfacente in cui i partner fungono da base e rifugio
sicuro può aumentare il senso di sicurezza, modificare la percezione di sé, soddisfare
39
bisogni insoddisfatti, lenire ferite non riconosciute nell’infanzia. Non a caso lo stato
d’animo degli adulti privi di un legame amoroso viene definita solitudine emozionale
(Weiss, 1975). E così la perdita di un legame sentimentale può provocare alti livelli di
stress e disagi fisici e psichici che possono comprendere un’ampia gamma di malattie e
disfunzioni del sistema immunitario, fino ad arrivare a varie forme di comportamenti
disadattivi e perfino a gesti estremi come il suicidio.
Nell’ottica della teoria dell’attaccamento l’abbandono del partner si configura come la
perdita della figura d’attaccamento. Separazione e perdita sono i termini che Bowlby
utilizza per indicare l’inaccessibilità della figura d’attaccamento. La sensazione di possibile
perdita del legame può essere interpretata diversamente dai due partner. Può accadere
che, mentre un partner sente che il rapporto è alle ultime battute, l’altro non si sia
nemmeno accorto di essere messo in discussione.
Il cosiddetto divorzio psichico, alla luce della teoria dell’attaccamento, si articola in tre fasi
che rispecchiano quelle delle relazioni primarie: protesta, in cui non ci si rassegna alla
perdita e ci si illude che il legame possa essere ripristinato; fase di sconforto e
disperazione in cui prevalgono la perdita di speranza e la delusione; fase del distacco
emotivo, in cui si rinuncia a tenere vivo il legame. La separazione e il divorzio sono anche
da intendersi sul piano psichico come un processo di lutto per un rapporto che, per diverso
tempo, ha rappresentato la relazione d’attaccamento principale e, spesso, l’investimento
affettivo nei confronti dell’ex partner dura sotto forma di rabbia e di conflittualità. Un
aspetto interessante è che questo processo corrisponde a un cambiamento della
rappresentazione dell’altro, interno al soggetto: “l’altro si rivela diverso da quello che in
precedenza il soggetto aveva costruito dentro di sé”. (Lorenzi, 2010). Spesso la persona si
trova sospesa fra la delusione (“non sei come mi aspettavo che fossi”) e una dolorosa
accettazione di quel che rimane, nonostante tutto, dell’immagine idealizzata del partner.
Fino all’accettazione, che si può considerare il fine maturo del lavoro amoroso, dei risvolti
positivi insiti in una “diversità” che, in un primo momento, non si era desiderata.
Nel gruppo di auto-mutuo-aiuto di cui sono facilitatrice, formato da persone che soffrono
di depressione, ho potuto osservare dal vivo tutte queste sfumature in alcuni partecipanti
caduti in depressione dopo una separazione: Mario, ad esempio, manifestava
continuamente la propria disperazione attraverso atti autolesionistici (tagli sulla cute) e
40
tentativi di suicidio; Silvia è bloccata, da oltre un anno, nella fase della protesta in cui non
riesce a rassegnarsi alla perdita del compagno; Maddalena, dopo aver vissuto un periodo
piuttosto intenso di depressione, in cui non son mancati anche per lei momenti di
disperazione e propositi di suicidio, ha elaborato il lutto e vive, da alcuni mesi, una fase di
benessere fisico e psichico in cui ha ripreso ad alimentarsi in modo corretto (era dimagrita
notevolmente dopo il divorzio) e a condurre una vita normale, scoprendo nuovi interessi.
In un’ottica allargata si può considerare l’esperienza del lutto “come un normale vissuto di
tutte le vicende della vita passionale amorosa” (Lorenzi, 2010). Infatti la vita amorosa è
costellata di piccoli-grandi lutti che sono fisiologici, perché importanti per il rafforzamento
del legame con l’altro sul piano della realtà condivisa. E anche utili, perché, attribuendo
alla relazione caratteristiche di realtà, tendono alla realizzazione di qualcosa che altrimenti
sarebbe solo sogno (Johnson, 1987, cit. in Lorenzi, 2010). Secondo Freud, in base alla
collocazione della perdita amorosa, possiamo distinguere una perdita sentita nello spazio
esterno all’individuo (lutto) da “un’assenza” interna che dà luogo alla malinconia in senso
stretto. “Nel lutto è il mondo che si svuota e si impoverisce, nella malinconia è l’Io stesso”
(Lorenzi, 2010). “Nel lutto la perdita dell’oggetto d’amore lascia il soggetto abbandonato e
triste, privo di nutrimento […]. Il soggetto sperimenta una vera e propria “fame dell’altro”,
una fame insaziabile, così che spesso la perdita rischia di caricarsi di venature persecutorie
fino a diventare un attacco autodistruttivo contro il Sé. In altre parole, non potendo
attaccare l’oggetto d’amore ormai perduto, il soggetto finisce per attaccare il proprio vuoto
interno, l’assenza che l’altro, allontanandosi, gli ha lasciato dentro. Può sorgere una rabbia
diretta verso l’unica cosa dell’altro che rimane: la sua rappresentazione interna” (Lorenzi,
2010).
La fine di una relazione amorosa comporta il confrontarsi con uno dei più tipici vissuti di
perdita. Non si tratta di una condizione in cui qualcosa di oggettivo e materiale non esiste
più, ma viene sperimentata la perdita di qualcosa che è soggettivamente significativo, con
conseguente perdita di senso della vita. Con il passare del tempo nella condizione
fisiologica le esplosioni di dolore si attenuano, il sonno e l’appetito ritornano e così
l’interesse per il mondo. L’assenza che l’altro ha lasciato si riempie o comunque diventa
più sostenibile. Viene rimesso in discussione l’assetto dell’identità che può promuove
tendenze regressive, le quali favoriscono il riemergere di possibilità “altre”: si riscoprono
41
passatempi, attività lavorative, persone e relazioni abbandonate, piaceri dimenticati. Si
attiva un contatto con una serie di nostri “doppi”, intesi come identità che saremmo potuti
essere, ma che non siamo stati.
Ma non sempre le cose vanno così. A volte le reazioni all’esperienza di perdita possono
essere abnormi e assumono le caratteristiche del lutto patologico, sia per intensità delle
crisi di dolore e di disperazione (presenti anche nel lutto fisiologico), sia per la durata. Può
variare anche la qualità delle espressioni psicopatologiche e comparire la tendenza ad atti
aggressivi verso se stessi (retroflessione), o verso gli altri. A volte si delinea anche una
condizione “che può assumere aspetti di pericolosità sul piano sociale” (Lorenzi, 2010).
Può anche verificarsi un marcato ritiro sociale e incapacità a svolgere le consuete attività.
Alcuni studi hanno comunque rivelato che i lutti patologici possono essere inquadrati
anche con criteri psicogenetici: sono fondati cioè su una serie di condizioni
psicopatologiche che sarebbero a monte della manifestazione clinica. (Parkes, 1972, cit. in
Lorenzi, 2010). Questi lutti sono caratterizzati da un’insistente “percezione di presenza”
della persona amata. Inoltre sono presenti in modo ripetuto auto rimproveri e idee di colpa
nei confronti dell’altro, di cui si continua a mantenere altissimo il livello di idealizzazione e
verso il quale ci si sente ancora carichi di doveri, ad esempio accondiscendere alle sue
abitudini o ai suoi capricci del passato, come se fosse ancora presente.
Il lutto patologico conseguente alla fine di una relazione ambivalente, invece, è connotato
da sentimenti di liberazione e di esaltazione. All’inizio prevalgono l’ottimismo, le condotte
esplorative e un senso di pienezza, in altre parole comportamenti che sembrano negare il
vissuto di dolore. Successivamente però compaiono manifestazioni di dolore e disperazione
che il tempo non lenisce, anzi spesso aggrava. La mia esperienza conferma questa
descrizione: Paola, per esempio, che ho conosciuto durante la mia attività di tirocinio,
sembrava felice di uscire con gli amici subito dopo l’abbandono del marito, ma dopo
qualche settimana era in preda a crisi di pianto inconsolabili. Infatti il lutto patologico che
si verifica dopo la rottura di un rapporto ambivalente è segnato da questi passaggi. Sono
frequenti anche agiti e comportamenti autopunitivi, se non autolesivi. In altre parole
compaiono comportamenti finalizzati a un’espiazione postuma per il fallimento della
relazione amorosa: condotte riparative di quanto non è stato fatto o del male compiuto
nella relazione che si è interrotta.
42
Questa situazione è stata riassunta da Freud nell’immagine dell’ombra dell’oggetto che
ricade sull’Io, con sentimenti aggressivi rivolti verso di sé. L’esistenza di queste persone
può configurarsi come una coazione a ripetere il fallimento in ogni nuova relazione
amorosa. Altre volte si sceglie una persona che è agli antipodi rispetto alle proprie
inclinazioni, condannandosi così a un rapporto vissuto come insoddisfacente che acquista il
significato di una riparazione del rapporto precedente. Relazioni simbiotiche con profondo
attaccamento e dipendenza possono dar luogo a lutti patologici con la permanenza, anche
dopo molto tempo, di quegli attacchi di dolore tipici delle prime fasi del lutto non
patologico. In queste persone il ricordo dell’altro viene trattato come un feticcio, con il
tentativo di ingessare il tempo, le cose e gli oggetti che “hanno visto l’altro”, come se
questi oggetti potessero impedire al tempo il suo corretto fluire. Ricordo infatti che una
signora del gruppo custodiva intatto l’accappatoio del compagno, rifiutandosi di lavarlo
anche a distanza di anni dalla separazione. Un’evoluzione di questo tipo può determinarsi
nella coppia caratterizzata da dipendenza in ciascuno dei due partner, a prescindere dal
ruolo apparentemente svolto dentro la coppia. La dipendenza amorosa è l’oggetto del
prossimo paragrafo.
3.4 Dipendenza amorosa e coppie simbiotiche
La dipendenza affettiva è la madre di tutte le dipendenze; tuttavia spesso non è
riconosciuta come tale perché si pensa erroneamente che dipendere dall’altro sia una
manifestazione dell’amore autentico. Il vero amore invece è basato sulla libertà; è quello
in cui una persona autonoma, che sa stare anche da sola, decide di unirsi a un’altra.
L’autonomia è il presupposto, quindi, dell’amore autentico. La dipendenza amorosa è poco
tangibile perché la persona non è dipendente da una sostanza o da un oggetto: dipende
da una presenza. “Quando la persona amata scompare, il dipendente affettivo si ritrova in
piena astinenza: tutto il suo essere è alla deriva, in un’angoscia emotiva simile al martirio.
Il dipendente affettivo presenta un terribile handicap: l’incapacità di essere felice, cui fa
fronte procurandosi una stampella: l’altro. Dipende dall’altro per essere felice e,
soprattutto, per essere amato. Diventa dipendente dall’altro per provare qualcosa e per
esistere. Perde del tutto la sua autonomia” (Deetjens, 2010).
La paura viscerale dell’abbondono e l’assenza di amor proprio, due caratteristiche tipiche
del dipendente affettivo, completano il quadro. Il bisogno d’amore nella persona
43
dipendente è compulsivo e insaziabile e oltre a portare a un comportamento sottomesso
conduce a un’angoscia di separazione. All’origine della dipendenza affettiva vedo
emergere, spesso, i tratti tipici del “carattere orale” (spesso riconoscibile negli enneatipi 2,
3 e 4 dell’Enneagramma, i cosiddetti “emotivi”). La persona cerca al di fuori di sé l’amor
proprio che non è riuscita a sviluppare. Infatti spesso chi non riesce ad avere amor proprio
e autostima sogna l’amore che colmi l’immenso vuoto che lo pervade e il giorno in cui il
dipendente affettivo si trova in coppia, l’altro acquista un valore inestimabile, che però non
sempre è reciproco. Di fatto venera un’icona, la idolatra. Nella relazione finisce per sparire
progressivamente e diventare l’ombra dell’altro. Non c’è una vera relazione, ma solo
l’inseguimento dell’illusione di un amore passionale.
I rapporti simbiotici sono patologici perché, riproducendo a oltranza il legame fusionale e
confusivo tra il bambino e la madre, tipico dei primi mesi di vita, non danno la possibilità a
ciascun partner di realizzare una relazione paritaria. I componenti di una coppia simbiotica
non sono infatti psicologicamente adulti e, pur potendo vivere insieme, sono destinati a
momenti drammatici quando uno dei due viene a mancare. E spesso nei casi in cui, dopo
la morte del coniuge, l’altro lo segue molto in fretta, non è tanto il loro volersi bene a
determinare la ravvicinata morte del superstite, quanto il fatto che questi era dipendente
dal coniuge deceduto e dopo la sua scomparsa non è stato in grado di gestirsi la vita da
solo.
Il dipendente affettivo in genere è un amante attento e sempre pronto a soddisfare il più
piccolo bisogno dell’altro, dimenticandosi di se stesso. Pensa di non meritarsi di dedicare
del tempo a sé, crede che la vita si svolga altrove. Trae sollievo solo dal piacere altrui e la
paura di perdere l’altro lo imbavaglia. La sensazione di non valere molto lo rende muto.
L’altro ha tutta la sua attenzione: lo esamina minuziosamente, lo analizza e lo
psicoanalizza. Si costruisce lunghi scenari e sogna per due, perché da solo non ci riesce. In
preda a una divorante passione, non è innamorato di qualcuno, bensì di un’immagine, di
una percezione, di un’illusione della perfezione. Il suo bisogno d’amore è infinito. Niente gli
dà veramente sicurezza. In genere si innamora non per star meglio con qualcun altro, ma
per sentirsi meno peggio con se stesso. Non è in contatto con le proprie emozioni, le vive
attraverso l’altro. Nega i propri bisogni e si accontenta di poco. Nonostante si ritenga
abbastanza fedele, se è troppo succube della dipendenza rischia di diventare l’ombra di se
stesso che minaccia di sprofondare nel lato oscuro della propria debolezza. Può allora
44
moltiplicare le proprie relazioni per paura del rifiuto, della solitudine e del vuoto,
rischiando, suo malgrado, di diventare un infedele.
3.5 Amore narcisistico
“L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nell’esigere che gli altri vivano come
pare a noi” (Oscar Wilde)
Un narcisismo malato ha effetti deleteri sulle relazioni affettive, in particolare su quelle
amorose. Esistono un narcisismo sano e uno patologico. Il primo corrisponde all’amore e al
rispetto di sé, a una giusta dose di autostima e di auto fiducia. È quindi garanzia di salute
contro la depressione ed è alla base di un senso di benessere e di sicurezza, caratteristiche
indispensabili per un buon rapporto con se stessi e gli altri. Il narcisismo patologico,
invece, si verifica quando la persona investe troppo sul Sé, interessandosi molto della
propria immagine esterna e trascurando quella interna. Questo processo avviene quando il
bambino, per farsi accettare dagli adulti, sacrifica fin da piccolo la propria identità,
sostituendola con un’immagine che non gli appartiene (la brava “donnina”, l’ometto”,
ecc.). Impara cioè a negare, già dai primi anni di vita, i propri sentimenti, reprimendo
specialmente la paura, la rabbia, la gelosia, la tristezza perché danneggiano l’immagine
che i “grandi” hanno di lui. L’immagine da offrire agli altri diventa talmente importante da
innamorarsene, come nel mito di Narciso. E così un “Io grandioso” compensa un Sé
povero, ma il contrasto tra quello che si vuole apparire e quello che si sente porta a
disturbi patologici: sensazione di vuoto, incapacità di sentire, demotivazione al vivere e
quindi depressione o ipocondria.
Il narcisista soffre soprattutto di una rappresentazione instabile di sé, con reazioni
contrastanti: grandi ambizioni e crisi di insicurezza, fasi megalomaniache e sentimenti di
inferiorità, momenti maniacali e incertezze, troppa sicurezza e insicurezza. Presenta quindi
scarsa o assente capacità relazionale. A livello di coppia non sa vivere i rapporti nel segno
della reciprocità, perché incapace di amare. L’iperinvestimento sul Sé porta a un
ipoinvestimento sul partner, con il quale non riesce a entrare in sintonia ed empatia. Si
tratta quindi di rapporti a rischio. In tutti i tipi di relazione il narcisista conosce gli altri non
per quello che sono, ma per la loro immagine; non è realmente interessato a ciò che è
“altro da sé”. Lotta per il potere, per tranquillizzare la propria vulnerabile fragilità, ma più
45
ha potere più ha paura di perderlo, per insicurezza profonda. È infatti un soggetto che vive
male e che non può godersi le cose poiché è incapace di entrare in relazione con esse. Nel
rapporto con la compagna spende tutte le energie unicamente in favore di se stesso, mira
a soddisfare le proprie richieste, a prendere e ad avere, considerando la partner come
un’estensione di sé e non come una persona. Descrivendo la vita affettiva con la
compagna non disdegna frasi del tipo: “Io sono un buon amante e un buon marito”,
oppure “Io sono al centro della sua vita”, affermazioni che non tengono conto dell’altra
persona e delle sue reali esigenze.
“L’amore è portarsi fuori di sé, incentrarsi sull’altro, sul come è. Il narcisista pretende di
essere amato ma non sa amare, pur esercitando spesso un enorme fascino sull’altro sesso,
sia perché possiede una bella immagine per un corpo piuttosto curato, sia perché presenta
un notevole potere seduttivo dovuto alla sua pseudo sicurezza e al suo porsi in modo
brillante che lo rendono interessante” (Dacquino, 2009). Nel rapporto di coppia il narcisista
non è in grado di stabilire una relazione matura, poiché i suoi obiettivi sono quelli di
valorizzare se stesso e auto proteggersi, tende cioè a fare di sé il punto di riferimento
intorno al quale organizzare ogni esperienza affettiva. Ha bisogno di uno specchio in cui
trovare sempre riflessa la propria immagine. Essendo troppo concentrato sulla propria
persona, non entra in contatto con la partner e non ne cerca l’intimità, ne coglie solo dei
frammenti e su questi inventa una storia d’amore, considerando vere le proprie costruzioni
fantastiche. Il rispetto per la partner è stato sostituito dalla presunzione, dall’orgoglio e
dalla vanità: tutti comportamenti dovuti all’esagerazione dell’amor proprio, a una continua
autoesaltazione. Anche per questo è affetto da una vera e propria anestesia emotiva.
Il narcisista nella sfera affettiva è sempre sulla difensiva perché, pur senza rendersene
conto, si ricollega alla primaria relazione con la madre che non l’ha rassicurato. Manca
infatti di sicurezza originaria poiché nei primi anni di vita non è stato amato per quello che
era e ha subito frustrazioni affettive. In genere gli adulti narcisisti sono portatori di un
bisogno di calore e di rassicurazione, inappagati nell’infanzia, che ricercano nelle
compagne. Spesso sviluppano un nevrotico bisogno di dipendenza o di dominio che non
ha nulla a che fare con l’autentica motivazione ad amare. Spesso intrecciano rapporti con
molti partner, atteggiamento tipico della persona incapace di costanza affettiva, in preda a
una coazione a ripetere per il proprio bisogno nevrotico di verificare il proprio valore.
46
3.6 Il doppio legame
“L’amore non deriva dal senso del dovere, ma dal battito del tuo cuore, dalla tua
esperienza di gioia, dal tuo desiderio di condividerla” (Osho)
Tra le perturbazioni nella vita della coppia, la più destabilizzante è sicuramente quella del
doppio legame, che corrisponde a vivere due relazioni contemporaneamente ed è tipica di
quelle persone che, non potendo rinunciare alla prima relazione, non riescono neppure a
fare a meno della seconda. Spesso queste situazioni si verificano nei casi in cui ci si sposa
(o si decide di convivere) più per un bisogno inconscio di sicurezza che per un vero
innamoramento. Il partner risponde in questi casi a un’intensa necessità di avere accanto
qualcuno che rassicuri e protegga, come accade spesso a persone insicure o deprivate
precocemente dell’amore e del sostegno di cui necessitavano durante l’infanzia. A volte il
partner stesso si sente “rassicurato” dal rapporto con una compagna (o compagno) che
dipende affettivamente da lui. Assumere il ruolo, ad esempio, di padre di una moglie
dipendente gratifica il proprio bisogno di potere. “Il problema si pone quando, con il
passare degli anni, alla bambina-moglie il padre non basta più. Ma uscire da una
situazione di doppio legame non è facile, perché interrompere uno dei due rapporti
comporta, in ogni caso, una dolorosa lacerazione: nella persona convivono sia il bisogno di
un punto di sicurezza, sia il bisogno di una gratificazione amorosa”. (Dacquino, 2010).
Altre volte è il tempo che logora l’amore, lo consuma determinando un ritiro
dell’investimento affettivo nel partner. L’energia viene convogliata sul soggetto stesso o su
una terza persona.
Gli effetti delle reciproche frustrazioni ripetute per anni si manifestano nella coppia quando
non c’è stata crescita psicologica o culturale in entrambi i componenti, quando si è sospesi
tra un matrimonio che non si ha il coraggio di disfare e un rapporto che non si ha la forza
di vivere fino in fondo, oppure quando l’uno dedica all’altro soltanto le ore di stanchezza.
Spesso ci si sente soli. È sbagliata l’idea che il sentirsi soli sia una prerogativa di chi non
vive in coppia. Non sempre il matrimonio o la convivenza sono un rimedio al vuoto
affettivo, specie quando si crede che la soluzione sia negli altri e non in se stessi.
L’interesse per una terza persona nasce allora dal bisogno di una comunicazione profonda,
di una relazione intima che comporti tenerezza, calore, comprensione, abbandono. Altre
volte nasce invece dal bisogno nevrotico di conferme, di rafforzare la propria autostima e
47
fiducia in sé. Anche in questo caso chi trasgredisce può essere molto legato, nel profondo,
al partner, che rappresenta per l’inconscio un sostituto della figura genitoriale (quindi un
punto di sicurezza) e per il “conscio” il partner giusto da non lasciare.
Nei casi di infedeltà cronica, invece, questo comportamento si radica in una pulsione
aggressiva profonda rivolta inconsciamente nei confronti del partner, verso il quale si nutre
rancore. L’infedeltà può essere adolescenziale quando si vive il coniuge come “genitore” e
si hanno le “cotte”, oppure climaterica, tipica dei cinquantenni che desiderano partner
giovani. Esiste poi l’infedeltà “da noia”, quando la monogamia sfocia nella monotonia.
Sono i casi in cui la coppia è separata da un muro costruito giorno dopo giorno con i
mattoni del torpore sessuale, della routine, dell’abitudine. Il bisogno di evasioni
trasgressive diventa impellente quando la necessità è quella di trovare, in una nuova
relazione, accettazione, apprezzamento e tenerezza. I motivi quindi del tradimento sono
innumerevoli. Se dietro a un’infedeltà vi sono spesso noia, frustrazione affettiva,
solitudine, disperazione, bisogno nevrotico di verifica e pulsioni di autodistruzione,
l’infedeltà è l’ultimo anello della catena. Prima che la si consumi si è creato il silenzio
affettivo e sessuale e, prima ancora, la perdita di fiducia, la disistima, l’indifferenza o
l’intolleranza. A volte si verifica che sia l’altro a spingere verso l’adulterio rifiutando il
partner, oppure mettendo in atto una condotta aggressiva. Proprio per questo suo ruolo
ne è soltanto una vittima apparente. Spesso è un individuo opaco, noioso oppure
presuntuoso o aggressivo, “perché un coniuge a volte se ne va non tanto perché ha voluto
andarsene, ma perché gli è diventato impossibile rimanere. (…) Il vittimismo del coniuge
tradito non aiuta i partner nella riconciliazione: è impossibile riconquistare l’amore dell’altro
con i rimproveri. È molto meglio rassicurarlo anziché aggredirlo con impietosa rabbia e
spirito di vendetta”. (Dacquino, 2010). Conviene sempre scegliere la strada del dialogo. Il
tradimento è fonte di disagi, rancori, sensi di colpa, sfiducia nell’altro che possono
influenzare sia la possibilità di ricostruire una relazione perturbata dall’evento, sia una
separazione che, come avvertono talvolta i partner, non è veramente tale in quanto
persiste tra loro un legame negativo che non permette di separarsi effettivamente. La
reazione è associata al modo in cui la coppia ha costruito nel tempo la propria relazione, al
tipo di legame strutturato e anche in questo caso “la possibilità di aiutarli a superare
l’evento critico è associata alla conoscenza, all’analisi, alla comprensione dello sfondo
relazionale su cui si ritaglia la figura” (Raffagnino, 2010).
48
Nel processo evolutivo del sistema coppia "la crisi può essere osservata come l’interruzione
del flusso continuo che mette alla prova la capacità dei partner di integrare, all’interno del
sistema, gli eventi e i fatti che lo hanno perturbato” (Raffagnino). La transizione è
avvertita, nelle coppie in crisi, come un declino, in quanto si “guarda al vecchio che se ne
va” e i punti di riferimento, che fino a quel momento permettevano di orientarsi nella
realtà, incominciano a vacillare. Invece di indirizzarsi verso la crescita della relazione, i
partner si rivolgono verso la sua dissoluzione. Ciò che appare disgregarsi è la nozione del
tempo come evoluzione: “Il futuro si smaglia e si decompone in un orizzonte temporale in
cui il presente si fa monade inquieta e discontinua che fatica a liberarsi del passato”
(Borgna, 2003). I partner si trovano imbrigliati all’interno di difficoltà e a scambi
comunicativi distorti in cui domina un’incapacità a decentrarsi dal proprio modo di
osservare la realtà. Il senso di colpa è l’elemento centrale che impedisce alla coppia di
proiettarsi nel futuro e ciò che si frappone tra loro impedisce di soddisfare il desiderio di
ricostruire una relazione diversa. Spesso, lavorando sul senso di colpa, si recupera la
speranza di recuperare ciò che è perduto.
La speranza implica un atteggiamento positivo nei confronti della vita e della relazione, di
tolleranza e di indulgenza che, a sua volta, può aiutare i coniugi a perdonare il partner che
ha offeso. “Perdonare non significa dimenticare, ma riuscire a modificare lo stato emotivo
che accompagna l’offesa subita e riconoscere come questo cambiamento sia una scelta
che può avvenire solo in modo gratuito” (Molinari e Ceccarelli, 2007). Il lavoro del perdono
è lento e faticoso, non dipende mai dai comportamenti dell’altro, ma da un raccoglimento
e da una decisione del soggetto. “Il gesto del perdono […] non può dipendere dalla
preoccupazione di non disperdere al vento una storia fatta di memoria e di desideri, né
può dipendere dall’atto del pentimento di chi ha tradito […]. Non sarà mai quello che farà
l’altro a rendere possibile il perdono […] e così l’impossibilità del perdono non dipende
tanto da un giudizio negativo su colui che ha tradito, ma dal rapporto di chi è stato tradito
con la sua possibilità (impossibile) di tornare ad amare” (Recalcati, 2014). Il lavoro implica
anche l’opportunità di intraprendere percorsi di aiuto individuali di cambiamento dove si
lavora su acquisizioni relative al sé, maturate durante la propria storia e la storia della
propria famiglia. Molto spesso il tradimento viene considerato l’indicatore di uno squilibrio
emozionale proprio della coppia come unità, nel senso che non esistono in assoluto vittime
innocenti e vili traditori, ma è plausibile che entrambi i partner partecipino alla co-
49
costruzione dell’evento. Per questo motivo un tradimento non va mai visto sul piano
individuale, quanto piuttosto in relazione alla funzione che ha all’interno della relazione. Il
tradimento può essere infatti considerato un evento grazie al quale entrambi i partner
potrebbero rivedere il ruolo svolto dai propri comportamenti e soprattutto comprendere le
emozioni dominanti in loro.
Tra le letture che ho effettuato su questo argomento mi ha colpito in particolare una frase
del testo Coppia fragile in cui gli autori, Zattoni e Gillini, parlano di antivirus per ogni virus
che tenta di minare un rapporto di coppia. In relazione al virus del tradimento, in
particolare, dicono: “L’antivirus potrebbe attestarsi proprio qui: nel riconoscere la qualità
imprevedibile, rischiosa, non misurabile del rapporto d’amore. In campo affettivo la fiducia
sfrenata nelle garanzie (ovvero il “ti amerò per sempre”) non permette al rapporto di
fiorire, perché l’amore non nasce quando qualcuno ti chiede di amarlo. L’amore è
difficilmente inquadrabile in confini ristretti come quello delle garanzie, è connesso
all’imprevisto, così come l’imprevisto è parte della vita nel suo complesso. Nessuno può
garantire all’altro d’amarlo per sempre se “per sempre” si intende provare gli stessi
sentimenti, le stesse emozioni dell’innamoramento. Ma uno può garantire che ogni giorno
“sceglierà” di amare l’altra persona” (Zattoni e Gillini, 2015). Come sostengono gli autori,
se il rapporto d’amore è soggetto a garanzie e misure gli si impedisce di evolversi:
“sarebbe come misurare un bellissimo neonato perfetto e delizioso e chiedergli di non
crescere”.
50
CAPITOLO 4
IL LAVORO SULLA COPPIA
4.1 Obiettivi della terapia
L’approccio terapeutico gestaltico, su cui si basa la mia formazione in counseling, si fonda
sull’esperienza e sulla presa di contatto diretto con i dati di realtà (approccio
fenomenologico). Infatti “per il gestaltista la vera esperienza è terapeutica e correttiva di
per sé” (Naranjo, 1991). Fare esperienza nella relazione d’aiuto significa, ad esempio,
“esplorare modalità comunicative diverse da quelle spesso insoddisfacenti e ripetitive da
cui (il soggetto) si sente imprigionato” (Zerbetto, 2008). In sostanza si tratta di
sperimentare nuovi modi di essere. L’approccio fenomenologico, inoltre, implica il prestare
attenzione a “ciò che si manifesta prima di presumere di accedere a ciò che si nasconde”,
ad esempio al linguaggio corporeo. Ma la terapia della Gestalt si nutre dell’apporto di
correnti filosofiche e terapeutiche di fonte diversa (comprese le tradizioni orientali), quindi
attribuisce molta importanza anche all’immaginazione e alla creatività, cioè proprio a
quegli aspetti che una lunga tradizione psicologica ha considerato privi di attendibilità e di
validità scientifica. Infatti “nella concezione della Gestalt ogni vissuto ha […] una
componente sia cognitiva, sia immaginativa, emozionale, sensopercettiva e vegetativo-
corporea” (Zerbetto, 2008).
Il contesto terapeutico, in questa prospettiva, diventa il laboratorio dove il cliente può
sperimentare, nel qui e ora, emozioni, sensazioni e nuove modalità di porsi in relazione, in
modo che accada “qualcosa di reale”, come affermava Perls. Un setting che corrisponda a
queste caratteristiche è costruito sulla comunicazione interpersonale e su un rapporto che
non è formale ma, come ho potuto sperimentare anche personalmente durante il mio
percorso terapeutico, sostanziale, cioè espressione di un coinvolgimento empatico da parte
del terapeuta, condizione indispensabile per aiutare i partner ad “aprire le porte del cuore
e della mente”. In questo contesto il professionista della relazione d’aiuto si pone di fronte
alla coppia come co-costruttore del processo che va via via dispiegandosi durante i
colloqui, accompagnando i partner in un percorso di conoscenza di sé, dell’altro e di “sé
con l’altro”. Infatti il focus, nel lavoro con le coppie, è sulla relazione, sul Noi, ma anche su
ogni “Io” rispetto a quel “Noi”, in un percorso che va dalla coppia all’individuo,
dall’individuo alla famiglia di origine attraverso il racconto della propria storia, e di nuovo
51
alla coppia. Durante il lavoro con le coppie mi sembra importante rilevare che “il primo
passo è portare all’attenzione ciò che la coppia sa già fare. Proprio nel momento di
scoraggiamento in cui la coppia chiede aiuto, essa ha già spontaneamente fatto qualcosa
per funzionare bene. Attirare l’attenzione su questo punto è un grande sostegno che
predispone i partner all’ascolto delle intenzionalità positive dell’altro”. (Lee, 2009).
Come in ogni altra relazione d’aiuto, per affrontare un lavoro con le coppie, più che
imparare tecniche e metodi di conduzione dei colloqui, è importante un percorso di
riflessione che aiuti a fare i conti con il proprio vissuto, le proprie paure e i significati
personali attribuiti alla vita a due. Ottenere la giusta distanza rispetto alla propria
esperienza permette di stare nel presente con l’altro per riuscire a coglierne emozioni,
sensazioni e percezioni. Per quanto riguarda l’obiettivo della terapia, sono convinta che
non si possa prescindere da un percorso di conoscenza di sé che riguardi ciascun partner e
di conoscenza del tipo di legame che li unisce “in modo da consentire loro di giungere a
scegliersi in quanto soggetti liberi e consapevoli” (Raffagnino, 2010). Liberi dunque di
scegliersi ancora, durante o al termine del percorso terapeutico. Questo concetto,
espresso in modo chiaro nel testo di Rosalba Raffagnino, mi sembra molto importante.
Credo che ogni percorso di riflessione sulla propria vita e sulle proprie relazioni debba
portare a una nuova scelta consapevole delle persone con cui costruiamo rapporti, e, in
particolare, rapporti di coppia. Spesso, infatti, queste scelte vengono fatte
inconsapevolmente per svariati motivi. A volte sono decisioni affrettate che si fondano
sull’entusiasmo dell’innamoramento, ma su una incompleta consapevolezza di sé, oltre che
su una scarsa conoscenza dell’altro.
Nel momento in cui la coppia richiede un intervento psicoterapeutico esprime uno stato di
sofferenza non più tollerabile, ma non sempre la richiesta di terapia è una richiesta di
cambiamento. La modalità con cui i partner richiedono aiuto è da considerare molto
importante. Spesso si presentano con motivazioni diverse: uno dei due, ad esempio, può
essere motivato dal bisogno di trovare un alleato per riuscire a portare avanti una
battaglia contro il partner, percepito ormai come antagonista, oppure dalla necessità di
riuscire a parlare con il compagno attraverso il terapeuta; a volte cerca un supporto per
continuare a sostenere una relazione disfunzionale. Può verificarsi, inoltre, che i partner
intendano delegare il terapeuta a dare loro consigli, anziché assumersi la responsabilità di
52
un cambiamento effettivo. L’obiettivo principale per chi fa richiesta di una terapia di coppia
è scegliere se continuare a costruire un legame oppure separarsi. Per questo motivo credo
sia importante accompagnare i partner in un percorso che li aiuti a misurarsi, oltre che con
la propria responsabilità, anche con le proprie fragilità e i propri limiti. Può essere difficile
assumersi la responsabilità della rottura del legame perché questo evento chiama in causa
vecchi fantasmi legati al proprio ruolo nella famiglia di origine, oppure riaccende il bisogno
e il desiderio del focolare domestico, la paura della solitudine e della realtà esterna. Inoltre
comporta anche la responsabilità dello sfaldamento della famiglia.
Il mio punto di vista è che accettare di rimanere insieme al partner come scelta, tenendo
conto dei propri limiti e delle proprie vulnerabilità, e di quelli del partner, sia già un
cambiamento. In questo senso si può dire che l’obiettivo della terapia è stato raggiunto.
L’aiutare i partner a scegliersi di nuovo implica una serie di passaggi, il primo dei quali è la
consapevolezza di sé in relazione all’altro, che si fonda sulla capacità di ognuno di noi di
auto osservarsi e di osservare l’altro, di cogliere punti di vista diversi dal proprio e riuscire
ad accettarli, sviluppando un ascolto attivo. Queste competenze scarseggiano nelle coppie
in crisi, in cui i partner si accusano reciprocamente e attribuiscono all’altro la responsabilità
della situazione, considerando il proprio modo di spiegare la crisi come quello giusto. Non
c’è dialogo e rispetto delle differenze, né desiderio di trovare un punto di accordo.
L’obiettivo sarà allora indirizzare il lavoro verso l’acquisizione di un nuovo punto di vista da
cui osservare e vivere la realtà relazionale. Proprio in quanto laboratorio di esperienza, il
setting può essere pensato anche come un palcoscenico in cui rappresentare se stessi,
giocare le proprie parti, per conoscersi e conoscere l’altro. In linea con il modello
terapeutico gestaltico, mi sembra fondamentale proporre esperienze che incoraggino
l’attenzione alle emozioni e ai segnali corporei, facilitando anche l’attuazione di percorsi
immaginativi che tengano conto della dimensione di un futuro insieme, dei desideri e delle
aspirazioni di entrambi i partner.
Ricordo i colloqui effettuati, durante il tirocinio, con una giovane donna che aveva chiesto
di essere aiutata a scegliere se rimanere con il fidanzato e mantenere la sicurezza di un
rapporto ormai consolidato nel tempo, oppure riacquistare la propria indipendenza.
Abbiamo scoperto insieme che questo conflitto era espressione di due parti interne scisse
che si negavano a vicenda per difendersi dal dolore della scelta dell’una vissuta come
53
perdita dell’altra e abbiamo quindi spostato all’esterno il conflitto per renderlo più visibile,
attraverso il lavoro con la sedia vuota (tecnica gestaltica del monodramma). Infatti
collocare sulla sedia le due immagini di sé, in contrasto tra loro, permette di osservare e
“agire” il conflitto (sperimentare), quindi entrare in contatto con i propri vissuti emotivi,
che sono sempre strettamente connessi con le immagini mentali. L’obiettivo è di integrare
le due parti in lotta tra loro. Durante il mio percorso terapeutico ho constatato anche
l’importanza della narrazione: “il racconto e il raccontarsi permettono di leggere i fatti e i
comportamenti della vita non più come qualcosa di estraneo, ma come qualcosa di sentito,
vissuto e pensato” (Raffagnino, 2010). Permette anche di contattare i bisogni insoddisfatti
della vita a due e di mettere a fuoco gli elementi del conflitto, che può essere esplicito o
elusivo, cioè nascosto e teso a mantenere la relazione. Quest’ultima modalità di vivere una
situazione conflittuale porta all’accumulo di rancore e insoddisfazione nella coppia.
Inoltre è utile scoprire se i partner si sono scelti per similarità o differenza. Le coppie che
si scelgono per somiglianza spesso vanno d’accordo perché sono molto affini, ma rischiano
di diventare noiose, perché all’interno della relazione c’è poco scambio e scarsa possibilità
di cambiamento o evoluzione. Il bisogno evolutivo, infatti, è una parte sentita nella coppia
e se non viene soddisfatto può portare ad esiti infelici. Nella scelta del partner avvenuta
per differenza l’altro affascina perché va a colmare ciò che manca nella personalità del
primo e lo scambio che si verifica tra di loro è nutriente e arricchente per ognuno dei due.
A volte però i partner sottolineano la differenza come elemento traumatico. In questo caso
credo sia importante incoraggiarli a riflettere su ciò che li ha uniti, ossia proprio sulla loro
diversità. Un punto importante da chiarire, sul quale ho riflettuto durante il mio personale
percorso, è che occorre tollerare il fatto che l’altro non è in grado di darci tutto, quindi è
necessario decidere che cosa riteniamo sia fondamentale per noi e di che cosa possiamo
fare a meno.
4.2 Continuità e cambiamento nella coppia.
“Una relazione è fluida, è un movimento, un processo…” (Osho)
Altro passaggio fondamentale è lavorare sulla progettualità, il che sottintende considerare
la coppia un micro mondo in evoluzione, una minuscola organizzazione “dinamica e
finalizzata a un progetto evolutivo” in linea con una considerazione complessa della realtà.
54
In questa prospettiva acquista centralità la capacità della coppia di proiettarsi nel futuro in
modo da sentirsi immersa in un percorso di cambiamento. Scegliere “vuol dire non restare
ancorati al vecchio, ma optare per un nuovo ancora sconosciuto” (Gadamer, 1987, cit. in
Raffagnino, 2010). Quando aumentano gli anni trascorsi insieme, il passato può divenire
sempre più invadente, la vita può riempirsi di ricordi, di nostalgie, di aspettative
insoddisfatte, di desideri mai realizzati. Tutto questo, però, non è attribuibile tanto al
tempo che scorre quanto al modo in cui è vissuto e, soprattutto, alla difficoltà di vivere la
vita come un continuo rinnovamento, una scelta quotidiana che permetta di non cadere
nell’ovvio e nell’abitudine. Coloro che hanno bisogno di mantenersi aggrappati a quello che
hanno conquistato e non riescono a considerare che il passato possa avere un naturale
declino difficilmente si aprono al nuovo e lo guardano con fiducia. “Ancorarsi al passato
immobilizza la relazione nell’abitudine, nel già vissuto, privandola della creatività
necessaria al suo mantenimento nel tempo” (Raffagnino, 2010).
Un esempio è rappresentato dalle coppie che, nonostante vivano sentimenti
d’insoddisfazione e d’infelicità, non riescono né a separarsi, né a cambiare. Sono “coppie in
stallo” (Vella e Solfaroli Camillocci, 1992). Quando uno dei due partner minaccia di
abbandonare l’altro, questo si riavvicina di nuovo e il proposito non si tramuta mai in una
decisione effettiva. In queste coppie possiamo riconoscere un meccanismo simile a quello
che Sartre descrive a proposito del giocatore che decide di non giocare più. Davanti al
tavolo la decisione di abbandonare il gioco “non è che il ricordo di un’idea, di un
sentimento […] e dopo aver costruito pazientemente barriere e muri, dopo essermi chiuso
nel cerchio magico di una soluzione, mi accorgo con angoscia che niente mi impedisce di
giocare. E l’angoscia sono io…” (Sartre, 1943). Sono io che decido, io che attribuisco un
significato a ciò che sta accadendo. Credo che il discorso possa essere esteso a ogni tipo
di dipendenza. L’angoscia, come sosteneva Sartre, nasce nel momento in cui l’uomo si
svincola dal mondo dell’azione, dalla quotidianità dell’agire e inizia a riflettere sulle sue
azioni. Accade anche quando i partner iniziano a riflettere sulla relazione, su ciò che sta
accadendo loro, distaccandosi dall’agire quotidiano e la crisi può sopraggiungere quando
osservano, percepiscono e si crea qualcosa che non corrisponde più all’esperienza. A
questo punto hanno davanti a loro due strade: cambiare o rimanere ancorati al presente,
alla quotidianità, esprimendo la difficoltà di scegliere una via diversa, in cui il passato
55
ritorna in modo ossessivo. Ma sono io che scelgo di cambiare o di restare, di accettare o
non accettare! Sono io che mi prendo la responsabilità.
Ci sono però anche situazioni in cui la costruzione della relazione di coppia si basa
sull’illusione del sempre nuovo. Coloro che esprimono il bisogno del “sempre nuovo”
hanno difficoltà a definire e strutturare una relazione che duri nel tempo, che implichi una
continuità con ciò che è e ciò che è stato, cioè di rinnovarsi e di rigenerarsi insieme al
partner nell’ambito di una relazione stabile. In conclusione, passato e futuro si ampliano o
si restringono a seconda del significato che ciascuno attribuisce alla vita in generale e alla
vita di coppia in particolare. Il lavoro sul tempo con le coppie permette di cogliere il modo
in cui ognuno vive e attribuisce significato al presente, al passato e al futuro.
56
CONCLUSIONI
Guarire il chakra del cuore
“Per guarire il cuore bisogna prestare grande attenzione agli aspetti più vulnerabili e sacri
che ci portiamo dentro” (Anodea Judith)
I terapeuti familiari e gli psicologi hanno esaminato quali caratteristiche dei partner, quali
comportamenti e atteggiamenti distinguono le coppie che si separano o che hanno
rapporti insoddisfacenti da quelle che vivono una buona relazione. Da questi studi non
emergono facili ricette sul come “far durare l’amore”, però i risultati ci offrono spunti
interessanti su cosa può fare ognuno di noi per tentare di costruire rapporti migliori. Mi
riallaccio a un concetto già espresso all’inizio di questo lavoro: per amare e far durare
l’amore è indispensabile amare se stessi e per amarsi è necessario sentirsi degni di amore.
Si ottiene questa condizione quando si “guarisce” dall’amore negativo.
L’amore negativo (sensazione di non essere amati) è un concetto introdotto da Robert
Hoffman alla fine degli anni Sessanta per spiegare perché il bambino emula i
comportamenti dei genitori e perché da adulto continua ad attuarli automaticamente. Noi
tutti abbiamo umori, atteggiamenti e comportamenti negativi che provengono da un livello
emozionale molto profondo e che riflettono la sensazione di non essere in grado di amare
o di non essere degni di ricevere amore. La nostra prima esperienza con i genitori ha un
profondo effetto sulle nostre vite, sviluppiamo le nostre strategie di sopravvivenza in
conseguenza del condizionamento ricevuto durante l’educazione. Che cosa guida il forte
impulso inconscio che ci costringe a essere come i nostri genitori? Il rapporto di
dipendenza assoluta dal loro amore, il tentativo, primitivo e innocente, di non essere
separati da loro. Nelle nostre vite da adulti continuiamo in modo incontrollato a
manifestare i modelli di comportamento negativi provenienti dall’infanzia, nel tentativo
continuo di essere amati, pur sapendo che sono sbagliati e inadeguati alle circostanze.
Quando i nostri comportamenti negativi non portano l’amore che vogliamo e di cui
abbiamo bisogno diamo la colpa agli altri. A tempo debito, anche i nostri figli adotteranno i
nostri modelli in modo da assicurarsi il nostro amore (“programmazione emotiva”). In
questo modo la “sindrome dell’amore negativo” passa alla generazione seguente. Nel
vivere questa “negatività adottata” oscuriamo la nostra essenza d’amore innata e vera.
57
Secondo Hoffman, quando saremo veramente capaci di perdonare i nostri genitori dai
livelli più profondi del nostro essere, emozionalmente e intellettualmente, allora potremo
perdonare noi stessi. Il perdono interrompe il nostro bisogno interiore e la dipendenza dai
genitori della nostra infanzia, permettendoci di essere liberi dagli schemi negativi adottati,
eliminando la necessità di agirli in modo incontrollato e automatico in una continua
coazione a ripetere. Potremo allora scegliere il comportamento più appropriato per noi in
un dato momento o situazione.
Nella mia esposizione ho esplorato il rapporto tra stili di attaccamento infantili e forme di
relazioni amorose da adulti. In generale, come ho cercato di dimostrare, i risultati
mostrano che solo gli adulti con uno stile sicuro dichiarano di essere in grado di instaurare
facilmente relazioni intime perché hanno imparato a confidare nell’amore dell’altro. Chi
invece ha subito un’interruzione dell’amore da parte dei genitori (a causa di abbandoni o
divorzi), o è stato oggetto di un amore condizionato, si è sentito non adatto a essere
amato e una parte di sé è come se fosse stata soffocata: l’io essenziale. Secondo Hoffman
questa è la causa che sta alla base della nostra incapacità di relazionarci in modo
amorevole con noi stessi e con gli altri. Il suo metodo (Hoffman Quadrinity Process)
permette di lasciar andare e risolvere la sensazione negativa di non essere amabili,
attraverso la consapevolezza che, durante il processo di identificazione avvenuto
nell’infanzia, inconsciamente abbiamo adottato anche le caratteristiche negative dei nostri
genitori (oltre a quelle positive), per sentirci degni del loro amore. Raggiungere questa
consapevolezza, senza condanna ma attraverso sentimenti di comprensione, sapendo che,
a loro volta, anch’essi hanno ricevuto la “programmazione dell’amore negativo”, accettarli
completamente per chi e che cosa erano e sono, provare compassione per l’infanzia che
hanno vissuto, rende possibile il perdono.
Il principio che ispira il metodo Hoffman è: tutto quello che è stato preso può essere
lasciato andare. Il metodo Hoffman getta un ponte tra il punto di vista della psicoterapia e
quello delle tradizioni spirituali. La psicoterapia sostiene che occorre attraversare il dolore
dell’infanzia, la tradizione spirituale afferma che bisogna trascendere le emozioni negative
e coltivare quelle positive, come amore e perdono. Hoffman ha riunito entrambi gli
approcci: prima si affronta il dolore (reale o immaginario) fino a esaurirne la carica, poi si
impara a provare amore dove prima si sentivano emozioni negative. Il fine è sviluppare un
58
sano senso di sé per permetterci di non dipendere da altri. Il metodo si fonda sul concetto
di “quadrinità” dell’individuo, cioè i quattro livelli del proprio essere: fisico, intellettuale,
emotivo, spirituale. Utilizzando vari strumenti come la scrittura, la visualizzazione, la
condivisione e l’espressione emotiva il lavoro consente di sperimentare tutti e quattro i
livelli e di recuperare la funzione dell’Io essenziale, cioè ciò che è già presente sin dalla
nascita. Il sacro di noi.
Qual è il segreto?
“L’amore non dà nulla all’infuori di sé, non prende nulla se non da se stesso. L’amore non
possiede, né vuole essere posseduto, perché l’amore basta all’amore” (Kahlil Gibran)
Da tempo si è appurato che la somiglianza di atteggiamenti va di pari passo con
l’attrazione. Tendiamo a scegliere persone che condividano le nostre opinioni, si
comportino in modo simile a noi, difendano i nostri atteggiamenti. Una forte attrazione
fisica reciproca nasce anche tra persone spesso molto diverse, persino complementari. E
per certi aspetti la complementarità funziona. Ma se le diversità complementari a volte
cementano una coppia, varie ricerche dimostrano che i matrimoni tra persone di etnie,
classi sociali, religioni, abitudini, livelli di scolarità, gusti e interessi divergenti sono più a
rischio. Infatti le troppe diversità diventano nel tempo fonte di conflitti e disaccordi. I
rapporti tendono a durare più a lungo tra coniugi che sono simili in alcuni aspetti rilevanti
di personalità, ad esempio nel grado di autostima. In un’interessante ricerca è stato
riscontrato infatti che persone che hanno un’autostima elevata, se valutate positivamente
dal partner, esprimono fiducia e sentimenti di reciprocità verso il partner stesso. I coniugi
con una bassa autostima, anche quando sono valutati positivamente dai loro partner, sono
sospettosi e non accettano con fiducia il suo giudizio. In un’altra ricerca si è riscontrato
che le coppie i cui partner apprezzavano l’umorismo e amavano ridere insieme avevano
rapporti più soddisfacenti di coppie che ridevano raramente. “Ridere è una cosa seria”!
(Francescato, 1992).
Imparare a litigare bene
Secondo alcuni autori, la capacità di auto rivelarsi all’altro costituisce il criterio per il
progredire di una relazione. I modi in cui i partner utilizzano queste rivelazioni inoltre
59
rivelano un aspetto del carattere cruciale nel favorire i buoni rapporti di coppia. Infatti
alcuni, quando il partner si apre, mostrano una tendenza a capire e proteggerlo; altri,
invece, alla prima occasione usano le informazioni ricevute per umiliarlo, biasimarlo o
metterlo in ridicolo durante un litigio. Alcuni studi si sono concentrati sui processi di
comunicazione tra i due e hanno rilevato che si differenziano per le modalità con cui
gestiscono la relazione di fronte a un disaccordo, più che per le cause del litigio. Le coppie
capaci di restare più a lungo insieme tendono a usare strategie di negoziazione,
compromesso e accondiscendenza verso i bisogni del partner. Soprattutto sono capaci di
litigare senza svalutare o aggredire l'altro, fisicamente o verbalmente, utilizzando modalità
di coercizione o dominio. Quelle infelici tentano invece di imporre all’altro il proprio punto
di vista, oppure utilizzano strategie di evitamento, fingendo di niente, chiudendosi nel
mutismo e rifiutandosi di affrontare il disaccordo.
Anche lo stile attributivo ha la sua importanza. I risultati di una ricerca hanno messo in
luce che i coniugi che tendevano ad attribuire al partner la responsabilità di eventi
problematici erano meno soddisfatti dei loro rapporti. Invece le coppie più soddisfatte
attribuivano gli eventi negativi a fattori esterni alla coppia o transitori, usavano cioè stili
attributivi “in modo da ridurre l’incidenza dei comportamenti negativi e di rinforzare la
relazione”. Diminuire la frequenza degli atti distruttivi è cruciale per il benessere coniugale,
più cruciale che impegnarsi in atti costruttivi, dato che molte persone tendono a ricordare
più a lungo gli eventi negativi di quelli positivi. Le coppie soddisfatte tendono a utilizzare
tecniche di accomodamento, cioè a reagire ai comportamenti distruttivi dell’altro in un
modo costruttivo (ascoltare attentamente in silenzio, dire qualcosa di positivo su quanto
l’altro ha affermato) in modo da proteggere il rapporto. I partner delle coppie
disfunzionali, al contrario, rispondono con comportamenti ugualmente distruttivi, cioè con
ostilità o rabbiosi ritiri.
In genere i motivi di disaccordo sono simili: come dividere i lavori domestici, come
spendere il denaro, come educare i figli, dove andare in vacanza, quando e quanto vedere
amici e parenti, quanto tempo spendere da soli o in coppia. È diverso però il modo di
litigare. I membri delle coppie serene non si svalutano a vicenda, ma si limitano a
commentare un comportamento, anziché colpire il partner con un giudizio sull’intera
persona. I componenti delle coppie serene non rimuginano solo sui torti dell’altro, ma
60
sono anche autocritici e autoironici; non si rinfacciano tutti i torti subiti precedentemente,
chiedono scusa con più facilità se si accorgono di aver sbagliato, non cercano di colpire
l’altro nei punti deboli. Infine lo humor viene usato con intento amichevole, per prendere
in giro un comportamento dell’altro in modo bonario ed è spesso autoironico. Nelle coppie
infelici invece viene usato più spesso il sarcasmo con l’intento di svalutare il partner. Per
concludere, è importante che nella vita di coppia nessuno cerchi di cambiare l’altro e
accetti i propri e altrui mutamenti. Come affermavo nel capitolo precedente, la coppia non
è un’entità fissa e immutabile. Tra i rimproveri delle coppie insoddisfatte prevale proprio
l’accusa che l’altro sia cambiato, che non sia più l’uomo o la donna di cui ci si era
innamorati e quindi uno dei due partner cerca di cambiare l’altro nella direzione voluta,
scatenando continue lotte di potere. Le coppie che durano nel tempo sono più flessibili e
in continuo movimento. I problemi nascono quando i bisogni rispetto al grado di
autonomia, all’interno della coppia, mutano solo in uno dei due partner e questo si traduce
spesso in contrasti su quanto tempo passare da soli o in coppia.
Un altro punto critico ruota intorno alle esigenze, o meno, di novità: alcuni adorano la
sicurezza e reagiscono negativamente quando il partner manifesta tale esigenza. I rapporti
felici sono caratterizzati dalla presenza di passione, intimità e impegno verso il rapporto.
Quando, per esigenze diverse di uno dei due partner, l’intimità o la passione mutano, le
coppie che durano rafforzano l’impegno verso il rapporto, accettando gli alti e bassi erotici
ed emotivi come parte inevitabile del rapporto di coppia. Le coppie insoddisfatte, invece,
sono meno capaci di accettare i mutamenti, l’alternarsi di sentimenti positivi e negativi
presenti in ognuno di noi e cercano di far tornare l’altro com’era prima, rimproverandolo
perché è cambiato. Le coppie che si contraddistinguono per un buon rapporto comunicano
meglio, sanno ascoltare l’altro e quindi, di fronte ai problemi innescati dal mutamento,
riescono meglio a comprendere che cosa sta succedendo. Sono molte le persone che
hanno difficoltà a trovare in una relazione il giusto equilibrio tra intimità e autonomia.
Cercano di favorire un aspetto a scapito dell’altro e non riescono a capire che hanno
bisogno di entrambi. Ma amare è anche amare la libertà dell’altro perché “l’amore ci
permette di esporre il nostro nucleo istintivo e di evolverci verso lo stadio successivo, che
è quello di esprimere la nostra verità” (Judith 2014).
61
Ho dato inizio al mio lavoro con una poesia di Kahlil Gibran, poeta e filosofo libanese.
Affido di nuovo alle sue parole il compito di concluderlo, ringraziando tutti coloro che nella
mia vita familiare, sociale e nella mia formazione come professionista della relazione
d’aiuto, mi hanno offerto la grande possibilità di riflettere su un argomento centrale per le
nostre vite: l’amore.
L’amore non dà nulla all’infuori di sé, né prende nulla se non da se stesso.
L’amore non possiede né vuole essere posseduto, perché l’amore basta all’amore. […]
E non crediate di guidare il corso dell’amore,
poiché l’amore, se vi trova degni, guiderà lui il vostro corso.
L’amore non desidera che il proprio compimento.
Ma se amate e quindi avete desideri, i vostri desideri siano questi:
sciogliersi e farsi simili a un ruscello che scorra e canti alla notte la sua melodia.
Conoscere il martirio della troppa tenerezza.
Essere feriti dal vostro proprio intendere l’amore,
e sanguinare di buon grado, gioiosamente.
Svegliarsi all’alba con un cuore alato e dire grazie a un nuovo giorno d’amore;
riposare nell’ora meridiana e meditare sull’estasi amorosa.
(Kahlil Gibran, da Il profeta)
62
BIBLIOGRAFIA
ALLEN John, FONAGY Peter (a cura di), La mentalizzazione. Psicopatologia e trattamento,
Il Mulino 2008
ALLEN Elizabeth, BAUCOM Donald, Adult Attachment and patterns of extradyadic
involvement, Family Process n. 43, pp. 467-488, 2004
AUDEN Wystan Hugh, La verità, vi prego, sull’amore, Adelphi 1995
BAUMAN Zygmunt, Vita liquida, Laterza 2005
BENJAMIN Jessica, Legami d’amore, Bollati Boringhieri 1991
BATESON Gregory, BATESON Mary Catherine, Dove gli angeli esitano. Verso
un’epistemologia del sacro, Adelphi 1993
BORGNA Eugenio, L’arcipelago delle emozioni, Mondadori, 2003
BOWLBY John, Una base sicura, Raffaello Cortina 1989
BOWLBY John, Attaccamento e perdita, Bollati Boringhieri 1999
BROMBERG Philip, Destare il sognatore. Percorsi clinici, Raffaello Cortina 2009
CARLI Lucia, CAVANNA Donatella, ZAVATTINI Giulio Cesare, Psicologia delle relazioni di
coppia, Il Mulino 2009
CASTELLANO Rosetta, VELOTTI Patrizia, ZAVATTINI Giulio Cesare, Cosa ci fa restare
insieme?, Il Mulino 2010
DACQUINO Giacomo, Che cos’è l’amore, Mondadori 2009
DACQUINO Giacomo, Paura d’amare, Mondadori 2010
DEETJENS Marie Chantal, Dire basta alla dipendenza affettiva, Punto d’Incontro 2013
FRANCESCATO Berto, SCALARI Paola, Mal d’amore, La Meridiana 2011
63
FRANCESCATO Donata, Quando l’amore finisce, Il Mulino 2012
FREUD Sigmund, Tre saggi sulla teoria della sessualità, in Opere, vol.IV, Boringhieri 1969
FREUD Sigmund, Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri 1976
GALIMBERTI Umberto, Le cose dell’amore, Feltrinelli 2004
GROSSI Guido, Tienimi per mano, 2010
GHEZZANI Nicola, La paura di amare, Franco Angeli 2012
GIBRAN Kahlil, Il profeta, Piemme 2004
HALL Edward, La dimensione nascosta. Il significato della distanza tra i soggetti umani,
Bompiani 1968
HAZAN C., ZEIFMAN D. E MIDDLETOWN K., “Adult romantic attachment, affection and
sex” (Presentato alla 7th International Conference on personal Relationship, Groningen,
Olanda, 1994)
JUDITH Anodea, Il libro dei chakra, Neri Pozza 2014
JULLIEN François, Sull’intimità, Raffaello Cortina 2014
KAES René, Le alleanze inconsce, Borla 2010
LA ROCHEFOUCAULD François de, Massime, Rizzoli 1992
LEE Robert, Il linguaggio segreto dell’intimità, Franco Angeli 2009
LORENZI Primo, Il mal d’amore, Antigone 2010
LOWEN Alexander, Il piacere, Astrolabio 1984
MARCHINO Luciano, MIZRAHIL Monique, Il corpo non mente, Sperling 2014
NARANJO Claudio, Teoria della tecnica Gestalt, Melusina 1991
64
NARANJO Claudio, Amore, coscienza e psicoterapia, Xenia 2011
NARDONE Giorgio, Correggimi se sbaglio, Ponte alle Grazie 2008
OSHO, Intimità. Fidarsi di se stessi e degli altri, Riza Edizioni 2007
PERLS Frederick, L’io, la fame, l’aggressività, Franco Angeli 1995
RAFFAGNINO Rosalba, Liberi di scegliersi ancora, Le Lettere 2010
RECALCATI Massimo, Non è più come prima, Raffaello Cortina 2014
RAINER Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Mondadori 2000
SLEPOJ Vera, La psicologia dell’amore, Mondadori 2015
STENBERG Robert, A triangular theory of love, Psycological Review, vol. 93, n. 2, pp. 119-
135, 1986
STROCCHI Maria Cristina, La coppia che scoppia, Punto d’Incontro 2009
VELLA Gaspare e SOLFAROLI CAMILLOCCI Danilo, Né con te, né senza di te. La coppia in
stallo, Il Pensiero Scientifico 1992
WINNICOTT Donald, Gioco e realtà, Armando 1976
ZATTONI Maria Teresa e GILLINI Gilberto, Coppia fragile?, San Paolo 2015
ZERBETTO Riccardo, La Gestalt. Teoria della consapevolezza, Xenia 2008