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2018

L’unità del diritto

Collana del Dipartimento di Giurisprudenza

14

DIALOGHI CON GUIDO ALPAUn volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno

a cura di

Giuseppe ConteAndrea Fusaro

Alessandro SommaVincenzo Zeno-Zencovich

Università degli Studi Roma TreDipartimento di Giurisprudenza

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Con questa Collana si intende condividere e sostenere scientificamente il progetto edito-riale di Roma TrE-Press, che si propone di promuovere la cultura giuridica incentivando la ricerca e diffondendo la conoscenza mediante l’uso del formato digitale ad accesso aperto.

Comitato scientifico della Collana:Paolo Alvazzi Del Frate, Paolo Benvenuti, Bruno Bises, Mario Bussoletti, Giovanni Cabras, Giandonato Caggiano, Enzo Cardi, Paolo Carnevale, Antonio Carratta, Mauro Catenacci, Alfonso Celotto, Renato Clarizia, Carlo Colapietro, Emanuele Conte, Giorgio Costantino, Antonietta Di Blase, Carlo Fantappiè, Lorenzo Fascione, Ernesto Felli, Sabino Fortunato, Aurelio Gentili, Elena Granaglia, Giuseppe Grisi, Andrea Guaccero, Luca Luparia Donati, Francesco Macario, Vincenzo Mannino, Luca Marafioti, Enrico Mezzetti, Claudia Morviducci, Giulio Napolitano, Giampiero Proia, Giuseppe Ruffini, Marco Ruotolo, Maria Alessandra Sandulli, Giovanni Serges, Giuseppe Tinelli, Luisa Torchia, Mario Trapani, Vincenzo Zeno-Zencovich, Andrea Zoppini.

Coordinamento editoriale:Gruppo di Lavoro

Elaborazione grafica della copertina: Mosquito mosquitoroma.it

Impaginazione: Colitti-Roma colitti.it

Edizioni: ©Roma, novembre 2018ISBN: 978-88-32136-05-0

http://romatrepress.uniroma3.it

Quest’opera è assoggettata alla disciplina Creative Commons attribution 4.0 International License (CC BY-

NC-ND 4.0) che impone l’attribuzione della paternità dell’opera, proibisce di alterarla, trasformarla o

usarla per produrre un’altra opera, e ne esclude l’uso per ricavarne un profitto commerciale.

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Collana del Dipartimento di GiurisprudenzaL’unità del diritto

La collana di studi giuridici promossa dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre assume un titolo – quello de L’unità del diritto – che può apparire particolarmente impegnativo perché il fenomeno giuridico riflette la complessità delle società che il diritto mira a regolare, si sviluppa intorno ad una molteplicità di articolazioni e sembra pertanto sfuggire ad una definizione in termini di unità. Anche la scienza del diritto, intesa come riflessione intorno al diritto, come forma di conoscenza che assume il dirit-to ad oggetto diretto e immediato di indagine, sia nella prospettiva teorica sia in quella storico-positiva relativa ad un singolo ordinamento, soffre a trovare una sua dimensione unitaria. La riflessione intorno al diritto, da qualunque punto di partenza si intenda affrontarla, ammette una pluralità di opzioni metodologiche, contempla una molteplicità di giudizi di valore, si caratterizza inevitabilmente per una pluralità di soluzioni interpretative. L’unico, generalissimo, elemento che sembra contraddistinguerla in senso unitario è dato dal suo essere rivolta alla conoscenza del diritto, dal suo ca-rattere conoscitivo dell’esperienza giuridica complessivamente intesa, una unità, potrebbe dirsi, figlia della diversità e varietà delle scelte di metodo e del pluralismo interpretativo, ma pur sempre una unità quanto meno in questo suo nucleo irriducibile. Ed è allora questo il senso da attribuire al titolo della collana che prende l’avvio, ossia quello di dare ospitalità a con-tributi di studiosi diversi per formazione e interessi ma che si riconoscono tutti nella comune esigenza di indagare il fenomeno giuridico applicando con rigore il metodo prescelto, nella consapevolezza della condivisione di un patrimonio formativo e culturale idoneo a creare una adeguata coscienza di sé e sulla cui base costruire l’impegno scientifico del giurista.

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In questa prospettiva, la collana si ripromette di ospitare non solo con-tributi scientifici di tipo monografico, raccolte di scritti collettanee, atti di convegni e seminari ma anche materiali didattici che possano proficuamente essere utilizzati nella formazione dei giovani giuristi.

La collana entra a far parte della struttura della editrice Roma TrE-Press che, affiancando alla tradizionale pubblicazione in volumi la pubblicazione in formato digitale on-line, consente un accesso libero ai contributi scientifici contribuendo, così, ad una nuova e più ampia diffusione del sapere giuridico.

Prof. Giovanni SergesDirettore del Dipartimento di Giurisprudenza

Università Roma Tre

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Indice

Presentazione VII

Giuseppe Conte, “Il rispetto dell’altro”: l’indagine di una vita IX

Sandro Amorosino, Profili pubblicistici delle normative di riforma delle banche cooperative 3

Massimo Brutti, La storicizzazione del diritto contrattuale 17

Sergio M. Carbone, Opportunità e limiti dell’autonomia privata.Tra diritto comparato e D.I.P 41

Sabino Cassese, Diritto privato/diritto pubblico: tradizione, mito o realtà? 51

Giovanni Cazzetta, Danno ingiusto e ‘governo’ della societàfra distinzioni e unità valoriale del sistema 57

Giovanni Chiodi, Ogni contratto ha la sua storia: (dialogando con Guido Alpa) 77

Renato Clarizia, Informatica e contratto: la identificazione dei contraenti 93

Claudio Consolo, Un approccio al Maestro in dialogo con l’Allievo: Rodotà laico profeta giuridico del domani tecnologico, (forse) non apocalittico 101

Andrea D’Angelo, Note storiche sulla dottrina generale delle obbligazioni 117

Enrico del Prato, Un giurista verso la postmodernità (a proposito del “ Contratto” di Guido Alpa) 155

Andrea Di Porto, I “beni comuni” in cerca di identità e tutela 163

Gilda Ferrando, Guido Alpa e il testamento biologico 179

Tommaso Edoardo Frosini, Arbitrato rituale e giurisprudenza costituzionale 197

Andrea Fusaro, Guido Alpa sul ruolo del diritto nella società postmoderna 211

Paolo Gaggero, Contratti, persone, mercato: una prospettiva su tutela del consumatoree controlli sull’impresa 225

Aurelio Gentili, Su “ Il contratto. Fonti, teorie, metodi” di Guido Alpa 293

Paolo Grossi, Della interpretazione come invenzione (La riscoperta pos-moderna del ruolo inventivo della interpretazione) 303

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VI

Riccardo Guastini, Principi costituzionali: identificazione, interpretazione, ponderazione, concretizzazione 313

Paola Ivaldi, Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore: quale ruolo per il diritto internazionale privato europeo? 325

Massimo Luciani, Quale identità? 343

Michele Marchesiello, Per una cultura giuridica della dignità.Alla ricerca del Santo Graal 355

Laura Moscati, La stagione delle obbligazioni e dei contratti 369

Giampaolo Parodi, Il giudice di fronte alle sentenze additive di principionella prassi recente 385

Geminello Preterossi, Un diritto per l’emancipazione sociale 405

Giorgio Resta, Le ferite della storia e il diritto privato riparatore 417

Paolo Ridola, Dallo stato di diritto allo stato costituzionale 459

Carlo Rossello, La polizza di carico elettronica e il sistema “Bolero” 479

Luigi Rovelli, Brevi cenni sui massimi sistemi: cultura giuridica versus cultura economica 491

Giuseppe Santoro-Passarelli, Rappresentatività e legittimazione al conflitto nei servizi pubblici essenziali 499

Alessandro Somma, Dal diritto dei consumatori al reddito di cittadinanza: un percorso neoliberale 515

Chiara Tenella Sillani, La riforma francese del diritto dei contratti e il destino della causa 537

Fabio Toriello, Prodotti, consumatori e mercato. Un percorso tra diritti interni ed armonizzazione europea 551

Giovanna Visintini, Atipicità dei fatti illeciti 589

Vincenzo Zeno-Zencovich, “ Maestro” and “ Scuola” as pillars of the Italian academic structure 601

Andrea Zoppini, Guido Alpa, maestro realista del diritto 613

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VII

Presentazione

Una tradizionale raccolta di “Scritti in onore” di Guido Alpa avrebbe comportato – così abbiamo calcolato – non meno di una decina di volumi: una impresa ingestibile e che comunque l’onorato non avrebbe gradito.

Anche un, più ristretto, “Liber amicorum” presentava simili controindicazioni: da un lato la rete di amicizie accademiche, scientifiche, professionali, istituzionali che Guido Alpa ha intessuto in questi quasi 50 anni è tale da costituire una mole ugualmente non organizzabile, con il rischio poi di effettuare indelicate esclusioni.

D’altronde sarebbe stato difficile competere con il Liber amicorum che una cinquantina di studiosi stranieri dedicarono a Guido Alpa in occasione del suo 60° compleanno1. Una anticipazione di dieci anni di cui non sappiamo trovare equivalenti.

Si aggiunga che la naturale ritrosia di Guido Alpa per ogni espressione celebrativa rendeva praticamente impercorribile anche questa strada se non al rischio di trasformare un omaggio nel suo opposto

Questo volumetto ha dunque una natura ben più modesta: immaginare che in occasione del suo 71° compleanno, a poche settimane dalla uscita dal ruolo accademico, un gruppo ristretto di amici organizzi un breve simposio per discutere di temi di cui Guido Alpa si è occupato e che ha trattato con la maestria che gli è propria.

Di qui la scelta minimalista, che è nata spontaneamente dai partecipanti all’opera, di manifestare la loro stima, la loro riconoscenza, il loro affetto a Guido Alpa con una raccolta simbolica, come se ciascuno avesse colto dal proprio giardino un fiore per comporre un mazzo variopinto.

Verrà forse – tra molti anni – il giorno nel quale Guido Alpa vorrà cessare, lui, di regalarci i frutti della sua intelligenza e della sua passione. Forse allora sarà giunto il momento per sommergerlo con una raccolta davvero memorabile.

Nel frattempo, ci limitiamo a questo primo "dialogo" con Guido Alpa – altri ne potranno seguire e ci auguriamo che seguano – che parte da e tocca solo una porzione ridottissima della sua inesauribile produzione.

I curatori del volume, che per primi e maggiormente hanno potuto beneficiare della straordinaria generosità umana ed intellettuale di Guido 1 M. Andenas, S. Diaz Alabart, B. Markesinis, H. Micklitz, N. Pasquini (a cura di), Liber Amicorum Guido Alpa. Private Law Beyond the National Systems, British Institute of Internazional and Comparative Law, 2007.

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VIII

Alpa, vogliono solo ricordare che il fil rouge nella sua straordinaria produzione scientifica che ha toccato ogni aspetto del diritto è una passione che muovendo dal diritto civile è diventata civile tout court.

Una tradizione antichissima che bene è sintetizzata nelle parole con cui si apre la Politica di Aristotele: “Poiché, come si può constatare, non esiste città che non sia una comunità e non c’è comunità che non sussista in vista di un certo bene (del resto, ciascuno compie ogni azione in funzione di qualcosa che gli appaia buono), è indubbio che tutte vanno in cerca di un qualche bene, ma soprattutto le perseguirà la comunità che, per essere sovrana fra tutte e comprensiva di tutte, cercherà il bene che sovrasta tutti gli altri. Si tratta di quella che noi chiamiamo città o comunità politica”.

E anche di questa lezione sul bene comune, che dura da cinquant’anni, siamo grati a Guido Alpa.

Giuseppe Conte Alessandro Somma

Andrea Fusaro Vincenzo Zeno-Zencovich

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IX

Giuseppe Conte

“Il rispetto dell’altro”: l’indagine di una vita

Illustri Professori, illustri Ospiti, cari studenti,

oggi una rappresentativa porzione della comunità accademica specificamente dedita agli studi giuridici si è data appuntamento per rendere omaggio al percorso di studi compiuto da un suo illustre esponente: Guido Alpa. La data scelta non è casuale: oggi ricorre il settantunesimo genetliaco dell’onorato e per prima cosa desidero rivolgere a lui il mio più sincero e affettuoso pensiero augurale.

Insieme agli amici Andrea Fusaro, Alessandro Somma, Vincenzo Zeno- Zencovich, dopo avere riflettuto sulla modalità migliore per promuovere l’occasione di un festoso simposio, abbiamo convenuto che fosse confacente raccogliere in un unico volume alcuni contributi ad opera di un gruppo ristretto di amici, scontando gli inevitabili dispiaceri generati in capo a coloro che non sono stati resi partecipi dell’iniziativa.

Come pure abbiamo scritto nel foglio di presentazione, questo dono è improntato a sobrietà, scaturisce nel segno di una opzione minimalista. Costituisce un piccolo tributo di riconoscenza all’intelligenza e alla passione con cui Guido Alpa ha indagato il mondo dei segni giuridici, nonché alla straordinaria generosità intellettuale con cui ha inteso condividere con noi i risultati delle sue ricerche.

Permettetemi una testimonianza personale. Io non appartengo alla scuola di Guido Alpa. Mi sono laureato qui alla Sapienza, e ho avuto, quale mentore accademico, il prof. Giovanni Battista Ferri, esponente della scuola romana che faceva capo a Rosario Nicolò, caratterizzata - tradizionalmente - da una forte vocazione dogmatico-sistematica, che pure si è declinata nel corso del tempo in modo articolato, in base agli itinerari di ricerca delle varie personalità scientifiche che l’hanno interpretata.

Ho conosciuto Alpa molti anni dopo, quando ormai avevo compiuto la prima fase del mio percorso di formazione ed ero diventato ricercatore di

* Il testo riproduce le parole di saluto all’incontro del 26 novembre 2018 tenutosi alla Sapienza per festeggiare Guido Alpa in occasione del suo 71° compleanno.

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X

G. Conte

Diritto privato nell’Università di Firenze.Ma se avessi conosciuto Guido Alpa anche prima, dubito che avrei

potuto far parte di una sua propria scuola. Guido Alpa non è mai stato un maestro, secondo l’accezione più tradizionale di questo termine. Egli non si è mai posto, con i numerosi giovani che pur negli anni lo hanno affiancato nell’ambito delle attività accademiche, come colui che interviene a iniziarli nell’attività di ricerca, delineando itinerari e trasmettendo consapevolezza nell’impiego di determinati strumenti teorici e utensìli concettuali; non si è mai posto come colui che accompagna e suggerisce ai meno provetti le scelte da compiere nei più significativi passaggi di carriera.

Lui stesso, pur avendo maturato passione per gli studi giuridici seguendo da presso giuristi che hanno fortemente influenzato la sua formazione anche per la novità di indirizzo di cui erano portatori, da Tarello a Trimarchi a Rodotà, ha percorso un complesso e fruttuoso itinerario di studi dipanandolo nella dimensione della più assoluta “libertà”, libertà dell’oggetto di ricerca e libertà di come ricercarlo.

Non inganni, tuttavia, il chiaro ripudio del formalismo positivistico e del dogmatismo-sistematico che caratterizza le sue ricerche. L’approdo di questo approccio antiformalista non è mai stato nell’area indistinta di un generico eclettismo metodologico o di un sincretismo contenutistico.

In verità, l’opzione metodologica che ricaviamo dalle ricerche giuridiche di Alpa rimette, con sufficiente approssimazione, alle correnti giusrealistiche, in particolare nordamericane, poiché per mezzo delle sue indagini egli ha concretamente operato una sistematica revisione di tutti i più consolidati postulati della cultura giuridica italiana:

a) ha posto in discussione la natura imperativa della norma giuridica a favore della sua più complessa dimensione sociale;

b) ha contribuito a incrinare il concetto di sistema, comunemente inteso come insieme di norme strettamente coordinate sul piano logico-formale;

c) ha partecipato alla decostruzione di tutti i processi decisionali che presiedono al farsi del diritto, denunciando l’ipocrisia sottesa alla rappresentazione delle attività del giurista e del giudice come attività di natura logiche, che si dipanano nel segno della neutralità;

d) ha contestato la supremazia della legge, rispetto alle altre fonti anche non scritte del diritto.

In virtù di questa impostazione il Nostro ha derivato la convinzione che il diritto sia fondamentalmente uno strumento pratico, da indagare e analizzare sulla base della sua più tangibile dimensione fenomenica, che coinvolge, ad

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“Il rispetto dell’altro”: l’indagine di una vita

XI

un tempo, risvolti di ordine politico, economico, sociale, culturale.Il sapere giuridico, in altre parole, non può affidarsi a modelli, categorie

e forme ordinanti che, nell’auspicio di giungere a una conoscenza razionale, espongono all’ipostasi dei concetti. Il sapere giuridico deve piuttosto svilupparsi sul piano della sua esperienza funzionale, concretamente declinata sul piano applicativo.

Questo approccio spiccatamente pragmatico ha reso Alpa particolarmente disponibile al confronto con indirizzi e metodi di analisi anche differenti tra loro, sul presupposto tuttavia che da essi siano desumibili pratiche argomentative e strumenti discorsivi idonei a ricavare la regola del caso concreto.

Dovendo scegliere tra l’univocità del metodo diletta da Cartesio e la prospettiva pluralistica della scienza giuridica evocata da Leibniz, non v’è dubbio che Alpa abbia sempre e costantemente inclinato verso quest’ultima, sulla base, tuttavia, di una ben precisa prospettiva funzionale.

Gli eccellenti risultati da lui raggiunti non si giustificano, peraltro, con la bontà del metodo, che può essere certamente ostativo, quando inidoneo, ma che di per sé non è garanzia di successo dell’indagine. Gli eccellenti risultati si giustificano, piuttosto, in ragione di una passione e di una curiosità intellettuale davvero sorprendenti e di una dedizione alla ricerca davvero inesauribile, che sfiorano la tensione morale e la testimonianza civica. Questa tensione, questa testimonianza costituiscono, peraltro, un forte bilanciamento rispetto a una spiccata propensione per la scrittura – attestata da una produzione letteraria pressoché sterminata – che, altrimenti, avrebbe potuto scolorire in scribendi cacoethes.

Le sue ricerche hanno indagato pressoché tutti i settori di attività, tutte le manifestazioni comunitarie dell’agire umano, tutte le istituzioni erette dall’uomo. In molti di questi campi le sue indagini sono state pionieristiche. Guido Alpa ha indagato i temi e i problemi inseguendoli laddove questi si sono inoltrati, non limitandosi all’area del diritto civile, ma svolgendo le sue ricerche nel campo del diritto commerciale, del diritto amministrativo, del diritto costituzionale, penetrando a fondo l’ordinamento europeo e comparando differenti ordinamenti giuridici.

Criterio ultimo e indirizzo determinante della sua ricerca – al di là delle norme e degli istituti, pur sempre intesi nella loro dimensione effettuale-sostanziale, giammai logico-formale – sono stati, costantemente, il valore e la centralità della persona. Del “rispetto dell’altro” Guido Alpa ha fatto una professione di vita, forte di un’intima convinzione e - direi - di una naturale inclinazione, ed è questo il dono forse più apprezzato dai suoi innumeri amici e, sicuramente, da chi personalmente scrive queste righe.

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Sandro Amorosino

Profili pubblicistici delle normative di riformadelle banche cooperative

Sommario: 1. Le suggestioni di Guido Alpa – 2. Perdita di rilevanza dell’art. 45 Cost. con riferimento alle banche cooperative – 3. La politica regolatoria europea – 4. Gli indirizzi politici del legislatore italiano per la riforma del credito cooperativo – 5. L’imposizione di una formula organizzatoria uniforme alle banche popolari – 6. Il raggruppamento “coattivo” delle BCC.

1. Le suggestioni di Guido Alpa

In un breve, ma (al solito) denso “contributo”, in un libro collettaneo sulla riforma delle banche popolari, Guido Alpa1 ha dato alcune suggestioni, e linee di approfondimento, anche per ciò che concerne i profili pubblicistici delle riforme delle “società cooperative che svolgono attività bancaria” (art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 385/1993 – T.U.B.): le popolari e le BCC.

La prima e più generale – perché riguarda la disciplina dell’intero settore bancario – sottolinea “il raccordo esistente tra l’operatività [delle banche] e la realizzazione di interessi pubblici, da un canto, ed il fenomeno dell’incidenza del diritto pubblico sull’autonomia privata…dall’altro”.

La compresenza e l’integrazione funzionale di modelli ed istituti pubblicistici e privatistici accomuna tutti i campi del diritto dell’economia, ma quello bancario è, sotto questo profilo, esponenziale2.

Stupisce un po’, quindi, che le riforme legislative, delle banche popolari (2015) e, subito dopo, delle banche di credito cooperativo (2016), siano state largamente approfondite per i profili societari, e più ampiamente organizzatori, ma – salvo eccezioni3 – ne siano stati meno studiati i contesti ed i profili pubblicistici.

1 G. Alpa, La riforma delle banche popolari. Riflessioni di metodo sull’utilizzo di un modello innovativo in AA.VV., La riforma delle banche popolari, a cura di F. Capriglione, Padova 2015, p. 119 ss..2 S. Amorosino, Le dinamiche del diritto dell’economia, Pisa 2018, p. 32 ss..3 G. Montedoro, Riforma delle banche popolari e profili costituzionali della cooperazione di credito in AA.VV., La riforma…cit. p. 27 ss.; S. Amorosino, Le riforme delle banche coope-

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4

S. Amorosino

2. Perdita di rilevanza dell’art. 45 Cost. con riferimento alle banche cooperative

L’art. 45 della Costituzione (“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione con carattere di mutualità”) ci appare remoto nello spazio-tempo, quasi Vaghe stelle dell’Orsa (usando come metafora il titolo di un film di Luchino Visconti del 1965), soprattutto con riferimento alle banche cooperative, se è vero che già quasi sessant’anni fa Giuseppe Ferri4 aveva rilevato come queste banche non avessero più la sostanza mutualistica delle cooperative.

E, dieci anni dopo, Gustavo Minervini, al fine di interpretare l’art. 45 in modo coerente con l’evoluzione, già allora verificatasi, della realtà economico-sociale, affermò la legittimità della distinzione legislativa tra mutualità prevalente e non prevalente5.

In termini più generali appare storicamente superata, nel mutato sistema economico-sociale, anche l’idea forza della cooperazione come strumento della diffusione verso il basso della democrazia economica (idea-forza che, trentotto anni fa, era prospetticamente sottesa al commento all’art. 45 di Alessandro Nigro6); ed ancora una ventina di anni fa un altro maestro, Buonocore7, individuava la “nuova utilità” del ruolo costituzionalizzato della cooperazione nel fatto che il fenomeno cooperativo è funzionale alla realizzazione della democrazia economica.

Un collegamento in linea di principio ineccepibile, ma l’intervenuta mutazione dello scenario economico-sociale e culturale impone un mutamento di prospettiva.

Ai fini della realizzazione dell’art. 3, comma 2, della Costituzione – nella parte in cui indica come obiettivo la partecipazione dei cittadini all’“organizzazione…economica”8 del Paese – un ruolo centrale, più che l’art. 45, può averlo oggi il principio di sussidiarietà9 di cui all’art. 118 Cost. (che trova applicazione anche nel campo delle attività economicamente rilevanti); principio che ha trovato concretizzazione nel d.lgs. n. 155/2006,

rative, tra costituzione, regulation europea e scelte politico legislative nazionali in Riv. Trim. Dir. Econ. n. 3/2016, pp. 251 ss.; di tale lavoro queste note riprendono il filo, raccogliendo le suggestioni di Alpa.4 Nella voce Banca popolare dell’Enc. del Dir., Vol. V, Milano 1959.5 G. Minervini Lo Stato e il fenomeno cooperativo (1969), in AA.VV. La riforma della legislazione sugli organismi cooperativi, Milano 1970, p. 81.6 Commento all’art. 45 in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna1980.7 V. Buonocore, Diritto della cooperazione, Bologna 1997, p. 66 ss..8 A. Predieri, Pianificazione e Costituzione, Ed. Comunità, Milano 1963, p. 41 ss..9 T.E. Frosini, Sussidiarietà (principio di) – diritto costituzionale in Enc. Dir. Annali II, Tomo II, Milano 2008, p. 1133 ss..

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Profili pubblicistici delle normative di riforma delle banche cooperative

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sulle imprese sociali e poi nel Codice del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017)10, al quale appartengono anche le cooperative.

In questo quadro l’argomento fondamentale per “ancorare” le banche cooperative – sia popolari che BCC – ad una funzione lato sensu costituzionale era, almeno sino alle due riforme del 2015 e del 2016, che esse debbono supportare la “società economica” di riferimento territoriale – artigiani, piccole imprese, ma anche giovani coppie, start up innovative, incubatori d’imprese, imprese sociali.

In questa condivisibile ottica la funzione sociale delle banche cooperative era quella di sostenere e promuovere il tessuto economico dell’area territoriale di radicamento.

E, convergentemente, Oppo11 sottolineava che cooperativo è il credito, a prescindere dalla forma societaria, per azioni o cooperativa, della banca.

Per svolgere tale funzione, di rilevanza costituzionale, era ed è indispensabile che le banche cooperative – pur restando consustanziali alla “società economica” locale – siano gestite in modo sano e prudente, quindi redditivo, privilegiando il reinvestimento degli utili, e non si facciano condizionare da localismi clientelari (come purtroppo è accaduto ed accade).

Si sono usati i verbi al passato perché l’approvazione ed attuazione delle due riforme – delle popolari e delle BCC – non è sembrata favorire questo radicamento territoriale.

Anche un richiamo all’art. 47 Cost. (“La Repubblica tutela il risparmio”…) rischia di essere poco significativo ai fini dello specifico tema in quanto si può sostenere che le due successive riforme “di sistema”, rispettivamente delle popolari e delle BCC, siano state approvate proprio per assicurare una maggior tutela del risparmio, alla luce, da un lato, delle gravi disfunzioni emerse di alcune banche popolari e cooperative, dall’altro, della necessità di adeguare il loro regime giuridico alla nuova regolazione europea e di far loro raggiungere la “massa critica” indispensabile per stare sul mercato europeo (pur se la grande dimensione non assicura automaticamente la competitività e , quindi, la stabilità)12.

10 V. i capitoli iniziali di AA.VV. Il codice del terzo settore, a cura di M. Gorgoni, Pisa 2017 e di AA.VV., La riforma del terzo settore e dell’impresa sociale, a cura di A. Fici, Napoli 2018.11 Credito cooperativo in AA.VV., Le banche. Regole e mercato, a cura di S. Amorosino, Milano 1995.12 A. Brozzetti, «Ending of too big to fail» tra «soft law» e ordinamento bancario europeo, Bari 2018, p. 323.

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S. Amorosino

3. La politica regolatoria europea

L’“erompere del diritto comunitario”13 è sempre più determinante, soprattutto in campo bancario, nel quale la funzione delle regolamentazioni che si sono succedute negli anni, ordinate alla massima armonizzazione delle normative nazionali, ha registrato negli ultimi anni un doppio salto di qualità e di incisività:

- da un lato con l’espansione ed anche l’ispessimento della regolamentazione, di varia fonte, che si articola in regolamenti o direttive generali, seguiti da normative di secondo livello e da regole tecniche-operative;

- dall’altro con la creazione di istituzioni d’intervento diretto, dapprima l’Autorità Bancaria Europea, subito seguita e sovrastata dalle strutture (in primis la BCE ed il Single Resolution Board) e procedure dell’Unione Bancaria, alle quali spetta ormai la parte maggiore della supervisione – cioè dell’amministrazione di controllo del settore14 – e delle risoluzioni bancarie.

E poiché la regulation è l’insieme di indirizzo politico, regolamentazione e supervisione, il settore bancario è, ad oggi, tra tutte le attività economiche, quello soggetto alla più incisiva regolazione europea.

Gli indirizzi europei più direttamente rilevanti ai fini dello specifico tema delle banche cooperative sono due:

- il primo è quantitativo: il robusto rafforzamento degli indicatori patrimoniali – peraltro non “neutrale”, ma asimmetrico – con l’applicazione di parametri patrimoniali molto precauzionali, in specie sulle sofferenze (che sono diffuse nelle banche cooperative). È una regulation essenzialmente volta alla prevenzione dei rischi di crisi;

- il secondo è organizzativo: alla tendenziale concentrazione della supervisione e della risoluzione si accompagna la spinta alla concentrazione e razionalizzazione del variegato scenario delle società bancarie, con la creazione di soggetti capaci di reggere ad una concorrenza “sconfinata”.

Sono entrambi indirizzi politici fortemente condizionanti per i due subsistemi delle popolari e delle BCC., non solo per quanto riguarda la normazione, ma anche per ciò che concerne l’esercizio della funzione di supervisione da parte della BCE, sia nei casi di fusione (come s’è visto nel caso BPM/Banco Popolare), sia nelle situazioni “difficili” di numerose banche popolari, sia, infine, nelle acquisizioni di banche minori in situazioni critiche o liquidatorie.

È da rilevare che la Banca d’Italia si uniforma attivamente a tali indirizzi, diffondendoli verso i “piani bassi”, per così dire, del sistema bancario, ancora soggetti alla sua vigilanza.

13 G. Alpa, ibidem.14 S. Amorosino, La regolazione pubblica delle banche, Padova 2016, p. 69 ss..

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Profili pubblicistici delle normative di riforma delle banche cooperative

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4. Gli indirizzi politici del legislatore italiano per la riforma del credito coo-perativo

La determinante europea e, al contempo, sul piano sostanziale, le disfunzioni di non pochissime banche cooperative, note all’Autorità di vigilanza, imponevano dunque al legislatore italiano di riformare i due subsistemi – popolare e del credito cooperativo – e, in certa misura, ne hanno condizionato le scelte.

Peraltro al patrio legislatore residuava un ampio spazio di autonomia per quanto riguarda la scelta dei modelli organizzatori dei due subsistemi.

In parole più semplici: nessuno obbligava il Governo (seguito pedissequamente dal Parlamento) ad imporre, per decreto legge, alle banche popolari “maggiori” la trasformazione in s.p.a.15, né a prefigurare, inizialmente, per le BCC, la costituzione di un’unica capogruppo in forma di spa bancaria, ad adesione obbligatoria (pur se a base formalmente contrattuale).

E, quanto al procedimento di formazione delle scelte legislative16, la riforma delle BCC ha avuto all’origine un patto politico, secondo la definizione di M.S. Giannini17, tra il governo ed i vertici dell’organizzazione “corporativa” del settore.

5. L’imposizione di una formula organizzatoria uniforme alle banche popolari

Ai fini di queste note vengono in rilievo – più che le analisi specifiche delle singole disposizioni – le riflessioni sulla nuova configurazione di sistema del comparto delle banche popolari.

Su di esse si innestano e si integrano ulteriori riflessioni in un’ottica giuspubblicistica.

Anche sotto questo profilo acute notazioni di inquadramento vengono da Alpa, prima con il richiamo ai principi di derivazione comunitaria – proporzionalità, sussidiarietà, ragionevolezza e trasparenza – che dovrebbero ispirare la legislazione nazionale per uniformarla alla nuova regolazione

15 Come rilevato criticamente da M. Pellegrini, Il d.l. n. 3/2015. Un’occasione mancata per la ridefiniziona della cooperazione di credito in AA.VV. La riforma delle banche popolari, cit..16 G. Napolitano, M. Abbrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna 2009, p. 163 ss..17 Diritto amministrativo, Milano 1993 Vol. I, p. 423 ss..

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S. Amorosino

bancaria europea; successivamente con la considerazione che l’uniformazione passa per “riforme che incidono su consolidate situazioni di vantaggi, limitano talune autonomie, introducono controlli di nuovo tipo, impongono obblighi di trasformazione”18.

Alla luce di tale notazione Alpa esprime un ragionato consenso in ordine alle prescrizioni contenute nel d.l. n. 3/2015, convertito con l. n. 33/2015, che hanno imposto la trasformazione in s.p.a. delle popolari con un attivo superiore ad otto miliardi di euro; ciò sulla base della considerazione generale che “le modifiche funzionali …. seguono l’abbandono di ogni riferibilità al valore causale proprio della cooperativa, ragion per cui la conservazione dell’originario schema organizzativgo risulta essere fine a se stessa”.

Di particolare rilievo è qui il riferimento ai due concetti correlati – di teoria generale e del diritto pubblico19 – di funzione e di organizzazione (la quale dev’essere strumentale alla prima); ciò – unitamente alla determinante regolatoria europea, sempre più fondata su standard tecnici “precauzionali” – legittima la scelta del legislatore italiano.

E, dunque, il potere (in questo caso legislativo) di conformazione20 ben poteva imporsi all’autonomia, cioè al potere 21 privato di autoorganizzazione.

L’incidenza di questa impronta pubblicistica si avverte in buona parte dei contributi degli studiosi che si sono occupati della riforma delle popolari22 .

Fermo questo presupposto, e ricordata la libertà di scelta del legislatore circa le modalità di dare attuazione agli indirizzi uniformanti europei (che appaiono rispondenti ai richiamati principi di proporzionalità e ragionevolezza), si pone al giuspubblicista qualche problema.

In primo luogo procedurale (ex ante).18 G. Alpa, La riforma……. cit., p. 131.19 Tali “importazione” non era sfuggita a P. Ferro-Luzzi, Le operazioni con parti correlate infragruppo in Scritti in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano 2011.20 Sulla nozione dogmatica di “conformazione” v. M.S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna 1995, p. 181 ss..21 Piace ricordare R. Nicolò, Istituzioni di diritto privato, Milano 1962, p. 19 ss..22 M. Carlizzi, Osservazioni intorno alla riforma delle banche popolari, in Riv. Dir. Comm. e Dir. Obbl. n.1/2016, p. 43 ss.; C. Corvese, Commento al d.l. n. 3/2015. Parte prima: La riforma delle banche popolari, in Dir. Banca e Merc. Finanz., n. 30/2016, II, p. 7 ss.; C. Fiengo, Il riassetto della disciplina delle banche popolari in Giur. Comm., n. 2/2016, I, p. 234 ss.; G.F. Gargiulo, La disciplina delle banche popolari. Dalle origini alla riforma della legge n. 33/2015, Milano 2015; F. Mazzini, La riforma delle banche popolari in Dir. Banca Merc. Finan., n.2/2015, II, p. 39 ss.; E. Ricciardello, La riforma delle banche popolari nella legge di conversione del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 tra capitalismo ed esigenze di vigilanza uniforme in Banca Impr. Soc., n.1/2016, p. 141 ss.; G. Romano, V. Santoro, L’ultimo atto della riforma delle banche popolari in Le nuove leggi civ. comm., n. 2/2016, p. 210 ss.; G. Sapelli, La riforma delle Popolari? È incostituzionale, al sito www.avvenire.it.

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Profili pubblicistici delle normative di riforma delle banche cooperative

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È stato legittimo il ricorso al decreto legge per varare la riforma? La Corte costituzionale, con sentenza n. 99/2018, ha ritenuto la

sussistenza dei presupposti per il ricorso alla decretazione d’urgenza, ma non ha dissipato tutti i dubbi23 in proposito.

In secondo luogo organizzative: le procedure attuative della riforma si svolgono secondo le istruzioni operative e sotto la vigilanza della Banca d’Italia.

Sta di fatto, tuttavia, che le popolari trasformate in s.p.a. sono, di norma, banche “significative” e sono quindi soggette alla supervisione della BCE.

Si pone, quindi, un problema di coamministrazione e di coordinamento tra le due Autorità, con la BCE in posizione sovraordinata.

In terzo luogo si è posto il problema sostanziale della costituzionalità della previsione normativa della possibilità di limitare (nella misura) e differire (nel tempo) – in entrambi i casi sino all’astratta possibilità di “svuotarlo” – il diritto al rimborso dei soci recedenti delle banche popolari in occasione della trasformazione in s.p.a..

La relativa disposizione, inserita come comma 2 ter nell’art. 28 del T.U.B.24, è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla Corte (lasciando, anche sotto questo profilo, più di qualche dubbio).

6. Il raggruppamento “coattivo” delle BCC

Anche la riforma delle BCC ha sollevato numerosi rilievi critici25.Il primo riguarda la rispondenza al principio di proporzionalità della

scelta iniziale di prevedere una sola capogruppo ad adesione obbligatoria (mentre aggregazioni su basi regionali sarebbero state forse sufficienti a sottrarre le BCC ai “condizionamenti” localistici).

È di immediata evidenza la correlazione avversa tra la prefigurazione iniziale di un’unica capogruppo bancaria (s.p.a.) ed il radicamento territoriale 23 E. De Chiara, Rinvio e limitazione del rimborso in caso di recesso e poteri normativi della Banca d’Italia, in Le Società n. 7/2018, p. 830 ss.; S. Amorosino, Corte costituzionale e rimborso dei soci recedenti delle banche popolari: determinante regolatoria europea e interro-gativi irrisolti in www.dirittobancario.it (maggio 2018).24 F. Capriglione, Commento all’art. 28 in AA.VV., Commento al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, IV ed., Padova 2018, Tomo I, p. 303 ss..25 M. Lamandini, Nuove riflessioni sul gruppo cooperativo bancario regionale in Giur. Comm. 2015, I, p. 56 ss. e M. Pellegrini, La funzione delle BCC in un mercato in trasformazione: ipotesi di riforma e specificità operativa, relazione al Convegno L’autoriforma delle banche di credito cooperativo, in Riv. Trim. Dir. Ec., Supplemento al n. 4/2015 – Febbraio 2016.

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S. Amorosino

delle BCC.Le vivaci resistenze di molte BCC nei confronti della soluzione unica

“preconfezionata” hanno faticosamente condotto, nel 2018, alla costituzione di due capogruppo “nazionali” e di una “locale”, in Trentino Alto Adige.

La posizione al vertice del sistema di due capogruppo bancarie, dotate di inediti poteri di ingerenza sulle “raggruppate”, certamente non favorisce il radicamento territoriale diffuso delle BCC.

Si conferma, quindi, il forte rischio di indebolimento della loro funzione consustanziale di sostegno e promozione (purché all’esito di un corretto processo del credito) della “società economica” locale.

Il secondo profilo critico riguarda l’accennato “percorso negoziale” – tra i vertici “corporativi” delle BCC ed il Governo – che ha condotto alla individuazione della formula organizzatoria di sistema. Com’è stato giustamente rilevato26 la risultante dell’accordo è una sorta di neodirigismo “a doppio corpo”, pubblicistico e privatistico.

Sul versante pubblicistico in relazione ai poteri di regolazione transitoria conferiti al Ministero dell’Economia ed alla Banca d’Italia (cui resta attribuita una funzione permanente di regolamentazione secondaria e terziaria).

Sul versante privatistico per la configurazione egemonica, nel contratto di coesione, delle capogruppo bancarie s.p.a. nei confronti delle BCC obbligatamente aderenti.

La formula organizzatoria del subsettore delle BCC, nella configurazione scaturita dalla travagliata attuazione della riforma, ha formato oggetto di numerosi studi ed approfondimenti27.

Ci si limita, quindi, a qualche rapida notazione nell’ottica, propria del giuspubblicista, dei modelli organizzatori di questa categoria di banche, nei quali sembrano confluire istituti del diritto amministrativo e del diritto

26 M. Sepe, Il gruppo bancario cooperativo tra autoriforma e neo dirigismo, una nuova dimensione del credito cooperativo in L’autoriforma ….cit..27 Un panorama completo è in I. Sabatelli, La riforma delle banche di credito cooperativo, Bari 2017, passim; per un inquadramento nella tematica dei gruppi A. Sacco Ginevri, La nuova regolazione dei gruppi bancari, Torino 2017, p. 206 ss.; ampie sintesi in M. Pellegrini, Commento all’art. 33 (Banche Cooperative) e F. Capriglione – A. Sacco Ginevri, Commento all’art. 37 bis (Gruppo Bancario Cooperativo) in AA.VV., Commentario…cit.; R. Santagata, “Coesione” ed autonomia nel gruppo bancario cooperativo in B.B.T.C. 2017, I; M. Sepe, Il tramonto delle banche cooperative in Giustiziacivile.com, 2016, n. 4; M. Lamandini, Il gruppo bancario alla luce delle recenti riforme in B.B.T.C. 2016, I, p. 685 ss.; sulla capogruppo bancaria V. Troiano, Commento all’art. 61 (Capogruppo) in Commentario..cit., p. 734 ss., come pietra di paragone rispetto alla “specialità” della capogruppo “cooperativa”.

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societario28.Si può iniziare da due constatazioni:

I) se il regime giuridico delle società bancarie (e dei gruppi bancari) è speciale (rispetto a quello delle società nel codice civile), la disciplina societaria delle BCC (e del Gruppo Cooperativo) è specialissima in quanto determinata in gran parte da scelte eteronome, che lasciano uno spazio invero ridotto all’autonomia organizzativa e funzionale degli enti privati;

II) il modello imposto, molto centralizzato, è fondato sull’adesione obbligatoria delle BCC a capogruppo bancarie, costituite – per disposto normativo – in forma di s.p.a., le quali si caratterizzano per una sovraordinazione quasi gerarchica, sulle partecipanti, innervata da istituti di assonanza amministrativistica.

La constatazione sub I) è oggettiva: la disciplina della capogruppo (in forma di s.p.a.) è caratterizzata da un “doppio grado di separazione” – per parafrasare il titolo di un famoso film americano: il primo rispetto alla disciplina dei gruppi di società29 ed il secondo rispetto alla disciplina stessa dei gruppi bancari.

La doppia “separazione” è dovuta alla scelta legislativa, integrata dalla regolamentazione di Banca d’Italia, di configurare un modello piramidale con al vertice la s.p.a. capogruppo.

La constatazione sub II) si fonda su un concorso di elementi: la capogruppo è retta da un contratto associativo di fonte legale, nel duplice senso che è imposto e che il suo contenuto organizzatorio è predeterminato dall’art. 37 bis, comma 3, del TUB, il quale prefigura un’inedita sovraordinazione della capogruppo rispetto alle BCC aderenti.

Quanto al primo profilo l’adesione è obbligatoria ed è condizione per la conservazione dell’autorizzazione bancaria.

Quanto al secondo profilo il contratto è qualificato “di coesione”, ma appartiene in realtà alla specie dei contratti di dominio debole30 ed alcuni

28 S. Amorosino, Le dinamiche del diritto dell’economia…cit., p. 35 ss..29 D.U. Santosuosso, voce Gruppi di società in Il diritto. Enciclopedia giuridica, vol. 7, Milano 2007, p. 2014 ss.30 La peculiare conformazione del contratto “di coesione” ad opera di norme speciali consente di “scavalcare”, nel caso di specie, la questione generale dell’ammissibilità del contratto di dominio debole nel nostro ordinamento. La legittimità di contratti diretti a costituire un gruppo “verticalizzato” è sostenuta da studiosi come P. Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi in Riv. Soc. 2007, p. 230 e U. Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, Milano 2010, p. 181; l’ammissibilità – in generale – di un gruppo cooperativo gerarchico è riconosciuta in dottrina da P. Agstner, Il gruppo cooperativo gerarchico, Torino 2017, p. 12 ss..

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S. Amorosino

elementi essenziali del suo contenuto precettivo sono dettati direttamente dal legislatore31 nel sopra citato art. 37 bis del TUB (introdotto dalla riforma del 2016).

Il potere della s.p.a. capogruppo è in realtà un potere di direzione in senso forte ed il coordinamento non è paritario; ambedue si concretano in un controllo continuo (una sorta di vigilanza) sulle BCC raggruppate, che prevede finanche l’autorizzazione preventiva della capogruppo sulle scelte strategiche e l’articolazione territoriale.

L’autonomia imprenditoriale delle BCC è compressa dal dirigismo della capogruppo, che giunge al previo gradimento degli amministratori nominandi ed al potere di removal degli stessi.

In sintesi: vi è un’evidente dominanza della capogruppo cui sono assegnate funzioni: strategiche di gruppo; di direzione dell’attività delle BCC raggruppate; di vigilanza sulla loro compliance alle prescrizioni regolamentari e contrattuali; di autorizzazione preventiva delle scelte strategiche delle singole banche, nonché di decisione/sostituzione circa la composizione della governance e di sostituzione di essa.

È di immediata evidenza l’assonanza, se non l’“importazione”, di modelli ed istituti di origine amministrativistica32, ma del diritto amministrativo autoritativo, non di quello consensuale33.

Sono, infatti, formule ed istituti tipici dell’organizzazione dei poteri amministrativi e della regolazione delle attività private:

- la direzione dell’attività delle BCC ed il coordinamento sovraordinato34; - l’invasiva conformazione regolatoria dell’impresa bancaria cooperativa; - l’obbligatorietà ex lege dell’adesione al gruppo bancario cooperativo

(tipico procedimento ablatorio costitutivo di obbligazione patrimoniale35);- i poteri di controllo continuativo – id est di vigilanza (privata) –

informativi e “correttivi” della capogruppo nei confronti delle BCC raggruppate, in particolare per quanto riguarda la governance e la compressione della loro autonomia nella determinazione delle scelte strategiche e delle linee di sviluppo territoriale36; poteri “compensati” da un “cross guarantee 31 Piace ricordare il lavoro, fondativo, del maestro di Alpa, S. Rodotà, Le fonti di inte-grazione del contratto, Milano 1969 (rist. 2004).32 Sia consentito il rinvio a S. Amorosino, L’amministrativizzazione del diritto delle imprese in Id. Diritto dell’economia pubblico e privato, Sapienza Università Editrice, Roma 2012, p. 29 ss..33 G. Rossi, Principi di diritto amministrativo, III ed., Torino 2017.34 E. Picozza, Introduzione al diritto amministrativo, Padova 2018, p. 173 ss..35 M. S. Giannini, Diritto Amministrativo, Milano 1993, Vol. II, p. 768 ss..36 S. Valentini, Figure, rapporti, modelli organizzatori, Vol. IV del Trattato di diritto amministrativo, Padova 1996.

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Profili pubblicistici delle normative di riforma delle banche cooperative

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scheme”, vale a dire da un meccanismo solidaristico di garanzie incrociate tra la s.p.a. capogruppo e le BCC.

Sono tutti elementi significativi di una sorta di “amministrativizzazione” dei rapporti tra la capogruppo e le BCC, talora per disposto normativo o regolamentare, ma il più delle volte su base contrattuale “obbligata”.

Tutto ciò concorre a configurare la s.p.a. capogruppo come una sorta di organismo complementare dell’Autorità di vigilanza.

I contrasti ed i conseguenti ritardi nella costituzione delle s.p.a. capogruppo hanno indotto taluno37 ad ipotizzare una sostanziale “riforma della riforma” delle BCC, che ne invertisse, per così dire, la traiettoria.

Tale “inversione” si è rivelata impraticabile sul piano politico: dopo aspri contrasti le BCC hanno ormai compiuto le loro scelte aggregative “a macchia di leopardo”, dando vita a due società capogruppo “nazionali” (oltre a quella “altoatesina”) e si oppongono, perciò, ad ogni ipotesi “controriformistica”, pur continuando a lamentare l’eccessiva compressione della loro autonomia.

D’altronde anche la BCE e la Banca d’Italia ritengono che una rimessa in discussione dell’“architettura di sistema” nuocerebbe alla stabilità del subsettore ed all’indispensabile risanamento, “vigilato” dalle capogruppo, di alcune banche locali.

Si spiega, quindi, perché il governo abbia necessariamente scelto la via di una rivisitazione di portata limitata, all’insegna di un moderato rafforzamento del ruolo delle BCC, nell’ambito e nei confronti della s.p.a. capogruppo.

Per ciò che concerne il ruolo delle BCC aderenti nella governance della società copogruppo si ricorda che la riforma del 2016 aveva previsto che, tutte insieme, esse dovessero detenere in essa una partecipazione “maggioritaria”.

Affinché a tale partecipazione corrisponda il controllo della capogruppo occorre, tuttavia, che tutte le BCC, in forza di un patto parasociale, agiscano unitariamente.

In caso contrario il controllo ben può essere esercitato da uno o più dei soci “non cooperativi” della s.p.a., con la probabile conseguenza di scelte strategiche di gruppo meno sensibili ai valori ed interessi dei territori “di riferimento”.

Il d.l. n. 91/2018 convertito con legge n.108/2018 è intervenuto sulla questione disponendo che la partecipazione complessiva delle BCC al capitale della capogruppo sia “almeno del 60%”, aggiungendo: “Lo statuto della capogruppo stabilisce che i componenti dell’organo di amministrazione

37 F. Capriglione, La riforma delle BCC al vaglio del nuovo governo in www.dirittobancario.it, giugno 2018.

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S. Amorosino

espressione delle BCC aderenti al gruppo siano pari alla metà più due del numero di consiglieri di amministrazione”.

Le due disposizioni riducono, pur se non eliminano, la possibilità che il controllo della capogruppo possa essere assunto da uno o più azionisti finanziari “non cooperativi”; ciò in quanto le singole BCC, al di là di una certa solidarietà “corporativa”, ben possono avere – per localizzazione geografica, dimensioni e situazioni patrimoniali – interessi e prospettive tra loro differenti.

Il secondo nodo, assai delicato, su cui è intervenuto il d.l. n. 91/2018, riguarda i rapporti – regolati dal contratto “di coesione” – tra la s.p.a. capogruppo e le società cooperative, aderenti al gruppo.

Sotto questo profilo le modifiche introdotte appaiono abbastanza significative38.

All’art. 37 bis, comma 3 – giusta il quale: “Il contratto di coesione che disciplina la direzione e il coordinamento della capogruppo sul gruppo indica:” – è stato specificato, alla lettera b), che i poteri della capogruppo [devono essere esercitati] non solo “nel rispetto delle finalità mutualistiche”, com’era già previsto, ma anche “del carattere localistico delle banche di credito cooperativo”.

La ratio della disposizione è di tipo conformativo, nel senso che la disciplina contrattuale (dell’esercizio) dei poteri di direzione e coordinamento trova ex lege un parametro ed un limite nel rispetto dei caratteri di mutualità e di funzionalità all’economia locale delle BCC.

È un caso esemplare di integrazione normativa del contenuto del contratto “di coesione” mediante l’introduzione di una clausola generale39 limitativa degli amplissimi poteri attribuiti, dal legislatore stesso, alla capogruppo.

La clausola generale che la novella legislativa ha prescritto di inserire nel contratto di coesione è una formula, o norma, elastica40, suscettibile di concreta applicazione ogni qual volta l’esercizio dei molteplici poteri della capogruppo, di cui all’art. 37 bis, comma 3, lett. b), venga concretamente a ledere – ad esempio con strategie finanziarie o scelte di amministratori – la “base” mutualistica ed il radicamento territoriale di una BCC.

La disposizione legittima le BCC aderenti alla spa a proporre azione di accertamento dell’illiceità delle decisioni della capogruppo che siano lesive

38 Contrariamente a quanto ritiene F. Capriglione, Riforma BCC e la paura del «too small to fail», La Repubblica – Affari e Finanza – 30 luglio 2018, il quale ripropone una “controriforma generale” della legge n. 49/2016 la cui approvazione appare invero irrealistica.39 E. Fabiani, voce Clausola generale in Enc. Dir. – Annali V, Milano 2012, pp. 187 ss..40 v. S. Rodotà, Le clausole generali in I contratti in generale, diretto da G. Alpa e M. Bessone, Torino 1991, vol. I, p. 392.

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della loro natura mutualistica e del radicamento territoriale locale, nonché – ove le decisioni stesse abbiano prodotto danni dimostrabili – anche a proporre azione risarcitoria.

Riguarda i poteri della capogruppo anche il comma 3 bis dell’art. 37 bis del T.U.B. – introdotto dal d.l. n. 91/2018 – il quale dispone che “Con atto della capogruppo è disciplinato il processo di consultazione delle banche di credito cooperativo aderenti al gruppo in materia di strategie, politiche commerciali, raccolta del risparmio ed erogazione del credito nonché riguardo al perseguimento della finalità mutualistica. Al fine di tener conto delle specificità delle aree interessate la consultazione avviene mediante assemblee territoriali delle BCC, i cui pareri non sono vincolanti per la capogruppo”.

In buona sostanza la novella ha conformato anche l’autonomia organizzatoria della capogruppo imponendole di regolamentare una procedura partecipativa delle BCC, articolata per ambiti territoriali, all’elaborazione degli indirizzi relativi alle tematiche d’apice.

È evidente l’analogia con l’acquisizione delle valutazioni degli interessati nel procedimento amministrativo (nel caso in esame: mediante una partecipazione in forma assembleare, un hearing in contraddittorio).

I pareri raccolti nelle assemblee territoriali “non sono vincolanti”, ma debbono essere presi in esame e valutati nel merito.

Con la conseguenza che nell’autoregolamentazione della procedura, da adottarsi dalla capogruppo, dovrà essere previsto che quest’ultima sia tenuta a motivare l’eventuale contrario avviso rispetto ai pareri ricevuti.

È, infatti, da ritenere applicabile – per l’analogia della funzione partecipativa – il principio generale di cui all’art. 10 della legge n. 241/1990 e s.m.i., che disciplina l’azione amministrativa41. Anche sotto questo profilo le deliberazioni della capogruppo carenti di motivazione possono essere impugnate dalle BCC interessate innanzi al giudice ordinario, affinché ne accerti l’illiceità.

Sono, infine, da segnalare due disposizioni: una di tipo “premiale”, per le BCC più “virtuose” e l’altra di attribuzione al Consiglio dei Ministri delle eventuali variazioni, rispetto al 60% “codificato”, della soglia di partecipazione delle banche cooperative al capitale della capogruppo.

Il comma 3 ter, dell’art. 37 bis del TUB, introdotto dal d.l. 91/2018, riconosce alle BCC che si collocano nelle “classi di rischio migliori” (nel sistema di classificazione del rischio adottato dalla capogruppo) una maggiore autonomia nel definire i propri piani strategici (nel quadro degli indirizzi di

41 P. Chirulli, I diritti dei partecipanti al procedimento in AA.VV., Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano 2017, p. 629 ss..

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S. Amorosino

gruppo) e nel nominare i componenti dei propri organi di amministrazione e controllo (e, in caso di mancato gradimento della capogruppo, nell’indicare una terna di nomi alternativi per ciascun designato “sgradito”).

Al fine di assicurarne l’idoneità e la oggettività il sistema di classificazione del rischio previsto nel contratto di coesione [ma che, in realtà, può essere definito anche successivamente] dev’essere preventivamente approvato dalla Banca d’Italia.

Da ultimo il comma 7 – modificato – dell’art. 37 bis riserva al Consiglio dei Ministri, su proposta del MEF, sentita la Banca d’Italia, il potere di modificare la soglia di partecipazione delle BCC al capitale della capogruppo, in funzione delle esigenze di stabilità del gruppo.

È una norma aperta ed, al contempo, un’avocazione alla decisione politica di governo di un elemento sensibile quale la soglia partecipativa.

In conclusione – se non ci si pone nell’abusata logica del “benaltrismo” (“ben altro sarebbe necessario per risolvere il problema”) – le modifiche, pur limitate, meritano un moderato apprezzamento.

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Massimo Brutti

La storicizzazione del diritto contrattuale

Sommario: 1. Problemi aperti – 2. Dottrine sui contratti – 3. Leggere il Codice in prospettiva storica – 4. Ancora sulla storicizzazione – 5. Costituzione, Codice, normazione europea – 6. Princìpi subordinati alle disposizioni vigenti e princìpi-guida.

1. Problemi aperti

Le mie riflessioni avranno ad oggetto alcuni profili del discorso teorico sui contratti, centrale negli studi di Guido Alpa. Assumo come punto di partenza un suo libro recente, pubblicato nel 2014, dal titolo Il contratto in generale. Fonti, teorie, metodi. Si intrecciano in esso vicende italiane ed europee. Metterò in luce la storicizzazione delle categorie civilistiche, che costituisce l’impianto di questa ricerca e che è anche il terreno sul quale si svolge il mio dialogo con l’autore1. Propongo una lettura naturalmente parziale, dal mio punto di vista, dando rilievo ad aspetti del suo lavoro che sono più vicini alle mie prospettive di indagine sulla storia del diritto privato.

Anzitutto, una domanda. Quali sono e su quali basi si costituiscono le immagini del contratto nelle dottrine e nelle giurisprudenze a noi contemporanee? Il libro del 2014 risponde a questo interrogativo attraverso un paziente esame diacronico, che è - ne sono convinto - la via giusta, soprattutto se ci si scrolla di dosso, come riesce a fare l’autore, l’ipoteca della continuità.

Dopo aver richiamato i precedenti e le linee di svolgimento della ricerca, tratterò più da vicino due nodi problematici, che emergono da vari scritti di Alpa e che mi paiono cruciali nella scienza italiana del diritto privato durante gli ultimi decenni. Da un lato, il rapporto tra Costituzione, Codice civile e normazione europea, con riferimento al diritto contrattuale. In secondo luogo, un tema che si collega al primo e che ha una portata assai ampia: la formazione, il ruolo, la relatività dei princìpi. Concluderò con una

1 G. Alpa, Il contratto in generale. Fonti, teorie, metodi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu, F Messineo, L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano 2014, p. 20 s.

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M. Brutti

notazione finale intorno ai significati (almeno due nettamente distinti) di questa figura normativa.

2. Dottrine sui contratti

Nel libro del 2014 si intrecciano molteplici e diversi fili conduttori, che non è facile dipanare e di cui esaminerò solo i tratti che mi paiono salienti. La narrazione è unitaria. Tiene conto di una sterminata letteratura ed è aperta al confronto con punti di vista esterni alla mera descrizione del dato giuridico, quindi utili ad una “interpretazione realistica”, capace di guardare ai comportamenti, come contenuto e terreno di verifica dei concetti.

La ricerca muove da una ricognizione delle dottrine giuridiche. Alpa propone anzitutto una sintetica rilettura di tre grandi opere precedenti, rivelatrici, per varie ragioni, degli orientamenti che hanno segnato la civilistica italiana nel secolo scorso. E’ un breve excursus, che anticipa un nucleo problematico più volte emergente: la cesura nel modo di rappresentare le discipline contrattuali, durante gli ultimi decenni del Novecento, specchio a sua volta di un mutamento più generale nella scienza italiana.

A proposito dei due tomi dal titolo Il contratto in genere di Francesco Messineo, pubblicato nel 1968, Alpa mette in luce la visione sistematica, di origine pandettistica, che l’autore aveva svolto e fissato nel corso degli anni, a partire dal lontano 19152. Il libro del ‘68 ha alle spalle la Dottrina generale del contratto, pubblicata nel 1944, ove traspare l’impostazione liberale che aveva accompagnato la sua formazione scientifica3. E’ chiaro il suo interesse verso gli aspetti storici del fenomeno contrattuale. Ciò deriva dall’idea di sviluppo (Entwicklung) degli istituti - su cui la scuola storica tedesca e la pandettistica avevano costruito le proprie concettualizzazioni. La nozione di istituto indica un insieme determinato di regole e di rapporti regolati, che figura come una componente del sistema4. La trama logica ha sempre un 2 F. Messineo, Teoria dell’errore ostativo. Saggio di diritto privato e di dottrina generale del diritto, Roma 1915.3 F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano 1944, II ediz. 1946, III ediz. 1948; Id., Il contratto in genere, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo, XXI, 1, Milano 1968. Messineo era stato tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce.4 Cfr. F. C. Von Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, I, Berlin 1840, p. 9 ss., trad it. di V Scialoja, Il sistema del diritto romano attuale, I, Torino 1886, 38 ss.: “... riconosciamo che tutti gli istituti giuridici sono collegati in un sistema e che solo nella grande coesione di questo sistema, nella quale si manifesta la loro stessa natura organica, possono essere pienamente compresi”.

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La storicizzazione del diritto contrattuale

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carattere sovrastorico; i mutamenti sono tutti all’interno di essa. Nel libro di Messineo del 1968, come osserva Alpa, l’impianto

sistematico è ben fermo e si traduce in un’organizzazione concettuale rigorosamente classificatoria, che è ancora l’emblema di una fedeltà agli insegnamenti del tardo Ottocento.

All’origine di quegli insegnamenti, imperniati sul giusindividualismo, si può ricordare l’opera di un maestro, Vittorio Scialoja, che ha introdotto in Italia una lettura rigorosa e filologicamente corretta di Savigny e dei pandettisti. Come nell’opera di Messineo, tracce rilevanti della visione pandettistica si trovano in vari scritti del secondo dopoguerra: penso, per esempio, al libro di Giuseppe Stolfi sul negozio giuridico, a Domenico Rubino5, a Giuseppe Mirabelli6.

5 L’operazione culturale delineata da Stolfi consiste nell’abbozzare l’immagine di una tradizione omogenea alla base del liberalismo giuridico. Una continuità tra il Seicento e l’Ottocento tedesco: una concordanza profonda nella scienza del diritto privato. Vedi G. Stolfi, Teoria del negozio giuridico, cit., XI: “... giusnaturalisti e pandettisti vissero in uno dei periodi più fulgenti della storia del pensiero umano, mentre fioriva la religione della libertà che dominò il loro spirito e guidò le loro ricerche, stante la normale coincidenza delle dottrine giuridiche e delle idealità sociali e politiche di una stessa epoca. Perciò i primi si fecero assertori della onnipotenza della volontà individuale anche nel campo del diritto, specialmente come diga di sbarramento contro il prepotere del principe. Ed i secondi ripresero e svilupparono le dottrine dei giustinianei, che l’effetto giuridico degli atti umani dipende direttamente dalla volontà individuale, sicché finirono per creare un sistema di diritto privato fondato sulla libertà dei singoli, al centro del quale posero il negozio giuridico, concepito come il paradigma tipico della manifestazione di volontà da cui deriva la nascita o la modificazione o l’estinzione di un rapporto personale o patrimoniale”. Il richiamo alla “religione della libertà” evoca la filosofia di Benedetto Croce e l’opera storiografica che da essa trae alimento (cfr. in proposito B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, I ed. Bari 1932, ora Milano, Adelphi, 1993, 11 ss.). Non mancherà di osservare questa derivazione E. Betti, Il negozio giuridico in una pubblicazione recente, in Giurisprudenza italiana, 1947, IV, col. 137 ss. L’articolo contiene una critica a Stolfi. Il punto di vista bettiano è diverso dalla visione individualistica e corrisponde al codice civile del 1942 ben più dell’interpretazione di Stolfi. Questi replica a Betti con il saggio Il negozio giuridico è un atto di volontà, in Giurisprudenza italiana, 1948, IV, col. 41 ss. La stessa rivendicazione liberale è in D. Rubino, Sui limiti dell’interpretazione dei contratti secondo buona fede, in Giurisprudenza completa della Cassazione civile, XXV, 2, 1947, p. 365 s., che denuncia l’inopportunità dell’articolo 1366, il suo paternalismo: l’idea di “uno Stato che si intromette e ficca il naso dappertutto, anche negli affari meramente privati ...”. Così si legge nella Nota a Cassazione 2.4.1947, n.103. Secondo la pronunzia, qui criticamente commentata, dall’articolo 1366 “non si ricava che alla buona fede si debba ricorrere soltanto quando vi sia incertezza sul contenuto delle clausole contrattuali: laddove l’interpretazione del contratto secondo buona fede è principio generale che vale sempre, per qualunque contratto e per qualsiasi clausola ...”. Le frasi essenziali di questa decisione sono citate anche da E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), Milano 1949, p. 284 s. e nt. 33, con una valutazione opposta a quella di Rubino.6 G. Mirabelli, Dei contratti in generale in Commentario del codice civile, IV, 2, Torino

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Nella stessa direzione si muove il volume sul negozio giuridico di Luigi Cariota Ferrara7.

Il secondo autore citato da Alpa è Franco Carresi. L’opera è Il contratto: due volumi apparsi nel 19878. Alpa individua un elemento caratteristico nell’ordine di esposizione seguito dall’autore. Questi infatti si occupa della trattativa e della conclusione dell’accordo, momenti cruciali dell’esperienza concreta, soltanto dopo aver analizzato la disciplina dell’istituto. L’insieme dei dati empirici dà luogo alle così dette “vicende del contratto”; la costruzione concettuale viene prima. Siamo di fronte ad un limpido esempio di elaborazione dogmatica, intesa nel senso classico, come a priori rispetto alla realtà da disciplinare.

Carresi ripropone un modello tradizionale, in un contesto culturale che già da tempo lo ha messo in discussione. Vorrei sottolineare che storicamente la dogmatica, costruita come un “sopramondo” rispetto al concreto manifestarsi del diritto (così l’ha rappresentata Enrico Paresce), nasce con i sistemi ottocenteschi9. Di origine ottocentesca è anche la concezione della logica giuridica che Emilio Betti ha elaborato a partire dagli anni 20 del Novecento, ponendo in primo piano proprio la “dogmatica odierna”, vista come risultante dalla tradizione e perciò in grado di descriverla e spiegarla. Pur non condividendo il giusindividualismo della pandettistica, Betti fa proprio, con una forte consequenzialità, il pensare sistematico e quindi il quadro epistemologico che era stato di gran lunga egemone nella scienza tedesca. E’ un modello di scienza che egli condivide con i giuristi liberali, anche se i contenuti, i valori di riferimento sono diversi10.

La rottura con questo assetto teorico, nel quale i concetti relativi alla materia contrattuale si compongono in una tassonomia giuridica autosufficiente

1958, p. 195 ss. 7 L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli 1949, II ediz. s. d..8 F. Carresi, Il contratto, Milano 1987.9 Vedi E. Paresce, La dogmatica giuridica (voce in Enciclopedia del dir., XIII, Milano 1964, p. 681 ss.), in Id., La dinamica del diritto. Contributi ad una scienza del diritto, Milano 1975, p. 7 ss.10 Tutto il dibattito sul negozio giuridico e sulla causa presuppone un comune orizzonte caratterizzato dalla vocazione all’ipostasi logica; è una scienza che lavora con astrazioni indeterminate: quelle che trovano il loro modello nella “Parte generale” del BGB (che Betti avrebbe voluto anche nel Codice civile del 1942, con ciò perseguendo un distacco radicale dai modelli francesi, e che comunque influenza la letteratura dedicata al negozio o al contratto nel secondo dopoguerra). In proposito, ricordo che Alpa accenna alla possibilità di leggere la teoria bettiana anche al di fuori della “concezione funzionalistica ed autoritativa di causa”. Questa lettura sarebbe praticabile poiché in Betti “l’intento pratico delle parti è pur sempre salvato” (G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 450 s.).

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ed indipendente dalle prassi, trova un’espressione teorica compiuta nella terza opera che Alpa esamina nel capitolo introduttivo. Si tratta del libro di Francesco Galgano Il negozio giuridico, del 1987, contemporaneo a quello di Carresi, ma con un approccio molto diverso: uno studio in larga misura incentrato sulla critica radicale del procedere dogmatico e sulla storicizzazione delle nozioni di contratto e negozio. E’ il punto conclusivo di ricerche animate dalla critica delle astrazioni tradizionali.

“... Galgano ricostruisce la categoria del negozio come una figura che si frammenta in tante operazioni che hanno a loro volta altrettanti statuti giuridici diversi: dal contratto alla promessa unilaterale, ai titoli di credito, alle deliberazioni assembleari e così via. Il contratto, visto nella sua dimensione poliedrica, adattata alle mutevoli esigenze economiche e sociali, conserva la sua funzione originaria di strumento di libertà ma diviene anche strumento di perequazione: perfino nel commercio internazionale, ove la lex mercatoria ... si deve ispirare a criteri di equità, tenendo conto della posizione giuridica ed economica delle parti, delle circostanze alle quali esse sono esposte, dei princìpi di buona fede e affidamento, e quindi deve ispirare il comportamento onesto e corretto degli operatori ...”11.

La messa in discussione delle astrazioni di derivazione pandettistica e del formale uguagliamento di situazioni diverse apre la strada ad una valutazione differenziata dei fenomeni a cui le astrazioni si riferiscono, con interventi più o meno penetranti che l’ordinamento attua sugli atti di disposizione dei privati (come nelle ipotesi definite di “riequilibrio” o di “integrazione”, ove può vedersi qualcosa di simile ad un governo dei contratti)12.

11 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 5.12 Penso sia utilizzabile la nozione di “governo”, muovendo da una formula che Michel Foucault riferisce a Guillaume de La Perrière (tratta da Le miroir politique, opera composta probabilmente nel 1539): “Governo è la retta disposizione delle cose di cui ci si occupa per indirizzarle a un fine conveniente”. Su queste parole il filosofo francese fonda un’immagine di governamentalità che va oltre l’esercizio del potere statuale e si traduce nel manifestarsi molecolare di poteri disparati. Vedi M. Foucault, Securité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978, Paris 2004, trad. it., Sicurezza, territorio, popolazione, Milano 2007, p. 77 ss. Possiamo parlare di una governamentalità giuridica, che si dispiega nell’interpretazione delle norme e nel disciplinamento delle situazioni controverse in base alle norme? Credo che questa concettualizzazione abbia un’utilità euristica, in particolare riguardo all’ermeneutica contrattuale, in quanto pone in primo piano interventi correttivi su ciò che appare voluto dalle parti. Alcune considerazioni molto chiare a proposito di simili interventi erano già in G. Alpa, Le stagioni del contratto, Bologna 2012, p. 143 ss., spec. 146: “... Dottrina e giurisprudenza hanno ampliato i casi in cui si può procedere a un riequilibrio del contratto: ciò avviene non solo nelle fattispecie in cui l’equità sia espressamente richiamata dal testo normativo, ma i tutti quei casi in cui si possano applicare clausole generali che implichino una valutazione prudente delle circostanze,

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3. Leggere il Codice in prospettiva storica

La destrutturazione del dogma negoziale, che Galgano porta a termine nel 1987, ha alle spalle dibattiti e contributi innovativi che già da due decenni avevano cambiato il volto della cultura giuridica italiana13. Alpa rievoca più di una volta nel suo libro la frattura (io direi il “taglio epistemologico”) che ha segnato la generazione di civilisti anteriore alla sua.

Spiccano in particolare le pagine dedicate al lavoro teorico di Stefano Rodotà, dagli anni 60 in avanti. Esso propone un uso delle prospettive realistiche (e della connessione tra diritto, fenomeni sociali, indirizzi politici) entro l’analisi giuridica e per la costruzione di modelli interpretativi14.

Rodotà è stato uno dei protagonisti più rigorosi e certamente il più combattivo nella rigenerazione della civilistica italiana. La scoperta di nuovi princìpi e metodi, che Alpa descrive, lega strettamente motivi scientifici e motivi di politica del diritto. Il legame è possibile e diviene più stringente con l’emergere di un’apertura culturale nuova dei giuristi, oltre il formalismo di matrice pandettistica ed oltre la “fallacia dell’architettura kelseniana”15. E’ l’espressione che usa con riferimento alla complessità inedita delle fonti dal secondo dopoguerra ad oggi.

In questo quadro, acquista un ruolo preminente la Costituzione della Repubblica: non è solo un insieme di regole sulla produzione normativa, sui diritti verso lo Stato, ma è fonte di norme e valori che intervengono direttamente nella regolazione di rapporti intersoggettivi.

Una nuova civilistica si forma durante la stagione del “disgelo costituzionale”. Vi è, dopo la chiusura retrograda degli anni 50, una svolta scientifica e giurisprudenziale, che prende sul serio ed attua la Costituzione e che è l’effetto di un mutamento dei rapporti di forza nella società italiana. Acquistano un peso maggiore sulla scena politica le domande e gli interessi

ovvero si richiami la natura dell’affare, ovvero ancora si ricorra alla correttezza, alla buona fede, alla presupposizione e alle altre tecniche consolidate”. Tutti schemi finalizzati a quella che l’autore chiama “giustizia contrattuale” e il cui fondamento è nel Codice. Ma egli non collega l’dea di “governo” alla giustizia contrattuale. Quando parla di “governare il contratto” si riferisce ai poteri delle parti (Il contratto in generale, p. 34 s.), mentre io uso l’idea di governo per enfatizzare l’incidenza di interventi correttivi ab extra.13 Cfr. G. Alpa, Il contratto in generale, cit, p. 178 s. “... La stagione del negozio giuridico ... sembra concludersi nella nuova edizione del Contributo di Renato Scognamiglio (1969) e con gli studi di Giorgio Cian su Forma solenne e interpretazione del negozio (1969)”. 14 Cfr. al riguardo S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv dir. comm., 1967, I, p. 84 ss.15 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 299.

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delle classi popolari. Sul terreno della scienza giuridica, la fattispecie contrattuale, com’era stata disegnata dal giusindividualismo, con la lineare connessione logica tra la manifestazione del volere libero e le conseguenze giuridiche che l’ordinamento vi ricollega (registrando la sovranità del volere), cede il passo ad una centralità nuova dell’ordinamento.

Ripercorrendo le linee del libro di Rodotà Le fonti di integrazione del contratto, pubblicato nel 196916, così Alpa disegna il cambio di prospettiva:

“... in un contesto culturale nel quale si tende ad enfatizzare la nozione di contratto sotto l’aspetto negoziale e volitivo, quasi che tutti gli effetti si conchiudessero nell’atto privato concluso dalle parti [... ecco l’eredità del giusindividualismo ...], Rodotà sottolinea la rilevanza delle disposizioni del codice che consentono di integrare la determinazione privata (la legge, gli usi, l’equità) o addirittura di modificare ciò che le parti hanno voluto, quando lo richieda l’interesse pubblico, come avviene con la sostituzione automatica di clausole. C’è quindi uno scontro tra la volontà e il suo precipitato rilevante per l’ordinamento. Rodotà coerentemente precisa che l’integrazione non opera solo in caso di lacune del contratto, ma indipendentemente da questa eventualità”17.

Il termine scontro indica il rilievo che la nuova visione assume, la sua potenzialità conflittuale. Con riferimento alla prassi interpretativa, la critica della dogmatica e la ricerca di un rapporto nuovo tra il piano normativo e quello empirico si esprimono in primo luogo attraverso il valore che si attribuisce alle clausole generali18. Anche su questo terreno teorico Rodotà gioca un ruolo di protagonista. Alpa lo ha messo in lue in uno scritto recentissimo richiamando la trasformazione della disciplina privatistica determinata dall’impatto delle nozioni giuridiche aperte, che l’interprete riempie di contenuti: sono questi i “termini nuovi che consentono all’ordinamento di mettersi al passo con il mutamento sociale”19.

16 Il volume è stato riproposto in una “ristampa integrata”, Milano 2004.17 G. Alpa, Op. cit., p. 175 ss.18 Sul punto va tenuto presente il lavoro svolto con riguardo alla buona fede ed ai suoi mutevoli significati dalla scuola pisana fondata da Ugo Natoli, a partire dai primi anni 60 (cfr. G. Alpa, Le stagioni del contratto, cit., p. 71 e nt. 32).19 Cfr. G. Alpa, Presentazione a S. Rodotà, Critica del diritto privato. Editoriali e saggi della ‘Rivista Critica del Diritto Privato, raccolti da G. Alpa e M. R. Marella, Napoli 2017, p. XXIII. Nell’analisi di Rodotà “è la stessa concezione di ‘fonte’ del diritto che cambia, ricomprendendo nuovi valori, il diritto vivente, la creatività della giurisprudenza, l’autonomia solidaristica dei privati: un diverso multiforme panorama di distribuzione del potere normativo sotto il tetto onusto della Costituzione repubblicana”. Ciascuna delle formule che Alpa usa in questo passo costituisce un’eresia rispetto alle visioni “computazionali” del diritto: quelle che fanno coincidere il rigore del discorso giuridico con la “calcolabilità” dei risultati interpretativi.

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Già i codificatori del 1942 assegnavano un significativo rilievo alle clausole generali: nozioni dai connotati fluidi, che evocano valori storicamente esposti al mutamento. La consapevolezza della necessità di lasciare spazi aperti nell’ordinamento è in potenziale contrasto con l’assolutezza della dogmatica. L’aspetto di maggiore forza innovativa, nel discorso di Rodotà, è nell’interpretazione delle clausole generali condotta alla luce del dettato costituzionale. Un punto di vista che ispira molte delle pagine di Alpa, su cui tornerò tra poco.

Guido ha studiato a Genova, è allievo di Rodotà ed ha seguito le sue orme scientifiche, ricollegandosi alla scuola di Rosario Nicolò. Ora osserva che quella scuola era stata, intorno alla metà del secolo, al centro della crisi del diritto civile tradizionale20.

La messa in discussione dei dogmi e del pensare sistematico, in nome di una nuova visione, ove spicca l’attenzione alla storia esterna e all’incidenza della svolta costituzionale sul diritto civile, costituisce - mi sembra - la piattaforma, la struttura di pensiero su cui si regge la trattazione di Alpa.

Se questi sono i presupposti, allora il contratto, non più circoscritto entro una combinazione di dogmi soggetti ad uno sviluppo endogeno, come si inquadra, come dev’essere studiato?

La risposta di Alpa mette al centro il Codice civile del 1942, le norme sui “contratti in generale” ed insieme le modifiche, le integrazioni, i nuovi scenari applicativi. Il discorso sul contratto è anzitutto un discorso sul Codice italiano vigente, analizzato nella sua composizione, nel rapporto con i codici europei precedenti (il passato che lascia le sue orme) ed insieme studiato in stretta connessione con le innovazioni normative e con quelle giurisprudenziali intervenite su di esso. Così Alpa giunge - mi sembra - ad una visione dell’impianto codicistico nella sua dinamicità: norme che si ispirano in parte a modelli anteriori e la cui effettiva applicazione cambia, quanto più si supera lo statico formalismo dei dogmi e diviene operante l’interpretazione costituzionalmente orientata.

Ebbene, questa dinamicità non può essere intesa se non avvicinandosi alle regole e agli schemi del contratto con un approccio storico. Ciò vale in primo luogo per il rapporto con il passato e per l’eredità che questo lascia. Le discipline contemporanee del contratto non si intendono se non si vede il collegamento con le vicende giuridiche dell’Europa continentale tra Ottocento e Novecento, se non si ripercorrono le somiglianze e le cesure. La via allo studio del contratto scelta da Alpa consiste nel considerare il testo del Codice - egli scrive - “in prospettiva storica, come un ‘precipitato’ delle

20 G. Alpa, Il contratto in generale, cit, p. 175 s.

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precedenti codificazioni”21. La lettura delle fonti romanistiche (ovviamente ripensate, secondo una discontinua genealogia) e la formazione di concetti fondamentali assunti come costanti nel tempo dominano l’orizzonte teorico delle codificazioni ed operano fino a metà Novecento. Si tratta di schemi concettuali stabilmente riferiti alla materia dei contratti.

Anch’essi subiscono adattamenti ed innovazioni. Un esempio (di cui recentemente mi sono occupato e che mi pare in linea con il disegno tracciato da Alpa) può essere quello della nozione di comune intenzione delle parti nelle regole sull’interpretazione dei contratti. E’ un concetto che viene costruito sullo schema romano della conventio da Domat; passa a Pothier e poi al Code civil del 1804, con regole puntualmente ricalcate nel Codice italiano del 1865, fino alla nostra codificazione più recente, del 1942. In quest’ultima lo schema ricavato dalla tradizione viene diversamente definito, per effetto di una innovazione introdotta nel secondo comma dell’articolo 1362: “Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”. La valutazione dà più spazio all’interprete e non sembra subordinata ad un’affermazione dell’autosufficienza del testo, purché letteralmente non ambiguo22. Il confronto con i codici precedenti è qui strettamente funzionale 21 Il contratto in generale, cit., p. 40.22 Alpa ha ribadito più volte, in vari scritti, la critica al letteralismo ed alla massima in claris non fit interpetatio, che ha tuttora largo seguito - sia pure con riserve e adattamenti - nella giurisprudenza della Cassazione. Credo che la fortuna moderna di questa massima sia legata all’esigenza di riconoscere la piena libertà dei privati come nucleo e conditio sine qua non del disciplinamento sociale, ravvisando in essa la sostanza, la verità di ogni regolamento contrattuale. Secondo questa visione, la formulazione linguistica dell’accordo, che i contraenti hanno voluto, se è chiara, non può che essere definitiva (cioè autonomamente capace di definire il punto di incontro degli intenti individuali). Si presuppone insomma una razionalità delle azioni volte a perseguire l’interesse individuale, da cui nasce la corrispondenza del testo contrattuale al vero. Se il testo è chiaro, non vi è interpretazione. Questa interviene solo in presenza di un dubbio. Così, per quanto riguarda il governo del contratto da parte del giudice, è evidente che i suoi margini si restringono. Nell’ambito delle dottrine italiane che si riferiscono al codice del 1865, com’è noto, la delimitazione dell’apprezzamento del giudice e del suo potere di integrazione entro l’ermeneutica dei contratti costituisce la scelta di fondo (e - si può dire - l’indirizzo di politica del diritto) che guida l’elaborazione teorica di Cesare Grassetti. Questo autore - che pure critica esplicitamente la massima in claris - delinea un modello gerarchico entro cui collocare i canoni d’interpretazione dei contratti fissati dal Codice, sicché dall’uno si possa passare ai successivi: dall’esame dell’intenzione ad altri criteri, non ispirati al primato della volontà, ma dettati dal legislatore, per integrare quanto risulti dal testo. La dottrina influenzerà i codificatori del 1942 soprattutto nella successione dei canoni, ma con alcune rilevanti novità, costituite dagli articoli 1362 secondo comma, 1366, 1370 e 1371. Le disposizioni nuove sono, a mio avviso, il presupposto per una messa in discussione del modello

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all’esegesi della disposizione, che apre uno spazio all’esame del contesto situazionale entro cui viene fissato il contenuto del contratto23.

Allo stesso modo, già in un saggio del 1973, e poi in altri scritti, anche recenti, egli sottrae la nozione di buona fede, intesa in senso oggettivo, attraverso cui si interviene per integrare e correggere il contratto (articolo 1366 c.c.), a qualsiasi ipotesi di sussidiarietà24 rispetto alla mera decifrazione del testo, quale immediato portatore di un’intenzione comune25. E’ un concetto a contenuti variabili: una “clausola generale” (un segmento, una formula linguistica, che si ritrova in più enunciati prescrittivi del Codice) di cui l’interprete fissa la portata concreta nelle prassi contrattuali.

In tutti gli studi di Alpa su contratti ed interpretazione prevale l’attenzione alle modalità di svolgimento della giurisprudenza26. Il che costituisce un antidoto alla visione astratta dei canoni.

Segnalo, in una rassegna di decisioni della Cassazione, il rilievo attribuito ad un caso controverso, di cui l’autore analizza gli esiti giudiziari27. Si tratta di un contratto di mediazione. Una clausola escludeva il diritto del mediatore al compenso, se - scaduto l’incarico - la vendita per cui egli era intervenuto non si fosse realizzata. Ma nella situazione concreta, che ha dato luogo al giudizio, la mancata attuazione della vendita è ascrivibile esclusivamente alla determinazione delle parti, mentre l’attività del mediatore si è svolta, finché egli ha potuto, in modo coerentemente rispondente all’incarico. Infatti, grazie al suo intervento, le parti hanno concluso un preliminare di vendita. Poi non hanno voluto il contratto traslativo. Alla luce di questi dati fattuali,

gerarchico. Cfr. C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova 1938 (rist. 1983), p. 225 ss. (sul nesso tra carattere precettivo delle regole e determinazione di un ordine nella loro applicazione).23 Rinvio, su questa tematica, a M. Brutti, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Torino 2017, p. 228 ss.24 Tale da collegarsi allo schema gerarchico.25 Vedi anzitutto G. Alpa, Unità del negozio e princìpi di ermeneutica contrattuale, in Giurisprudenza italiana, 1973, I, 1, col. 1507 ss., spec. col. 1516. Ed ora G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 512 ss.26 Vedi, tra altri scritti, G. Alpa, Gli elementi estrinseci nell’interpretazione del con-tratto, in Rivista del Notariato, 1983, p. 669 ss.; Id., L’interpretazione del contratto. I. Orientamenti e tecniche della giurisprudenza, Milano 1983; G. Alpa, G. Fonsi e G. Resta, L’interpretazione del contratto. Orientamento e tecniche della giurisprudenza, II ediz., Milano 2002; G. Alpa, I princìpi generali, II ediz., in G. Iudica e P: Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Milano 2006, p. 451 ss.; Id., Il controllo giudiziario del contratto e l’interpretazione, in AA. VV., L’evoluzione giurisprudenziale nelle decisioni della Corte di Cassazione, raccolta di studi in on. di A. Brancaccio, vol VII, Milano 2013, p. 3 ss. 27 Cfr. G. Alpa, L’evoluzione giurisprudenziale, cit., p. 30 ss. e Cass. 5 marzo 2009, n. 5348.

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i giudici di legittimità esercitano il proprio sindacato sul procedimento interpretativo, cassando la sentenza di appello sfavorevole al mediatore, e ritengono che la clausola controversa debba interpretarsi secondo buona fede, sicché il compenso sia corrisposto.

Dal caso l’autore trae una definizione della buona fede “come autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale”. Descrive l’operatività di tale dovere. Nell’ambito contrattuale, esso “implica un obbligo di reciproca lealtà di condotta che deve presiedere sia all’esecuzione del contratto che alla sua formazione ed interpretazione”.

E’ chiaro il rapporto tra il dovere di buona fede e i comportamenti relativi alla conclusione ed all’esecuzione del contratto. Nel porre in essere questi comportamenti le parti sono tenute a rispettare obblighi riconducibili - e ricondotti dall’interprete - allo schema generale della buona fede. Mi sembra invece che sia diverso il rapporto fra dovere ed interpretazione alla luce dell’art. 1366 c.c. Rimanendo entro l’impostazione segnata da Alpa, credo che l’art. 1366 debba essere inteso nel senso di attribuire all’interprete un vincolo ad intervenire sulle clausole contrattuali e sulla loro esecuzione, per riportarle entro l’ambito di condotte conformi alla buona fede. Quindi, con operazioni ermeneutiche che aggiungono: che integrano il testo prodotto dall’accordo. Emerge da esse un impulso più generale: una “mutata o mutabile concezione del contratto che da ‘affare privato’ diviene regolamento assoggettato effettivamente a controlli, integrazioni, modificazioni”28.

4. Ancora sulla storicizzazione

L’indagine sul passato e sulle tracce che esso lascia nella successione delle epoche abitua il giurista a vedere i mutamenti più vicini nel tempo, fino a ciò che egli considera presente. Così il metodo storico di indagine è riferito da Alpa non solo alla tradizione (dottrinale e normativa) da cui muovono i codificatori, ma anche agli accadimenti successivi al Codice: vale a dire a quello che egli chiama “il modello italiano, dal 1942 al nuovo millennio”. Traspare da queste parole l’immagine di una perdurante forza dell’impianto codificatorio, su cui si innestano i mutamenti, senza che ciò significhi destrutturazione, come si vede nelle norme generali sui contratti. Per la

28 G. Alpa, Il contratto in generale, p. 426. Torna su questo punto a p. 525 ed osserva in proposito la erosione della “sacertà del contratto”.

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messa a fuoco di ciò che permane intatto e delle metamorfosi post-1942, egli ricorre più volte ad analisi di tipo comparativo. La sua convinzione è che il civilista oggi non possa non essere, in maggiore o minor misura a seconda dei temi, un comparativista.

E’ opportuno su questo punto rammentare le ricerche di Gino Gorla, autore più volte richiamato da Alpa. Secondo Gorla, lo studio comparativo e lo studio storico devono scartare ogni a priori dogmatico, per convergere nel metodo, fino a coincidere29. Tra l’altro, muovendosi in questa prospettiva, Gorla tendeva ad avvicinare la formazione del common law, attraverso il ruolo svolto dai civilians, alla tradizione europeo-continentale30. Metteva in evidenza così vicende storiche (e, per usare una rischiosa metafora, radici) comuni alle esperienze occidentali; ed è questo un nodo problematico che ricorre anche nelle pagine di Alpa.

Quindi, il trattato di cui discutiamo può ricondursi ad una sorta di periodizzazione, una summa divisio: prima e dopo il codice del 1942.

Il racconto storico prende le mosse dai modelli francesi. L’individualismo del Code civil ha alle spalle l’idea del primato della volontà, che si esprime nel contratto (idea presente in Pothier) e che diviene legge per le parti. Prima ancora, il carattere metastorico del diritto privato, che è l’illusione ideologica comune a tutta la modernità, era già chiaramente affermato nelle “leggi immutabili” di cui parlava Domat: una oggettivazione delle regole che governano azioni ed utilità dei singoli. Regole costruite dalla scienza attraverso la rielaborazione (secondo un ordine che si pretende naturale) dei materiali normativi tratti dalla compilazione giustinianea. La volontà, la natura e - possiamo dire conseguentemente - l’indipendenza del diritto privato dalla politica sono i tratti ideologici comuni alle codificazioni.

Seguendo l’analisi che Alpa delinea degli svolgimenti del pensiero giuridico europeo nell’Ottocento, è forte l’impressione che tra il giusindividualismo francese e quello tedesco vi sia per un tratto di tempo una convergenza e poi un distacco. Lo si vede in particolare nelle teorie che esaltano il momento volitivo e l’autonomia dei soggetti nel diritto contrattuale.

Credo al riguardo che il vero punto di novità della pandettistica nel campo contrattuale sia costituito dal principio dell’affidamento (nozione

29 Questa prospettiva è già in G. Gorla, Interessi e problemi della comparazione con la ‘common law’ (1961), in Id., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano 1981, p. 51 ss. spec. 52: “... il comparatista deve guardare con occhi di storico non soltanto al diritto straniero, ma anche al diritto proprio, e quindi agli uomini e alle attività che lo hanno prodotto ...”.30 Vedi G. Gorla, Prolegomeni ad una storia del diritto comparato (e postilla) (1980), in Id., Diritto comparato, cit., p. 877 ss.

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dottrinale ricavata induttivamente, sintesi di regole che tutelano la certezza dei rapporti contrattuali), su cui Alpa si sofferma in due luoghi diversi31.

Come egli sottolinea, questo principio non poteva albergare nel Codice di Napoleone, poiché incorpora un’idea diversa rispetto al mero volontarismo. La tutela dell’affidamento consiste infatti nel contemperamento tra due elementi propri della prassi contrattuale, non ravvisabili nelle dichiarazioni unilaterali: da un lato l’intento voluto ed espresso e dall’altro la reazione del destinatario della dichiarazione. Questi propriamente si affida alla dichiarazione. E nella comune intenzione - ecco ancora il modello della conventio ripensato dai pandettisti - l’affidamento è reciproco32, secondo il senso obiettivo delle dichiarazioni. Si tratta di una novità pienamente accolta nel nostro Codice.

Inoltre, Alpa descrive bene l’intreccio, nel tardo Ottocento italiano, fra le dottrine francesi, di cui il Codice del 1865 è espressione, e i modelli tedeschi usati per organizzare la conoscenza e l’interpretazione di quel Codice. Al centro della recezione della pandettistica è, come ho già accennato, Scialoja. Anche nella sua opera può constatarsi un mutamento significativo. Infatti, dopo essere stato fautore dei modelli tedeschi, il maestro italiano ripropone, durante gli anni del primo dopoguerra, un rapporto privilegiato tra la scienza giuridica italiana e quella francese, individuando nella tematica delle obbligazioni e dei contratti il terreno comune su cui costruire una prima parziale unificazione del diritto civile dei due paesi. Proprio Alpa - va ricordato - in collaborazione con Giovanni Chiodi, ha avuto il merito di riscoprire e studiare nuovamente quel progetto di codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, prodotto da una collaborazione internazionale tra giuristi ed ora ripensato come un precedente delle tendenze armonizzatrici nel diritto privato europeo. Il progetto, varato nel 1927, fu assunto come primo contributo per la revisione del Codice italiano allora vigente (quello del 1865)33. In seguito, dopo vari dibattiti e confronti

31 Occorre sottolineare che l’affidamento delineato dalla pandettistica è un principio che i giuristi ricavano per induzione da regole non codificate, ma prodotte dalla scienza. Esse si rifletteranno sul BGB. In Italia, verranno utilizzate come struttura interpretativa da riferire alle disposizioni del Codice del 1865.32 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 48 e p. 133 s.33 L’approvazione avviene il 31 ottobre 1927. Il testo è accompagnato da una relazione di Henri Capitant, Ambroise Colin, Georges Ripert, Alfredo Ascoli e Roberto De Ruggiero. Il Progetto è pubblicato in Italia, con testo bilingue, dalla Libreria del Provveditorato generale dello Stato, Roma 1928. Segue l’identica pubblicazione francese, Projet de code des obligations et des contrats - Progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti, Paris 1929. La nuova recente edizione del Progetto è stata promossa, nell’ottantesimo anniversario della sua approvazione, dal Consiglio Nazionale Forense (per iniziativa di

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polemici, fu accantonato nella fase finale e decisiva della codificazione italiana, per iniziativa del guardasigilli Dino Grandi34.

Da queste indagini sul passato viene l’impulso più netto e motivato alla storicizzazione, che costituisce un’indicazione di lavoro feconda per la civilistica, se vuole misurarsi con i fatti, con la trafila dei concetti, con i trapianti normativi dall’una all’altra codificazione, con le novità derivanti dal mutare dei contesti. In fondo lo studio giuridico non può fare a meno della conoscenza storica, poiché esso riguarda esperienze che sono nella storia. E le memorie da cui muove, compresi gli archetipi del diritto romano usati nella modernità, non costituiscono un lascito pacifico, come talvolta si immagina. Ogni segmento di tradizione (mi pare che Alpa lo dimostri) è pluralistico al suo interno ed è attraversato da contrasti. Così, l’alternativa tra modelli francesi e tedeschi, tra gli anni 20 e gli anni 40 del Novecento, si innerva nel conflitto fascismo-liberalismo.

5. Costituzione, Codice, normazione europea

Voglio ora mettere in evidenza un ulteriore aspetto teorico nel libro del 2014. Come opera la storicizzazione nel racconto di Alpa relativo agli ultimi decenni del Novecento ed alle problematiche attuali?

Egli distingue e contrappone due tendenze in reciproco contrasto: la costituzionalizzazione del contratto ed il controllo degli atti di autonomia privata secondo i valori costituzionali. Sono due vie teoriche che segnano profondamente ancora oggi il dibattito scientifico e l’esperienza dei contratti.

La prima tendenza mira a fondamentalizzare la libertà contrattuale: vale a dire il dominio del mercato. Essa è in contrasto con l’impianto costituzionale. La seconda - considerato che la libertà economica non è inclusa dalla Costituzione tra i diritti fondamentali - comporta da parte del giudice un’applicazione diretta delle regole della Costituzione al contratto; e questo “sia - riassume Alpa - utilizzando le clausole generali, sia qualificando il contratto come illegale (se in contrasto con la normativa costituzionale), sia utilizzando i parametri derivanti dalla legislazione comunitaria ove

Alpa), con l’aggiunta di scritti contemporanei che commentavano l’opera svolta e di due saggi introduttivi dei curatori. Vedi G. Alpa e G. Chiodi (a cura di), Il progetto italo-francese delle obbligazioni (1927). Un modello di armonizzazione nell’epoca della ricodificazione, Milano 2007.34 Rinvio, sulla vicenda del Progetto, al mio libro Vittorio Scialoja, Emilio Betti. Due visioni del diritto civile, Torino 2013, p. 85 ss.; 150 ss.

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applicabili (in particolare il principio di proporzionalità e il principio di uguaglianza)”35.

L’inciso “ove applicabili” evoca la possibilità di un innesto dei princìpi desumibili dalla normazione europea nel quadro dei valori costituzionali e nella loro azione sul diritto civile. Questa connessione può essere ricondotta al concetto di Drittwirkung (delineato dalla giurisprudenza tedesca alla fine degli anni 50), cui Alpa dedica alcune pagine36. Esso significa letteralmente: efficacia delle norme costituzionali verso figure terze rispetto al rapporto duale individuo-Stato; quindi applicazione ai rapporti interindividuali. La ricaduta politica è la tutela dei diritti fondamentali, anche in contrasto con il mercato.

Infine il metodo della storicizzazione mi sembra operante ed utile ad una raffigurazione realistica di una serie di disposizioni speciali recenti, nel lungo capitolo dedicato da Alpa ai contratti dei consumatori e degli utenti.

E’ una normativa nuova, proveniente da disposizioni comunitarie che investono lo spazio giuridico europeo. Si innesta nel Codice civile; non lo sconvolge, pur introducendo previsioni di status e regole del tutto eterogenee rispetto alle categorie codicistiche. Essa viene studiata e posta a confronto con gli schemi concettuali impiegati dalla scienza di fine Novecento.

Si possono vedere in particolare le pagine dedicate al concetto di buona fede, già sopra richiamato, che ha un posto rilevante nell’articolo 33 del così detto Codice del consumo, in tema di clausole vessatorie. Vi è notoriamente un comico errore di traduzione. La clausola definita vessatoria dalla direttiva che il codice ricalca, in quanto è “contrary to requirement of good faith”, diventa vessatoria “malgrado la buona fede”37. Se mettiamo da parte il fraintendimento, resta il problema principale: vale a dire il rapporto tra il “significativo squilibrio” menzionato nel testo e lo schema della buona fede. Quest’ultimo, inteso in senso oggettivo, può comprendere in sé l’apprezzamento circa lo squilibrio a carico del consumatore dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Alpa rafforza la tesi (non del tutto accettata nella giurisprudenza) secondo cui la buona fede è qui proprio da intendersi in senso oggettivo. In proposito, traccia un breve excursus relativo agli usi storici del sintagma. Considera - a ragione - improponibile una continuità con lo schema romano della bona fides, nonostante l’identità lessicale38, e mostra come il

35 Il contratto in generale, cit., p. 301 s.36 Il contratto in generale, cit., pp. 299-305.37 Il contratto in generale, cit., p. 654.38 Schematizzando molto la comparazione tra schemi antichi ed attuali, si può dire che i referenti fondamentali del concetto romano (e il suo collegamento con le forme processuali entro cui operava) siano spariti nell’età moderna, a cominciare dal

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significato prevalente, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, equivalga a quello di correttezza, molto vicino alla nozione inglese di fairness39.

All’enunciazione dell’equivalenza Alpa fa seguire un’altra osservazione, che ci riporta ad un problema cui già ho accennato:

“... Possiamo registrare un revival della buona fede [nei contratti] agli inizi degli anni 70 del Novecento. Da questa data la clausola generale di buona fede - o il principio di buona fede - è servita per mitigare le pretese del creditore, per imporre obblighi collaterali alle parti, per misurare lo sforzo che si può pretendere dal debitore nell’esecuzione della prestazione ...”.

La duttilità della clausola generale è una condizione necessaria e mi sembra che da un lato la storicizzazione della buona fede, dall’altro l’attribuzione ad essa di un significato nell’ambito dell’art. 33 del Codice di consumo non sfuggano al nesso con il principio di solidarietà, di cui all’articolo 2 della Costituzione: principio più volte evocato dai giuristi che hanno cercato di spezzare i vincoli della dogmatica tradizionale. La solidarietà sociale come principio cogente, attorno a cui si struttura il dover essere della buona fede. Ancora, in proposito, va ricordato il pensiero di Rodotà40.

Questo richiamo è perfettamente coerente con l’impostazione di Alpa, con il suo ripensamento del Codice, con le aperture comparativistiche che

nesso esclusivo tra la buona fede e una categoria determinata di situazioni (in primo luogo i contratti consensuali), per cui soltanto valeva un giudizio più ampio, uno spazio libero accordato all’officium iudicis, non limitato all’aspetto formale degli atti e dei comportamenti, ma esteso all’insieme degli interessi in gioco. In questi casi (compravendita, locazione, mandato, società, tutela, gestione di affari altrui, fiducia, deposito, comodato, restituzione della dote alla donna o al padre di lei), la discrezionalità del giudice era - nel diritto romano durante l’età della giurisprudenza - assai ampia. Era operante la procedura civile per formulas, in cui la formula, redatta dal magistrato - protagonista della prima fase del processo - ed accettata dalle parti, doveva fissare il campo dell’officium iudicis. La pretesa della parte interessata, indicata nella formula, non era determinata nei suoi termini pecuniari: il giudice decideva quanto era dovuto. In quel genere particolare di rapporti gli obblighi non erano fissati a priori, ma il iudex li definiva secondo la logica del rapporto, esaminato in tutti i suoi aspetti. L’esistenza di un dolo portava alla soccombenza di colui che l’aveva posto in essere. Dalla valutazione complessiva del rapporto si desumeva la valutazione pecuniaria. Mentre in altri rapporti, diversi da quelli elencati, la pretesa aveva ad oggetto una somma certa. Si può dire (molto sommariamente) che fides indichi - con una nozione romana risalente all’età più antica - il legame che regge i rapporti sopra elencati sottratti ad ogni formalismo. Mentre l’aggettivo qualifica la giustizia secondo cui il iudex è tenuto a valutare il rapporto e l’importo pecuniario corrispondente alla pretesa. Dunque il giudice fissa i contorni di ciò che è giusto nel caso concreto, ma solo in quelle determinate fattispecie.39 Il contratto in generale, cit., p. 655 ss. 40 S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari 2014, p. 39 ss.

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segnano la sua ricerca (si veda l’unità concettuale ricavata dal confronto tra buona fede e fairness). Dunque, il principio di solidarietà dà un senso ed un compimento (nell’orizzonte della Costituzione) alle vicende concettuali e agli usi nuovi della buona fede, compreso quello specificamente legato alla tutela dei consumatori.

6. Princìpi subordinati alle disposizioni vigenti e princìpi-guida

Il termine “princìpi” ha un’estrema varietà di impieghi nelle teorie del diritto e nei dettati giurisprudenziali (sia negli itinerari argomentativi sia nelle massime)41. Ogni catalogo che fissi le linee di una “semantica dei princìpi” è necessariamente incompleto. Alpa lo ha rilevato più volte, fornendo una serie molto estesa di esempi, da cui risulta la relatività del concetto. La descrizione analitica, cui ha dedicato numerose pagine, è un’utilissima base

41 Mi limito a ricordare tre contributi a questa tematica, in momenti storici diversi, che definiscono la cornice di una bibliografia amplissima. Il primo è un convegno nel quale si affronta la questione dei princìpi generali entro l’ordinamento fascista (AA. VV., Studi sui princìpi generali dell’ordinamento giuridico fascista, Pisa 1943. Siamo nella fase finale del regime. La sollecitazione a riflettere sul punto ed eventualmente a proporre una codificazione di princìpi generali, in una prospettiva che guarda ancora alla costruzione dello Stato corporativo, viene dal ministro della giustizia Dino Grandi. Il convegno si svolge a Pisa nel 1940, ma la pubblicazione finale degli atti, a cura della Facoltà di Giurisprudenza e della Scuola di perfezionamento nelle discipline corporative, è del 1943. In questo tratto di tempo, si è avuto il precipitare della situazione politica italiana e si sono già delineati i contorni della sconfitta militare. Tutta la discussione appare ormai sfocata, mentre è vicinissimo il crollo del regime. Lo stesso ministro Grandi ha trovato una soluzione al problema che aveva posto, disponendo, con l’assenso di Mussolini, la recezione della Carta del lavoro in un testo di legge, che è stato posto all’inizio del nuovo Codice civile, promulgato nel 1942. Là vanno ricercati i princìpi generali. Eppure il convegno pisano rimane interessante per due aspetti: da un lato, la tendenza a concepire princìpi direttamente cogenti (e non soltanto programmatici), che devono essere il frutto di un’attività normativa; dall’altro una nuova considerazione della funzione interpretativa affidata ai giudici (su entrambi i punti si vedano le relazioni di Sergio Panunzio e Vezio Crisafulli). Se i princìpi da esprimere (da codificare) sono enunciati normativi a carattere generale e senza fattispecie, dove se non nella giurisdizione potrà colmarsi la distanza tra questo genere di precetti e i casi della pratica? Le due questioni verranno riproposte nel dopoguerra. Al bilancio delle dottrine italiane postcostituzionali sono dedicati gli altri due contributi, che riassumono la storia del problema. Vedi AA. VV., I princìpi generali del diritto. Atti dei Convegni Lincei, Roma 1992; AA. VV., I princìpi nell’esperienza giuridica. Atti del Convegno della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza. Roma, 14-15 nov. 2014, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 2014 (numero speciale).

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per i ragionamenti da svolgere42: non muove da una predefinizione, ma fa i conti con gli effettivi significati che la parola assume.

Tenendo conto delle molteplici formulazioni registrate dall’autore e della sintesi da lui proposta43, mi sembra che debbano distinguersi due accezioni , di cui descrivo le linee essenziali.

Nella prima categoria di impieghi del termine sono compresi tutti i significati per cui i princìpi appaiono come risultato di un’attività interpretativa o teorica che concettualizza disposizioni già formulate (prese singolarmente o combinate assieme). Siamo di fronte in questi casi ad un’elaborazione scientifica, i cui prodotti sono più o meno distanti dalle prescrizioni che ne costituiscono l’oggetto: la generalità sarà allora il traguardo di un procedimento induttivo o di una sintesi elaborata muovendo dalla normazione. E’ qualcosa di simile alla nozione antica di regula, come viene definita in un notissimo frammento, risalente agli inizi del terzo secolo d.C. e che i compilatori giustinianei traggono dal giurista romano Paolo: Regula est quae rem quae est breviter enarrat, non ut ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. Nell’idea di narrazione, già fissata due secoli prima da Sabino, è evidente il rinvio ad un dato giuridico che

42 G. Alpa, I principi generali, II ediz., Milano 2006; Id., I princìpi generali. Una lettura giusrealistica, in AA. VV., I princìpi nell’esperienza giuridica, cit., p. 77 ss.; Id., Il contratto in generale, cit., p. 419 ss. 43 Così Alpa riassume le due concezioni: “quella che ritiene il principio una regola generale che si fonda sulle (o si induce dalle) regole espresse dall’ordinamento; quella che considera il principio un prius, metagiuridico o extralegislativo; se i princìpi preesistono alle norme, le norme non sono che la ‘manifestazione sensibile’ del principio”. (Il contratto in generale, cit., p. 421). Anch’io assumo come quadro di riferimento la dicotomia tra princìpi indotti dalle disposizioni di legge e princìpi che occupano una posizione di priorità logica ed ideale rispetto ad esse. E condivido l’impostazione di Alpa là dove non introduce differenze tra princìpi ricalcati su disposizioni vigenti e princìpi desunti attraverso l’induzione o la generalizzazione da disposizioni vigenti, poiché le operazioni logiche da cui nascono sono omogenee. Credo tuttavia (qui mi allontano dalle formulazioni di Alpa) che i princìpi, se entrano in qualche modo nei processi interpretativi, non possano definirsi metagiuridici; e penso inoltre che nel definire il rapporto tra princìpi e disposizioni si debba prescindere dal riferimento ad una priorità temporale. Per fare un esempio, il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. non viene prima del Codice, ma costituisce una norma-guida che orienta l’interpretazione e l’applicazione delle disposizioni codicistiche. Si può parlare di priorità temporale se si postula che dal principio attraverso l’interpretazione nasca una norma nuova, ma ciò è in contrasto con la realtà empirica nella quale le disposizioni non cambiano, pur piegandosi a significati diversi da quelli originari (penso alla discontinuità che oppone la solidarietà sociale dell’art. 2 Cost. alla “solidarietà corporativa” originariamente recepita dai codificatori nell’art. 1175, come espressione di autoritarismo e di collaborazione coatta tra le classi).

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precede l’enunciato della scienza e risulta brevemente concentrato in essa44.Quando la distanza logica del principio dai referenti normativi su

cui esso si fonda è più marcata, allora si può immaginare una scoperta: quasi l’esistenza di una prescrizione latente nell’ordinamento, che si fa emergere; ma questa è soltanto una metafora. Vi è in sostanza anche qui un procedimento induttivo: è più articolato ed è volto a colmare quelle che all’interprete appaiono come lacune nell’ordinamento.

Sia l’articolo 3 delle disposizioni preliminari al Codice del 1865, sia l’analogo articolo 12, relativo al nostro Codice, intendono in questo senso i princìpi generali, concepiti come norme non immediatamente aderenti a disposizioni legislative45, e che tuttavia l’interprete fa discendere dal diritto vigente. Il giurista o il giudice arrivano alla loro definizione, lavorando su ciò che già esiste. Esse possono ricomprendere anche i brocardi, le massime provenienti dalla tradizione, di cui l’interprete sostenga ed argomenti in modo attendibile, l’inerenza al diritto entro cui opera o meglio, secondo l’articolo 12, all’ordinamento giuridico dello Stato.

Gli esempi citati da Alpa riguardano da un lato i casi nei quali le disposizioni sono erette a princìpi (soprattutto nel linguaggio giurisprudenziale)46, dall’altro la costruzione di enunciati normativi desunti da più disposizioni e collocati su un piano elevato di astrazione, che allarga fortemente la loro applicabilità.

A questo proposito, l’autore elenca una serie di possibili risultati del lavoro di sintesi sul diritto privato in materia di scambi economici. Cita:

“... i) il principio che tutela il possesso rispetto alla proprietà statica o inerte; ii) il principio che vieta l’indebito arricchimento; iii) il principio che impone il risarcimento del danno; iv) il principio che impone la responsabilità patrimoniale per i debiti contratti; v) il principio che considera vincolanti gli accordi delle parti; vi) il principio che considera gli

44 Cfr. D. 50, 17, 1 (Paulus 16 ad Plautium). Il passo è richiamato, nel convegno del 1940 (atti pubblicati nel ‘43) da E. Betti, Sui princìpi generali del nuovo ordine giuridico, in Studi sui princìpi generali, cit., p. 321. Egli considera regula sinonimo di principio generale e si serve del frammento di Paolo per sostenere in ogni caso il carattere induttivo dei princìpi, ai quali nega la prevalenza sulle altre norme giuridiche. L’idea di prevalenza dei princìpi (comunque configurati) condurrebbe ad una interpretatio abrogans.45 Il collegamento immediato si vede nelle norme che combinano più disposizioni o che vengono costruite in base a disposizioni vigenti attraverso l’uso dell’analogia. 46 Si veda ad esempio Cass. 27 aprile 1982, n. 2632, a proposito del terzo comma dell’art. 1453 c.c. (“Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può adempiere la propria obbligazione”), denominato “principio”. Vedi G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 437. Ma un lungo inventario di princìpi di diritto contrattuale nella giurisprudenza, tutti dipendenti da disposizioni espresse, può leggersi da p. 424 a p. 447.

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accordi produttivi di effetti solo per le parti e non per i terzi; vii) il principio che privilegia la concorrenza rispetto al monopolio o all’oligopolio; viii) il principio di maggioranza per il funzionamento degli enti collettivi ...”47 .

Accanto agli enunciati più o meno generali subordinati all’ordinamento esistente (indotti da esso) vi è una seconda e distinta categoria, quella dei princìpi-guida, che enunciano espressamente “i valori fondativi di un ordinamento o di una sua parte”48. Ciò può avvenire anche nell’ambito della legislazione ordinaria: è il caso dell’attacco allo Statuto Albertino condotto, durante il fascismo, mediante le leggi, fino alle disposizioni antiebraiche del 1938: una sottrazione di diritti e l’inizio di una persecuzione (dagli esiti orrendi ed indicibili), il cui realizzarsi è stato avviato mediante enunciati legislativi.

Diverso è il quadro che si crea più avanti nel tempo, dopo il 1945 e con gli enunciati di portata generale della Costituzione repubblicana. Contro ogni resistenza o svalutazione, sono questi i princìpi-guida. Fissano indirizzi al legislatore e criteri per l’interpretazione49. Ciascuno di loro esprime un valore: qualcosa di aestimabile50, un’assiologia, vale a dire la raffigurazione sintetica di scopi degni di essere perseguiti.

Alpa si mantiene fedele alla convinzione che l’interprete debba subordinare ogni dato normativo all’assiologia costituzionale, anche se mette in luce la tendenza nelle prassi contemporanee a distaccarsi da quei princìpi-guida, ad eroderli (negandone il nocciolo ugualitario e solidaristico), per salvaguardare e sottrarre ad ogni limitazione la spontaneità dell’agire economico51.

Infine, un’ultima considerazione in tema di riordino del linguaggio.Spesso nelle formulazioni dei giuristi ed in quelle dei giudici, principio

47 Il contratto in generale, cit., p. 424.48 E’ l’espressione usata da S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Rivista critica del diritto privato, 5, 1987, p. 709 ss., spec. p. 721 s.49 Vedi al riguardo S. Bartole, I princìpi generali fra due convegni (1940-1991), in AA. VV., I princìpi nell’esperienza giuridica, cit., p. 3 ss., spec. p. 17: “... La collocazione in Costituzione di così tante disposizioni di principio offriva il supporto della gerarchia formale a quella gerarchia materiale, cui facevano appello, già in epoca prerepubblicana , coloro i quali erano orientati a riconoscere ai princìpi una qualche primazia interpretativa e una necessaria rilevanza direttiva”.50 Questo termine è usato da Cicerone. Indica ciò che è degno di aestimatio, cioè di una valutazione positiva e di una scelta: rimanda alla axía del pensiero stoico (De finibus bonorum et malorum 3, 6, 20). 51 Vedi G. Alpa, I princìpi, cit. (2006), p. 445 s.: “... Contro la linea che ritiene prevalente l’interesse sociale sull’interesse dei privati, sta riemergendo in molti ordinamenti (specie in common law) con forza la interpretazione propria dell’ideologia neo-liberista, informata quindi alla più ampia autonomia delle parti e alla insofferenza per qualsiasi intervento esterno sull’affare privato”.

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e clausola generale si confondono: sembra che essi stabiliscano con la prassi un rapporto logicamente affine. Se le clausole generali costituiscono enunciazioni di un dover essere, la cui vaghezza consente l’assegnazione di significati diversi da parte degli interpreti, qual è la differenza rispetto ai princìpi?

Alpa sottolinea gli elementi di parentela. Denomina clausole generali i riferimenti presenti nel Codice alla correttezza e alla buona fede (artt. 1175, 1337, 1366, 1375) cui aggiunge - in via esemplificativa - il rinvio nell’articolo 1343 all’ordine pubblico e al buon costume; ed inoltre l’inserimento dell’equità tra le fonti di integrazione del contratto. Si tratta di segmenti di discorso con finalità prescrittive, che utilizzano concetti indefiniti, destinati ad essere puntualizzati di volta in volta dal giudice. Ebbene, per tali segmenti prescrittivi è usata anche la parola princìpi. Leggiamo al riguardo:

“Il principio di correttezza unitamente al principio di buona fede ha legittimato la creazione di obblighi accessori al (o integrativi del) rapporto obbligatorio che ... sorgono in capo alle parti applicando l’art. 1175 c.c.”.

Ed ancora:“... Il ricorso al principio di correttezza (art. 1175) ed alla regola di buona

fede (art. 1337) ha la funzione di precisare il contenuto degli obblighi imposti alle parti; contenuto che prevede per un verso la necessità di comunicare alla controparte tutte le informazioni e gli avvisi idonei a chiarire il quadro delle circostanze che acquistano rilevanza per la conclusione del contratto (c. d. obblighi di avviso e di informazione) e per l’altro la sussistenza di una giusta causa nel recesso dalle trattative. La specificazione del contenuto dell’art. 1337 c.c. si risolve in questa ipotesi nell’isolare ‘criteri di giudizio solidali con quelli indotti da ciascuna delle altre norme nelle quali si esprime la clausola generale di buona fede’52. L’inosservanza di questi obblighi, se ha effetti pregiudizievoli ad una delle parti, è fonte di responsabilità per la parte che vi ha dato luogo e comporta il risarcimento dei danni cagionati ...”53.

Le ragioni della fungibilità semantica, qui attestata, sono chiare. Si ritiene di poter denominare princìpi le disposizioni che adoperano

nozioni indefinite, rinviando la loro traduzione concreta al giudice.Credo che si dovrebbe riservare la denominazione princìpi ad enunciati

prescrittivi a carattere generale ed autosufficienti (sia che contengano enunciati costruiti per induzione, sia che esprimano valori-guida). Invece, 52 Queste parole sono tratte da M. Bessone, Trattativa, recesso e danno, Milano 1969, p. 33.53 G. Alpa, Il contratto in generale, p. 518 ss. Si veda anche, p. 520, ove è menzionato “il principio di correttezza, previsto dalla clausola generale dell’art. 1175”. Esso “opera quale criterio di controllo delle attività private”.

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M. Brutti

il termine clausole dovrebb’essere riferito a formulazioni incluse entro disposizioni di legge, o inerenti a gruppi di disposizioni e tali da far sì che il significato di queste (quindi la qualificazione dei comportamenti in base ad esse) muti a seconda delle scelte degli interpreti. Scelte storicamente condizionate. Si pensi ancora alle nozioni già citate di buona fede e di correttezza. La loro peculiarità consiste nell’essere parte di regole riguardanti la disciplina dei contratti (buona fede) o quella dei comportamenti delle parti entro un rapporto obbligatorio (correttezza).

Ma esse si definiscono dando luogo a direttive e criteri per la regolazione dei comportamenti, solo in quanto si adeguano a princìpi-guida (libertà, solidarietà, uguaglianza materiale), che sono parte del dettato costituzionale. Vi è una dualità ed insieme una connessione necessaria tra i due piani54. Alpa ne è consapevole e direi anzi che le sue pagine consentono di mettere a fuoco la storicità di questa connessione e l'ancoraggio ai princìpi-guida della Costituzione. Questi determinano mutamenti nell’interpretazione entro i casi concreti55. Al tempo stesso, sottopongono le disposizioni codicistiche 54 Questo aspetto è limpidamente espresso in una pronunzia della Corte di Cassazione di qualche anno fa. Cass. 23 maggio 2011, n. 11295: “Buona fede o correttezza integrano un generale principio di solidarietà sociale che trova applicazione a prescindere dalla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, imponendo al soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, ma sono anche fonte legale d’integrazione del contratto, quale obiettiva regola di condotta che vale a determinare il comportamento dovuto in relazione alle concrete circostanze di attuazione del rapporto”. Un’altra precedente sentenza della Cassazione, spesso citata (Cass. 20 aprile 1994, n. 3775) fa discendere dal principio-guida della solidarietà sociale fissato nell’art.2 Cost. la formulazione (che mi sembra non solo dedotta dalla Costituzione, ma ricavata in via induttiva dalla giurisprudenza ove interviene il concetto di buona fede) del “principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio”. 55 E’ un punto di particolare rilievo. L’impiego delle clausole generali da parte dell’interprete, alla luce dei princìpi, e quindi l’applicazione di questi, non possono pensarsi se non specificamente ancorati ai casi. La “fattispecie” concreta è sempre il referente necessario di una valutazione che l’interprete compie sulla base di un paradigma normativo. Questo può essere ricavato da una o più disposizioni relative ad una fattispecie astratta, o può essere dedotto da un principio-guida. Un ampio campo di apprezzamento dell’interprete si determina anche nel primo caso. In base a quali tratti viene individuata la fattispecie concreta? E poiché il più delle volte la fattispecie astratta non è perfettamente fissata in una sola disposizione, con quale procedimento e quali scelte essa viene tratta da più disposizioni? D’altro canto, il principio-guida, nel momento in cui è adoperato dall’interprete, “non può prescindere da una fattispecie, cioè da un caso concreto, di cui concorre a definire il regime” (così puntualmente osserva E. Del Prato, I princìpi nell’esperienza civilistica: una panoramica, in AA. VV., I princìpi nell’esperienza giuridica, cit., p. 265 ss., spec. p. 278). Ciò conferma che in ogni caso l’automatismo dell’interpretazione è un obiettivo illusorio. L’operazione interpretativa implica una

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La storicizzazione del diritto contrattuale

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e legislative ad una forte tensione. Valorizzano le clausole generali, espandendone la portata ed indirizzandone l’elasticità: in particolare (è qui la tensione, la conflittualità) verso un modello alternativo al dominio senza limiti del mercato.

ragionevole discrezionalità. Non può dirsi se il risultato dell’interpretazione sia vero o sia falso; se ne può soltanto fornire una giustificazione sorretta da argomentazioni rigorose ed attendibili. Sulle quali si formeranno i precedenti accolti da nuove decisioni e gli orientamenti giurisprudenziali.

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Sergio M. Carbone

Opportunità e limiti dell’autonomia privata.Tra diritto comparato e D.I.P

Sommario: 1. L’occasione del dialogo – 2. Quale diritto per le relazioni economiche internazionali? – 3. ‘Hard law’ v. ‘Soft law’ – 4. Il problema dell’exequatur dei lodi arbitrali – 5. Il ruolo della volontà delle parti – 6. Il limite dell’ordine pubblico – 7. Il mercato dei servizi giuridici e giurisdizionali.

1. L’occasione del dialogo

In occasione di un recente saggio (“Autonomie des parties et droit de la loi applicable au contrat ‘national’” ) Guido Alpa ha messo bene in evidenza le tecniche di diritto internazionale privato relative all’esercizio dell’autonomia privata che possono essere proficuamente utilizzate al fine di conseguire obiettivi di diritto materiale coerenti con le caratteristiche delle operazioni economiche che si intendono finalizzare. Ed in tale prospettiva si evidenzia il ruolo ed i vantaggi che derivano da una consapevole conoscenza dell’aiuto che al riguardo il diritto comparato è in grado di fornire tenendo anche conto della possibilità del morcellement della disciplina applicabile alle varie parti nelle quali può essere scomposto il rapporto contrattuale oltreché alle varie fasi relative alla sua formazione ed alla sua esecuzione.

In tale prospettiva, il contributo in esame di Guido Alpa consiglia pertanto di affidarsi al diritto inglese con riguardo alla disciplina della fase negoziale che precede la conclusione del contratto, qualora le parti ritengano di volersi garantire un’ampia possibilità di recesso dalla trattativa nonostante essa sia condotta nell’ambito di ordinamenti di civil law ed in particolare in Italia tra persone a qualsiasi titolo (cittadinanza, residenza o domicilio) collegate con l’ordinamento italiano. Come è noto, infatti, questi ultimi ordinamenti si caratterizzano per normative, invece, estremamente rigorose nel pretendere comportamenti leali nella fase precontrattuale con relative responsabilità per la parte recedente che non riesca a giustificare, secondo criteri di ragionevolezza e buona fede, tale scelta.

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S. M. Carbone

Ed analoghe considerazioni valgono anche a proposito della legge regolatrice dei c.d. gentlemen’s agreements, fondati sull’onore e sulla cortesia. È ben vero che tali accordi, proprio per le ragioni da ultimo esposte, risultano inidonei a creare [vere e proprie specifiche] obbligazioni giuridiche in senso proprio e specifico. Ma è altrettanto vero che per rimuovere qualsiasi incertezza o dubbio interpretativo è soprattutto opportuno rinviare quale disciplina applicabile a tale tipologia di rapporti agli ordinamenti di common law inglese o degli Stati Uniti d’America. Per converso, la scelta dell’ordinamento italiano o di civil law, risulta consigliabile allorché si intenda rafforzare gli effetti giuridici e la natura vincolante delle obbligazioni proprie di un contratto preliminare contenute in tali gentlemen’s agreements.

Ed altrettanto vale per quanto concerne la possibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica di un’obbligazione contrattuale a fronte dell’inadempimento dell’altro contraente anche se l’effettiva applicazione della legge italiana, voluta come applicabile a questo specifico riguardo, può essere grandemente condizionata dalla lex fori e, pertanto, dall’ordinamento di appartenenza del giudice che le parti hanno scelto per risolvere la loro controversia o, in difetto di tale scelta, che sia stato adito in funzione di un valido collegamento giurisdizionale dalla parte contraente che è interessata alla sua attuazione. Parimenti, a proposito del danno risarcibile a seguito di inadempimento contrattuale, in funzione della scelta della legge regolatrice, potrà essere variamente interpretata ed applicata la disciplina relativa agli effetti di una eventuale clausola penale prevista nel contratto oppure, a proposito della determinazione quantitativa dei danni, qualora si intenda prevedere, al riguardo, solo il risarcimento dei danni prevedibili oppure estenderne ulteriormente la portata sino a comprendere anche i “danni punitivi”

2. Quale diritto per le relazioni economiche internazionali?

Si tratta solo di alcuni esempi in virtù dei quali Guido Alpa sembra condividere quell’approccio al diritto internazionale privato dei contratti che ha indicato come inadeguato valutarne la portata e gli effetti secondo l’ordinamento giuridico di un solo Stato. Si può rilevare, infatti, che la sempre crescente internazionalizzazione delle operazioni economiche ne indica confini che raramente coincidono con quelli della disciplina dell’ordinamento giuridico di un solo Stato. Ed in tali e più ampi confini manca, nella maggior parte dei casi, una unitaria disciplina adeguata,

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Opportunità e limiti dell’autonomia privata

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estesa all’intera dimensione soggettiva ed oggettiva che caratterizza la corrispondente operazione economica.

Infatti, da un lato la divisione in varie comunità nazionali, con esclusiva riconducibilità ad esse dei vari soggetti partecipi delle relazioni economiche internazionali e, dall’altro, le limitazioni strutturali di un diritto internazionale adeguato a disciplinare, almeno da un punto di vista formale, solamente le relazioni fra enti sovrani esponenziali di comunità nazionali rendono ineludibile ricondurre la disciplina dei rapporti ora indicati alle normative poste a livello dei singoli ordinamenti statali.

Peraltro, la accennata inadeguatezza strutturale e operativa sia dell’ordinamento internazionale sia degli ordinamenti statali riporta in tal modo la disciplina delle operazioni relative al commercio internazionale, in un ambito di per sé inidoneo a tener conto delle caratterizzazioni di un fenomeno i cui vari aspetti o fasi di per sé sfuggono dall’inquadramento in un solo e specifico ordinamento statale. Peraltro, sono proprio i vari ordinamenti statali che, consapevoli di tali loro limiti, tendono a superarli autoqualificando come ad applicazione “universale”, quanto meno in via potenziale, la disciplina sostanziale adottata nel loro ambito.

Ed è proprio in tale contesto che l’autonomia privata, intesa nella sua portata internazionalprivatistica, interviene al fine di adottare, tenendo conto della effettiva concretezza dei problemi relativi ad ogni specifica operazione economica, le possibili soluzioni normative al riguardo praticabili in funzione degli obiettivi voluti dalle parti contraenti e degli effetti che essi intendono produrre nei vari ordinamenti a vario titolo interessati alla sua attuazione.

3. ‘Hard law’ v. ‘Soft law’

In tale prospettiva non rilevano più soltanto le varie tecniche relative alla scelta della legge applicabile al contratto, alla sua delocalizzazione e al suo depeçage, la cui importanza ed effetti sostanziali sono stati posti in rilievo nel contributo ricordato all’inizio, ma anche diversi altri fenomeni ai quali pure da tempo Guido Alpa ha dedicato la sua attenzione. Tra questi, in particolare, rilevano, la codificazione di normative specifiche per essere applicate con una portata universale e di principi del commercio internazionale.

Si tratta di normative adottate a proposito dei più ricorrenti rapporti

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S. M. Carbone

contrattuali del commercio internazionale in occasione della cui elaborazione si evita di adottare specifici modelli concettuali o formanti normativi propri di uno specifico ordinamento statale favorendo, invece soluzioni pragmaticamente elaborate sulla scorta di pratiche grandemente condivise dai vari sistemi normativi ed emergenti dagli esiti della giurisprudenza relativa alla soluzione di controversie relative a rapporti contrattuali internazionali. Anzi, anche se a volte si adottano principi e si impiegano espressioni storicamente maturate in particolari ambiti culturali, ci si preoccupa di dissociarsi da tali contenuti elaborando al riguardo specifiche definizioni non coincidenti con quelle all’origine dei termini adottati.

Ci si preoccupa quindi, di indicare contenuti definitori specifici delle espressioni impiegate in funzione della particolare prospettiva in cui devono essere utilizzate tenendo conto anche di quanto elaborato dalle specifiche normative di hard law previste in Convenzioni internazionali e delle “spontanee” indicazioni “rilevate” dalla dottrina nella vita giuridica internazionale in particolare attraverso l’impiego delle tecniche del diritto comparato oltreché dei “general legal values and principles” comuni ai vari ordinamenti.

Tali principi ed i loro contenuti normativi sono, pertanto, impiegati come valido supporto alla redazione dei contratti internazionali al fine di utilizzarne i contenuti adattandoli agli specifici scopi perseguiti dalle parti. Ne risulta, pertanto, l’impego di una terminologia tendenzialmente “neutrale” rispetto a quella propria di un determinato ordinamento ma al tempo stesso più chiaramente percepibile nella sua portata e nei suoi effetti in ambito internazionale ove è destinata ad operare e a gravitare.

Nell’ambito di tali principi particolarmente significativa è la codificazione elaborata, adottata e periodicamente aggiornata da parte dell’Unidroit che, nelle sue dichiarate intenzioni e pur nella consapevolezza che non si tratta di un “binding instrument”, è rivolta a costituire una organica disciplina in materia contrattuale messa a disposizione delle parti di contratti internazionali. E cioè, una normativa messa, più in generale, a disposizione delle business communities per realizzarne gli scopi e per risolvere le controversie relative ai loro rapporti commerciali.

Tanto che, nell’evidenziare i difetti e gli effetti negativi conseguenti all’affidamento ad un solo ed esclusivo ordinamento statale conseguente alla scelta relativa della disciplina applicabile ad un determinato rapporto in virtù delle tradizionali tecniche internazionali privatistiche, si precisano anche le varie modalità attraverso le quali l’autonomia privata può essere impiegata al fine di rendere tali principi direttamente applicabili con la massima effettività possibile. Tra queste, naturalmente, viene privilegiata

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Opportunità e limiti dell’autonomia privata

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la espressa scelta di riferirsi direttamente ed esclusivamente a tali principi con la precisazione che se essa è accompagnata da un accordo arbitrale ne verrà garantita sicura effettività anche all’interno dei vari ordinamenti statali in virtù della presenza di numerosi strumenti normativi internazionali che garantiscono l’esecutività dei lodi arbitrali a prescindere dall’applicazione di uno specifico ordinamento statale.

4. Il problema dell’exequatur dei lodi arbitrali

In realtà, anche negli ordinamenti statali favorevoli ad ammettere la scelta della disciplina applicabile a contratti internazionali soltanto in favore di “una legge di uno Stato”, non esistono difficoltà a riconoscere gli effetti e garantire l’esecuzione di lodi arbitrali anche se fondati sull’applicazione di regole di diritto di tipo non statale. Tanto che, anche in tali ordinamenti non si ha esitazione ad ammettere, anche a proposito di dei “lodi interni”, la possibilità che gli arbitri applichino diritto non statale.

Ed in tal senso è significativo che l’ordinamento italiano, a proposito dei lodi pronunciati in Italia anche in presenza di rari casi nei quali risulta ammissibile impugnarli invocando al riguardo la violazione del diritto, non si esprime nel senso che tale violazione debba riguardare una legge statale potendo comprendere anche “le regole di diritto relative al merito della controversia” riconoscendo, pertanto, che tali regole possono essere anche di origine non statale. Tali regole ed i relativi principi al riguardo elaborati, quindi, possono essere utilizzati, a maggior ragione, per risolvere la controversia decisa all’estero del cui lodo si intende riconoscere gli effetti in Italia. Questa circostanza, pertanto, non potrà essere, di per sé, invocata quale motivo ostativo del riconoscimento degli effetti di lodi esteri per ragioni di ordine pubblico senza pregiudizio della possibilità di invocarlo qualora in tal modo si sia pervenuto ad un risultato (ad esempio, nella determinazione della misura del danno o nel calcolo degli interessi) contrario ai principi di ordine pubblico (internazionale).

In tale contesto, non stupisce che non solo un sempre maggior numero di giurisdizioni ordinarie nazionali (di cui ha riferito M.J. Bonell nella sua recente lezione inaugurale ai corsi dell’Académie de droit international dell’Aja) si siano espresse favorevolmente all’impiego diretto ed esclusivo dei Principi Unidroit anche da parte dei giudici nazionali. Ed altrettanto coerente con tale approccio risultano gli esiti cui si è pervenuti in occasione

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S. M. Carbone

dell’approvazione dei c.d. “Hague Principles on choice of law in international commercial contracts” nei quali, all’art. 3, non si è avuta esitazione nel riconoscere che le parti, nella scelta della disciplina applicabile al loro contratto possono riferirsi non solo ad una specifica legge statale ( come pur sembrerebbe indicare la formulazione della loro intitolazione) ma anche a “rules of law that are generally accepted on an international, supernational or regional level as a neutral and balanced set of rules”. E tra queste regole il Commentario ufficiale include espressamente i Principi Unidroit quale sistema di regole di diritto idonee ad essere scelte quale “governing law”.

Non sembra quindi eccessiva l’affermazione che si stia passando da un sistema in cui la scelta delle parti relativa alla disciplina applicabile ai loro rapporti contrattuali del commercio internazionale è riservata solamente a favore di ordinamenti statali e pertanto di leggi statali (come tutt’ora risulta dalla formulazione adottata nel Reg. CE 593/2008 c.d. Roma I) ad un sistema nel quale la scelta può essere operata anche a favore della più ampia nozione di “regole di diritto” comprensiva di normative non necessariamente riconducibili ad un solo e specifico ordinamento statale.

5. Il ruolo della volontà delle parti

Da quanto indicato consegue che possa risultare pregiudicata la effettività dell’applicazione di alcuni valori espressi da norme di ordine pubblico presenti negli ordinamenti statali a vario titolo coinvolti e/o interessati alla formazione e all’esecuzione dei contratti internazionali. Si tende a valorizzare, pertanto, il ruolo e la funzione sostanziale attribuita alla volontà delle parti cui viene soprattutto riconosciuto l’effetto di operare, anche in ambito internazionale, quale “legge tra le parti” (art. 1372 cod. civ.); ed in tal senso si valuta il rinvio al diritto straniero come una delle sue manifestazioni al fine ora indicato.

Non sembra, quindi, che la volontà delle parti possa essere considerata alla stregua degli altri criteri di collegamento utilizzati dal diritto internazionale privato al fine di localizzare il contratto in un solo ordinamento statale determinando così la legge regolatrice delle relative obbligazioni. In altri termini, il rinvio delle parti al diritto straniero opera alla stregua di un qualunque altro elemento del rapporto contrattuale e/o come uno degli altri criteri di collegamento rilevanti per la sua disciplina in difetto di una specifica scelta operata dai contraenti. Si rileva al riguardo, da un lato, la maggiore

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Opportunità e limiti dell’autonomia privata

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ampiezza del ruolo e degli effetti riconducibili all’autonomia privata in senso internazionalprivatistico rispetto agli altri criteri di collegamento, dall’altro, la stretta attinenza allo specifico obiettivo sostanziale voluto dalle parti in ordine alla scelta della disciplina applicabile al fenomeno contrattuale evidenziando con sempre maggiore chiarezza che si tratta di un mezzo attraverso il cui impiego le parti hanno voluto disciplinare in un certo modo l’operazione che ne è alla base.

Si realizza, pertanto, un ritorno alla valutazione della scelta della disciplina applicabile al contratto dando prevalenza agli interessi perseguiti dalle parti attraverso il rapporto contrattuale con conseguente rivalutazione di quelle impostazioni che hanno assunto il ruolo della volontà nella scelta del diritto applicabile nella sua “oggettività” al solo fine di realizzare un collegamento fra i vari sistemi applicabili al rapporto contrattuale bensì in funzione degli obiettivi sostanziali perseguiti dalle parti. È, infatti, la valutazione del contenuto del regolamento sostanziale dell’ordinamento o degli ordinamenti richiamati che rileva in occasione del rinvio al riguardo operato dalle parti per la disciplina del rapporto contrattuale e non già la valutazione della loro più o meno forte intensità di collegamento con il rapporto contrattuale.

La volontà delle parti nella specifica prospettiva internazionalprivatistica e nella funzione sostanziale di autoregolamentazione dei rapporti contrattuali, pur restando tra loro tecnicamente distinte e con ruoli nettamente differenziati, tende, pertanto, a convergere con riguardo allo scopo che intende perseguire. E cioè, essa garantisce la più compiuta e completa realizzazione dell’equilibrio tra le posizioni dei contraenti e degli obiettivi economici alla base del fondamento e della conclusione del contratto, nel rispetto dei limiti imposti dai principi di ordine pubblico e dalle norme di applicazione necessarie da cui non si può prescindere al fine di ottenere l’effettività internazionale del contratto e dei suoi effetti secondo la comune intenzione delle parti.

6. Il limite dell’ordine pubblico

Sotto questo profilo, quindi, l’unitarietà, la coerenza e la completezza del contratto internazionale non rappresentano più un risultato attendibile esclusivamente inquadrando la relativa disciplina nell’ambito di un solo ordinamento statale. In altri termini, la coerenza e la completezza della

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S. M. Carbone

disciplina dei contratti internazionali dovrà essere affidata, anzitutto, alle varie manifestazioni dell’autonomia privata nella configurazione economica sottesa e descritta nel rapporto contrattuale il cui ruolo ed i cui limiti, quindi, non deve esaurirsi nella sua localizzazione di tale rapporto in un solo e specifico ordinamento statale.

In tale prospettiva si conferma che i contratti internazionali sono dotati di propria e specifica rilevanza giuridica la cui comprensione dipende dalla portata ed incidenza di diverse formanti normative dalle più diverse origini, i cui effetti sono in grande misura dipendenti dalle manifestazioni di volontà delle parti.

Esse quindi, devono essere prese in considerazione non solo ai fini di valutare la regolarità della loro formazione, ma anche a proposito dell’interpretazione dei relativi contenuti e soprattutto della valutazione della coerenza della loro esecuzione con i principi di ordine pubblico degli ordinamenti a vario titolo coinvolti nell'attuazione del programma contrattuale. A quest’ultimo riguardo, in particolare, si dovrà pertanto tener conto anche di quelle normative appartenenti ad ordinamenti statali dai cui contenuti non si può prescindere al fine di realizzare nella massima misura possibile (ma non oltre) l’effettività della disciplina contrattuale voluta dalle parti e da esse specificamente elaborata.

Tanto che spesso le parti se ne preoccupano al punto da richiedere ed allegare nella disciplina contrattuale specifici ed indipendenti pareri che confermino tale compatibilità prevedendo anche specifiche disposizioni in virtù delle quali essa assume rilievo di elemento essenziale anche allo specifico fine della valutazione della validità e degli effetti del contratto. Ed in tal modo la indicata compatibilità condiziona e modella l’esercizio dell’autonomia privata, intesa nelle varie modalità in virtù delle quali si manifesta, allorché con riferimento ad alcuni contratti internazionali a proposito dei quali specifici e inderogabili contenuti e/o limiti all’autonomia privata sono previsti in una normativa di origine internazionale spesso comprensiva, al riguardo, dell’impiego di adeguati modelli contrattuali.

In tal modo, nella situazione indicata, è lo stesso diritto internazionale convenzionale a garantire unitarietà, coerenza e completezza della disciplina dei relativi rapporti contrattuali a volte addirittura imposti ai soggetti interessati alle operazioni economiche previste dalla normativa internazionale. Pertanto, in presenza di lacune e/o difficoltà interpretative è ad essa che ci si dovrà direttamente rivolgere più che all’ordinamento statale eventualmente indicato come applicabile dalla disciplina contrattuale. Quest’ultimo, pertanto, dovrà essere applicato solo in via residuale allorché le tecniche

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Opportunità e limiti dell’autonomia privata

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interpretative delle norme di origine internazionale non consentano di pervenire a risultati convincenti o presentano spazi di specifica integrazione affidati agli ordinamenti nazionali.

7. Il mercato dei servizi giuridici e giurisdizionali

L’esercizio dell’autonomia privata nel significato e nella portata innanzi indicati, abitualmente accompagnato dalla presenza di clausole di scelta del foro esclusivo a favore di arbitri, ha sostanzialmente modificato gli effetti ad essa tradizionalmente assegnati nella soluzione di conflitti di legge. La sua concreta applicazione, infatti, è stata rivolta in una direzione che ha portato a ridurre il significato del primato assoluto ed esclusivo della legge statale a favore di una sempre più marcata tendenza a legittimare comunque le scelte di diritto materiale indicate nella disciplina contrattuale in quanto favorevoli ad incrementare la libera circolazione delle persone e dei beni in presenza di un vero e proprio “mercato” fortemente caratterizzato dalla concorrenza nella disciplina della configurazione giuridica dei beni e dei prodotti (compresi quelli finanziari) e dalla erogazione di servizi giurisdizionali ad essi relativi.

Tanto che, secondo alcuni autori (da ultimo H. Muir Watt, Party Autonomy, in Enc. Priv. Int. Law, Cheltenham, Northampton, 2017, vol. 2, spec. p. 1339 ss.) la combinazione degli elementi ora indicati è destinata a ridimensionare la rilevanza degli interessi delle parti più deboli e quelli sociali delle comunità coinvolte privilegiando solamente gli interessi dei contraenti (o del contraente più forte) relativi alla specifica operazione come risulta configurata nella disciplina convenzionale senza alcuna considerazione dei “public or third-party interests”. Si viene, pertanto, di fatto, a favorire soluzioni che ne consolidano gli effetti anche da parte dei giudici allorché sono scelti, in tale prospettiva, dalle parti “as if they were arbitrators”.

A tali potenziali effetti negativi dell’esercizio dell’autonomia privata peraltro si contrappone l’efficienza e la produttività di un sistema che in tal modo consenta di ottenere prevedibilità, riduzione dei costi transattivi oltre alla uniforme allocazione dei rischi e degli effetti collegati ad una specifica operazione economica o alla emissione e circolazione di uno specifico “prodotto finanziario” i cui effetti sono destinati a gravitare in più ordinamenti statali.

Di questi profili positivi e negativi dell’esercizio dell’autonomia privata, anche nella prospettiva del diritto internazionale privato, è sempre stato ben

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S. M. Carbone

consapevole Guido Alpa dai suoi primi scritti sui diritti dei consumatori sino agli ultimi dedicati alla disciplina dei prodotti finanziari. Ed in tal senso non possono non essere apprezzate le indicazioni da lui formulate rivolte ad impedire che l’autonomia privata possa essere trasformata dalla sua originaria funzione di strumento di libertà e di efficienza offerto ai privati in presenza di una Comunità di Stati dotati di normative tra loro intercambiabili e riconducibili a comuni valori a tecnica grazie alla quale sia possibile eludere la normativa a rilevanza pubblicistica degli ordinamenti statali a vario titolo interessati alle operazioni che si svolgono o producono effetti nel loro ambito.

Ci si preoccupa, quindi, di evitare che l’autonomia privata possa essere impiegata alla stregua di un’ “arma disponibile” all’interno di un sistema normativo condizionato dalle limitazioni strutturali del diritto internazionale che consente fenomeni ed operazioni in ambito internazionale possibili in una economia “deregolata” o caratterizzata dalla sola “regolazione” dettata dal mercato o da chi ne è l’interprete e codificatore, con effetti spesso negativi per un corretto equilibrio della disciplina dei rapporti contrattuali.

L’auspicio, quindi, è che Guido Alpa nei suoi prossimi scritti possa fornirci utili indicazioni al riguardo fornendo anche adeguata risposta ai quesiti irrisolti formulati nel quinto V paragrafo (op. cit., pp. 46-47) dell’articolo da cui trae lo spunto il presente dialogo in suo onore.

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Sabino Cassese

Diritto privato/diritto pubblico: tradizione, mito o realtà?

Sommario: 1. Una nuova geografia nello spazio giuridico? – 2. Le “logiche” della nuova geografia – 3. Da dove ha origine la distinzione e dove stanno le ragioni della commistione o indistinzione? – 4. Quali effetti produce l’indistinzione (con un caveat finale)?

Se si volesse dipingere in modo realistico e con termini per così dire tellurici il fenomeno in esame è come se si assistesse ad uno smottamento dell’area del diritto

privato sul diritto pubblico, che provoca un arretramento del diritto pubblico rispetto al diritto privato, e, al tempo stesso, ad una contro-reazione del diritto pubblico, che con diverse forme invade e si appropria di alcune delle aree tradizionalmente

assegnate al diritto privato.[…] Occorre dunque un ripensamento delle categorie, che può passare anche

attraverso un nuovo modo di accostarle e di coordinarle: in altri termini, non porle in contrapposizione l’una all’altra, com’è sempre accaduto, ma in “collaborazione”.

G. Alpa, Dal diritto pubblico al diritto privato, Modena, Mucchi Editore, 2017, pp. 41, 71.

1. Una nuova geografia nello spazio giuridico?

“Fuga nel diritto privato”, “fuga dal diritto privato” (e le formule reciproche), espressioni di origine germanica, indicano il mutare della collocazione di istituti giuridici e implicano l’esistenza di due campi, quello del diritto privato e quello del diritto pubblico, nonché di confini tra i due, confini che vengono superati da questo o quell’istituto.

I fenomeni in corso non sono riducibili a questo schema semplificato di prestiti o “import-export” tra i due campi, e non possono essere ridotti al passaggio tra confini. Comportano intrecci più complessi. Contengono scambi e misture più difficili da districare.

Cerco di costruire, ma semplificando, una breve tassonomia di quella che

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S. Cassese

chiamerò nuova geografia, per riprendere, espandendola, la nozione di confine.La formula più semplice è quella dell’utilizzo di istituti privatistici da

parte di organismi pubblici. Lo Stato o enti pubblici usano sempre più di frequente contratti e imprese per svolgere le loro attività. Ad esempio, il “welfare” diventa attività lucrativa o commerciale, “for profit”. Oppure nel “kit” dei riformatori pubblici vengono introdotti modelli e metodi privatistici (cosiddetto “New Public Management”). Ancora: il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici viene contrattualizzato.

La formula corrispettiva è quella della disciplina normativa di attività private secondo moduli pubblicistici, come avviene per assicurare il rispetto della “privacy”, per tutelare i consumatori, per garantire i risparmiatori nei confronti degli intermediari finanziari. Complessi normativi che risalgono rispettivamente al 2003, al 2005 e al 2014, al 1998 predispongono modelli di comportamento per privati nei confronti di altri privati. In tal modo, non è più possibile affermare che al privato tutto è permesso, salvo quello che è vietato, mentre ai soggetti pubblici tutto è vietato, salvo quello che è espressamente previsto, secondo la vecchia formula sintetizzata nel 1928 da Guido Zanobini.

I due fenomeni indicati rientrano ancora nel modulo tradizionale della reciproca invasione, ovvero dell’utilizzazione da parte dell’uno degli strumenti dell’altro campo, e viceversa, quindi superando i confini. Più complessa una terza formula, quella del vero e proprio trasferimento di campo. Un esempio recente è quello della direttiva europea del 2014 e dalla norma applicativa italiana del 2016 che hanno configurato le concessioni di lavori e servizi come contratti di concessione a titolo oneroso. Così, uno degli atti più unilaterali, simbolo del diritto pubblico autoritativo, scompare per essere sostituito da un modulo privatistico, allo scopo di evitare che si configuri come aiuto di Stato e, quindi, violi la concorrenza. Qui una figura tradizionalmente dominante del diritto pubblico viene tolta dal suo campo proprio e riconfigurata in termini privatistici. In altri termini, la legge “declassa” un istituto pubblico fondamentale per riportarlo nell’alveo privatistico.

In quarto luogo, nel va-e-vieni dei due campi, o – per essere più precisi – nei mutamenti della geografia, vi sono anche ulteriori formule, di istituti privatistici attecchiti nel campo statale o comunque pubblico, ma successivamente sottratti al dominio esclusivo del diritto privato, per essere riportati sotto la disciplina pubblicistica. Ad esempio, la normativa del 2016 ha sottoposto le società private le cui azioni sono in mano pubblica a norme pubblicistiche (quella, ad esempio, relative al limite dei compensi), così limitandone l’autonomia privata. La stessa legge che aveva previsto che

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Diritto privato/diritto pubblico: tradizione, mito o realtà?

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i poteri pubblici si valessero di istituti privatistici riporta questi ultimi sotto l’impero del diritto pubblico

Più radicale è una quinta formula, quella della adozione di moduli pubblicistici nell’area privata. Un esempio è costituito dalle “by-laws” dell’”Internet Corporation for Assigned Names and Numbers - ICANN”, una “not for profit corporation” incorporata in California, nelle quali si trova un completo “set” di norme sul procedimento, volontariamente adottata. E lo stesso può dirsi per la World Antidoping Agency - WADA. Questo uso del diritto pubblico in istituzioni private, prescelte fuori del campo statale per sottolineare che su di esse non si esercita una influenza diretta del potere pubblico, deriva forse dalle funzioni quasi pubblicistiche, di regolazione e di soluzione di controversie, da esse svolte. Qualunque ne sia il motivo, in questo caso, istituzioni private, non statali, adottano istituti propri del campo pubblico, senza bisogno che ad esse venga imposto dall’esterno.

Infine, la relatività della distinzione pubblico/privato è dimostrata dalla possibilità che un organismo a taluni fini e in particolari ordinamenti può esser qualificato privato, ad altri fini e in altri ordinamenti può essere qualificato pubblico. È questo il caso della società con partecipazione pubblica Kazatomprom, privata secondo il diritto interno kazako, pubblica in base alla Convenzione di Aarhus.

A conclusione di questa rapida ricognizione delle formule secondo le quali si riorganizza la geografia dello spazio giuridico, e senza la pretesa di averne fatto una tassonomia esaustiva, ricorderò che la varietà di configurazioni della distinzione pubblico/privato ha costretto ordini giuridici sovranazionali a ricorrere a formule unitarie fondate su criteri sostanziali, valorizzando criteri o indici rivelatori, come nel caso dell’istituto europeo dell’organismo di diritto pubblico. Per superare la barriera tra diritto privato e diritto pubblico e per evitare la pluralità di definizioni nazionali dei confini, viene coniata una nuova nozione.

2. Le “logiche” della nuova geografia

Nella nuova geografia non vi è un solo criterio, ma più “logiche”. Non ci sono muri divisori. Proprietà, contratto, responsabilità giocano un ruolo altrettanto importante nel diritto privato e nel diritto pubblico. Fine pubblico o collettivo e procedimento hanno un posto altrettanto importante nel diritto pubblico e in quello privato. Si possono, tuttavia, evincere alcune

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tendenze comuni.In primo luogo, il diritto privato invade lo spazio tradizionalmente

occupato dal diritto pubblico ed erode la sua specificità, mentre il diritto pubblico invade lo spazio opposto e fa perdere al diritto privato parte della sua identità.

In secondo luogo, avvengono ibridazioni: i due campi si de-differenziano, si sviluppano organismi misti, diventano internamente pluralistici: basta pensare agli organismi anfibi, privati per un fine pubblico, o pubblici con finalità lucrative.

In terzo luogo, la distinzione, dove non scompare, perde di importanza, o diventa evanescente. Si conferma allora l’esistenza di una zona grigia o terza, come quella individuata in molti ordinamenti negli ani ’30 del secolo scorso (enti di interesse pubblico, servizi di interesse pubblico, enti pubblici a carattere industriale e commerciale, enti pubblici economici, diritto sociale accanto a quelli pubblico e privato) e riaffiorata negli anni ’80, con il tentativo di Giannini di riportare in auge la figura dell’ente di interesse pubblico, applicandola alla Croce Rossa Italiana.

3. Da dove ha origine la distinzione e dove stanno le ragioni della commistione o indistinzione?

La distinzione è antica e la storia è stata tracciata più volte, anche se essa stessa si è riconfigurata più volte, in certi periodi persino sfumando (ad esempio, nell’evo medio). Nella sua vita moderna ha ripreso forza sotto l’impulso di due fattori, uno ideologico, uno pratico. Il primo è costituito dal liberalismo, che ha sempre sottolineato la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, per garantire quest’ultima dalle invasioni del potere pubblico. Il secondo è rappresentato dall’esigenza di garantire una specifica protezione giudiziaria alla sfera privata nei confronti dello Stato, che ha portato all’istituzione (ora anche nei Paesi diritto comune) di appositi giudici detti amministrativi. Di qui l’esigenza di cercare un diverso fondamento a due apparati giudicanti, operanti uno nell’area privata, un altro nell’area pubblica.

Questa specifica configurazione dei rapporti diritto privato/diritto pubblico è andata declinando quando si è attenuata la pressione dei due fattori. In primo luogo, vi sono stati una perdita di forza dello Stato e il successo inarrestabile dei diritti individuali e collettivi a prestazioni nei confronti dei poteri pubblici, che comportano non un rifiuto dell’azione pubblica, ma il suo contrario, la

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Diritto privato/diritto pubblico: tradizione, mito o realtà?

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pretesa della prestazione pubblica. Poi, quando i due giudici, quello dell’area pubblica e quello dell’area privata, pur rimanendo distinti, hanno cominciato a fornire una tutela convergente, la separazione giustizia amministrativa – giustizia civile (e penale) non ha più avuto bisogno di un proprio fondamento concettuale ed è divenuta una semplice divisione del lavoro tra organismi giudicanti di eguale peso e natura.

I maggiori fattori che hanno svolto una funzione unificante. o nella direzione della de-differenziazione, sono tre.

Il primo è la crescita del peso degli interessi collettivi, difficilmente collocabili nell’area del diritto privato o in quella del diritto pubblico.

Il secondo è l’azione svolta negli ordinamenti nazionali dai giudici costituzionali, specialmente quando chiamati ad assicurare il rispetto del principio di eguaglianza.

Il terzo è l’influenza livellatrice degli ordinamenti sovranazionali, costretti a ridurre il peso dello Stato (e, quindi, dell’area pubblica), sia per affermare sé stessi e la propria sovranità, sia per parificare gli ordinamenti statali in essi inclusi, sia, infine, per evitare dislivellamenti derivanti dall’azione statale (come quelli costituiti dagli aiuti di Stato vietati nell’Unione europea).

Sotto l’azione di questi fattori, i rapporti tra le due parti, nella geografia giuridica, sono cambiati e si è dovuto constatare che il diritto amministrativo, una volta considerato una branca del diritto pubblico, è composto sia di diritto pubblico, sia di diritto privato.

4. Quali effetti produce l’indistinzione (con un caveat finale)?

Quali effetti produce la ridefinizione dei rapporti, che giunge fino all’indistinzione?

Bisogna distinguere effetti prodotti sull’ordinamento da effetti che agiscono sulla cultura giuridica.

Sotto il primo profilo, la perdita di quota della distinzione contribuisce ad aumentare la frammentazione del potere pubblico, la fuga dall’unità statale, la penetrazione di interessi privato-collettivi negli apparati statali, una volta difesa dagli alti muri della separazione. Essa però ha anche per effetto di richiedere una cooperazione, di stabilire legamenti tra area pubblica e area privata.

Sotto il secondo profilo, interconnessioni, sovrapposizioni, perdita di identità creano maggiore ricchezza e ambiguità, richiedono canoni e

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paradigmi nuovi, anche di carattere empirico. Si pensi soltanto al ricorso da parte dei giudici allo strumento degli indici rivelatori. Questo indica che c’è una linea che si costruisce volta per volta, in relazione agli indici usati e applicati. Quindi, non vi è una linea tracciata una volta per tutte, vi sono molteplici confini, che vanno segnati con l’ausilio di indici o indicatori.

Un’avvertenza finale. La scienza giuridica ha ripetutamente fatto l’errore di considerare il diritto separatamente dalla comunità che se ne serve, ipostatizzandolo, facendone una entità a sé stante, legandolo ad archetipi che fanno solo parte della tradizione, invece di guardare la realtà.

Invece, il diritto, come la lingua (alla quale è stato tante volte posto a raffronto), esiste in quanto usato/applicato, non solo dalla pratica, ma anche dagli studiosi. Ne deriva che non esiste il diritto, ma la coppia diritto – persone che se ne servono (cittadini, giudici, legislatori). Quindi, il protagonista delle vicende giuridiche è il senso che al diritto viene dato dalle comunità che se ne servono.

Tutto questo vale anche per la distinzione privato/pubblico1.

1 Su tutta questa materia la bibliografia è sterminata. Mi limito a citare J. Allison, A Continental Distinction in the Common Law: A Historical and Comparative Perspective, Oxford Univ. Pres, 1996 e 2000; G. Napolitano, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2003; P. van Ommeslaghe, Le droit public existe-t-il?, in Revue de la Faculté de droit, Université libre de Bruxelles, Vol. 33, 2006, I, pp. 15 ff.; P. M. Huber, Die Demontage des öffentlichen Rechts, in Wirtschaft – Verwaltung – Recht, in Festschrift für Rolf Stober, Köln, Heymanns, 2008, pp. 547 ff. Per una accurata analisi storica della distinzione, svolta in termini di storia del pensiero, si vedano gli scritti ad essa dedicati da B. Sordi, Verso la grande dicotomia: il percorso italiano, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2016, XLV, p. 193 ss e Id., Public Law before “Public Law”, in corso di pubblicazione, e Id., Oltre la dicotomia tra pubblico e privato: le origini del diritto sociale, dattiloscritto non pubblicato (debbo alla cortesia dell’autore – che ringrazio - questi due ultimi scritti). L’autore di questi tre saggi spiega che la grande dicotomia è ignorata prima della fine del XVI secolo e che solo dopo si forma la linea di demarcazione, che successivamente diventa porosa e dà luogo alla crescita di zone di confine. Di recente, in occasione della traduzione del saggio notissimo di Gierke, E. McGaughey ha compiuto una rivisitazione della storia della fortuna di Gierke, con particolare attenzione per la tesi di Hugo Sinzheimer sulla “indivisa unità del diritto”: si veda O. Gierke, The Social Role of Private Law, in German Law Journal, 2018, vol. 19, n. 4, p. 1017 ss.

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Danno ingiusto e ‘governo’ della societàfra distinzioni e unità valoriale del sistema

Sommario: 1. Distinzioni e unità valoriale del sistema (in dialogo con Guido Alpa) – 2. L’unità del sistema nelle semplificazioni codicistiche – 3. «Aritmetica della sensibilità»: Melchiorre Gioia e la ‘riduzione a calcolo’ del danno – 4. Soddisfacimento e meriti: «il prezzo della persona» – 5. «Magazzini di quiete»: pena, risarcimento, assicurazione – 6. La responsabilità oggettiva di Giacomo Venezian – 7. Responsabilità civile e crisi di unità del sistema.

1. Distinzioni e unità valoriale del sistema (in dialogo con Guido Alpa)

«Nei manuali istituzionali, così come nel bagaglio linguistico e nozionistico della gran parte dei giuristi [ i ] concetti appaiono ora chiari, ora più sfuocati ma tutti tra loro distinti: la chiarezza porta cartesianamente con sé la distinzione. Ma distinguere

significa dividere; dividere, “governare”; anche se in [alcuni] casi dividere significa oscurare. Quando poi ci si arresta al livello formale del diritto, senza indagare più a fondo le sue fonti storiche o le sue premesse ideologiche, si rischia di descrivere un

quadro armonicamente perfetto, ma senza vita»1.

Pur riferendosi alle distinzioni tra status, condizione giuridica e capacità giuridica, credo che il testo possa essere generalizzato per individuare un tratto essenziale del metodo di studi di Guido Alpa; un metodo costantemente proteso a temperare l’inevitabile tensione del giurista-interprete all’ordine, al sistema, ‘al governo’, con un approccio antiformalistico che rifiuta vuote geometrie, pericolose assolutizzazioni di concetti ‘senza storia’ e ‘senza vita’. Gli studi di Alpa in tema di status e capacità giuridica indicano la figura di un giurista proteso ad andare oltre le forme per comprendere appieno la posizione del singolo nella storica mutevolezza dell’aggregato sociale: il giurista non può ignorare le differenze e sottrarsi alle distinzioni ma non può

1 G. Alpa, Giuristi e interpretazioni. Il ruolo del diritto nella società postmoderna, Genova, Marietti, 2017, p. 230.

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fingere che nulla vi sia dietro la forma2; non può rinunciare a connettere il sistema con principi e valori, con la ricerca di un giusto equilibrio tra libertà private e restrizioni pubbliche, tra libertà e autorità, tra «la frammentazione del singolo» e «la rete strutturale» della sua posizione nella società3.

Stando a tale scelta di metodo, l’appello alla storia è indispensabile. Il dialogo tra passato e presente non è sfoggio di erudizione, vuoto prologo in cielo, ma parte integrante del discorso del civilista: aiuta a comprendere, mette a nudo le premesse ideologiche del sistema, fissa un ordine oltre le miopie del formalismo, oltre la netta dicotomia fra diritto pubblico e privato, oltre la rigida distinzione tra common law e civil law4. La storia è ricerca di strati profondi del giuridico, strumento di verifica della tenuta dei nessi tra le parti e il tutto, tra distinzioni e assetto valoriale di un sistema che, in continuo dialogo con la giurisprudenza, non propone un’astratta unità ma una ‘stabilità’ intrisa di storicità e aperta al mutamento5. L’analisi procede pertanto movendo ‘dall’alto’ e ‘dal basso’, accompagnata da un’interpretazione che propone costantemente, in una sorta di «metagiurisprudenza prescrittiva»6, la figura di un giurista che «non può né astrarsi, né distrarsi dal dibattito sui valori»7.

La responsabilità civile offre un campo di studi che esige un’interpretazione delle norme e una costruzione del sistema consapevole della complessità del ‘problema’. La ricerca di fondamenti unitari sottesi ai regimi speciali di

2 Ivi, pp. 232-233, p. 240. Cfr. G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Roma-Bari, 1992.3 Gli status sono «rappresentazioni poliedriche delle situazioni in cui versa la persona» e, nello stesso tempo, assieme ai principi generali, sono un «collante» delle frammentazioni del giuridico, incrocio tra generale e particolare, fra pubblico e privato. G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 391-392; p. 409.4 Alpa, Giuristi e interpretazioni, p. 294 e ss. (in dialogo con Paolo Grossi); Id., Stefano Rodotà, innovatore del metodo giuridico, in Politica del diritto, XLVIII, 3 (2017) 497-502. Tale scelta di metodo è stata costantemente ribadita da Alpa e caratterizza la sua intera produzione scientifica: si cfr., a mo’ d’esempio: Status e capacità, cit.; La cultura delle regole, cit., in particolare p. 372 e ss.; Trattato di diritto civile, I. Storia, fonti, interpretazione, Milano, Giuffrè, 2000; Identità europea e valori giuridici. Le intersezioni tra storia, scienza e politica, in Diritto pubblico, 2005, 2, pp. 341-363; Dal diritto pubblico al diritto privato. Il superamento della dicotomia nel diritto moderno, Modena, Mucchi, 2017.5 G. Alpa, Giudici e legislatori, in Contratto e impresa, 2017, 1, pp. 1-10.6 P. Chiassoni, La filosofia del diritto di Guido Alpa, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XLVIII, 1 (giugno 2018), pp. 287-296.7 Un giurista che deve saper individuare i valori e ricondurli alla Costituzione, essere cauto con le finzioni, rifuggire dalle suggestioni dello Stato etico, essere «pluralista, democratico, rispettoso (e non ‘tollerante’) delle idee e dei valori altrui»: Alpa, La cultura delle regole, cit., pp. 379-382.

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Danno ingiusto e ‘governo’ della società

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responsabilità non è più caratterizzata oggi dall’esasperata riconduzione di ogni specie a un genus e dalla fissazione di insormontabili confini tra regola ed eccezione. Le soluzioni ‘giuste’ emergono da un continuo e fitto dialogo tra interventi normativi, analisi dottrinale e ‘invenzioni’ della giurisprudenza8. Il moto di espansione travolge le costruzioni onnicomprensive e immutabili, i modelli nazionali «compatti, univoci, scolpiti nella pietra»9, rende illusoria la pretesa di imporre un’astratta unità a una realtà da cui emergono di continuo «regole particolari», «un aggregato di isole in cui ciascuna figura di illecito obbedisce a regole proprie»10.

In dialogo con Guido Alpa, vorrei qui proporre minime notazioni sulle ideologie e i valori sottesi al sistema della responsabilità civile prima del pieno manifestarsi a fine Ottocento della crisi del diritto comune civilistico. L’unitario sistema ottocentesco è oramai lontanissimo e non intendo ovviamente proporre un’antistorica attualizzazione dell’astratta unità ‘di ieri’ ma solo tentare di scorgere valori, contraddizioni e punti di forza delle ricostruzioni ‘di ieri’ edificate sulla roccia di pochi articoli codice.

2. L’unità del sistema nelle semplificazioni codicistiche

Il passaggio dall’antico regime alla codificazione operò un’imponente opera di semplificazione. La responsabilità extracontrattuale fu rinchiusa

8 Il dialogo tra evoluzione normativa e attività ‘creatrice’ della giurisprudenza spinge inevitabilmente a ripensamenti delle regole e dei principi della responsabilità civile: la tensione tra modelli teorici e «valutazioni pragmatiche» è continua, traducendosi ora in fruttuose ‘alleanze’ ora in momenti di scontro, di critiche nei confronti di mutamenti di indirizzo non adeguatamente motivati: «l’orientamento della giurisprudenza è ondivago, si sposta verso la responsabilità oggettiva e poi ritorna sulla responsabilità per colpa senza linee uniformi di interpretazione e, fatto più rimarcabile e deprecabile, senza una giustificazione motivata». G. Alpa, Dove va la responsabilità civile?, in Nuove leggi civili commentate, 2010, pp. 171-184. Si veda anche Alpa, La responsabilità civile. Parte generale, (Nuova Giurisprudenza civile e commerciale), Torino, Utet giuridica, 2010, p. 1047 e ss.9 G. Alpa, La responsabilità oggettiva, in Contratto e impresa, 2005, 3, pp. 959-1006, p. 998.10 G. Alpa, La responsabilità civile tra solidarietà ed efficienza, in Rivista critica di diritto privato, 2004, pp. 195-209. Negli ultimi decenni la giurisprudenza ha sempre più affran-cato l’ingiustizia del danno dall’antigiuridicità della condotta, sempre più riferito a fatti illeciti una pluralità di criteri di imputazione, operando una profonda revisione dell’am-bito del ‘danno risarcibile’ in presenza di ‘danno ingiusto’. Cfr. A. Jannarelli, Appunti sul “danno ingiusto” fra il giudice e la legge nell’esperienza post-moderna, in Questione Giustizia, 1/2018, pp. 98-107, p. 103.

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nel codice francese in cinque articoli collegati da un unico principio ispiratore. Nei lavori preparatori del Code civil non affiorano dubbi riguardo all’assolutezza del principio ‘nessuna responsabilità senza colpa’: grande principio di ordine pubblico capace di porre un giusto bilanciamento «entre celui qui se trompe e celui qui souffre», di unire senza eccezioni la varietà dei casi fissando una «garantie civile» anche per i danni causati da «enfants», «ouvriers», «domestiques»; regola senza tempo, «puisée dans la raison, la sagesse, l’équité naturelle et dans les principes de la plus saine morale», dichiarata da un legislatore limitatosi a «ratifier ce que l’équité commende […] et ce que la jurisprudence de tous les temps e de tous les pays a consacré»11; principio di stabilità capace di offrire «une garantie à la conservation des propriétés de tout genre», «une réparation uniforme» nel nuovo ordine in cui «tout est soumis à la même loi»12.

Nel commento al codice civile generale austriaco, Franz von Zeiller pone la questione in termini meno aulici: stando alla severa teoria del diritto privato naturale, ogni lesione del diritto (anche arrecata senza colpa) dovrebbe essere risarcita; ma le esigenze degli affari e della «vita reale» («in cui deve aver luogo una perpetua successione di azioni e reazioni sociali, di stipulazioni universali, onde viene ad animarsi l’industria») non possono essere irreggimentate da regole oggettive, da cautele estreme, o addirittura impossibili, che terrebbero tutti nel «perpetuo timore» di essere responsabili «per ogni passo inavveduto». Dal cielo del diritto privato naturale occorre, dunque, scendere sulla terra e, lontano dall’inutile e pericolosa ricerca di «precisione geometrica», limitarsi a considerare gli uomini «secondo ciò che sono e non secondo un’idea sublime e astratta»13. 11 Così Joseph Bertrand de Greuille nella relazione al Tribunato: P.A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, vol. XIII, Paris, Videcoq, 1836, pp. 474-475, 477. 12 Ivi, pp. 487-488 (Discussion devant le corps législatif. Discours prononcé par le tribun Tarrible).13 F. Zeiller, Principj del Codice civile generale austriaco, Venezia, Tip. Del Commercio, 1830 (II ed. italiana), p. 77; Id. Il diritto privato naturale, Milano, Lamperti, 1818, § 176; Id. Commentario sul Codice civile universale per tutti gli Stati ereditari tedeschi della monarchia austriaca, Milano, Destefanis, 1816, vol. V, commento ai §§ 1295 e ss. Zeiller, com’è noto, oltre che primo autorevole commentatore, fu anche legislatore dell’ABGB, un codice che, pur avendo un diverso impianto della responsabilità rispetto a quello fran-cese, era comunque caratterizzato dalla responsabilità per colpa. Le stesse argomentazioni pragmatiche che spingono a condannare la responsabilità oggettiva, sono a fondamento della condanna del riferimento alla culpa levissima: l’estremo rigore di un risarcimento dovuto per una minima negligenza «non è proporzionato alla vita civile» nella quale il cittadino non può misurare «con precisione geometrica e con attenzione non mai inter-rotta» le sue azioni.

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Il criterio della colpa richiama «la vita reale» ma nello stesso tempo evoca un ordine perfetto, sorretto esclusivamente dall’incondizionata libertà di soggetti-proprietari: la centralità di proprietà e contratto pone in un angolo appartato il danno fuori dai contratti, quasi fosse soltanto un retaggio del passato nella nuova società di individui chiamati ad arricchirsi, nella società del codice in cui «tout est soumis à la même loi».

La retorica del carattere morale, universale e ‘pratico’ del principio, più che a un lucido progetto di politica del diritto, faceva riferimento al sogno di una società naturalmente armonica; più che dal mondo ‘reale’, traeva la sua forza proprio dall’idea sublime e astratta di ordine che Zeiller negava. Tessendo unitariamente la responsabilità civile con presunzioni relative e assolute, la colpa negava ‘zone d’ombra’ e imperfezioni del sistema: il danno – scrivono i commentatori del codice civile italiano del 1865 – è «negazione del corpo e della luce del diritto stesso», è «sistema opposto ed avverso al diritto»14. Individuando il quasi delitto come eccezione all’ordine, la responsabilità per colpa fissava occasionali ‘imperfezioni’ (negligenze, imprudenze, difetti di sorveglianza) del naturale funzionamento della società, isolava il danneggiato e il danneggiante da vincoli comunitari, ponendoli liberi e soli nella nuova società. Il criterio «rigoroso e flessibile» non assumeva mai una colorazione sociale, non valicava mai il recinto di relazioni individualistiche. Le tante virtù del principio condizionavano la configurazione dell’intera responsabilità: senza colpa l’iniuria era assente, i danni erano «fatali» o «apparenti». La «assoluta libertà» nell’esercizio del diritto non collideva mai con la responsabilità: in quanto espressione di un ordine fondato sulla certezza che «la migliore e più equa distribuzione della ricchezza si ottiene con lo svolgimento libero e spontaneo della proprietà»15, il principio qui iure suo utitur neminem laedit estendeva lo spazio del danno giuridicamente ‘invisibile’, mostrandolo persino «giusto» e «meritato».

Nell’uguale sottoposizione di tutti alla stessa legge le diversità emergevano come retaggio dell’assetto di antico regime. Contraddittori spiragli in direzione di una visione non individualistica erano presenti, ad esempio, nell’ABGB, nel caso di danni arrecati da un minore o incapace. Nelle ipotesi di impossibilità di risalire alla responsabilità per colpa della persona tenuto alla cura o alla sorveglianza, il § 1310 prevedeva che il giudice avesse in ipotesi ben precise la facoltà di ordinare, a termini di equità e avuto 14 Cfr. G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civili-stico (1865-1914), Milano, Giuffrè, 1991, in particolare, p. 143 e ss.15 E. Lai, Principii generali della responsabilità civile per delitti e quasi delitti. Appunti, Cagliari, tip. Timon, 1880, pp. 32 e ss. Sul punto si cfr. Cazzetta, Abuso del diritto e forma di unità del giuridico, in Rivista di diritto civile, 3/2017, p. 559 e ss.

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riguardo alle circostanze del caso, il risarcimento parziale o integrale del danno a carico del patrimonio dell’incapace: quando una colpa potesse comunque essere riferita al soggetto ordinariamente privo della ragione; quando il danneggiato avesse rinunciato alla sua difesa per risparmiare il danneggiante; e, infine, quando ciò risultasse giusto tenendo conto della concreta situazione economica dei soggetti. Al di là delle dispute suscitate dalla configurazione di una responsabilità posta in capo all’incapace (al patrimonio dell’incapace)16, l’ultima ipotesi affidava al giudice, sia pure in via residuale, la valutazione della ‘sostanza economica’ dei soggetti, facendo così affiorare, oltre le sagome astratte e uguali, oltre la neutralità del danno, la rilevanza del patrimonio.

3. «Aritmetica della sensibilità»: Melchiorre Gioia e la riduzione a calcolo del soddisfacimento.

Utilizzando categorie giuridiche non formali e puntando l’attenzione sulle «basi di stima del danno e del soddisfacimento», fu un economista, Melchiorre Gioia (1767-1829), a portare un deciso attacco all’impianto moderno della responsabilità e a proporre una rivalutazione di sue forme antiche17. Va detto subito che la contrapposizione moderni/antichi («i

16 Nell’ALR prussiano si prevedeva che, qualora non fosse possibile ottenere il risarcimento da parte delle persone che avevano in custodia gli incapaci, questi rispondessero con il proprio patrimonio (a condizione che rimanesse loro il necessario sostentamento e che il danneggiato non avesse fornito l’occasione al verificarsi del danno). Il § 1310 dell’ABGB disciplinava l’ipotesi residuale rispetto alla irrisarcibilità del danno recato dall’incapace qualora il danneggiato vi avesse dato occasione “con qualche sua colpa” (§ 1308) e rispetto all’ipotesi di responsabilità per colpa (per difetto di sorveglianza) di coloro che avevano la cura degli incapaci (§ 1309). Ritroviamo un’eco di tale disciplina anche nel progetto italo-francese di codice delle obbligazioni, che nell’art. 76 accordava al giudice la facoltà di condannare l’incapace privo di discernimento a una equa indennità nel caso in cui il risarcimento del danno non si fosse potuto ottenere dai soggetti tenuti alla sorveglianza. Si trattava di una semplice indennità, ma in nome dell’assolutezza del principio della colpa non mancarono opposizioni da parte di quanti ritenevano che, in assenza di ‘difetto di sorveglianza’, si ricadesse necessariamente nel caso fortuito. Cfr. G. Chiodi, «Innovare senza distruggere». Il progetto italo francese di codice delle obbligazioni e dei contratti, in Il progetto italo-francese delle obbligazioni (1927). Un modello di armonizzazione nell’epoca della ricodificazione, a cura di G. Alpa e G. Chiodi, Milano, Giuffrè, 2007, p. 71.17 M. Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima avanti ai tribunali civili, Milano, Pirotta, 1821. Qui cito dall’edizione Lugano, Ruggia, 1833, che ha in premessa un Elogio dell’Autore di Gian Domenico Romagnosi.

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Danno ingiusto e ‘governo’ della società

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moderni hanno torto rispetto agli antichi»; «i codici moderni sono inferiori alle leggi barbariche e agli statuti comunali») non rifiutava né il progresso, né l’individualismo: la critica ai codici era dettata dalla ricerca di un perfezionamento della civilizzazione, dalla volontà di calcolare e assecondare uno sviluppo storico lineare, geometrico18.

Tra i primi ad intuire il ruolo della statistica come strumento di anatomia del corpo sociale, Gioia descrive, misura, calcola una «copiosa messe di fatti» con l’intento affrontare le questioni di diritto «con il metodo delle scienze fisiche»19; l’analisi è tuttavia immessa in un fitto reticolo di exempla, di fatti storici utilizzati, spesso in modo confuso, per fissare indiscutibili certezze, per esortare e ammonire: «gli errori delle generazioni passate riescono utili al legislatore così come la storia de’ naufragi al marinaio»20. La stima del danno (e specularmente, come vedremo, del merito e delle ricompense) ha a fondamento la filosofia razionalistica, l’economia e la statistica (intesa come «arte» di descrivere, calcolare, classificare in ragione di costanti e variabili)21 e soprattutto – a dirlo è Romagnosi – «un’inclinazione di spirito» che portava Gioia a porsi «come ammiratore e troppo spesso come imitatore di Bentham»22. La scelta di metodo è dichiarata con solennità già all’inizio dell’Ottocento: occorre ridurre la morale «ad un calcolo di piaceri e di dolori», la politica «ad un calcolo di piaceri e di dolori pubblici», il diritto ad aritmetica; «leggi, diritti, doveri, contratti, delitti, virtù non sono che addizioni e sottrazioni, moltipliche, divisioni di piaceri e dolori, e la legislazione civile e penale non è altro che l’aritmetica della sensibilità»23.

18 Antonio Rosmini collocò polemicamente Gioia tra i ‘selvaggi della civilizzazione’, tra coloro che esaltavano un ‘movimento qualsiasi’, proponendo un uso della storia strumen-tale, distorto da calcoli utilitaristici, da astratte ragioni di proporzione e di sproporzione. Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, vol. II, in Opere, XIV, Napoli, 1845, p. 579 e ss. (nn. 2543-2544).19 Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento, cit., p. XXIV.20 Ibidem.21 Nel 1808, le ‘Tavole statistiche’ (Tavole statistiche, ossia Norme per descrivere, calcolare, classificare tutti gli oggetti dell’amministrazione privata e pubblica), «autentico manife-sto dell’ideologia utilitaristica», intendevano indirizzare i comportamenti individuali e persuadere a un’azione pubblica di ‘governo nell’economia’ indirizzata verso l’utilità collettiva. Tra il 1815 e il 1817 i sei volumi del Nuovo prospetto delle scienze economiche descrivevano la nuova società «indefinitamente indirizzata verso il progresso». Cfr. F. Sofia, Gioia, Melchiorre, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 55, 2001; Ead., Melchiorre Gioia, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Economia, Torino, Treccani, 2012 (ad v.).22 Così Giandomenico Romagnosi, Elogio dell’Autore, in Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento, cit., p. XI.23 Così, nel 1803, nella Prefazione alla Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità,

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Pubblicato nel settembre del 1821 il volume sull’ingiuria, i danni e il soddisfacimento, persegue esplicitamente l’obiettivo di «ridurre a calcolo» le «astruse questioni di diritto»24. Stampato immediatamente a ridosso della scarcerazione di Gioia, che era stato coinvolto nelle indagini sulla Carboneria milanese e detenuto dal dicembre del 1820 al luglio del 1821, il testo mira tra l’altro a richiedere giustizia per il torto subito: le pagine dedicate al calcolo del danno derivante da «illegittima detenzione» quantificano minuziosamente i beni di cui si è privati e i mali cui si è assoggettati, il prezzo di piaceri perduti, sofferenze, timori, patemi d’animo, noia, incertezze25. La traduzione in cifre del «valore della libertà» soppesa età, sesso e salute, varietà di circostanze, stagioni dell’anno e «stato civile»26. L’ingiusta «perdita dei piaceri della libertà individuale» non ha un peso uguale, non priva degli stessi beni, non assoggetta tutti agli stessi danni: l’aritmetica della sensibilità ordina gerarchicamente la «somma pecuniaria» seguendo le stratificazioni sociali della nuova società uguale e disegna di conseguenza «il valore della libertà»27.

Sostenuta con particolare vis polemica contro l’assetto dei codici moderni, l’idea del «soddisfacimento pieno», dell’esatta stima del «prezzo della quiete», caratterizza l’intera opera. Polemizzando contro la riduzione codicistica dell’idea del danno («i codici ridussero l’idea del danno alla diminuzione del benessere»28), contro l’idea oscura e confusa di un soddisfacimento

cause, nuova maniera d’organizzarlo, seguita dall’analisi della legge francese 30 ventoso anno XI, Milano, Pirotta e Maspero, 1803, pp. V-VI.24 Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento, cit., p. XXI (edizione del 1833).25 Distingue pertanto danni derivanti da privazione del piacere della facoltà locomotiva (caccia, equitazione, bagni, passeggi, aria salubre, ecc.), della facoltà sensitiva, dei comodi, dei piaceri ‘domestici’, ‘di società’ (conversazioni, accademie, teatri…) e politici. A questi si aggiungono i danni derivanti da deterioramento della salute (sottoposizione a «regime incomodo e spiacevole», «noia») e «delle facoltà industri per mancanza di esercizio»; i danni derivanti da timori (in particolare «i timori di gelosia nell’uomo maritato»); i danni derivanti da incertezza (in particolare riguardo ai motivi dell’arresto e alla durata della prigionia). Ivi, p. 263 e ss., p. 365.26 Ivi, p. 366 e ss. Un giorno di carcere di un ultrasessantenne è equivalente a due giorni di carcere di chi ha tra i 40 e i 60 anni; a tre di chi ha tra i 20 e i 40 anni. La detenzione della donna, «più disonorevole dal lato morale», equivale a due giorni di carcere dell’uomo. La detenzione del malato equivale a tre giorni di detenzione dell’uomo sano. La detenzione nei giorni invernali pesa il doppio di quella estiva, ma «considerando l’influsso delle stagioni nell’atto riproduttivo» occorre calcolare che «per un prigioniero maritato un mese estivo equivale a tre mesi invernali».27 I proprietari godono di un regime privilegiato rispetto ai ‘nudi proprietari’ del solo lavoro: «Qualunque sia la rendita, il valore della libertà del proprietario […] non obbligat[o] a lavoro giornaliero, non dovrebbe giammai essere minore del doppio degli artisti», dei soggetti ordinariamente obbligati a lavorare per vivere. Ivi, p. 370.28 Ivi, p. 78.

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ristretto al solo «oggetto materiale diminuito o distrutto»29 (indirizzato semplicemente a rendere «casa per casa, bue per bue»30), Gioia propone di risarcire i danni «visibili» ed «invisibili», di attribuire un prezzo ad ogni «alterazione» e «non uso» dell’«esistenza fisica» e dell’«esistenza morale»31. Il ‘prezzo’ considera rendite e professioni, diminuzione dell’efficienza lavorativa (regola del calzolaio), età, sesso, relazioni di parentela, rapporti di credito, dolore, inquietudini dell’animo, sentimenti di sicurezza, di pudore e onore. La polemica contro il materialismo dei codici porta Gioia a valorizzare la «nozione complessa di persona»: il soddisfacimento non può arrestarsi ad una sfera puramente ‘esterna’, deve pesare «due sostanze diverse», corpo e anima, e farlo immettendole nel vivo dei «rapporti sociali»32; anche se – come vedremo – a mancare nell’opera è proprio un’idea unitaria del ‘valore della persona’.

Il libro ha ambizioni ampie, che vanno oltre la fissazione di un sistema di stima avanti ai tribunali: l’aritmetica della sensibilità evoca un ‘governo dei numeri’ che rivendica forza normativa, ponendosi come verità, come legalità obiettiva e neutrale33. Dalla ricostruzione affiorano talora soluzioni giuridiche pioneristiche34 e modalità di calcolo del danno destinate a caratterizzare a lungo ‘la stima dinnanzi ai tribunali civili’; l’apporto di 29 Cfr. ivi, p. XXIX: «i commentatori curiali […] restringono il danno all’oggetto mate-riale diminuito o distrutto, e non veggono danno ove non possono applicare il compasso, la squadra o il trabucco». Si cfr. anche pp. 78, 95 e 148. 30 Con «una spilorceria – aggiunge – che è sorella dell’ingiustizia»: «Se vi è stato rubato un asino, le leggi de’ popoli inciviliti vi fanno indennizzare anche a prezzo d’affezione; se vi è stata rubata la quiete, le leggi tacciono, almeno nella maggior parte d’Europa, e più tribunali richiederebbero se la quiete ha un valore. All’opposto le leggi de’ popoli barbari vollero soddisfacimenti proporzionati anche alle alterazioni dell’animo» (ivi, p. XXVI).31 «Il credito, il discredito, le speranze, i timori, le affezioni sociali piacevoli e dolorose, costituiscono l’esistenza morale e presentano una sfera di sensibilità estesa, più irritabile, più durevole dell’esistenza fisica» (ivi, p. 6).32 Ivi, p. 91 e ss.; p. 94.33 Cfr. per uno sguardo critico agli usi normativi della statistica e per una complessiva ricostruzione archeologica del ‘governo dei numeri’ si cfr. Alain Supiot, La Gouvernance par les nombres. Cours au Collège de France (2012-2014), Nantes, Fayard, 2015, in particolare p. 119 e ss.34 Ad esempio, Gioia ritiene che legittimati ad ottenere il risarcimento siano non solo la moglie e i figli, ma anche le persone «cui l’ucciso con vincolo di contratto aveva obbligato i frutti della sua industria personale». Guido Alpa ha notato che si trattava di un riconoscimento ante litteram della rilevanza della lesione del credito. Si cfr. soprattutto, però, i rilievi critici mossi da Alpa riguardo alla ‘attualizzazione’ dei criteri à la Gioia giocati contro la carica garantistica e ugualitaria del danno biologico. Alpa, Trattato di diritto civile, IV, La responsabilità civile, Milano, Giuffré, 1999, cit., p. 47 e ss.; Id., La responsabilità civile. Parte generale (Nuova Giurisprudenza civile e commerciale), cit., p. 59 e ss.

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Gioia al problema della responsabilità non può essere però considerato isolando singoli frammenti35 e separandoli dalla complessiva idea del ‘soddisfacimento’ e della responsabilità, dai valori che Gioia intendeva ‘descrivere’, difendere e promuovere.

4. Soddisfacimento e meriti: «il prezzo della persona»

Il diritto reso ‘uniforme’ dai numeri rispecchia e tutela una società da fortificare nelle sue nuove gerarchie e nelle sue nuove certezze proprietarie. Il «valore della vita individuale», sia pur calcolato movendo da un solenne richiamo alla «persona»36, non offre mai un soggetto giuridico unitario: il calcolo apprezza il preminente «valore del dolore» del proprietario isolandolo dal «volgo»37, garantisce le rendite del soggetto «onorevole» separandolo dal «fannullone», dipinge i non proprietari come soggetti viziosi e pericolosi. Insomma, la misura del soddisfacimento fotografa e difende una realtà sociale disuguale, con specifiche gerarchie di valori, con un diverso peso dei diritti. L’assunzione dei «diritti del danneggiato» a metro per l'individuazione della «somma pecuniaria» posta a «compensare il valore» del danno (il rifiuto di un soddisfacimento misurato «in ragione dell’asse dell’offeso» o, al contrario, del reddito dell’offensore)38 contesta l’ingiustizia della mera restituzione («la restituzione di un valore pari soltanto al distrutto sarebbe una palese ingiustizia»39) per esigere il prezzo della complessiva «inquietudine», il giusto compenso per tutto il danno subito40.35 La tentazione di una perenne ‘attualizzante’ è spesso ricorrente. Si cfr. A. Bianchi, C. Brilli, P.G. Macrì, D. Pagliuca, S. Pezzuolo, D. Sestini, Back to Bentham. Verso una scienza della misurazione dell’utilità e del danno, in Responsabilità civile e previdenza, 2008, 4, pp. 954-968.36 Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento, cit., p. XXXII.37 «Lo sprezzo della proprietà […] avvilisce la persona del proprietario agli occhi del volgo e lo espone al ridicolo…». Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento, cit., p. 149.38 Ivi, pp. 144-145, 176, 244-246.39 Ivi, p. 206.40 Così (ivi, p. 213; cfr. pp. 210-215) affrontando la questione di «trovare una somma pecuniaria che, giusta le leggi dell’equità possa compensare l’inquietudine per temuta perdita di ricchezza materiale in un processo civile» caratterizzato da frode o abuso di una parte. Non si tratta – scrive, considerando l’ipotesi di abuso nei confronti del bisogno di una parte povera - «di accrescere gli obblighi de’ ricchi litiganti in ragione della misera della parte avversaria», né «d’imporre una pena al ricco per fare graziosità al povero, ma si tratta di costringere il ricco a compensare tutto il danno che cagionò al povero».

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«Trovare una somma che compensi il danno derivante da…» è formula che Gioia ripete in costante polemica con la mancata considerazione ‘integrale’ della persona nel codice; è, però, proprio l’individuazione della somma che evidenzia l’assenza di una nozione unitaria di persona. Nessuna differenza, ad esempio, deve stabilirsi tra il marito e la moglie per il danno derivante da adulterio perché – afferma Gioia – uguale è la violazione della fede coniugale; differenze morali e giuridiche emergono, però, dal calcolo dell’ammontare delle «ambasce del cuore», del «ridicolo», «dell’offesa all’amore», dei bisogni non soddisfatti, facendo emergere insuperabili distinzioni, gerarchie, ‘superiorità’41. Ancora: la «somma pecuniaria che compensa il danno da seduzione» è determinata considerando la violazione dell’autorità paterna, la perdita di credito dell’intera famiglia e della ‘figlia/manufatto’ (una perdita quest’ultima che procura al padre «lo stesso dispiacere che prova un artefice allorché vede degradata una sua manifattura che gli costò anni di fatica»)42. Ancora: «il soddisfacimento per stupro violento» è stimato sia rifiutando la riparazione matrimoniale («è una vera ingiuria per la donna violata: proporle di sposare il suo violatore è proporle di baciare la mano che le ruppe le ossa o la rendette deforme»), sia il calcolo del danno legato al «differente valore della persona»; tuttavia Gioia non rinuncia a distinguere donne oneste e meretrici: una distinzione – afferma – «conforme a giustizia, giacché se la legge deve guarentire a ciascuno la proprietà della sua persona, non deve confondere i valori»43.

41 Ivi, pp. 178-180. La ‘somma’ non solo tiene conto dell’eventuale «concorso illegittimo del marito» nei «vizi della moglie», ma considera anche che «dato lo stesso grado assoluto d’un delitto, il grado relativo cresce in ragione della superiorità di chi lo commette, e il marito è superiore alla donna».42 La quantificazione non mira soltanto a tener conto delle spese di mantenimento della figlia nella casa paterna, delle fortune tolte ai fratelli e alle sorelle della sedotta e del complessivo ‘risentimento’ della famiglia, ma mira anche (e soprattutto) a quantificare «circostanze» per far decrescere o crescere la somma pecuniaria, soppesando colpe dei genitori e discredito della famiglia. Ivi, pp. 244 e ss.43 Gioia respinge decisamente gli argomenti posti a sostegno della parificazione dei diritti di donne oneste e meretrici in caso di stupro violento. A Blackstone (che riteneva necessaria una uguale tutela giuridica perché non si può supporre la meretrice incapace di cambiamento) Gioia oppone il valore della persona ‘nel mercato’: «la meretrice ha rinunciato al pudore, non ha proprietà che nella stima comune possa star a fronte della proprietà della donna che gelosamente la custodisce». Ivi, 153-155. In tal senso si cfr. anche p. 55. Occorre dire, però, che spesso Gioia sostiene posizioni molto diverse con la stessa enfasi: «carpire contro il suo assenso un bacio ad una donna, foss’anche meretrice, è atto ingiurioso, come lo è entrare nell’altrui corte contro la volontà del padrone: nell’uno e nell’altro caso la persona ingiuriata si vede dal grado di individuo umano abbassata al grado di ente materiale» (ivi, p. 13).

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Le distinzioni non scaturiscono soltanto da inveterati pregiudizi e da una perdurante confusione tra diritto e morale, tra pena e risarcimento, ma derivano anche da una precisa scelta ‘di governo’ della società dell’uguaglianza; una società in cui, ‘senza confondere i valori’, la scienza può tracciare matematiche distinzioni di sentimenti, dolore, salute, sicurezza, dividendo proprietari e non proprietari, donne oneste e meretrici, calzolai e filosofi. Le distinzioni intendono descrivono e promuoverne la nuova civiltà: non a caso, in modo speculare al prezzo del soddisfacimento, Gioia misura meriti e ricompense, calcola con «termometri de’ sacrifizj, degli interessi, della vanità, dell’ambizione, della vendetta» il prezzo delle forze fisiche e delle forze morali, soppesa la rilevanza «in più» o «in meno» di ogni circostanza44.

Le distinzioni evitano livellamenti, premiando diversamente lavori industriosi e ozio, «travagli intellettuali» e lavori fisici, fissando «preminenze» di utilità sociale e gerarchie. Come ignorare del resto il fatto che, a fronte di «più milioni di fabbri di legnajuoli d’agricoltori», in ciascun secolo ci sono soltanto «due o tre d’Alambert»?45 Come astenersi dal tradurre tale realtà in un divario di «prezzo» «più che centuplo» tra le persone?

«Alcuni scrittori sono rimasti sorpresi che le leggi de’ popoli barbari abbiano posto tante differenze nel prezzo delle vite, ossia nella pena dell’omicidio. Io all’opposto resto sorpreso allorché osservo che i codici moderni non ne hanno stabilito quasi nessuna. Se è grandissima la differenza tra i valori delle giornate ossia tra i vantaggi che ciascun uomo reca alla società, con quale norma di senso comune si potrà stabilire uguaglianza nelle pene per l’omicidio? La vita di Franklin potevasi forse porre in bilancia con quella d’un bifolco? E Jenner è forse uguale a un facchino? Chi abbrucia un magazzino vuoto cagiona forse al proprietario uguale danno che chi abbrucia un magazzino pieno di biade?»46.

5. «Magazzini di quiete»: pena, risarcimento, ricompense e ‘assicurazione’

Oltre che pieno, il soddisfacimento deve essere certo: la «certezza del soddisfacimento», assieme alla certezza della pena, rappresenta nella visione di Gioia un elemento essenziale della sicurezza pubblica, della quiete garantita ai singoli dal contratto sociale. La certezza soddisfa l’interesse privato e 44 M. Gioia Del merito e delle ricompense. Trattato storico-filosofico, Milano, Pirotta, 1818, pp. 43-99.45 Ivi, p. 145, p. 193 e ss.46 Ivi, p. 145.

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l’interesse comune ed è garanzia della complessiva tenuta dell’ordine. Gioia muove da posizioni economiche liberistiche, è assertore della

centralità della proprietà e del ‘lavoro industrioso’, della preminenza degli interessi particolari e del virtuoso scontro tra i singoli; nello stesso tempo però è convinto che l’armonia della società proprietaria debba essere guidata e indirizzata. La statistica e l’economia si presentano in tal senso come scienze al servizio del governo47: la prima, descrivendo il particolare, offre una minuta anatomia del corpo sociale; la seconda, con sguardo generale, ricerca rimedi e cure per i mali, ricomponendo l’ordine. L’intervento del governo promuove l’incivilimento, sostiene l’armonia della società proprietaria, riconosce i meriti, accorda ricompense, previene i mali, ripristina gli equilibri violati, rende sicura la proprietà (una proprietà intesa con parole che evocano Portalis, «come parte costitutiva del nostro essere») avendo sempre cura di porre l’interesse privato come base del bene pubblico48.

La visione dell’interesse privato come interesse pubblico e di una società come ‘compagnia di assicurazione’ guida l’accostamento di Gioia al diritto, caratterizza la sua idea di giustizia penale e del risarcimento, del merito e delle ricompense.

La pena agisce in stretta correlazione con ‘il soddisfacimento’ per garantire sicurezza pubblica: più che a reprimere, è indirizzata a prevenire i «mali futuri», rivolge infatti il suo monito a «persone indeterminate». Il risarcimento affronta, invece, «il male attuale» di «una persona determinata», un danno che può (che deve) essere stimato in ogni sua parte per assicurare l’ordinato svolgimento delle relazioni sociali49. Certezza della pena e della ‘riparazione’ del danno agiscono di concerto. La pena da sola non basta a distruggere l’allarme sociale prodotto dal delitto, non basta a ripristinare l’ordine: la sicurezza pubblica esige che la quiete sia ristabilita attraverso una completa ‘compensazione’ del danno, un soddisfacimento pieno, capace di proiettare nel futuro tutte le potenzialità del presente, andando oltre la mera restituzione ‘casa per casa’.

Lo stretto nesso con la pena (comune è il fine di garantire sicurezza e prevenire ‘i mali’) attribuisce al risarcimento una valenza punitiva, tuttavia l’aspetto che più sta a cuore a Gioia non è punire ma contrastare l’aleatorietà del soddisfacimento: se assieme all’interesse privato il danno colpisce l’intera società, la conseguenza «logica» è che, nel caso in cui l’offensore non possa 47 Cfr. F. Sofia, Una scienza per l’amministrazione. Statistica e pubblici apparati tra età rivoluzionaria e restaurazione, Roma, Carucci, 1988.48 Cfr. G.P. Massetto, Melchiorre Gioia e il diritto penale (2007), in Id., Scritti di storia giuridica, Milano, Giuffrè, 2017, p. 1515-1590.49 Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento, cit., p. 126 e ss.

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pagare, deve intervenire «la comunità, il pubblico tesoro» agendo come «una compagnia d’assicurazione» e distribuendo il danno «sulla massa» (come accade in una caserma di soldati, come era previsto negli statuti comunali)50.

Al contratto di assicurazione Gioia fa riferimento sia per stimare il valore del bene nel mercato, sia per stabilire le modalità di intervento della società: il «prezzo della quiete» pagato dal mercante agli uffici di assicurazione offre un parametro per il calcolo del prezzo «richiesto alla giustizia» per tutte le inquietudini provocate dal danno51; per altro verso è l’intera società che è chiamata a porsi come un «magazzino di quiete», garantendo «a ciascuno l’integrità dei suoi beni, in cambio dei servigi che ciascuno le rende»52. La sicurezza proprietaria è ottenuta facendo coincidere interesse privato e interesse pubblico: il richiamo alle regole degli statuti comunali, alla distribuzione del ‘danno dato’ fra tutti gli appartenenti alla comunità, non mira a introdurre solidarietà ma a rafforzare l’individualismo e a porre la pubblica sicurezza sotto «la vigilanza dell’interesse privato»53 .

Nel discorso di Gioia le regole comunitarie subiscono una torsione individualistica. L’indifferente ‘neutralità’ del calcolo riproduce le gerarchie sociali, le tutela, le garantisce, le conserva. Il ‘governo dei numeri’ e la società-compagnia di assicurazione che «prevede e provvede» placano le paure della nuova società, garantendo sempre sicurezza e dosando in relazione al ‘valore’ di ciascuno soddisfacimento, sanzioni e ricompense (Gioia ipotizza veri e propri Tribunali delle ricompense; una giustizia premiale da affiancare alla giustizia penale e civile).

50 Ivi, pp. 130-131.51 Ivi, pp. 209-211.52 Ivi, p. 125.53 La soluzione, del resto, era stata inizialmente avanzata da Gioia, proponendo uno smantellamento delle proprietà comuni a favore di proprietà individuali. Considerando la difficoltà di ottenere ‘soddisfacimento’ della pena pecuniaria nel caso di furti nei boschi comunali, aveva proposto di frazionare i beni comuni in proprietà individuali: «divisi i boschi, i pascoli, le brughiere comunali per famiglie ed a sorte, le pene pecuniarie sono eseguibili, perché il ladro presenta una proprietà, da cui la legge può trarre compenso per i danni cagionati…». Il vantaggio della divisione è di rendere ‘tutti’ proprietari, favorendo il soddisfacimento e la prevenzione. Nel caso di insolvenza del delinquente, la ripartizione della somma fra tutti agisce come ‘assicurazione della quiete’ del singolo proprietario e come modesta sanzione per la mancata prevenzione: «la somma de’ danni divisa sopra tanti riesce insensibile per ciascheduno; ciascuno è [comunque] spinto dal tema della perdita a sorvegliare i delinquenti e denunciarli». Si cfr. Massetto, Melchiorre Gioia e il diritto penale, cit., pp. 1543-1544.

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6. La responsabilità oggettiva di Giacomo Venezian

La critica di Gioia al codice e ai «commentatori curiali» non affronta il problema del criterio di imputazione. Dalle stime del danno poste al servizio dei tribunali si possono tuttavia trarre indicazioni riguardo al complessivo sistema della responsabilità civile: la polemica contro la visione ‘ridotta’ del danno non tocca il criterio della colpa ma, sia pure indirettamente, lo assume come necessario presupposto di un discorso che affianca (e spesso fonde) pena e risarcimento. A metà dei convulsi anni ottanta è un giovane civilista, Giacomo Venezian, a proporre in contrasto polemico con il codice e le interpretazioni della civilistica dominante, una teoria del danno e del risarcimento fuori dai contratti svincolata dal criterio «bizantineggiante» della colpa54. Influenzato dalle idee di Enrico Ferri assimilate negli anni di studio a Bologna, Venezian prospetta la responsabilità civile come strumento di ‘difesa sociale’, insistendo sulla rilevanza della posizione della vittima, sulla certezza del risarcimento, sulla «responsabilità sociale svincolata da ogni responsabilità morale»55. A tratti il discorso pare riecheggiare Melchiorre Gioia; ma se comune è l’approccio ‘dal basso’ al tema della responsabilità e l’attenzione alla vittima, molto diversa è l’unità valoriale del sistema, la complessiva rappresentazione della società e la richiesta di certezza. Gioia propone rassicuranti misurazioni matematiche per consolidare l’armonia della nuova società di individui, indiscusso motore di progresso e incivilimento; Venezian, che ha invece di fronte la questione sociale e non nutre più alcuna fiducia nell’armonica fusione di interesse privato e pubblico, è ‘insofferente e insoddisfatto’ nei confronti di dogmi individualistici sempre più lontani dalla «società moderna tutta animata di movimento industriale»56.

54 G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, in Opere giuridiche, vol. I, Roma, Atheneum, 1919. Il volume fu pubblicato (a cura di Giuseppe Osti) solo nel 1919 ma sino a quel momento aveva comunque avuto una non esigua circolazione come manoscritto. Per un complessivo inquadramento si cfr. Paolo Grossi, Venezian, Giacomo, in Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, Bologna, il Mulino, 2013, II, pp. 2029-2032; Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico, cit., p. 265 e ss.55 Così Ferri (Sociologia criminale, Torino, Bocca, 1892, pp. 453-454) con riferimento alla necessità di un’estensione al diritto civile dei principi della nuova responsabilità penale, accompagnato da un richiamo esplicito all’opera di Venezian, «un lavoro che invano si desidera pubblicato da molto tempo».56 Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 9; p. 109. La «rivoluzione copernicana di Venezian» riguardo al tema della responsabilità civile – come ha rilevato Paolo Grossi (Venezian, cit., pp. 2030-2031) – nasce da una «pressante insoddisfazione rispetto alle compassate litanie dei giuristi accademici così distanti da una società in

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Affrontare la teoria del danno e del risarcimento, rimuoverla dall’angolo appartato in cui era stata relegata dai civilisti, significa per Venezian capovolgere e non perfezionare il sistema, aprirlo alla comparazione e alle teorie della Scuola positiva del diritto penale. L’abbandono della teoria dell’imputabilità per colpa e la sufficienza del «nesso causale oggettivo tra il danno e la sfera giuridica di una persona»57 sono assunti come centro nevralgico della ricostruzione: una «assoluta necessità logica» impone che a ogni torto segua una sanzione58, ad ogni danno corrisponda un risarcimento prescindendo dalla «contingente e relativa» condizione soggettiva del danneggiante. È l’«esistenza oggettiva del torto» – che fissa un nesso logico indissolubile tra natura oggettiva del danno e ‘imputazione’ «di natura impersonale» – a porre l’unitario principio attraverso cui aggregare i multiformi aspetti della responsabilità e a adeguare il codice alla «realtà oggettiva sociale», superando sofismi e reticenti silenzi sulle vittime59. La «giustizia della responsabilità oggettiva» abbatte ogni relazione tra negligenza e antigiuridicità: è il nesso causale a rendere il danno sempre ingiusto, la vittima sempre meritevole di tutela e il risarcimento sempre certo. Il danno pertanto non può essere negato o temperato con misurazioni di gradi di malvagità, con mutevoli soluzioni equitative affidate ai bisogni del sentimento: «la più raffinata malvagità non rende più grave un piccolo danno […]; e all’inverso la circostanza che il danno è stato causato da una leggiera negligenza non rende minore la lacuna che ha prodotto nel patrimonio del danneggiato»; «questa tendenza ai temperamenti non si basa su una tendenza scientifica, si conforma ai bisogni del sentimento. Il caso di uno che ammazza un altro è infatti molto pietoso, ma più pietoso è il caso di chi resta ammazzato»60.

L’intera teoria appare guidata dalla necessità di opporre «la concretezza»,

profondo cambiamento», e da una «insofferenza» nei confronti di «regole adatte a una società di quindici secoli fa». 57 Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 110.58 Ivi, pp. 16 e ss.; p. 41. In polemica con la tradizione romanistica, Venezian fa riferi-mento al common law per ricavare un «concetto generale di torto», capace di ricompren-dere «ogni opposizione al diritto» cui si collega «immediatamente» un’azione giudiziaria. Un riferimento critico alla semplificazione (al ‘semplicismo’) di Venezian è in Mario Sarfatti, La nozione del torto nella dottrina e nella legislazione inglese. Appunti, Milano, Società editrice libraria, 1903, p. 10.59 Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., pp. 42; 55. Movendo da questo punto di vista particolarmente ardita è la lettura del termine “colpa” presente nell’art. 1151 del codice civile, inteso come semplice richiamo «alla esistenza oggettiva del torto e al suo nesso causale colla responsabilità» (ivi, p. 86 e ss.) 60 Ivi, pp. 303 e 305.

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«le condizioni reali dell’attività umana», alle ingiustizie generate dalle astrazioni del principio della responsabilità per colpa: «la natura impersonale del risarcimento» offre il principio ‘concreto’ attraverso cui ordinare la nuova realtà sociale e soddisfare le emergenti «esigenze di giustizia»61. Realizzare il capovolgimento teorico è compito della dottrina; alla giurisprudenza Venezian affida la missione di attuare «lo svolgimento graduale del diritto conforme ai bisogni della società, che non si può attendere dal legiferare rapido dei Parlamenti»62. Il giovane civilista confida, però, più nel capovolgimento teorico che nella graduale trasformazione: la responsabilità oggettiva intende del resto offrire certezza entro un sistema non inquinato da discrezionalità e da mutevoli ‘temperamenti soggettivi’ accordati dal giudice.

Non mancano le contraddizioni: il riferimento ai ‘temperamenti’ riemerge, ad esempio, dall’esame del «nesso causale fra il danno e il fatto o lo stato del danneggiato», dalla valutazione delle cause e delle concause riferibili al danneggiante e al danneggiato63. Non è il caso, però, di considerare tali contraddizioni (sottolineate ripetutamente nel dibattito infinito tra fautori della responsabilità per colpa e della responsabilità oggettiva), qui mi preme più semplicemente richiamare i valori posti a sostegno del ‘sistema capovolto’ prospettato da Venezian: la «responsabilità del patrimonio» intende conciliare «le esigenze di giustizia col sentimento comune»64, tutelare «interamente ed intimamente, come non riesce a far mai la teoria dell’imputabilità»65 molteplici situazioni giuridiche. Anche per i danni derivanti da attività dello Stato, da infortuni sul lavoro, da incidenti ferroviari, è possibile far riferimento ad un unico criterio scientifico, ad una teoria capace di ‘governare’ il mutamento senza attendere gli interventi speciali del legislatore.

La tensione ad assolutizzare un unico modello di responsabilità (e a imprigionare il giudice entro le maglie di un sistema rigorosamente ‘oggettivo’) rappresenta il punto di forza e, nello stesso tempo, la parte più fragile della ricostruzione di Venezian. Egli probabilmente ne era consapevole 61 «Come nell’ordine naturale è necessaria la successione dell’effetto alla causa, così nell’ordine giuridico è necessario che la sanzione sussegua alla qualifica del fatto, al riconoscimento del diritto e del torto; la legge non può mancare di congiungere una conseguenza giuridica alla definizione del diritto che negando sé stessa, ossia cessando di essere legale. La legge non intende alla definizione astratta del diritto e del torto, ma alla loro definizione concreta; essa stabilisce dei principi che devono poter essere applicati alle condizioni reali dell’attività umana, e non a restare vana affermazione teorica». Ivi, p. 36.62 Ivi, p. 169.63 Ivi, p. 307.64 Ivi, p. 281.65 Ivi, p. 273.

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G. Cazzetta

perché non completò la stesura del testo e si rifiutò sempre di pubblicarlo; il manoscritto ebbe comunque una buona circolazione e fu ampiamente utilizzato nel sempre più acceso dibattito che tra Otto e Novecento divise fautori della responsabilità oggettiva e della responsabilità per colpa66.

L’impossibilità di bloccare entro un modello rigido e certo la responsabilità civile emerse con chiarezza tra Otto e Novecento. Vittime troppo deboli per provare la colpa del danneggiante, troppo povere per sopportare la durate del processo, forme ‘anonime’ ‘inevitabili’ ‘necessarie’ di danno esigevano di volta in volta tutele differenziate, leggi speciali, nuove distinzioni. Le teorie protese a individuare una soluzione unitaria per tutti i casi furono costrette a confrontarsi con una pluralità di regole sempre più difficili da conciliare e da contenere in una visione ‘allargata’ del diritto comune; infatti, anche se relegate in un angolo appartato, le figure speciali evidenziavano comunque la fragilità dei modelli teorici puri e generavano un profondo disagio ricostruttivo67. Un disagio che fu tuttavia fecondo: le istanze solidaristiche, le nuove interdipendenze e i nuovi valori sociali spinsero ad ampliare il raggio di azione della responsabilità civile oltre il tradizionale perimetro di criteri fatti a misura di sovranità individuali assolute e distinte.

7. Responsabilità civile e crisi di unità del sistema

Nel corso del Novecento l’espansione della responsabilità civile è stata ancora caratterizzata, per un verso, dal diffondersi di regimi speciali che hanno accentuato la frammentazione dell’istituto e, per altro verso, dall’allargamento del principio generale e dalla ricerca di unitari fondamenti valoriali. I mutamenti qualitativi e quantitativi del danno hanno rinnovato costantemente la dialettica tra ‘generale’ e ‘speciale’, modificato la nozione di danno ingiusto, condotto a una crescente ibridazione dei modelli ‘puri’ e moltiplicato le funzioni della responsabilità civile, rendendo le teorie unitarie illusorie e sempre più inadeguate a spiegare la complessità del presente68.

66 Speculare rispetto all’opera di Venezian è a fine Ottocento l’opera di Gian Pietro Chironi, tutta indirizzata a difendere il sistema di diritto comune attraverso una valorizzazione della culpa levissima.67 Alpa, Trattato di diritto civile, IV, La responsabilità civile, p. 70 e ss; G. Alpa, La respon-sabilità civile. Parte generale, cit., 2010, p. 87 e ss. 68 Si pensi, ad esempio, alla «strategia riduzionista» dell’analisi economica del diritto, tutta indirizzata a prescrive linee di politica del diritto ma incapace di confrontarsi appieno con l’idea di giustizia incorporata nella struttura della responsabilità. Cfr. J.L. Coleman, La

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Danno ingiusto e ‘governo’ della società

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Oggi l’unità è un dato da ricercare e non da imporre a viva forza sulla realtà, è un dilemma che la scienza giuridica è chiamata a risolvere costruendo ponti nel composito arcipelago della responsabilità civile. Tale ricerca – lo ha chiarito bene Guido Alpa considerando l’obiettivo di unire le voci di danno alla persona e di garantire una tutela uniforme alle vittime – rappresenta oggi un imperativo professionale e morale, una necessità legata alla tutela dei diritti civili: non si tratta di proporre teorie staccate dal laboratorio giurisprudenziale, né astratte distinzioni, ma di cogliere valori unitari e di contribuire al mutamento ponendo la persona «alla sommità della graduatoria dei valori»69.

Mostrando il giuridico come specchio dell’ordine e, nello stesso tempo, come strumento di ‘governo’ dell’ordine, il problema della responsabilità civile traduce storicamente valori, conflitti, attese di giustizia. L’unità del sistema è impossibile da affidare a un unico soggetto, da imporre ‘dall’alto’, la tensione a una ricostruzione unitaria resta tuttavia essenziale: è un’utopia tanto più necessaria quanto più consapevole della storicità della ricerca e della necessità di un dialogo continuo, quanto più distante dalla pretesa ‘di ieri’ di costringere il diritto entro un quadro armonicamente perfetto ma senza vita.

pratica dei principi. In difesa di un approccio pragmatista alla teoria del diritto, Bologna, il Mulino, 2006 [ed. orig. 2001], p. 46 e p. 78; ma si cfr. anche Id., Risks and Wrongs, Cambridge, Cambridge University Press, 1992. 69 Di fronte alla «mutazione genetica» del danno biologico – figura nata per ‘unire’ ma che pareva disperdersi in un’anarchia risarcitoria in cui ogni tribunale finiva per porsi come «una repubblica a sé» – nel 2000 Alpa scriveva: «Il dilemma teorico e pratico che si pone oggi all’interprete si può esprimere in termini elementari: occorre prendere atto, realisticamente parlando, del diritto “vivente” e dunque piegarsi alla creatività e gettare la spugna, o piuttosto insistere sui propositi originari, e invitare all’ordine, non solo per ragioni di logica, ma anche per ragioni di identità di trattamento delle vittime e dei loro congiunti?». G. Alpa, Il «danno biologico» parabola o evoluzione di un progetto di politica del diritto?, in Argomenti di diritto del lavoro, 2000, 2, pp. 169-180. Ma si cfr. anche: Id., Il danno biologico. Percorso di un’idea, Padova, Cedam, 2003.

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Giovanni Chiodi

Ogni contratto ha la sua storia(dialogando con Guido Alpa)

Sommario: 1. Il contratto dei codici civili – 2. Il contratto degli interpreti – 3. Dal monismo al pluralismo contrattuale – 4. Il doppio volto della libertà contrattuale: un bilancio.

Ogni libro di Guido Alpa rappresenta una sfida intellettuale, un’occasione di dialogo interdisciplinare, un appello plurale, lanciato ai lettori e agli studiosi con linguaggio terso e fraseggio articolato. Non fa eccezione il corposo volume sul Contratto in generale, che tocca varie corde, esplorando il contratto da molteplici angolazioni e prospettive1. Non c’è dubbio che, per uno spirito curioso e indagatore come Alpa, il discorso esclusivamente tecnico sia limitativo. E in fondo ce lo dice lui stesso, quando sostiene che “il percorso “interno” alla evoluzione del contratto appare ormai come una camicia di Nesso2”. In questo contributo vorrei tentare di discutere brevemente alcuni risultati delle letture di Guido Alpa, con l’intento di mettere in rilievo quanto la storia e la comparazione incidano sul suo personale disegno complessivo dell’odierno diritto dei contratti.

1. Il contratto dei codici civili

E cominciamo dai codici e dalla storia della codificazione, che costituisce indubbiamente l’ambito privilegiato delle incursioni del nostro autore. Il contratto è analizzato, innanzitutto, attraverso la lente potente delle grandi codificazioni otto-novecentesche, che forniscono una rappresentazione del

1 G. Alpa, Il contratto in generale, I, Fonti, teorie, metodi (Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger), Milano 2014.2 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 188.

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G. Chiodi

programma dei legislatori dall’età borghese al fascismo. Il Code civil, innanzitutto, visto come un elemento fondamentale della

cultura del civilista italiano, e di cui Alpa ama mettere in luce le radici ‘francesi’, con lo sguardo rivolto alla dottrina pre-rivoluzionaria, soprattutto Domat e Pothier, ma anche ai successivi commentatori ottocenteschi, oggetto di particolare attenzione. Codice borghese, connotato da un individualismo proprietario, ma pervaso anche da una visione autoritaria, nell’intento dei suoi autori, Portalis in testa. Un Code civil che restituisce quindi un’immagine del contratto che non è solo incontro di volontà, ma anche regolamento, convenzione approvata dall’ordinamento giuridico e aperta all’intervento di fonti eteronome come l’equità, la legge e gli usi (grazie al reimpiego di una celebre direttiva di Domat). Un codice più dirigistico nelle intenzioni dei suoi compilatori di quanto non sia risultato poi, nelle manipolazioni degli interpreti che hanno edificato la concezione classica del contratto3.

Nel codice civile italiano del 1865, in campo contrattuale, Alpa riconosce il cono d’ombra e il legame genetico con il “padre” francese, anche se la fattura tecnica gli sembra superiore in molti punti al Code civil: la definizione di contratto, ad esempio, che avrebbe potuto essere anzi ancor più avanzata4. Esso presenta tuttavia ancora il diritto dei contratti come eterno, quasi intangibile nelle sue fondazioni romanistiche e ora, dopo la nazionalizzazione del Code civil, anche francesi. Una pregiudiziale che Alpa coglie e che si proietterà sullo stesso codice civile, per lungo tempo considerato luogo costituzionale e immutabile dei valori della società borghese.

Spetta agli interpreti il compito di smuovere le acque, contribuendo alla formazione di un autonomo modello italiano. La libertà ermeneutica dei civilisti è un dato che attira l’autore: i commentatori, anche quelli etichettati come esegeti, al suo sguardo appaiono ricchi di spunti nuovi. Nel libro le digressioni in merito sono tante. Due per tutte: le pagine fondamentali sulla causa e sul principio di relatività. Alle quali sono da aggiungere quelle riservate all’interpretazione del contratto, a cui Alpa aveva già dedicato del resto ampio svolgimento in altra sede. Questo aspetto merita di essere messo in rilievo, perché è rivelatore del metodo dell’autore: l’attenzione per l’effettività e per il diritto giurisprudenziale5, e quindi per la Wirkungsgeschichte del codice - l’altra “evidenza” della storia, per usare un termine incisivo di Pio Caroni6 - da cui deriva una critica non celata 3 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., pp. 131, 142, 388.4 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 135.5 Esplicito G. Alpa, Il contratto in generale, cit., pp. 7 e 154.6 Cf. da ultimo, in termini assai persuasivi, P. Caroni, E se anche il codice fosse un messaggio?, in Quaderni fiorentini, XLVII (2018), pp. 57-109.

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alle tendenze storiografiche a trascurare questa seconda storia del codice ( “questo aspetto non è usualmente preso in considerazione dagli storici, attratti dalla circolazione delle idee e meno votati ad esaminare la loro funzione pratica7”). Il dato è importante e credo che sia ciò che nelle sue ricerche storiche Guido Alpa ha sempre voluto coltivare. Ricavo questa impressione non solo dai risultati delle sue osservazioni, ma anche da alcune preziose indicazioni metodologiche che si possono leggere in vari luoghi del più recente volume, come quella che “i giuristi sanno che dietro le medesime espressioni lessicali si nascondono trasformazioni dei loro significati8”. “Ogni codice ha la sua storia9”, dunque: e ogni contratto, potremmo aggiungere in generale. Questo criterio permette a Guido Alpa di evitare il grave rischio dell’anacronismo o della teoria della continuità, sempre in agguato negli studi di storia del diritto privato. Uno scrupolo che permette al nostro autore di confessare apertamente, in un altro suo libro fortunato, che “non si può oggi parlare di “basi romanistiche” del codice civile, ma, più correttamente, di trasposizione di regole dalla tradizione romana nella legislazione attuale, con tutte le modificazioni, lessicali, culturali e pratiche che esse hanno subito e con tutte le libertà interpretative che il testo vigente consente10”.

E veniamo proprio al nuovo codice del 1942 nel quale, come insegna esemplarmente Alpa, il contratto diventa più decisamente ‘regolamento contrattuale’, in quanto specchio e risultato di una ‘cultura’ del contratto diversa da quella del codice del 1865: non più individualistica, ma “corporativa11”.

Come scrive l’autore, in un brano particolarmente limpido, “al contratto inteso come manifestazione di volontà si affianca dapprima e poi si contrappone la concezione secondo la quale la volontà e gli effetti che sono alla base del contratto non sono però sufficienti, occorrendo arricchire il contenuto e gli effetti con quanto disposto dall’ordinamento, il quale controlla le finalità delle parti, controlla la rispondenza di quell’accordo e di

7 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 207.8 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 656 (a proposito della buona fede). Illuminante anche quanto scritto in Id., La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari 2000, cit., p. 307: “conoscere la storia di una regola è utile anche per applicarla: l’interpretazione storica non è determinante, ma concorre con le altre tecniche a definire il significato di una disposizione. Tuttavia, tutti quei bagliori di storia non possono oscurare una caratteristica comune alle regole vigenti: la loro attualità dal momento in cui entrano in vigore al momento in cui sono abrogate o cadono in desuetudine”.9 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 657.10 Id., La cultura delle regole, cit., p. 310. 11 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 127. Cf. anche Id., La cultura delle regole, cit., p. 366.

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quegli effetti a quelli voluti non dalle parti ma dalla legge, controlla la causa del contratto, il rapporto tra le prestazioni… In altri termini, il contratto diviene un regolamento contrattuale12”. In questa concezione più complessa di contratto si combinano “autonomia ed eteronomia: il contratto è il precipitato della espressione della volontà delle parti e dell’intervento autoritativo dell’ordinamento13”. Anche se il codice civile dunque non sconfessa affatto il principio della libertà contrattuale, è significativo che il lemma adoperato dal legislatore sia ora quello, ben più ricco di implicazioni, di “autonomia”. Egli si schiera così decisamente contro la neutralità del nuovo prodotto normativo. Benché apprezzi, come vedremo, il progetto italo-francese, forse il momento più alto dell’accidentato cammino di riforme del diritto delle obbligazioni e dei contratti al tramonto dell’età liberale, Alpa si impegna nella valorizzazione della novità anche politica dei libri quarto e quinto del nuovo codice civile. Non esita ad evidenziare il tessuto corporativo di cui è vestito il codice.

Contro la neutralità politica del libro quarto egli scrive infatti che “il libro IV non è il frutto di una crasi tra tradizione francese ed edificazione pandettistica, né costituisce un mero aggiornamento del Codice italiano-francese delle obbligazioni, anche se le tracce dei due modelli sono visibili14”, ma è “un manifesto politico di cui, soppressi i riferimenti alla ideologia del regime, si sono salvate le scelte felici di natura tecnica15”.

Sottolinea inoltre la svolta avvenuta con l’oggettivazione del contratto e identifica nella tutela dell’affidamento il tratto distintivo a suo giudizio più significativo del nuovo codice16. Del quale Alpa mette giustamente in rilievo anche le profonde modifiche sistematiche, molte delle quali passate implacabimente al setaccio da Betti, che non costituiscono semplici interventi decorativi, al punto da meritare di essere considerate come “le novità più vistose17”. Basterebbe ricordare che il codice, confermando una scelta già del vituperato progetto italo-francese, non regola il negozio giuridico, ma il contratto18.

Egli sottolinea infine il ruolo di raccordo con le discipline speciali, senza che questo connotato implichi, a suo avviso, una vocazione totalitaria del

12 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 127.13 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 138.14 La doppia matrice franco-tedesca del testo è messa in rilievo a p. 123. La civilistica francese, del resto, era una componente fondamentale della cultura giuridica di Filippo Vassalli. 15 G. Alpa, La cultura delle regole, cit., p. 318.16 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 48.17 G. Alpa, Il contratto in generale, cit. p. 149.18 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 5 e p. 208.

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codice: “era una vocazione che aveva alle sue origini; ma lo stesso codificatore aveva sentito l’esigenza di introdurre nel testo norme di raccordo con la legislazione speciale, presentendo che il codice non poteva continuare a reggere da solo tutto l’ordinamento privato; era dunque già dalla sua origine un’opera che costituiva il tessuto connettivo dell’ordinamento dei privati, ma nello stesso tempo riconosceva le “isole”, i sub-sistemi, che cominciavano a moltiplicarsi per effetto della multiforme legislazione speciale19”. Ciò significa, secondo questa lettura, che non solo il codice civile ristruttura la parte generale del contratto, facendo confluire in essa norme speciali, ma si apre anche all’interazione con altre fonti.

Codice più ricettivo, come si diceva, di istanze sociali o di interesse collettivo, e che perciò sposta il baricentro sull’intervento dello Stato nel controllo dell’autonomia privata. Esso segna la crisi della concezione individualistica del contratto, come avvertito bene da Osti e Messineo, e successivamente da Giorgianni nella sua importante prolusione. Crisi senza ritorno, poiché le innovazioni del codice non sono percepite come una semplice “parentesi20”.

Il nuovo codice civile era stato preceduto da un tentativo di riforma nel 1906, dal dibattito sulla legislazione di guerra e dal progetto italo-francese.

Merita più di un cenno l’attenzione che Alpa riserva ad un tema si può dire classico come il diritto bellico dell’emergenza. Un diritto speciale che frantumò l’unità del diritto comune dei contratti, creando regimi differenziati che, alla fine del conflitto, non furono tutti riassorbiti in un organico disegno all’interno del diritto civile. Il tema è classico, ma Alpa gli riserva un’attenzione particolare. Non è un caso che le sue riflessioni siano collocate nell’ultimo capitolo del libro. Gli interessa sondare il modo in cui i giuristi affrontano le crisi economiche: ed ecco allora che gli interventi comparsi sulle Riviste di diritto commerciale e civile dell’epoca acquistano un significato pregnante. I giuristi si fecero riformatori, anche se il giudizio complessivo sulla cultura dominante sembra per questo periodo propendere verso il conservatorismo. Si tendeva in fondo a relegare le novità nel campo del diritto pubblico, come se il diritto civile dei contratti dovesse continuare indisturbato a regnare secondo i vetusti paradigmi volontaristici21.

19 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 854.20 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 169.21 Tale impressione incide sull’interpretazione più prudente della prolusione di Vassalli sulla legislazione di guerra. Cf. G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 27; p. 202; p. 847: “la descrizione di questo quadro “rivoluzionario” è dipinta da Vassalli solo come se esso fosse diretta da un impulso esterno, che lascia inalterato il rapporto privatistico, destinato a rimanere intatto”. Mentre in Id., La cultura delle regole, cit., p. 289, essa è rappresentata

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Il recupero del progetto italo-francese è un altro contrassegno del pensiero di Guido Alpa e del suo metodo storicistico. Quel progetto fu “un’avventura intellettuale” e culturale di altissimo livello22. Alpa lo ha sempre sostenuto: esso “non è un curioso reperto storico, e neppure un tentativo completamente frustrato23”, anche se non centrò l’obiettivo dell’unificazione legislativa e si limitò a riformare dall’interno il modello individualistico. Alpa trasmette una visione positiva di questo esperimento, tanto promettente quanto poco rivoluzionario nella sua trama di fondo, che non smette di attirare l’attenzione. Forse perché, malgrado le sue contraddizioni, conteneva effettivamente molte novità, che realizzavano promesse mancate o rimaste solo sulla carta del solidarismo tardo-ottocentesco, che allora, in mezzo a tante conferme, dovettero apparire un pericoloso futuribile. Era anche più avanti del codice del 1942 in certi punti: pensiamo all’azione generale di lesione dell’art. 22 o alla clausola di abuso del diritto dell’art. 74. Un prezioso documento dell’archivio Vassalli, del resto, mostra che il progetto italo-francese avrebbe potuto essere anche più influente24.

Non una “riformulazione” ma “una vera e propria ricodificazione del diritto generale del contratto, delle obbligazioni e di alcuni contratti speciali25”. Ricodificazione ispirata ad una ben precisa idea di codice, che emerge molto bene dalle dichiarazioni degli stessi autori: più una razionalizzazione dei risultati consolidati in dottrina, in giurisprudenza e nel diritto comparato, che un nuovo programma, come risulta dalle chiarissime pagine di Vittorio Scialoja e Henri Capitant26. Ed anche un

come il testo in cui Vassalli esprime la “necessità di rompere la crisalide ottocentesca”.22 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 122.23 G. Alpa, La cultura delle regole, cit., p. 260.24 Rapport établi au nom de la Commission Royale italienne pour la réforme des Codes après examen des observations présentées par la Commission française sur le Projet de Code des obligations et contrats [databile 1935].25 G. Alpa, Le stagioni del contratto, Bologna 2012, p. 19.26 V. Scialoja, Sul progetto di un codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, XXVIII (1930), p. 190, anche in Id., Studi giuridici, IV, Roma 1933, p. 202; H. Capitant, Le caractère social du projet franco-italien de code international des obligations et des contrats, in Revue critique de législation et de jurisprudence, LI (1931), pp. 71-82, p. 74: “codifier c’est mettre en formules législatives le droit existant, éprouvé, et … le but d’une codification… doit être moins d’innover que de couler en des formules brèves et claires, les règles consacrées par les moeurs, la tradition romaine, les textes antérieures, et développées par la sagesse des tribunaux”. È bene ricordare che questa prospettiva fu avversata in modo pungente, oltre che da Betti e da Vassalli, da Lorenzo Mossa (infra, nt. 31) e da Enrico Finzi nel 1932 (Verso un nuovo diritto del commercio, in Id. “L’officina delle cose”. Scritti minori, a cura di P. Grossi, Milano 2013, p. 75).

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tentativo di uniformare le regole del diritto contrattuale, creando un primo modello di codice civile europeo, “una sorta di avant-projet di un codice civile europeo27”. Innovazione però non iconoclasta, ma ‘interna’ al sistema liberale. “Innovare senza distruggere”, secondo la famosa formula di Vittorio Polacco, che era anche l’emblema della civilistica ortodossa del tempo, di cui faceva parte Vittorio Scialoja28. Si tratta quindi di un codice ritenuto espressione, più che del diritto privato sociale delle correnti dottrinali più radicali, di una strategia liberale “socializzante”, che non rinnega il primato dell’autonomia privata e il primato della legge. Lo potremmo definire un prodotto normativo forgiato da “progressisti moderati29”. Alpa parla ora di “un compromesso tra le idee progressive di Vittorio Scialoja” e il tradizionalismo dei francesi30: ma questo giudizio deve essere sfumato e in parte rivisto, poiché i civilisti italiani e francesi che parteciparono all’impresa erano in realtà più omogenei di quel che non si creda.

Una nozione di codice fortemente supportata dalla civilistica francese e perciò pronta per essere criticata da chi, come Vassalli e soprattutto Betti, propugnava un abbandono più deciso dei canoni dell’individualismo e del dogma della volontà. Ma la tensione verso il solidarismo non sarà compiuta e realizzata neanche dal codice civile del 1942, che avrebbe potuto essere ancora più ardito e compiuto nel perseguimento di interessi sociali se avesse seguito altre strade, politicamente difficili da percorrere, dal momento che il nuovo codice non era sorretto da una visione democratica del diritto privato.

La lettura di queste pagine felici, che rievocano uno dei momenti di maggiore protagonismo della scienza giuridica italo-francese egemonica, suggerisce una rimeditazione degli anni Venti e Trenta. In quei decenni, ad esempio, si svolge anche la polemica di Mossa contro la concezione civilistica tradizionale di contratto31, nel 1937 la Semaine internationale de droit di Parigi è tutta dedicata alla revisione del contratto e il convegno di Vienna del 1939 costituisce un’altra occasione per mettere a punto i criteri operativi di riforma del diritto dei contratti. Lo stesso progetto italo-francese è considerato degno di attenzione dai giudici: un aspetto, questo, finora

27 G. Alpa, Le stagioni del contratto, cit., p. 18.28 Mi permetto di rinviare a G. Chiodi, Innovare senza distruggere, in G. Alpa – G. Chiodi (a cura di), Il progetto italo francese delle obbligazioni (1927). Un modello di armonizzazione nell’epoca della ricodificazione, Milano 2007, pp. 43-146. 29 Mutuando una formula di P. Caroni, Quando Saleilles dialogava con Eugen Huber (1895-1911), in Quaderni fiorentini, 40 (2011), pp. 265-302. 30 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 122.31 Ho ricostruito questa vicenda in G. Chiodi, Un pioniere della giustizia contrattuale. Lorenzo Mossa e i contratti di adesione, in Quaderni fiorentini, XLV (2016), pp. 249-293.

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trascurato e che meriterebbe ulteriori approfondimenti. Il progetto, come si rendono conto alcune corti e come sottolineato orgogliosamente a suo tempo da Mariano D’Amelio, ha cercato di tradurre in disposizioni princìpi di riforma del contratto avvertiti in un contesto sovranazionale32.

2. Il contratto degli interpreti

La teoria oggettiva-normativa del contratto era tuttavia più un programma che una realtà nel 1942. E questo Alpa lo esplicita molto bene, quando fa osservare per esempio che molti passi della Relazione al Re sembrano dichiarare una realtà che in verità era ancora ben lungi dall’essere realizzata. Invece oggi siamo ormai distanti, come già avvertito, dalla “levigata concezione classica del contratto inteso, sulla falsariga del negozio giuridico, come il trionfo della volontà individuale33”.

Questa trasformazione del diritto dei contratti, realizzata grazie anche all’opera della dottrina e della giurisprudenza, è descritta con parole che sintetizzano efficacemente i risultati più salienti di questa parabola: “controllo della causa, dichiarazione, integrazione sono altrettanti modi per sostenere la teoria oggettiva del contratto, per collocare la determinazione delle parti nel contesto sociale in cui essa deve essere raccolta e deve operare, e per indicare come la vita del contratto fin dal suo sorgere sia incisa da fattori esterni: il legislatore con i suoi precetti, il giudice con le modalità di interpretazione e di integrazione, l’autorità amministrativa con le sue prescrizioni34”.

In un altro brano, in maniera nitida, Guido Alpa osserva che questa svolta si è compiuta anche grazie alla consapevolezza della storicità dei fondamenti del diritto dei contratti: “nel nuovo millennio è in fase di elaborazione una teoria che potremmo denominare critica, per sottolineare la consapevolezza dell’interprete che storicizza le categorie, non considera i testi normativi come immodificabili, si apre alla comparazione con altri ordinamenti, colloca gli istituti nel loro contesto economico-sociale, enfatizza i valori sottostanti alle regole, affianca alla disciplina legislativa le regole prodotte da organizzazioni private. ... Ne emerge un caleidoscopio di 32 M. D’Amelio, Influenza di progetti dei codici sulla giurisprudenza, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, I, Roma 1931, pp. 315-327; Chiodi, La giustizia contrattuale, cit.,pp. XXIII, 32-39.33 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 175.34 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 175.

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letture del fenomeno contrattuale che non può, per sua stessa natura, ridursi a categoria univoca, ma deve essere dotato di relatività35”.

Merito, come si diceva, delle elaborazioni più dirompenti della civilistica italiana del dopoguerra, i cui numerosi contributi sono messi in rilievo nei primi capitoli del trattato, un vero e proprio sguardo su un cantiere aperto. La raffigurazione che Alpa ci offre in queste pagine è veramente limpida e ariosa. Un vento nuovo percorre i lavori dei civilisti, soprattutto a dire il vero dagli anni Sessanta del Novecento in poi, temperie in cui si registra la graduale costituzionalizzazione del diritto privato. La società con i suoi antagonismi, le sue contraddizioni, la sua complessità economica investe il contratto e domanda un rinnovamento delle tecniche interpretative. Il diritto civile si espande oltre il codice civile e oltre la legge statuale. Il risultato è espresso con parole che sottolineano come, al monismo della teoria classica del contratto, si sia sostituita una nuova dicotomia forgiata dagli interpreti tra protezione degli interessi individuali (valore interno) e solidarietà (valore esterno): “insomma, dietro la trama di un testo rimasto pressoché inalterato dal 1942 nello spazio di trent’anni si costruisce un ordito di tecniche interpretative che consente di salvaguardare l’autonomia contrattuale senza però occluderla ai valori esterni: essi penetrano nella dimensione giuridica mediante le clausole generali, le fonti di integrazione, i nuovi limiti dettati dal legislatore36”.

In questa parte del lavoro Alpa esamina opere di autori e ricostruisce anche ambienti, scuole, veri e propri laboratori attivi nell’aggiornamento delle categorie civilistiche. Emerge, ad esempio, in tutta la sua importanza la figura originale di Stefano Rodotà, ma anche della scuola romana. Emerge l’importanza del lavoro di Gino Gorla, con la sua apertura straordinaria verso il common law e il diritto nordamericano, che sono tratti distintivi anche della cultura di Guido Alpa. Emerge il grande trattato di Rodolfo Sacco e Giorgio De Nova, nel quale Alpa individua acutamente una svolta anche metodologica nella comprensione del contratto: egli scrive infatti, e non si può che concordare, che in quest’opera conosciutissima gli autori dominano una 35 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 215. Nelle righe precedenti scrive che “si è superata la teoria classica, che, accogliendo una concezione liberista considerava il contratto in modo astratto, ne enfatizzava l’aspetto soggettivo, la sua essenza obbligatoria, paritetica, commutativa, ne sottolineava la funzione essenzialmente traslativa, incentrando la sua essenza sulla volontà. Si è consolidata la teoria normativa del contratto, che inquadra l’accordo nella cornice della dichiarazione, soppesa l’affidamento scambievole delle parti, articola la causa in diverse funzioni, accentua l’intervento legislativo riconoscendo la vincolatività dell’accordo anche in contrasto con la volontà delle parti, privilegia il modello legislativo di disciplina, trasforma il contratto in rapporto”.36 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 179.

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pluralità di dimensioni, attraverso le quali si ricostruisce il contratto, e conclude dicendo: “non dunque il diritto come si vorrebbe che fosse, ma quello che è nella realtà vivente, con le manipolazioni dell’interprete e con le aporie dettate dalla lettura delle fonti37”. Siamo oltre il formalismo, negli orizzonti ben più vasti di una ricerca che tiene conto del sociale e dei fatti economici.

Tra le novità salienti degli ultimi anni del Novecento c’è la parabola discendente del negozio giuridico: Francesco Galgano vi dedica un bel libro che ne celebra tuttavia, per un singolare ossimoro, il tramonto. Esso è, secondo le sue parole, la “super-categoria” avulsa dalla vita economica, nella quale domina invece il nesso contratto e impresa, a suo tempo valorizzato da Lorenzo Mossa che pure a quella super-categoria non seppe rinunciare, pur dimostrando di tradurre mediante il lessico aulico della pandettistica un progetto riformistico di ben distante ispirazione sociale38. Eppure al negozio giuridico, dogma centrale della pandettistica italiana già nell’Ottocento e alla quale si deve la prima scientificizzazione del diritto civile, Alpa guarda con uno sguardo tutt’altro che critico, consapevole della rilevanza degli sforzi di generazioni intere di civilisti che hanno faticato a liberarsene – “un cordone ombelicale che lega indissolubilmente il civilista alle sue radici39” – un itinerario concluso nell’ultimo decennio del Novecento, quando “il negozio si converte in atto di autonomia privata, ed è quindi collocato in un contesto che non tollera più le astrazioni concettuali e il distacco dalla reale condizione delle parti40”. Invoca dallo storico, in uno dei suoi frequenti moniti, più attenzione per questo fenomeno. Tra questi moniti vale la pena di raccoglierne uno: quanto delle raffinate costruzioni dei civilisti italiani si è trasfuso nella pratica giurisprudenziale? Alpa avanza l’ipotesi che la teoria del negozio non abbia avuto immediata eco pratica ancora negli anni Venti, poco negli anni Trenta e che sia trionfata solo negli anni Quaranta. Di questa affermazione, però, che certo non voleva avere un valore assoluto, è lecito dubitare: la giurisprudenza in realtà segue la teoria della responsabilità e conosce la figura della presupposizione, per fare solo qualche esempio. Quindi si è servita dello strumentario del negozio.

37 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 196.38 Il riferimento è a L. Mossa, Sul codice delle obbligazioni (parte generale), in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, XXXVIII (1940), I, pp. 313-344. 39 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 204.40 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 209.

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3. Dal monismo al pluralismo contrattuale

Il libro è singolare per la poliedrica disponibilità a descrivere i diversi volti del contratto del terzo millennio. E veniamo così ad un secondo aspetto della teoria normativa del contratto, che viene del pari posto in forte risalto: accanto al percorso di “oggettivazione” del contratto se ne è affiancato un altro, avviato già alla fine dell’Ottocento, che inclina verso la considerazione della condizione sociale ed economica delle parti contraenti. Oggi non esiste più un’unica categoria di contratto modellata sul paradigma della negoziazione individuale. Non esisteva neanche alla fine dell’Ottocento se per questo: è proprio quella l’epoca in cui si prende coscienza del fatto che, accanto al contratto individuale, la prassi presenta in maniera sempre più massiccia i contratti di adesione, come si diceva usando il fortunato vocabolo inventato da Saleilles, i contratti di lavoro (che poi diventeranno anche collettivi) e i contratti d’impresa. Si ricordi sempre la realistica valutazione di Filippo Vassalli sulla marginalità economica del contratto individuale regolato dal codice civile: un’astrazione41. Negli anni Trenta del Novecento larga parte del diritto contrattuale era quindi, anche per un esponente autorevole della concezione classica del contratto, esterno alle sacre mura del codice civile, a rischio di diventare un monumento storico42.

L’espressione è plastica. Cosa significa astrazione? Come ribadisce Alpa, essa denota indifferenza allo status dei contraenti, all’oggetto del contratto, alle condizioni in cui il consenso è manifestato43. La teoria critica del contratto, invece, storicizza i concetti, li esamina nei contesti dove sono nati per poi superarli e revisionare i dogmi. L’autore, a tal proposito, rammenta che “la teoria classica del contratto non faceva distinzioni tra contratti conclusi inter pares e contratti conclusi tra parti aventi diverso status o parti aventi diverso potere contrattuale: anzi, proprio la presunta (e non sindacabile) parità delle parti aveva consentito di creare una nozione di contratto unitaria, monolitica, astratta dalle circostanze concrete in cui il contratto avrebbe dovuto operare. La teoria normativa distingue categorie di contratti a seconda delle loro modalità di conclusione, a seconda della

41 F. Vassalli, Arte e vita nel diritto civile, in Id., Studi giuridici, II, Roma 1939, p. 457: “Il contratto concepito pel singolo caso, com’è nella previsione del codice, è ormai un’astrazione o comunque un caso non frequente, quando il traffico quotidiano è retto da contratti imposti con formulari”. È un passo della notissima prolusione romana del 1930.42 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 289, prospetta un analogo rischio per il codice del 1942.43 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 211.

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durata, a seconda della onerosità o gratuità, a seconda della tipologia, e a seconda dello status dei contraenti44”.

Dalla prassi e dal contesto economico emergono nuove figure di contraenti e quindi di contratto. Alpa ne isola quattro oggi centrali: contratti del consumatore, d’impresa, del minore, europeo.

Anche qui la storia avvalora un percorso non lineare, accidentato e non facile, avviato nel primo Novecento. In questo itinerario spicca Ascarelli che negli anni ‘30 teorizzava una disciplina fondata sulla categoria al posto dell’individuo nei suoi saggi sulle trasformazioni del diritto commerciale, uno dei quali è ricordato con acume da Alpa come il “controcanto” del saggio di Vassalli sulla extra-statualità45.

Su questo terreno il distacco dalla teoria classica del contratto è notevole. Come osserva Alpa, essa non includeva nel diritto comune la disparità di potere contrattuale, non faceva distinzioni a seconda del diverso potere contrattuale delle parti, della durata del contratto, dello status dei contraenti. Il principio di uguaglianza in senso formale, per lungo tempo il contrassegno del diritto privato liberale, ora assomiglia invece ad una “crisalide vuota46”.

Ciò non significa che il problema della libertà senza uguaglianza, al di là dei conflitti di lavoro, non fosse balzata presto all’occhio dei giuristi più acuti, soprattutto i giuscommercialisti: la scoperta del consumatore risale infatti alle intuizioni di Vivante, Mossa e Ascarelli.

Il contratto del consumatore e il contratto asimmetrico sono emblemi del nuovo diritto dei contratti, di cui Alpa traccia una storia, tutta recente, assai precisa e stimolante. Il problema del controllo delle condizioni generali di contratto torna ad essere al centro dell'attenzione. Il momento di svolta viene a situarsi negli anni Settanta e porta gradualmente verso un modello integrato di controllo (legislativo, giudiziale, amministrativo).

I giuristi italiani più lungimiranti come Lorenzo Mossa ne avevano già preconizzato l’avvento, ma con una differenza di rilievo: era il diritto commerciale che doveva farsi carico delle disuguaglianze economiche di mercato e non il diritto civile. Il soffio nuovo di socialità che avrebbe rinnovato il diritto commerciale avrebbe solo in un secondo momento mutato anche le forme del diritto civile. Ad essere interessati da questo fenomeno sarebbero stati prima di tutto i contratti d’impresa47.

A proposito del loro regime attuale è molto interessante una notazione 44 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 576.45 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 849.46 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 576.47 Sul progetto alternativo mossiano, antipositivista antistatualista, sbrigativamente definito giusliberista dai detrattori, mi permetto di rinviare a Chiodi, Un pioniere, cit.

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di Alpa, che si può riferire anche ai contratti d’impresa del primo Novecento: “si rovescia la prospettiva abituale ma si inverte anche il corso della storia, che aveva a suo tempo conosciuto una disciplina dei contratti commerciali e, più in generale dei contratti di impresa (discendenti dagli atti di commercio) in cui si legittimavano privilegi a favore della parte economicamente e contrattualmente più forte48”. Ora è il diritto civile a disciplinare le disuguaglianze: l’equilibrio contrattuale diventa un punto di tensione del sistema.

4. Il doppio volto della libertà contrattuale: un bilancio

La concezione del contratto è attualmente più complessa per una serie di fattori: leggi speciali, costituzionalizzazione del diritto privato, diritto europeo, giurisprudenza, prassi. Tutti insieme questi fattori hanno modellato un diritto contrattuale flessibile. L’autonomia è riconosciuta, ma sono aumentati i controlli e i limiti. Affidati anche alle clausole generali, tanto quelle di antico conio, quanto quelle nuove sorte nel frattempo, quindi anche all’intervento del giudice. Non a caso nel libro ottengono grande risalto i princìpi generali e le clausole generali.

Dei princìpi generali, veri e propri organi respiratori del sistema, Alpa fornisce una ricognizione analitica e un rigoroso esame sulla base anzitutto delle numerosissime applicazioni giurisprudenziali, a conferma di un ulteriore tratto essenziale del suo approccio metodologico: lo sguardo costante all’effettività delle regole e al ruolo inventivo nel caso specifico dei precedenti giurisprudenziali. Come scrive Alpa, infatti, “i principi maturano nel tempo, si considerano e diventano vincolanti solo se intorno ad essi si aggregano precedenti, riconoscimenti della dottrina o addirittura impressioni di crismi formali dei legislatori49”. Scorrono così davanti al lettore impieghi del principio dell’affidamento; di equivalenza delle prestazioni; di libertà di forma; della causa; di relatività del contratto; del principio in claris non fit interpretatio, che Alpa, in linea con la dottrina italiana e in controtendenza rispetto a quella francese, giudica il più inconsistente e pericoloso, perché è “una aporia in sé: nel momento in cui si stabilisca che un contratto è di chiaro tenore non si è già effettuata una operazione ermeneutica sulla base delle norme indicate? E perché impedire

48 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 635.49 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 425.

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alle parti di controllare l’operato del giudice che si sottrae al controllo. Sulla correttezza di applicazione delle regole enunciando senza motivarlo che il contratto è chiaro50”. Ampio spazio è dedicato anche alla clausola generale di buona fede e all’equità nell’esecuzione e integrazione del contratto, oggetto, in Italia come altrove, di una rivalutazione dottrinale e giurisprudenziale crescente, a partire dagli ultimi decenni del Novecento fino ad incontrare successo nel diritto europeo, come tecniche di riequilibrio del contratto. Ma non si tratta, osserva giustamente Alpa, di un’invenzione tardiva, quanto di riscoperta delle potenzialità di strumenti che già tra Otto e Novecento erano stati impiegati per reagire alle eccessive rigidità del sistema51.

Ampio spazio è dedicato anche alle trasformazioni del principio della libertà contrattuale. L’attuale concezione “critica” del contratto, condivisa anche da Alpa, mira a conciliare, piuttosto che a contrapporre, la doppia dimensione, interna ed esterna, del contratto, l’accordo e il regolamento: “accordo “regolato” - piuttosto che governato completamente ab externo - nel quale l’autonomia non confligge ma si armonizza con l’intervento riequilibratore, che tiene conto appunto degli interessi tutelati dalla sfera pubblica, soprattutto quando le parti deboli sono i lavoratori subordinati, i consumatori, i risparmiatori, i conduttori, e così via. Un’autonomia dunque che nasce limitata52”. Si realizza in questo modo una transizione dal contratto inteso come accordo al contratto inteso come regolamento; dal contratto come affare dei privati al contratto regolato dall’esterno: in altri termini, libertà e autorità sono due facce della stessa medaglia. Questa dimensione non era ignota nell’Ottocento, ma era spesso messa in sordina, occultata, ridotta. Oggi gli usi (e gli abusi) della buona fede dilagano. Qui il problema di sempre è quello di conciliare libertà e controllo, di riuscire a mantenere in equilibrio libertà e autorità, di far sì che i controlli non soffochino e non schiaccino l’autonomia dei privati. Questa tensione è spesso rievocata anche nelle pagine del nostro autore: ad esempio quando parla di conflitto tra un modello garantista, che reclama uno spazio di autonomia dallo Stato, e un modello paternalista (forse si potrebbe dire 50 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 431.51 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., pp. 521-525, dove nota che la riscoperta della buona fede incrina la sacertà del contratto.52 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 822. Cf. anche p. 5 (contratto come strumento di libertà, ma anche di perequazione); pp. 36-37; p. 127 (il contratto diviene un regolamento contrattuale); p. 138 (“dal contratto come manifestazione o dichiarazione di volontà, c.d. voluto, si distingue il regolamento contrattuale, composto da voluto + normato”); p. 218; p. 389“ (“la manifestazione di volontà delle parti è solo il nucleo del contratto, il quale è poi arricchito da tutto ciò che l’ordinamento pretende si debba contenere in un contratto”).

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meglio: solidarista) di libertà contrattuale, che guarda allo Stato come ad un alleato da cui invoca protezione e difesa53. Certo è che anche oggi la tutela del consenso libero costituisce un obiettivo da salvaguardare, anche perché rappresenta un possibile canale di scorrimento della giustizia contrattuale, alternativo ad altre tecniche di controllo. È per questo motivo, dunque, che Alpa non ritiene “possibile abbandonare l’impianto concettuale che si è venuto costruendo e affinando nel corso del tempo: ogni termine reca con sé il suo passato, e i concetti della dogmatica contrattuale continuano a giocare il loro ruolo: sicché ancora oggi si parla di libertà contrattuale intesa nel senso di manifestazione di volontà libera, la si ricollega alla rilevanza dell’affidamento e alle aspettative delle parti, e alle tecniche di equilibrio interno del contratto54”.

La storicità del contratto, che percorre come un leitmotiv incessante questa sintesi, così attenta a scandagliare le diverse fasi storiche del diritto dei contratti, interseca continuamente passato e presente, come si è visto. Ma sbaglierebbe chi, in questo insistito ricorso alla storia per chiarire il presente, individuasse alcunché di nostalgico e di antistorico. Al contrario, Guido Alpa non usa la storia come uno strumento di legittimazione. Storicizzare il contratto significa allora prendere coscienza della sua funzione sociale e dei compiti nuovi che attendono le generazioni future di fronte alle incombenti sfide della globalizzazione. Il diritto dei contratti non è più un diritto statico, come si credeva ancora agli inizi del Novecento55. È un diritto dai confini mobili, plasmato da fonti plurali e non tutte riconducibili al legislatore statuale. È un diritto modellato da tanti protagonisti. Tra questi, il civilista rivendica un ruolo adeguato. Non a caso molte iniziative di riforma del 53 Cf. ad es. p. 412: “L’antico rapporto dialettico libertà/autorità si ripresenta sotto diverse spoglie. Alla contrapposizione tra contratto sottoposto alle regole del diritto comune e contratto sottoposto alla legislazione speciale, e alla contrapposizione tra modello garantista (nel quale l’ordinamento - cioè “lo Stato” - si pone al servizio dei privati per rendere vincolanti le loro pattuizioni e renderle coercibili, senza tuttavia interferire con le libere scelte e l’autonormazione) e modello paternalista (nel quale lo stato interferisce nelle scelte, ma soprattutto offre, per ragioni di interesse pubblico, tutela a categorie di interessi deboli, e disciplina per così dire nella dimensione pubblicistica il rapporto instauratosi tra le parti) si è proposta una sorta di crasi, che qualifica il contratto come un accordo “regolato” - piuttosto che governato completamente ab externo - nel quale l’autonomia non confligge ma si armonizza con l’intervento riequilibratore, che tiene conto appunto degli interessi tutelati dalla sfera pubblica, soprattutto quando le parti deboli sono i lavoratori subordinati, i consumatori, i risparmiatori, i conduttori, e così via.”54 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 414.55 Si consideri, ad esempio, quanto scrive A. Ascoli nell’articolo Il nuovo codice delle obbligazioni e dei contratti, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, XX (1928), pp. 62-67.

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G. Chiodi

diritto dei contratti sono cresciute dal basso, dallo spirito costruttivo della scienza: ancora una volta il progetto italo francese ci porge un esempio notevole di questo fenomeno, ma lo stesso si può dire anche di altre riforme attuali.

Guido Alpa si inserisce in questo filone di giuristi laboriosamente attivi, per i quali la storia non costituisce una remora o un orpello, ma una risorsa preziosa e necessaria per disegnare il futuro. Ecco dunque la frase finale del libro, che idealmente chiude il cerchio di queste riflessioni: “il compito del giurista odierno consiste appunto nel misurare la distanza tra il contratto come tradizionalmente concepito e il contratto come disegnato dall’esperienza del diritto vivente e dalla realtà sovranazionale. Continuare a leggere le regole del codice civile nella prospettiva originaria, magari con qualche aggiornamento, non è solo diventato impossibile, è diventato inutile56.

56 G. Alpa, Il contratto in generale, cit., p. 856.

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Renato Clarizia

Informatica e contratto: la identificazione dei contraenti

Sommario: 1. Premessa – 2. Informatica e soggetti – 3. I nuovi requisiti caratterizzanti il negozio informatico – 4. Conclusioni.

1. Premessa

I temi della tutela del consumatore, della privacy, della responsabilità civile e dell’informatica (per citarne solo alcuni!) hanno formato oggetto della scrupolosa e approfondita ricerca giuridica e sociologica di Guido Alpa, sempre attento a percepire le innovazioni che interessano la società civile e le sue ricadute anche sul piano giuridico.

Fin dagli anni ottanta dello scorso secolo Guido Alpa, richiamando la dottrina e la giurisprudenza di common law, rappresentava le novità della computer law e denunciava, con quel metodo rigoroso e informato che lo distingue, l’arretratezza della dottrina e della politica italiane che si mostravano nel contempo “diffidenti” e “chiuse”. Nel volume I contratti di utilizzazione del computer, pubblicato nel 1984 per i tipi della Giuffrè nella neonata Collana da lui diretta Diritto dell’Informatica, nel saggio introduttivo, Guido Alpa ammoniva che “la computer law attende di essere costruita, e il giurista, attento ai fatti istituzionali e a quelli economici, ben sa che ogni attimo di ritardo potrebbe rendere vano un intervento troppo dilazionato nel tempo.”

Ancora internet non si era diffuso, ancora la rivoluzione informatica era agli albori, ma Guido capiva che il fenomeno non poteva e non doveva essere sottovalutato, ma si rendeva necessario un intervento legislativo che orientasse con certezza gli operatori nella loro attività senza però mortificare con inutili prescrizioni i profili innovativi.

Sono passati vari decenni da quel primo scritto di Guido Alpa e altri Suoi interventi hanno indicato quale fosse il cammino da seguire. Ormai l’informatica è presente in tutte le manifestazioni della vita sociale, anzi talune attività – soprattutto nel settore pubblico – possono ormai espletarsi

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R. Clarizia

esclusivamente in via informatica. Ciò ha comportato in pochi anni una rivoluzione nei comportamenti e nelle abitudini sociali. Si pensi all’uso dei telefoni cellulari che ormai ci accompagnano in ogni momento della giornata e consentono di porre in essere atti aventi rilevanza giuridica e di concludere contratti. Il legislatore è intervenuto più volte a disciplinare il fenomeno nei suoi variegati profili, anche in via amministrativa. La giurisprudenza si è fatta carica – come al solito – di colmare i vuoti legislativi e ancor più di interpretare la normativa, talvolta non proprio chiara.

Ciò che è apparso evidente fin dai primi anni di utilizzo dell’informatica e mano a mano che si andava diffondendo, caratterizzando peculiarmente le relazioni interpersonali, è stato che la tecnica aveva il sopravvento sul diritto, nel senso che mal si prestava ad essere dominata e regolamentata da quest’ultimo e che qualsiasi intervento normativo avrebbe dovuto far affidamento per la propria reale efficacia sul suo spontaneo rispetto più che sulla coazione.

In queste pagine vorrei cercare di definire e valutare in concreto l’impatto dell’informatica sulla società civile e ancora più in particolare sul contratto che delle relazioni interpersonali costituisce la manifestazione giuridica di maggior rilievo. Vorrei quindi condividere con l’amico Guido la mia perplessità e preoccupazione – che espliciterò nel prosieguo – che non essendo sufficiente né la normativa generale in materia contrattuale né quella speciale già emanata in questi ultimi anni a disciplinare compiutamente la materia e a dare piena dignità giuridica al contratto informatico, si rischia una situazione di forte incertezza di disciplina con evidenti ricadute negative nelle relazioni interpersonali.

L’informatica è diventata così tanto parte irrinunciabile della nostra vita che ignoriamo consapevolmente i danni fisici (pensiamo alle onde dei telefoni cellulari) e sociali (la “dipendenza” da Internet da un lato e le relazioni personali virtuali attraverso i social dall’altro) che può provocare.

Infine, si è così radicalmente modificato con l’informatica e con internet, il modo di approcciarsi agli altri e il modo di affrontare ogni situazione, che abbiamo dimenticato “come eravamo” e come si viveva senza di loro. Eppure ci riferiamo a poco più di trenta anni fa!

Quali problemi ancora rimangono irrisolti (e forse sono irrisolubili) o per quali problemi si evidenzia la necessità di un approccio che abbandoni gli strumenti giuridici tradizionali?

La dottrina ha ormai esplorato davvero ogni profilo del fenomeno informatico, la rivoluzione sociale provocata da internet è stata approfondita da ogni angolazione, politica, sociologica, giuridica. Si è più volte evocato,

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e tutti concordano, che internet non è limitata da confini territoriali e temporali, e che si è creata una società “virtuale” parallela rispetto a quella “reale”. Fino a che punto il piano virtuale si interseca con quello reale? Fino a che punto si può consentire che la società reale si trasformi in virtuale? Fino a che punto le regole che hanno finora disciplinato la società civile reale riescono a controllare e a regolamentare anche quella reale?

2. Informatica e soggetti

In questa materia, uno dei problemi che ha maggiormente occupato la dottrina è quello della imputazione della dichiarazione negoziale, cioè della identificazione dei soggetti e della possibilità di controllarne la capacità di agire (soprattutto con riguardo alla minore età). La peculiarità del mezzo informatico e delle modalità di trasmissione delle dichiarazioni negoziali ha portato addirittura, in un interessante dibattitto tra autorevoli giuristi, Oppo e Irti, a ritenere non sempre evidente la manifestazione della volontà negoziale e quindi la possibilità di conclusione di contratti “senza accordo”! Dico subito che, a mio parere, non è così. La volontà negoziale c’è sempre, anche se si palesa diversamente e talvolta può confondersi applicando il principio dell’autoresponsabilità.

Già in un mio primo lavoro in materia (Informatica e conclusione del contratto, Giuffrè, 1985 pubblicato nella Collana diretta da Guido Alpa) ammonivo sulla possibilità che la dichiarazione negoziale potesse essere trasmessa alla controparte automaticamente e secondo istruzioni a suo tempo inserite in un programma applicativo che opererà anche in assenza del dichiarante. Tutto ciò proprio al fine di poter concludere contratti senza limiti temporali, assumendosi il rischio che una variazione non prevista della situazione possa portare al perfezionamento di un contratto che, se presente, il dichiarante non avrebbe concluso o lo avrebbe fatto a condizioni diverse. Ovviamente, in ragione del principio di autoresponsabilità, il contratto sarà valido ed efficace. Nel contratto telematico l’accordo c’è sempre, anche se si caratterizza in maniera peculiare: è un incontro tra dichiarazioni in cui il profilo soggettivo si manifesta nelle forme peculiari del mezzo informatico: resta quasi in secondo piano e solo in determinati casi può assumere rilevanza ai fini della invalidità contrattuale. E’ vero che l’ordinamento giuridico intende dare rilevanza solo a dichiarazioni rese da soggetti pienamente capaci, è vero che la tutela del contraente

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R. Clarizia

incapace è ancora più stringente quando si tratta di un consumatore, ma non può non darsi peso alla circostanza che ambedue le parti si affidano a quella modalità operativa per concludere il contratto, in cui non è sempre possibile ottenere una identificazione soggettiva certa del dichiarante. E ciò non è possibile neanche con la firma digitale, laddove il titolare della firma potrebbe consentire ad un terzo soggetto di utilizzare il certificato di firma e questi ne potrebbe “abusare”. In tale ultima ipotesi il contratto sarà valido ed efficace e il titolare del certificato potrà agire, per ottenere il risarcimento dei danni, esclusivamente nei confronti di chi lo ha “sostituito”, “abusando” o “eccedendo” rispetto alle istruzioni impartite.

Allo stesso modo se il contenuto contrattuale viene ad essere modificato nella trasmissione, senza che il mittente ne abbia consapevolezza e senza che il destinatario possa riconoscerne la difformità rispetto alla volontà effettiva del mittente, il contratto sarà valido ed efficace. Al più il mittente potrà, se ne ricorrano le condizioni, esperire azione per il risarcimento dei danni nei confronti di chi ha prodotto il programma di scrittura.

In ambedue i casi, troverà applicazione il principio di autoresponsabilità – l’utilizzo dello strumento informatico comporta anche l’assunzione dei rischi che ne possono conseguire – che supera (o ignora?) il profilo soggettivo. Viene presa in considerazione la dichiarazione proveniente da quel soggetto al quale, a seconda dei tipi di firma digitale o di tecnica identificativa (pin, carta di credito, ecc.), verrà imputata con maggiore o minore certezza la dichiarazione. Il profilo della capacità è assorbito nella identificazione soggettiva. Il certificato di firma digitale può essere rilasciato – dopo idonea identificazione fisica – solo a chi è maggiorenne. Quindi si presume che chi contratta utilizzando la firma digitale è sicuramente maggiorenne, e manifesta anche una piena capacità di intendere e di volere: l’utilizzo del mezzo informatico presuppone determinate conoscenze tecniche e l’esecuzione di specifiche procedure che solo chi è compos sui potrebbe porre in essere.

Allora ecco profilarsi, nella contrattazione informatica, due temi di grande rilievo giuridico: la sicurezza quanto alla corrispondenza del contenuto della dichiarazione all’effettiva volontà del dichiarante – sicurezza significa, dunque, adeguate tecniche che impediscano intrusioni ed intercettazioni dall’esterno – in modo che si tratti di una dichiarazione di volontà consapevole; certezza nella identificazione soggettiva, che significa, però, certezza virtuale ma non effettiva, perché la dichiarazione veicolata attraverso la firma digitale certifica solo che a quella firma corrisponde un determinato nominativo, così come si è registrato.

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Informatica e contratto: la identificazione dei contraenti

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Se si vuole piena contezza della capacità del soggetto è necessario affidarsi all’atto pubblico informatico, dove è richiesta la presenza fisica delle parti, in modo da consentire al notaio di poter valutare di persona la capacità di intendere e di volere del soggetto, oltre che la sua identificazione già avvenuta attraverso la firma digitale.

In definitiva, se si vuole avere certezza che chi utilizza la firma digitale è il soggetto al quale è stato rilasciato il certificato sarà necessario affidarsi alla tecnica, che, attraverso processi biometrici, potrà assicurare che chi sta digitando sulla tastiera o chi è davanti al computer è l’effettivo titolare del certificato (riconoscimento facciale, iride dell’occhio, ecc.). Così come la richiesta di rispondere a determinate domande o di svolgere un certo procedimento che richiede una qualche attenzione potrà in qualche modo portare alla verifica della piena capacità di intendere e di volere. Ovviamente sempre che si abbia la certezza che il dichiarante corrisponde effettivamente in quel momento al titolare del certificato di firma digitale.

3. I nuovi requisiti caratterizzanti il negozio informatico

E siamo arrivati – attraverso un percorso rapido e semplificato – al punto che mi interessa evidenziare. Fin dai primi anni di diffusione del fenomeno informatico nella materia contrattuale, ci si è chiesto se si potesse continuare ad applicare la normativa ordinaria o fosse necessario emanare una normativa specifica. La scelta del legislatore è stata quella di adeguare la regolamentazione vigente alle peculiari esigenze emerse nella pratica operativa, con interventi mirati, anche se, in verità, estremamente limitati. Ed ecco così una legislazione attenta ad indicare come debba atteggiarsi il documento informatico per valere come scrittura privata o come atto pubblico. Una legislazione accompagnata da analitiche prescrizioni di carattere tecnico. Si pensi soprattutto alla più volte richiamata firma digitale.

Emerge allora che accanto ai requisiti essenziali tradizionali del negozio giuridico, quando si tratta del contratto informatico, subentrano taluni elementi di carattere tecnico che non possono essere considerati come meramente formali. Per intenderci, la peculiarità propria della forma elettronica rispetto a quella “scritta” tradizionale non esaurisce l’unico elemento “tecnico” nuovo di rilevanza giuridica che caratterizza il contratto.

Infatti, si vengono a manifestare nella pratica operativa due “livelli” di contrattazione con una diversa rilevanza giuridica. Uno più semplice e

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R. Clarizia

maggiormente diffuso che effettivamente si caratterizza per un incontro di dichiarazioni e in cui l’imputazione soggettiva si risolve nella digitazione di un pin, una password, la carta di credito, il click sulla casella che appare a video e così via. I principi dell’affidamento e dell’autoresponsabilità bastano al “funzionamento” del contratto: le regole ordinarie dettate dal codice civile, dal codice del consumo e dalla disciplina dei contratti a distanza troveranno applicazione se e quando necessario.

Il secondo livello attiene al contratto informatico quando deve “garantire” che l’incontro delle volontà negoziali si realizzi senza il pericolo di interferenze ed intercettazioni esterne: ecco allora la firma digitale che cripta e quindi “blinda” l’intera dichiarazione negoziale. Nel contempo le parti devono poter contare sul legittimo “affidamento” che il contratto è stato “validamente” perfezionato e quindi non presenti vizi che ne possano inficiare la validità e conseguentemente l’efficacia.

Ed allora l’esposizione della disciplina giuridica del contratto informatico manifesta evidenti profili tecnici di novità che integrano sostanzialmente la struttura della dichiarazione negoziale stessa.

La forma elettronica caratterizza il contratto informatico, sicché il legislatore dei vari Stati europei (non tutti, in verità) è intervenuto per esplicitare a quali condizioni il documento informatico possa essere considerato equivalente alla scrittura privata, dal punto di vista sostanziale e probatorio, oltre che per regolamentare le firme elettroniche e quindi i vari criteri di imputazione della dichiarazione negoziale resa con strumenti informatici e telematici con differenti regimi sostanziali e probatori, pervenendo a soluzioni sostanzialmente analoghe nel rispetto dei principi posti dalle norme comunitarie in tema di firme elettroniche e di commercio elettronico.

Inoltre, la funzione elaborativa del programma (software), creatrice della volontà negoziale secondo parametri forniti in via generale dal contraente ma senza che questi possa pienamente e consapevolmente prevedere quale sarà il risultato di siffatta elaborazione che darà contenuto alla dichiarazione negoziale, costituisce l’ulteriore e altrettanto rilevante profilo di novità della disciplina del contratto informatico rispetto a quella generale del codice civile.

La tecnologia informatica entra in qualche modo nella struttura del contratto, tant’è che la sua “sicurezza” - attraverso la firma elettronica – sia nella fase di formazione che di trasmissione a distanza - ne viene a costituire un requisito essenziale. Infatti, lo stesso legislatore nella normativa speciale fa più volte riferimento a tale caratteristica, condizionandone l’equivalenza alla scrittura privata e all’atto pubblico. E’ questo un primo profilo innovativo e caratteristico del contratto informatico, che ne rappresenta

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Informatica e contratto: la identificazione dei contraenti

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l’elemento distintivo principale rispetto alla tradizionale disciplina generale del contratto disciplinato nel codice civile. Nello stesso tempo, la “sicurezza informatica” giustifica il ricorso al principio di autoresponsabilità, in misura ben maggiore rispetto a quanto generalmente avviene nella materia contrattuale. Infatti, in tal modo si supera quella diffidenza che ex se accompagna la figura del contratto informatico, in ragione dell’incorporalità propria del suo supporto.

Ma – come si è detto – l’utilizzazione della firma digitale – che associa univocamente e con certezza il titolare del certificato di firma digitale ad una persona fisica – non consente comunque di avere certezza che chi in quel momento firma digitalmente la dichiarazione sia effettivamente il titolare del certificato. Ancora una volta sarà una tecnologia più o meno sofisticata a rendere possibile una tale verifica che, sul piano giuridico, rafforzerà o svaluterà i principi dell’affidamento e dell’autoresponsabilità.

4. Conclusioni

A voler sintetizzare le conclusioni alle quali - conseguentemente al ragionamento fin qui condotto – necessariamente si perviene, può dirsi che esse si compendiano tutte nell’aggettivo “informatico”. Voglio dire che per la validità ed efficacia del contratto informatico non è sufficiente verificare esclusivamente la sussistenza dei requisiti essenziali del negozio ai sensi della normativa del codice civile, ma è anche necessario che la dichiarazione resa informaticamente sia “sicura” e si possa identificare con adeguata certezza il soggetto dichiarante: soccorre in tal senso la firma digitale, ma con i limiti identificativi dianzi rilevati (e superabili solo con l’atto pubblico informatico).

Allora è necessario spingersi oltre la firma digitale e dare riconoscimento giuridico a quelle modalità tecniche che consentono l’identificazione certa del soggetto che in quel momento sta utilizzando la firma digitale o comunque sta esprimendo la dichiarazione informatica: tecniche biometriche di identificazione e processi valutativi della capacità di intendere e di volere. Il tutto sempre affiancato ai principi di affidamento e autoresponsabilità!

Se, infatti, l’informatica ha prodotto quella spersonalizzazione nei rapporti intersoggettivi che consente di celare la propria identità fisica dietro un “codice”, un “numero” o una “password”, nella piena e consapevole assunzione dei conseguenti rischi (principio di autoresponsabilità), quando poi si voglia pervenire ad una identificazione soggettiva “certa” del

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R. Clarizia

dichiarante, le uniche tecniche alle quali si potrà fare ricorso e sulle quali si potrà fare legittimo affidamento sono quelle che provvedono ad un diretto e inconfondibile riconoscimento fisico (la voce, l’iride dell’occhio, l’impronta digitale): è importante che il legislatore intervenga prontamente, secondo l’ammonimento che già quarant’anni fa Guido Alpa esprimeva.

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Claudio Consolo

Un approccio al Maestro in dialogo con l’Allievo: Rodotà laico profeta giuridico del domani tecnologico,

(forse) non apocalittico

Sommario: 1. I dialoghi fra Maestro e Allievo sulla più recente lezione di Rodotà: le condizioni della democrazia nell'era tecnologica – 2. Il metodo maieutico di Rodotà nel ricordo di G. Alpa e di molti – 3. Il diritto come progetto: antidoto al consumismo tecnologico e strumento per preservare la identità personale e dunque la dignità dell'individuo – 4. Le risposte del giurista – 5. Beni comuni e sviluppo: le nuove, doverose, frontiere del diritto internazionale umanitario – 6. L'evoluzione del paradigma dell'identità-eguaglianza nell'epoca della “gestione industriale degli uomini”: il nuovo nesso da costruire tra salvaguardia della dignità e libertà come autodeterminazione – 7. Il diritto come difesa delle categorie antropologiche fondamentali – 8. Una via percorribile: la valorizzazione dell'art. 4 Cost., e l'impiego di una certa dose di “fantasia inventiva” – 9. Il rischio della intelligenza artificiale come decisore e gli strumenti per combatterlo (tra estensione dello ius cogens e rifiuto del nichilismo)

...a kind of Charity and a kind of Tolerance

1. I dialoghi fra Maestro e Allievo sulla più recente lezione di Rodotà: le condizioni della democrazia nell'era tecnologica

Conoscevo troppo poco Stefano Rodotà, sia la persona sia il pensiero, quello almeno di questo inizio secolo. Eppure, mi pare un acconcio modo per festeggiare l’Illustre Studioso e Amico cui questo scritto è dedicato quello di provare, in una conversazione a cuore aperto, con molto azzardo da parte mia, a confrontarmi con alcuni tratti della personalità giuridica (e non solo) del suo Maestro e del suo dialogo con Guido.

La mia scelta di prospettiva può sembrare inusuale: non il noto ruolo fondamentale di Rodotà nel vivificare le clausole generali (dall’ingiustizia

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C. Consolo

del danno alla buona fede contrattuale), l’essersi Egli pure reso fautore, direttamente o indirettamente, di una vera rivoluzione metodologica, che è alla base, tra l’altro, della costruzione e della reazione di Irti per por fine alla famosa crisi della fattispecie; dell’irruzione dei valori allo stato quasi puro come ratio decidendi (con la conseguente più spiccata costituzionalizzazione del diritto privato); del passaggio ad una concezione estremamente fluida del diritto in action, con progressivo declino della sistematica e acquisita centralità della interpretatio declinata o meno in senso (storico-artigianale) grossiano. Collegato il regresso della dottrina in senso commentatorio e non più costruttivo di un sistema. I critici ricordano quale per certi (forse esteriori) versi analogo il periodo della fine degli anni trenta, ove un argine fu opposto proprio nella finale versione del c.p.c. da Calamandrei (di cui Rodotà stesso ha tracciato il lineamento). In altra occasione si darà voce alla reazione del processualista a petto di tutto questo, mentre desidero invece qui occuparmi, per rendere omaggio all’Amico Guido Alpa, della più recente lezione di Rodotà, quella sulle condizioni della democrazia nell’era tecnologica, e dunque anzitutto delle condizioni dell’individuo; in una parola, della necessità di preservare la sua dignità, in tutte le sue poliedriche sfaccettature.

Del resto è proprio grazie all’allievo memore e sensibile, oltre che successore, Guido Alpa – che mi ha invitato a partecipare ad una bella tavola rotonda sul libro Vivere la democrazia, di pochi mesi fa, scontatamente definito testamento, ma direi in senso propositivo – che proverò ad inoltrarmi in temi per me non consueti, a vincere la affectio ad un certo qual minimalismo, per cogliere le minacce di un futuro ammaliante che in pochi lustri è divenuto gravoso presente.

2. Il metodo maieutico di Rodotà nel ricordo di G. Alpa e di molti

Però, se non seppi vincere una, del resto esile, barriera personale, naturalmente ebbi la fortuna, negli anni passati, di sentir tante volte parlare in convegni Rodotà, in Sapienza e altrove, e di percepire direttamente quello che anche Guido Alpa, nel recente bellissimo suo ricordo1, dice averlo sin da subito colpito, quando ancora altro non era che uno studente del corso genovese di diritto civile: la parola innanzitutto detta, guardando in viso tanti ascoltatori, quasi ogni volta interpellandoli. Trovare riflessioni inaspettate non per la propria bibliografia, ma per gli interlocutori, aspettando da loro

1 Ricordo di Stefano Rodotà, in Rivista Italiana per le scienze giuridiche, 2017, 503 ss.

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Un approccio al Maestro in dialogo con l’Allievo

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un completamento ed una verifica. Inclinazione non proprio diffusissima, salvo forse nel campo della clinica.

Come faceva R., ci narra G. Alpa, durante le lezioni e i suoi preziosi seminari (nel corso dei quali Guido ci dice essersi per la prima volta accostato al tema a lui tanto caro della responsabilità del produttore di beni di consumo, ed in generale al diritto dei consumatori2)3. La leva particolare della sua eloquenza era l’aderenza costante della parola agli embrioni, ai gangli del pensiero, a sua volta costante nei decenni attorno ai grandi temi umanistici affrontati con il metodo sistematico dell’antico civilista di razza (allevato da Nicolò e suo tramite in contatto ideale con Pugliatti e con una idea del diritto culturalmente integrale).

Codesto midollo ideale - a lungo pensato e rielaborato in lucidi saggi - nel discorso pronunciato, a fronte di tante persone mute ma che dialogavano con Rodotà con occhi ed espressioni, si svolgeva con vigore e concatenazione.

Non di rado, per come ricordo, prima si addensava preoccupato; presto si scomponeva con pacato incedere nutrito di utopica speranza e capillare informazione sulle fonti (specie costituzionali, ma non meno CEDU, UE e ONU) per questioni e per variazioni; ed infine si ripresentava all’uditorio con riconquistata e talora quasi implacabile forza propositiva, con un alone di proposta laicamente religiosa e come tale aggregante. Dunque, correlazione tra pensiero e parole, fra uno sguardo quasi febbrile e capacità di progettazioni e proponimenti, nonostante tutto il cascame che ci attornia e tutte le mistificazioni di culture consunte e intellettualità astratte, cui per vero non indulgeva affatto, fin sottraendosi agli usi accademici. Su questo (anche) molto simile al suo maestro: attaccamento alla intima convinzione, o in lui forse più all’intima speranza, frutto razionale dei lucidi piaceri - oserei dire - di un pensiero che capisce per operare. Ed un pensiero ancora intimamente giuridico, non economico o sociologico o storico neppure in senso lato, tutte dimensioni accostate ma il perno rimane “il mestiere del giurista”. Invece senza paratie fra diritto privato e diritto 2 I molti contributi, monografici e non, di G. Alpa sul tema non possiamo che darli per noti. Ci limitiamo a ricordare le prime due, antesignane, monografie: Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore, Milano, 1975 e Tutela del consumatore e controlli sull’impresa, Bologna, 1977.3 “Le lezioni erano dialogiche: chi se la sentiva, faceva domande che ricevevano pronta e compiuta risposta. E la gran parte degli studenti, per profittare di questa grande opportunità, stare vicino al Maestro e abbeverarsi della sua scienza, frequentava non solo tutte le lezioni, ma anche i seminari. Ed è proprio seguendo i seminari, nel quarto anno del corso, dedicato alla responsabilità civile, che ebbi modo di leggere le poche – interessanti – sentenze sulla responsabilità del produttore di beni di consumo, e di scegliere dunque l’argomento che avrei voluto proporre al Maestro per la tesi di laurea”: così Guido Alpa, nel suo Ricordo, cit., 504.

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C. Consolo

pubblico, sempre artificiali ma addirittura anti-epistemiche nella epoca della globalizzazione intesa quale tendenziale supina soggezione al trionfo tecnologico-consumeristico-comunicatorio. Questa direi sia stata la sua sfida: trovare strumenti nel diritto per non capitolare.

3. Il diritto come progetto: antidoto al consumismo tecnologico e strumento per preservare la identità personale e dunque la dignità dell'individuo

Davvero molti sono i contenuti della ricerca di Rodotà, accentuatamente prismatici ma in ultimo avvinti nella prospettiva unificante di progettare, in un’epoca terribile eppure avvincente, un futuro che conservi, anzi doverosamente accentui, all’uomo le precondizioni e la tensione proprie della libera ed eguale ricerca di nutrita dignità.

Antidoto al divenire antiquato e irretito dal consumismo tecnologico (Anders), logorato e reso nella propria identità irriconoscibile dallo imprevedibile e orchestrato in apicibus ritmo (anzi dalla derivata vieppiù impennata) del progredire di scienza e tecnologie. Antidoto alle tentazioni del rischio - seppur forse da taluni massimizzato con qualche punta di narcisismo intellettualistico - del c.d. trans-umanismo.

Su un orizzonte meno straniante, ma sempre inquieto (lo “straordinario tumulto”, son parole sue, che impulsa e rende intransigente S.R.) si staglia il problema dell’identità (e, quindi, al solito il pungolo della presidianda dignità) in pericolo per effetto delle tante manipolazioni, o almeno commutazioni, che il mondo digitale opera crescentemente.

Il mondo ineffettivo/virtuale diviene quello dello apparire e questo sovrasta quello dell’essere, soverchiato da quello del rapportarsi con gli omnes o, più ancora, del farsi apparire e se possibile ammirare e della livellazione della persona alle esigenze del “perfetto consumatore”, non solo di beni e servizi ma anche di immagini e di maschere, che finisce naturalmente per essere “consumato” ed estraniato da sé stesso. Molti di noi queste ombre, volendoli pensare quasi come spaventosi miraggi, le presagiscono appena e cercano di fuggirle, ma allora accettando uno spesso velo di malinconia da anacronismo.

Rodotà invece, e così pure G. Alpa, come bene mostrano le sue sintetiche ma profonde riflessioni su “L’identità digitale e la tutela della persona. Spunti di riflessione” (in Contratto e Impresa, 2017, 723 ss.4), queste curvature le conosce

4 “L’identità personale non è più soltanto un modo di essere e di rappresentare la persona considerata individualmente, ma è diventato un problema sociale e, nel mondo conflittuale

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Un approccio al Maestro in dialogo con l’Allievo

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bene perché le studia minutamente, le squaderna, le soppesa - non dico con amore ma senza intima aprioristica repulsione - e quindi infine le apprende e le conosce perché le ordina. La tipica ambizione più che bimillenaria del giurista, diverso dal lawyer che da tempo celebra maggiori fasti. E tiene davvero queste prospettive-nightmares a farcele conoscere, a farci uscire da una certa ignavia, avrebbe detto Bauman, magari mista ad aristocratica inquietudine ancora generica.

4. Le risposte del giurista

Di primo acchito non gliene siamo proprio grati: egli ci forza ad usare il telescopio, a conoscerlo, prima che il meteorite ci sia addosso e ad “ordinare” delle risposte, assieme agli altri, in comunità resasi responsabile ed elevatasi quindi rispetto alla platea degli omnes propria del solo gioco mediatico. Prima che sia (e forse lo è, ma non si deve ammetterlo e neppure congetturarvi: come ci ammonisce la bella enciclica sull’ambiente Laudato sii) troppo tardi per salvarci: né lui, né i pochi altri moderni profeti, lo possono fare per noi oppure senza di noi, di molti di noi almeno.

Il nostro gusto democratico di decidere per le nostre sorti, senza deleghe tacite, è stato per lustri semi-dormiente: ne vediamo ormai dovunque gli effetti – perfino in questa estate della tragica scoperta delle condizioni di

di oggi, anche una ragione di conflitto, di atrocità, di migrazione, quando è associato ad una Nazione, ad una religione, ad una minoranza linguistica, ad etnia. E il diritto alla identità un diritto connesso con una realtà fattuale fluttuante, dinamica, fluida, quasi inafferrabile. Di questa identità si è impossessata l’informatica, e l’ha piegata strumentalmente ai suoi usi patrimoniali, nella ricerca del profitto per connettere ciascun aspetto dell’identità ai beni, ai servizi, ai contatti che possono essere utili alla persona o, con la forza della pubblicità, divenire bisogni indotti che debbono essere soddisfatti. Le carte di debito e di credito, le carte del bancomat, le carte di ingresso alle palestre, ai teatri, i biglietti aerei e ferroviari, le prenotazioni delle auto pubbliche e private, le iscrizioni alla scuola, all’università, a corsi liberi, di lingue, di ricreazione, le affiliazioni a movimenti, partiti, associazioni di ogni tipo, le tessere sanitarie, annonarie, professionali, e poi gli acquisti mediante internet, la partecipazione ai giochi, gli abbonamenti alle riviste, a cineteche, alle televisioni, le iscrizioni a Facebook, Instagram, E-bay, PayPal, Catawiki, e così via, costituiscono un mondo di informazioni digitali in cui le classificazioni dei dati e soprattutto la loro connessione ricostruisce una identità che in parte combacia con quella reale e in parte la deforma, la ingigantisce o la deprime a seconda degli angoli visuali o dei frammenti di specchi – per riprendere la metafora iniziale – in cui la persona è scomposta. Stefano Rodotà ha parlato, a questo proposito, di una “nuova antropologia”, che trasforma la persona da essere umano in un complesso di dati, la natural person in una digital person”: p. 725.

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C. Consolo

concessione di beni statali fondamentali –, anzi ne vediamo solo i primi fra gli effetti.

E varie ne furono le cause, queste sì politiche e sociologiche. Fra le prime la TV e il ricordo corre ad Eco. Ivi tutto è reso manifestamente servente alla pubblicità - il moderno Vampiro - e di qui la goduria della massa di beni a buon mercato che satolla ma non nutre, e pensiamo fra tanti a Baudrillard ma pure al nostro Pasolini, e “il resto - e cioè la capacità di isolamento ed autopoiesi di questi fattori - nol dico, già ognuno lo sa”, direbbe Leporello nel celebrare-esecrare il padron suo (ma con occhio compiaciuto ed avido, quell’incontinente che qui siam tutti noi).

Dopotutto però il Maestro di Guido questa ormai pietrosa realtà la soppesa ma non la dipinge affatto come una inesorabile Apocalisse, magari disvelante (non ci invita a trincerarci in una sorta di Patmos, con sguardo ammirato-atterrito). E neppure come una finale realtà ormai ineludibile e al più da deridere (come nella saga vichinga del loro capo Ragnar, che gettato a morte nella fossa dei serpenti si eleva con un canto che culmina nel celebre “e io rido”, azione di rivendica della dignità di un guerriero non domo).

5. Beni comuni e sviluppo: le nuove, doverose, frontiere del diritto internazionale umanitario

Costantemente Rodotà pensava e ripensava, e si spiegava pulitamente e con parole talora eleganti ma non ricercate né intellettualistiche, tutto teso ad organizzare con fede, quasi con educatissima veemenza, attorno alle Carte fondamentali, interne e sovranazionali, e al loro indubbio progresso (cui diede il ben noto interno contributo), non isole di appartamento ma interi arcipelaghi e penisole di resistenza attiva e progettuale5. Ed ecco tutta la riorganizzazione, a me pare, tipicamente giuridico-sistematica (e non credo per auto-giustificazionismo di quattro decenni di vita, i miei dico, ed ancor più quelli di Guido, spesi alacremente soprattutto in quella dimensione).

Riorganizzazione del poligono delle sfide e dei remedies: le sfide del diritto alla degna retribuzione che segna un ritorno al tema marxiano meno

5 Anche qui sovviene l’insegnamento giovanile di R., come Guido ce lo ricorda, pur in un mondo allora tanto più decifrabile: “il cultore del diritto civile [del diritto, in generale] non si può accontentare di ricostruire il sistema, né di individuare nel suo corpo le tecniche di controllo sociale, dovendo piuttosto capire come quel sistema sia frantumato dalla realtà che si viene delineando e possa essere ricomposto di momento in momento sulla base di una tavola di valori condivisi e garantisti”, Ricordo, cit., 513-514.

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Un approccio al Maestro in dialogo con l’Allievo

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usurato6; del diritto - collegato al dibattito sui limiti alla crescita, anche demografica, che neppure le nuove tecnologie ignote a Malthus, possono eludere - ad un ben organizzato e distribuito nutrimento (cibo, acqua e non solo: arte e cultura, visibile anche nei luoghi, ormai tutti antropizzati, come prodotto delicato da preservare e far evolvere); e la battaglia delle linee di gestione dei vecchi e nuovi “beni comuni” (e pur qui, quali prospettive si aprono per le azioni popolari o forse anche per azioni di classe di terza generazione, per bisogni omogenei, per i similarly affected non più da azioni, ma da omissioni, illecite e sommamente polioffensive!).

Il diritto al cibo si specifica oggi nel Centrafrica nel diritto alla conservazione della propria ancestrale terra e ad una sufficiente disponibilità di acqua e si sa bene chi la minaccia e il rilievo nocivo per le spinte a migrare: quando anche non siano impossessamenti bruti, od espropriazioni per false altrui utilità, ma vere vendite a prezzo verosimilmente vile, bisogna fare evolvere la circonferenza dello ius cogens internazionale fino a ritenere tali comportamenti imprescrittibilmente e non usucapilmente nulli. Alla lontana, ma non poi troppo, poiché là pure era in gioco uno squilibrio di forze insopportabile, come è accaduto per la sorte delle opere di arte davvero vendute dai collezionisti ebrei a mercanti agenti per conto dei vari esteti-gerarchi o per il famoso erigendo museo di Linz. Si parva licet...la sorte oggi in gioco delle terre coltivabili, come premessa per un soddisfacente nutrimento, merita altrettale e forse maggiore vigore da parte del c.d. diritto internazionale umanitario, recte conformato ad alcune irrinunciabili esigenze della umanità contemporanea.

Ma, vien subito da chiedersi, quasi vacillando, questi remedies come e da chi immaginare/progettare siano esperibili e davanti a quali organi investiti di una legittimazione accertativa ed aggiudicatoria né statale, né arbitrale, né però nudamente morale? E poi con quali convenuti? Problema del “giusto convenuto” che a me pare ancor più grosso di quello di strutturare un congruo attore e di istituire credibili giudicanti doverosamente responsive e preparati. Anche qui la dimensione statale, per tacere del discrimen fra diritto privato e diritto pubblico, anche solo guardando allo Stato come soggetto obbligato in virtù di un più ambizioso contratto sociale ad offrire il benessere ed il rispetto della dignità di ognuno, non appaga affatto. Lo sa bene R., avendo vissuto, nella sua penultima stagione, una intensa ed esemplare vita politica activa, con la mite fermezza e con il sorriso smagato che ricordiamo (segnando, all’apice, la non minore fra le varie grosse

6 E su questo tema v. le recenti riflessioni di A. Proto Pisani, Note sulla tutela del lavoro e della persona nella costituzione, in Foro Italiano, 2018, 5, 157 ss.

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C. Consolo

stoltezze e minute miserie nell’orientamento di un partito, quello che un tempo prometteva di essere grande ed oggi si compiange).

6. L'evoluzione del paradigma dell'identità-eguaglianza nell'epoca della “gestione industriale degli uomini”: il nuovo nesso da costruire tra salvaguardia della dignità e libertà come autodeterminazione

Su questi temi non può lasciarsi ai margini la lectio dottorale “Antropologia dell’homo dignus” di Rodotà a Macerata, da cui è direttamente tratto il terzo capitolo del volumetto “Vivere la democrazia”, dal titolo “La rivoluzione della dignità”.

Se mal non comprendo, la diversa intitolazione (che è autoriale, non editoriale, benché il libro esca postumo) sottolinea il passaggio dalla statica - che pur non era in Rodotà mai stata proiettata su remoti e sconvolgenti passati dello homo sapiens-sapiens, come nelle ricerche di Sacco e della scuola francese - alla dinamica appunto antropologica del mutamento, quello che è sotto i nostri occhi. Dal “paradigma” dell’identità-eguaglianza alla “rivoluzione” ben più ricomprensiva della dignità appunto, da puntellare in modi integralmente nuovi come nuovi sono i mezzi di attacco (in cui buono e cattivo sono avviluppati).

Nel secondo dopoguerra la sfida delle nascenti Carte Costituzionali, e ben presto delle Corti internazionali non solo interstatuali come la vecchia CIG dell’Aja, è stata proprio quella di tutelare e promuovere lo sviluppo della dignità, perché per vivere occorre un’identità e quindi una dignità (come ci ricorda R. attraverso le parole, e il ricordo del sorriso struggente, di Primo Levi). La costruzione dell’antropologia del nuovo homo dignus si materializza nella nostra Costituzione fra l’altro nell’art. 36, nella esistenza libera e dignitosa del lavoratore, sempre più messa a repentaglio, financo con lo sfruttamento bieco della sovrappopolazione, con le collegate spinte, che dilaga in altri continenti (per ragioni non solo vetero-religiose ma ormai soprattutto strumentalizzata ed asservita alla nuova ricerca, specie cino-indiana ma anche africana, del potere globale).

Eppure può dirsi, non senza amarezza, e lo riconosce lo stesso Rodotà, che quel nobile progetto sia stato vinto dalle logiche che vediamo dispiegarsi: non già quelle del vero mercato, ma quelle di una certa sciagurata “gestione industriale degli uomini”, e loro commercio, di talché torna ad essere centrale l’equazione marxiana tra lavoro e merce di scambio a basso apprezzamento e rapida sostituibilità (ancor prima della crescente vocazione robotica della produzione e presto dei servizi) mentre il consumismo irretisce ed inibisce

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quasi ogni spunta rivoluzionaria. Così spezzato il nesso tra lavoro, come diritto ed entro certi limiti

anche come dovere, e salvaguardia della dignità, quest’ultima deve trovare una nuova allocazione (restando sempre “sovrana”) nella libertà come autodeterminazione, consentita da una certa dotazione di beni e risorse godibili senza la centralità del prezzo e dello stimolo del rapido consumo ad obsolescenza programmata e a proiezione verso le discariche in un ciclo rapidissimo che le lega alle orride miniere (fisica e di immagine: la moda imposta ormai a tutti i ceti e sotto quasi tutte le latitudini).

Neanche se mai giungerà, con nuove coraggiose politiche, a questo aspirabile punto, l’homo dignus è pronto ad affrontare, con capacità di meno gracile tenuta, i pericoli e le innovazioni del mondo tecnologico-consumistico globale e teleguidato. Cosa può, infatti, l’autodeterminazione a fronte di sempre più numerosi artifici tecnologici che, avvicinando l’uomo alla - o contaminandolo vieppiù con la - macchina, ed una macchina il cui inprint sempre più gli sfugge, lo gettano (nuovo tipo di Dasein, altro che boschi di Svevia) nella non già sconfortante ma subdola e carezzevole - qualcuno sarebbe tentato di dire diabolica - era finale del post-umano? E si veda qui allora anche l’ultimo capitolo del libro già più volte richiamato, non a caso intitolato “Dall’umano al postumano”, eco di cento anni di lavorii filosofici che la barbarie post-Sarajevo e la stagione dei totalitarismi trionfanti ha acceso, e spostato soprattutto, dalla vecchia Germania weimariana, nelle fucine di pensiero delle migliori università statunitensi.

L’umanità può ancora incidere sulla tecnologia che ne satura l’essere, può ancora essere inasservibile rispetto alle macchine come congegni minutissimi e insinuantissimi a fronte dei quali molti temono che il cervello si ritragga e lo stesso animo si infiacchisca? E può farlo forse almeno nel campo dell’imprevedibile, dove risiedono alla apparenza quasi imperturbabili l’arte, la musica, la cultura, la natura, e financo lo humour in tutte le sue varie forme (Bergson da gran tempo lo legava allo inaspettato ... come rivelazione extra meccanica e quasi acausale), alcune delle quali quasi impercettibili e perciò più preziose (di nuovo, quei sorrisi!): ché in questo l’uomo non è affatto antiquato (per tornare ancora ad Anders) e per nulla, si direbbe, surrogabile.

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C. Consolo

7. Il diritto come difesa delle categorie antropologiche fondamentali

Secondo Rodotà - al fondo ottimista e mai realmente apocalittico, e ciò desta sprone e non solo invidia - spetta al diritto il “compito di difendere le categorie antropologiche fondamentali” e “per raggiungere questa finalità, il diritto non può negarsi al mondo”. Frase che forse ancora mal comprendo perché, in verità, il diritto è in sé e per sé terribilmente mondano, fiorì a Roma proprio per mondanizzare e laicizzare i segreti religiosi e gli auspicia dei soli Patres patrizi. Forse la sua mondanità può parere quella del mondo di ieri, ma un certo gap ne connota fatalmente i processi e formanti evolutivi.

A peggiorare le cose vi è tuttavia la totale mancanza, da tre secoli, di ogni sua residua, direi, “cogerminazione” rispetto al senso di religione (figura molto più larga della fede o di una certa fede), compresenza che pure non mancava fino all’inizio del settecento e riaffiorava finora nei momenti clou - basti pensare al ruolo del giansenismo nella nascita del moderno diritto civile (Domat) e pure di quello processuale, o allo spazio dell’Essere supremo in Francia nella sua rivoluzione pur schiettamente giuridica - e ancora traluce nei lavori preparatori della nostra Costituzione e non solo nelle visionarie aspirazioni di La Pira, tenute a bada da un (talora troppo) realistico Togliatti.

A voler intendere altrimenti l’auspicio di Rodotà, allora preoccupiamoci di creare un diritto degno di non essere negato al mondo, o da esso sostituito da regole che non derivano né dal popolo né da sue élites ma da legal firms al servizio delle big corporations. Un diritto non piegato sulla mondana ed efficientistica rincorsa (anche la EAL, cui Guido, via Calabresi e Trimarchi, è attentissimo vien utile se non ambisca a metodologia integralista), frutto dei tre classici formanti, che, integrandoli meglio che negli ultimi lustri, non risulti confuso, frammentato, inintelligibile, sussidiario, ascientifico, senza basi multidisciplinari, corporativo, ed in una parola comodo per chi lo coltiva (e non di rado se ne compiace). E così anche altrettanto comodamente punitivo: vivere la democrazia significa anche rimettere al centro della azione lo archetipo penitenziario della reclusione vecchia e nuova, tanto ripensato ma ancora intatto e gemente.

Come ammonisce G. Alpa, sintetizzando il pensiero del suo maestro, per R. “il compito del civilista [ma, direi, del giurista a tutto tondo] richiede un lavoro sperimentale: tendere la norma fino al massimo, per sfruttarne tutte le opportunità, apprezzarne l’elasticità, rivalutare le clausole generali, ricorrere ad una interpretazione realistica per non trascurare gli interessi

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sottostanti alle forme, e finalmente proporre nuove norme, ma solo quando il tentativo di raggiungere l’obbiettivo della ‘compatibilità dei valori’ dovesse rivelarsi infruttuoso. Questa sperimentazione non è tuttavia fine a se stessa, dovendo essere associata ‘ad una adeguata ricostruzione dei principi fondanti del sistema’ … ; fino a dire che il compito del [giurista] consiste nell’essere al tempo stesso precursore del cambiamento e modellatore dell’adattamento, non all’insegna dell’arbitrio ma entro la cornice dei principi che connotano l’esperienza ricostruita in ‘sistema’ ” (Ricordo di Stefano Rodotà, cit., 508-509). Certo la via è questa, ma - a parte i riflussi neoformalistici che talora la c.d. cultura della nomofilachia non combatte e per certi profili di sua “procedimentalizzazione” financo esasperata7 - il lavorio sui principii in Europa pare ibernato, ischeletrito per la ricorrente evocazione solo di quelli dell’immediato dopoguerra, che ne dovrebbe pur segnare solo l’atto di nascita performativo e limitarne lo orizzonte con vincoli esterni rigidi (con più di qualche eccezione a questo gap: la giurisprudenza EDU sul giusto processo, testamento biologico, unioni civili, caso Google, ad es.).

Garantire dignità al Diritto per garantirla all’Uomo e al Cittadino anche alle parti di liti private e pubbliche, ed ancor più al condannato. Approdo da cui pur sempre nei fatti ci si allontana, anche oggidì.

8. Una via percorribile: la valorizzazione dell'art. 4 Cost., e l'impiego di una certa dose di “fantasia inventiva”

Un’ultima riflessione dal sapore di attualità politica, ma che invece vorremmo declinare qui in termini non così contingenti.

Nella Costituzione, e ora penso soprattutto all’art. 4 co. 2, anche i doveri, in particolare quello per certi aspetti più sconvolgente, e tanto discusso in Costituente, quello insomma alla operosità “estroversa”, riflesso e anche condizione della solidarietà, si alternano ai diritti e ne sono in qualche modo la premessa, la premessa del famoso diritto ad avere diritti. Ecco dunque l’ampio dibattito, ma alla fine l’estesa consonanza che vi fu sul “dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Per certi versi anche nella età della pensione, fino a che le forze non si eclissino del tutto. Non sarà 7 Su questo tema, che meriterebbe ben altri approfondimenti, ci permettiamo di rinviare alle considerazioni svolte nel ns. La base partecipativa e l’aspirazione alla nomofilachia, in Foro Italiano, 2018, 5, 111 ss., il cui spunto è offerto dal noto Memorandum intergiurisdizionale siglato dalle Corti di vertice delle diverse magistrature nel maggio 2017.

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puntutamente il dovere al tristo tradizionale lavoro, ora più al computer che alla catena di montaggio, o più in generale al duro biblico sudore (e a Napoli, con humor quasi superstizioso, non a torto si nota che certo il lavoro forse libererà l’uomo...ma la vera e franca fatica lo uccide...quantomeno di noia). E’ però certamente almeno il dovere e la dovuta consuetudine all’operosità8, al non oblomovismo zarista, ad ogni età, nelle più appropriate forme certo, ed in questo, se vogliamo, delle due radici della cultura italiana ed europea, quella che ci proviene da Gerusalemme - ove financo lo studio talmudico era indefesso - prevale persino su quella più contemplativa e peripatetica di Atene, per non dire del culturismo spartaneggiante: sarebbe da fare qui un discorso lunghetto, che richiamo invece appena per cenni.

Tutto vero, insomma, quello che ci spiegava e pronosticava (con qualche eccesso di ottimismo) l’esteta Keynes già 70 anni fa, individuando una sorta di ricchezza delle nazioni a quattro dimensioni, che il progresso tecnico avrebbe ridotto sempre di più l’orario di lavoro o se no, ampliato non tollerabilmente la disoccupazione (e oggi lo ricorda ad esempio De Masi), e creato per tutti lo spazio dei nobili (?) piaceri, ma la prospettiva - che in effetti par discenderne - dei redditi minimi garantiti, di inclusione o di cittadinanza o che dir meglio si voglia, va inquadrata non solo nel co. 1, ma anche nel co. 2 dell’art. 4 Cost. E si dovrebbe cercare di farlo, e non ne manca traccia in certi programmi: vedremo un po’. Ci vuole comunque vera progettualità, ergo fantasia.In tutte le strutture di governo e anche nella leadership delle vecchie e nuove comunità intermedie, ma non meno a livello capillare delle singole persone pensanti e programmanti, andrà dunque posta in primo piano quella qualità fondante che mi ostino a considerare gemella primigenia dello humour. Parlo della fantasia inventiva che vola leggera come rondine e non come piuma inconsulta (il gusto per la fantasia, anche nel diritto, tuttavia viene affievolito fino a perdersi nelle procedure dei computer, nei log-in che diventano forme di autolegittimazione e vera sopraffazione della macchina aliena, nelle sfiancanti ritualità dei processi intrisi di spasmi formalistici). Costituisce base di vitali start up anche la ricerca delle nuove occupazioni (ne dico una: l’accompagnamento degli anziani, dei malati o dei negati nelle tante potenzialità, inter alios musicali, del mondo della elettronica), auspicabilmente più dilettevoli di tante di quelle passate, ma pur sempre tali da concorrere al progresso materiale o spirituale della società, e di ciascuno con essa: la lunga vita dei meno giovani 8 Di cui Rodotà ed oggi il nostro Guido è esempio, e ne ricevette a sua volta inprint, come ci ricorda, proprio nell’Istituto di diritto privato dell’Università di Genova (dove “noi giovani lavoravamo indefessamente ogni giorno, compresa la domenica (sotto la guida severa di Mario Bessone)”: Ricordo di Stefano Rodotà, cit., 504.

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presenta varie chances di collaborazione, ben al di là della figura del badante-infermiere. Una forma allora del tutto inedita e quasi irriconoscibile di mansionario aperto, personalizzato e pulsante per i lustri a venire, nei quali non dubitiamo che la creatura umana non potrà dirsi antiquata più di quanto ci indusse a credere tanti decenni fa Anders.

In attesa che, posto che vi è sempre un contrappasso, sull’arco di forse pochi decenni, anche la classe dei robot e delle enormi macchine di I.A. che li guidano, integrati fra loro e con una capacità di autopoiesi la cui derivata si è impennata, non insorga nei confronti dei loro passati padroni e li renda schiavi (timore frutto di studio e di accesso a segreti, non di ansie peregrine o di incubi futuristici, cui dedicarono spazio persone diversissime, ben informate e fredde, da S. Hawkins a, da ultimo, con varie articolazioni propositive ed una per lui insolita preoccupazione, l’informatissimo H. Kissinger), forgiando una nuova forma di imperialismo capitalistico robotico: cercheremo, in questi non occasionali Saturnali, di ottenere allora talora almeno lo stato di liberto.

9. Il rischio della intelligenza artificiale come decisore e gli strumenti per com-batterlo (tra estensione dello ius cogens e rifiuto del nichilismo)

Sempre in brackets accenno ad un rischio più imminente e più vicino ai nodi esistenziali-giuridici che leghiamo al ricordo di Rodotà. Ebbene, in grandi amministrazioni, militari ma non solo, e in multinazionali dedite allo impero globale, per dirla alla Toni Negri, se già non è accaduto son certo accadrà presto che i boards vincolino i loro Ceo a dare disposizioni gestionali in esatto ossequio alle scelte elaborate dalla I.A., come già accade (e qui preoccupa però meno) per gli investimenti finanziari, escludendo che quelle decisioni possano venire guidate o anche solo temperate dalle menti umane, ridotte a meri attaccapanni giuridico-formali e salvo solo verifica di aumentata profittabilità.

Ognuno vede come le legislazioni e le giurisprudenze nazionali, quelle che in queste settimane si legge che solo fra difficoltà qualcosa possono ancora fare contro la produzione con stampanti 3D di armi da fuoco - vere e letali, non giocattoli -, a fronte degli immani rischi siano pressoché inani.

Occorre invece una diversa produttività delle fonti convenzionali facenti perno sulle Nazioni Unite, rimuovendo in certe materie blocchi o veri veti di singole factiones preoccupate dei loro confronti reciproci, e tutte parimenti

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C. Consolo

dedite alla produzione e commercio di immani, ed ormai sempre più robotizzate, armi e sostanze da guerra. Neppure il milanese Molino delle armi incideva sul PIL della città in termini minimamente analoghi, per tacer del pregio estetico dei suoi ambìti manufatti.

Lo strumento quasi utopico ma irrinunciabile appare quello della estensione del perimetro ratione materiae e della qualità dello enforcement, nei singoli Stati e con i loro mezzi che in tali cornici cesserebbero di apparire solo predicatorii, del c.d. ius cogens, nato dalla ultima grande guerra e, seppur sempre frutto delle litigiose sovranità statali, capace di introdurre almeno alcuni vincoli e margini di circoscritta ma reale democrazia umanitaria nella turbolenza planetaria che le crescenti autocrazie esasperano.

In questo senso la internazionalizzazione del dialogo fra giuristi deve riuscire a dare corpo ad una leva a disposizione, poi, di tutte le persone di buona volontà che con mente fredda e cuori caldi non ripieghino verso il nichilismo, la distrazione e financo un compiaciuto gusto di spettatori del clinamen apocalittico. Al pari ad es. di quella, che aveva, dalla sponda penalistica, delineata nella sua ultima, pure essa a prima vista polemica e febbrile, stagione Federico Stella, questa crediamo sarebbe stata la linea evolutiva additata dal civilista Stefano Rodotà, entrambi testimoni vitali della constatazione che oltre il consueto minimalismo anche i giuristi più tecnici in grazia di plurime appassionate esperienze riescono a realizzare qualche risultato non sprezzabile. Al pari di qualche economista:

“The decadent international but individualistic capitalism, in the hands of which we found ourselves after the war, is not a success. It is not intelligent, it is not beautiful, it is not just, it is not virtuous – and it doesn’t deliver the goods. In short, we dislike it, and we are beginning to despise it. But when we wonder what to put in its place, we are extremely perplexed”. Così Keynes circa ottanta anni fa: oggi il dilemma di fondo non si è semplificato, quel capitalismo si è complicato, ha costi diversi – ambiente e sviluppo umanistico, in breve, esternalità di ardua calcolabilità (si sente il bisogno di una QEAL, ove Q sta per una analisi economica del diritto qualitativa) – ; ma certo non si può più dire che non sappia “deliver the goods” (non a tutti ma certo a molti miliardi di individui). Tuttavia, li crea, li impone e li distrugge ad una rapidità inaccettabile e con modalità sfrenata, né bella né virtuosa. Questi goods, quasi questi gods, circuiscono e offuscano lo sguardo verso il futuro (i beni siano comuni non solo nella data unità di tempo, ma anche diacronicamente senza generazioni bulimiche) e tarpano ogni volontà rifondatrice.

Siamo condannati alla civiltà disse Rodotà, ma essa esige che ci si

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Un approccio al Maestro in dialogo con l’Allievo

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scrolli di dosso parecchia falsa manna (dopo mezzo e più secolo di tutela del consumatore dal produttore, occorrerà progettare come tutelarlo dalla distribuzione pubblicitaria e, per qualche verso, da sé stesso).

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Andrea D’Angelo

Note storiche sulla dottrina generale delle obbligazioni

Sommario: 1. La cultura delle regole – 2. Il problema della coercibilità delle obbligazioni nel diritto comune – 3. L’opera di Pothier come momento di transizione dal diritto comune alla codificazione – 4. Il code civil – 5. La dogmatica tedesca del secolo XIX. Il pensiero di Savigny e di Windscheid – 6. Le concezioni patrimoniali dell’obbligazione nella dottrina tedesca – 7. La dottrina italiana nella vigenza del codice del 1865. La tradizione, il modello francese, le teoriche degli autori tedeschi – 8. Lo sviluppo del dibattito nella dottrina italiana sotto il codice del 1865 – 9. Segue. I prodromi della codificazione del 1942 e della dottrina successiva.

1. La cultura delle regole

Non ho avuto esitazione nella scelta del tema di un dialogo con Guido Alpa e della sua opera da assumere a riferimento: “La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano”. Non è, del resto, che la prosecuzione di una lunga consuetudine di condivisione di interessi e di letture, e di colloqui effettivi con Guido.

L’attenzione del civilista alle vicende storiche non deve cedere alla tentazione di avventurarsi in indagini di storia del diritto, ma piuttosto orientarsi alla ricerca, dall’angolazione propria dello studioso di diritto attuale, delle tracce, remote e prossime, degli elementi costitutivi di questo. La naturale insicurezza circa la propria legittimazione e il possesso degli strumenti, di conoscenza e di metodo, per una ricerca di carattere storico e la consapevolezza delle improprietà che possono derivare dalla proiezione di modelli e linguaggio contemporanei, secondo i quali si manifestano i propri interrogativi, in ambienti culturali diversi e lontani, nei quali tuttavia ci pare di riconoscere i segni di un’ascendenza familiare, trovano peraltro qualche conforto nella considerazione di una certa attitudine privilegiata del civilista all’interpretazione di fenomeni del passato come generatori di diritto e di dottrina del presente.

Ne “La cultura delle regole” ho ritrovato alcune pagine fondamentali sulla civilistica italiana a cavallo del XIX e del XX secolo, nutrita della tradizione

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A. D'Angelo

di diritto comune, dell’esperienza della codificazione francese e della dottrina dei commentatori del code civil, dei rinnovati studi romanistici, ma scossa, e conquistata o inquietata, dall’irrompere nella cultura italiana dei dogmi e del metodo della pandettistica tedesca, e tuttavia infiltrata dai fermenti innovatori del socialismo giuridico e dai germi di istanze antiformalistiche.

Il dialogo con Guido Alpa che propongo in queste pagine si sofferma su questa fase della vicenda della civilistica italiana, alla confluenza di queste esperienze di diversa matrice, anche molto risalenti, eleggendo come tema specifico, e paradigmatico, quello della disciplina e della teoria generale delle obbligazioni – al quale mi sto dedicando nell’àmbito di una più ampia ricerca destinata al Trattato Cicu-Messineo1 – e segnatamente quello della coercibilità e dei mezzi di coercizione dell’adempimento, cruciale rispetto alla costruzione delle situazioni giuridiche soggettive dell’obbligato e del creditore.

2. Il problema della coercibilità delle obbligazioni nel diritto comune

Gli interpreti del diritto comune2 sembrano muovere dal riconoscimento della mancanza di rimedi, generalmente applicabili a tutti i rapporti obbligatori, che consentissero l’effettiva coazione della condotta dell’obbligato, la cui esecuzione, nonostante il vincolo giuridico, restava rimessa alla sua volontà. Si distinguevano, allora, le ipotesi in cui ciò che il debitore doveva fosse certum o incertum, potendo solo nel primo caso, nel quale era dovuta una somma di danaro o una cosa determinata, esperirsi un’azione (che sembra trovasse la sua ascendenza nella condictio certi) che potesse consentire al creditore il conseguimento della cosa dovuta (sempreché, ovviamente, l’esecuzione risultasse fruttuosa); mentre nelle obbligazioni di fare, giacché nemo ad factum praecise cogi potest, il soddisfacimento del creditore, in caso di inadempimento, poteva normalmente seguire solo mediante il conseguimento del quod interest – determinato con la aestimatio rei (oggi diremmo della prestazione) – per effetto del pagamento del debitore o dell’escussione del suo patrimonio.

L’affermazione di questa regola relativamemente alle obbligazioni di

1 Introduzione al diritto generale delle obbligazioni.2 Nella povertà di ricerche storiche sulle fonti che offrano un’organica ricostruzione di orientamenti dottrinali e prassi giurisprudenziali sulle questioni che mi accingo a trattare, ho dovuto affidarmi a un diretto scrutinio che, pur sommario, appare sufficientemente rappresentativo.

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Note storiche sulla dottrina generale delle obbligazioni

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fare è rappresentata come orientamento prevalente3, o quale communis opinio4. Ma il tema fu invero tra i più controversi in materia di obbligazioni, fu oggetto di aspro dibattito e il quadro delle questioni appare ben più complesso, con riflessi anche sulle obbligazioni di dare cose determinate (in particolare sulla coercibilità dell’obbligazione di traditio del venditore)5; e le opinioni si articolavano in distinzioni, in eccezioni ed estensioni6.

3 Christinaeo, Practicarum quaestionum rerumque in supremis belgarum curiis decisiones, Antuerpiae, 1636, I, pp. 507 ss., dec. CCCXXIII (e CCCXXIV). 4 Turzano, Communes opiniones, in AAVV., Receptarum sententiarum, Venetiis, 1569, p. 11, XXXIX; Tuschi, Practicarum conclusionum iuris, t. V, Roma, 1606, sub O, concl. XLIII, nn. 2 ss. (pp.1014 ss.); Molina, De iustitia et iure, t. II, Moguntiae, 1659, Tract. II, disp. 562. 5 Il dissenso in proposito veniva fatto risalire ai glossatori, attribuendosi a Martino la tesi della coercibilità del facere e in particolare della traditio del venditore, a Bulgaro quella opposta e l'affermazione della facoltà del debitore (e in particolare del venditore tenuto alla traditio) di liberarsi prestando il quod interest; v. al riguardo Accursio, alle glosse Agitur a D. 19, 1, 1 e Obligationibus a D. 42,1, 13, 1.6 Nella letteratura di diritto comune le citazioni di altri autori sono spesso state ordinate secondo una contrapposizione schematica improntata alle ricordate originarie formulazioni, ma in realtà la varietà delle opinioni, ben più articolate e variegate (segnatamente con riguardo alla peculiarità del problema della coercibilità dell'obbligazione di traditio del venditore), non si presta a essere costretta entro questi termini, tanto che vengono a volte citati a favore della tesi della coercibilità autori che, quantomeno in linea generale, affermano il contrario. Inoltre, l'evoluzione storica dei contesti socio-economici e culturali, dell'ordinamento processuale e delle concezioni sottese alle dottrine suscitano riserve sulla reale continuità delle soluzioni tecniche, peraltro influenzate dalla costante considerazione di ragioni pratiche relative alla concreta possibilità di assicurare effettività alla tutela in forma specifica delle diverse situazioni creditorie. Con queste avvertenze e, quindi, con larga approssimazione, possono annoverarsi tra i tanti fautori dell’affermazione, in linea generale, dell’incoercibilità delle prestazioni di fare e della loro conversione nell’id quod interest: Bartolo, Comm. in secundam Dig. Nov. partem, lib XLV, de verborum obligationibus, lex LXXII; Baldo, Comm. in secundam Dig. Nov. partem, lib. XLV, de verborum obligationibus, lex LXXII, Stipulationes, § si quis ita e lex LXXXIV, si unsulam; P. di Castro, Comm. in primam Dig. Vet. partem, lib. II, tit. V, lex III, Cum quis, n. 4; Alciato, Comm. in aliquot tit. septimae digestorum partis, de verborum obligationibus, lex LXXII, nn. 69 ss.; Duareno, In septimam digestorum partem, si insulam; Id., Regulae iuris, sententiae ac loci communes, ad vocem factum; Donello, Commentariorum de iure civili, in Opera Omnia, t. IV, Lucae, 1764, lib. XV, Cap. III, pp. 30 ss.; Paponio, Corpus iuris francici, Genevae, 1624, lib. X, tit. I, n.3; Voet, Commentarius ad pandectas, t. VI, Neapoli, 1781, lib XLV, tit. I, de verborum obligationibus, § 8, p. 157. E, nella letteratura consiliare, Cravetta, Consiliorum, t. I, Francofurti ad Moenum, 1611, Responsum pro genero, pp. 29 s., nn. 280 s.; Corneo, Consiliorum sive responsorum, IV, Venetiis, 1582, Consilium CCLVI, p. 245; Fachineo, Controversiarum iuris, Venetiis, 1609, lib. I, cap. VIII, c. 140 e lib. VII, cap. LX, c. 917. E v. le decisiones della Sacra Rota Romana 17 maggio 1595, in Zacchia, De obligatione camerali, Roma 1647, parte II, pp. 34 s., dec. XLIV; 3 giugno 1647, in Sacrae

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A. D'Angelo

Così, ci si domandava se le regole relative alle obbligazioni di fare non dovessero applicarsi anche a quelle di dare cose determinate (nel senso del trasferimento della proprietà o della costituzione o del trasferimento di altro diritto sulla cosa), giacché per l’adempimento delle stesse con la realizzazione dell’effetto traslativo occorreva la traditio, e questa, seppur concernente una cosa determinata, richiedeva una condotta di fare e la volontà del debitore. E assumevano rilievo pratico al riguardo le circostanze concrete relative alla possibilità effettiva di esecuzione – esclusa dall’eventuale altruità della cosa o dall’eventuale insussistenza del possesso del debitore sulla medesima – o alla pratica surrogabilità della condotta del debitore, connessa all’eventuale infungibilità della sua prestazione personale.

Al riguardo, non mancava di distinguersi l’adempimento di un’obbligazione restitutoria, che implicava la consegna di una cosa che già apparteneva al creditore, da quello di altra obbligazione di dare che concerneva cosa appartenente, fino alla traditio, al debitore, come nel caso della vendita. Su quest’ultimo si formarono autorevoli orientamenti derogatori – pur con la precisazione di distinzioni e di eccezioni alla deroga – della regola generale dell’incoercibilità delle obbligazioni di fare (intesa come comprensiva del facere consistente nella traditio della cosa volta a determinare il trasferimento della proprietà della stessa)7, che peraltro non mancarono di produrre dubbi o equivoci circa l’effettiva operatività e àmbito della medesima.

Ci si domandava altresì, riguardo alle obbligazioni di fare – o a quelle che dovessero essere a esse assimilate rispetto ai rimedi esperibili – se costituisse solo diritto del creditore di optare per il pagamento del quod interest, invece che per l’adempimento in forma specifica, ovvero fosse facoltà dell’obbligato liberarsi mediante il pagamento del quod interest; o se fosse la mora del debitore a determinare la conversione dell’originario oggetto della sua obbligazione nel pagamento del quod interest, e se la mora potesse essere purgata, mediante tale pagamento, fino alla litis contestatio.

Inoltre, il tema della conversione dell’obbligazione originaria in quella

Rotae Romanae Decisionum Recentiorum, X, Venetiis, 1697, Decisio LXVI, pp. 119 ss., nn. 7 s.; 4 luglio 1694, in Albizi, De inconstantia iudiciis, Roma, 1698, parte II, pp. 112 ss.; e quelle del Parlement de Grenoble 12 settembre 1460 e 11 luglio 1585, in Dictionnaire des arrêts, Paris, 1727, t. IV, voce obligation, pp. 656 s. 7 Bartolo, op. loc. cit., nn. 8-17; Vinnio, Commentarius in quattuor libros Institutionum Imperialium, III, 23. Osserva al riguardo Mazzamuto, L'attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, pp. 23 e 33, che nell'opinione di Vinnio, il quale «scrive nel clima del giusnaturalismo incipiente» (p. 33), assume spiccato rilievo la specificità della traditio, legata al problema dell'effetto traslativo e concernente la cosa, rispetto alle altre prestazioni di fare, la coercizione delle quali suscita la preoccupazione della tutela della persona e della sua libertà.

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Note storiche sulla dottrina generale delle obbligazioni

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di pagare l’id quod interest si intrecciava con quello dell’indivisibilità della prestazione, e il primo veniva spesso affrontato nell’àmbito della trattazione del secondo, suscitando l’interrogativo se il pagamento dell’equivalente monetario conservasse o meno il carattere di indivisibilità proprio dell’originaria prestazione di dare o di fare. E si ammettevano eccezioni al principio dell’incoercibilità del facere qualora il debitore avesse prestato giuramento e nel caso in cui l’obbligazione derivasse dalla legge, e non da contratto o da testamento8.

La generale recezione del diritto romano delle obbligazioni nell’Europa continentale, che interessò oltre ai “Pays de droit écrit” anche - come ratio scripta, se non come diritto positivo vigente - i “Pays de droit coutumier”9, comportò dunque anche l’acquisizione di questo lascito problematico relativo ai rimedi creditori, che le definizioni di obligatio del Corpus iuris10 non aiutavano a risolvere.

3. L’opera di Pothier come momento di transizione dal diritto comune alla codificazione

Come è noto, il Traité des obligations di Pothier, pubblicato nel 1761, costituisce il passaggio cruciale, influenzato anche dalle dottrine giusnaturalistiche, tra il diritto comune e quello che sarà poi trasfuso nel Code civil.

Con specifico riferimento alle prestazioni di fare e non fare, si enuncia il requisito dello “intérêt appréciable à prix d’argent”, monetariamente valutabile, del creditore (requisito che appare ritenuto intrinsecamente sussistente nelle prestazioni di dare, che implicano un valore della cosa): diversamente, non potendo risultarne, in caso di inadempimento, “dommages et intérêts” a favore del creditore, difetterebbe la giuridicità del vincolo, in 8 Queste diverse questioni, e la loro varia soluzione, risultano già dall’esame dei testi degli Autori, della letteratura consiliare e delle decisioni citati alla nota 6, oltre ai quali v. almeno Azone, Summa codicis, lib. IV, tit. XLVII, nn. 9-10; Dumoulin, Extricatio labyrinthi dividui et individui, Opera Omnia, t. III, Parisiis, 1681, 99, spec. n. 69 e 163, n. 319; Fabri, De erroribus pragmaticorum et interpretum iuris, t. II, Lugduni, 1658, Decad. LXXXV, Error I; Molina, op. loc. cit.9 Astuti, Obbligazioni (storia), b) Diritto intermedio, in Enc, Dir. XXIX, Milano, 1979, 12610 Mi riferisco a Istituzioni (3, 13 pr.): «Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura»; e a Digesto (44,7,3 pr.) «Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum.»

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quanto il debitore potrebbe impunemente non adempiere11. L’affermazione di tale requisito già rivela l’opinione, successivamente esplicitata nella trattazione dell’effetto delle obbligazioni di fare e non fare, che la coercibilità di tali obbligazioni sia affidata alla condanna del debitore inadempiente alla prestazione dell’equivalente monetario dell’interesse del creditore, anziché a un rimedio generale di esecuzione in forma specifica.

Distinguendo gli effetti delle obbligazioni rispetto al debitore e al creditore, sotto il primo profilo, con distinto riguardo alle obbligazioni di dare e a quelle di fare e non fare, sono trattati temi che variamente attengono alla condotta dell’obbligato, alla diligenza e alla connessa responsabilità, al caso fortuito e alla forza maggiore12; mentre i temi della coazione, della responsabilità nel senso delle conseguenze sanzionatorie dell’inadempimento, sono trattati con riferimento alla posizione del creditore13.

Sotto quest’ultimo aspetto, identificandosi come “premier et principal effet” il diritto del creditore “de poursuivre par les voies judiciaires le paiement de ce qui lui est dû”14, si distinguono le obbligazioni di dare da quelle di fare. Riguardo alle prime, se hanno a oggetto denaro o cose fungibili, possono essere pignorati i beni mobili o immobili del creditore, che possono essere venduti forzosamente, così che il creditore possa soddisfarsi sul ricavato15.

Se si tratta di cosa determinata, giacché fino alla consegna essa continua ad appartenere al debitore e il creditore non è titolare di un diritto in re, ma solo del diritto ad rem di esigerla16, occorre distinguere: qualora la cosa non sia nel possesso del debitore, ma di un terzo, il creditore non può ottenerla da quest’ultimo – salvo il caso di insolvenza e frode della quale questi sia stato partecipe – e, quindi, il creditore ha solo diritto, nei confronti del debitore, ai dommages et intérêts17; qualora, invece, la cosa sia nel possesso del debitore, il creditore è autorizzato dal giudice a pignorarla e a immettersi nel possesso, conseguendo dunque, in forma specifica, l’oggetto dell’obbligazione; mentre il debitore non può evitare l’esecuzione offrendo i dommages et intérêts18. 11 Pothier, Traité des obligations, in Traités sur différentes matieres de droit civil, Paris-Orléans, 1781, t. I, Partie I, Chap. I, Sect. 4, n. 138, p 60 (anche nelle note seguenti i numeri delle pagine si riferiscono all'edizione del 1781).12 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. I, pp. 61-64.13 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. II, pp. 64-67. 14 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. II, n. 150, p 64.15 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. II, § I, nn. 155 s., pp. 66 s.16 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. II, § I, n. 151, pp. 64 s. 17 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. II, § I, n. 152, p. 65.18 Pothier, op. cit., Partie I, Chap. II, art. II, § I, n. 156, p. 67. Il tema è trattato più diffusamente dall’Autore nel suo Traité du contrat de vente, in Traités, cit., t. I, Partie II,

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Sembra doversi interpretare il pensiero di Pothier nel senso che l’esito dell’azione giudiziaria, assicurando l’acquisto del possesso sulla cosa, comporta altresì l’acquisto da parte del creditore della proprietà, realizzandosi forzosamente la traditio, quale modus acquirendi.

Peraltro poteva accadere che l’effetto traslativo della esecuzione giudiziaria concernesse solo la detenzione materiale della cosa, se – in virtù di una prassi contrattuale sostanzialmente anticipatoria del principio dell’effetto traslativo del consenso che sarà accolto nella codificazione (infra § 4) – il trasferimento del possesso, e conseguentemente della proprietà, fosse stato effettuato al momento della stipulazione del contratto mediante una pattuizione contrattuale implicante una ficta traditio, che lasciava la detenzione materiale (corpus) all’alienante, costituendo peraltro l’acquirente quale possessore (solo animo). Rispetto a tale evenienza era controverso se la ficta traditio comportasse o meno il trasferimento della proprietà con effetto anche rispetto ai terzi e se, in forza di essa, l’acquirente (in quanto proprietario e creditore di una mera obbligazione di consegnare e non di un’obbligazione di dare nel senso di far acquistare il diritto reale) potesse rivendicare la cosa anche nei confronti di chi si rendesse acquirente in virtù di titolo successivo, e che avesse conseguito anche la materiale detenzione in forza di una traditio reale, nonché con effetto nei confronti dei creditori dell’alienante che avessero compiuto atti esecutivi sulla cosa19. chap. I, sect. I, art. V, § III, n. 68, pp. 485 s., dove riferisce le contrastanti opinioni degli interpreti del diritto romano e argomenta, rispetto a esse, la propria, affermando che la traditio della cosa non è “mero fatto” e quindi non soggiace alla regola propria delle obbligazioni di fare circa la non coercibilità e la conversione nell’obbligazione di pagare i “dommages et intérêts”.19 Pothier, Traité des obligations, cit., Partie I, chap. II, art. II, § I, n. 151, p. 64, pur aderendo alla tradizione che subordinava il trasferimento della proprietà alla consegna della cosa, afferma che il creditore può diventare proprietario della stessa non solo in virtù della "tradition réelle", ma anche di quella "feinte"; e, nel suo Traité du Droit de Propriété, in Traités, cit., t. IV, Partie I, Chap. II, Sect. IV, nn. 193 e 194, pp. 416 s., riconosce come traditio che costituisce un modus acquirendi anche quelle fittizie, risultanti da clausole apposte agli atti di donazione, di vendita o da altri atti simili, e (n. 208, p. 421) cita, tra le clausole che comportano una tradizione fittizia, quella di “costituto”, con la quale l'alienante, continuando a trattenere la cosa presso di lui, dichiara che intende farlo solo per e in nome dell'acquirente. Nel suo Traité du Contrat de Vente, cit., Partie V, Chap. I, Art. II, n. 321, pp. 587 s., riferisce della controversia tra Charondas, Réponses, e Pape, Décisions, 112, e tra i Parlements di Bretagna e Delfinato, circa l'esperibilità, da parte dell'acquirente in forza di "tradition feinte", dell'azione di rivendicazione nei confronti dei creditori dell'alienante che abbiano compiuto atti esecutivi sulla cosa e di altro succes-sivo acquirente che abbia conseguito la "possession réelle"; e aderisce alla soluzione positi-va, con la precisazione che occorre la prova della tradition feinte mediante atto autentico o, in caso di scrittura privata, mediante la prova di fatti dai quali risulti l'anteriorità della

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Ma, a ben vedere, questa problematica concerneva solo la portata nei confronti dei terzi dell’effetto traslativo, riconoscendosi comunque che la traditio ficta, nei rapporti tra le parti, rendeva l’acquirente proprietario e creditore verso l’alienante di una mera obbligazione di consegnare non già creditore di un’obbligazione di dare, nel senso di trasferire la proprietà, essendo questa già “accomplie”20 per effetto dell’atto e della clausola. Tale distinzione, come si vedrà (infra § 4), non fu rigorosamente recepita dai compilatori del code civil, conseguendone una certa confusione terminologica tra “debitore” e “alienante” e tra “creditore” e “acquirente”, che originò delicate questioni esegetiche.

Riguardo alle obbligazioni di fare, giacché nemo potest praecise cogi ad factum, il creditore, in caso di inadempimento, ha solo il diritto di far condannare il debitore inadempiente ai dommages et intérêts, nell’obbligazione di pagamento dei quali “se résolves toutes les obligations de faire quelque chose”21. Rispetto a quelle di non fare vale la stessa regola, salvo il caso che all’inadempimento sia conseguita la costruzione di una cosa che si possa distruggere, avendo allora il creditore il diritto di distruggerla a spese del debitore22.

In conclusione, e in sintesi, ne risulta una organica razionalizzazione delle soluzioni delle questioni dibattute in diritto comune, nel senso che la coercibilità in forma specifica dell’adempimento è ammessa per tutte le obbligazioni di dare, sia che abbiano a oggetto denaro o cose generiche o beni determinati. In quest’ultimo caso, l’azione di adempimento e l’esecuzione forzata sono ammesse per assicurare al creditore l’acquisto del possesso e, mediante la traditio forzosa quale modus acquirendi, del diritto reale. Mentre nell’ipotesi di tradition feinte, essendo l’obbligazione di dare già “accomplie”, l’acquirente del diritto è creditore della sola consegna e potrà conseguirla forzosamente senza che all’esecuzione si congiunga il trasferimento del diritto, già realizzatosi in virtù del contratto e della ficta traditio.

É, invece, esclusa l’esecuzione in forma specifica per le obbligazioni di fare, anche se fungibili, giacché «Nemo potest praecise cogi ad factum», avendo il creditore solo il diritto di ottenere ed eseguire la condanna al risarcimento

data dell'atto che contiene la clausola di ficta traditio rispetto a quella della tradizione reale ad altro acquirente o a quella dell'atto esecutivo di creditori dell'alienante. La con-siderazione di questa problematica sembra essere stata all'origine della distinzione, che si desume dalle disposizioni del code civil, tra l'effetto traslativo nei rapporti tra alienante e acquirente e quello nei confronti dei terzi. 20 Pothier, Traité del Obligations, Partie I, Chap. II, Art.I, n. 151, p. 64. 21 Pothier, op. ult. cit., Partie I, Chap. II, Art. II, § II, n. 157, p. 67.22 Pothier, op. ult. cit., Partie I, Chap. II, art. II, § II, n. 158, p. 67.

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del danno. Si ammette, peraltro, il rimedio specifico della demolizione, a spese del debitore, delle cose costruite in violazione di un’obbligazione di non fare; si rivela così la ratio, eminentemente pratica delle regole affermate, consistente nella concreta possibilità o impossibilità dell’esecuzione forzata; una ragione tecnica, dunque, che sembra prevalere su quella, di impronta ideologica, del rispetto della persona e della volontà del debitore23.

In questo senso, la propensione ad assicurare una tutela effettiva alla posizione del creditore – nonostante la sua intrinseca debolezza derivante dalla dipendenza dalla condotta del debitore – si spinge fino al limite in cui la possibilità di fatto e gli strumenti processuali consentono di attuarla coercitivamente; e ciò vale, pur in termini differenti a ragione della diversità della prestazione, sia per le obbligazioni di dare che per quelle di fare e non fare.

4. Il code civil

L’insieme delle regole pratiche relative ai rimedi coercitivi ricostruite da Pothier è sostanzialmente recepito dal code civil, ma esse, per quanto concerne le obbligazioni di dare, sono inscritte in un quadro dogmatico innovato dall’affermazione del principio dell’effetto traslativo del consenso. L’enunciato delle disposizioni è peraltro attraversato da una problematica tensione tra la declamazione di questo principio e il tradizionale radicamento delle regole pratiche relative al trasferimento della proprietà nel regime delle obbligazioni (di dare) e dell’attuazione forzata delle stesse.

La scelta sistematica di collocare la disciplina delle obbligazioni nel libro terzo, tra le “différentes manières dont on acquiert la propriété”, e l’enunciato dell’art. 711, secondo il quale la proprietà si acquista, oltre che per successione e per donazione tra vivi o testamentaria, anche “par l’effet des obligations”, da un lato attraggano la materia delle obbligazioni in un sistema del diritto patrimoniale incentrato sul modello proprietario e, dall’altro, mostrano la resistenza dell’idea che il trasferimento della proprietà e la costituzione e circolazione di diritti reali sia mediata dall’assunzione di un’obbligazione di dare; mentre una rigorosa concezione dell’efficacia traslativa del consenso sembrerebbe implicare la diretta riconduzione dell’effetto reale alla convenzione, senza l’interposizione di una obbligazione 23 Per una visione che, dai connotati giusnaturalistici del pensiero di Vinnio, riscontra fino al code civil e ai suoi commentatori il legame tra il principio dell'incoercibilità del fare e il primato della volontà, nelle sue connessioni con l'autonomia privata, v. Mazzamuto, op. cit., pp. 35-52.

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di dare, né della sua assunzione da parte dell’alienante né della sua esecuzione mediante la consegna della cosa all’acquirente. Non sembrano infatti logicamente compatibili la concezione che riconduce, direttamente e immediatamente, al consenso l’effetto traslativo e quella che riconduce al consenso l’insorgenza di un’obbligazione di dare – nel senso di trasferire la proprietà –, la quale implica il differimento e la subordinazione dell’effetto traslativo all’adempimento della medesima e di quella, correlata, della consegna della cosa, alla quale il trasferimento consegue24.

L’affermazione normativa dell’effetto traslativo del consenso è ravvisata nell’enunciato del primo comma dell’art. 1138 («L’obligation de livrer la chose est parfaite par le seul consentement des parties»), secondo la comune interpretazione dei commenti al code civil che si susseguirono nei decenni successivi alla sua entrata in vigore25, ed è chiaramente enunciata, con riferimento alla compravendita, dall’art. 1583, che stabilisce che l’acquisto della proprietà da parte dell’acquirente si verifica, riguardo al venditore, dal momento in cui «on est convenu de la chose e du prix, quoique n’ait pas encore été livrée ni le prix payé». E tuttavia le disposizioni generali (cioè non relative a determinati tipi contrattuali) degli artt. 1136 e ss. si esprimono in termini di obbligazione di dare e di debitore e creditore, anziché di alienante e acquirente, confermando la contraddizione tra l’effetto traslativo del solo consenso e l’intermediazione, nella fattispecie acquisitiva, dell’assunzione dell’obbligazione di dare e della sua esecuzione, quale persiste nella formulazione degli enunciati normativi.

La tensione tra i lasciti del diritto comune e il principio consensualistico è stata certamente anche il frutto dell’operatività, fondata su consistenti rationes pratiche, di una serie articolata di regole di soluzione di conflitti di

24 Nell’esposizione dei “motifs” del titolo III del libro III del codice (n. 59), in riferimento all’art. 1138, Bigot Préameneu rilevò che, in virtù del consenso delle parti, il creditore diveniva titolare, non più di un ius ad rem, ma di un ius in re; v. Motifs et discours prononcés lors de la publication du code civil par les divers orateurs du Conseil d’état e du Tribunat, Paris, 1841, p. 430. La contraddizione tra una obbligazione di dare che comporta l’obbligazione di consegnare, ma non si esaurisce in essa, in quanto concerne lo stesso trasferimento di proprietà, e la riconduzione al consenso contrattuale dell’effetto traslativo non mancò di essere rilevata dai commentatori francesi nei primi decenni successivi all’entrata in vigore del codice e diede luogo a differenti interpretazioni, che erano volte a superare, o spiegare, l’aporia, o muovevano dall’aperta denuncia della confusione teorica dei compilatori; v. segnatamente, in quest'ultimo senso, Marcadé, Eléments du droit civil français ou explication méthodique et raisonnée du Code Civil (1842), trad. it. Spiegazione del codice Napoleone, VI, Napoli, 1875, pp. 460 ss., nn. 480 ss. 25 I quali peraltro si divisero sul significato da attribuire all'affermazione che l'obbligazione di consegna «est parfaite» in virtù del consenso.

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interesse (tra le parti e rispetto ai terzi, relative tra l’altro alla circolazione del possesso e della titolarità del diritto, alla natura reale o personale delle azioni esperibili, al trasferimento del rischio) non contenibili nell’affermazione perentoria e assoluta del principio e non tutte suscettibili di essere allo stesso ricondotte in termini di perfetta coerenza. In questo senso, l’analisi dei diversi tentativi di composizione compiuti dai commentatori del code civil ha indotto a una ricostruzione secondo la quale la declamazione dell’efficacia traslativa del consenso rappresenterebbe solo in senso parziale (e sarebbe così riconducibile alla figura retorica della sineddoche) il complesso delle regole relative al trasferimento e alla circolazione26.

Sembra dunque che il code civil – al di là della resistenza dei segni della tradizione e di una certa insicurezza concettuale dei compilatori – determini il tramonto dell’obbligazione di dare, nel senso di trasferire e far acquistare dal creditore la proprietà di una cosa determinata. L’autonomia contrattuale consolida così la capacità di determinare, oltre che gli effetti obbligatori propri (e originariamente esclusivi) dei contractus, anche quelli traslativi e costitutivi di situazioni di appartenenza, che storicamente erano invece subordinati ad atti di adempimento di obbligazioni di dare.

Con l’affermazione del principio consensualistico, e la sostanziale rimozione dell’obbligazione di dare, non si pone più un problema di coercibilità della medesima. Riguardo alla consegna, che non sia materialmente avvenuta al momento stesso del consenso traslativo, l’acquirente, in quanto proprietario, potrebbe avvalersi dell’effetto recuperatorio dell’azione di rivendicazione. Ma dal contratto scaturisce un’obbligazione di consegna, della coercibilità della quale, mediante un’azione personale, non può dubitarsi27: da un lato, si riconosce che l’obbligazione di consegnare non è di mero facere e che la sua coercizione non comporta una restrizione della libertà personale del debitore28, nel senso che la cosa può essere forzosamente appresa, anche contro la sua volontà e senza la sua collaborazione spontanea, giacché l’apprensione forzata della cosa non implica la coercizione di un atto dell’obbligato; dall’altro, la situazione proprietaria del creditore, al di là dell’esperibilità della rivendicazione, sembra corroborare la stessa sua

26 Monateri, La sineddoche, Milano, 1984, pp. 306 ss., 324 ss., 343 ss., al quale rinvio per la completa rassegna e l'analisi critica dei commentatori francesi.27 Si dubita, se mai, della proponibilità dell'azione di rivendicazione a ragione delle regole di diritto francese sulla non cumulabilità delle azioni: v. Monateri, op. cit., pp. 325 s. 28 Duranton, Cours de droit francais, suivant le code civil (1825), trad. it. Corso di diritto civile secondo il codice francese, VI, Torino, 1843, lib. III, tit. III, n. 394, con affermazione, peraltro, specificamente riferita all'obbligazione di consegna di chi concede la cosa in godimento.

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azione personale, fugando i dubbi della sua coercibilità29. Solo la pratica impossibilità di esecuzione, per avere il debitore sottratto alla stessa la cosa mobile, occultandola, farà sì che il creditore potrà soddisfarsi soltanto mediante il risarcimento dei danni30.

Riguardo alle obbligazioni di consegna conseguenti a contratti di concessione del godimento di una cosa determinata, non si dubita dell’esperibilità del rimedio coercitivo in forma specifica31.

Tuttavia può ravvisarsi un’area di persistenza di obbligazioni e di responsabilità dell’alienante nei riguardi dell'acquirente con riguardo all’opponibilità ai terzi degli effetti traslativi, che peraltro non sembrano poter dar luogo a mezzi di coercizione in forma specifica, ma solo al risarcimento dei danni. Mentre una nuova prospettiva problematica viene a delinearsi riguardo all’esplicazione dell’autonomia nel senso di escludere convenzionalmente l’immediata produzione dell’effetto reale e di limitare il contenuto del consenso alla promessa di trasferimento o di costituzione di situazioni di appartenenza, che nel nostro diritto si rifletterà nella ricerca di mezzi di coercizione dell’esecuzione di contratti cosiddetti preliminari.

Per le obbligazioni di fare e non fare, l’art. 1142 stabiliva, adottando la formulazione di Pothier, che esse, in caso di inadempimento, si risolvono nei dommages et intérêts32, riconoscendosi peraltro anche il diritto del creditore di far eseguire l’obbligazione a proprie spese (art. 1144); mentre per le obbligazioni di non fare è stabilito il diritto di distruggere a proprie spese ciò che è stato realizzato in violazione dell’obbligazione (art. 1143) e di ottenere, per il solo fatto della violazione, i dommages et intérêts (art. 1145).

Il disposto dell’art. 1142, nella generalità del suo enunciato, sembra 29 Duranton, Corso, lib. III, tit. III, nn. 393 e 395. Può anzi supporsi che la soluzione della questione pratica della coercibilità – controversa, come si è visto, in diritto comune – abbia concorso all'affermazione codicistica del principio dell'effetto traslativo del consenso, unitamente a fattori ideologici di matrice giusnaturalistica e al consolidamento della prassi contrattuale di cui si è detto discorrendo l’opera di Pothier. Duranton, op. loc. cit., n. 395, sottolinea come l’affermazione di tale principio abbia troncato la questione, dibattuta nell’antico diritto, se il venditore di una cosa determinata potesse essere costretto manu militari alla consegna. E la limitazione del principio ai rapporti tra le parti contraenti sembra valorizzarne la specifica portata che concerne proprio il diritto del creditore-proprietario di ottenere la consegna della cosa mediante esecuzione forzata.30 Duranton, Corso, cit., lib. III, tit. III, n. 393.31 Duranton, Corso, cit.,lib. III, tit. III, n. 394.32 Bigot Préameneu, nei “motifs” del titolo III del libro III del codice (n. 59), con riguardo all’art. 1142, indicò la ragione della disposizione rilevando, con evidente riferimento alle argomentazioni di autori del diritto comune, che nessuno può essere costretto fisicamente a un fare o a un non fare, e che, anche se ciò fosse possibile, comporterebbe una violenza che non può costituire un modo di esecuzione dei contratti; v. la raccolta citata alla nota 88, pp. 430 e s.

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codificare il principio della tradizione “nemo praecise ad factum cogi potest”, implicando l’incoercibilità delle obbligazioni di fare e non fare. Ma l’art. 1143, stabilendo la regola del potere del creditore di ottenere la distruzione di ciò che sia stato realizzato in violazione di una obbligazione di non fare, deroga al principio con riguardo a un’ipotesi in cui la materialità del prodotto dell’inadempimento rende praticamente possibile, mediante la distruzione, la realizzazione forzata dell’interesse creditorio, senza che occorra la costrizione di una condotta del debitore, il quale è soltanto passivamente soggetto all’esecuzione. E l’art. 1144, che consente al creditore di essere autorizzato ad eseguire la prestazione a spese del debitore, presuppone anch’esso la pratica possibilità che ciò avvenga senza la personale cooperazione dell’obbligato, non essendo la sua personale condotta coercibile.

Se nei commenti del code civil dei primi decenni di sua vigenza non mancano spiegazioni di questo regime nel senso del richiamo al rispetto della libertà e della volontà del debitore33, da altri si sottolineano ragioni pratiche legate alla concreta possibilità di sostituire utilmente la personale attività del debitore inadempiente34 o si prospetta l’assimilazione al risarcimento dei danni dei rimedi offerti dagli artt. 1143 e 1144, volti all’esatta determinazione dell’onere sopportato dal creditore35.

Nonostante una certa superfetazione delle affermazioni di principio e le improprietà terminologiche e concettuali che sono state rilevate, emerge nel nuovo regime una prospettiva che privilegia la considerazione della possibilità pratica di attuazione dei rimedi coercitivi, nell’àmbito di una generale aspirazione ad assicurare, nella massima misura possibile, il soddisfacimento in natura della pretesa creditoria, riservando alla responsabilità risarcitoria solo l’àmbito residuale di tutela.

Viene in tal modo a consolidarsi – sviluppandosi tendenze già in atto, non senza contrasti, nell’àmbito del diritto comune – la moderna configurazione dell’obbligazione, che valorizza mezzi di tutela volti a consentire al creditore, nella massima misura possibile, di realizzare l’interesse corrispondente all’adempimento della prestazione originariamente dovuta; con caratteri, dunque, che hanno suggerito la contrapposizione a quella romana, che comportava, invece, la generalizzata sostituzione dell’obbligazione risarcitoria a quella primitiva non adempiuta36.

33 Duranton, Corso, cit., lib. III, tit. III, n. 393.34 Demolombe, Cours de Code Napoléon (1845 e ss.), trad. it. Corso del codice civile, XII, Napoli, 1966, Libro III, tit. III, cap. III, pp. 217 ss., nn. 491 ss.35 Larombière, Théorie et pratique des obligations, Paris, 1857, p. 369, nt. 3. 36 V. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1953, pp. 102 ss., il quale peraltro precisa che «la diretta esigibilità del debito è strettamente connessa alla diretta

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Tuttavia, il regime del codice non appagava l’aspirazione a una più ampia e intensa tutela dell’interesse del creditore all’adempimento della prestazione originaria. Da un lato, i rimedi apprestati dagli artt. 1143 e 1144 trovavano limite nella pratica possibilità di surrogare la prestazione personale del debitore; dall’altro essi comunque realizzavano una forma di coazione indiretta e si risolvevano anch’essi nella conversione dell’oggetto dell’obbligazione in una prestazione pecuniaria, pur concorrente con il risarcimento dei danni ulteriori. Ciò spiega il ricorso, già nei primi decenni di vigenza del codice, allo strumento delle astreintes, prestazioni pecuniarie a carico del debitore e a favore del creditore imposte dal giudice come sanzione dell’inadempimento, in funzione anche della sua durata. La vicenda dell’introduzione e dell’affermazione delle astreintes nel diritto francese, che ha risentito anche dall’ambigua relazione di tale mezzo di tutela rispetto al rimedio risarcitorio, si protrarrà per lungo tempo, segnata da diversi e contrastati orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, nonché da interventi legislativi che hanno interessato anche la seconda metà del novecento37.

Tale rimedio peraltro non assicura in via diretta l’adempimento della prestazione originaria, non costituisce uno strumento di esecuzione forzata della medesima, ma ha una funzione e un potenziale di coazione indiretta, compulsoria, volta a indurre il debitore a un adempimento che, se psicologicamente coercito, resta peraltro, negli àmbiti di inoperatività dell’esecuzione forzata, materialmente libero. Esso, dunque, pur rafforzando la protezione dell’interesse del creditore al conseguimento in natura della prestazione personale dell’obbligato, conferma l’insussistenza e l’impraticabilità di un apparato di strumenti di esecuzione forzata che coprano l’intera area dei rapporti obbligatori.

5. La dogmatica tedesca del secolo XIX. Il pensiero di Savigny e di Windscheid

L’esperienza giuridica italiana dei secoli XIX e XX subì non soltanto l’influenza di quella francese, ma anche, soprattutto dagli ultimi decenni del XIX, quella della dogmatica tedesca ottocentesca, conviene ora soffermarci su quest’ultima.

Essa tende ad abbandonare il tradizionale atteggiamento del diritto comune di adesione tralatizia alle definizioni romane, ricercando una nozione concettuale di obbligazione e gravando questa ricerca costruttiva dei temi, critici e tradizionalmente controversi, della coercibilità e dei modi

eseguibilità di esso per via di esecuzione forzata» (p. 103).37 Per una sintesi efficace v. ancora Mazzamuto, L'attuazione, cit., pp. 52 ss.

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di coercizione, i quali, dal piano delle regole pratiche di risoluzione dei conflitti di interesse, sono trasposti a quello della costruzione della nozione.

La valorizzazione della rilevanza concettuale dei poteri coercitivi del creditore induce, come vedremo, una considerazione problematica della fase del rapporto intercorrente tra l’insorgere dell’obbligazione e il termine dell’adempimento, nel corso della quale non operano ancora i rimedi coercitivi di cui il creditore dispone in caso di inadempimento; e comporta altresì l’emersione di una così come della discrasia tra il contenuto di questi ultimi e alcuni tipi di prestazione oggetto dell’obbligazione, rispetto ai quali non appare configurabile una realizzazione coattiva in forma specifica.

La moderna vicenda dottrinaria che ha investito la nozione di obbligazione viene comunemente fatta risalire al pensiero di Savigny (espresso nel primo volume del suo Sistema di diritto romano attuale, pubblicato nel 1840, e successivamente nel suo, incompiuto, Trattato delle obbligazioni (dei primi anni ‘50).

Ispirato da una concezione dei rapporti tra privati come relazioni in cui si esplica, in àmbiti determinati dalle regole di diritto, il dominio della volontà individuale indipendente da ogni volontà altrui38, e teso a ordinare sistematicamente i rapporti patrimoniali in coerenza con tale visione, Savigny identifica l’obbligazione con il «rapporto di dominio sopra un singolo atto di una persona»: così come il diritto sopra una cosa consiste nel dominio su di una porzione, limitata nello spazio, della «natura non libera», il dominio (signoria) sulle persone, dovendo rispettare la personalità e la libertà di queste, che non devono essere annientate, non può che limitarsi a singoli atti che vengono sottratti alla libertà dell’obbligato e sottoposti alla volontà dell’altro soggetto del rapporto39. Ne risulta la divisione del diritto patrimoniale in diritto sulle cose e diritto di obbligazione40, che sono accomunati, quali materia del «diritto patrimoniale», in quanto, oltre a costituire entrambi una estensione della volontà individuale, sono l’uno e l’altro riducibili al comune elemento del valore pecuniario41: dell’obbligazione infatti possono costituire l’oggetto solo quegli atti umani che possono essere ridotti a una somma di denaro42; così le stesse obbligazioni, potendo stimarsi in una somma di danaro, si convertono nella proprietà di questo, mentre la maggior parte di

38 Savigny, System des heutigen Romischen Recht (1840 e ss.), Sistema del diritto romano attuale, trad. it. di V. Scialoja, I, Torino, 1886, § 52, pp. 335 ss.; e Id., Obligationenrecht (1852), Le obbligazioni, trad. it. di G. Pacchioni, I, Torino, 1912, pp. 4 s. 39 Savigny, Sistema, cit., § 53, pp. 340 ss.; Id. Le obbligazioni, cit., pp. 4 ss.40 Savigny, Sistema, cit., § 56, pp. 367 ss.41 Savigny, op. ult. cit., § 53, p. 342 e § 56, pp. 374 s.; Id. Le obbligazioni, cit., pp. 8 s.42 Savigny, Sistema, § 56, p. 376; e Id., Le obbligazioni, cit., p. 9.

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esse «non hanno altro scopo, che di condurre allo acquisto della proprietà o al godimento temporaneo di essa»43.

Il criterio per distinguere diritti sulle cose e diritti di obbligazione consiste «nel vedere, se la cosa è già di per sé stessa oggetto del nostro diritto, indipendentemente dal fatto altrui, o se il nostro diritto è diretto immediatamente solo ad un fatto altrui, come oggetto sottoposto al nostro potere, anche se quest’atto abbia lo scopo di procurarci il diritto su di una cosa o il godimento delle medesime»44.

I due soggetti del rapporto obbligatorio si trovano in posizione di ineguaglianza: la libertà dell’uno si estende oltre i suoi limiti naturali come signoria sull’altro, mentre rispetto a questo la libertà è ristretta, essendo sottoposta a necessità, a coazione45. Ma in tale visione l’attività del debitore deve essere considerata come l’elemento capitale, come «l’essenza stessa dell’obbligazione», mentre quella del creditore, che consiste nella azione-coazione, deve essere considerata come elemento subordinato: in tutti i rapporti giuridici l’osservanza spontanea del diritto, il «libero riconoscimento e adempimento del diritto» costituisce la situazione fisiologica e normale, mentre la coazione rappresenta la correzione di una situazione «non naturale»46.

In queste ultime precisazioni già si rivela il punto critico di una concezione unificante dei diritti patrimoniali articolata secondo il parallelismo tra diritti sulle cose e obbligazioni, entrambi assunti come espressione del dominio della volontà individuale: la signoria del creditore costituisce un aspetto secondario rispetto alla limitazione della libertà del debitore, ed è destinata a manifestarsi solo nella fase, eventuale e “innaturale”, dell’inadempimento, essendo invece “naturale” il “libero” riconoscimento del diritto altrui e il “libero” adempimento.

E’ questa, nella – ideologicamente orientata e logicamente problematica – tensione tra libertà, volontà, coazione (che del resto, come si è visto non aveva mancato di manifestarsi nel diritto comune), la premessa dell’estenuante disputa dogmatica che dal pensiero di Savigny è stata suscitata, favorita dal successivo sviluppo, nell’àmbito della stessa scuola storica e della pandettistica, di orientamenti formalistici e concettualistici47.

43 Savigny, Sistema, cit., § 53, p. 342 e § 56, p. 371; Id. Le obbligazioni, cit., p. 16.44 Savigny, Sistema, § 56, p. 372.45 Savigny, Le obbligazioni, cit., pp. 4 s.46 Savigny, op. loc. ult. cit.47 Secondo il programma e il metodo di Savigny, la costruzione sistematica muoveva dalla considerazione della realtà storica e sociale e si fondava sulla rilevazione di un «ordine strutturale …insito nella realtà stessa del diritto concepito come organismo vivo»; e si mostrava

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Al vaglio di una verifica attenta alla logica interna e formale dei concetti giuridici, e alla luce di ulteriori elaborazioni dogmatiche (in particolare la costruzione della categoria di diritto soggettivo), la teoria di Savigny manifestava infatti alcune difficoltà di razionalizzazione. Queste concernevano, da un lato, la coerenza dei caratteri della relazione obbligatoria con l’idea di signoria, quale criterio di unità dell’area dei diritti patrimoniali e della categoria dei diritti soggettivi (che veniva costruendosi in derivazione della nozione di rapporto giuridico enucleata da Savigny), e, dall’altro, la tenuta di una correlazione simmetrica tra debito e credito come aspetti, passivo e attivo, della obbligazione intesa come rapporto.

Infatti, nella fase di questo in cui dovrebbe attuarsi la condotta del debitore, quale oggetto del dominio del creditore, quest’ultimo non dispone di alcun potere di intervento direttamente coercitivo che possa costituire l’esercizio della sua signoria. Mentre quest’ultima, come azione e coazione, può esplicarsi soltanto dopo l’inadempimento, quando cioè risulta mancato il contegno dell’obbligato; e il potere del creditore si manifesta allora sui beni del debitore, e non già sulla sua condotta, che pur dovrebbe costituire l’oggetto del diritto; ed è volto al conseguimento, in via giudiziaria ed esecutiva, non dell’attività dell’obbligato, ma della cosa o dell’utilità che avrebbe dovuto esserne il risultato, o del loro equivalente pecuniario. Ne risulta quindi uno sfalsamento e una disomogeneità tra condotta debitoria e potere creditorio, sia quanto al tempo della loro realizzazione che al loro oggetto.

Nel contempo, la conseguente evanescenza dell’idea del dominio sul comportamento altrui sembra dissolvere, quanto all’obbligazione, il comune elemento della signoria attorno al quale si costruiva l’area dei diritti patrimoniali e si incentrava l’elaborazione della categoria dei diritti soggettivi.

Sembra proprio tener conto di tale precarietà Windschied nella sua configurazione dell’obbligazione e dello stesso diritto soggettivo. Egli elabora una comprensiva categoria di diritti personali, che qualifica come «quelli, in forza dei quali la volontà del titolare non è norma al comportamento degli uomini rispetto ad una cosa, ma lo è per un qualsiasi comportamento d’una singola persona»48; e tende ad adattare la configurazione del diritto soggettivo alla posizione creditoria risolvendo l’idea della signoria del titolare nella libertà di determinazione, che il diritto oggettivo gli rimette, «di valersi o no del precetto ed in particolare di porre o no in opera i mezzi garantiti

poco incline alla «irragionevole mania delle astrazioni» (Sistema, vol. I, p. 389 s.) e diffidente verso «la ingannevole apparenza di sicurezza logica» (op. ult. cit., vol. I, §, p. 328).48 Windsheid, Lehrbuch des Pandktenrechts (dal 1862), Diritto delle pandette, trad. it. di Fadda e Bensa, I, § 39, p. 113.

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dall’ordine giuridico contro il recalcitrante»49. É così che il contenuto del credito viene precisato come corrispondente a un precetto che impone al destinatario un comportamento; diritto, dunque, “ad” (auf) un atto, non “intorno” (an) o “sopra” (über) un atto50, con distinzione terminologica che evoca la mancanza di un potere coercitivo diretto sul comportamento.

E tuttavia Windschied non affronta apertamente il problema della coercibilità in forma specifica della prestazione (di qualsiasi prestazione).

Ecco allora che, in consonanza con il clima culturale formalistico e concettualistico che si consolidò nella seconda metà del secolo, lo sforzo di elaborazione dogmatica dei giuristi tedeschi nel campo delle obbligazioni si concentrò sulle costruzioni attinenti al contenuto dei poteri del creditore, all’oggetto del debito e del credito, alla loro qualificazione rispetto a più generali categorie di situazioni soggettive, alla correlazione tra lato attivo e passivo del rapporto, nella considerazione delle diverse fasi del medesimo. E le stesse ricerche storiche, romanistiche e germanistiche (v. infra § 6), portarono alimento alle dogmatiche e alla elaborazione di teorie.

6. Le concezioni patrimoniali dell’obbligazione nella dottrina tedesca

A ragione delle evidenziate esigenze di razionalizzazione, l’idea stessa dell’attività del debitore come oggetto del credito51 venne a essere considerata problematicamente e rielaborata nel senso della sua concezione quale bene, in quanto volta a procurare al creditore un risultato utile52.

Peraltro, la ricerca dell’individuazione di un contenuto del diritto di credito che corrispondesse a un potere del titolare, sul modello del dominio, incontrava la difficoltà di concepirlo come inerente all’oggetto dell’obbligazione identificato nel comportamento del debitore o, sia pure, nel bene che esso è volto a procurare. Si rilevava al riguardo che, se il potere del creditore si esplica nel conseguimento della condanna del debitore e nella esecuzione forzata, deve riconoscersi che, mentre il titolare di un diritto reale può ottenere la cosa stessa che ne è oggetto, il titolare di un diritto personale patrimoniale può ottenere soltanto un equivalente pecuniario

49 Windsheid, op. cit., I, § 37, p. 108.50 Windsheid, op. cit., II, § 250, p. 3, e spec. nt. 2. 51 Kuntze, Die Obligation und Singularsuccession des röm undheut Rechts, Leipzig, 1856, p. 115.52 Hartmann, Die Obligation, Erlangen, 1875, pp. 32 ss.; H. Siber, Zur Theorie von Shuld und Haftung nach Reichsrecht, in Jherings J.L. (1900), pp. 77 ss. e 85 ss.; Id., Der Rechtszwang im Schuldverhälten, Leipzig, 1903, § 18, p. 154 ss.

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o il risarcimento dei danni53; riemergendo in tal modo, sul piano delle costruzioni dogmatiche, il problema pratico agitato nel ricordato dibattito di diritto comune.

Per altro verso, lo sviluppo consequenziale dell’idea che il credito abbia a oggetto l’attività del debitore indusse a riconoscere che esso consiste nel diritto a che altri agisca, e a escludere che il titolare possa positivamente incidere su tale (libera) azione54. Ne risulta uno stato di sostanziale impotenza55 che svela la precarietà della riconducibilità del diritto di credito a una categoria di diritto soggettivo costruita sul modello proprietario del dominio.

Nel clima della cultura giuridica tedesca degli ultimi decenni dell’800, che vede l’affermarsi di una visione – del resto ricca di risalenti precedenti storici – che attribuisce «valore e contenuto di realtà alle parole con le quali ci si esprime» e assume i concetti quali «“entità” date, di cui sia da cogliere e individuare l’”essenza in quanto tale”, come si trattasse di una “cosa reale” o quanto meno “ideale”»56, non potevano appagare formulazioni che, pur rappresentando, in una sintesi efficace, realistica e ragionevole57, i tratti caratteristici del rapporto obbligatorio, non soddisfacevano le ambizioni a una superiore e armonica perfezione logica. Così, l’affermazione che il diritto soggettivo del creditore ha a oggetto la prestazione del debitore, e che le prerogative del titolare consistono nel potere di coercizione che si esprime nella domanda di condanna e nell’esecuzione forzata della sentenza, pur descrivendo realisticamente il rapporto e i tratti cruciali della sua disciplina, non sembrava corrispondere all’aspirazione a una rigorosa costruzione concettuale, che si voleva dovesse perfettamente conciliare i caratteri della categoria del diritto soggettivo, e delle corrispondenti prerogative del titolare, con la configurazione del diritto di credito, con la identificazione dell’oggetto del medesimo e dei poteri che implica, così come con la configurazione della correlativa e simmetrica posizione del debitore e con l’identificazione del suo oggetto. Nella constatata impossibilità di farlo – a ragione segnatamente della non corrispondenza tra l’oggetto del diritto, identificato nella prestazione, e il risultato pratico della coercizione giudiziale 53 E’ questa la tesi di fondo Ziebarth, Die Realexecution und die Obligation mit besonde-rer Rücksicht auf die Miethe, Halle, 1866.54 Sohm, Der Begriff des Fordezungsrechts, Grünhust Zeitschrift, IV (1877), pp. 457-474.55 Sohm, op. cit., p. 472, secondo il quale potenza e impotenza sarebbero, rispettivamente, l’essenza del diritto reale e del diritto di credito. V. al riguardo i rilievi di L. Mengoni, L’oggetto della obbligazione, Jus, 1952, pp. 159 s.; e già Polacco, Le obbligazioni, cit., pp. 83 ss.56 Le efficaci formule rappresentative di questo atteggiamento culturale sono quelle di R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, pp. 386 ss.57 Lo stesso ricorso a suggestive metafore, così frequenti in Savigny, non sempre implicava la corrispondenza delle stesse a entità concettuali con le caratteristiche ora indicate.

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ed esecutiva, che non consiste (o non sempre consiste) nella realizzazione della condotta del debitore – non restava che scomporre i diversi elementi e tentarne una diversa articolazione concettuale.

Un decisivo contributo in tal senso dovevano offrire le ricerche storiche, romanistiche e germanistiche, sulle quali possiamo solo limitarci ad alcuni cenni.

Così, riguardo all’obligatio romana 58, si affermò che essa non attiene alla realizzazione della prestazione, ma alla costituzione della persona obbligata a oggetto sul quale il creditore potrà rivalersi se la prestazione non sia eseguita59. Essa dunque consiste in un rapporto tra il creditore e la persona fisica dell’obbligato, considerato come pegno e oggetto sul quale il primo possa soddisfarsi, ovvero, in epoca più recente, in un rapporto tra il creditore e il debitore in quanto questo dispone di un patrimonio, sul quale potrà essere soddisfatto il credito60.

Nell’àmbito della ricerca storica germanistica maturò poi una concezione che, sottolineando anch’essa l’aspetto della soggezione dell’obbligato all’azione del creditore nel caso in cui la prestazione non sia adempiuta, rivaluta il debito di prestazione che, secondo la dottrina prima riferita, veniva a essere sostanzialmente espunto dal “concetto” del rapporto obbligatorio61. Così si colgono nelle fonti due distinti rapporti, quello di debito (Schuld) e quello di obbligazione (Haftung). Il debito consiste nel dover eseguire una data prestazione; l’obbligazione, o responsabilità, consiste nelle conseguenze, personali o patrimoniali, che a carico di una determinata persona si producono per effetto del mancato adempimento di un debito suo proprio o altrui. I due aspetti, pur se coesistenti, sono tuttavia sempre distinti e indipendenti, e diverse possono essere, nella varietà dei rapporti, le persone del debitore e dell’obbligato.

Questa ricostruzione trovò conferma in successive ricerche storiche e si consolidò come universalmente riconosciuta nella dottrina germanistica62. Essa si affermò poi anche, nel primo ‘900, con riguardo al diritto tedesco attuale63.58 Brinz, Der Begriff obligatio, in Zeitschrift für das Privat-und offentlioche Recht der Gegenwart, I (1874), pp. 11-40; e nel successivo scritto pubblicato in Archiv. Für die civ. Praxis, LXX (1886), pp. 371 e ss. 59 Brinz, Der Begriff, cit., p. 14.60 Brinz, op. ult. cit., p. 18.61 Amira, Nordgermanisches Obligationenrecht. Erster Band. Allschwedisches Obligationenrecht, Leipzig, 1882; Zweiter Band. Westnordisches Obligationenrecht, Leipzig, 1895.62 Gierke, Schuld und Haftung im aelteren deutschen, Recht, Breslau, 1910.63 Pur nella varietà di opinioni su specifici aspetti e su alcune prospettive costruttive, v., in senso favorevole, Isay, Schuldverhältnis und Haftungsverhältnis im heutigen Recht in Jherings Jahrbücher für die Dogmatik, vol. 48 (1904), p. 187-208; Duemchen, Schuld und Haftung,

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Nell’àmbito di questo dibattito dottrinale si enuclea anche l’idea che il diritto del creditore di soddisfarsi non sia già diretto contro la persona del debitore, ma contro i beni appartenenti al suo patrimonio64, e si configuri come diritto di aggressione patrimoniale, al quale corrisponda non già un vincolo obbligatorio, ma uno stato di soggezione patrimoniale del debitore65.

Una valutazione complessiva degli orientamenti di teoria generale del rapporto obbligatorio della dottrina tedesca tra gli ultimi decenni dell’800 e lo scorcio di inizio ‘900, al di là dei dissensi e della specificità delle opinioni individuali, permette di enucleare alcuni aspetti significativi che consentono di meglio cogliere il senso di una vicenda dogmatica che era destinata ad esercitare un’influenza cruciale sul dibattito che si sarebbe sviluppato tra i civilisti italiani.

L’articolazione della nozione di obbligazione nel rapporto di debito e nel rapporto di responsabilità è stata l’occasione per indagare fenomeni e regole che, proprio per la loro specificità e marginalità, furono eletti a terreno di riscontro della comprensività e tenuta delle elaborazioni concettuali: obbligazioni naturali, oneri reali, debiti fondiari, garanzie reali prestate dal terzo non debitore, fideiussioni per debito condizionale, e così via. Si enuclearono di conseguenza ipotesi di debito cui non corrisponde un diritto del creditore di esigere e di soddisfarsi coattivamente, e quindi una responsabilità; ovvero, per converso, situazioni di responsabilità senza debito, o, più attendibilmente, di debito e responsabilità gravanti su soggetti diversi. E si costruirono schemi logici che contemplavano posizioni del creditore di “dover avere”, di “dover ricevere”, alle quali non corrispondevano un “dover

insbesondere bei den Grundpfandrechten. Die Reallasten in Jherings Jahrbücher, 54 (1909) pp. 355 ss.; Ströhla, Schuldübernahme, in Jherings Jahrbücher, 57 (1910) pp. 231 ss., spec. § 3; Gierre, op. cit. e Schuldnachfolge and Haftung, insbesondere kraft Vermögensübernahme, Berlin, 1911; Schwerin, Schuld und Haftung im geltenden Recht, München und Berlin, 1911; contra Siber, Zur Theorie von Schuld und Haftung nach Reichsrecht, in Jherings Jahrbücher, 50 (1906) pp. 55, e, sostanzialmente, J. Kohler, Substanzrecht und Wertrecht, in Archiv. Für die civilistische Praxis, 91 (1901), pp. 172 ss., il quale limita il contenuto dell’obbligazione al dovere di prestazione, e considera il diritto del creditore di convertire il patrimonio del debitore in denaro come uno strumento di realizzazione coattiva che l’ordinamento accorda al titolare in conseguenza dell’inadempimento, ma che non costituisce un potere già originariamente inerente al credito. Un’ampia e approfondita rassegna della dottrina tedesca in materia si trova in Gangi, Scritti giuridici vari, I, Padova, 1933, pp. 109-312.64 Schulz, System der Rechte auf den Eingriffserwerb, in Archiv. Für die civ. Praxis, 105 (1909),p. 228.65 Ennecerus, Lehrbuch des bürgerliches Rechts18, vol. I, parte 2°, Marburg, 1923, § 226, pp. 6 s., nel quadro di una ricostruzione che colloca la responsabilità patrimoniale al di fuori del contenuto del credito e del debito.

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prestare” di un soggetto debitore.Risultava quindi problematica la stessa assunzione di una correlatività

tra posizione attiva e posizione passiva, unitariamente considerate, articolandosi il rapporto obbligatorio nella coppia di rapporti debito-credito e responsabilità-coercizione.

Per altro verso, se la costruzione del rapporto di responsabilità soddisfaceva alla esigenza di ricomposizione dell’unità della categoria del diritto soggettivo attorno all’idea della signoria, alla quale era riconducibile il potere di aggressione patrimoniale del creditore, la posizione attiva correlata al debito di prestazione rivelava tutta la sua debolezza coercitiva e la sua problematica riconducibilità a quella categoria, potendo essa solo avvalersi della proiezione sul rapporto di debito della forza delle prerogative creditorie inerenti a quello di responsabilità, in virtù del potenziale di coazione psicologica che si riverbera sulla fase anteriore all’inadempimento.

Nel contempo, la configurazione del diritto di aggressione patrimoniale del creditore sui beni del soggetto responsabile come diritto su cose, apriva un ulteriore fronte di dibattito circa la sua qualificazione in termini reali o personali, o come pegno sul patrimonio (secondo la discussa formulazione dell’art. 2093 del code civil) o come pegno su beni; mentre non mancò chi prospettò la sottrazione di questa posizione giuridica del creditore all’àmbito del rapporto interprivato per ricondurlo all’area pubblicistico-processuale, implicando il ricorso alla forza dell’apparato coercitivo dello stato.

E l’indagine circa la relazione tra debito e responsabilità sollevò una problematica ulteriore circa la configurabilità dell’adempimento del terzo e della esecuzione forzata satisfattiva come attuazione del rapporto di debito ovvero come suoi meri surrogati e, per quanto riguarda la seconda, come mero rimedio all’inadempimento. Così si evidenziava la problematicità della assunzione dello stesso diritto di aggressione patrimoniale quale mezzo di coercizione all’adempimento, e, quindi, quale elemento coattivo sul quale fondare la stessa vincolatività del rapporto di debito e la configurazione come diritto soggettivo della posizione di aspettativa creditoria anteriore all’inadempimento.

Il contenuto delle teorie, il metodo di costruzione delle medesime, la stessa considerazione di alcuni aspetti della disciplina dei rapporti come elementi problematici rispetto all’elaborazione di una dottrina generale dell’obbligazione, evidenziano i caratteri del comune atteggiamento mentale dei giuristi, e delle concezioni e assunzioni metodiche che lo fondano, dei quali già si è detto introducendo l’illustrazione della vicenda dogmatica che si sviluppò a partire dal pensiero di Savigny.

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In questo senso, i temi cruciali del diritto comune e dell’esperienza giuridica francese consistenti nei mezzi di coercizione esperibili dal creditore per la realizzazione del proprio interesse veniva trasposto da problema di disciplina dei rapporti obbligatori e dei rimedi all’inadempimento in quello della costruzione, e scomposizione, dei concetti di obbligazione e di credito.

7. La dottrina italiana nella vigenza del codice del 1865. La tradizione, il modello francese, le teoriche degli autori tedeschi

Il codice italiano del 1865 ha sostanzialmente recepito la disciplina del code civil.

Il principio secondo il quale la proprietà e gli altri diritti reali si trasferiscono e si costituiscono per effetto del consenso legittimamente manifestato è affermato dall’art. 1125, ma senza più alcun riferimento all’obbligazione di dare. In tal modo, con un significativo affinamento rispetto alle formulazioni del code civil, sembrano rimossi gli equivoci da esse suscitati circa la persistente intermediazione, nella vicenda traslativa, delle obbligazioni di dare.

Nell’assenza di una definizione legislativa di obbligazione, elementi di una nozione possono peraltro desumersi dall’art. 1218 che enuncia il vincolo del debitore all’adempimento e «in mancanza al risarcimento dei danni», omettendo la previsione di un generale rimedio coercitivo e apparentemente affidando una funzione di mera coazione indiretta e psicologica alla sanzione consistente nella, secondaria, obbligazione risarcitoria. In questo senso, appare recepito, in linea generale, il principio di diritto comune «nemo ad factum praecise cogi potest», limitato peraltro dai rimedi della esecuzione a spese dell’obbligato inadempiente delle prestazioni di fare fungibili (art. 1220) e della distruzione di ciò che sia stato realizzato in violazione di un’obbligazione di non fare (1222), nonché da altri, pur non espressamente enunciati dalla legge, ma ammessi dagli interpreti.

Come nel code civil manca una disposizione circa la coercibilità in via di esecuzione forzata della consegna di cose determinate, che peraltro, come si vedrà tra breve, viene comunemente ammesso, in conformità con le opinioni manifestate dai commentatori francesi e di un orientamento risalente del diritto comune.

Nel periodo interessato dalla vicenda dogmatica di cui si è riferito nel precedente paragrafo, in Italia continua a dominare la concezione personale

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dell’obbligazione, che ne identifica l’oggetto nella prestazione, intesa come comportamento, del debitore66, in consonanza con la dottrina classica della tradizione romanistica, e di quella francese. La coercibilità della prestazione e l’esigibilità della stessa da parte del creditore, nei limiti della possibilità pratica di attuazione forzosa, sono concepiti in modo non dissimile dalla tradizione di diritto comune e – con le innovazione costituite dalla recezione del principio dell’effetto traslativo del consenso e dei rimedi di cosiddetta attuazione in forma specifica delle prestazioni fungibili di fare e di quelle di non fare – del diritto francese.

Sempre secondo la tradizione, la dottrina era aliena da sforzi di configurazione concettuale della situazione giuridica del creditore, né si preoccupava della sua corrispondenza simmetrica con quella del debitore e della sua relazione con la categoria del diritto soggettivo.

Ma i risultati delle ricerche storiche e di diritto attuale degli studiosi tedeschi ebbero rilevanti ripercussioni sulla dottrina italiana, suscitando fervore di studi e un vivace dibattito, mentre la stessa letteratura romanistica offriva inaspettati contributi.

L’importanza, «dal punto di vista della teoria giuridica e dal punto di vista storico», degli studi della dottrina tedesca fu dapprima segnalata ai giuristi italiani dal Pacchioni67, il quale poi ne trasse spunto per sviluppare – in una serie di studi nei quali confluirono via via elementi dei precedenti scritti – una propria elaborazione costruttiva che, muovendo dalla trattazione storico-dogmatica, era riferita anche al diritto italiano allora vigente68. E altre voci

66 Gianturco, Diritto delle obbligazioni, Lezioni di diritto civile, Napoli, 1894, pp. 7 ss.; Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano7, vol. I, rist., Firenze, 1924 (la prima ed. è del 1876), pp. 2 ss.; F. Ricci, Indole e fonti delle obbligazioni e dei contratti, Torino, 1892, pp. 1 ss.; V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano2, Roma, 1915, pp. 7, 23 s., 34 ss., nonché 73-93, ove – nei paragrafi 16 bis, 16 ter e 16 quater aggiunti nella seconda edizione (la prima è del 1898) – sono confutate le concezioni cosiddette patrimoniali di giuristi tedeschi e italiani; e, in particolare, pp. 184 s., dove si identifica l'oggetto dell'obbligazione in una prestazione, «cioè un'azione del debitore in confronto del creditore», precisandosi che sono «contenuto» della prestazione od «oggetto mediato» dell'obbligazione le «cose» ovvero i «servigi (fatti)» che l'azione concerne; non senza peraltro avvertire della «perfetta indifferenza nei riguardi pratici» della questione, «onde il seguire l'una piuttosto che l'altra concezione è cosa che in fondo lascia il tempo che trova». E v. G. Lomonaco, Delle obbligazioni e dei contratti in genere2, in Il diritto civile italiano, a cura di P. Fiore, Napoli-Torino, X, rist., 1924, p. 23: «L'oggetto dell'obbligazione non è mai sempre direttamente una cosa determinata, ma solo un atto determinato, una prestazione che il creditore ha da chiedere dal suo debitore e dalla sua persona».67 Pacchioni, Sul concetto dell’obbligazione, in Studi giuridici dedicati e offerti a Francesco Schupfer, Torino, 1898, pp. 203-214.68 Pacchioni, La successione singolare nei debiti e le teorie germanistiche sul concetto

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si espressero secondo le direttrici tracciate dalla dottrina tedesca69, mentre da essa traevano spunti anche considerazioni di teoria generale del diritto in ordine alla classificazione delle norme e delle situazioni giuridiche soggettive70.

Il pensiero di Pacchioni è particolarmente significativo sia per i contenuti della teoria espressa, che costituirono termini di riferimento del successivo dibattito, sia per le assunzioni dogmatiche e metodiche che esso presupponeva. Sotto questo secondo profilo, deve constatarsi come venga a impostarsi una comunicazione tra giuristi tedeschi e italiani il cui oggetto primario è costituito da concetti trattati come formazioni logico-giuridiche che trascendono i rispettivi ordinamenti positivi e che anzi improntano di sé la disciplina dei rapporti in virtù di logica necessità. Non si tratta dunque di uno scambio culturale mosso da intenti comparativi, ma di un impegno scientifico condiviso su di un oggetto che è assunto come comune perché investe i dogmi, mentre le discipline positive tendono a essere preminentemente riguardate come momento di svolgimento e di riscontro dei medesimi.

Questi saranno del resto le assunzioni e il metodo che larga parte della dottrina italiana per lungo tempo adotterà. Significativa in proposito è la perentoria affermazione secondo la quale la «distinzione fra il concetto di debito e quello di rispondenza» non è una «singolarità del diritto germanico», essa «non può, a ben vedere, essere estranea ad alcun diritto in quanto è concettualmente necessaria»71.dell’obbligazione, in Riv. dir.comm., IX (1911); Concetto dell’obbligazione naturale, nota a Cass. Torino 9 maggio 1911, in Riv. dir. comm., X, (1912), II, p.400 ss.; Il concetto dell’obbligazione, in Riv. dir. comm. XXII (1924), pp. 209 ss., Diritto civile italiano3, parte II, vol. I, Padova, 1941, pp. 3-62; Appendice I alla sua già citata traduzione italiana del Trattato sulle obbligazioni di Savigny.69 Rocco, Studi sulla teoria generale del fallimento, in Riv. dir. comm., VIII (1910), I, pp. 669 ss. e 855 ss.; Id., La realizzazione dell’obbligazione nel fallimento del debitore, ibid., pp. 682 ss.; E. Redenti, Natura giuridica della cambiale e dell’obbligazione cambiaria, in Riv. dir. comm., X, (1912), pp. 933 ss.; Gangi, Debito e responsabilità nel diritto privato odierno, Puntata I, Roma, 1914.70 Brunetti, nelle sue opere Delitto civile, Firenze, 1906, pp. 525-569 e 617-629 e Norme e regole finali, Torino, 1913, passim, distingue le norme giuridiche assolute che impongono incondizionatamente doveri, la cui violazione dà luogo alla comminatoria di una pena, da quelle che impongono regole di condotta solo relative che devono essere osservate solo in quanto si voglia conseguire un determinato fine, e la conseguenza dell’inosservanza delle quali consiste soltanto nel mancato conseguimento di quest'ultimo. La generalità delle norme che impongono obbligazioni civili apparterrebbero alla seconda categoria, in quanto la loro violazione non produrrebbe altro effetto che l’assoggettamento del patrimonio del debitore all’azione del creditore volta alla realizzazione del valore della prestazione, essendo il debitore libero di adempiere o meno, conseguendo nel primo caso lo scopo di sottrarsi all’esecuzione, v. spec. Brunetti, Il diritto del creditore, in Riv. dir. comm. XIV (1916), pp. 147 ss. e 282 ss. 71 Pacchioni, Il concetto dell’obbligazione, cit., p. 218; e v. già C. Schwerin, op. loc. ult. cit.

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La costruzione di Pacchioni72 può così riassumersi. L’obbligazione è composta di due distinti elementi, il debito e la rispondenza, i quali «danno luogo a due distinti rapporti e due coppie di termini correlativi». Il rapporto di debito consiste nel dovere del debitore, come «stato di pressione psicologica» indotto dall’esistenza di una norma che gli impone di eseguire la prestazione, e nella «legittima aspettativa» del destinatario della prestazione stessa, quale «stato di fiducia giuridica». Il rapporto di rispondenza è costituito da uno «stato di assoggettamento» di una o più cose o di un intero patrimonio e dal correlativo diritto del destinatario della prestazione di valersi di tale assoggettamento; diritto che, nella fase anteriore all’inadempimento, consiste nel potere di «controllo gestorio» volto ad assicurare che non siano pregiudicate le ragioni del credito, mentre, nella fase successiva all’inadempimento, consiste nel potere di aggressione diretta sulle cose o sul patrimonio assoggettato. Può darsi che la prescrizione di un dovere non renda debitore alcun soggetto, potendo essa implicare soltanto un «dover avere» di una determinata persona senza che vi corrisponda il «dover dare» di un’altra, come accadrebbe nell’ipotesi in cui un contraente garantisca all’altro un dato risultato indipendentemente da una propria attività volta a determinarlo.

Secondo questa prospettiva, solo riguardo al rapporto di rispondenza può parlarsi di «un vero e proprio diritto», il quale però, anche quando la responsabilità non investe singoli beni ma un intero patrimonio, non è rivolto verso la persona, ma cade sui beni, sul patrimonio e, in tal senso, ha natura di diritto reale, di garanzia73. L’esercizio di tale diritto, peraltro, non comporta il conseguimento della prestazione, l’adempimento del debitore, ma solo un surrogato ottenuto in via di esecuzione forzata. Così, ripudiandosi la stessa distinzione tra diritti reali (tali essendo tutti quelli riconosciuti dalla legge sul «mondo esteriore») e personali, si identifica come elemento caratterizzante dell’obbligazione la centralità del dovere giuridico su cui si innesta il diritto di garanzia sul patrimonio.

Questa complessa costruzione contiene in sé tutti gli elementi cruciali di un dibattito che si svilupperà per circa mezzo secolo, e su di essi dovranno misurarsi le stesse dottrine personali, talché anche formule oggi correnti ne recano ancora l’eco, pur essendo quasi svanita la percezione della loro problematicità.

72 Mi riferisco in particolare a Il concetto dell’obbligazione, cit., e a Diritto civile italiano, cit.73 Anche A. Rocco, nelle opere citate alla nota 69, afferma la natura reale del diritto del creditore che si realizza nel processo esecutivo, specificando che si tratterebbe di un pegno.

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8. Lo sviluppo del dibattito nella dottrina italiana sotto il codice del 1865

Il dibattito che ne seguì nella dottrina italiana fu segnato, da un lato, da una vasta adesione alle nuove teorie, quantomeno nel senso del recepimento della distinzione tra debito e rispondenza – pur nella varietà degli orientamenti costruttivi, che già del resto si era manifestata in Germania – , e, dall’altro, da opinioni fortemente critiche, che però non poterono mancare di tener conto di profili problematici dell’analisi dei rapporti obbligatori che emergevano dagli studi degli autori tedeschi.

Le opposizioni alle nuove teorie si manifestarono – da subito e per lungo tempo –, prima ancora che sul merito, sul metodo, sull’astrattezza del linguaggio e delle costruzioni, sulla dubbia rilevanza pratica di queste ultime. Si parlò, con caustici accenti, di «svaghi innocenti»74; di «filosofiche discettazioni», «nebulose astratte», «sport metafisico riservato ai più sottili ingegni» e di «perfetta indifferenza nei riguardi pratici» dell’una e dell’altra concezione75; di «eccessi riprovevoli, che hanno piuttosto oscurato la nozione dell’obbligazione», dubitandosi che quelle dottrine siano «praticamente util(i) e dogmaticamente efficac(i)»76; nonché, più recentemente, di «vuote astrazioni logiche», che trascurano «la vera natura del rapporto obbligatorio, quale è nella realtà della vita»77 e di «abusi del costruzionismo infecondo» e di «trascendentalismo oscuro»78.

Si manifestò dapprima l’autorevole voce critica di Polacco. Egli innanzitutto chiarisce79 l’opinione da lui precedentemente espressa80, secondo la quale nelle obbligazioni si instaurerebbe «un vincolo tra due patrimoni considerati come personalità astratta», nel senso che con tale formula ci si limita a «personificare i patrimoni», senza porre in discussione

74 Perozzi, Le obbligazioni romane, Bologna, 1903, p. 25. 75 Sono tutte espressioni di Polacco, Le obbligazioni, cit., le prime due tratte dalla pre-fazione alla seconda edizione dell'opera, la terza, a p. 84, è riferita in senso generale alla giurisprudenza concettuale (Begniffsjurisprudenz), mentre l'ultima, a p. 185, concerne il contrasto di opinioni circa l'oggetto delle obbligazioni. Sulla parte avuta da Polacco nel dibattito di fine '800, v. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Bari, 2000, p. 190. Fadda, Teoria generale delle obbligazioni, Lezioni di diritto romano, Napoli, 1902, p. 25 giunse a tacciare di «dispute di carattere piuttosto teologico» già il dissenso tra Savigny e Windschied sul contenuto del diritto di credito.76 De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile3, II, Napoli, 1923, p. 12.77 Coviello (junior), L'obbligazione negativa (contributo alla teoria delle obbligazioni), Napoli, 1931, pp. 1 s.78 Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, I, La struttura, Milano, 1946, pp. 10 e 48.79 Polacco, Le obbligazioni, cit., I, Roma, 1915, pp. 34 ss.80 Polacco, Dazione in pagamento, I, Padova, 1888, p. 148.

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la distinzione tra diritti reali e personali. Ribadisce quindi l’adesione «a distinzioni e dottrine ormai secolari»81, sviluppando una critica serrata delle teorie degli autori tedeschi, di Pacchioni e di Rocco, le quali, scomponendo l’obbligazione nei rapporti di debito e responsabilità, rompono l’unità del rapporto obbligatorio, rendono evanescenti le posizioni giuridiche anteriori all’inadempimento del debitore e risolvono in diritto reale le prerogative coercitive del creditore82.

Tuttavia, pur nella diffidenza per le esasperazioni concettualistiche delle nuove dottrine, si avverte uno sforzo di conciliazione, laddove si riconosce che «nello stadio esecutivo il vero ente vincolato è il patrimonio»83 e che nel vincolo obbligatorio possono identificarsi, non due distinti rapporti, ma «due momenti distinti: 1° il vincolo generale del debitore ad una prestazione, sotto comminatoria, 2° di realizzare il vincolo sul patrimonio»84, ferma però la consistenza giuridica del primo momento in virtù della forza coattiva del secondo, ma sottolineandosi il carattere normale e naturale dell’adempimento spontaneo.

Nella letteratura trattatistica e istituzionale vengono solitamente ribadite le concezioni classiche, segnatamente quella della prestazione come condotta del debitore; ma, pur criticandosi le nuove teorie, si riconosce che alcune delle considerazioni da queste proposte, come quelle sulla distinzione tra debito e rispondenza, possono valere a «lumeggiare il concetto dell’obbligazione»85 e, in particolare, a mettere in evidenza il profilo della coazione, senza il quale non potrebbe riconoscersi la giuridicità del vincolo86.

81 Polacco, Le obbligazioni, cit., p. 37.82 Polacco, op. ult. cit., pp. 73-93.83 Polacco, op. ult. cit., p. 73.84 Polacco, op. ult. cit., p. 77. Per una analoga prospettiva di contemperamento tra aspetti personali e patrimoniali v. Carboni, Della obbligazione nel diritto odierno. Concetto e contenuto, Torino, 1912, pp. 36 ss.85 De Ruggiero, Istituzioni, cit., p. 12.86 Ferrara (senior), Trattato, cit., p. 311: «Il dovere giuridico porta con sé come contenuto immanente la coazione, e perciò la responsabilità non è che una conseguenza del rapporto obbligatorio. Il debito non è semplicemente il dover prestare, ma il dover prestare sotto la coazione dell'ordine giuridico, e perciò conduce non solo alla volontaria prestazione dell'obbligato, ma in caso di inadempienza alla coattiva esecuzione dell'obbligazione, e dove questa non è possibile o non basti, al risarcimento (sostituzione od integrazione del debito primario). Il diritto di aggressione del creditore sul patrimonio dell'obbligato non è che un effetto normale ed essenziale del diritto di credito, senza il quale sarebbe questo un diritto illusorio». In un'analoga prospettiva si esprimerà Maroi, Obbligazione, voce del Dizionario pratico del diritto privato, vol. IV, Milano Appiano Gentile, 1913-1934, pp. 243 s., il quale riafferma la dottrina classica della natura personale, indicando nella responsabilità, che non scinde il contenuto unitario dell'obbligazione, il momento, successivo ed eventuale rispetto

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Ecco dunque che le stesse voci ostili all’accoglimento delle nuove teorie devono tener conto di aspetti che le dottrine classiche erano solite trascurare; in particolare: la rilevanza del momento coercitivo, considerato non solo come dato della disciplina e come tratto di una descrizione realistica ed esauriente del fenomeno obbligatorio, ma anche nella prospettiva della definizione della situazione giuridica del creditore; la connessa precarietà di formule definitorie tutte incentrate sulla prestazione come comportamento del debitore e sul generico riferimento alla giuridicità del vincolo conseguente alla sanzione dell’inadempimento, rispetto alla quale si poneva il problema della effettiva coercibilità diretta e dei relativi limiti; la correlazione della tematica delle obbligazioni con quella dell’esecuzione forzata e della responsabilità patrimoniale (che del resto non avevano mancato di cogliere, già in via autonoma, e pur con accenti e opinioni differenti, autori francesi87 e italiani88, sulla scorta della formula – invero più suggestiva e metaforica che tecnica – dell’art. 2093 del code civil, che qualifica i beni del debitore come “gage” comune dei suoi creditori, come “garanzia comune” secondo l’espressione dell’art. 1949 del nostro codice del 1865.

Riguardo ai profili coercitivi, si è lamentato lo scarso contributo offerto dai processualisti89 e l’insoddisfacente elaborazione della dottrina civilistica90, che si sarebbe limitata a «blande teorizzazioni o meri auspici de lege ferenda»91.

Se è vero che i civilisti di orientamento tradizionale non si mostrarono inclini a una sistemazione dogmatica del complesso dei rimedi di attuazione del rapporto obbligatorio in caso di inadempimento del debitore, e del rapporto di questa con l’esecuzione forzata e con misure coercitive indirette, non può disconoscersi l’attenzione, quantomeno di alcuni di essi, alla ricostruzione organica delle regole pratiche applicabili a diversi casi e prestazioni. Non solo troviamo affermata, in apparente ribaltamento del principio enunciato dall’art. 1218, la regola generale dell’esecuzione diretta, limitata da eccezioni ricondotte all’impossibilità pratica di realizzarla, oltre che da ragioni assiologiche92, con un richiamo al principio della “libertà

all'inadempimento, che garantisce la coattività del vincolo personale.87 Rigaud, Le droit réel, Toulouse, 1912, pp. 466 ss.; Gaudemet, Étude sur le transport des dettes à timbre particulier, Paris, 1898; Gazin, Essai critique sur la notion de patrimoine dans la doctrine classique, Paris, 1910, pp. 453 ss. e Cornil, Debitum et obligatio, in Mélanges Girard, I, Paris, 1912, p. 203.88 Polacco, Dazione in pagamento, loc. cit.; Id., Le obbligazioni, cit., pp. 34 ss.89 V. l'analisi e le considerazioni di Mazzamuto, L'attuazione, cit., pp. 69 ss.90 Mazzamuto, L'attuazione, cit., pp. 65 ss.91 Mazzamuto, L'attuazione, cit., p. 67.92 Mazzamuto, L'attuazione, cit., p. 71.

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umana”93; ma la dottrina più accorta e autorevole offre una illustrazione articolata ed esauriente della disciplina dei rimedi per l’inadempimento del debitore diversi dal risarcimento del danno94. Pur riconoscendosi che «in pura teoria» i rimedi di esecuzione forzata non consentono propriamente di ottenere l’adempimento in natura, consistente nell’azione volontaria e personale, in sé incoercibile, del debitore, tuttavia si afferma che nella «realtà pratica» può dirsi conseguita in forma specifica «la risultanza economica finale» ottenuta «in executivis proprio tal quale si sarebbe avuta dal fatto» dell’obbligato95. Così, il creditore può ottenere, in via di esecuzione forzata, «un surrogato della mancata personale prestazione tanto prossimo ad essa da identificarvisi nella pratica risultanza finale» nel caso dell’inadempimento dell’obbligazione di dare una cosa determinata «sempreché tuttora sussista la species debita»96, mentre, per le obbligazioni di dare cose generiche, l’esecuzione potrà procurare al creditore solo il valore delle cose dovutegli; ma, in applicazione analogica dell’art. 1220, il creditore potrà essere autorizzato ad acquistare cose fungibili a spese del debitore97.

Per le obbligazioni di fare «opere fungibili» il creditore potrà avvalersi dell’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 1220; mentre per le obbligazioni di non fare occorre distinguere: se si tratta di astensione che concerne «un solo dato momento», cosicché l’inadempimento non costituisca un fatto permanente 98, la violazione è irretrattabile, e opererà solo il rimedio risarcitorio; se si tratta di un’astensione duratura per un certo tempo, con effetti durevoli dell’inadempimento, sarà esperibile il rimedio dell’art. 1222, da interpretarsi estensivamente, oltre il caso dell’opera materiale, anche in altre ipotesi in cui sia possibile «la remissione in 93 Lomonaco, Delle obbligazioni, cit., p. 468, il quale riguardo alla ratio delle eccezioni consistente nell'impossibilità pratica rilevava che questa «nelle obbligazioni di fare è più frequente che nelle obbligazioni di dare», soggiungendo che «è una differenza di fatto piuttosto che di diritto», mentre sarebbe «di diritto» quella che «si riferisce alla libertà umana», la quale «è fuori causa quando trattasi di una obbligazione di dare: la forza pubblica si indirizza alle cose e non all'uomo». 94 Polacco, Le obbligazioni, cit., pp. 559-577.95 Polacco, op. ult. cit., p. 560.96 Polacco, op. ult. cit., p. 561 s.; Giorgi, Teoria, cit., II, p. 160, giustifica la regola con l'acquisto della proprietà della cosa, qualificando l'azione come rivendicazione, e precisa che occorre che la cosa non sia passata legittimamente in proprietà di terzi. 97 Polacco, op. loc. ult. cit.; Giorgi, op. loc. ult. cit.; cfr. Lomonaco, Delle obbligazioni, cit., p. 466, che distingue l'obbligazione di dare cosa determinata nella sua individualità, per la quale il creditore, in caso di inadempimento, può farsi autorizzare dal giudice l'im-missione nel possesso, dall'obbligazione di dare cosa determinata solo nella specie, per la quale il creditore può procurarsela a spese del debitore inadempiente. 98 Così, più chiaramente, si esprime Giorgi, Teoria, cit., II, p. 161.

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pristino», purché «senza violenza sulla persona del debitore»99. Ne risulta, in sintesi, che, nei casi indicati, l’esecuzione in forma specifica non può essere dal giudice rifiutata, dovendo la funzione giudiziaria, «sostituirsi all’opera del debitore» per «far conseguire al creditore, fintantoché è possibile, l’oggetto dovuto in natura»100. Non è invece esperibile l’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento di obbligazioni di fare «nelle quali l’opera personale del debitore è assolutamente insurrogabile» e di quelle di non fare per le quali per impedire la violazione occorrerebbe porre «mano con la forza sulla persona» del debitore101.

Si accenna inoltre a rimedi adottati in altri ordinamenti per sopperire all’incoercibilità in forma specifica delle prestazioni, volti «a servire di stimolo al debitore perché egli adempia», ma si nega, nonostante qualche decisione in contrario, l’ammissibilità nell’ordinamento italiano dello strumento delle astreintes102, affermandosi peraltro che il giudice potrebbe liquidare preventivamente oltre ai danni già sofferti dal creditore «anche quelli futuri maturantisi di giorno in giorno finché la mora continui»103. Si pone, infine, la questione del rimedio esperibile in caso di inadempimento della promessa di compravendita: se operi soltanto il risarcimento del danno ovvero possa la sentenza del giudice surrogare il consenso della parte inadempiente, auspicandosene la soluzione legislativa in questo secondo senso104.

Non può disconoscersi che, nell’opera dei giuristi che hanno seguito le vie della tradizione, tale organica ricomposizione delle regole pratiche relative ai mezzi di coercizione esperibili dal creditore in mancanza dell’adempimento spontaneo del debitore non si è tradotta in una costruzione dogmatica della situazione giuridica del diritto di credito e del rapporto obbligatorio, dell’oggetto del debito e del credito, in una sistemazione concettuale dell’esecuzione forzata e dei mezzi di coazione in rapporto all’attuazione dell’obbligazione e alla realizzazione dell’interesse creditorio. Ma tali mancanze sembrano corrispondere a consapevoli scelte di metodo, volte a preservare una rigorosa attinenza della riflessione dottrinale alla realtà pratica del diritto, sulla quale, dalle «nebulose astrattezze», «non può scendere che dannosa grandine e non già pioggia benefica»105.

99 Polacco, op. ult. cit., pp. 562 s.; Giorgi, Teoria, cit., II, p. 160 s.100 Polacco, op. ult. cit., p. 564.101 Polacco, op. ult. cit., pp. 567 s.; cfr. Lomonaco, Delle obbligazioni, cit., pp. 466 s.102 Polacco, op. ult. cit., pp. 569 ss.103 Polacco, op. ult. cit., p. 572; cfr. Giorgi, Teoria, cit., II, p. 240.104 Polacco, op. ult. cit., pp. 572 s.105 Così Polacco, op. ult. cit., Prefazione alla II edizione, p. 2, che cita un'espressione di Scialoja, Diritto pratico e diritto teorico, in Riv. dir. comm., 1911, p. 941.

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Altra autorevole dottrina106 sviluppava un diverso ordine di critiche alle nuove teorie, dalle quali traeva tuttavia spunto per prospettare, in forte discontinuità con l’insegnamento tradizionale, una nuova concezione del rapporto obbligatorio, della prestazione, dei mezzi di coercizione e di realizzazione dell’interesse del creditore. Si riconosce la distinzione tra debito e responsabilità, ma si nega che a essi corrispondano distinti rapporti giuridici, affermando l’unità inscindibile del rapporto obbligatorio, rispetto al quale si riconosce piuttosto l’articolazione in fasi diverse corrispondenti, rispettivamente, a quella anteriore e a quella successiva all’eventuale inadempimento dell’obbligato107.

Si critica peraltro la concezione tradizionale che vede nella prestazione, intesa quale oggetto dell’obbligazione, un contegno del debitore; e si afferma che questo consiste solo in atti preparatori, che costituiscono l’oggetto della prestazione e il contenuto, non l’oggetto, dell’obbligazione; quest’ultimo consiste, infatti, nella mera tolleranza del debitore, il quale deve «lasciar prendere» dal creditore il bene dovuto, lasciargli cioè godere il risultato dell’azione del debitore108. In tal modo, il fulcro del rapporto viene a identificarsi con l’interesse del creditore, titolare del diritto soggettivo, personale e non reale, che ha per oggetto non già, secondo le nuove teorie, i beni, il patrimonio del debitore, ma il bene dovuto quale prestazione che il creditore ha diritto di conseguire109.

Il diritto del creditore di ottenere la condanna e, quindi, di attivare l’esecuzione forzata, in caso di inadempimento del debitore, non si rivolge a quest’ultimo né ai suoi beni, ma è un diritto nei confronti dello Stato o, se si vuole, delle persone che sono da esso a ciò preposti, e ha natura processuale110.

La supposta incoercibilità in forma specifica dell’obbligazione deriva dalla concezione della prestazione come azione, di per sé incoercibile, del debitore. Al contrario, se la prestazione si identifica nel bene dovuto, questo

106 Carnelutti, Appunti sulle obbligazioni, in Riv.dir. comm. 1915, I, pp. 525 ss.; Id., Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, Padova, 1927.107 Carnelutti, Appunti, pp. 548 ss., 551 ss., 558 s.; Id., Diritto e processo; cit., pp. 47 ss.108 Carnelutti, Appunti, pp. 528 ss., 536; Id., Diritto e processo, pp. 28-38.109 Carnelutti, Appunti, pp. 530 s., 536, 549 s., 558. La costruzione muove (pp. 525 ss.) dalla distinzione tra rapporti reali, regolati da "norme distributive" che disciplinano, mediante attribuzione, la "concorrenza" tra i consociati circa il godimento esclusivo dei beni, e rapporti obbligatori, regolati da "norme commutative" che attengono alla "coo-perazione" tra consociati, mediante «attribuzione a taluno» (il creditore) «di poteri entro la sfera di godimento altrui» (del debitore, il quale è tenuto a lasciare che, dalla propria sfera di godimento, il creditore prenda il bene dovuto).110 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 61-70.

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potrà essere forzosamente conseguito dal creditore (si pensi alle prestazioni pecuniarie, alla consegna di cosa determinata o alla distruzione di ciò che sia stato realizzato in violazione di un obbligo), salvo soltanto che esso non esista in natura: in caso di inadempimento del locator operarum, non essendo venuto a esistenza il bene dovuto che è oggetto dell’obbligazione, il creditore non potrà conseguirlo111.

Qualora l’esecuzione sia praticamente possibile, esistendo in natura il bene dovuto, essa assicura al creditore lo stesso bene che conseguirebbe con l’adempimento spontaneo e in entrambi i casi «quel che si realizza è veramente il diritto di credito»112. Laddove, invece, ciò non è possibile, e non può aver luogo l’esecuzione, che consiste nell’ottenimento dello stesso effetto pratico che deriverebbe dal contegno del debitore, la coazione opera, in modo indiretto, mediante la comminatoria di una pena, che consiste in un contegno diverso imposto al debitore inadempiente dall’ordine giuridico113, o mediante le cosiddette misure coercitive, volte a determinare una pressione psicologica sul debitore per indurlo all’adempimento114.

Funzione di incentivo all’adempimento ha anche l’obbligazione risarcitoria, che deve essere tenuta distinta dall’obbligazione primaria115, e che peraltro si distingue anche dalla pena per la sua funzione satisfattiva116. In ogni caso, operando una sanzione, è assicurata la giuridicità del rapporto, e ciò fin dall’origine e non solo successivamente all’inadempimento, giacché la predisposizione della sanzione proietta la coattività e la giuridicità anche sulla fase anteriore all’eventuale inadempimento117.

9. Segue. I prodromi della codificazione del 1942 e della dottrina successiva

Il dibattito dottrinale si incentra, dunque, anche il Italia sulla distinzione tra debito e rispondenza, ma esso non sembra potersi ridurre, come spesso si è suggerito secondo una sintesi semplificatrice, a una contrapposizione tra 111 Carnelutti, Appunti, pp. 535 ss. e 549; Id., Diritto e processo, cit., pp. 21s., 27 s.112 Carnelutti, Appunti, pp. 535 ss., 545 e 549; Id., Diritto e processo, cit., pp. 38 s.113 Carnelutti, Appunti, p. 543114 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 19 ss., ove, precisandosi l'opinione espressa nel precedente scritto, considerando le misure coercitive come forme intermedie tra l'esecuzione e la pena.115 Carnelutti, Appunti, pp. 543 ss.; Id., Diritto e processo, p. 57.116 Carnelutti, Diritto e processo, cit., p. 39 s., ove si correggono affermazioni del pre-cedente scritto.117 Carnelutti, Appunti, p. 545.

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concezioni patrimoniali e personali, giacché una più evoluta considerazione della responsabilità patrimoniale si è a volte risolta nella revisione, piuttosto che nel ripudio, di dottrine tradizionali.

L’attenzione particolarmente riservata alla rispondenza comporta la concentrazione dell’analisi sui contenuti delle prerogative del creditore volte alla realizzazione effettiva del suo interesse, mentre sembra sfocarsi la posizione del debitore, alla quale da sempre si erano prevalentemente riferite le nozioni e la terminologia in materia di obbligazioni, e ridimensionarsi la rilevanza costruttiva della prestazione quale condotta del debitore.

In realtà, la ricostruzione dello svolgimento storico della disciplina e del pensiero giuridico ci ha consentito di verificare come sia sempre stata cruciale la considerazione della coercibilità e dei mezzi di coercizione dell’obbligazione e, quindi, dei rimedi esperibili dal creditore in caso di inadempimento dell’obbligato. In questo senso, deve riconoscersi che, pur essendo debito e rispondenza termini che attengono alla posizione del debitore e al suo patrimonio, le innovazioni dottrinali consistettero essenzialmente nello sforzo e nelle proposte di concettualizzazione del regime dei rimedi creditori e nella correlata costruzione dogmatica della situazione giuridica soggettiva del diritto di credito.

Rispetto a questi referenti del dibattito dottrinale, si contrapposero due orientamenti, anch’essi non riducibili alla schematica contrapposizione tra teorie patrimoniali e personali: quello che li concepiva come due distinti rapporti, che pur normalmente si congiungono nell’obbligazione civile, ma che possono anche manifestarsi disgiuntamente118 e quello che li considerava due aspetti del rapporto obbligatorio, inteso come unitario e non scindibile o scomponibile119.

118 Gangi, Debito e responsabilità nel diritto nostro vigente, in Scritti giuridici vari, I, Padova, 1933, pp. 317 ss., 343 ss., 354 ss. (lo studio fu dapprima pubblicato in Riv. dir. civ. 1927, pp. 521 ss., e fu preceduto da Debito e responsabilità, Roma, 1916, e Sassari, 192); e v. già Rocco, negli scritti citati alla nt. 144, che attribuisce ai diritti inerenti ai due rapporti diversa natura, personale e reale.119 Ferrara (senior), Trattato, cit., p. 311; Maroi, Obbligazione, voce del Dizionario pratico del diritto privato, vol. IV, Milano Appiano Gentile, 1913-1934, pp. 243 s., il quale riafferma la dottrina classica della natura personale, indicando nella responsabilità, che non scinde il contenuto unitario dell'obbligazione, il momento, successivo ed eventuale rispetto all'inadempimento, che garantisce la coattività del vincolo personale; Carnelutti, Appunti, pp. 548 ss., 551 ss., 558 s.; Id., Diritto e processo; cit., pp. 47 ss., dove si esclude che debito e responsabilità possano considerarsi come due distinti elementi di un "corpo composto", essendo l'obbligo un "corpo semplice". E v. già Polacco, Le obbligazioni, cit., pp. 90 ss., nonché, sia pure incidentalmente e in una particolare prospettiva costruttiva, Nicolò, L'adempimento dell'obbligo altrui, Milano, 1936, pp. 96 s.

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Note storiche sulla dottrina generale delle obbligazioni

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Nell’àmbito del primo orientamento, al fine di argomentare la distinzione e di offrirne riscontri nella disciplina, ci si esercitò a esemplificare ipotesi di debito senza responsabilità (obbligazioni naturali) e di responsabilità senza debito (fideiussione, pegno e ipoteca a garanzia di un debito soggetto a condizione sospensiva o futuro, sussistendo al riguardo una responsabilità attuale per un debito non attuale) o di distinta imputazione a soggetti diversi dell’uno e dell’altro rapporto, prospettandosi ipotesi di debito senza propria responsabilità o di responsabilità senza proprio debito (fideiussione, pegno e ipoteca di cosa altrui a garanzia di obbligazione naturale; pegno e ipoteca a garanzia di debito altrui) o, ancora, di responsabilità limitata rispetto al debito o di sfalsamento temporale tra responsabilità e debito120. In questo catalogo si riscontrano spesso configurazioni e qualificazioni controvertibili e si avvertono forzature volte a piegare l’analisi delle fattispecie e dei relativi regimi alla tesi che ci si propone di dimostrare, mentre la varietà dei rapporti e delle regole che vengono passati in rassegna sembrano piuttosto deporre nel senso della loro irriducibilità a uno schema ricostruttivo uniforme.

Gli spunti di revisione dogmatica offerti dalle teorie su debito e responsabilità vennero a riflettersi su di un àmbito molto ampio di riflessione costruttiva, per certi versi esorbitante rispetto a quello dei rapporti obbligatori. La focalizzazione dell’attenzione sulla posizione creditoria, come specchio dei rimedi coercitivi, investiva, come già si è osservato, la problematica del diritto soggettivo e doveva cimentarsi con la difficoltà di ricondurre a una figura unitaria credito e diritti reali: per un verso si tendeva ad attrarre il primo nell’àmbito dei secondi, così da ricomporre l’unità del concetto di diritto soggettivo alla stregua dei caratteri della realità121, esaltando, come si è visto, il potere del creditore di aggressione sul patrimonio del debitore, in caso di suo inadempimento; per altro verso, e correlativamente, si prospettò, rispetto alla fase del rapporto anteriore all’adempimento o inadempimento, la riduzione della posizione del creditore a mera aspettativa e quella del debitore a mero onere.

Peraltro, l’affermazione della non scindibilità della relazione obbligatoria in distinti rapporti di debito e responsabilità, e della sua unità, consentiva di proiettare sulla fase anteriore all’eventuale inadempimento il valore dei rimedi coercitivi esperibili a seguito di questo, ma già implicati, fin dall’insorgere dell’obbligazione, dalla rispondenza e dall’inerente garanzia del patrimonio del

120 Gangi, Debito e responsabilità, cit., pp. 354-365; cfr. Maroi, Obbligazione, cit., pp. 241 ss., ma v. la precisazione a pp. 243 s.121 Nega la natura reale della responsabilità Betti, Il concetto dell'obbligazione costruito dal punto di vista dell'azione, Pavia, 1920, p. 240.

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A. D'Angelo

debitore, dovendosi riconoscere l’originaria coercibilità del vincolo122. Tale riconoscimento permetteva di ribadire l’originaria giuridicità del

rapporto obbligatorio fin dalla sua costituzione, e la qualificazione del credito come diritto soggettivo senza che occorresse attribuire allo stesso natura reale. E tuttavia la riflessione sulle nuove teorie costituì occasione per un ripensamento dei caratteri distintivi tra diritti – e, secondo alcuni, rapporti – personali e reali123.

La concentrazione della riflessione sui rimedi coercitivi stimolò l’approfondimento della relazione che, rispetto ai rapporti obbligatori, intercorre tra la tutela implicata dalle regole di diritto sostanziale e i mezzi processuali di attuazione della medesima, e dunque tra diritto e processo124. Ci si interrogò quindi: sui rapporti tra condanna ed esecuzione forzata125; sull’àmbito di quest’ultima rispetto all’espropriazione e alla cosiddetta esecuzione in forma specifica126; sulla funzione satisfattiva dell’esecuzione e sui suoi rapporti con l’adempimento spontaneo127; sugli strumenti di coazione indiretta e psicologica128; sulla relazione tra obbligazione primaria di prestazione e obbligazione secondaria risarcitoria per l’inadempimento della prima129.

Ne scaturisce una revisione dell’idea tradizionale di una rigorosa corrispondenza simmetrica tra obbligazione e credito e la valorizzazione dell’interesse del creditore130, che contribuisce, da un lato, alla soluzione della questione del carattere patrimoniale della prestazione (distinguendosi la patrimonialità di questa da quella dell’interesse) e, dall’altro, alla maturazione di una concezione teleologica della condotta di attuazione

122 V., pur in diverse prospettive costruttive, Ferrara (senior), Trattato, cit., p. 311; Maroi, Obbligazione, cit., pp. 243 s.; Carnelutti, Appunti, p. 545; Id. Diritto e processo, cit., p. 104; Coviello (junior), L'obbligazione negativa, cit., pp. 9 ss., 46; Nicolò, L'adempimento dell'obbligo altrui, Milano, 1936, pp. 95 s.; Cicu, L'obbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948 (l'edizione originaria del corso è del 1921 e quella citata contiene qualche riferimento normativo al nuovo codice), pp. 223 ss., il quale peraltro, pur configurando l'originaria garanzia sui beni del debitore come diritto personale del creditore, afferma che esso si trasformerebbe in reale per determinate evenienze attinenti all'esecuzione. 123 Carnelutti, Appunti, pp. 525 ss.; Cicu, L'obbligazione, pp. 1 ss.; R. Nicolò, L'adempimento, pp. 79 ss.124 Carnelutti, Diritto e processo, cit.; Betti, Il concetto dell'obbligazione, cit.; A. Cicu, L'obbligazione, pp. 117 ss.125 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 61 ss.; Betti, Il concetto dell'obbligazione, cit.126 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 21 ss.127 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 27 ss. e 38 ss.; Cicu, L'obbligazione, pp. 117 ss.; Nicolò, L'adempimnto, pp. 43 ss., 58 ss.128 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 19 ss., 27 ss.; Cicu, L'obbligazione,129 Cicu, L'obbligazione, p. 119; Nicolò, L'adempimento, pp. 108 ss. 130 Nicolò, L'adempimento, pp. 44 ss., 60 ss., 67 ss.

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Note storiche sulla dottrina generale delle obbligazioni

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dell’obbligo131, che si salderà, nel nuovo codice, con l’enunciazione della regola di correttezza.

La prospettiva di superamento della corrispondenza simmetrica tra situazione attiva e passiva è avvalorata dalla considerazione di cause di estinzione dell’obbligazione e di liberazione del debitore che non corrispondono al soddisfacimento dell’interesse del debitore, come il pagamento al creditore apparente, e di ipotesi di soddisfacimento di tale interesse pur in mancanza dell’adempimento personale dell’obbligato, come nel caso di adempimento del terzo132.

E, affermandosi «la necessità di costruire il concetto di obbligazione non tanto dal lato passivo, quanto piuttosto dal lato attivo»133, venne ripensata la stessa nozione di prestazione quale condotta del debitore e oggetto della sua obbligazione, prospettandosene la qualificazione come “bene dovuto”134.

Inoltre, pur in una prospettiva ancora limitata agli aspetti giuridico-formali135, emergono considerazioni che concernono la funzione del rapporto obbligatorio attinente alla dinamica del traffico economico, rappresentando un flusso di valore e di utilità136, dovuto e atteso rispettivamente dal debitore e dal creditore. Viene in tal senso valorizzato il diritto di “conseguire” il bene dovuto137, secondo le formule del “dover dare” e “dover avere” o “ricevere”, che contrappongono le situazioni obbligatorie a quelle reali (dello “avere”)138, precisandosi peraltro che nel diritto reale il bene economico è «già in mani del titolare» e che, tuttavia, «anche il credito, in quanto è garantito giuridicamente, può essere e viene effettivamente considerato come bene già acquisito; e come tale esso assume il valore di bene non semplicemente giuridico, ma ad un tempo economico» e può essere a sua volta oggetto di diritti reali (usufrutto, pegno)139.

Sono questi i lasciti del dibattito sviluppatosi nella vigenza del codice

131 Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 29 ss.; Nicolò, L'adempimento, pp. 85 s.; e v. Cicu, L'obbligazione, cit., p. 228.132 Nicolò, L'adempimento, pp. 51-66; e v. già Betti, Il concetto, cit., pp. 226 ss.133 Nicolò, L'adempimento, pp. 50 s.134 Nicolò, L'adempimento, pp. 44. ss., 60 ss., 77 ss., 85 ss.; e già Betti, Il concetto, cit., pp. 229 s., secondo il quale l'oggetto dell'aspettativa del creditore «non è tanto l'atto del debitore, quanto la prestazione in sé, nella sua consistenza obiettiva, anche adempibile da altri, considerata come apportatrice di un valore patrimoniale»; Carnelutti, Diritto e processo, cit., pp. 29 ss.; e v. Cicu, L'obbligazione, pp. 228 ss. 135 V., per esempio, Nicolò, L'adempimento, pp. 77 ss.136 Betti, Il concetto, cit., 137 Nicolò, L'adempimento, pp. 89, 106 e passim.138 Cicu, L'obbligazione, pp. 2 ss. e 8 ss.139 Cicu, L'obbligazione, p. 5.

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A. D'Angelo

del 1865 alla dottrina che si formerà sotto quella del codice del 1942, manifestandosi al riguardo, come si vedrà, una certa continuità, favorita dalla sobrietà dogmatica della nuova codificazione. Nel codice civile del 1942 si rinuncerà alla formulazione di una definizione legislativa di obbligazione; non verrà definita la prestazione, alla quale sarà riferito il carattere patrimoniale, escludendosi che esso debba essere condiviso dall’interesse del creditore, peraltro menzionato dall’art. 1174; si introdurrà l’enunciazione del dovere di correttezza, imposto sia al debitore che al creditore dall’art. 1175; l’eco delle concezioni patrimoniali si risolverà, in certo senso attutendosi, nella scelta della separazione topografica-sistematica tra quarto e sesto libro, che rispettivamente accoglieranno la disciplina generale del rapporto obbligatorio e delle sue fonti e la tutela dei diritti, nel cui àmbito troverà sede la disciplina della responsabilità patrimoniale.

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Enrico del Prato

Un giurista verso la postmodernità(a proposito del “ Contratto” di Guido Alpa)

Sommario: 1. La fonte del dialogo – 2. Guido Alpa e la storia delle dottrine – 3. Un ritorno agli status? – 4. La sirena del “mercato” – 5. Contratto e diritti fondamentali – 6. Immanenza della causa del contratto – 7. Storicizzare.

1. La fonte del dialogo

Ogni libro apre un dialogo col lettore; un dialogo personale perché ogni lettore coglie i messaggi che gli sono congeniali. Lo confermano le riflessioni che abbiamo ascoltato su questo libro di Guido Alpa: Massimo Brutti e Giovanni Chiodi ne hanno colto l’approccio profondamente storicistico; si è orientato verso il dibattito culturale Massimo Confortini; Aurelio Gentili lo ha collocato nella prospettiva del diritto come discorso; Giuseppe Sbisà lo ha apprezzato nella concretezza delle soluzioni.

Un lavoro di così ampio e multiforme respiro non poteva che alimentare un dibattito su una pluralità di temi. Del resto esso raccoglie la lunga e cospicua esperienza maturata in tanti studi sui contratti, dagli orizzonti culturali alla storia delle dottrine [sono da ricordare, tra i molti lavori, i volumi su La cultura delle regole, Laterza, 2009, e su Le stagioni del contratto, Il Mulino, 2012], dalle valutazioni de iure condendo, a cui Guido Alpa ha contribuito come edificatore di nuove dimensioni della giuridicità [ricordiamo l’impegno nell’elaborazione del Draft Common Frame of Reference], ai contratti del consumatore sino a puntuali analisi su specifiche questioni.

La prima impressione che ne ho tratto è che il libro stimola l’interrogativo

* Mi è sembrato appropriato, in considerazione dello spirito di questi “Dialoghi”, adattare il testo dell’intervento orale alla presentazione del volume di Guido Alpa, Il contratto in generale, I, Fonti, teorie, metodi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu, F. Messineo e G. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Giuffré, 2014, svoltasi nella Sapienza Università di Roma il 18 settembre 2017.

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E. del Prato

se si lasci presagire un superamento dell’era dei codici. Mi spiego. Benché non lo si legga espressamente, il discorso affronta la teoria generale del contratto prescindendo dalla stretta aderenza al diritto positivo italiano. Nel Trattato Cicu-Messineo, di cui fa parte, quest’opera segue quella sul contratto in generale dello stesso Messineo, risalente al 1968-72, e quella di Carresi, del 1987. Entrambe non dedicavano tanto spazio ad un panorama di storia delle questioni e delle dottrine – d’altronde quello di Guido è il primo di cinque volumi programmati sul contratto in genere –, ed analizzavano essenzialmente il sistema contenuto nel quarto libro del codice civile.

Questo lavoro, invece, vede il contratto come categoria della giuridicità prima del dato strettamente normativo, che viene preso in considerazione per la conferma di soluzioni e come criterio di orientamento. Ne deriva una riflessione sul contratto e le sue dinamiche di autentica teoria generale, perché riflette una giuridicità congenita ai fenomeni e abbraccia le soluzioni normative offerte dalle diverse esperienze non come dati da mettere a confronto, ma come componenti di una fenomenologia unitaria. Qui ha inciso profondamente la circolazione dei modelli che impregna il diritto europeo ed i tratti del commercio internazionale.

In questo senso la pagina prescinde dal dato normativo. I temi sono affrontati attraverso problemi e questioni rispetto ai quali norme ed istituti di diversi sistemi giuridici o attinti da contributi volti alla creazione di un diritto europeo dei contratti rappresentano ragioni di confronto, non limiti vincolanti per l’interprete.

È una scelta scientifica di sicuro rilievo. L’esperienza giuridica non è data solo dai fenomeni strettamente normativi, e il contratto non è solo quella vicenda definita dalle norme, ma un fenomeno naturalistico che nasce dalla socialità prima ancora che dall’economia. Non è una novità – già Betti l’aveva ben chiarito –, ma averlo presente avverte che l’approccio del civilista moderno non può chiudersi alle sole categorie della legge in senso formale.

L’apertura alla comparazione, sempre necessaria non per il gusto del confronto e della demarcazione, ma per una piena comprensione dei fenomeni, induce a cogliere assonanze piuttosto che ad accentuare differenze. La comparazione sembra voler mettere in risalto le diversità; ma, se il diritto privato nasce essenzialmente dall’antropologia e dalla socialità, e si misura con l’etnologia e con bisogni umani ovunque comuni, è evidente che le dissonanze sono vincoli artificiali piuttosto che soluzioni. Spesso divergono gli itinerari che conducono a soluzioni omogenee.

Le pagine di Guido Alpa istituiscono confronti e pongono in luce corrispondenze e armonie, attraverso uno studio della storia di problemi e dottrine, dotto ma utile perché privo di vacue erudizioni.

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Un giurista verso la postmodernità

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2. Guido Alpa e la storia delle dottrine

I libri di buon livello si possono dividere in due categorie: quelli che dialogano con la materia e quelli che dialogano con altri autori. Nei primi, che sono i migliori, è quasi la materia che indica all’autore come vuole essere trattata; nei secondi l’autore dialoga con altri libri, ed è esposto al rischio di scivolare nell’erudizione.

Ecco, l’approccio di Guido Alpa alla storia delle dottrine è il mezzo per mostrare i cambiamenti dell’idea stessa di contratto attraverso una pluralità di prospettive, che colgono in un altro modo gli stessi fenomeni e pongono in evidenza fenomeni nuovi o rimasti nell’ombra.

In una visione armonica delle indagini storiche e comparatistiche questo libro ci porta ad approfondire il senso delle categorie giuridiche nella postmodernità e nella società liquida che ne è espressione.

Una questione con cui ci dobbiamo confrontare riguarda, come dicevo, la circolazione dei modelli e il possibile superamento dell’era dei codici classici, sontuosa espressione della legislazione dello Stato: questa prospettiva di ampio respiro anima quest’ultima opera di Guido Alpa.

Credo che l’anelito a considerare il diritto come scienza “pura” abbia già mostrato i danni che è capace di produrre. Il diritto, inteso come ars boni et aequi, portava, invece, i Romani a identificare la scienza giuridica nel portato della comunità degli studiosi. È un fenomeno di cui si avverte oggi la fecondità, perché la migliore comunità dei giuristi contemporanei tende alla ricerca di categorie comuni comprendendo che le risposte concrete ai medesimi problemi, anche quando percorrono itinerari diversi, devono pervenire al medesimo risultato.

Con la cautela necessaria quando si pensa di istituire similitudini con esperienze passate, credo che l’odierno diritto europeo presenti somiglianze con la fenomenologia dell’antico diritto “comune”, e che la compenetrazione di modelli e culture derivante dai traffici internazionali e dalla comunità globale del web consenta di accostare il ruolo del giurista di oggi a quello del giureconsulto piuttosto che del tecnico: con ciò egli acquisisce un ruolo che gli impone di non limitare la sua attenzione ai dati normativi, ma di costruire il diritto attraverso i valori calati nell’effettività. Così concepito, il ruolo del giurista presuppone quella solida base culturale che il libro di Guido Alpa lascia trasparire con garbo discreto.

Ma è un bagaglio culturale che non si esaurisce in se stesso. Lo rivela la tensione verso il soddisfacimento di esigenze concrete. Guido Alpa non è un formalista, appagato dall’idea che la realtà sia riducibile ad equilibri

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E. del Prato

geometrici, né un entusiasta percettore delle novità che traggono linfa dalla società liquida e dalla globalizzazione alimentando discussioni in ordine sparso. La sua riflessione sul contratto non si sbilancia in un senso o nell’altro: essa comunica un sicuro possesso delle categorie, eppure è costantemente aperta alle novità e ai bisogni che nascono dalla realtà attuale.

3. Un ritorno agli status?

Mi soffermo solo su alcune tra le molte sollecitazioni che vengono dal libro.È percepibile un ritorno agli status; un ritorno dettato dalla previsione

di tutele in relazione alla veste in cui il soggetto opera. Se consideriamo la dommatica tradizionale, potremmo dire che il riferimento allo status non è del tutto appropriato perché la “categoria” perde la monoliticità che la rende presupposto di una serie di situazioni giuridiche soggettive.

Ma il punto è che l’idea stessa di catalogare le situazioni giuridiche soggettive entro schemi precostituiti viene sfocata dalla complessità del reale. Per questo penso che lo status possa essere un utensile idoneo a comprendere anche forme di tutela connesse alla condizione delle persone in alcune circostanze. Il che, peraltro, è solo una constatazione, non un’innovazione.

I civilisti mettono a fuoco le tutele imbastite a partire dagli anni ’90 in relazione alla debolezza contrattuale, soffermandosi soprattutto sul consumatore e l’utente e sull’imprenditore, lasciando da parte l’archetipo di questi fenomeni: il lavoratore. Ciò dipende, probabilmente, dall’acquisita autonomia del diritto del lavoro. Ma la magmatica evoluzione di questa branca del diritto civile nella sua dimensione precipuamente contrattuale aiuta a comprendere che la misura delle tutele acquisisce flessibilità in concomitanza con le esigenze dei mercati del lavoro; una flessibilità che, bilanciando gli interessi dell’impresa con quelli dei lavoratori, tende a favorire i livelli occupazionali.

Il diritto del lavoro è il terreno dove l’inderogabilità si è venuta plasmando sulle multiformi articolazioni della realtà e ha smarrito la monoliticità che, astrattamente, la caratterizza. Da qui il civilista può attingere spunti e criteri per risolvere questioni legate alla portata delle norme inderogabili dettate a presidio della debolezza contrattuale: un tema, questo, dove la ricerca della massima efficienza della tutela può tendere a soluzioni articolate in funzione degli specifici interessi coinvolti. Pensiamo, su questo terreno, alle prospettive che potrebbero aprirsi per il lavoro dei migranti.

Anche l’esperienza della contrattazione collettiva fuori dal campo dei

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Un giurista verso la postmodernità

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lavori, certo non nuova, ma divenuta assai più diffusa, porta a riconsiderare la funzione dell’autonomia contrattuale come espressione di sussidiarietà sociale e a foggiare i confini dell’inderogabilità nell’area dell’autonomia individuale. In altri termini, l’autonomia collettiva come espressione di sussidiarietà porta ad arretrare l’intervento della normazione imperativa. Ciò accade quando la negoziazione collettiva viene legittimata da una norma in senso formale; ma è opportuno cogliere la sua attitudine conformativa anche al di fuori di una espressa legittimazione.

4. La sirena del “mercato”

Questa osservazione ci indirizza verso il terreno della normazione spontanea, degli usi e della lex mercatoria: un’altra faccia dell’autonomia, dalla quale tutte le prassi germinano. Qui a Guido Alpa non sfugge che le prassi nascono dai rapporti di forza: c’è qualcuno meglio organizzato, più ricco, più influente, il quale è in condizione di imporre le sue regole agli altri. Per la sottile ipocrisia che accompagna queste vicende, queste regole divengono universalmente condivise.

Sebbene alcuni entusiasti esaltino questi modi con cui il mercato si dà le sue leggi, la proliferazione della normazione imperativa delle autorità amministrative indipendenti, col correlativo arretramento degli usi, va apprezzata in funzione dell’esigenza di tutelare i soggetti deboli.

Questa attenzione ai deboli, non frequentissima nei civilisti, è stata sempre presente nelle riflessioni di Guido Alpa, il quale ha dato ampio spazio alle pagine sui contratti dei minori e sulle tutele, specie nella contrattazione con strumenti informatici.

5. Contratto e diritti fondamentali

Correlativa alla debolezza cognitiva ed economica di singoli, classi e popolazioni è l’attenzione ai diritti fondamentali. Le pagine del volume riprendono altre cospicue riflessioni di Guido Alpa, calandole nella fenomenologia contrattuale. L’ingresso dei diritti fondamentali nello studio del contratto apre nuovi orizzonti di riflessione, che sarebbe insufficiente limitare all’analisi di singole clausole, ma occorre svolgere contemplando

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E. del Prato

l’intera dinamica della contrattazione.Da una trentina d’anni i diritti fondamentali sono diventati il motore

di un nuovo modo di affrontare il diritto privato, che riconosce alla persona il suo ruolo di perno della giuridicità. Ciò apre un angolo di osservazione da trasmettere a quelle residue esperienze giuridiche rudimentali che ancora ignorano o frustrano i diritti fondamentali.

Si può anche immaginare di collegare alla dignità umana la questione della giustizia contrattuale per risolvere i casi di più eclatante ingiustizia. I civilisti italiani hanno incominciato ad occuparsi di questa tematica nella seconda metà degli anni ‘80, ma c’è stato un grande fiorire di scritti a partire dagli anni ’90, a cui si è accompagnato un revival di studi sull’abuso del diritto. Con esso non si aprono solo prospettive funzionali nell’esercizio dell’autonomia, ma anche panorami socio-esistenziali nello studio del contratto.

6. Immanenza della causa del contratto

È interessante che in quest’opera Guido Alpa si sia occupato della causa tra i principi e le clausole generali. Ciò consente di coglierne il senso pratico, depurato da aspirazioni dirigistiche, anche oltre i dati normativi.

Intendo dire che, seppure la causa non vi fosse contemplata, nei casi più plateali la sua mancanza verrebbe comunque in rilievo come causa di nullità.

Lo conferma la recente riforma francese delle obbligazioni, dove la causa, sia pure formalmente scomparsa, riaffiora in alcune disposizioni che si spiegano in ragione della sua carenza. Ciò non toglie, però, che l’esplicita previsione della causa come requisito del contratto aiuti a favorire la moralizzazione delle contrattazioni istituendo una protezione contro l’approfittamento delle scarse capacità cognitive e predittive, specie in ambito finanziario.

7. Storicizzare

Un ultimo punto. Traspare costante nel pensiero di Guido Alpa l’attenzione all’effettività. Senza declamazioni metodologiche, celebrazioni del diritto giurisprudenziale o rimpianti dommatici, i principi generali sul contratto sono ripercorsi e ricostruiti senza perdere l’aderenza all’andamento

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Un giurista verso la postmodernità

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del reale e tuttavia con un intenso dialogo dottrinale.Una conclusione appropriata è nelle sue stesse parole: “Portatori di una

straordinaria tradizione dobbiamo rivisitare drasticamente le illustri categorie che hanno segnato per secoli la nostra cultura giuridica, non per distruggerle, ma per storicizzarle, cioè collocarle nella loro esatta dimensione che è appunto quella storica”.

Queste parole raccolgono la nostra migliore tradizione. Vi si avverte l’eco del pensiero di Riccardo Orestano, il cui storicismo ha fortemente contribuito al superamento del dommatismo ipostatizzante. Si percepisce anche l’influsso di Emilio Betti per la continua congiunzione del discorso alla dimensione sociale e per l’ampiezza e la profondità culturale che traspaiono senza ostentazione.

Si avverte, infine, il pensiero di Stefano Rodotà, di cui Guido è stato allievo. La ricchezza dello strumentario scientifico e la curiosità di Betti hanno trasmesso a Rodotà un solido bagaglio concettuale, favorendone l’innata propensione allo studio di fenomeni nuovi ed al ripensamento di quelli collaudati.

Guido Alpa è il depositario di questa grande scuola; un patrimonio che egli ha raccolto con mente versatile e libera, plasmando con tecnica rigorosa le categorie esistenti sulle anticipazioni del futuro: un allievo di cui Rodotà è stato orgoglioso così come lo siamo noi.

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Andrea Di Porto

I “beni comuni” in cerca di identità e tutela

Sommario: 1. Le sentenze delle Sezioni Unite sulle “Valli da pesca” – 2. I caratteri della nozione giuridica dei “beni comuni” introdotta dalle Sezioni Unite – 3. La ‘conferma’ della Corte di Strasburgo – 4. Il dibattito – 5. La via per uno statuto dei beni comuni – 6. La vicenda giurisprudenziale dei “beni destinati all'uso pubblico” – 7. La identità dei beni comuni – 8. La tutela.

1. Le sentenze delle Sezioni Unite sulle “Valli da pesca”

In omaggio a Guido, vorrei tornare a riflettere sui “beni comuni”, per notare come, a distanza di sette anni, da quando le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con le sentenze sulle Valli da pesca della laguna di Venezia1, hanno introdotto nel nostro diritto vivente la nozione, i “beni comuni” siano, ancora, in cerca di identità e di tutela.

Con quelle sette sentenze, tutte di eguale motivazione, depositate fra il 14 e il 18 febbraio del 2011, le Sezioni Unite civili chiudevano la nota e dibattuta controversia giudiziaria sull’appartenenza delle Valli da pesca della laguna veneziana, confermandone la natura demaniale accertata dalla Corte di appello di Venezia, ma aggiungendo alla motivazione di stampo tradizionale della Corte territoriale una nuova ratio decidendi, incentrata, appunto, su una nozione di “bene comune” di tipo ‘funzionale’.

Il punto centrale della nuova ratio decidendi era quello in cui la Corte ricavava dal quadro costituzionale, in particolare dagli articoli 2, 9 e 42, “stante la loro diretta applicabilità”, “il principio della tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale, anche nell’ambito del paesaggio, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto dello Stato ma anche riguardo a quei beni

1 Sono le sentenze nn. 3665, 3811, 3812, 3936, 3937, 3938 e 3939/2011, su cui per un primo commento v. E. Pellecchia, Valori costituzionali e nuova tassonomia dei beni: dal bene pubblico al bene comune, in Foro it., 2012, I, cc. 573 ss.

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che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività”.

Dall’affermazione di tale principio, la Corte faceva discendere l’esigenza di andare oltre la dicotomia beni pubblici-beni privati, per non “limitarsi alla mera individuazione della titolarità dei beni” e per non tralasciare “l’ineludibile dato della classificazione degli stessi in virtù della relativa funzione e dei relativi interessi a tali beni collegati”.

La conclusione, sulla scorta dunque della funzione dei beni, è stata l’individuazione di una nozione di “bene comune”, che per l’appunto ricomprenda tutti quei beni che, a prescindere dall’appartenenza (pubblica, privata o collettiva), siano, “per loro intrinseca natura o finalizzazione” e “indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore”, destinati alla realizzazione degli interessi della collettività.

2. I caratteri della nozione giuridica dei “beni comuni” introdotta dalle Sezioni Unite

La forza di tale pronuncia, oltre che dall’autorità delle Sezioni Unite, discende, a mio avviso, anche dal fatto che la motivazione si muove nella scia di un pensiero scientifico autorevolissimo e che la stessa definizione di “bene comune“ ha potuto far tesoro dei risultati di un lavoro svolto da una commissione ministeriale, altrettanto autorevole, incaricata proprio di predisporre un disegno di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.

Risale, infatti, addirittura al principio degli anni Sessanta del secolo scorso la critica di Massimo Severo Giannini alla classificazione dei beni pubblici adottata dal codice civile del ’42, fondata sul criterio formale dell’appartenenza, e la prospettazione di un’altra classificazione, di natura sostanziale, incentrata sulla funzione, e nella quale appunto si enuclea la categoria dei “beni a fruizione collettiva”2.

Per quanto riguarda, poi, la definizione di “bene comune”, è evidente3 2 M. S. Giannini, Beni pubblici, Roma, 1963. V. anche Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1977, pp. 77 ss.3 E peraltro risulta esplicitamente dalla relativa relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, precisamente dalla Relazione 10 novembre 2010, n. 132, redatta da F. M. Cirillo.

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l’ispirazione delle Sezioni Unite civili a quella elaborata dalla commissione istituita presso il Ministero della Giustizia nel giugno 2007, presieduta da Stefano Rodotà, e perciò denominata “Commissione Rodotà”4.

La Commissione aveva, infatti, definito i “beni comuni” come: “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità […] che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano, altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali”5.

Il risultato, dunque, è stato l’introduzione nel nostro diritto vivente di una nozione giuridica di “beni comuni”, contrassegnata da quattro caratteri: a) essere costituita da “cose” in senso “corporale”6, b) prescindere dall’appartenenza, c) essere fondata esclusivamente sulla funzione dei beni, d) essere una categoria aperta, non numerus clausus.

Con quattro precisazioni.La prima. Le Sezioni Unite civili si riferiscono ai “beni comuni” che,

con una certa approssimazione, possono dirsi “cose”, come del resto aveva fatto la “Commissione-Rodotà”. Il dibattito successivo, anche ad opera dello stesso Stefano Rodotà7, ha esteso la portata della nozione a quei beni che, con formula antica ma ancora ricca di suggestione e di valenza definitoria, potremmo qualificare come res incorporales, come quelle cose, cioè, “quae 4 La Commissione concluse i suoi lavori nel febbraio 2008. I risultati furono presentati e discussi all’Accademia Nazionale dei Lincei, in un convegno all’uopo organizzato il 22 aprile 2008, i cui atti si trovano nel volume a cura di U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Roma, 2010.5 Così la Relazione di accompagnamento alla proposta di legge delega, in Politica del diritto, 3, 2008, dove si trova anche il Disegno di legge delega.6 “Cosa”, come parte del mondo esterno, la quale “deve poter servire all'attivazione di un interesse umano, individuale o collettivo”: cfr. S. Pugliatti, Cosa (Teoria generale), in Enciclopedia del diritto, XI, 1962, p. 19.7 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, pp. 105 ss.; v. anche l’intenso saggio Verso i beni comuni, pubblicato, postumo, assieme ad altri inediti, nel volume curato dall’editore Laterza, cui, con scelta felice, è stato dato il titolo Vivere la democrazia, Bari-Roma, 2018, pp. 93 ss., particolarmente pp.117 s. V. pure, da ultimo, il bel libro di U. Mattei, A. Quarta, Punto di svolta. Ecologia, tecnologia e diritto privato. Dal capitale ai beni comuni, Sansepolcro, 2018, pp. 33 ss., particolarmente, 82 ss.

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tangi non possunt, qualia sunt ea quae iura consistunt” : beni immateriali, appunto, e diritti o valori, essenziali al progresso materiale o spirituale dell’uomo e, in taluni casi, alla sua stessa sopravvivenza e dignità8.

La seconda. Dire che la nozione di “bene comune” prescinde dall’appartenenza non significa né che i “beni comuni” sono senza appartenenza né che l’appartenenza sia irrilevante: basti pensare, sotto quest’ultimo profilo, al problema dei doveri che gravano sul soggetto o sui soggetti, cui i beni comuni appartengano, e a quello degli oneri e delle responsabilità di gestione; problemi, complessi e di difficile soluzione, su cui qui non è possibile soffermarsi9. Significa, invece, che il “bene comune” può essere tanto in proprietà pubblica (dello Stato o di altro soggetto pubblico), quanto in proprietà privata o, anche, collettiva.

La terza precisazione è a proposito del carattere della funzione. Mentre la “Commissione Rodotà”, in linea con le impostazioni del suo Presidente10, ricollegava in modo specifico la funzione alla effettività dell’esercizio dei diritti fondamentali e al principio di salvaguardia delle utilità intergenerazionali, le Sezioni Unite poggiano più l’accento sul generale “perseguimento e soddisfacimento degli interessi della collettività”, facendo sostanzialmente coincidere il “bene comune” con il “bene destinato all’uso pubblico”, anche se appaiono di rilievo, in chiave interpretativa della funzione del “bene comune”, i numerosi riferimenti, nella motivazione, alla tutela della umana personalità, alla centralità della persona e allo “Stato sociale” o allo “Stato collettività”.

8 Per una chiarificatrice classificazione dei diversi significati attribuiti all’espressione “beni comuni”, cfr. V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Politica del diritto, 1, 2014, pp. 6 ss. 9 Uno spunto interessante si trova nella motivazione delle sentenze delle Sezioni Unite civile, nel passaggio in cui si afferma che “la ‘demanialità’ esprime una duplice apparte-nenza, alla collettività e al suo ente esponenziale, dove la seconda (titolarità del bene in senso stretto) si presenta, per così dire, come appartenenza di servizio che è necessaria, perché è questo ente che può e deve assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti caratteristiche del bene e la loro fruizione”. Sul punto, per alcuni cenni, V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, cit., pp. 22 s. e 29. Naturalmente il problema è ancor più complesso quando il “bene comune” sia in proprietà privata. Per un’attenta ricognizione di alcune esperienze comunali di collaborazione fra la colletti-vità e l’Amministrazione per la gestione di beni definiti comuni, v. C. Angiolini, La questione dei beni comuni. Un itinerario fra regimi dei beni e diritti fondamentali, Tesi di dottorato in Diritto, Mercato e Persona, pp. 64 ss.10 Vedile, in S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., pp.105 ss., dove l’attenzione, rispetto al 2007, si va concentrando su bisogni che attengono alla sopravvivenza stessa dell’umanità e dunque su “beni comuni”, quali acqua, aria e conoscenza; e, da ultimo, in Vivere la democrazia, cit., pp. 93 ss., particolarmente pp.117 s.

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La quarta precisazione riguarda invece la natura ‘aperta’ della categoria. Qui, mi sembra più che opportuno evidenziare due aspetti. Innanzitutto, la storicità della categoria. Giustamente, Rodotà avverte che la rilevanza e la tutela dei beni comuni non può derivare da una loro natura, da un’essenza che li caratterizzerebbe al di là delle contingenze, mentre “il loro affiorare impetuoso e pervasivo non può fare astrazione dalla storia e dai suoi movimenti”11. E, poi, il rischio di un uso troppo lato dell’espressione “beni comuni” – e qui ci si ricollega a quanto rilevato in sede di prima precisazione – da cui, com’è stato detto, autorevolmente e in modo assai efficace, occorre guardarsi per evitare che possa “compromettere l’efficacia espressiva e banalizzare il senso” della stessa espressione12. Perché, altrimenti, è facile previsione: tutto è comune, niente è comune, con conseguente evaporazione dei caratteri giuridici sopra evidenziati e di qualsivoglia connotazione che possa configurare comunque, in modo giuridicamente rigoroso, la nozione.

3. La ‘conferma’ della Corte di Strasburgo

Un simile risultato giuridico, va detto, è uscito addirittura ‘rafforzato’ dall’esame di Strasburgo, ossia dall’esame sostenuto dalla decisione delle Sezioni Unite civili dinanzi la Corte europea dei diritti dell’uomo.

La Corte EDU, infatti, con la sentenza del 23 settembre 2014, pronunciata sul ricorso proposto da Valle Pierimpiè società agricola s.p.a. contro la Repubblica italiana, non è entrata nel merito della qualificazione delle Valli da pesca della laguna veneziana come “beni comuni”, data dalla Corte di Cassazione, né ha minimamente scalfito la struttura funzionale della più generale nozione di “beni comuni” elaborata dalle Sezioni Unite. Anzi – e per ciò dico che la ratio decidendi sulla nozione di “bene comune” della Suprema Corte è uscita addirittura ‘rafforzata’ dall’esame di Strasburgo – la Corte EDU ha riconosciuto che il giudice nazionale, molto meglio del giudice internazionale, può valutare la funzione dell’utilità pubblica di un bene. E ciò, in ragione della conoscenza diretta che lo stesso giudice nazionale ha della sua società e dei suoi bisogni13.

La Corte di Strasburgo, e ciò si rivela importante ad altri fini come si dirà, in nome del principio di proporzionalità tra misure adottate e scopi 11 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 124.12 M. R. Marella, Il diritto dei beni comuni. Un invito alla discussione, in Rivista critica del diritto privato, 1, 2011, p. 110.13 Cfr. i nn. 66 e 67 della citata sentenza CEDU.

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perseguiti e di giusto equilibrio tra interesse generale e diritti fondamentali della persona, fra i quali rientra il diritto di proprietà protetto dal citato art. 1 del Protocollo n. 1, si è limitata a ritenere necessaria la previsione di un indennizzo a favore della società imprenditrice, giustificato dall’esistenza, nel caso concreto, di una serie di circostanze, quali la buona fede della stessa società, la presenza di titoli formali di proprietà, le modalità e i tempi dell’azione della pubblica amministrazione italiana, l’ingiunzione – addirittura - del pagamento di un’indennità per occupazione abusiva, circostante tali da far risultare sproporzionata la misura adottata.

4. Il dibattito

Nonostante la nozione giuridica di “bene comune” introdotta dalle Sezioni Unite civili sia dunque rimasta ferma, e nonostante i caratteri di tale nozione, come si è visto, siano stati fissati in modo inequivoco dalla Suprema Corte – almeno per quel che riguarda, si ripete, la rilevanza esclusiva della funzione, a prescindere dall’appartenenza, ai fini dell’accertamento della natura di “bene comune” – e corrispondano ad una consolidata elaborazione scientifica, il dibattito giuridico successivo si è svolto generalmente intorno alla questione dell’appartenenza.

E così i beni comuni ora sono ricondotti al modello della proprietà collettiva14, ora sono considerati “beni intrinsecamente sottratti ad ogni forma di titolarità sia di natura pubblica che privata”15.

Più in linea con l’impostazione delle Sezioni Unite civili, Natalino Irti parla, per i “beni comuni”, di pluralità di appartenenze16. E lo fa cogliendo, acutamente, un passaggio della motivazione, nel quale la Suprema Corte afferma che “la ‘demanialità’ esprime una duplice appartenenza, alla collettività e al suo ente esponenziale, dove la seconda (titolarità del bene in senso stretto) si presenta, per così dire, come appartenenza di servizio che è necessaria, perché è questo ente che può e deve assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti caratteristiche del bene e la loro fruizione”.

Da questo passaggio, certamente rilevante, Irti trae spunto per affermare:

14 P. Maddalena, L’ambiente e le sue componenti come beni comuni in proprietà collettiva della presente e delle future generazioni, in Federalismi. It,15 N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, pp. 128 ss.16 N. Irti, L’acqua tra beni comuni e concessioni (o la pluralità delle ‘appartenenze’), in Diritto e Società, 2013.

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“I beni comuni non sono senza appartenenza, quasi sospesi in un vuoto di diritto, ma beni a pluralità di appartenenze, sicché lo ‘ente esponenziale’ e il singolo hanno ciascuno il proprio titolo e ciascuno la propria legittimazione. Sarebbe logicamente e praticamente infruttuoso attribuire diritti privi di azione o azioni prive di diritto: il punto è, invece, di ricongiungere gli uni e le altre, di moltiplicare e difendere la titolarità”. Dove, mi pare davvero importante il riferimento alla questione della tutela – che è la questione di fondo dei “beni comuni” - e alla connessione, inscindibile, fra diritti e azione.

Da altra sponda, ma in un ordine d’idee nient’affatto inconciliabile, e sempre in linea con la ricostruzione della Suprema Corte, Stefano Rodotà parla di una “situazione che può essere descritta come riconoscimento della legittimità che al medesimo bene facciano capo soggetti e interessi diversi”, sicché il discorso sull’inclusione si tramuta in quello sull’accessibilità. E, al pari di Irti, pone l’accento sulla questione del potere e della tutela, ricordando che, “nel momento in cui taluni beni sono al centro di una costellazione di interessi, questa loro particolarità implica che, in forme ovviamente differenziate, si dia voce a chi li rappresenta”17. Dalla medesima sponda, e in analoga direzione, Maria Rosaria Marella pensa che, per la costruzione di un regime giuridico dei “beni comuni”, occorra partire dalla concezione della proprietà come “fascio di diritti” e, con particolare riferimento all’ordinamento italiano, dalle ricordate sentenze della Corte di Cassazione sulle Valli da pesca della laguna veneta18.

5. La via per uno statuto dei beni comuni

Ecco, a me sembra che, se si vuole affrontare la “questione dei beni

17 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., pp. 105 ss., in particolare, p. 109. V. pure Id., Vivere la democrazia, cit., pp. 93 ss., in particolare, pp. 111 e 116 s. In un’ottica più complessiva di ripensamento della proprietà - attraverso un’interpretazione contro-egemonica della stessa, e dunque riempiendo, con una tale interpretazione, appunto, le norme esistenti di nuovi significati alla luce dei bisogni e delle condizioni che emergono nella società – volta a comprimere l’esclusione a favore dell’accesso, A. Quarta, Non-proprietà. Teoria e prassi dell’accesso ai beni, Napoli, 2016, particolarmente, pp. 279 ss. (anche in U. Mattei e A. Quarta, Punto di svolta, cit., pp. 33 ss., particolarmente, pp. 82 ss.), inquadra la tematica dei “beni comuni”, per i quali occorre, appunto, accettare l’esistenza sullo stesso bene di diritti condivisi da più persone contemporaneamente, senza il bisogno di ricorrere a nuovi diritti reali e senza così scontrarsi con la questione del loro numero chiuso. 18 Da ultimo, M. R. Marella, The Commons as a Legal Concept, in Law and Critique, 2016, pp. 14 ss.

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comuni” su basi giuridiche concrete, al fine di ricostruirne una disciplina che, nel quadro normativo dato, contribuisca a conferire loro identità e tutela, in attesa magari d’interventi legislativi volti a creare un vero e proprio ‘statuto dei beni comuni’, occorra muoversi in questa direzione.

E, dunque, occorra far leva proprio sulla nozione di “bene comune” introdotta nel nostro diritto vivente dalle ricordate sentenze delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con i caratteri che la stessa Corte, in modo inequivoco, ha fissato e che sopra ho evidenziato. Una nozione che, come si è detto, è uscita addirittura rafforzata dall’esame sostenuto dinanzi la Corte EDU e si colloca nel quadro di una consolidata elaborazione scientifica.

Si è visto, quella nozione, essenzialmente, prescinde dall’appartenenza, nel senso che il “bene comune” può essere tanto in proprietà pubblica (dello Stato o di altro soggetto pubblico), quanto in proprietà privata o, anche, collettiva, ed è esclusivamente fondata sulla funzione pubblica del bene, sull’utilità pubblica che esso, per sua intrinseca natura o finalizzazione, e indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, è in grado di realizzare: insomma sulla sua destinazione all’uso pubblico.

Non è certo un caso che la Corte, per fondare su solide basi normative la nozione di “bene comune”, oltre ai principii contenuti negli articoli 2, 9 e 42 della Carta costituzionale, valorizzi, fra le norme di rango ordinario richiamate per evidenziare il dato positivo della scindibilità fra proprietà pubblica e destinazione del bene a finalità pubbliche, l’articolo 825 del codice civile, unica norma, all’interno della disciplina contenuta nel Capo II del Titolo I dello stesso codice - quello dedicato ai “beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici” - a fare riferimento alla funzione dei beni demaniali, delle province e dei comuni: “Sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altrui soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi”19.

19 Il corsivo, ovviamente, è aggiunto.

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6. La vicenda giurisprudenziale dei “beni destinati all'uso pubblico”

Ma se la nozione di bene comune, entrata nel nostro diritto vivente a seguito delle sentenze delle Sezioni Unite civili, è appunto quella di “beni destinati all’uso pubblico”, allora, come ho avuto modo di rilevare in altra occasione20, devo ribadire che essa non costituisce certo una novità.

I “beni destinati all’uso pubblico”, infatti, a cominciare da quelli appartenenti a soggetti privati, sono stati al centro di una lunga storia giurisprudenziale, che attraversa, quasi per intero, quella dell’Italia unita, risalendo alla celebre sentenza del 9 marzo 1887 della Cassazione di Roma, sull’uso pubblico di Villa Borghese.

Con quella sentenza, a chiusura di una controversia, che vedeva contrapposti, da una parte, la famiglia dei principi Borghese, e, dall’altra, il Comune di Roma, in rappresentanza degli interessi di tutta la popolazione, ed avente ad oggetto il diritto di uso pubblico su Villa Borghese, un diritto sui generis, consistente, secondo la celebre arringa pronunciata da Pasquale Stanislao Mancini21, uno dei difensori del Comune, innanzi al Tribunale di Roma, nel corso del secondo grado del processo, nel diritto di passeggiare dentro la Villa, di liberamente godere dei suoi vasti parchi, di respirarvi l’aria salubre, di udirvi la messa in una cappella destinata al pubblico e di visitare il museo ricco di opere d’arte22, con quella sentenza, dicevo, la Cassazione di Roma, pur in assenza di una specifica norma che lo prevedesse, ma sulla base dei principii generali e del sistema di legislazione allora vigente, riconosce quel diritto sulla Villa e lo sintetizza nell’efficace formula di ius deambulandi, introducendolo nell’ordinamento.

Dopo quella sentenza, che crea la figura dei “diritti di uso pubblico” su beni privati, e dopo un’altra importante sentenza, sempre della Cassazione di Roma, ma a Sezioni Unite, del 14 aprile 191723 - importante anche per l’autorevolezza del collegio giudicante, presieduto da Lodovico Mortara, con Mariano d’Amelio estensore - che qualifica i “diritti di uso pubblico” come “diritti autonomi di natura particolare, il cui regolamento appartiene in gran parte al diritto pubblico”, mentre esclude l’analogia con le servitù prediali, si giunge, tra la fine degli anni Venti e i primi anni

20 A. Di Porto, Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, Torino, 2013, pp. 43 ss.21 Pubblicata, in tre puntate, ne Il Filangieri, XI, 1886, Dispense di gennaio (pp. 1-19), febbraio (pp. 49-78) e marzo (pp. 119-151).22 Il Filangieri, cit., in particolare, Dispensa di febbraio, p. 50.23 Foro it., 1917, I, c. 751 ss.

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Trenta, ad una serie di sentenze della seconda sezione civile della Corte, ormai divenuta Corte di Cassazione del Regno, che affrontano, tutte, il tema della legittimazione ad agire: dapprima, in relazione all’uso pubblico su beni privati, si afferma, a chiusura di un contrasto nella giurisprudenza di merito, la legittimazione del singolo, titolare del diritto di uso pubblico, dunque la vera legittimazione popolare, quella che affonda le proprie radici nell’azione popolare romana dell’età repubblicana, diversa da quella disciplinata dall’allora vigente legge comunale e provinciale, che ne condizionava l’esercizio all’autorizzazione della Giunta provinciale amministrativa24; poi, con la sentenza 4 luglio 1934, n. 272225, si arriva ad affermare la legittimazione all’azione del titolare del diritto di uso, uti civis, con riferimento al diritto di uso – non su bene privato, si badi, ma – su bene demaniale, enunciando, come per compendiare quasi mezzo secolo di giurisprudenza creativa in materia, il principio che “la natura giuridica dell’uso collettivo sui beni demaniali od anche dei privati, ove siano soggetti ad uso pubblico, è quello di un diritto veramente tale, ma sui generis, differente cioè dal dominio o dalla servitù, sia personale (stante il perpetuarsi della collettività che ne gode) sia reale (a causa della mancanza di un fondo dominante), anzi differente da ogni ragione di diritto privato e che ai cittadini compete, in quanto tali, ma jure publico civitatis”26.

Orbene, ai presenti fini, basta osservare, in conclusione di questo rapido excursus, come il frutto di questa straordinaria vicenda giurisprudenziale sia stato il consolidarsi di una disciplina, di matrice giurisprudenziale appunto, dei beni destinati all’uso pubblico o, vista dal profilo soggettivo, dei diritti di uso pubblico sugli stessi beni.

Una disciplina che, fotografata sul finire degli anni Trenta, subito prima dell’entrata in vigore del codice civile del 1942, riguarda, come s’è visto, tutti i diritti di uso pubblico, sia quelli su beni di proprietà privata sia quelli su beni demaniali, e che può declinarsi nei seguenti fondamentali principii: quello, secondo cui, dal lato attivo dei diritti di uso pubblico, v’è la pluralità dei cittadini, istituzionalmente organizzata (in comune, frazione, e così via) o, addirittura, v’è una comunità di persone, anche se non organizzata in ente pubblico territoriale, purché

24 Cass. Regno, 22 marzo 1928 (Foro it., Rep. 1928, v. Servitù pubbliche, n. 31); 11 gennaio 1929 e 8 febbraio 1929 (Foro it., Rep., 1929, v. Servitù pubbliche, nn. 23 e 24); 3 dicembre 1929 (Foro it., Rep., 1929, v. Strade, n. 28); 10 febbraio 1931, n. 501, e 8 aprile 1931, n. 1221 (Mass. Foro it., 1931, cc. 109 e 257); 24 aprile 1931 (Foro it., 1931, I, c.1295).25 Giur. it., 1934, I, cc. 1226 ss.26 Per la ricostruzione dei passaggi salienti di questa vicenda giurisprudenziale, mi permetto di rinviare al mio Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, cit., pp. 51 ss.

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appaia come una collettività indeterminata di individui, considerati non uti singuli ma uti cives, e cioè quali titolari di interessi di carattere generale; il principio secondo cui il concetto di publica utilitas non corrisponde a quello di necessità, ma comprende ogni vantaggio che la collettività possa ritrarre, anche di natura estetica, spirituale, di salubrità e di mero diletto; il principio secondo cui è ammessa la costituzione del diritto per usucapione anche in difetto di qualsiasi provvedimento dell’autorità amministrativa; e, finalmente, il principio, infine, secondo cui la legittimazione ad agire spetta anche ai titolari del diritto, uti cives, senza che ricorra litisconsorzio necessario con il Comune o altro ente rappresentativo della collettività, in una parola la tutela affidata al cittadino, titolare del diritto di uso pubblico, mediante la vera e propria azione popolare.

Con l’entrata in vigore del nuovo codice civile, muta profondamente il quadro normativo.

Il Codice, infatti, non segue l’impostazione della giurisprudenza ora esaminata. Anzi, la ribalta, classificando i beni pubblici esclusivamente sulla base del criterio formale dell’appartenenza, non dando alcun rilievo, nell’ambito della stessa classificazione, alla funzione del bene, alla sua destinazione all’uso pubblico e disponendo, negli articoli 823, 2° comma, e 824, 1° comma, che la tutela dei beni, sia di quelli che fanno parte del demanio pubblico sia di quelli, della medesima specie, che appartengono alle province e ai comuni, spetta all’autorità amministrativa.

Lo stesso articolo 825, che pure nella sostanza recepisce, nella sua seconda parte, la figura dei diritti di uso pubblico su beni privati creati dalla ricordata giurisprudenza, a cominciare dalla sentenza del 1887 su Villa Borghese, e che, come si è sopra evidenziato, unico fra gli articoli del codice che trattano “dei beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici”, fa espresso riferimento alla funzione del “conseguimento di fini di pubblico interesse” propria dei medesimi beni, qualifica però, tali diritti, coerentemente con l’impostazione del nuovo codice, come “diritti demaniali su beni altrui” e li sottomette al regime del demanio pubblico, affidandone dunque la tutela all’autorità amministrativa.

Del resto, il culto del dogma della persona giuridica, che, nel periodo a cavallo del nuovo codice, e fino agli anni Sessanta, raggiunge la sua acme, finisce col soffocare, in ambito pubblicistico, talune espressioni della sovranità popolare, fra cui è da farsi rientrare l’azione popolare27.

Di fronte a tale nuovo quadro normativo e concettuale, la

27 Cfr. L. Paladin, Azione popolare, in Novissimo Digesto italiano, II, Torino, 1958, p. 90.

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giurisprudenza ordinaria, spezzando l’unitarietà d’indirizzo fissata dalla Corte di Cassazione, con la sentenza del 4 luglio 1934, n. 2722, sopra ricordata, si muove lungo due opposti orientamenti: uno, riguardante i diritti di uso pubblico (o uso comune, che dir si voglia) su beni demaniali; l’altro, con riferimento ai diritti di uso pubblico su beni di proprietà privata. Due opposti orientamenti, che si consolidano e che, ai presenti fini, meritano di essere richiamati28.

Da una parte, infatti, la Corte di Cassazione, abbandonando l’orientamento del ’34, secondo cui il diritto di uso pubblico sui beni demaniali assurge a diritto assistito da azione (popolare), si allinea al nuovo dettato normativo del codice civile - contenuto negli articoli 823, 2° comma, e 824, 1° comma – e quindi riconosce, in via esclusiva, la tutela all’autorità amministrativa. Con esclusione, dunque, dell’azione ai titolari del diritto.

Dall’altra parte, invece, la stessa Suprema Corte, in sede di applicazione dell’articolo 825, ultima parte, del codice civile, precisamente con riferimento ai diritti di uso pubblico su beni di proprietà privata - in specie vie vicinali - che chiama impropriamente “servitù di uso pubblico”, nonostante che, come si è appena ricordato, l’articolo 825 rinvii espressamente al regime del demanio pubblico, continua a ribadire i principii enunciati dalla giurisprudenza anteriormente all’entrata in vigore del codice civile del ’42, in mezzo secolo di sentenze, che si sono richiamati più sopra, fra cui che la legittimazione ad agire spetta pure al singolo titolare del diritto, uti civis, senza che ricorra litisconsorzio necessario con l’ente – Comune o altro – rappresentativo della collettività29.

7. La identità dei beni comuni

Richiamata, in sintesi, la vicenda giurisprudenziale, che ha riguardato i “beni destinati all’uso pubblico”, si può tornare alle sentenze delle Sezioni Unite civili sulle Valli da pesca della laguna veneziana, che a quella vicenda si ricollegano.

Ho detto, più sopra, che, se si vuole affrontare la “questione dei beni comuni” su basi giuridiche concrete, al fine di ricostruirne una disciplina che, nel quadro normativo dato, contribuisca a conferire loro identità e 28 Li avevo ricostruiti in Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, cit., pp. 65 ss.; ma, in quell’occasione, non li avevo ripensati alla luce delle sentenze delle Sezioni Unite civili sulle Valli da pesca della laguna veneziana del 2011.29 Da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2011, n. 333.

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I “beni comuni” in cerca di identità e tutela

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tutela, occorre muovere dal punto fermo costituito da queste sentenze.Tali sentenze, a mio avviso, risolvono la questione dell’identità, nel senso

che conferiscono ai “beni comuni” un’identità ben precisa.Per la Corte, infatti, come si è visto, i “beni comuni” sono “beni

destinati all’uso pubblico”, destinati, cioè, alla realizzazione degli interessi dei cittadini.

Questa è la loro identità. Un’identità, che prescinde dall’appartenenza. Il che, anche questo si è visto, non significa che detti beni sono senza appartenenza. Significa che, destinati all’uso pubblico, possono essere beni in proprietà pubblica o privata o anche collettiva; e che, dunque, quel che caratterizza tali beni, e ne definisce l’identità, è la funzione, non l’appartenenza.

La destinazione all’uso pubblico, e, in ragione di ciò, la loro qualificazione come “beni comuni”, comporta che a ciascuno di essi facciano capo ‘più’ soggetti e ‘più’ diritti: quanto meno, il proprietario, o i proprietari, e i titolari dell’uso (pubblico), con i loro rispettivi diritti30.

Naturalmente, nel caso in cui sia accertata la natura di “bene comune” di un determinato bene, che sia in proprietà di un soggetto privato, e quindi sia assoggettato all’uso pubblico, si può porre un problema di determinazione di un indennizzo a favore del proprietario, in ragione della perdita dell’uso esclusivo. E’ quanto mi pare possa trarsi dai principii enunciati dalla richiamata sentenza della Corte EDU del 23 settembre 2014, pronunciata sul ricorso proposto da Valle Pierimpiè società agricola s.p.a. contro la Repubblica italiana. Una sentenza che, come detto, mentre non ha minimamente scalfito la struttura funzionale della più generale nozione di “beni comuni” elaborata dalle Sezioni Unite - addirittura riconoscendo che il giudice nazionale, molto meglio del giudice internazionale, può valutare la funzione dell’utilità pubblica di un bene - in nome del principio di proporzionalità tra misure adottate e scopi perseguiti e di giusto equilibrio tra interesse generale e diritti fondamentali della persona, fra i quali rientra il diritto di proprietà protetto dal citato art. 1 del Protocollo n. 1, ha ritenuto necessaria la previsione di un indennizzo a favore della società imprenditrice, anche in ragione della ricorrenza di specifiche circostante, che caratterizzavano quel caso concreto.

30 “Quanto meno”, pensando all’ipotesi che il “bene destinato all’uso pubblico”, o “bene comune”, sia in concessione: cfr. N. Irti, L’acqua tra beni comuni e concessioni (o la plu-ralità delle ‘appartenenze’), cit.

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8. La tutela

Se le sentenze delle Sezioni Unite civili risolvono la questione dell’identità dei “beni comuni”, le stesse sentenze, invece, non affrontano la questione della tutela.

Una questione, però, che è centrale nella ricostruzione di una disciplina giuridica dei “beni comuni”, e che è strettamente connessa al ricordato riconoscimento di una pluralità di diritti su tali beni.

E’ stato giustamente notato, infatti, che affermare la destinazione all’uso pubblico di determinati beni e riconoscerne in capo ai cittadini il relativo diritto di uso, senza fornire loro il potere della tutela, cioè l’azione, insomma attribuire diritti privi di azione “sarebbe logicamente e praticamente infruttuoso”31. E pure che, “nel momento in cui taluni beni sono al centro di una costellazione di interessi, questa loro particolarità implica che, in forme ovviamente differenziate, si dia voce a chi li rappresenta”32.

Del resto, ha scritto un autorevole protagonista-non giurista del dibattito sui beni comuni, “cuore di questa legittimazione dev’essere la convinzione moralmente e giuridicamente fondata, che l’ambiente, il paesaggio, il territorio (comunque definiti) sono un bene comune sul quale tutti abbiamo, individualmente e collettivamente, non solo un passivo diritto di fruizione, ma un attivo diritto-dovere di protezione e difesa”33.

Questa sorta di ‘appello all’azione popolare’, perché di questo si tratta, al riconoscimento cioè di un’azione in capo ai cittadini, titolari del diritto di uso sui “beni comuni” e al soddisfacimento del cui interesse gli stessi beni sono destinati, ‘appello’ proveniente da sensibilità e punti di vista diversi, può, a mio avviso, trovare una risposta sulla scorta delle sentenze delle Sezioni Unite civili.

Se è vero, infatti, che queste sentenze non affrontano la questione della tutela dei “beni comuni”, mi sembra altrettanto vero, però, che, con le stesse pronunce, la Suprema Corte, sganciando la nozione di bene comune dall’appartenenza e facendola coincidere con quella di bene destinato all’uso pubblico, abbia rimesso sullo stesso piano i diritti di uso pubblico su beni privati e i diritti di uso pubblico su beni demaniali, ritornando, per tale via, a quella visione unitaria, che aveva ispirato la giurisprudenza della Cassazione al principio degli anni Trenta del secolo scorso, quando, con

31 Così N.Irti, L’acqua tra beni comuni e concessioni (o la pluralità delle ‘appartenenze’), cit.32 Così S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 109.33 S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, 2012, passim, e, par-ticolarmente, pp.199 ss.

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la sentenza 4 luglio 1934, n. 272234, si era arrivati ad affermare, appunto, la legittimazione popolare con riferimento ai diritti di uso pubblico (o collettivo) – non più solo su beni privati, come aveva fatto la Corte, con una serie di sentenze sul finire degli anni Venti, ma anche – su beni demaniali, enunciando, come per compendiare quasi mezzo secolo di giurisprudenza creativa in materia, il principio che “la natura giuridica dell’uso collettivo sui beni demaniali od anche dei privati, ove siano soggetti ad uso pubblico, è quello di un diritto veramente tale”, ossia di un diritto munito di azione.

Ma se è così, allora, sulla scorta di questa riaffermata unitarietà dei beni destinati all’uso pubblico – a prescindere dall’appartenenza, privata, pubblica o anche collettiva – sotto la dizione di “beni comuni”, non v’è ragione per non ritenere applicabile ai diritti di uso su tali beni, su tutti tali beni, quei principii, enunciati dalla giurisprudenza prima del codice civile del ’42, in mezzo secolo di sentenze, e sopra richiamati, ma che la Corte di Cassazione ha continuato ad affermare, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice civile, a proposito dei (soli) diritti di uso pubblico su beni di proprietà privata, fra i quali principii, come si è visto, v’è anche quello che la legittimazione ad agire spetta pure al singolo titolare del diritto, uti civis, senza che ricorra litisconsorzio necessario con l’ente – Comune o altro – rappresentativo della collettività.

Né, d’altra parte, può opporsi che tali principii, in particolare quello appena ricordato della legittimazione popolare, non possa applicarsi stante il disposto dell’articolo 823, 2° comma, del codice civile vigente, secondo cui la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico spetta all’autorità amministrativa. La Corte di Cassazione, infatti, ha continuato ad applicare quei principii - compreso quello che la legittimazione ad agire, oltre che alla pubblica autorità, spetta pure al singolo titolare del diritto, uti civis - ai diritti di uso pubblico su beni di proprietà privata contemplati dall’articolo 825, ultima parte, c.c., nonostante che, ecco il punto, lo stesso articolo 825, attraverso il generale rinvio al regime del demanio pubblico, richiami anche la disposizione contenuta nell’articolo 823, 2° comma, che, come si è appena visto, demanda all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico.

Se, dunque, il riconoscimento dell’azione popolare a tutela dei diritti di uso pubblico su beni privati destinati a tale uso non è impedito dalla previsione contenuta nell’articolo 825 c.c., mi pare irragionevole ritenere precluso dall’articolo 823, 2° comma, c.c., analogo riconoscimento a tutela dei diritti di uso (comune, collettivo o pubblico, che si voglia chiamare)

34 Giur. it., 1934, I, cc. 1226 ss.

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su quei beni in proprietà pubblica, che svolgano la medesima funzione del conseguimento di fini di pubblico interesse. Tanto più irragionevole ora, che le Sezioni Unite civili hanno ricondotto all’unitaria nozione di “beni comuni” i beni, privati o pubblici, destinati all’uso pubblico, mettendo così sullo stesso piano i rispettivi diritti di uso.

Sicché mi pare che, muovendo dalle sentenze delle Sezioni Unite civili sulle Valli da pesca della laguna veneziana, si possa giungere a riconoscere una doppia azione a tutela dei “beni comuni”, come identificati dalle stesse sentenze: un’azione del proprietario, pubblico o privato, e un’azione, popolare appunto, dei titolari – di ogni singolo titolare – dell’uso.

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Gilda Ferrando

Guido Alpa e il testamento biologico

Sommario: 1. Il progetto di legge sul testamento biologico presentato da Guido Alpa nel 1990. – 2. Il contributo di Guido Alpa alla raccolta di scritti promossa dalla Fondazione Veronesi: le diverse fasi della riflessione sul tema. – 3. Il caso Englaro e il progetto di legge Calabrò – 4. La legge n. 219/2017. – 5. Conclusioni

1. Il progetto di legge sul testamento biologico presentato da Guido Alpa nel 1990”

Il lungo viaggio del testamento biologico in Italia ha una data di inizio: il marzo 1990 quando Guido Alpa presentò al convegno organizzato da Politeia1 una “Proposta di testamento biologico” indirizzata alle Commissioni giustizia della Camera e del Senato, proposta elaborata di concerto con Renato Boeri, allora presidente della Consulta di Bioetica. In seguito Guido cercherà di minimizzare, come è nel suo stile, il ruolo avuto in quella vicenda. Resta il fatto che quella proposta porta ormai il suo nome.

Come racconta Maurizio Mori, curatore degli atti, nelle note di presentazione, l’idea di affrontare nel convegno questo argomento nasceva dal fatto che all’epoca nel nostro Paese si tendeva ad “evitare la riflessione in materia (comportandosi come se il problema non esistesse)”. Si era così pensato di affidare a Guido Alpa la trattazione degli aspetti propriamente giuridici e a Renato Boeri quelli più strettamente medici della questione. In seguito, i due studiosi chiesero “di modificare il tipo di intervento e di presentare una proposta concreta di Testamento biologico, invece che un’analisi teorica della questione”. L’idea è stata accolta con favore perché “di fronte ad una proposta concreta … non può mancare la presa di posizione, sia favorevole o contraria”. E così effettivamente è stato perché da quella 1 La bioetica. Questioni morali e giuridiche per il futuro dell’uomo, 29-31 marzo 1990, con-vegno che si è tenuto a Roma nell’Aula Magna del CNR e i cui atti sono stati pubblicati nel 1991, a cura di Politeia, da Bibliotechne, Roma, 1991. La “Proposta di testamento biologico” sottoscritta da Alpa come promotore e da altri intellettuali e studiosi, si trova alle pp. 241- 245, corredata da una Nota del curatore, e seguita da una “Dichiarazione sul testamento di vita (living Will)” della Consulta di Bioetica.

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G. Ferrando

proposta è nato un dibattito che porterà, quasi trent’anni dopo, alla legge n. 219/2017.

“I due autori – racconta sempre Maurizio Mori – hanno creduto di apprestare una traduzione italiana, opportunamente adattata al contesto italiano, del modello di Testamento biologico preparato dalla Yale Law School, che ha ispirato molte legislazioni oggi vigenti negli Stati Uniti”.

Si trattava di una proposta snella intesa a garantire a tutti il diritto di “chiedere di non iniziare ovvero di sospendere procedure di sostegno vitale in condizioni terminali o atte a procrastinare per breve tempo il processo del morire”, prevedendo inoltre la facoltà di nomina di un fiduciario e l’eventualità che tali disposizioni producano effetto per il tempo in cui il disponente “verserà in stato di incapacità di intendere o di volere”. Venivano precisati i requisiti di capacità del disponente e di forma della dichiarazione, che doveva essere “firmata dal dichiarante in presenza di due testimoni” e tramessa con “lettera raccomandata” al proprio medico di famiglia, “tenuto a conservarne copia a corredo della cartella clinica del dichiarante”. Nello stile anglosassone venivano poi date le definizioni di “medico curante”, “atto scritto”, “procedure di sostegno vitale”, “paziente qualificato”. Seguiva un modello di dichiarazione in buona sostanza intesa a chiedere che, in condizioni terminali, non venissero iniziate o venissero sospese procedure di sostegno vitale capaci solo di prolungare artificialmente il processo del morire, lasciando che “sia consentito morire naturalmente, soltanto con la somministrazione delle cure, e degli interventi ritenuti necessari per apportare conforto e sollievo”. A veder bene la proposta prevedeva non un vero e proprio Testamento biologico, ma la possibilità di rifiutare, alla fine della vita, trattamenti futili, il c.d. “accanimento terapeutico”. La sua importanza stava nel fatto che, pur in questi limiti, si intendeva riconoscere il diritto di autodeterminazione nelle scelte di vita e di morte.

La dichiarazione della Consulta di Bioetica che correda tale proposta ne esplicita le ragioni di fondo2. “L’importanza di questa iniziativa deriva in parte dal fatto che oggi gli interventi tecnologici permettono di prolungare in modo artificiale la vita degli individui e in parte dal fatto che va riconosciuta la capacità degli individui di decidere in modo autonomo e consapevole per ciò che riguarda la loro vita e la loro morte. Tale espressione di volontà permette all’individuo malato di morire con dignità e nello stesso tempo solleva i medici da eventuali responsabilità legali derivanti dall’incertezza della legislazione vigente o dalla sua interpretazione: il Testamento di

2 Consulta di Bioetica, Una dichiarazione sul testamento di vita, in La bioetica. Questioni morali e politiche per il futuro dell’uomo, cit., p. 245.

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Vita costituisce il riconoscimento del fondamentale diritto delle persone all’autodeterminazione”.

Dignità della persona, autodeterminazione, responsabilità del medico costituiscono dunque i poli su cui si articola la riflessione negli anni seguenti sempre più accesa a livello teorico e nell’opinione pubblica dall’affacciarsi sulla scena di casi drammatici come quello di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro3.

Nel commentare l’ordinanza del Tribunale di Roma sul caso Welby4, Guido si mostra sensibile alle esigenze di bilanciare, allo stato della legislazione vigente, autodeterminazione del paziente e responsabilità del medico, ma nello stesso tempo è consapevole che una diversa soluzione era possibile se solo si fosse presa sul serio la possibilità di applicazione diretta della Costituzione. “Il ‘vuoto normativo’ cui si riferisce il giudice, che in modo responsabile, si è preoccupato della sorte (non del paziente, ma) del medico, dovrebbe esser colmato dall’esimente correlata all’autodeterminazione del paziente, che, nel caso di specie, era adulto, cosciente e consenziente”. Una riflessione raccolta poi in sede penale dallo stesso Tribunale di Roma nel giudizio contro Mario Riccio, il medico che ha “staccato” il respiratore di Welby e gli ha somministrato la sedazione terminale, prosciolto dall’accusa grazie all’applicazione della scriminante dell’adempimento del dovere ex art. 51 c.p.5.

3 Si consideri inoltre il caso Nuvoli (Trib Sassari (decr.), 16 luglio 2007, in Foro it., 2007, I, 3025, con nota di G. Casaburi; Procura Sassari, 23 gennaio, 2008, in Dir e giust., 2008, 10), dove, non trovando ascolto la richiesta fatta personalmente dall’interessato, di sospendere la ventilazione meccanica (ed anzi, essendo stato il medico impedito dall’intervento delle forze dell’ordine), il malato rifiutò cibo ed acqua fino alla morte. (La drammatica vicenda è ripercorsa da A. Ferrato, Il rifiuto di cure e la responsabilità del sanitario, cit., 1148).4 Si tratta dell’ord. Trib. Roma 16 dicembre 2006, in Resp. civ. prev., 2007, 78, con nota di G. Alpa, Il danno da accanimento terapeutico, con la quale da un lato si riconosce il diritto a rifiutare le cure e l’accanimento terapeutico, ma dall’altro, in assenza di precise indicazioni normative, si esclude che possa essere il giudice ad ingiungere al medico di interrompere le procedure di sostegno vitale. “Il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa sommi-nistrazione di sedazione terminale, deve ritenersi sussistente alla stregua delle osservazioni di cui sopra, ma trattasi di diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento [...]”.5 Trib. Roma, 23 luglio-17 dicembre 2007, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 65, con nota di M. Azzalini, Trattamenti life-saving e consenso del paziente: i doveri del medico di fronte al rifiuto di cure.

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2. Il contributo di Guido Alpa alla raccolta di scritti promossa dalla Fondazione Veronesi: le diverse fasi della riflessione sul tema

In seguito Guido ha modo di ritornare sull’argomento con la pubblicazione di un piccolo (e prezioso) volumetto promosso dalla Fondazione Umberto Veronesi e distribuito insieme al Sole-24 Ore6. Siamo nel 2006 ed è un momento difficile dal punto di vista politico, culturale, sociale – fa notare Alpa7 - anche per via del fallimento del referendum abrogativo della l. n. 40/2004 sulla Procreazione medicalmente assistita, che aveva riportato “indietro negli anni le frontiere della laicità dello Stato e dei diritti civili”, acuendo il “divario tra posizioni scientifiche e posizioni bioetiche: la scienza prosegue sul suo cammino verso nuove scoperte … e la bioetica ha imboccato il senso opposto, tornando ad arroccarsi su presupposti fondamentalisti che ben poco spazio lasciano alla ricerca, alla libertà personale, alla vita e alla morte dignitose”. Il dibattito sul testamento biologico (o “direttive anticipate sui trattamenti sanitari”) va di pari passo e talvolta si confonde con quello sull’accanimento terapeutico e l’eutanasia passiva, anche se un’altra formula, avverte Guido, sarebbe più appropriata a descrivere questa area di problemi: quella dell’autodeterminazione, del diritto di decidere del proprio corpo che ha fondamento costituzionale nell’art. 32 della Costituzione.

Ripercorrere le fasi del dibattito aiuta a decifrarne i termini presenti. Con una efficace sintesi Guido Alpa distingue tre fasi. Una prima fase, quella degli albori della discussione, fa riferimento alla Raccomandazione relativa ai diritti dei malati e dei morenti adottata dall’Assemblea del Consiglio d’Europa il 29 gennaio 1976. Al proposito di raccogliere i principi generali condivisi da tutti i Paesi europei, al riconoscimento della necessità – contenuto in premessa - di riconoscere e garantire il rispetto della volontà dell’interessato, della sua dignità, del diritto all’informazione e alle cure appropriate, fanno poi riscontro raccomandazioni assai scarne, generiche e deludenti. Sempre in questa fase, pochi anni dopo, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede diffonde (5 maggio 1980) la sua Dichiarazione sull’eutanasia. La tutela della vita viene contrapposta all’eutanasia, ma si 6 Fondazione Umberto Veronesi, Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Il Sole 24 Ore, Gennaio 2006, con Prefazione di Umberto Veronesi e Introduzione di Maurizio de Tilla (con contributi di S. Patti, P. Rescigno, G. Alpa, L. D’Avack, L. Balestra, R. Cecchi, G. Ferrando, M. Sesta, D. Vincenzi Amato, G. Bonilini).7 Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, ivi, pp. 25-46, ripreso poi in G. Alpa e G. Resta, Le persone fisiche e i diritti della personalità, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, Utet, 2006, p. 243 ss.

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consente l’uso di analgesici per lenire il dolore, si sottolinea l’importanza di “proteggere nel momento della morte, la dignità della persona umana”. E si introduce la distinzione tra mezzi “normali” di cura e “mezzi straordinari”. “E’ sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire”. Il rifiuto dei mezzi straordinari, troppo onerosi, “non equivale a suicidio”. “Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali in tali casi”.

I due documenti, osserva Guido8 sono in realtà meno distanti di quanto non appaia a prima vista, perché entrambi “collocano la questione del trattamento sanitario diretto al prolungamento della vita in una dialettica che vede tra loro contrapposte la posizione del paziente e quella del medico. Al paziente si deve garantire la consapevolezza della situazione in cui egli versa e un trattamento non contrastante con la dignità umana; il medico non deve promuovere terapie sperimentali né accanirsi nel trattamento perché lo scopo della medicina non consiste nel prolungamento della vita ma nell’alleviamento delle sofferenze”.

Nel trascorrere del tempo il problema si acuisce, anche per effetto dell’evoluzione tecnologica che rende sfumati i confini tra trattamenti ordinari e straordinari. Anche trattamenti considerati fino a quel momento “sperimentali” divengono “ordinari”. La questione si complica perché fanno la loro apparizione sulla scena altri soggetti, i congiunti, il giudice e si confonde perché i mass media, forse per esacerbare il dibattito, tendono a parlare più di eutanasia passiva che di cessazione di trattamenti inutilmente lesivi della dignità della persona. Prende così avvio la seconda fase del dibattito che anche Guido fa coincidere con il Convegno di Politeia del 1990 e con la proposta che prende il suo nome.

In questa seconda fase l’attenzione si sposta sul testamento biologico come strumento per valorizzare l’autodeterminazione anche oltre il limite della perdita della capacità e consapevolezza. Ripensandola in prospettiva quella proposta mostra i suoi limiti perché associa testamento biologico e accanimento terapeutico. “Il testamento biologico non è considerato in sé e per sé, ma piuttosto come strumento per la tutela dei diritti fondamentali della persona e per la sua difesa da trattamenti sanitari non desiderati, aggressivi e lesivi della dignità umana”9.8 G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, cit., p. 30 s.9 G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, cit., p. 32

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La proposta non ebbe fortuna anche se contribuì a stimolare il dibattito che in quegli anni si alimentava anche dei contributi offerti dal Comitato Nazionale per la Bioetica, di recente istituzione, che interverrà sui temi del fine vita con una serie di documenti10 non sempre in sintonia gli uni con gli altri. In particolare, l’ultimo, del 1995, sulle questioni bioetiche relative alla fine della vita umana è assai dubitativo, specie riguardo alle direttive anticipate alla quali non ritiene possibile attribuire un valore direttivo, ma al massimo “orientativo” delle scelte del medico. Attribuire alle DAT un valore “meramente orientativo” significa d’altra parte contraddire il fondamentale principio di autodeterminazione già presente nell’ordinamento a livello costituzionale, principio che la proposta di Politeia, fa notare Guido, non introduce, ma si limita ad esplicitare. All’autodeterminazione si contrappone il principio di indisponibilità della vita, tale per cui alla persona è sottratta la facoltà di decidere della propria vita e della propria morte. Ed in questo contrasto tra posizioni inconciliabili si consuma, sterilmente, gran parte del dibattito nostrano su questi temi.

La terza fase è così segnata da un netto divario tra quanto accade nel resto del mondo e le vicende italiane. Il tema della “dignità del morente” diviene centrale nel dibattito internazionale. In America del Nord la gran parte degli Stati si dotano di leggi sul living will. Anche in Europa fioriscono iniziative. Guido ricorda in particolare la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 25 giugno 1999, Protection des droits de l’homme e de la dignité des malades incurables et des mourants, ispirata al testo della Convenzione di Oviedo del 1997 e centrata sul rispetto della dignità della persona.

In Italia, invece, i contrasti si acuiscono e le posizioni si irrigidiscono. Da un lato quella della Chiesa Cattolica11 che mette in primo piano l’indisponibilità della vita cosicché viene interpretata come forma più o meno larvata di eutanasia ogni richiesta di por fine a sofferenze intollerabili alle quali la medicina non offre risposte che non siano il mero prolungamento della fase terminale della vita. Questa visione trova riscontro nel documento del CNB su “L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente” del 2005, dove si esclude che le DAT possano avere un valore prescrittivo, riconoscendo loro solo quello di mero orientamento del comportamento di chi assiste il paziente.

Più equilibrato, il parere del CNB del 2003 sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, che, sia pur oggetto di critiche nell’immediato, 10 Definizione e accertamento della morte nell’uomo (15.2.1991), Assistenza ai pazienti terminali (6.9.1991), Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana (14.7.1995).11 Si ricorda la Raccomandazione della Pontificia Accademia per la Vita, Il rispetto della dignità del morente. Considerazioni etiche sull’eutanasia del 9.12.2000.

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anticipava temi e questioni che saranno ripresi in seguito, anche dalla legge 219/201712.

L’intervento del legislatore appariva necessario per ragioni di perdurante attualità. É infatti vero che, ragionando sui principi costituzionali e sulle regole di settore, si può affermare che “‘le dichiarazioni di volontà anticipate’ hanno una valenza giuridica in ogni caso e già oggi”. Ma è vero anche che solo la legge offre “certezza del rapporto giuridico”, stabilisce in modo inequivoco la “prevalenza delle dichiarazioni dell’interessato rispetto a qualsiasi altra volontà imputabile a congiunti, parenti, conviventi, medici.”, garantisce l’“esonero da qualsiasi responsabilità del medico curante e di ogni altro operatore coinvolto nelle terapie” 13. A condizione, ovviamente, che si tratti di una buona legge, che contribuisca a sgombrare il campo equivoci pericolosi, a partire da quello, assai diffuso, che confonde dichiarazioni anticipate ed eutanasia dato che con le prime “non si richiede né il comportamento attivo di terzi per … mettere fine alla vita, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico” che costituisce esercizio “del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.”14.

3. Il caso Englaro e il progetto di legge Calabrò

Guido Alpa è peraltro consapevole che in quel momento storico era difficile che dalle aule del Parlamento uscisse una buona legge. Inizia in quegli anni una nuova fase, molto difficile, segnata dall’evoluzione del caso Englaro15, da una netta contrapposizione tra riconoscimento da parte 12 Riguardo all’efficacia delle DAT, notava il CNB che “il passaggio da “determinanti” a “tenuti in considerazione” (il riferimento è alla convenzione di Oviedo) non dovrebbe essere interpretato come “passaggio da un carattere (assolutamente) vincolante a uno (meramente) orientativo”. Se è corretto escludere la prima caratterizzazione, anche la seconda va esclusa “quando venga intesa in senso talmente debole da coincidere con la restituzione al medico di una piena libertà decisionale ed operativa”, tale da portare ad un “completo svuotamento di senso delle dichiarazioni anticipate stesse”. 13 G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, cit., p. 39-40.14 G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, cit., p. 3915 Il “caso Englaro” si snoda in una serie di decisioni le cui principali tappe sono: Trib. Lecco, decreto, 2 marzo 1999, in Bioetica, 2000, 83; App. Milano, 31 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, 2022, con note di G. Ponzanelli, Eutanasia passiva: sì se c’è accanimento terapeutico, e di A. Santosuosso, Novità e remore sullo stato vegetativo permanente; Trib. Lecco, 20 luglio 2002, in Bioetica, 2004, 85, con nota di S. Fucci, I diritti di Eluana: prime riflessioni; App. Milano, 17 ottobre 2003, in Familia, 2004, 1167, con nota di G. Ferrando, Stato vegetativo permanente e

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della giurisprudenza della dignità e i diritti dei malati e dei morenti e una convulsa risposta della politica e delle istituzioni pubbliche (o almeno di una parte molto significativa di esse) che tentano con ogni mezzo di impedire che Eluana possa spegnersi in pace.

Orientamenti della dottrina e della giurisprudenza hanno delineato in modo nuovo il quadro dei diritti della persona nei confronti della biomedicina. In assenza di un intervento del legislatore, sono state le supreme magistrature, interne e sovranazionali, a tracciare un percorso che, in estrema sintesi si può indicare come il passaggio dal paternalismo del medico al consenso del paziente16.

La Corte costituzionale ha ricondotto il consenso alla varietà delle matrici di cui costituisce la sintesi: l’autodeterminazione e la salute. «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione – ha osservato - pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello dell’autodeterminazione e

trattamenti medici: un problema irrisolto; Cass., ordinanza, 20 aprile 2005, n. 8291, in Foro it., 2005, I, 2359, con nota di G. De Marzo; in Fam. e dir., 5/2005, 481, con nota di G. Cassano, Scelte tragiche e tecnicismi giuridici: ancora in tema di eutanasia; in Corr. giur., 2005, 788, con nota di E. Calo’ Richiesta di sospensione dell’alimentazione a persona in stato vegetativo: la Cassazione decide di non decidere; in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 470, con nota di A. Santosuosso, G. C. Turri, La trincea dell’inammissibilità, dopo tredici anni di stato vegetativo permanente di Eluana Englaro; Trib. Lecco, 2 febbraio 2006, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 470 ss., con nota di A. Santosuosso, G. C. Turri, cit.; App. Milano, 16 dicembre 2006, in Foro it., 2007, I, 571, con nota di G. Casaburi; Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, in Nuova giur. civ. comm. 2008, I, 83, commentata da A. Santosuosso, La volontà oltre la coscienza. La cassazione e lo stato vegetativo, ivi, 2008, II, 1; in Familia, 2008, 93, con nota di M. Venuti, Il diritto all’autodeterminazione sanitaria dei soggetti in stato vegetativo permanente: la Corte di cassazione sul caso E.E.; in Fam. dir., 2008, 129, con nota di R. Campione, Stato vegetativo permanente e diritto all’identità personale in una importante pronuncia della Suprema corte; App. Milano, 9 luglio 2008, in Fam. dir, 2008, 903, con nota di Pacia, Sull’interruzione delle cure del malato in stato vegetativo permanente; Cass. sez. un., 13 novembre 2008, n. 27145, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 223 e ivi, II, 126, il commento di A. Santosuosso, Sulla conclusione del caso Englaro; Corte cost., 8 ottobre 2008, n. 334; Cons. Stato 2 settembre 2014, n. 4460, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 74 (e ivi in parte II, la Discussione, Leggendo il consiglio di Stato, sez. III, 2.9.2014, n. 4460 (P. Benciolini, R. Ferrara, E. Palermo Fabris, P. Zatti)); Tar Lombardia 6 aprile 2016, n. 650, in Nuova giur. civ. comm, 2016, 1194, con nota di C. Favilli, La responsabilità della pubblica amministrazione nel caso Englaro; Consiglio di Stato 21 giugno 2017, n. 3058, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1532, con commento di M. Azzalini- V. Molaschi, Autodeterminazione terapeutica e responsabilità della p.a. Il suggello del Consiglio di Stato sul caso Englaro.16 In questa sede mi limito ai riferimenti giurisprudenziali essenziali. Quanto ai contri-buti dottrinali, sia consentito il rinvio ai riferimenti contenuti in miei precedenti scritti, specie G. Ferrando, Fine vita e rifiuto di cure. Profili civilistici, in Il governo del corpo (a cura di Canestrari, Ferrando, Mazzoni, Rodotà, Zatti), in Trattato di biodiritto diretto da Rodotà e Zatti, Milano, 2011, p. 1865 ss.; Ferrando, Testamento biologico, voce in Enc. Dir., Annali, VII, Milano, 2015, p. 987 ss.

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quello della salute»17.La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inteso l’autodeterminazione

sanitaria come aspetto eminente del rispetto della vita privata, della dignità e della libertà individuale riguardo ai quali la discrezionalità degli Stati, il margine di apprezzamento loro riservato dal 2° comma dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Roma, 1950), è inevitabilmente contenuto in limiti ristretti18.

Nel 2007 la Corte di Cassazione si pronuncia sul caso Englaro con la sentenza n. 21748 /200719, autentica pietra angolare, che fissa principi e regole ai quali si è sempre attenuta la giurisprudenza successiva, la Corte di Cassazione20, i giudici di merito21, il TAR22, il Consiglio di Stato23.

17 Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Foro it., 2009, I, 1328 (ripresa da Corte cost. 30 luglio 2009, n. 253, in Fam. dir., 2009, XI, 1046). Per un commento, v. S. Rodotà, Editoriale, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 3 ss.18 Ad esempio, cfr. Corte EDU, Pretty v. UK, 29 aprile 2002, in Foro it., 2003, IV, 57; Corte EDU, Jeovah’s Witnesses of Moscow c. Russia, 10 giugno 2010 (C. 302/2002); Corte EDU, HAAS v. Suisse, 20 gennaio 2001 (C. 31322/07); Corte EDU, S.H. and Others c. Austria, 1° aprile 2010 (C. 57813/00); Kock c. Germania, 12 Luglio 2012, (C. 497/09); Corte EDU, Rossi e altri c. Italia, 16 dicembre 2008; Corte EDU, G. C., Lambert c. Francia 5 giugno 2015 (c. 46043/ 14), in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 814, con commento di C. Casonato, Un diritto difficile: il caso Lambert fra necessità e rischi, ivi, II, 489 19 V. nota 1520 In particolare, cfr. Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 170, con nota di G. Cricenti, Il cosiddetto dissenso informato; Cass., 20 dicembre 2012, n. 23707, in Nuova giur. civ. comm. 2013, I, 424, con nota di A. Gorgoni; Cass. 7 giugno 2017, n. 14158, ined., la quale, nel dirimere una questione processuale pronuncia d’ufficio il seguente principio di diritto nell’interesse della legge. “Nei procedimenti in materia di amministrazione di sostegno è ammesso il reclamo alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 720 bis, secondo comma, c.p.c. avverso il provvedimento con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda di autorizzazione… ad esprimere in nome e per conto dell’amministrato il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, avendo il provvedimento medesimo natura decisoria in quanto incidente su diritti personalissimi”. I diritti personalissimi ai quali fa riferimento la S.C. sono il diritto alla salute (art. 32 Cost.), la libertà religiosa (art. 19 Cost.), nell’esercizio dei quali la persona può rifiutare trattamenti sanitari (nella specie trasfusioni di sangue), anche mediante dichiarazioni anticipate rese in occasione della designazione di A.di S. ex art. 408 c.c.21 In particolare, v. Trib. Roma, ord., 16 dicembre 2006, cit.; Trib. Roma, 23 luglio-17 dicembre 2007 (sul caso Welby); App. Milano, 9 luglio 2008, cit. sul caso Englaro; Trib. Cagliari 16 luglio 2016, in Nuova giur. civ. comm. 2017, 521 e ivi, 513, il commento di C. Pardini, Scelte di fine vita e amministrazione di sostegno: problemi aperti, relativa al caso di W.P., il quale per tramite del suo amministratore di sostegno, aveva presentato al Tribunale di Cagliari una richiesta volta a ottenere l’autorizzazione al distacco degli strumenti per il sostegno vitale, richiesta accolta dal Tribunale.22 Tar Lombardia 6 aprile 2016, n. 650, cit.23 Cons. Stato 2 settembre 2014, n. 4460, cit.; Consiglio di Stato 21 giugno 2017, n. 3058, cit.

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Viene fissata in modo inequivoco la regola secondo cui nessuno può essere costretto ad un trattamento sanitario se non lo vuole e che il rifiuto di cure espresso dal paziente o la richiesta di sospensione o interruzione dei trattamenti sanitari deve essere rispettato dal medico e dalle strutture sanitarie, regola che costituisce ormai principio irrinunciabile del nostro ordinamento. Il diritto del paziente all’autodeterminazione comprende anche il diritto di rifiutare le cure24, anche quando quel trattamento è necessario per la sua sopravvivenza25. Da parte del medico c’è «il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico e attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico»26.

Anche l’alimentazione e l’idratazione artificiale, mediante sondino nasogastrico o PEG, costituiscono trattamenti medici, in quanto la somministrazione avviene su prescrizione medica e mediante dispositivi medici, il cui inserimento richiede manovre di tipo invasivo27.

Quando il paziente chiede la sospensione dei trattamenti il medico ha il dovere di farlo: questo dovere giustifica la sua condotta dal punto di vista penale28 ed esclude, dal punto di vista civile, che possano ravvisarsi gli estremi di un illecito fonte di responsabilità.

In attuazione di questi principi la Corte d’Appello di Milano29 autorizza la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata e il distacco

24 Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.; Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, cit.; Cass. pen., sez. un., 21 gennaio 2009, n. 2437 (in Resp. civ., 2009, 881, con nota di R. Campione, Trattamento medico eseguito lege artis in difetto di consenso: la svolta delle S.U. penali nella prospettiva civilistica; in Resp. civ. prev., 2009, 1060, con nota di S. Tordini Cagli, Profili penali del trattamento medico chirurgico in assenza di consenso; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 926).25 Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.: “deve escludersi che il diritto all’autodetermina-zione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita; la salute non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva”. Di fronte ad un rifiuto “informato, autentico, attuale” “non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Il dovere del medico di curare, fondandosi sul consenso, cessa quando il consenso viene meno, insorgendo in seguito al rifiuto, il dovere giuridico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure”. Nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Cagliari 16 luglio 2016, cit.; Trib. Pordenone, 11 gennaio 2002, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 663, con nota di F. Viglione; Trib. Firenze, 2 dicembre 2008, in La resp. civ., 2009, 899, con nota di A. Miguela; App. Milano, 19 agosto 2011, n. 2359, in Fam. Pers Succ., 2012, III, 193.26 Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, cit. 27 Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit.28 Trib. Roma, 23 luglio-17 dicembre 2007, cit.29 App. Milano, 9 luglio 2008, cit.

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del sondino mediante il quale Eluana era alimentata. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione respingono il ricorso del Procuratore Generale contro quella sentenza che diviene definitiva30. La risposta delle istituzioni è immediata. Il Parlamento solleva innanzi alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, nell’assunto che i giudici avrebbero invaso il campo del legislatore, viene proposto ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ricorsi entrambi dichiarati inammissibili31. Intanto la Regione Lombardia rifiuta di dare corso nelle proprie strutture alle procedure mediche per il distacco del sondino, cosicché Eluana dovrà essere trasferita in Friuli dove giunge a compimento la sua umana vicenda32.

In Parlamento viene presentato un progetto di legge33 che sostanzialmente cancellava i diritti della persona. In contrasto con i principi costituzionali, il progetto escludeva il diritto del paziente di rifiutare terapie salvavita, sia con dichiarazione espressa, sia con dichiarazioni anticipate. Alla persona venivano imposti comportamenti e sottratte possibilità di decisione, introducendo un vero e proprio “obbligo di vivere” in contrasto con la libertà di scelta del soggetto interessato. Contro questo progetto Stefano Rodotà si era fatto promotore di un appello pubblico al quale anche Guido Alpa aveva aderito. La fine della legislatura ne impedisce l’approvazione definitiva.

La giurisprudenza, dal canto suo, prosegue per la sua strada: il provvedimento della regione Lombardia viene dischiarato illegittimo in sede amministrativa34, con successiva condanna al risarcimento dei danni35. Sul caso Englaro cala finalmente il sipario, ma tanti altri casi si aprono. La giurisprudenza è un laboratorio dove si affrontano casi di rifiuto di cure (il più delle volte da parte di testimoni di Geova), richieste di sospensione di terapie di sostegno vitale da parte di malati senza speranze, casi di aiuto al suicidio, quando non di vera e propria eutanasia, richieste di nomina di amministratore di sostegno cui affidare le proprie dichiarazioni anticipate di

30 Cass. sez. un., 13 novembre 2008, n. 27145, cit.31 Corte cost., 8 ottobre 2008, n. 334; Corte EDU, Rossi e altri c. Italia, 16 dicembre 2008.32 Rifiuto dichiarato illegittimo da Tar Lombardia 6 aprile 2016, n. 650, cit, con sentenza confermata da Cons. Stato 2 settembre 2014, n. 4460, cit. 33 Disegno di legge «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso infor-mato e di dichiarazioni anticipate di trattamento», presentato dal Sen. R. Calabrò il 26 gennaio 2009, ed approvato con emendamenti il 2 marzo 2011. Per una discussione e una critica, v. D. Carusi, Tentativi di legiferazione in materia di «testamento biologico». Contributo a un dibattito da rianimare, Torino, 2016,p. 36 ss. E v. anche D. Carusi, S. Castignone, G. Ferrando (a cura di), Rifiuto di cure e direttive anticipate. Diritto vigente e prospettive di regolamentazione per legge, Torino, 2012.34 V. nota 3135 Consiglio di Stato 21 giugno 2017, n. 3058, cit.

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trattamento. Alcuni comuni si dotano di registri in cui raccoglierle.Gli interventi giurisprudenziali interni ed europei hanno delineato

un quadro sufficientemente chiaro di principi al punto che il Consiglio di Stato36, ha potuto affermare che la Cassazione nel 2007 “ha enunciato con chiarezza le regole che governano il rapporto terapeutico tra il soggetto assistito e la struttura del servizio sanitario che eroga le cure e il trattamento terapeutico”.

4. La legge n. 219/2017

Le regole giurisprudenziali, tuttavia, non sono sufficienti - ce lo ricordava Guido nel suo scritto - dato che i giudici non sono tenuti al rispetto del precedente, le autorità amministrative possono ritenersi investite di poteri che loro non competono37. Il caso Nuvoli testimonia a quali conseguenze può portare l’assenza di regole certe38. Il diritto giurisprudenziale non riesce a garantire il diritto di tutti, in condizioni di eguaglianza. Spesso garantisce solo chi ha più mezzi o più strumenti culturali per far sentire la propria voce.

L’intervento del legislatore era dunque necessario per dare certezza ai diritti delle persone: al diritto del malato di non essere privato dell’ultima parola sulla propria esistenza e la propria salute; al diritto del medico di non essere tenuto responsabile quando, nel rispetto della volontà della persona, sospende o interrompe una terapia, distacca il dispositivo che la mantiene in vita.

La legge n. 219/2017, da questo punto di vista, colma un vuoto legislativo fonte di gravi incertezze. Ciò non significa che prima della sua approvazione ci trovassimo in una sorta di “vuoto normativo”, in una terra di nessuno priva di regole. Al contrario, la legge si inserisce in un complesso di principi e regole elaborati dalla giurisprudenza ed applicati nella prassi che delineano in modo esauriente i contorni della relazione terapeutica.

Fin dall’art. 1 la legge n. 219 si collega idealmente ai principi costituzionali interni ed europei, secondo l’interpretazione offertane dalle Supreme magistrature. L’attuale legge, dunque, diversamente dal progetto

36 Consiglio di Stato 21 giugno 2017, n. 3058, cit. 37 Nel caso Englaro la Regione Lombardia si è rifiutata di dare attuazione alla decisio-ne della Corte di Cassazione del 2007 ed a quella della Corte d’Appello di Milano del 2008, resa in sede di rinvio, con un provvedimento ritenuto illegittimo, prima e fonte di responsabilità civile, poi, dal Consiglio di Stato nel 2014 e nel 2017 (v. note 32 e 36).38 V. Trib Sassari (decr.), 16 luglio 2007, cit.; Procura Sassari, 23 gennaio, 2008, cit.

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Calabrò, presentato nella precedente legislatura39, non afferma il ruolo del legislatore in antagonismo con quello dei giudici, quasi a volerne frenare gli eccessi interpretativi, ma si colloca in linea di continuità con la giurisprudenza, recepisce i principi che questa ha elaborato e su di essi fonda le proprie regole.

La legge disciplina (non solo il testamento biologico ma) nel suo complesso il rapporto terapeutico, fondandolo sulla responsabilità del medico e sul consenso del paziente. Il consenso informato costituisce la formula che idealmente sintetizza il modo in cui in tale processo si raggiungono decisioni condivise.

Nel rispetto dei principi fondamentali degli artt. 2, 13, 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione europea, la legge tutela “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”, salvo i casi espressamente stabiliti dalla legge. Il consenso si inscrive quindi tra i diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione.

Il diritto al consenso viene declinato nei suoi diversi aspetti: diritto di rifiutare, in tutto o in parte, le cure; diritto di revoca, in qualsiasi momento, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.

Rifiuto delle cure e revoca del consenso possono avere ad oggetto, si chiarisce, anche idratazione e alimentazione artificiale, che costituiscono trattamenti sanitari in quanto «somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici».

Il consenso viene dunque declinato ad ampio raggio. Nello stesso tempo viene messo a fuoco il ruolo del medico. È sotto la responsabilità del medico individuare la cura appropriata al caso40. Cura appropriata non significa cura ad ogni costo, il fine della cura non è la mera sopravvivenza biologica: la cura appropriata comprende l’obbligo di astenersi dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, da ogni “ostinazione irragionevole” nella somministrazione delle cure. La cura appropriata comprende anche terapia del dolore, fino, se occorre, alla sedazione profonda (art. 2). Nell’ambito della relazione terapeutica così delineata si prevede anche la possibilità di attuare una «pianificazione condivisa delle cure» (art. 5), e di redigere disposizioni anticipate di trattamento (art. 4). 39 v. nota 3340 V. la legge 8 marzo 2017, n. 24 («Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», c.d. legge Gelli).

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Le direttive anticipate rientrano pienamente nella costruzione del rapporto terapeutico, della relazione di fiducia tra medico e paziente. La legge n. 219 colloca le norme sulle «disposizioni anticipate di trattamento» (art. 4) nel contesto di un rapporto terapeutico che «si basa» sul consenso e che è inteso come rapporto fiduciario in cui alla persona viene riconosciuta l’ultima parola in ordine alle cure. È prevista la possibilità di esprimere, mediante DAT, in considerazione di «un’eventuale futura incapacità» «le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari», e di nominare, eventualmente, un fiduciario che partecipi, al posto dell’interessato, al rapporto terapeutico.

La perdita della capacità non può determinare la perdita di diritti fondamentali. Gli Stati devono assicurare strumenti appropriati per renderne possibile l’esercizio (Convenzione di New York sui diritti dei disabili,13 dicembre 2006, ratificata con dall’Italia l. 3 marzo 2009, n. 18). Le DAT costituiscono lo strumento che consente di prolungare oltre la perdita della coscienza il diritto del malato di decidere della propria persona.

Rispetto alla disciplina del consenso, tuttavia, le disposizioni sulle DAT si caratterizzano per una caratura più burocratica, un appesantimento delle forme richieste.

Il rischio è duplice: da un lato quello di una lettura burocratica, ottusamente letterale (nella logica della medicina difensiva), dall’altro quello di un loro sostanziale tradimento a favore, per così dire, del paternalismo medico.

Il medico è tenuto al rispetto delle DAT. Il vincolo del rispetto, si è fatto notare, “non significa obbligo meccanico di esecuzione di un “precetto”, ma dovere di sostanziale attuazione dell’intento del paziente in relazione alle circostanze concrete” (41). Si prevede che esse possano “essere disattese in tutto o in parte dal medico stesso, in accordo con il fiduciario”, quando appaiano “palesemente incongrue”, “non corrispondenti alla situazione clinica attuale” o quando “sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione”. La sopravvenienza di terapie risolutive, così come la sopravvenienza di altre circostanze – si pensi al mutamento di fede religiosa – possono essere influenti proprio al fine di garantire il pieno rispetto delle dichiarazioni al venir meno dei presupposti che le avevano giustificate.

Il ruolo del fiduciario è quello di renderne possibile il pieno rispetto nella situazione concreta - dato che il dichiarante non poteva prevederla in anticipo – tenuto conto della personalità dell’interessato, dei suoi sentimenti

41 V. il documento elaborato dal gruppo di lavoro “Un diritto gentile in medicina”, in www.undirittogentile.wordpress.com

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di dignità e identità, valutando, insieme al medico, quali siano le scelte più appropriate.

In tal modo la legge riflette l’idea – in cui Guido si riconosce - che la dignità della persona non può che fondarsi sulla sua autonomia, che ciascuno di noi ha il diritto di costruire il proprio personale progetto di vita e di conseguenza ha anche il diritto di decidere la propria fine.

5. Conclusioni

La richiesta di non essere sottoposto a terapie o di sospendere quelle già intraprese non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, vale a dire con la domanda da parte di un malato senza speranza, afflitto da intollerabili sofferenze fisiche o psichiche, di porre fine alla propria vita mediante la somministrazione di un farmaco letale, né costituisce forma di suicidio assistito, situazione in cui il medico “prepara” per il malato il farmaco letale che sarà poi quest’ultimo ad assumere personalmente. Con le direttive anticipate non si richiede il comportamento attivo di altre persone inteso a procurare la morte, ma si intende programmare in anticipo il rifiuto di un determinato trattamento medico, si chiede che il processo biologico possa procedere secondo il suo iter, di poter disporre delle tecnologie applicate alla nostra persona senza restarne prigionieri: non una richiesta di abbandono terapeutico, ma una richiesta di limitazione delle cure a quelle idonee ad alleviare il dolore terminale. Le DAT intendono garantire questi diritti quando il paziente non è più in grado di esprimere direttamente la propria volontà.

Eutanasia e suicidio assistito sono temi che il legislatore non potrà ignorare ancora a lungo, ma sono al di fuori del perimetro dell’attuale legge. Recenti vicende di cronaca hanno posto all’attenzione del grande pubblico questi problemi, riguardo ai quali la disciplina penalistica dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e dell’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) appare inadeguata42.

La legge deve ora essere completata e attuata. Completata dato che non affronta questioni come l’eutanasia e il suicidio assistito che non potranno

42 Prossimamente la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sulla questione di legittimità dell’art. 580 c.p. sollevata dalla Corte d’Assise di Milano, 14 febbraio 2018, “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione e al rafforzamento del proposito suicidiario, per contrasto con gli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2, 27 co. 3 Cost. che individuano la ragionevolezza della sanzione in funzione dell’offensività della condotta accertata”.

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essere a lungo rinviate. Ancor prima deve essere attuata nelle diverse realtà in cui la relazione tra medico e paziente ha luogo. Il rapporto terapeutico che la legge intende come relazione “di cura e fiducia” che “si basa” sul consenso informato deve trasformarsi nei fatti, e non solo nelle tavole della legge. Si deve superare la concezione “burocratica” del consenso, secondo la logica dei moduli di consenso informato, per approdare ad una concezione dialogica della relazione di cura. Occorre valorizzare la comunicazione con gli operatori sanitari, le relazioni personali, di affetto, di sostegno da parte dei familiari e delle figure di prossimità. Questo richiede trasformazioni organizzative, e prima ancora culturali, nella formazione delle professioni sanitarie.

Anche per quanto riguarda le DAT si avverte la “necessità di dare effettiva attuazione ai precetti legislativi”, di non “vanificare la rilevante portata innovativa delle … disposizioni” di legge43.

43 Consiglio di Stato, Commissione speciale 18 luglio 2018, parere in risposta ai quesiti formulati dal Ministero della Salute a proposito della organizzazione della Banca dati nazionale destinata alla registrazione delle DAT (prevista dall’art. 1, c. 418, l. n. 205/2017). Si segnalano in particolare i seguenti punti: - “Il registro previsto dalla legge di bilancio, ad avviso del Consiglio, non può servire solo a registrare ciò che è stato raccolto dai registri regionali (che peraltro sono sostanzialmente facoltativi) o dai registri ex lege facoltativi istituiti presso i comuni né può limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT comunque esistenti; al contrario, tale registro nazionale deve svolgere l’importante compito di dare attuazione ai principi costituzionali prima ricordati – in un quadro di competenze legislative statali che per questo aspetto sono di tipo esclusivo – anche raccogliendo le DAT, consentendo, in tal modo, che le stesse siano conoscibili a livello nazionale ed evitando che abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese. Il che vanificherebbe, con tutta evidenza, l’applicazione concreta della normativa”.- La banca dati nazionale non è riservata solo alle persone iscritte al SSN: “il Consiglio di Stato è dell’opinione che i principi costituzionali prima ricordati vadano nella direzione di imporre una lettura estensiva, aprendo il registro nazionale anche a tutti coloro che non sono iscritti al SSN. La tutela costituzionale garantita a questo diritto, infatti, non permette di subordinare il riconoscimento alla suddetta iscrizione”.- “Il Consiglio esprime il parere che, in via generale, vada mantenuta la possibilità di rendere le DAT senza un particolare vincolo di contenuto: l’interessato deve poter scegliere di limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare il fiduciario o di non nominarlo, ecc.”. È quindi “da escludere la possibilità di prevedere una vera e propria standardizzazione delle DAT a fini di conservazione elettronica.”- Quanto al quesito che pone il problema della dichiarazione sostitutiva ex d.P.R.n. 445/2000 in merito all'adeguatezza delle informazioni mediche, al Consiglio di Stato appare necessario che vi sia certezza in ordine alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite dall’interessato e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate. “Col quarto quesito - considerato che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della richiamata legge n. 219/2017, l’assistito esprime le DAT “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte” - il Ministero chiede se l’acquisizione di siffatta informativa

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È questo il compito che ci attende, consapevoli che con la legge si chiude una fase e se ne apre un’altra forse ancora più impegnativa della precedente.

Mi sembrava importante, ora che abbiamo le regole e dobbiamo farle vivere, ricordare il momento ormai lontano in cui questo percorso ha avuto inizio e il contributo che Guido ha dato anche a questa conquista.

possa essere dichiarata dall’interessato, ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 contestualmente alla disposizione anticipata. Su tale problema osserva la Commissione speciale che - anche in relazione alle possibili responsabilità del medico che si è attenuto alle DAT considerandole valide, e della struttura sanitaria in cui è eventualmente incardinato - appare necessario che vi sia certezza in ordine alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite dall’interessato e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate. Pertanto, pur non potendo rilevare sotto il profilo della validità dell’atto, sembra decisamente opportuno che tale circostanza venga attestata, magari suggerendola nel modulo-tipo facoltativo che verrà predisposto dal Ministero della salute, così come evidenziato nella risposta al terzo quesito”.

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Tommaso Edoardo Frosini

Arbitrato rituale e giurisprudenza costituzionale

Sommario: 1. L’arbitrato, dal diritto pubblico al diritto privato – 2. L’arbitrato lungo il percorso della giurisprudenza costituzionale, la fase negoziale – 3. L’arbitrato lungo il percorso della giurisprudenza costituzionale, la fase giurisdizionale – 4. Brevi conclusioni e prospettive future.

1. L’arbitrato, dal diritto pubblico al diritto privato

La vicenda dell’istituto arbitrale lungo l’itinerario della giurisprudenza costituzionale può essere sintetizzata, salvo ulteriori specificazioni, con il titolo di un recente volumetto, diviso in due parti, di Guido Alpa: Dal diritto pubblico al diritto privato1. Infatti, il percorso giurisprudenziale della Corte costituzionale, in punto di arbitrato e derivati, avviato nel 1958 con la sentenza n. 35, proseguito con numerose pronunce di cui daremo in parte conto e, per adesso, conclusosi con la decisione n. 123 del 2018, si caratterizza proprio per una progressiva valorizzazione dell’arbitrato come giurisdizione dei privati, che si pone in alternativa alla giurisdizione pubblica dello Stato, sia pure rimanendo nell’alveo, ovvero in maniera conforme agli articoli 25 e 102 della Costituzione, e quindi dell’agire in giudizio e della funzione giurisdizionale2. Sul piano sostanziale, invece, l’arbitrato affonda le sue radici nel diritto di libertà delle parti di negoziare uno strumento alternativo per risolvere il contenzioso, e quindi nella valorizzazione dell’autonomia privata e dell’autonomia collettiva, che stanno a fondamento delle origini della clausola compromissoria3. Aggiungo, come dirò meglio nel finale,

1 G. Alpa, Dal diritto pubblico al diritto privato, parte prima (La “grande dicotomia” e la revisione della concezione tradizionale) e parte seconda (Il superamento della dicotomia nel diritto post-moderno), Mucchi, Modena 20172 Sul tema, v. ora F. Marone, Giustizia arbitrale e Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli 2018; ma v. già la puntuale rassegna di P. Gaggero, L’arbitrato obbligatorio, nel vol. Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, a cura di G. Alpa e V. Vigoriti, Utet, Torino 2013, 36 ss.3 Sul punto, P. Perlingieri, Arbitrato e Costituzione, ESI, Napoli 2010, 19 ss; ma v. già

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che occorre tenere in considerazione anche il principio costituzionale della sussidiarietà (orizzontale), ora previsto e disciplinato all’art. 118 Cost., che in via tendenziale, e laddove presa sul serio in termini applicativi, lascia al potere pubblico il solo compito di svolgere quelle funzioni che i privati non possono adempiere autonomamente, e quindi interviene a sussidio. Come potrebbe, ovvero dovrebbe essere nel caso del “servizio giustizia”, affidato autonomamente ai privati per il tramite dell’arbitrato (e della mediazione), sempre nel caso, ovviamente, dei diritti disponibili4. Certo, non in modo obbligatorio ma piuttosto alternativo.

Il percorso della giurisprudenza costituzionale, come proverò a dimostrare nel presente scritto, relativamente all’arbitrato rituale, riconosce la funzione giurisdizionale riducendone, quindi, la portata negoziale, e finisce altresì per depotenziare la sovranità dello Stato in punto di giurisdizione. E’ questo un passaggio significativo, che attiene financo alla forma di Stato, che si evolve nel senso pluralistico anziché statuale, riconoscendo quindi una “giurisdizione senza Stato”5. Che è quello del fare giustizia, secondo i dettami costituzionali – e quindi non solo in attuazione conforme degli artt. 25 e 102 ma anche degli artt. 24 e 101 – ma che rappresenta altresì il paradigma della erosione della sovranità statale in luogo di quella popolare, che si manifesta nell’art. 1, secondo comma, Cost., alla quale appartiene e che la esercita nei limiti e nei modi stabiliti dalla Costituzione6. Sovranità del popolo da intendersi, quindi, anche come attribuzione in capo ai privati della funzione giustizia, ovvero del fare giustizia in forma alternativa rispetto alla giurisdizione statale. Così come previsto dalle leggi e dal codice di procedura civile all’art. 806 e ss., conformi al quadro costituzionale.

Quindi, come prima riflessione sull’istituto dell’arbitrato e la sua costituzionalità, seppure nei termini indicati dalla Corte costituzionale, si amplia nella dimensione della forma di Stato perché incide in maniera significativa nella sua evoluzione liberale, riconoscendo nel privato colui che può fare giustizia in maniera coerente a Costituzione e in alternativa alla

G. Recchia, Costituzione e Arbitrato (1974), ora in Id., L’arbitrato nel diritto compa-rato, a cura di T.E. Frosini, Cedam, Padova 2014, 15 ss. Ulteriori svolgimenti in M. Esposito, Profili costituzionali dell’autonomia privata, Cedam, Padova 20034 Ho già argomentato questa tesi in T.E. Frosini, Un nuovo paradigma di giustizia: le Alternative Dispute Resolutions, in Analisi giuridica dell’economia, n. 1, 2011; più in generale, Id., Sussidiarietà (principio di) (diritto costituzionale), in Enciclopedia del Diritto, Agg., vol. 2, t. II, Giuffrè, Milano 20085 Secondo la felice formula di C. Punzi, Le nuove frontiere dell’arbitrato, in Rivista di diritto processuale, n. 1, 2015, 146 Per approfondimenti, se si vuole, cfr. T.E. Frosini, Sovranità popolare e costituzionali-smo, Giuffrè, Milano 1997

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giurisdizione statale. Si viene così a ridurre il mito del monopolio statale della giustizia, quale baluardo della sovranità. Che invece si concretizza attraverso la giurisdizionalizzazione dell’arbitrato, che si è compiuta per il tramite della giurisprudenza costituzionale. Un’altra declinazione dell’arbitrato nell’ottica della forma di Stato, meritevole di approfondimenti, è quella teorizzata da Guido Alpa, il quale distingue: «ordinamenti autoritari, che accentuano la funzione giudicante e ne fanno oggetto di attività da parte di soggetti individuati ad hoc, astretti ad un rapporto che li lega allo Stato medesimo, e che applicano regole stabilite dallo Stato (ordinamento); oppure tali ordinamenti considerano certi fenomeni addirittura in contrasto con lo Stato-ordinamento (è sempre il caso, ad es., dell’esperienza francese); vi sono ordinamenti libertari, che apprezzano l’autonomia dei privati fino al punto da disinteressarsi del fenomeno (è il caso dell’arbitrato libero nell’esperienza italiana della fine del secolo scorso); vi sono ordinamenti che apprezzano il fenomeno (quasi tutti) ovvero lo guardano con diffidenza (è sempre il caso dell’ordinamento francese). Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a “modelli misti”, in cui il fenomeno è legittimato o apprezzato, in ogni caso regolamentato e limitato»7.

2. L’arbitrato lungo il percorso della giurisprudenza costituzionale, la fase negoziale

Prima di avviarci lungo il percorso segnato dalla Corte costituzionale relativamente all’istituto arbitrale, va precisato che l’oggetto dell’analisi sarà solo l’arbitrato rituale8 e che non si indagherà sull’intera giurisprudenza, ma soltanto su quelle decisioni che assumono rilievo per la definizione e l’evoluzione dell’istituto arbitrale.

L’esordio è nel 1958, due anni dopo l’entrata in funzione della Corte costituzionale. La questione riguardava l’arbitrato ma non venne sollevata attraverso un incidente di costituzionalità della legge ma piuttosto per impugnativa, in via principale, del Commissario dello Stato della Regione siciliana nei confronti di una legge regionale, che imponeva l’arbitrato per l’esecuzione dei pagamenti delle opere pubbliche di competenza della Regione e degli enti locali. Quindi non veniva chiesto di esaminare la 7 Così, G. Alpa, L’arbitrato e la risoluzione stragiudiziale delle controversie, nel vol. Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, cit., 19-208 Su cui, v. G. Alpa e V. Vigoriti, L’arbitrato rituale, nel vol. Arbitrato, ult. cit., 259 ss. V. altresì il vol. di C. Cavallini, L’arbitrato rituale. Clausola compromissoria e processo arbitrale, Egea, Milano 2009

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compatibilità costituzionale dell’istituto arbitrale, attraverso cioè le norme parametro della Costituzione, ma se fosse attribuibile alla legge regionale la competenza a determinare una giurisdizione arbitrale per la risoluzione di controversie. La Corte dichiarò, con sentenza n. 35 (relatore Nicola Jaeger9), la incostituzionalità della legge regionale nella parte in cui attribuiva alla Regione la potestà a disporre della funzione giurisdizionale, che si poneva ben al di fuori dei limiti della competenza regionale previsti dallo Statuto speciale della Regione siciliana. Quello che rileva, in questa prima pronuncia, è il riconoscimento della giurisdizione statale, ovvero la riserva allo Stato della potestà normativa in punto di giurisdizione. E conseguentemente il dichiarato disinteresse della Corte relativamente all’arbitrato obbligatorio, o necessario, e della giurisdizione speciale, con una apertura però a una eventuale sottrazione di controversie alla giurisdizione sulla base della autonomia delle parti, ma non per il tramite di una fonte normativa che minasse l’unitarietà della giurisdizione10.

La sentenza di cinque anni successivi, e quindi la n. 2 del 1963 (relatore Michele Fragali), affronta una questione di legittimità costituzionale sollevata, con due ordinanze, dal Tribunale di Pisa in una causa tra Bertini Enrico (difeso da Giuseppe Maranini) e il Consorzio pisano vendita sabbia. Soggetto a giudizio di costituzionalità era il titolo VIII libro IV c.p.c., e quindi le disposizioni relative all’arbitrato, in relazione agli artt. 25 e 102 Cost. Dico subito che la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, e lo fa attraverso un significativo ragionamento che entra nel merito dell’istituto arbitrale e la sua costituzionalità. La pronuncia peraltro fu oggetto di due importanti commenti: quello di Virgilio Andrioli11 e quello di Paolo Barile12, entrambi con spunti critici e propositivi, di cui dirò.

La Corte costituzionale, nella decisione n. 2 del 1963, comincia con il riconoscere la costituzionalità dell’arbitrato citando i lavori della Assemblea Costituente: in particolare la seconda sottocommissione, che aveva escluso un possibile contrasto fra l’arbitrato e il principio statuale della giurisdizione, poi codificato nell’art. 102 Cost.13 Da ciò ne discende l’opzione della Corte

9 Il quale aveva già scritto in tema di arbitrato, cfr. N. Jaeger, Arbitrati obbligatori e sollecitudine nei giudizi, in Foro italiano, 1933, 11 ss.10 Sul punto, v. P. Gaggero, L’arbitrato obbligatorio, cit., 37 ss.11 V. Andrioli, L’arbitrato rituale e la Costituzione, in Massimario giurisprudenza del lavoro, 1963, 98 ss.12 P. Barile, L’arbitrato e la Costituzione, in Giurisprudenza costituzionale, 1963, 22 ss. (poi in Id., Scritti di diritto costituzionale, Cedam, Padova 1967, 482 ss.)13 Su cui, v. F. Marone, Giustizia arbitrale e Costituzione, cit., 51 ss.

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in favore della concezione privatistica del procedimento arbitrale. Il quale non lede la funzione giurisdizionale statale, anzi, scrive la Corte, «si accorda con la riserva delle funzioni giurisdizionali sancita nel ricordato art. 102 della Costituzione»., perché non vieta a ogni soggetto giuridico di svolgere la propria autonomia per la soluzione delle controversie di suo interesse. Salvo poi chiarire che il lodo non è assimilabile alla sentenza di un giudice, a meno che non sia il magistrato ordinario a provvedere, ovvero colui «che riveste di imperatività il lodo, e questo acquista immutabilità dopo il decorso dei termini stabiliti per la sua impugnazione innanzi al magistrato ordinario». Insomma, afferma la Corte, «manca all’arbitro il potere di produrre atti sostanzialmente identici a quelli promananti dalla potestà del giudice». Sul punto, Paolo Barile, citando il suo Maestro Piero Calamandrei, ha richiamato l’attenzione sullo specifico angolo visuale della «cooperazione di privati alla formazione delle premesse logiche della sentenza [… ] [nella] pacifica e costante presenza nel processo civile, senz’uopo di ricorso alla nozione di sentenza complessa»14. Per poi affermare, «il processo arbitrale nasce non appena entra in funzione il controllo giudiziario; e che la presenza di tale controllo, senza il quale l’arbitrato resterebbe confinato in ogni caso fuori dell’area giurisdizionale, lo rende conforme all’art. 102 Cost.»15.

Sulla questione relativa a una presunta violazione dell’art. 25 Cost., in punto di giudice naturale, la Corte chiarisce che non vi è lesione in quanto la norma costituzionale non limita il potere soggettivo di scegliere fra più giudici ugualmente competenti, ovvero fra procedimenti altrettanto preordinati e concorrenti fra loro. Quindi, scrive la Corte, «il procedimento arbitrale, inquadrato com’è fra quelli speciali, pone al soggetto soltanto una alternativa con il procedimento ordinario; ed è la scelta compiuta dalle parti che produce lo spostamento di competenza dal giudice del procedimento ordinario a quello di impugnativa del lodo, non il comando di una legge delusivo di una aspettativa maturata, o quello di un organo dello Stato al quale la legge stessa ha conferito la corrispondente potestà». Insomma: con la sentenza n. 2 del 1963 la Corte nell’affermare la compatibilità costituzionale delle norme che regolano l’arbitrato (ovvero il titolo VIII libro IV c.p.c.), specie sulla base del parametro degli artt. 25 e 102 Cost., ne ha riconosciuto la concezione privatistica, evidenziando come il lodo diventa sentenza solo a seguito di un provvedimento del magistrato ordinario.

Con la sentenza n. 50 del 1966 (relatore Francesco Paolo Bonifacio), la Corte è chiamata a pronunciarsi sul cd. arbitrato obbligatorio. La questione 14 P. Barile, op.cit.; ribadito in Id., L’arbitrato rituale e la Corte costituzionale, in Rivista dell’arbitrato, n. 1, 1992, 231 (corsivo nel testo)15 P. Barile, L’arbitrato rituale e la Corte costituzionale, cit., 232

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era stata sollevata in via incidentale attraverso una serie di ordinanze, con riferimento al giudizio di legittimità costituzionale del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011, contenente norme sui licenziamenti individuali dei lavoratori dipendenti dalle imprese industriali. Il punto specifico riguardava la legittimità della recezione delle norme dell’accordo che si riferivano al “collegio di conciliazione ed arbitrato”, che andrebbe a violare l’art. 102 Cost. La Corte sostiene che le censure mosse dal giudice a quo sarebbero state fondate se a tale organo fossero stati conferiti poteri di natura decisoria. Infatti, come scrive la Corte a conclusione della sentenza, «i poteri demandati al collegio di conciliazione ed arbitrato non hanno affatto natura decisoria, e vien meno perciò la premessa che darebbe luogo al problema di una eventuale violazione dell’art. 102 della Costituzione. Che la legge abbia reso obbligatorio l’arbitrato […] è cosa innegabile: ma da ciò non deriva che, novandosi dal contratto alla legge la fonte di legittimazione degli arbitri, il potere di questi muti natura. Se, infatti, le già esposte ragioni inducono a ritenere che si tratta di un potere operante sul piano negoziale, l’imposizione per legge dell’arbitrato, accompagnandosi alla sottrazione della nomina degli arbitri alla volontà delle parti, può se mai giustificare il problema se la legge non venga a violare un’eventuale garanzia offerta dalla Costituzione all’autonomia contrattuale (problema che in questa sede non può essere affrontato, perché fuori dell’oggetto del giudizio), ma non legittima certo il dubbio di una lesione della sfera di giurisdizione che l’art. 102 della Costituzione riserva al giudice ordinario». Un ragionare, questo della Corte, con il quale ammette l’arbitrato imposto, ovvero obbligatorio, in alternativa al giudizio ordinario ma privandolo di natura decisoria, e quindi confermando la funzione di tipo negoziale.

A più di dieci anni distanza, e quindi nel 1977, con la sentenza n. 127 (relatore Leopoldo Elia), la Corte innova la sua stessa giurisprudenza e dichiara incostituzionale il cd. arbitrato obbligatorio, laddove cioè non si riconosce la facoltà di adire l’autorità giudiziaria ordinaria. E’ interessante notare come nell’incipit del “Considerato in diritto”, la Corte affermi: «Questa Corte esamina per la prima volta una questione di legittimità costituzionale in tema di arbitrato rituale obbligatorio o necessario», quasi a volere disconoscere che la sentenza del 1966 avesse a che fare con l’arbitrato obbligatorio, e comunque non entrava certo nel merito della compatibilità costituzionale con gli artt. 24 e 102 Cost. Era stato sottoposto al giudizio di costituzionalità un articolo (il 25, primo comma) del r.d. n. 1127 del 1939 (in materia di brevetti per invenzioni industriali), per il tramite di un’ordinanza sollevata dal tribunale di Modena nel corso di un procedimento civile. Si

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sospettava l’incostituzionalità della norma con riferimento al parametro costituzionale dell’art. 24, comma 1, e dell’art. 102, comma 1, della Costituzione. La Corte accoglie la questione, emana una sentenza additiva e dichiara incostituzionale la norma «nella parte in cui non riconosce la facoltà dell’inventore e del datore di lavoro di adire l’autorità giudiziaria ordinaria». Viene quindi a essere assunta la libera scelta delle parti, nella loro autonomia, di quale giudice adire, statale o privato, senza che vi sia un obbligo di fare risolvere il contenzioso da un soggetto ovvero dall’altro. E’ la libera determinazione delle parti quale elemento idoneo a giustificare la deroga alla giurisdizione statale. E’ sempre la libera determinazione delle parti a determinare la costituzionalità dell’arbitrato, attraverso un’interpretazione del combinato disposto degli art. 24 e 102 Cost.16, ma proprio per questo risulta incostituzionale l’arbitrato obbligatorio, che priva le parti di disporre della loro autonomia di scelta. Sostiene la Corte, che «la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa: ed il principio fissato dall’art. 806, primo comma, (prima parte), del codice del rito civile (“Le parti possono far decidere da arbitri le controversie fra loro insorte…”) assume il carattere di principio generale, costituzionalmente garantito, dell’intero ordinamento». Sul punto, si appunta una puntuale e puntuta critica di un autorevole studioso, il quale rivela un «errore ermeneutico e metodologico di fondo», perché «non si può leggere la Costituzione alla luce degli artt. 806 c.p.c.; semmai si deve fare il contrario: leggere il codice di procedura civile alla luce della Costituzione». Affermazione pienamente condivisibile17. Che evoca un famoso passo della giurisprudenza costituzionale (sent. n. 356 del 1996: relatore Gustavo Zagrebelsky), dove viene affermato che «una legge si dichiara incostituzionale non perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». La decisione del 1977 sull’incostituzionalità dell’arbitrato obbligatorio, perché le parti devono sempre essere nella libera facoltà di scegliere a chi affidare la risoluzione del contenzioso, assumerà una sorta di stare decisis nella giurisprudenza costituzionale18, fino alla più recente sentenza n. 123 del 2018 (relatore Prosperetti), con la quale dichiara incostituzionale una norma (art. 24, commi 7 e 8, del r.d. n. 2578 del 1925), nella parte in

16 Sul punto, V. Andrioli, L’arbitrato rituale e la Costituzione, cit., 1146 e, da ultimo, F. Marone, op. cit., cit., 13617 Così, P. Perlingieri, Arbitrato e Costituzione, cit., 3718 Vedi Corte cost. sentenze n. 221 del 2005, n. 325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 152 e n. 54 del 1996, n. 232, n. 206 e n. 49 del 1994, n. 488 del 1991 e, naturalmente, n. 127 del 1977

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cui non riconosce il diritto di ciascuna parte di adire l’autorità giudiziaria ordinaria, imponendo l’arbitrato obbligatorio. Con la decisione del 1977 si apre però un significativo favor arbitratus da parte della giurisprudenza costituzionale, prolegomeno alla pronuncia con la quale verrà riconosciuta la funzione giurisdizionale dell’arbitrato.

3. L’arbitrato lungo il percorso della giurisprudenza costituzionale, la fase giurisdizionale

A mio parere, infatti, è la sentenza n. 376 del 2001 (relatore Annibale Marini) che sancisce la natura oggettivamente giurisdizionale dell’istituto arbitrale. Con questa pronuncia, infatti, la Corte riconosce al Collegio arbitrale il potere sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma, che interessa il procedimento arbitrale e che si presume possa essere incostituzionale19. La Corte parte dal riconoscere la più marcata assimilazione, nella evoluzione normativa, del collegio arbitrale - quando si tratti di arbitrato rituale – all’autorità giudiziaria, la sostanziale equiparazione del lodo alla sentenza giudiziale, l’introduzione dell’impugnazione per nullità del lodo per violazione del contraddittorio e infine la novella dell’art. 819 del codice di procedura civile. Preso atto, come noto, che la questione incidentale deve sorgere «nel corso di un giudizio dinanzi a una autorità giurisdizionale» (come afferma l’art. 1 della l. cost. n. 1 del 1948 e art. 23 della l. n. 87 del 1953), la Corte riconosce il potere del Collegio arbitrale di sollevare l’incidente di costituzionalità, attribuendogli pertanto la legittimazione quale giudice a quo20, e quindi investendolo del ruolo e funzione di autorità giurisdizionale. E’ pur vero, come è stato affermato, che in punto di giudici e giurisdizioni la Corte ha seguito un orientamento eclettico, che si prestano a conclusioni

19 Smentendo così autorevole dottrina, che negava la possibilità in capo agli arbitri di sollevare q.l.c. e auspicava piuttosto che questi potessero disapplicare le norme da loro ritenute incostituzionali, così P. Barile, op.ult.cit., 23220 Secondo la giurisprudenza costituzionale, per aversi giudizio a quo è sufficiente che sussista esercizio di «funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge» da parte di soggetti, «pure estranei all’organizzazione della giurisdizione», «posti in posizione super partes»: cfr. sentenze n. 387 del 1996, n. 226 del 1976 e n. 83 del 1966. Al giudizio a quo, la Corte costituzionale dedicò un seminario nel novembre 1989, i cui Atti di quella giornata furono poi pubblicati nel vol. Corte costituzionale, Giudizio “a quo” e promovi-mento del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 1990

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non rigidamente obbligate21, ma in questo caso mi pare chiara e precisa la posizione della giurisprudenza costituzionale relativamente alla legittimazione del collegio arbitrale come giudice a quo, e quindi come autorità giurisdizionale. Scrive il giudice delle leggi: «basta osservare che l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie […]. In un assetto costituzionale nel quale è precluso ad ogni organo giudicante tanto il potere di disapplicare le leggi, quanto quello di definire il giudizio applicando leggi di dubbia costituzionalità, anche gli arbitri - il cui giudizio è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione - debbono utilizzare il sistema di sindacato incidentale sulle leggi […]. Conclusivamente, dunque, va affermato, alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, che anche gli arbitri rituali possono e debbono sollevare incidentalmente questione di legittimità costituzionale delle norme di legge che sono chiamati ad applicare, quando risulti impossibile superare il dubbio attraverso l’opera interpretativa» (corsivi miei).

La sentenza n. 376 del 2001 certifica, per così dire il passaggio ovvero l’affrancamento dell’arbitrato dalla funzione negoziale alla funzione giurisdizionale, in quanto conforme all’art. 24 e all’art. 102 Cost. (come già visto nella precedente giurisprudenza) e in quanto garantisce il contraddittorio e l’imparzialità, capisaldi della funzione giurisdizionale. Su posizioni differenziate si muovono, in prima battuta, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, le quali inizialmente negano «la configurabilità del processo arbitrale come affidamento agli arbitri di una frazione di quello stesso potere giurisdizionale che la legge attribuisce al giudice dello Stato […] [pertanto] il giudizio arbitrale è antitetico a quello giurisdizionale e ne costituisce la negazione» (così, Cass. civ. Sez. Unite n. 527 del 2000). Ancora, e nonostante la decisione della Corte costituzionale prima ricordata, le Sezioni Unite, con sentenza n. 10723 del 2002, interpretano la pronuncia della Consulta nel senso che quest’ultima «avrebbe unicamente constatato […] la presenza di un giudizio, vale a 21 Cfr. V. Onida, Giurisdizioni e giudici nella esperienza della Corte costituzionale, nel vol. Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo, a cura di P. Barile-E. Cheli-S. Grassi, il Mulino, Bologna 1982, 193 ss. Più recentemente, anche per una sintesi, G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna 2012, 272 ss.

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dire di un procedimento disciplinato dal Codice di procedura civile, senza per questo aver negato la natura privatistica dell’arbitrato rituale». La Corte costituzionale tornava sull’istituto arbitrale, con la sentenza n. 223 del 2013 (relatore Luigi Mazzella), per ribadire e confermare la natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale. Come afferma in maniera esplicita «Anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da questa ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire a un risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale» (corsivo mio). A questo punto, a distanza di poco tempo, si assiste a un revirement della Corte Suprema di Cassazione la quale, con ordinanza n. 24153 del 2013, riconosceva la natura giurisdizionale dell’arbitrato, motivando altresì sulla base delle novelle normative del codice di procedura civile, che hanno riguardato l’istituto arbitrale, a partire dall’art. 827 c.p.c. (modificato nel 1994, che consente l’impugnabilità autonoma del lodo) e poi gli artt. 816-quinques e sexies (che ammette l’intervento di terzi), 819-bis e ter, (che codificano la possibilità per gli arbitri di sollevare la q.l.c.), 824-bis (che equipara gli effetti del lodo alla sentenza della A.G.) e anche il d.lgs. n. 40 del 2006. Insomma, alla fine anche la Corte Suprema di Cassazione può riconoscere espressamente «che anche gli arbitri esercitano una funzione giurisdizionale».

Ultima pronuncia, a oggi, della Corte costituzionale è quella già citata con riferimento all’incostituzionalità dell’arbitrato obbligatorio, confermando così una sua consolidata giurisprudenza (sent. n. 123 del 2018). Si segnala una recente rimessione alla Corte di una q.l.c. sollevata da un Collegio arbitrale, con riferimento sia alla l. n. 190 del 2012 (art. 1, comma 5) in contrasto con il parametro costituzionale degli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 Cost., sia al d. lgs. n. 163 del 2006 (art. 241, comma 1), in contrato on il parametro costituzionale degli artt. 3, 24, 41, 97, 102 e 111 Cost. La questione è stata iscritta al Reg. ord. n. 82 del 2018 (in G.U. n. 22 del 2018) e si attende il pronunciamento della Corte costituzionale.

4. Brevi conclusioni e prospettive future

Si deve quindi imputare alla giurisprudenza costituzionale il merito di avere collocato l’istituto arbitrale quale organo giurisdizionale in funzione del “servizio giustizia”. E quindi della necessità che si faccia giustizia anche in nome dell’autonomia dei privati, rispettando, ovvero conformandosi

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ala Costituzione e le sue disposizioni normative in punto di giudici, giurisdizione e principi del giusto processo. Ho scritto all’inizio, citando Alpa, che la vicenda dell’istituto arbitrale poteva essere sintetizzata, salvo ulteriori specificazioni, con il titolo: Dal diritto pubblico al diritto privato22. Occorre allora specificare, anche al fine di non cadere in equivoci, che il “traghettamento” dal pubblico al privato deve intendersi quello dalla funzione pubblica a quella privata, ovvero una giustizia affidata a privati che esercitano potestà giurisdizionale. Non è certo una privatizzazione del servizio giustizia ma piuttosto l’esercizio di una “giurisdizione senza Stato”, secondo una felice formula già citata. Da ciò ne deriva una erosione della sovranità statale, che si manifesta per il tramite del disconoscimento del monopolio dello Stato con riguardo alla giurisdizione, inteso cioè come esercizio della funzione riservato al potere pubblico statale. Si è così legittimata la “giurisdizione privata” pienamente sostitutiva di quella del giudice ordinario, a essa equivalente23. La cui fonte di legittimazione, quindi, non va più trovata nella sovranità e nella giurisdizione statale ma piuttosto nell’autonomia dei privati.

Si possono immaginare ulteriori scrutini di costituzionalità in merito al funzionamento dell’istituto arbitrale? Vengono in mente i cd. arbitrati amministrati, ovvero la regolazione della disciplina degli arbitrati da parte di una serie di soggetti, quali le Camere di commercio ovvero l’Anac e la Consob, con riferimento all’organizzazione degli stessi e non certo riferibili alla disciplina processuale, che naturalmente è prevista dal Codice di procedura civile24. In particolare, potrebbe creare forme di perplessità costituzionale la scelta e la nomina degli arbitri negli arbitrati amministrati, dovuti alla loro diversificazione e quindi alla mancata omogeneità di regole comuni. Da un lato la previsione di un albo al quale fare domanda d’iscrizione sulla base di una non meglio specificata qualificazione professionale, dall’altro lato sulla base di una scelta affidata, tendenzialmente in via discrezionale, a un Consiglio interno all’organo che gestisce amministrativamente l’arbitrato. E altri esempi potrebbero

22 G. Alpa, Dal diritto pubblico al diritto privato, parte prima (La “grande dicotomia” e la revisione della concezione tradizionale) e parte seconda (Il superamento della dicotomia nel diritto post-moderno), cit.23 Sulla erosione della sovranità statale in punto di giurisdizione, v. di recente S.M. Carbone, Per una interpretazione internazionalmente orientata della disciplina italiana dell’arbitrato: prospettive di sviluppo, nel vol. L’autonomia negoziale nella giustizia arbitrale, ESI, Napoli 2016, 183 ss.24 Sugli arbitrati amministrati, v. S. Azzali, L’arbitrato amministrato e l’arbitrato ad hoc, nel vol. Arbitrato. Profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, cit., 829 ss.

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essere fatti25. Sebbene l’assenza della legittimazione politica dei collegi arbitrali è compensata, il più delle volte, dall’autorevolezza ed equidistanza riconosciuta dalle parti ai suoi componenti. La questione dell’indipendenza e dell’autorevolezza degli arbitri è determinante: «l’arbitro, quale che ne sia l’estrazione, deve, non meno del giudice togato, essere ed apparire imparziale nel corso di tutto il processo e all’atto della decisione»26.

Sul piano del parametro costituzionale, ai fini di un’ulteriore conferma del ruolo e della funzione giurisdizionale dell’arbitrato, si può immaginare l’utilizzo dell’art. 118 Cost., che disciplina la sussidiarietà (orizzontale). La torsione verso una maggiore sensibilità nei confronti del privato e una conseguente riduzione dell’interventismo pubblico sta avvenendo, in Italia e non senza poche difficoltà, soprattutto a seguito della costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà (ex art. 118 Cost.), che si è determinata con legge cost. del 2001. Infatti, la forza espansiva del principio di sussidiarietà, vero snodo di procedura costituzionale attraverso il quale si subordina il pubblico al privato, oltreché incidere sulle attività economiche e dei servizi sociali, si innerva anche nella giurisdizione, in modo tale che l’intervento autoritativo giurisdizionale finisce con l’essere considerato l’ultima chanche a disposizione dei soggetti in lite, quando le soluzioni alternative non sembrano raggiungere lo scopo. La sussidiarietà della giurisdizione, quindi, consiste nel favorire le parti in una controversia verso una serie di soluzioni alternative al giudizio ordinario: dalla risoluzione negoziale diretta tra le parti, alla conciliazione, all’arbitrato27. Ovviamente, solo quando si tratta di diritti disponibili.

Certo, non è solo una nuova concezione della forma di Stato, con la (consequenziale) codificazione costituzionale del principio di sussidiarietà, ad avere consentito l’espandersi del favor arbitratus in Italia. C’è anche la questione dell’abuso del processo, ovvero l’esasperata conflittualità, e pertanto un eccesso di richiesta di tutela presso i tribunali (secondo dati ministeriali ci sono oltre quattro milioni di ricorsi all’anno davanti al giudice civile). C’è quindi una sempre maggiore inadeguatezza, a seguito dell’ingolfamento della domanda di giustizia, del “sistema giustizia” statale a fornire un servizio tempestivo ed efficiente. C’è pertanto una “irragionevole” durata dei processi (a dispetto dell’art. 111 Cost.), che porta ad avere una decisione, dopo essere passati attraverso tutti i gradi di giudizio, in un tempo spaventosamente lungo, che può arrivare financo 25 V., da ultimo, alcune interessanti indicazioni in F. Marone, op.cit., 188 ss.26 Così, E. Fazzalari, L’etica dell’arbitrato, in Rivista dell’arbitrato, n. 1, 1992, 1 ss.27 Sia consentito il rinvio a T.E. Frosini, Un nuovo paradigma di giustizia: le Alternative Dispute Resolutions, cit.

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a dieci anni e più dall’introduzione del ricorso (con la conseguente condanna dell’Italia da parte della Corte Edu, ex art. 6 della Cedu). Certo, l’arbitrato non è la soluzione ma senz’altro una delle soluzioni, come da tempo dimostrato, tra gli altri, dalle esperienze di diritto comparato28.

28 Per i termini di confronto, v. G. Recchia, L’arbitrato nel diritto comparato, cit.; Aa.Vv., L’altra giustizia. I metodi alternativi di risoluzione delle controversie nel diritto comparato, a cura di V. Varano, Giuffrè, Milano 2007

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Andrea Fusaro

Guido Alpa sul ruolo del diritto nella società postmoderna

Sommario: 1. La raccolta di saggi “Giuristi e interpretazioni” – 2. Il contenuto del volume – 3. Diritto come letteratura – 4. Diritto naturale e storia – 5. La persona – 6. Dignità e solidarietà – 7. La bioetica – 8. La solidarietà – 9. L’identità 10. La famiglia – 11. Situazioni e status – 12. Antropologia giuridica – 13. L’ambito economico – 14. Law & Economics – 15. La nuova “lex mercatoria” – 16. L’assolutismo giuridico – 17. La fede nel diritto – 18. Un volume prezioso per la didattica e la ricerca.

1. La raccolta di saggi “Giuristi e interpretazioni”

Guido Alpa non ha bisogno di presentazioni, neppure la richiedono i suoi libri, specialmente quando - come il volume intitolato a Giuristi e interpretazioni. Il ruolo del diritto nella società postmoderna, edito da Marietti nel 2017- raccolgono saggi composti attraverso la sua lunga e straordinariamente prolifica attività.

L’Autore è celebre, i suoi scritti sono accreditati ovunque; nelle materie cui maggiormente si è dedicato essi ricevono costante omaggio, le citazioni non si contano. Questo dato, agevolmente constatabile e di continuo registrato, rischia però di mettere in ombra un aspetto biografico imperdibile: quanto precocemente Guido Alpa abbia manifestato sensibilità verso temi bensì ormai da decenni fioriti, ma acerbi all’epoca in cui li aveva messi al centro dei suoi interessi; basti pensare al vasto fronte della protezione del consumatore- quindi alla tutela del contraente per adesione, al danno da prodotti-, poi alla persona, al rispetto dell’identità e della dignità. Merita riconoscergli la primogenitura di non poche elaborazioni teoriche originali, restituirgli il ruolo di promotore culturale di proposte avanzate da Maestri alla cui diffusione ha contribuito in maniera importante, forse decisiva.

Questa notazione aiuta ad apprezzare la portata dei contributi depositati in questa silloge, che forniscono ricche illustrazioni dei fondamenti dei temi studiati, non solo giuridici, ma culturali in senso ampio, secondo l’inclinazione coltivata traendo spunto dall’insegnamento di grandi Maestri

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quali Piero Calamandrei, Pietro Rescigno, Stefano Rodotà, per citare autori la cui influenza più visibilmente traspare.

2. Il contenuto del volume

Nel volume sono raccolti dodici saggi, preceduti da una prefazione e seguiti da una conclusione intitolata alla fede nel diritto.

Nella prefazione si muove dalle regole sull’interpretazione, al loro riepilogo facendo seguire l’avvertenza circa la superiore complessità dell’operazione ermeneutica, influenzata dalla cultura dell’interprete, la quale a propria volta varia in dipendenza “delle convinzioni, della capacità, dell’impegno di ciascun giurista, oltre che, naturalmente, delle condizioni storiche in cui egli opera”. Si tratta del “processo ermeneutico” da Gadamer denominato “precomprensione”, nel cui ambito l’interprete usufruisce di un ampio margine di discrezionalità, nei limiti dei canoni stabiliti dalla comunità ermeneutica, oltre che dal legislatore e dalla tradizione, e nel rispetto dei valori depositati nella Costituzione, nella Carta europea dei diritti fondamentali, nella Convenzione EDU. In tali testi ricorre il riferimento all’uomo - inteso come persona - al centro dell’ordinamento: è evocato l’adagio secondo cui il diritto è fatto per l’uomo, non viceversa (p.7).

Si suggerisce la destinazione preferenziale del libro agli studenti, ma avvertendo che i temi affrontati rivestono peso decisivo per la formazione del giurista, in modo da poterne raccomandare la lettura a ogni cittadino intenzionato ad “accostarsi al diritto con la curiosità del profano, ma anche con le aspirazioni alla giustizia di ogni consociato che confida nel diritto come apparato di garanzie e tutele”, alla vita, della libertà, dell’identità, della famiglia, del patrimonio (p. 8).

I titoli dei singoli capitoli, presentati quali “parole del diritto”, sono rispettivamente dedicati a: diritto come letteratura, diritto naturale e storia, persona, dignità e solidarietà, identità, famiglia, situazione e status, antropologia giuridica, ordine giuridico del mercato, law & economics, la nuova lex mercatoria, assolutismo giuridico. Si svela che la loro scelta è stata condizionata dal rispettivo legame con maestri del diritto incontrati nel corso della vita accademica e professionale.

Di ogni voce sono illustrate le matrici, le direttrici, le applicazioni celebri intorno alle quali è stata messa a prova la tenuta delle teorie.

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3. Diritto come letteratura

Nel primo capitolo, intitolato “Il diritto come letteratura” (p. 9 ss.), è illustrato il rapporto tra le due entità, oggetto di grande attenzione negli ultimi decenni, non solo all’interno della cultura nordamericana, dove sono segnalati in particolare i contributi di Posner, i quali sono tuttavia pervenuti a esiti riduttivi. L’indagine delle forme espressive dei giuristi diviene lo spunto per una riflessione ampia sui testi giuridici, messi a fianco di quelli sacri e quelli di fantasia, in modo da confrontarne poi i criteri ermeneutici. Il bilancio pende verso l’assimilazione: “non vi sono differenze determinanti”, spesso sono intercambiabili. Permangono, tuttavia, alcune differenze residuali: la strumentalità, la vincolatività e la sindacabilità; la correlazione tra testo e sanzione; la libertà o coattività che gradua i processi formativi dei testi. La conclusione è nel senso dell’identificazione tra diritto e letteratura, talché la separazione è interna, sebbene il diritto non sia interpretabile mediante criteri letterari. Quale ricaduta pratica è segnalato l’impiego di tali analisi per predire il risultato dell’operazione ermeneutica.

4. Diritto naturale e storia

Il secondo è dedicato a “diritto naturale e storia” (p. 26 ss.), titolo del celebre libro di Leo Strauss, dato alle stampe nel 1953, subito tradotto in molte lingue e ripubblicato a Genova nel 1991. Dopo aver segnalato il tributo prestato al diritto naturale dalle carte fondamentali, tra cui dall’art. 2 della nostra Costituzione, la trattazione prosegue con il resoconto dell’accoglienza -fredda- ricevuta dall’opera e delle rimeditazioni successive, le quali hanno colto la differenza tra il diritto naturale e i diritti naturali, tra l’accezione soggettiva e quella oggettiva; vengono, quindi, passate in rassegna le posizioni critiche di Fassò, Bobbio, Kelsen. Il diritto naturale ha ricevuto rinnovata attenzione per il moltiplicarsi dei riferimenti - espliciti o impliciti - contenuti nella carte costituzionali e nelle dichiarazioni delle libertà fondamentali; poi in ragione delle “aspirazioni di quanti si propongono di riformulare secondo il moderno sentire i principi di etica su cui si regge la comunità”(p. 40), con il che si riprende il discorso di Strauss. E’, poi, rischiarata la differenza tra diritto naturale classico e moderno: “il primo identifica il diritto nella giustizia, il secondo ne accentua la differenza” (p. 45). L’ultima parte della trattazione verte sull’art. 2 Cost., che viene interpretato in maniera estensiva

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per reagire alle aggressioni della società moderna, per prendere parte al dibattito sulla bioetica: i diritti dell’embrione, del feto, del malato; il diritto a non essere oggetto di accanimenti terapeutici; persino i diritti degli animali e la protezione dell’ambiente. Insomma, il diritto naturale sta conoscendo una nuova stagione, che succede a quella dei diritti umani.

5. La persona

Il terzo capitolo è incentrato sulla persona (p. 50), concezione frutto delle elaborazioni giuspositivistiche, da un lato, giusnaturalistiche, dall’altro. Questa nozione - come quelle di diritto soggettivo e di azione - possono essere comprese solo nel loro svolgimento storico, cosicché si muove dall’opera di Enrico Besta, risalente alla prima metà del secolo scorso, per seguire il percorso della configurazione giuridica, attraverso la concezione giusnaturalistica, poi nell’indirizzo pandettistico, per approdare ai codici civili dell’Ottocento e del Novecento, quindi alle dichiarazioni dei diritti e alle costituzioni straniere, e giungere infine a quella italiana. Si conclude riprendendo il viaggio intellettuale indicato da Stefano Rodotà, ove trova ridefinizione l’individuo, sono messe in relazione identità e discriminazioni, è mostrato il legame tra soggettività e legittimazione.

6. Dignità e solidarietà

Il discorso è proseguito nella voce successiva intitolata a “dignità e solidarietà” (p. 84 ss.), ove è illustrato anzitutto il ruolo della dignità (p. 89) ed è affrontato l’interrogativo se nel nostro sistema essa sia solo un valore, oppure anche un diritto, o addirittura se sia “un super diritto”. Si riconosce peso ai testi legislativi, tuttavia avvertendo circa la superiore rilevanza agli interventi giudiziari, in particolare quelli della Corte di Strasburgo, che a lungo si è occupata del rapporto tra dignità e diritti umani nella Convenzione europea (p. 90); molti casi hanno suscitato clamore, si pensi a quelli inerenti il giusto processo che hanno, addirittura, indotto il legislatore italiano a modificare il testo della Costituzione (art. 111). Il tema riveste peso anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale nonché della Cassazione (p. 93), che sempre più frequentemente fa riferimento alla

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dignità, anche nei rapporti tra privati.

7. La bioetica

Settore fortemente contrastato è quello della bioetica (p. 99), ove si consuma lo sforzo di contemperare i diritti della persona, in particolare all’autodeterminazione, e i valori condivisi dalla collettività, come in tema di procreazione assistita e tutela dell’embrione; grandi contrasti investono pure le credenze religiose e la loro rappresentazione simbolica (come il velo per le donne musulmane). In un contesto tanto variegato, la Corte di Giustizia (p. 103) ha promosso l’applicazione dei diritti fondamentali.

8. La solidarietà

A seguire è affrontata la solidarietà (p. 106), che dalla Costituzione italiana del 1948 è notoriamente considerata un valore forte; tendenzialmente il riferimento a essa è più frequente nei testi costituzionali piuttosto che nelle fonti di rango inferiore; nelle carte universali dei diritti non è menzionata espressamente, ma è soffusa nella Convenzione Europea del 1955. La nostra Costituzione esce vittoriosa dal confronto con le altre moderne (p. 108): la solidarietà non è neppure menzionata in quelle di Belgio e Paesi Bassi, mentre negli altri testi più recenti è relegata sullo sfondo. Della solidarietà sono, quindi, elencati i caratteri (p. 109): essa viene presentata nella prospettiva cattolica e in quella socialista (p. 110); è, poi, coltivato il confronto tra fraternità e solidarietà, quale continuità o frattura (p. 111). La solidarietà, nell’accezione di fraternità, emerge con vigore nel clima rivoluzionario ed è poi richiamata alla fine del secolo diciannovesimo, ma nei codici vigenti essa è quasi ignorata: nel nostro essa è apparsa in collegamento con l’ideologia corporativa e i civilisti l’hanno riscoperta rivalutando l’applicazione diretta della Costituzione ai rapporti tra privati, facendo uso delle clausole generali riferite alla buona fede, alla correttezza e all’equità.

La solidarietà dev’essere, oggi, intesa come limite e come obbligo (p. 119): essa è connotato peculiare delle società moderne e civili, ispirate dalla tutela dell’altro, del diverso, dell’emarginato, ma tende a essere sommersa dall’individualismo. La solidarietà è, quindi, al tempo stesso limite all’azione

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individuale, dettato da ragioni sociali, e obbligo imposto ai singoli a operare per la realizzazione di più equi rapporti sociali e più umane condizioni di vita. La solidarietà è, quindi, assurta a valore universale (p. 120), attualmente evocata in diversi contesti e assai frequentemente: nel catechismo della Chiesa cattolica, nella Laude francescana, nella Costituzione italiana, nell’enciclica Veritatis splendor. La mentalità più diffusa è, nondimeno, aliena da spinte solidaristiche: il principio del libero mercato è oggetto di mistificazione; è promossa la ribellione fiscale; i programmi politici predicano l’individualismo egoista e il liberismo selvaggio (p. 122).

9. L’identità

Ancora intorno alla persona ruota il quinto capitolo, dedicato all’”identità” (p. 123 ss.), declinandola in quelle genetica (p. 123), sessuale (p. 124), all’integrità fisica quindi il diritto sulle parti staccate del corpo (p. 127), il diritto al nome (p. 128), all’identità digitale, alla privacy (p.130), intesa come diritto alla riservatezza, al riserbo, al segreto della vita privata, lemma penetrato nel nostro linguaggio, con il viatico dei formanti dottrinale e giurisprudenziale.

La privacy si declina secondo diverse accezioni e si scontra con diversi valori. Rivestono peso centrale i diritti della personalità (p. 133): all’immagine, all’identità personale, al nome, i quali vengono a interferire con attività che, in ragione dell’evoluzione delle tecnologie, rendono più vulnerabile la persona. La violazione della privacy (p. 136) è fattispecie collocata nel settore della responsabilità civile (art. 2043 c.c.), configurata quale danno ingiusto in quanto conseguente alla lesione di un diritto soggettivo assoluto che si ricava dall’applicazione diretta dell’articolo 2 Cost.. La costruzione giurisprudenziale del diritto alla privacy (p. 137) trova le prime applicazioni negli anni cinquanta con i precedenti Caruso e Petacci, e si consolida negli anni settanta con la vicenda Soraya(p.144), ove la tutela dell’immagine si intreccia con quella della privacy per contemperare il diritto di cronaca. Attualmente (p. 148) sono incerti i confini, lo status dell’interessato, il conflitto con altri diritti, il tipo di danno. Quando ha visto la luce la direttiva comunitaria CEE 46/95 sulle banche dei dati (p. 153), nel nostro ordinamento (p. 156) erano assenti leggi volte a disciplinare l’assunzione di informazioni e la loro diffusione da parte di terzi, figurando solo alcune norme specifiche rivolte a singole ipotesi; poiché era avvertita

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l’esigenza di assicurare ai cittadini il diritto conoscere le informazioni raccolte sul proprio conto, di rettificare dati inesatti e quindi il diritto all’oblio, successivamente si è dato corpo a un modello considerato uno dei più moderni e garantisti del mondo.

10. La famiglia

La sesta voce è incentrata sulla “famiglia” (p. 169 ss.), di cui è anzitutto illustrato il profilo storico, attraverso il riferimento al code napoléon (p. 169), passando al codice civile del 1865 (p. 171), quindi alla legislazione del Fascismo (p. 172), poi alla redazione della Costituzione repubblicana (p. 176); all’anticipazione della riforma del diritto di famiglia (p. 181); alla legge del 1975 (p. 192); fino alla riforma del 2012 (p. 201) relativa alla filiazione. Attualmente (p. 202) si assiste a una trasformazione della funzione economica della famiglia e a un mutato ruolo della donna; vengono illustrate la posizione cattolica, l’ideologia marxista, il pensiero democratico borghese e i movimenti radicali. Si conclude constatando l’attuale giuridificazione e internalizzazione dei rapporti familiari, che ha portato all’esaltazione dei diritti fondamentali anche in quest’area (p. 210), qui delineata attraverso una breve rassegna delle norme relative alle convivenze. L’analisi si conclude con l’interrogativo circa la possibilità e opportunità di delineare regole europee (p. 215).

11. Situazioni e status

Persona e famiglia trovano compendio nella settima voce dedicata a “situazioni e status” (p. 219 ss.), muovendo dalla considerazione di Pietro Rescigno (p. 224) secondo cui la situazione ha carattere episodico e temporaneo, mentre lo status richiama l’idea di una condizione personale destinata a durare, capace di dare vita a prerogative e doveri; manca alcuna definizione di status in materia familiare nel nostro codice civile, ove ricorre l’espressione “qualità” (es. di figlio). Attualmente la realtà è ancor più frastagliata, poiché accanto a status consegnati dalla tradizione ve ne sono di occulti o indiretti, che continuano a perpetrare discriminazioni; sussistono, poi, status nuovi portati dalle nuove tecnologie (ad esempio l’embrione) e dall’economia (consumatore e risparmiatore). Occorre, poi,

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chiedersi come questi status si intreccino con i bisogni elementari della vita (p.226): alcuni riguardano necessità connaturate a particolari situazioni di carattere fisico o economico. Nelle nuove prospettazioni si registra la giuridificazione e frammentazione dello status (p. 229). Attualmente gli aspetti della personalità sono, di regola, disciplinati nei codici civili e riguardano il singolo, che riveste una posizione centrale nell’ordinamento, attengono ai suoi rapporti con altri membri della comunità e con lo Stato. Gli ordinamenti che non hanno aggiornato il codice hanno spesso integrato le costituzioni (p. 234).

12. Antropologia giuridica

Si ritorna alla descrizione di una branca del sapere con l’“antropologia giuridica” (p. 241 ss.), muovendo dalla considerazione secondo cui le regole dei codici veicolano valori e quindi concezioni di contratto che, essendo imposte per legge, finiscono per essere acquisite come indiscutibili. Tuttavia se si supera la concezione formalista si scopre che così non è: terminologia, concetti, regole sono il frutto della cultura giuridica, rappresentazione di fenomeni sociali ed economici. Gli aspetti antropologici del diritto contrattuale sono stati affrontati in modo diretto e compiuto all’inizio del novecento, in particolare tra i primi da Marcel Mauss che si è concentrato sulle sovrastrutture delle società primitive. Non a caso il fenomeno è stato esaminato da Rodolfo Sacco in conclusione della sua trattazione antropologica del diritto, che ha accompagnato il lettore in un lungo cammino, all’inizio del quale ha indicato i confini del settore, teorizzando la pluralità dei diritti, scavando le radici e individuando la base dei rapporti umani; in questo modo ha descritto il passaggio dal diritto muto a quello parlato e la verbalizzazione della regola, quindi la sua scrittura, così giungendo alla partizione del diritto: privato, pubblico, i gruppi, le persone, i beni, i servizi, i conflitti.

13. L’ambito economico

Con le tre voci successive si passa all’ambito economico. L’“ordine giuridico del mercato” (p. 256 ss.) è messo a confronto con la libertà

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contrattuale, evocando il dibattito innescato dalla contrapposizione tra la tesi favorevole alla molteplicità, specificità e analiticità delle regole rivolte a governare il mercato, e quella che le auspica marginali, non pervasive e di semplice indirizzo. Rispetto al “nichilismo giuridico” (p. 260) è centrale l’analisi dei saggi raccolti da Natalino Irti, dove sono registrate vicende caratterizzanti il diritto post moderno: il declino dei dogmatismi incrostati con l’avvento della Pandettistica e poi del formalismo; i crolli del positivismo giuridico e del giusnaturalismo, che hanno consegnato il giurista alla precarietà, alla mutevolezza, alla a-sistematicità. Il sapere è ormai rapportato al “saper fare”, alla specialità delle competenze giuridiche e alla loro frammentarietà. Il libro di Irti conclude osservando che “il nichilismo ci salva e protegge; smaschera falsi idoli, da cui pensavamo di trarre il nostro valore...esso non è rinuncia ma accettazione”. La visione illustrata non soddisfa appieno e viene formulato l’auspicio che il nichilismo di Irti non sia tragico, ma lasci il posto a un maggior afflato sociale, una cultura della differenza funzionale alla protezione degli interessi deboli.

14. Law & Economics

Il decimo capitolo è dedicato alla “Law & Economics” (p. 264), al rapporto tra diritto ed economia e all’analisi economica del diritto (p. 264): si tratta di due metodi diversi, l’uno più incentrato sul diritto, l’altro sull’economia, per esaminare i fatti e i bisogni della vita reale, per individuare le regole comportamentali più appropriate e suggerire a chi crea le norme le scelte migliori per raggiungere i fini desiderati. Figura di spicco è Guido Calabresi, che nelle sue opere ha individuato correnti, orientamenti e indirizzi; ha delineato i confini tra i due mondi e ha cercato di pronosticare l’evolvere della connessione tra diritto e economia, senza avanzare la pretesa che il primo sia asservito alla seconda o che la seconda costituisca l’unico modello interpretativo del giurista, ma suggerendo una visione poliedrica e non riduzionista per affrontare i problemi del diritto. In Italia queste riflessioni sono state riprese all’interno del dibattito circa l’interpretazione orientata alle conseguenze. La lettura dell’opera di Calabresi suggerisce anzitutto una riflessione sul judicial process (p. 276), ossia sul “mestiere del giudice”: in esame sono il metodo del giudizio, connesso con l’idea di diritto propria di ciascun giudicante, e i criteri attraverso i quali egli sceglie se procedere. Il giudice non si deve preoccupare particolarmente dello stile,

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ma deve emettere un verdetto equo, ragionevole, meditato e corretto. E’ fatto osservare che le decisioni statunitensi sono sempre più frequentemente appoggiate a leggi scritte ed essendo la produzione normativa in certi ambiti uniforme perché federale, ma in altri diversa da Stato a Stato, l’attività interpretativa risulta assai più complessa che in passato. La constatazione che le più importanti sentenze recenti della Corte Suprema abbiano tratto spunto dalle giurisprudenze delle nazioni occidentali per la soluzione di hard cases dimostra che guardare altrove è diventata una tecnica di cross-fertilization, nonostante alcuni autorevoli esponenti abbiano messo in dubbio l’opportunità di citare precedenti o esperienze straniere (è il caso, ad esempio, del giudice Scalia). La riflessione di Calabresi giova anche al sistema italiano, posto che la nostra cultura giuridica si è ormai aperta allo studio degli altrui modelli di sentenza.

15. La nuova “ lex mercatoria”

Con il capitolo sulla nuova “lex mercatoria” (p. 282 ss.) si presenta il Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da Francesco Galgano, illustrandone l’oggetto, gli scopi, il metodo e lodando le scelte di cui è espressione. E’ elogiato l’abbandono dell’opera monografica, di un solo autore e dedicata a uno specifico settore, a vantaggio della collettanea, contenente contributi incentrati sul medesimo ambito o, al più, riguardanti alcuni affini, che fornisce garanzia di “pluralità delle ispirazioni ideali”.

16. L’assolutismo giuridico

Ultima voce è l’“assolutismo giuridico” (p. 294), ove è ribadita la centralità della storia per comprendere il diritto, secondo l’insegnamento di Paolo Grossi, il quale vede l’individuo non come mero titolare di diritti e doveri, ma quale persona reale che nel corso del tempo intesse relazioni, nutre aspirazioni, vanta pretese. Il giurista è, dunque, condotto in una dimensione diversa da quella che aveva creduto essergli propria, ove esistevano solo formule e sanzioni; egli ne propone un recupero accompagnato da quello della storia, della vita quotidiana dell’uomo e della sua famiglia: il diritto

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non è, quindi, statico e autoritario. Si tratta di considerazioni certamente condivisibili, purché non si abbandoni la consapevolezza circa la difficoltà di spogliarsi di questo preconcetto. Si aggiunge la constatazione che attualmente sta scomparendo la dimensione confinata alle leggi nazionali, la cui presenza appare comunque ineliminabile. Di qui l’idea di un “primato in discussione” e il suggerimento al giurista contemporaneo di ripensare le fonti del diritto senza accontentarsi delle continuità apparenti, quale il ripetersi delle etichette, prediligendo l’indagine dei mutamenti intervenuti nel tempo (p. 301). Seppur critichi l’assolutismo giuridico, Paolo Grossi esalta la lucidità e la smania codificatoria dell’epoca illuminista (p. 306), indotta da esigenze molto concrete, quale l’urgenza di far funzionare il mercato interno, tracciando gli itinerari della modernità. Emerge così la funzione della storia del diritto (p. 310): il giurista positivo che non sappia cogliere il significato della norma superando il tenore letterale, che non ne constati il processo di erosione, viene meno al proprio compito. Il diritto, insomma, è norma e forma, ma non si esaurisce in esse, è anzitutto la dimensione naturale di una intera civiltà.

Il pluralismo sociale e istituzionale caratterizza il Medioevo giuridico e guida il percorso di ricerca di Grossi (p. 314), intenzionato a scendere a fondo e indietro nel tempo per scoprire la discontinuità. Proprio lo storico del diritto è il soggetto deputato a registrare l’irruzione sulla scena di nuove fonti e nuovi strumenti e percorsi di governo, specie nell’ambito del commercio internazionale. Di fronte al mutato panorama buona parte degli studiosi si affida a vecchi strumenti concettuali per la sua decifrazione: in tale contesto, diventa essenziale il ruolo degli avvocati, cui spetta la scelta della lex fori, della lex contractus e l’individuazione del modello contrattuale di riferimento (p. 320).

17. La fede nel diritto

Il volume si chiude con “la fede nel diritto” (p. 325), evocando uno scritto inedito di Piero Calamandrei del 1940, di cui sono elogiate l’eleganza e la freschezza espositiva: un testo rivolto ai giovani che, in tempo di guerra, si accingevano a intraprendere gli studi giuridici con la consapevolezza dell’imminente chiamata alle armi: a loro venivano rivolte parole di speranza, confortandoli nella partecipazione alla vita pubblica e alle sorti del Paese. Nella prolusione erano versate le sue concezioni di diritto e giustizia

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A. Fusaro

ed era tratteggiato il ruolo del giurista, interrogandosi circa l’attualità della fede nel diritto, in particolare nella sua attitudine a salvare gli uomini dalle barbarie. Calamandrei privilegiava una visione tecnica, ma non per questo arida, raccomandando la fede in un diritto adeguato ai bisogni della civiltà. Parole belle riservava all’avvocatura, quale professione “di comprensione, di dedizione, di carità. Nel suo cuore l’avvocato deve mettere da parte i suoi dolori, per far entrare i dolori degli altri... la tragedia dell’imputato si è trasfusa in lui, lo logora, lo agita, lo lacera”.

18. Un volume prezioso per la didattica e la ricerca

Questo pur sintetico riepilogo dei contenuti del volume sembra sufficiente a confortare l’opportunità di raccomandarne l’adozione nei corsi universitari, sia per raccordare le materie storiche e filosofiche con il diritto privato, interno e comparato, sia per fornire il profilo dell’evoluzione dei concetti giuridici civilistici, in questo modo colmando salti evidenti su entrambi i fronti.

Nelle sedi in cui gli storici non intendono occuparsi degli istituti privatistici, il civilista e il comparatista avrebbero attitudine a colmare questi segmenti, riprendendo le fila degli insegnamenti romanistici, avvantaggiandosi delle illustrazioni delle premesse culturali e sociali proposte dai medievisti, dai docenti di diritto moderno e di storia delle codificazioni; alcuni saggi raccolti in questa silloge, ad esempio quello sulla persona, indagano le radici di singoli concetti, restituendovi quella profondità storica al cui interno- secondo un insegnamento ricevuto- deve ricercarsi la cifra degli istituti giuridici. Altrettanto vale per il coordinamento con i corsi di filosofia del diritto: altri contributi, ad esempio quello dedicato al diritto naturale, si collegano all’argomentazione giuridica, quindi forniscono occasioni per sperimentare la concretizzazione di speculazioni sganciate da contesti.

Entrambi i fronti mettono la cultura privatistica in collegamento con le proprie specifiche matrici. Si tratti di apprezzare i riferimenti al diritto naturale nel dibattito sulle disposizioni anticipate di trattamento, oppure di ragionare sulla tutela della persona, della dignità rispetto alla gogna mediatica, l’universitario, il ricercatore maturo, persino il cittadino- secondo l’auspicio espresso dall’A. nell’introduzione- potrà appoggiare l’edificazione di ulteriori sopraelevazioni, imposte o suggerite dai tempi, confortato dalla

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Guido Alpa sul ruolo del diritto nella società postmoderna

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solidità di queste fondamenta, realizzate sul terreno roccioso della cultura giuridica compendiate in questo volume.

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Paolo Gaggero

Contratti, persone, mercato:una prospettiva su tutela del consumatore e controlli sull’impresa

Sommario: 1. Persona e diritti fondamentali – 2. Diritti fondamentali e ideologie – 3. Diritti fondamentali e gerarchie – 4. Diritti fondamentali della persona e autonomie contrattuali – 5. Autonomie contrattuali e obblighi informativi – 6. Standardizzazione dell’informazione precontrattuale e nuovi paternalismi

1. Persona e diritti fondamentali

La disciplina del contratto si compone (anche) di norme che predispongono strumenti di tutela che mutano con il trascorrere del tempo e il connaturato evolvere (o, senz’altro, avvicendarsi) del sostrato ideologico a cui si attingono gli attributi propri dell’istituto; che incide sulla configurazione normativa (giuridica, economica, sociale) di quest’ultimo; e che, incidendola, influisce pure sul processo di selezione dei primi. Profilare che convengono “strumenti di tutela propri di singole categorie … come i c.d. «consumatori del ghetto», che necessitato di una protezione specifica … quanto a … informazioni da assumere”1, ha significato veicolare almeno tre idee destinate a imprimere un’accelerazione2 al rinnovamento di iura e

1 V. G. Alpa, Tutela del consumatore e controlli sull’impresa, Bologna, 1977, 25.2 Perché qui il vettore si somma a, e moltiplica le intuizioni di S. Rodotà, Le fonti di integra-zione del contratto, Milano, 1969, 112, relative in particolare alla clausola di buona fede e così, tra l’altro, alla sua funzione integrativa del regolamento negoziale e alla sua connessione con il principio costituzionale di solidarietà (v. pure Id., Appunti sul principio di buona fede, nota a Cass.16.2.1963, n. 357, in Foro pad., 1964, I, 1283 ss.; Id., Ipotesi sul diritto privato, ne Il diritto privato nella società moderna a cura di S. Rodotà, Bologna, 1971, 9 ss., e cfr. spec. G. Alpa, La completezza del contratto: il ruolo della buona fede e dell’equità, in Vita not., 2002, 611 ss.; in proposito, v. poi A. Di Majo, Principio di buona fede e dovere di cooperazione contrattuale, Corr. Giur., 1991, 789 ss., e A. Somma, Diritto comunitario e patrimonio costituzionale europeo: cronaca di un conflitto insanabile, in Pol. dir., 2004, 263 ss.), che le dischiusero ampi spazi applicativi (per un es., relativo alla conservazione del contratto in caso di nullità parziale, v. V. Roppo, Nullità parziale del contratto e giudizio di buona fede, in Riv. dir. civ., 1971, I, 686 ss.).

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P. Gaggero

leges che, in ottica giusrealistica3, concorrono a dare (incerto4) contenuto al

3 V. G. Alpa, I principi generali. Una lettura giusrealistica, ne I principi nell’esperienza giuridica, Atti del Convegno della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza, Roma, 14-15 novembre 2014, numero speciale della Riv. it. scienze giur., Napoli, 2014, 77 ss. (anche per la segnala-zione del rischio di abusi [ivi, 114 ss., con richiami a A. Gentili, L’abuso del diritto come argo-mento, in Riv. dir. civ., 2012, I, 300 ss., e M. Libertini, Clausole generali, norme di princpio, norme a contenuto indeter- minato. Una proposta di distinzione, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 360 ss.] ripresa da N. Irti, I ‘cancelli delle parole’ (intorno a regole, principi, norme), in Id., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, 57 ss. e, ivi, 62, nt. 20; v. pure Id., I ‘cancelli delle parole’, Napoli, 2015) e G. Alpa, La prassi e i codici deontologici, in G. Alpa, A. Guarneri, P.G. Monateri, G. Pascuzzi e R. Sacco, Le fonti del diritto italiano. 2. Le fonti non scritte e l’interpretazione, nel Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 1999, 97 ss.), in una prospettiva che lo accumuna al Maestro dei giusrealisti italiani (v. G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 63 s., e Id., Diritto, enunciati, usi, Bologna, 1974, 91; ma v. pure R. Guastini, Dalle fonti alle norme, Torino, 1990, 86), secondo la condivisibile definizione che si ricava da M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, in Analisi e diritto. Ricerche di giurisprudenza analitica a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Torino, 2004, 1 ss. e, ivi, 9); e A. Gentili, Il diritto come discorso, Milano, 2013, 15 s., 21, per l’inclusione dell’argomentazione tra le fonti del diritto. Cfr. pure N. Lipari, Il diritto civile tra sociolo-gia e dogmatica (Riflessioni sul metodo), in Riv. dir. civ., 1968, I, 314 ss.4 Basti pensare al ruolo dei principi generali (v. G. Alpa, Relazione sull’attività del Consiglio nazionale forense svolta nell’anno 2005, http://www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/50638/Relazione+di+Guido+Alpa+in+occasione+della+cerimonia+di+inaugurazione+dell%27anno+giudiziario+forense+2006/4d3fc2fa-7c59-40bb-a805-838297454280, 17 s., che avverte che “i principi generali … se si segue la teoria analitica, si desumono induttivamente dalle disposizioni di legge in vigore, ma comunque non sono mai un numero chiuso, né possono essere creati sulla base di procedimenti normativi precostituiti dal legislatore, perché questa è una pia illusione smentita dalla storia. Se poi si segue la teoria giusrealista, che conferisce all’interprete il potere non solo di creare principi ma anche di determinarne liberamente il contenuto, a maggior ragio-ne tutta questa architettura mostra la sua intrinseca fragilità. Per non parlare poi della categoria del diritto vivente, legittimata dalla ormai consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che rivendica all’interprete non solo la necessaria libertà di adattamento della disposizione alla realtà concreta, ma di più, la elaborazione di regole di natura giurispru-denziale che fanno parte a tutti gli effetti del corpus normativo vigente in un determinato momento storico”. Sicché, in proposito, non occorre attendere gli effetti della globalizzazione (che certamente concorre: v. P. Grossi, Epicedio per l’assolutismo giuridico (dietro gli «Atti» di un Convegno milanese e alla ricerca di segni), nei Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1988, 518 ss.; Id., Scienza giuridica e legislazione nella esperienza attuale del diritto, in Riv. dir. civ., 1997, I, 175 ss.; Id., Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., 2002, V, 151 ss., ove si osserva che, se “l’impietoso diritto statuale moderno” s’era opposto alla diffusione e all’affermazione delle consuetudini contra legem, con la globalizzazione si ha una rivincita dell’“invadenza riottosa dei fatti”, della fattualità del diritto, di “un diritto privato prodotto da privati” che non proviene dall’alto ed è creato per rispondere a esigenze economiche; nonché V. Roppo, Il contratto, e le fonti del diritto, in Pol. dir., 2001, 529 ss., che vi si riferisce come a un diritto confezionato da una “nuova élite giuridica, a base professionale”, che costituisce il “braccio giuridico” delle imprese di grandi dimensioni, che crea “norme … a colpi di contratto.

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Contratti, persone, mercato

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“diritto” oggettivo vivente5; e che si pongono tutte su di una linea di pensiero caratterizzata da intima continuità, procedendo dal generale al particolare.

La prima inerisce alla promozione della centralità che la persona ha progressivamente acquistato sul proscenio della storia del diritto ben oltre la tutela dell’interesse al rispetto della vita privata6, per via del riconoscimento alla dignità umana d’un ruolo di (preminente) valore e principio7 niente affatto scontato e che non conviene dare per atteso, indiscusso, assodato, perché dipende perlomeno dal dato positivo, dai suoi contenuti, gerarchie, rigidità8;

Perché il contratto si fa prassi; la prassi genera l’uso; e l’uso crea la norma”). Sulla distinzione tra diritto vigente (come l’insieme degli enunciati normativi) e diritto vivente (come l’insieme dei loro significati), v. L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione giustizia, 2016, f. 4, 13 ss. e, ivi, 13. Sul problema della “certezza” del diritto contemporaneo, v., tra gli altri, G. Alpa, La certezza del diritto nell’età dell’incertezza, Napoli, 2006; de A. Nitto, A proposito di certezza, in Il giurista e il diritto. Studi per Federico Spantigati a cura di A. Bixuio e G. Crifò, Milano, 2010, 233 ss.; N. Irti, Un diritto incalcolabile, cit., passim; e C. Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, Torino, 2017).5 Cfr. A. Gambaro, “Iura et leges” nel processo di edificazione di un diritto privato europeo, in Eur. dir. priv., 1998, 993 ss.6 V. G. Alpa, Privacy e statuto dell’informazione (Il Privacy Act e la Loi relative à l’informatique, aux fichiers et aux libertés n. 78-17 del 1978), in Riv. dir. civ., 1979, I, 65 ss.7 V. G. Alpa, Dignità. Usi giurisprudenziali e confini concettuali, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, 425 ss.; Id., Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘‘linguaggio dell’odio’’, in Contr. e impr., 2018, 45 ss., per la configurazione della dignità come fondamento delle libertà e dei diritti; N. Lipari, Personalità e dignità nella giurisprudenza costituzionale, in Principi, regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni: Scritti in onore di Giovanni Furgiuele a cura di G. Conte e S. Landini, I, Mantova, 2017, 261 ss.; e, poi, il preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (che la indica facendo seguire la menzione della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà: cfr. G. Vettori, Carta Europea e diritti dei privati (diritti e doveri nel nuovo sistema delle fonti), in Riv. dir. civ., 2002, I, 670 ss.). Sulla distinzione tra dignità accidentale e necessaria, in prospettiva giusfilosofica v. D. von der Pfordten, Considerazioni sul concetto di dignità umana, ne La dignità in questione. Un percorso nel dibattito giusfilosofico contemporaneo a cura di V. Marzocco, Torino, 2018, 1 ss. L’importanza della dignità umana, quale valore dominante e principio “guida”, emerge dalle pagine, pubblicate postume, che si prestano a essere considerate come il testamento spirituale, che oltrepassa la dimensione del solo diritto positivo, di S. Rodotà, Vivere la democrazia, Roma-Bari, 2018, spec. 39 ss. e 143 ss.; e v. pure Id., Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2015, spec. cap. VI e passim.8 Cfr. L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Roma-Bari, 2013, § 3.3.: “l’uguaglianza, la dignità della persona, le libertà e gli altri diritti fondamentali non sono né valori oggettivi né principi scontati … per questo … vengono stipulati in costituzioni rigide … perché non sono … condivisi da tutti. Giacché il ruolo delle costituzioni non consiste nel riflettere i valori di tutti: se così fosse avremmo costituzioni minimali e praticamente inutili”. Amplius v. Id., La demo-crazia costituzionale, Bologna, 2016; Id., Iura paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, Napoli, 2017; e cfr. G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, Roma-Bari, 2016, e G. Ferrara, La crisi della democrazia costituzionale agli inizi del XXI secolo, Roma, 2012, 111 ss. Con particolare riguardo alla dignità, cfr. I. Coco, Ordinamento giuridico, costituzioni, valori. La

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P. Gaggero

dal grado di condivisione che si registri in ordine alla veste da attribuirle9; dal “tipo” d’interpretazione delle disposizioni – massime costituzionali – che prevalga rispetto alla nodale dicotomia di modelli che polarizzano le ricostruzioni del rapporto tra interprete – massime il giudice – e enunciati normativi10, che di

tesi di Carl Schmitt, in Costituzione, morale, diritto a cura di A. Ballarini, Torino, 2014, 63 ss.9 La prospettiva poc’anzi indicata in nota, si può confrontare almeno con J. Rawls, Political Liberalism, New York, 1993 (che integra Id., A Theory of Justice, Cambridge, Mass., 1971), in cui si assegna alla public reason un ruolo centrale nell’argomentazione delle decisioni giurispru-denziali nelle democrazie costituzionali (231 ss.; più in generale, per il fondamentale rilievo della fedeltà dei cittadini alla public reason ai fini della stabilità di un’ordinata democrazia costi-tuzionale, v. G.K. Hadfield e S. Macedo, Rational Reasonableness: Toward a Positive Theory of Public Reason, 6 [2012] Law & Ethics of Human Rights 7 ss.; P. Weithman, Why Political Liberalism? On John Rawls’s Political Turn, Oxford, 2010, 327); e, prima, quello di presupposto d’una ordinata società all’accordo tra i cittadini sui cc.dd. constitutional essentials (di cui si danno due tipologie, i.e. i “fundamental principles that specify the general structure of government and political process” e gli “equal basic rights and liberties of citizenship that legislative majorities are to respect”: J. Rawls, Political Liberalism, cit., 227).10 In relazione all’appena segnalato profilo, sul piano dell’interpretazione, segnatamente delle disposizioni costituzionali, si pone infatti l’alternativa tra due indirizzi metodologici (che si può collegare al più ampio problema della judicial review da parte di giudici non elettivi, che dà luogo a una tensione tra costituzionalismo e democrazia nelle democrazie costituzionali, sul quale v. a es. F.I. Michelman, Brennan and democracy, 1st edn., Princeton, 1999, anche nella trad. it. Di C. Valentini, La democrazia e il potere giudiziario. Il dilemma costituzionale e il giudice Brennan, Bari, 2004). Da un lato, l’Originalism per cui l’interprete è vincolato dal significato con cui la disposizione poteva essere ragionevolmente intesa al tempo della sua introduzione (in conformità del testualismo proprio della original meaning theory, che nell’esperienza statunitense sembra prevalente) o, a tutto concedere, dal canone dell’intenzione del legislatore che la pose (secondo la variante espressa dalla original intent theory), con il voluto effetto di assicurare la stabilità della portata prescrittiva delle norme costituzionali; e di prevenire mutamenti della Carta fondamentale per via giurisprudenziale, indipendentemente cioè dall’osservanza delle forme d’un procedimento legislativo di revisione costituzionale e, in questo senso, di fatto (v., a es., R. Berger, Government by Judiciary: The Transformation of the Fourteenth Amendment, Cambridge, Mass., 1977; D.A. Farber, The Originalism Debate: A Guide for the Perplexed, 49 [1989] Ohio St. L.J. 1085 ss.; A. Scalia, Originalism: The Lesser Evil, 57 [1989] U. Cin. L. Rev. 849; Id., Common-Law Courts in a Civil-Law System: The Role of United States Federal Courts in Interpreting the Constitution and Law, in A. Gutmann [ed.] A Matter of Interpretation: Federal Courts and the Law, Princeton, 1997, 3 ss., anche nella nuova ed., Princeton, 2018; R.H. Bork, The Tempting of America: The Political Seduction of Law, New York, 1990; R.E. Barnett, Restoring the Lost Constitution: The Presumption of Liberty, Princeton, 2003; Id., Scalia’s Infidelity: A Critique of ‘Faint-Hearted’ Originalism, 75 [2006] U. Cin. L. Rev. 7 ss.; C. Nelson, Originalism and Interpretive Conventions, 70 [2003] U. Chi. L. Rev. 519 ss.; e cfr., critici, M. Tushnet, Heller and the New Originalism, 69 [2008] Ohio St. L.J. 609 ss., anche per la distinzi-one tra old e new originalism; S.M. Griffin, Rebooting Originalism, 2008 [2008] U. Ill. L. Rev. 1185 ss.; M.N. Berman, Originalism Is Bunk, 84 [2009] N.Y.U. L. Rev. 1 ss. V. pure il volume collettaneo a cura di G. Huscroft e B.W. Miller, The Challenge of Originalism Theories of Constitutional Interpretation, Cambridge, Mass., 2011). Dall’altro il Living Constitutionalism,

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volta in volta può giovare, ma anche nuocere a seconda delle consistenze di quel dato.

Tale riconoscimento si associa al superamento della visione tradizionale, sicché si cessa di guardare all’individuo soltanto11 nella prospettiva

che ha confini meno definiti o, se si vuole, definiti per differenza o, meglio, contrapposizione rispetto all’Originalism; e che abbraccia tutti coloro che condividono la convinzione che il significato delle disposizioni costituzionali muti nel corso del tempo e debba essere adattato all’evoluzione della realtà economico-sociale che sono chiamate a disciplinare, anche in man-canza di mutazioni testuali per effetto di provvedimenti conformi al procedimento di revisione costituzionale (per tutti, v. D. Strauss, The Living Constitution, Oxford, 2010; J.M. Balkin, Living Originalism, Cambridge, Mass., 2014; e cfr., critico, già W.H. Rehnquist, The Notion of a Living Constitution, 54 [1976] Tex. L. Rev. 693 ss.).11 La profilata “evoluzione, nel modo di ragionare dei giuristi, dall’astrattezza della soggettività alla concretezza della persona” (v. N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, 55 ss.) sembra potersi riportare a una giustapposizione di concetti, senza doverla necessariamente tradurre in termini di radicale loro sostituzione. Non s’impone cioè di abbandonare la nozione di “soggetto di diritto” e l’insegnamento istituzionale che la riempie con il significato di centro unitario di imputazione di situazioni giuridiche soggettive (la cui persistenza è ricordata da F. Giardina, La persona fisica, in Fonti, soggetti, famiglia. I. Le fonti e i soggetti, in Diritto civile diret-to da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. I, t. I, Milano, 2009, 251 ss. e, ivi, 253), di rifiutare uno strumento concettuale tecnico-formale perché incapace di esprimere la complessità del reale, specie se tale inabilità sia congruente con la limitatezza e specificità dei fini in vista dei quali l’attrezzo sia stato forgiato, ma di tener conto di questi ultimi; in relazione a essi, di non considerarlo un primate collocato in una posizione di vertice esclusiva; e di affiancargli un diverso modello idoneo allo scopo che l’altro non persegue e, dunque, non può, né deve soddi-sfare, ossia un modello che quindi non è neppure concorrente, tanto meno antagonista, bensì aggiuntivo. In tale prospettiva, chi non mostrò entusiasmo per la nozione di cui si tratta ha infine equilibratamente notato che un declino del soggetto è configurabile solo come riduzione di una posizione di prevalenza della nozione (v. G. Oppo, Declino del soggetto e ascesa della persona, in Riv. dir. civ., 2002, I, 829 ss.).

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formalistica del soggetto come fattispecie12 che non è priva di meriti13 e, tuttavia, ha suscitato perplessità14 fino ad apparire inadeguata per ragioni di carattere sostanziale15, siccome esprime un modello unitario e unificante che

12 Cfr. A. Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, spec. 60 ss. Ciò costituisce un approdo del formalismo kelseniano (v. P. Rescigno, Frammenti da varie riflessioni nel tempo, in Per uno statuto del corpo a cura di C.M. Mazzoni, Milano, 2008, 149 ss. e, ivi, 151) funzionale a esprimere una concezione unitaria e astratta del soggetto di diritto (v. S. Amato, Il soggetto e il soggetto di diritto, Torino, 1990, 47 ss., e V. Scalisi, Fonti – Teoria – Metodo. Alla ricerca della «regola giuridica» nell’epoca della postmodernità, Milano, 2012, 278) in un contesto in cui il diritto aveva ampliato la categoria dei soggetti giuridici introducendo l’istituto della personalità degli enti (v. A. Falzea, op. ult. cit., 64; sulla persona giuridica come categoria storica espressiva della soggettività, v. E. Del Prato, Immagini dell’autonomia privata, Torino, 2013, 61 ss.; cfr. pure Id., La soggettività collettiva come effetto del contratto. L’ente privato come atto di autonomia, in Persona e soggetto. Il soggetto come fattispecie della persona. Atti del convegno del 7-8 ottobre 2008 S. Trada (Reggio Calabria) a cura di F. Tescione, Napoli, 2010, 133 ss.). La formula configura il soggetto di diritto come la fattispecie in cui si combinano un elemento materiale, di fatto e uno formale, che consiste nella qualificazione normativa, massime legislativa del primo provvista dall’ordinamento giuridico che gli attribuisce rilevanza giuridica e ha effetto costitutivo (v. A. Falzea, op. ult. cit., 68; e cfr. G. Oppo, Tecnica giuridica e cultura animi negli scritti di Angelo Falzea, in Riv. dir. civ., 1991, I, 337 ss. e, ivi, 338, nonché V. Scalisi, op. ult. cit., 277).13 Lo ricorda P. Rescigno, Soggetti e persona, in Persona e soggetto. Il soggetto come fattispecie della persona. Atti del convegno del 7-8 ottobre 2008 S. Trada (Reggio Calabria), cit., 21 ss.: collocata nel momento storico a cui appartiene, l’elaborazione in esame, nella misura in cui esprime una concezione unitaria e astratta del soggetto di diritto, partecipa all’affermazione del valore dell’eguaglianza.14 La costruzione del soggetto come fattispecie suscitò perplessità, perché con essa “sembrava svanire tutta l’umanità del soggetto” (v. P. Rescigno, Frammenti da varie riflessioni nel tempo, cit., 151; G. Oppo, op. ult. cit., 339), perché operava una reductio ad unum di “fenomeni” così diversi da provocare istintive reazioni ideologiche avverse a difesa dell’uomo dal “diritto” (ché “soggetta al diritto può essere la persona iuris; l’uomo è prima del diritto: il diritto è costituito hominum causa” di modo che l’uomo non è causa iuris: v. G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., 1982, I, 499 ss. e, ivi, 524; cfr. pure Id., Scienza, diritto e vita umana, in Riv. dir. civ., 2002, I, 19 ss.; Id., Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Procreazione assistita. Problemi e prospettive, Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei, Roma, 31 maggio 2005, Brindisi, 2005, 15 ss; Id., Ancora su persona umana e diritto, in Riv. dir. civ., 2007, I, 259 ss.) o senz’altro dal legislatore (per una nozione di diritto fondato sulla “forza logica della regola” che ancora la validità della norma giuridica al “principio di non contraddizione … che giustifica la forza in base al criterio di democrazia ed autonomia”, v. A. Gentili, Il diritto come discorso, cit., 176 s.).15 Soprattutto perché la teoria del soggetto come fattispecie si associa a una proclamazione di eguaglianza, di pari dignità dei “soggetti di diritto” di carattere puramente formale (v. P. Rescigno, Soggetti e persona, cit., 21 ss.) che riflette l’ideologia giusnaturalistica e illuministica (per tutti, v. P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, 96 ss., che ricorda la funzione ideologica dell’astrattezza [“soggetti astratti, rapporti astratti, libertà astratta, uguaglianza astratta, norme astratte”]; ne riferisce come strumento – che riporta al giusnaturalismo moderno – che consente di rompere con “le chiusure e i privilegii cetuali”; la qualifica come “l’efficace foglia di fico dietro cui celare l’assetto concreto di una società percorsa da non poche iniquità”,

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posto che i soggetti astratti sono “improbabili abitatori di uno spazio/tempo inesistente”, non già “uomini in carne ed ossa bensì modelli di uomo” la cui evocazione “fa a pugni … con la valorizzazione della ricchezza e il protagonismo del patrimonio, che non possono non inasprire le differenze di fatto fra abbienti e nulla-tenenti”; la considera un espediente con cui debutta “una strategia che ha accompagnato il diritto borghese per tutto lo svolgersi della modernità”; ne segnala il passaggio dal giusnaturalismo all’illuminismo giuridico, all’età dell’assolutismo giuridico settecenteschi [che del primo costituiscono prosecuzione – ivi, 104 ss. – determinando un rinnovamento giuridico che passa per “un rifiuto drastico del passato … delle vecchie fonti … cancellandole”; “il principe, idealizzato come modello di uomo e campione di virtù … unico personaggio cui poteva essere affidato un ruolo … di legiferazione” capace di “separare i principii naturali dalle creazioni artificiose … che … legge l’evidenza e la traduce in norme generali”; “un sonoro elogio della legge” che “provenendo da un modello … non ha nulla d[i] odioso … è soltanto espressione della «ragione umana» (… Montesquieu) o della «volontà generale» (… Rousseau) … non lede la libertà … proprio perché di tratta di comandi generali e astratti”] poi – ivi, 113 ss. – all’età dell’individualismo proprietario [“con la Rivoluzione di fine Settecento … una sostanza tutta nuova viene conferita a … la proiezione esterna del soggetto … il patrimonio … tanto più si è quanto più si ha … la property lockiana questo è … il proprietario al centro delle attenzioni …. nerbo dell’ordine pubblico …. soggetto virtuoso … quieto e disciplinato … ed è senz’altro a suo favore la … eguaglianza giuridica che lascia intatte le diversità delle fortune … [e] … l’idea di uno Stato forte, unitario e compatto, con un pesante controllo della produzione del diritto”] e all’età dei codici [ivi, 135 ss.]) che si tradusse nelle codificazioni ottocentesche (informate ai canoni dell’individualismo, della libertà e della parità tra gli uomini – i.e. all’astrattezza e all’eguaglianza formale: cfr. riassuntivamente F. Marinelli, La cultura del Code Civil. Un profilo storico, Padova, 2004, passim; nonché G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, 2000, 307, per il quale il codice civile è prodotto che affonda radici in storie e ideologie molteplici; e Id., Diritto civile italiano Due secoli di storia, Bologna, 2018, cap. 1, spec. §§ 12 e 16 –, per esse l’autonomia negoziale era massima sul presupposto che i consociati fossero liberi – potendo concludere le operazioni che credevano – ed uguali – siccome a tutti si garantiva la medesima libertà di contrattare –, sicché lo Stato si doveva astenere dall’intervenire nei rapporti economici: cfr., tra gli altri, G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, a es. 192, 357; nonché L. Solidoro Maruotti, I Percorsi del Diritto: esempi di evoluzione storica e mutamenti del fenomeno giuridico, Torino, 2011, 1 ss., che in proposito riferisce d’un diritto fittiziamente egualitario – cioè ispirato alla, e assertivo della c.d. eguaglianza formale – predicato a una società di diseguali, ossia insensibile alla c.d. diseguaglianza materiale) espressive d’un diritto c.d. borghese (cfr. G. Tarello, op. ult. cit., 357, per il rilievo che furono i fisiocratici a dare uno dei più importanti contributi alle idee di proprietà “come diritto astratto e elastico” e di contratto “come libero incontro di volontà” che “furono utilizzate nella formazione del codice civile della borghesia, il Code Napoléon”) che si serve de, e a cui serve la tecnica della “unificazione del soggetto di diritto quale carattere peculiare del Codice Napoleone e di quelli successivi” (v. L. Solidoro Maruotti, op. ult. cit., 1, che richiama G. Tarello, op. ult. cit., 192, e G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Roma-Bari, 1993); e che, nell’ambito dei rapporti sociali, fa del codice civile la costituzione materiale che fonda sulla parità formale tra individui assunti egualmente indipendenti e liberi (cfr. G. Alpa, Dignità personale e diritti fondamentali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 21 ss.) anche in connessione con la credenza che l’uomo è invariabilmente “in grado di valutare e gestire i propri

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dissimula il fatto16; non ci si accontenta del passaggio all’idea del soggetto come sintesi degli effetti17 che è apparsa evasiva e insoddisfacente18; ma si afferma la primauté de la personne che implica le respect de tout être humain

interessi” (v. N. Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 54). Una proclamazione che si risolve in un postulato (di cui talora si rintracciano scie nel diritto comunitario: v. A. Somma, Il diritto privato europeo e il suo quadro costituzionale di riferimento nel prisma dell’economia del debito, in Contr. e impr., 2016, 123 ss. e, ivi, 136 ss., e G. Vettori, Diritto dei contratti e "Costituzione" europea: regole e principi ordinanti, Milano, 2005, 11; contra parrebbe L. Rossi Carleo, Diritto del mercato, diritto per il mercato o diritto per i soggetti del mercato?, in Rass. dir. civ., 1992, 751 ss. e, ivi, 763, sul diritto dei consumatori quale momento di superamento del rapporto di forza che significherebbe superamento di una astratta parità formale) che risulta contraddetto dalla realtà di fatto (v., a es., P. Rescigno, Soggetti e persona, cit., 21 ss.; G. Alpa, Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore, 1975, 126; G. Vettori, Libertà di contratto e disparità di potere, in Riv. dir. priv., 2005, 743 ss.).16 Non è detto che la teoria in esame proclami la parità formale dei soggetti di diritto nel senso che senz’altro riposi su di essa o l’accrediti: nel formularla si ha cura di precisare che “[i]l diritto, con l’introduzione della personalità degli enti collettivi, ha voluto ampliare la categoria generale dei soggetti giuridici, e non dei soggetti umani” (v. A. Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, cit., 64) e di muovere una critica alla teoria kelseniana (si reputa fallito “il tentativo mirante a purificare il concetto di persona in senso giuridico” e si “riafferm[a] la ineliminabile necessità di ricorrere al momento metagiuridico” allorché il diritto provveda a qualificazioni, non scorgendosi in particolare ragione per cui “non si debba attribuire all’uomo la qualità di ‘persona’, quando … l’uomo possiede quei caratteri che rappresentano le espressioni decisive della soggettività giuridica” [Id., op. ult. cit., 56]; e ritenendosi che la purificazione non possa spingersi a “bandire dal mondo del diritto l’uomo”: Id., op. ult. cit., 54; v. pure F.D. Busnelli, Il problema della soggettività del concepito a cinque anni dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita, in Cinque anni di applicazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita: problemi e responsabilità a cura di M. Dossetti, M. Lupo e M. Moretti, Milano, 2010, 141 ss. e, ivi, 149); inoltre, riesaminando a distanza di tempo le posizioni dei critici, se ne è proposta una (ri)lettura “in termini non necessariamente antagonistici” (sulle “posizioni dell’ultimo Oppo e del primo Falzea”, v. F.D. Busnelli, Soggetto e persona di fronte ai dilemmi della bioetica, ne Il ruolo della civilistica italiana nel processo di costruzione della nuova Europa a cura di V. Scalisi, Milano, 2007, 407 ss. e, ivi, 426 s.). Tuttavia, quella teoria, se non appare necessariamente mossa dall’intento di celarle volutamente, si associa a un modello che non riflette, ossia non dà evidenza alle innegabili differenze di fatto esistenti tra (i soggetti e, entro questi, tra) gli uomini considerati “in carne e ossa” (cfr. P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., 96 ss., nonché G. Boni e A. Zanotti, op. cit., 18), ma li riduce a unità unificandoli in una nozione astratta e, in questo senso, è insensibile a esse.17 La proposta è di N. Lipari, Spunti problematici in tema di soggettività giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 641 ss. (v. pure Id., Le categorie del diritto civile, cit., 50 ss., spec. 61).18 Queste le critiche (v. A. Barba, Consumo e sviluppo della persona, Torino, 2017, 92, nt. 6): l’idea è ancora legata all’alternativa “se il soggetto preesista alla qualificazione normativa o ne sia in qualche modo il portato” (N. Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 52); è ambigua e offre una soluzione solo apparente siccome assume che “il soggetto è all’un tempo presupposto e fine, paradigma della persona astratta e sintesi degli effetti in concreto realizzati” (Id., op. ult. cit., 61); reputa che “[a]i fini della disciplina il soggetto non esiste prima di agire” (Id., op. ult. cit., 78).

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dès le commencement de la vie19 e la contemplazione dell’uomo in carne, ossa e sangue20.

Una primazia che si traduce nel recupero della nozione di persona rispetto a quella di soggetto21 e integra una rimonta che costituisce esito d’una analisi che è connotata dal tratto della concretezza; comporta la scomposizione della nozione sintetica di soggetto; e favorisce l’emersione dell’individuo dalla categoria unificante del soggetto, la sua separata considerazione rispetto alla massa degli altri soggetti, il riaffioramento delle specificità connaturate al suo essere umano, all’umanità del soggetto riguardato. Sul piano giuridico la vicenda si collega, dapprima alla rivitalizzazione d’una non recente famiglia di diritti che sono propri dell’individuo e, segnatamente, dei diritti fondamentali della persona (umana)22; e, poi, al rafforzamento anche

19 V. F.D. Busnelli, Ai confini della soggettività, in Persona e soggetto. Il soggetto come fattispecie della persona. Atti del convegno del 7-8 ottobre 2008 S. Trada (Reggio Calabria), cit., 35 ss.20 Cfr.. L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, 1117 ss.; G. Boni e A. Zanotti, Sangue e diritto nella Chiesa. Contributo ad una lettura dell’Occidente cristiano, Bologna, 2009, 18; P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., 96 ss.21 V. P. Rescigno, Soggetti e persona, cit., 21 ss., e G. Oppo, Declino del soggetto e ascesa della persona, cit., 829 ss. Per la ricostruzione della vicenda, v. amplius S. Rodotà, Dal soggetto alla persona, Napoli, 2007, e G. Alpa, La persona. Tra cittadinanza e mercato, Milano, 1992, passim.22 L’espressione, stipulativa, allude alla categoria di diritti che competono all’essere umano come tale (dunque a prescindere da altre qualificazioni e così, tra l’altro, dalla cittadinanza: cfr. Cass., 22 luglio 2015, n. 15362, in Giust. civ. Mass., 2015; Cass., 15 gennaio 2016, n. 593, ivi, 2016; Cass. 30 dicembre 2016, n. 27557, ivi, 2016; cfr. la Convenzione americana sui diritti umani, c.d. Patto di San Josè di Costarica, per cui “[a]i fini della … Convenzione il termine ‘persona’ designa ogni essere umano” (art. 1, co. 2); più ampia la categoria parrebbe in L. Ferrajoli, Una definizione del concetto di diritti fondamentali, cit., per il quale “sono «diritti fondamentali» tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a «tutti» gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci d’agire”), la cui costruzione in termini di posizione legislativa può farsi risalire alla Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen del 26 agosto 1789 (ancora richiamata nel preambolo della Costituzione francese del 4 ottobre 1958) o, prima, al modello a essa offerto dalla Declaration of Independence statunitense del 4 luglio 1776; ed è proseguita, a livello sopranazionale, dopo l’eclissi dei regimi totalitari della prima metà del ‘900, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’O.N.U. del 10 dicembre 1948 e l’ideale sua integrazione (o specificazione) con la risoluzione, adottata dalla medesima organizzazione, denominata Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (o Patto internazionale sui diritti civili e politici) del 16 dicembre 1966 (in vigore dal 23 marzo 1976); la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (c.d. CEDU) del 4 novembre 1950, concepita in seno al Consiglio d’Europa, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 858, e che ha istituito la Corte europea dei diritti dell’uomo quale organo giurisdizionale internazionale chiamato ad assicurarne il rispetto; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) del 7 dicembre 2000 che, dopo il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (entrato in vigore il 1° dicembre 2009), per l’art. 6 TUE ha “lo stesso valore giuridico dei Trattati” (per C. Cost., 11 marzo 2011, n. 80, in Riv.

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formale della posizione di questi ultimi pure negli orientamenti applicativi a cui la difesa di tali diritti è, nella sostanza, affidata23.

dir. internaz., 2011, 578 ss., il presupposto di applicabilità della Carta è che il caso sottoposto all’esame del giudice sia disciplinato dal diritto europeo – in relazione a esso vengano in rilievo atti dell’Unione o atti o comportamenti nazionali che diano attuazione al diritto dell’Unione o giustificazioni addotte da uno Stato membro a sostegno d’una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto). L’espressione, che riveste un oggetto tanto cruciale che in prospettiva sociologica è stato profilato come un’istituzione (sociale: v. N. Luhmann, Grundrechte als Institution. Ein Beitrag zur politischen Soziologie, Berlin, 1965; e cfr. G. Palombella e L. Pannarale, Introduzione all’edizione italiana, in N. Luhmann, I diritti fondamentali come istituzione, Roma-Bari, 2002), sembra diffusa, ma convive con altre (talune risultanti anche dalle intitolazioni delle fonti poc’anzi citate) che sottintendono che possano darsi distinzioni per categorie concettuali tra diritti fondamentali, diritti inviolabili, diritti dell’uomo (v. G. Alpa e G. Conte, Introduzione. La Corte di Giustizia e i diritti fondamentali, in Casi decisi dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea sui diritti fondamentali in materia contrattuale a cura di G. Alpa e G. Conte, Torino, 2018, 1 ss. e, ivi, 4), ma anche libertà fondamentali; o colgono e rimarcano distinti profili peculiari ai diritti in discorso.23 Nell’esperienza domestica, in coerenza con l’art. 2 Cost. e la circostanza che esso sia stato concepito al termine d’un periodo storico contraddistinto da totalitarismi e, con essi, dalla mortificazione della dignità umana e, in genere, dei diritti fondamentali della persona, alla difesa di questi ultimi appare funzionale la posizione di vertice assegnata dalla Consulta ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, su cui è costruita la teoria dei controlimiti per cui gli uni e gli altri, nel rapporto tra il diritto interno e le regole appartenenti ad altri ordinamenti – non ostante l’art. 10 Cost. e, ora, l’art. 117 Cost. che a tale relazione si riferiscono –, rappresentano argini che impediscono che il primo sia penetrato dalle seconde se siano incompatibili con (il nucleo essenziale de) gli uni o gli altri (con riferimento al diritto comunitario, v. già C. Cost., 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. cost., 1984, I, 1098 ss.; con riguardo al diritto internazionale, v. C. Cost., 22 ottobre 2014, n. 238, in Resp. civ. e prev., 2015, 799 ss.; e v. pure C. Cost., 22 luglio 2010, 270, in Riv. dir. comm., 2011, II, 217 ss., che, senza pervenire a una declaratoria d’incostituzionalità di norme comunitarie, “ha tuttavia sancito la prevalenza del diritto fondamentale al lavoro sulle norme in tema di concorrenza non solo nazionali ma anche dell’Unione europea, che avrebbero impedito la fusione tra Alitalia e Air One”, secondo la ricostruzione di L. Delli Priscoli, Diritti fondamentali e mercato nelle diverse prospettive delle corti di Lussemburgo e di Strasburgo, in http://www.magistraturaindipendente.it/diritti-fondamentali-e-mercato-nelle-diverse-prospettive-delle-corti-di-lussemburgo-e-di-s.htm). E, altrettanto coerentemente (perché il vertice è quello dinanzi indicato, che potrebbe non corrispondere esattamente ai contenuti della CEDU; e perché quest’ultima – per C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 348, in Giust. civ., 2008, I, 1365 ss., già successiva al Trattato di Lisbona, sebbene anteriore all’entrata in vigore di esso – non crea un ordinamento giuridico sovranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti; ha rango di “fonte interposta”; esprime regole che restano pur sempre a un livello sub-costituzionale e non si sottraggono al controllo di costituzionalità che s’ispira al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali imposto dall’art. 117, co. 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione; comporta che il giudice debba interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione

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All’interno della delineata tendenza, anche a causa delle diverse matrici che imprimono le fonti24, non mancano disarmonie nel dialogo tra le

internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme e che, qualora ciò non sia possibile o si dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, non si possa disapplicare la norma interna, ma si debba sollevare la q.l.c. di essa in relazione all’art. 117 Cost.), la CEDU, entro la gerarchia delle fonti, risulta elevata dalla Consulta in posizione mediana tra i precetti costituzionali e gli atti aventi forza di legge (v., già dopo il Trattato di Lisbona, sebbene prima della sua entrata in vigore, C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 348, cit., 1365 ss., e C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 349, in Giur. cost., 2007, 3535 ss.; nonché, anche dopo dell’entrata in vigore di quello, ma nella persistente assenza dell’adesione dell’UE alla CEDU, C. Cost., 12 marzo 2010, n. 93, in Foro it., 2010, I, 2008 ss.: per una critica di tali precedenti sia ove negano l’ingresso della CEDU nell’ordinamento domestico, sia ove conseguentemente negano che il giudice possa direttamente disapplicare la norma interna che si ponga in contrasto con la CEDU anziché dover sollevare la q.l.c. della prima, v. G. Ziccardi Capaldo, Diritto globale. Il nuovo diritto internazionale, Milano, 2010, 405 ss., che fa leva sulla circostanza che, dopo il Trattato di Lisbona, ex art. 6 TUE i diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’U.E. in quanto principi generali e, in relazione a ciò, sul principio del primato del diritto comunitario isolato da Corte Giust. CEE, 15 luglio 1964, causa n. 6/64, in Foro it., 1964, IV, 137 ss., e poi recepito da C. Cost., 8 giugno 1984, n. 170, cit., 1098 ss.; favorevoli alla disapplicazione, sembrerebbero già A. Celotto, Interpretazione convenzionalmente conforme: istruzioni per l’uso, in www.giustamm.it, 2009, e G. Vettori, I principi comuni del Diritto europeo dalla CEDU al Trattato di Lisbona, in Riv. dir. civ., 2010, 115 ss.).24 Se la primazia dei diritti fondamentali della persona è radicata nella Costituzione (cfr. P. Rescigno, Per una rilettura del Codice civile, in Giur. it., 1968, IV, 208 ss.; N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 83 ss.; P. Perlingieri, La persona e i suoi diritti. Problemi del diritto civile, Napoli, 2005, 25 ss.) e nella contemporanea CEDU che per essi ha esclusivo riguardo, diversa considerazione essi ricevono in seno al diritto comunitario che non riconosce loro eremitica preminenza. Così, la Carta di Nizza è anfibologica, siccome non è incentrata solo sui diritti fondamentali della persona, ma è permeata anche da valori del (e, dunque, orientata pure al) mercato (valgano i riferimenti alla libertà d’impresa e alla tutela dei consumatori contenuti, rispettivamente, negli artt. 16 e 38), tant’è che si ammette che le libertà e i diritti dell’uomo da essa riconosciuti possano subire limitazioni (art. 52, che appare aderente alla risalente Corte Giust. CEE, 14 maggio 1974, causa n. 4/73, in Foro it., 1974, IV, 296 ss., per cui i diritti fondamentali possono limitarsi in vista di obiettivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità). E se, dunque, dopo il Trattato di Lisbona, come si è accennato, le une e gli altri per un verso vanno ascritti ai valori dell’Unione europea, per altro verso nel diritto comunitario si affiancano a, e non prevalgono su altri valori che hanno diversa radice, rispetto ai quali si collocano al medesimo livello: nel diritto comunitario, cioè, si registra la direttiva del bilanciamento tra valori del mercato e diritti fondamentali della persona, che implica contemperamento dei secondi con i primi che si traducono in principi e libertà d’altra natura, che attengono alla libera concorrenza o all’unione monetaria e a libertà che non sono (solo) quelle di riunione o di associazione o di movimento, ma pure quelle che si sostanziano nella libera circolazione dei capitali, nella libera prestazione di servizi e nella libertà di stabilimento (cfr. Corte Giust. UE, Grande Sezione, 15 novembre 2016, causa n. 268/15, in Foro amm., 2016, 2616). Ne risulta una sensibile differenza di ruolo

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Corti25. Tuttavia, di là delle dissonanze – differenze, se non contrasti – che

dei diritti fondamentali della persona e distanza dal diverso limite posto dalla CEDU che ne ammette compressioni sol se non ne sia pregiudicata la sostanza, ossia non ne sia leso il nucleo essenziale (limite riaffermato dalla Corte di Strasburgo nel caso Rasul Jafarov v. Azerbaijan: Corte EDU, 17 marzo 2016, Application no. 69981/14, in https://www.legal-tools.org/doc/2994f2/pdf/; cfr. L. Delli Priscoli, Liberalizzazioni e diritti fondamentali, Frosinone, 2016, 21, nt. 15; e Id., Mercato e diritti fondamentali, Torino, 2011); e a maggior ragione da quello connaturato alla ricordata teoria dei controlimiti elaborata dalla Consulta.25 Rispetto ai richiamati indirizzi applicativi della Consulta e della Corte EDU che – coerentemente con il primato riconosciuto ai diritti fondamentali della persona, rispettivamente, dalla Costituzione e dalla CEDU al quale si accennato – assegnano predominanza ai diritti fondamentali della persona, per la Corte di Giustizia dell’Unione europea – coerentemente con la rammentata anfibologia della Carta di Nizza e l’originario, pressoché esclusivo orientamento del diritto comunitario alla realizzazione di valori e obiettivi mercantili – essi non sono prevalenti rispetto a valori che attengono al mercato che, storicamente egemoni (v., tra gli altri, G. Pino, La «lotta per i diritti fondamentali» in Europa. Integrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico, in Identità, diritti, ragione pubblica in Europa a cura di I. Trujillo e F. Viola, Bologna, 2007, 109 ss.; critici, a es., J. Coppel e A. O’Neill, The European Court of Justice: Taking Rights Seriously?, 29 [1992] Common market L. Rev. 669 ss., e M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995, 39 ss.), dopo il Trattato di Lisbona sono perlomeno concorrenti nella segnalata ottica di bilanciamento (ciò che per G. Pino, op. ult. cit., 109 ss., consente alla Corte di Giustizia di muoversi su di un piano di “libertà assiologica”). Lo si nota in relazione a due temi. Il primo riguarda i rapporti tra diritto comunitario e CEDU: in proposito, l’orientamento della Corte è avverso all’adesione dell’UE alla Convenzione (sul processo si può leggere la ricognizione di I. Anrò, L’adesione dell’Unione Europea alla CEDU. L’evoluzione dei sistemi di tutela dei diritti fondamentali in Europa, Milano, 2015) per ragioni (scolpite in Corte Giust. UE, Ad. plen., 18 dicembre 2014, parere n. 2/13, in L. Di Donna], Codice di diritto privato europeo, Milano, 2016, 146 ss.) inerenti proprio alla diversa gerarchia di valori che la CEDU e la Carta di Nizza esprimono; e la Corte fa della detta adesione il presupposto dell’inclusione della Convenzione nel diritto comunitario (per Corte Giust. UE, Grande Sezione, 20 marzo 2018, causa n. 537/16, in Foro amm., 2018, 422 ss., “sebbene come confermato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE” – per cui i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali – “i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU facciano parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali e sebbene l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta disponga che i diritti in essa contemplati corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU abbiano lo stesso significato e la stessa portata di quelli conferiti dalla suddetta Convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione europea non vi abbia aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione”, richiamando in proposito Corte Giust. UE, Grande Sezione, 26 febbraio 2013, causa n. 617/10, in Giur. cost, 2013, 3605 ss., nel caso Åkerberg Fransson, nonché Corte Giust. UE, Grande Sezione, 15 febbraio 2016, causa n. 601/15, in Resp. civ. e prev., 2016, 2009 ss., e la giurisprudenza in esse citata). Il secondo attiene alla teoria dei controlimiti che, se per un verso, come si è segnalato, è ormai radicata negli orientamenti della Consulta, per altro verso non ha accesso nella giurisprudenza comunitaria: per la Corte di Giustizia i diritti fondamentali della persona

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si registrano sul piano dell’astratta sistemazione di questioni capitali di principio e, così, innanzi tutto della costruzione delle gerarchie normative, sembra in corso un processo di graduale convergenza sul terreno delle soluzioni in concreto offerte ai “casi” che diversi fattori hanno agevolato.

Così, si è avvantaggiato dell’evoluzione del diritto e della giurisprudenza comunitari, nel cui quadro i valori e gli obiettivi mercantili hanno cessato di occupare una posizione egemonica essendo ormai affiancati, dopo il Trattato di Lisbona, ai diritti fondamentali della persona26 con cui si confrontano e debbono essere conciliati27. Inoltre, è favorito dall’estensione, promossa dalla Consulta, della direttiva della “leale collaborazione” dai rapporti tra enti dell’ordinamento domestico28 alle relazioni tra Corti nazionali e comunitarie29, che appare confacente a contrastare rigurgiti di prevalenza in ambito comunitario degli interessi economici sui “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano” e i “diritti inalienabili della persona” che

non occupano in solitudine la posizione di vertice che costituisce il presupposto di quella teoria; non possono operare come filtro impeditivo della penetrazione del diritto comunitario negli ordinamenti degli Stati membri; non sono sovraordinati rispetto a quest’ultimo, a cui viceversa si attribuisce supremazia; fanno semplicemente parte del patrimonio comune dell’U.E., all’interno del cui diritto trovano riconoscimento, ma al pari e con collocazione al medesimo livello dei valori del mercato; e, a conferma della primazia di quello, possono sì trovare tutela all’interno dei detti ordinamenti in conformità di essi, ma sol se detta tutela, per un verso, non sia inferiore a quella provvista dalla Carta di Nizza così come interpretata dalla Corte di Giustizia, ma per altro verso non dia luogo a contrasti con il diritto comunitario (per tutte Corte Giust. UE, 26 febbraio 2013, causa n. 617/10, cit., 3605 ss.).26 Per l’accresciuta attenzione per tali diritti nella giurisprudenza comunitaria, cfr. Casi decisi dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea sui diritti fondamentali in materia contrattuale a cura di G. Alpa e G. Conte, cit., passim.27 Ne è un esempio il rilievo che assume il diritto al pluralismo dell’informazione in Corte Giust. CE, 31 gennaio 2008, causa n. 380/05, in Foro it., 2009, IV, 414 ss. (analogo rilievo in C. Cost., 9 luglio 2009, n. 206, in Giur. cost., 2009, 2382 ss.; ad altro riguardo, ma sempre nell’ottica del limite che i diritti di stampo “economico” possono incontrare nei diritti fondamentali della persona, v. Cass., 22 giugno 2007, n. 14602, in Giust. civ. Mass., 2007).28 V. già C. Cost., 1 marzo 1972, n. 35, in Foro it., 1972, I, 1198 ss., e C. Cost., 14 luglio 1976, n. 175, in Giur. cost., 1976, 1085 ss. In dottrina, tra i molti, M. Luciani, Un regionalismo senza modello, in Le Regioni, 1994, 1313 ss.29 Cfr. C. Cost., ord., 26 gennaio 2017, n. 24, in Foro it., 2017, I, 393 ss., per cui per “l’art. 4, paragrafo 3, … TUE … i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità ... la legittimazione … e la forza stessa dell’unità in seno a un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo … in linea di principio … le sentenze della Corte di giustizia … non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale ... l’interpretazione appena delineata … si propone … come soluzione conforme al principio di leale cooperazione e di proporzionalità”.

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vi si riportano30; e che sembra sia stata ben accolta dalla Corte di Giustizia31. Ancora, è assecondato dalla ulteriore direttiva32 che appare condivisa a livello sia domestico33 sia comunitario34 e che caldeggia il bilanciamento

30 La questione si è posta con riguardo ai principi di legalità in materia penale e dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole al reo, messi a rischio da Corte Giust. UE, Grande Sezione, 8 settembre 2015, causa n. 105/14, in Riv. dir. internaz., 2015, 1328 ss., con particolare riferimento al regime della prescrizione dei reati fiscali nel caso Taricco. Al precedente ha fatto seguito il rinvio pregiudiziale disposto da C. Cost., ord., 26 gennaio 2017, n. 24, cit., 393 ss., che ha chiamato la medesima Corte a precisare l’interpretazione dell’art. 325 TFUE anteriormente offerta, per assicurarne la compatibilità con quei principi, siccome in difetto, non ostante “[i]l riconoscimento del primato del diritto dell’Unione”, poiché “l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia”, “sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che” si diano norme in conflitto con quelli.31 A seguito del rinvio pregiudiziale di cui si è appena detto, Corte Giust. UE, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, causa n. 42/17, in Foro it., 2018, IV, 18 ss., ha sottolineato “che il procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE instaura un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri”; e, pur riaffermando il primato del diritto comunitario, ha precisato che l’art. 325 TFUE “impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato” (così come già ritenuto da Corte Giust. UE, Grande Sezione, 8 settembre 2015, cit., 1328 ss., nel caso Taricco) solo in linea di massima, integrando l’indirizzo già espresso specificando che il giudice nazionale non è a ciò tenuto se “una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”.32 Sembra delineare una differenza tra bilanciamento come tecnica e come logica G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, 174 ss.33 Tra le molte, cfr. C. Cost., 23 marzo 2018, n. 58, in Cass. pen., 2018, 1953 ss. Sul bilanciamento tra valori costituzionalmente nella giurisprudenza della Consulta, nell’ampia letteratura, cfr. a es. R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992; G. Scaccia, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, e A. Morrone, Il bilanciamento nello stato costituzionale: teoria e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Torino, 2014; N. Lipari, Personalità e dignità nella giurisprudenza costituzionale, cit., 261 ss.34 Cfr., a es., Corte Giust. UE, 12 giugno 2003, causa n. 112/90, in Riv. giur. ambiente, 2003, 793 ss.; Corte Giust. UE, 14 ottobre 2004, causa n. 36/02, in Eur. dir. priv., 2007, 181 ss.; Corte Giust. UE, Grande Sezione, 11 dicembre 2007, causa n. 438/05, in Riv. dir. internaz., 2008, 848 ss., nel caso Viking Line. In dottrina, tra i tanti, A. Tancredi, L’emersione dei diritti fondamentali «assoluti» nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. dir.

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tra valori o diritti diversi per natura e contenuto quando, per ciò, in relazione a essi si manifestino esigenze discordanti, se non conflittuali; ed essi siano positivamente attestati al medesimo livello gerarchico o, almeno, dotati d’un analogo grado di rilevanza (giuridica, specie se risulti dalla loro menzione in fonti dell’ordinamento di rango) costituzionale35. Un indirizzo metodologico quest’ultimo che muove dal presupposto che una misurata compressione d’un interesse può evitare che un altro con cui si confronti sia del tutto pretermesso; e facilita gli avvicinamenti poiché previene «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno”»36 nei confronti di altre situazioni giuridiche pur rilevanti37, in applicazione di “criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati”38.

2. Diritti fondamentali e ideologie

internaz., 2006, 645 ss.; S. Gambino, Diritti fondamentali e Unione Europea. Una prospettiva costituzional-comparatistica, Milano, 2009, 125 ss.; A. Vespaziani, Il bilanciamento tra libertà economiche e diritti sociali nella giurisprudenza comunitaria: a view from Luxembourg, in Impresa e diritti fondamentali nella prospettiva transnazionale a cura di M.B. Deli, M.R. Mauro, F. Pernazza, F.P. Traisci, Napoli, 2012, 275 ss. e, ivi, 286; M. Casali, Il diritto all’oblio nella sentenza Google Spain. “Ieri la damnatio memoriae, oggi l’obbligo del ricordo, in Orientamenti della corte di giustizia dell’Unione Europea in materia di responsabilità civile a cura di G. Alpa e G. Conte, Torino, 2018, 143 ss. e, ivi, 148.35 Con la direttiva del bilanciamento si offre una soluzione a un problema di teoria generale del diritto che attiene alla composizione dei conflitti che si diano tra valori, interessi, diritti, libertà, principi accomunati dalla rilevanza costituzionale: per la proposta, v. a es., R. Alexy, Theorie der Grundrechte, Baden-Baden, 1985 (anche nella trad. it., sull’edizione Frankfurt am Main, 1994, Id., Teoria dei diritti fondamentali, Bologna, 2012); Id., Diritti fondamentali, bilanciamento e razionalità, in Ars Interpretandi, 2002, 131 ss.; Id., La formula per la quantificazione del peso nel bilanciamento, ivi, 2005, 99 ss.; e cfr. G. Maniaci, Note sulla teoria del bilanciamento di Robert Alexy, in Diritto & questioni pubbliche, 2002, n. 2, 47 ss. V. pure R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino, 1996, 142 ss.; Id.., Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, 302 ss.; G. Pino, Diritti fondamentali e ragionamento giuridico, Torino, 2008, 96 ss.36 Che riecheggia Schmitt, Die Tyrannei der Werte, Stuttgart, 1967 (anche nella trad. it., Id.., La tirannia dei valori, Roma, 1987). Cfr. P. Perlingieri, “Dittatura del relativismo” e “tirannia dei valori”, in Iustitia, 2011, 225 ss.37 V. C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85, in Giur. cost., 2013, 1424 ss.38 V. C. Cost., 23 marzo 2018, n. 58, cit., 1953 ss., e, prima, a es., C. Cost., 24 marzo 2016, n. 63, in Foro it., 2017, I, 1451 ss., e C. Cost., 28 novembre 2012, n. 264, in Giur. cost., 2012, 4216 ss.

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L’osservazione analitica delle entità contenute nella nozione di soggetto come fattispecie – che ne vagli le consistenze in un’ottica comparativa e, segnatamente, differenziale per stabilire se, al di là della portata unificante del concetto che le sintetizza riducendo a unità il molteplice, siano da ordinare, s’incanalino in specie – ne determina una scissione in diversi contingenti, che costituisce un preliminare passo nella costruzione giuridica delle differenze tra i soggetti. Lo sguardo posato sull’individuo ne fa cogliere il peculiare tratto dell’umanità, sul cui presupposto e per presidiare la quale s’isola la persona (umana) e le si predicano diritti e libertà39 detti, via via, intangibili40, fondamentali, inviolabili, dell’uomo41 o inalienabili42 perché consustanziali a tutti gli esseri umani: cosicché al concetto giuridico unificante i soggetti in astratto si affianca una classe di situazioni giuridiche unificante gli individui in una più concreta angolazione.

Certo si può discutere quale sia il perimetro di tale classe, quali siano cioè le situazioni in essa incluse, con particolare riguardo a quelle che hanno contenuto più spiccatamente economico o mercantile o senz’altro di stampo patrimoniale, come la proprietà43. Ma si tratta di procedere a un’actio finium

39 La distinta menzione riflette, innanzi tutto, l’intitolazione della CEDU e la separata citazione di diritti e libertà (e principi) nel preambolo della Carta di Nizza. Inoltre (come ricorda G. Pino, La «lotta per i diritti fondamentali» in Europa. Integrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico, cit., 109 ss., che la impiega pur ritenendo che le libertà si riportino ai diritti), riflette anche l’abitudine a livello comunitario ed eurounitario di predicare il termine libertà (fondamentali) a situazioni di rilevanza economica o mercantile, collegate dunque a interessi economici o a valori del mercato (come la libertà d’impresa – economica o d’iniziativa economica privata –; di circolazione di persone, servizi, merci e capitali; di concorrenza; di libera prestazione di servizi; di stabilimento: cfr. Corte Giust. UE, Grande Sezione, 15 novembre 2016, causa n. 268/15, cit., 2616) per distinguerle dai diritti fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri e da quelli riconosciuti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Per l’impiego, v. pure G. Alpa e G. Conte, Premessa, in Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali a cura di G. Alpa e G. Conte, Torino, 2018, 1 ss.40 Ad. es. P. Ridola, Il principio libertà nello stato costituzionale. I diritti fondamentali in prospettiva storico-comparativa, Torino, 2018, 191 ss., anche per un’analisi delle implicazioni dell’uso del termine rispetto ad altri che seguono.41 A es., v. G. Alpa e G. Conte, Introduzione. La Corte di Giustizia e i diritti fondamentali, cit., 4; nonché G. Alpa e G. Conte, Premessa, cit., 1 ss.42 A es., v. C. Cost., ord., 26 gennaio 2017, n. 24, cit., 393 ss.43 L’inclusione della proprietà tra i diritti fondamentali della persona trascorre dal secondo capitolo del trattato sul governo del progenitore del liberalismo classico (J. Locke, Two Treatises of Governement, London, 1690, la cui redazione precedette, ma la cui pubblicazione attese la fine della Glorious Revolution inglese del 1688 e l’accettazione, nel 1689, da parte di Guglielmo III d’Orange del – l’English – Bill of Rights o Dichiarazione dei diritti civili e politici predisposta dal Parlamento inglese: un testo che, scritto in contrapposizione all’opera,

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regundorum rispetto a un nucleo che sembra essere sufficientemente condiviso e consolidato sul piano culturale; e da questo transitato in fonti giuridiche che occupano posizioni di vertice in seno all’articolato sistema pluralistico o rete ch’esse compongono44. Si tratta di un regolamento di confini che

pubblicata postuma, di Sir R. Filmer, Patriarcha; or the Natural Power of Kings, London, 1680, si oppose ai realisti sostenitori del diritto divino dei re e dell’assolutismo monarchico; in cui si svolse un’articolata critica alla teoria del diritto divino dei re, sviluppando l’antitetica dottrina dei diritti naturali degli uomini e dell’origine consensuale del governo; e che sostenne le ragioni dei Whigs, ossia dei liberali dell’epoca che all’esito di quella rivoluzione prevalsero) al secondo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Sul rapporto tra diritti fondamentali e diritti patrimoniali, per un’interpretazione restrittiva dei primi per ragioni di “forma o struttura”, v. a es. L. Ferrajoli, Una definizione del concetto di diritti fondamentali, in http://www.ristretti.it/areestudio/territorio/opera/documenti/approfondimento/diritti.htm. Per l’indirizzo per cui i diritti fondamentali includono anche economic rights (quali i property rights e la freedom of contract) e questi ultimi debbono ricevere la medesima protezione dei non-economic o personal rights (quali i privacy rights e la freedom of speech, v. a es. R.A. Epstein, The Classical Liberal Constitution, Cambridge, Mass., 2014, 684 e passim (contra, S. Sherry, Property is the new privacy: the coming constitutional revolution, 128 [2015] Harv. L. Rev. 1452 ss., su cui v. R.A. Epstein, An Unapologetic Defense of the Classical liberal Constitution. A Reply to Professor Sherry, 128 [2015] Harv. L. Rev. Forum 145 ss., https://harvardlawreview.org/2015/03/an-unapologetic-defense-of-the-classical-liberal-constitution/).44 Per alcuni riferimenti a tali fonti, v. supra nelle note. Sono fonti eterogenee, per natura e provenienza, poiché al ridimensionamento (o crisi) della sovranità degli Stati (v. già F. Vassalli, Superamento dello Stato nazionale e della sovranità statuale, in Comun. intern., 1946, 483 ss.; più di recente, cfr. D. D’Andrea, Oltre la sovranità. Lo spazio politico europeo tra post-modernità e nuovo Medioevo, nei Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2002, 77 ss., e P. Grossi, Unità giuridica europea: un medioevo prossimo futuro?, ivi, 2002, 39 ss. e, ivi, 52 ss.) sono collegate la recessione del fenomeno dell’unificazione statuale del diritto e la correlativa affermazione di un sistema pluralistico di fonti (v. a es. G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, cit., 407 ss.; A. Grilli L’Italia dal 1865 al 1942: dal mito al declino della codificazione, in Lezioni di storia delle codificazioni e delle costituzioni a cura di M. Ascheri, Torino, 2008, 157 ss. e, ivi, 172 s.; e J.L. Halperin, Entre nationalisme juridique et communauté de droit, Paris, 1999) molto articolato (per una rassegna che individua dieci tipi di fonti, cfr. S. Rodotà, Un Codice per l’Europa? Diritti nazionali, diritto europeo, diritto globale, in Codici. Una riflessione di fine millennio a cura di P. Cappellini-B. Sordi, Milano, 2002, 541 ss. e, ivi, 548 s.: «- trattati, convenzioni, accordi internazionali; - discipline “regionali”, come le direttive e i regolamenti dell’Unione europea; - leggi nazionali; - norme statali (negli Stati federali), regionali o comunque derivanti da processi di decentramento normativo; - diritto giurisprudenziale (comprensivo delle decisioni arbitrali); - regole provenienti da autorità indipendenti sovranazionali o nazionali; - linee guida provenienti da organismi internazionali; - modelli contrattuali uniformi; - codici di condotta internazionali o nazionali; - regole o standard di “normalizzazione” tecnica»), la cui complessità (tale da indurre a parlare, in luogo d’un sistema, di una “rete di fonti”, governata da complessi criteri di coordinamento: v. L. Solidoro Maruotti, I Percorsi del Diritto: esempi di evoluzione storica e mutamenti del fenomeno giuridico, cit., 2011, 3; e Id., Il giudice e il fatto: nuove suggestioni del pensiero vichiano, in Ritorno ai principi. Il fatto, il farsi, il diritto a cura di E.M. Marenghi, Napoli, 2014, 111 ss.) è dipesa,

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è delicato e implicante per la rilevanza dell’ambito che determina, perché configura a livello giuridico la basilare e universale condizione dell’essere umano delineando standards (quelli dei diritti umani) dai compositi riflessi nel campo dei diritti economici, sociali, alla formazione culturale, civili e politici; che, quindi, risente inevitabilmente di preferenze ideologiche di vario tipo che precedono la soggettiva proposta dei luoghi ove apporre i termini; che sgorga da un confronto dialogico, ma a cui non conviene lo scontro radicale.

La contrapposizione puramente ideologica non solo è inadatta al tema, che attiene al riconoscimento di diritti e libertà che non sono semplicemente inerenti, ma coessenziali alla persona in quanto essere umano e, dunque, caratterizzati in principio da assolutezza e generalità, che implicano la loro tendenziale finitezza che esige razionalità nella selezione45. E non solo è

innanzi tutto, dall’accresciuto rilievo delle fonti che trascendono la dimensione nazionale (sui rapporti tra questa e quella sopranazionale del diritto v., a es., O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. eur., 2009, 1 ss.), dunque dalla internazionalizzazione e, poi, dalla globalizzazione del diritto (in tema v., a es., M.R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002; Id., Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2000; B. Pastore, Il diritto internazionale in un mondo in trasformazione: verso un diritto giurisprudenziale?, in Ars interpretandi, 6, 2001, 157 ss.; e, con particolare riguardo al multilevel constitutionalism, G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Roma-Bari, 2012, 19 ss. e 43 ss.) nonché, per quanto attiene alle esperienze domestiche degli Stati membri dell’U.E., dal concatenato fenomeno della c.d. “europeizzazione” dei diritti nazionali o, almeno, di loro ampi settori (su cui v. A. Tizzano, Problemi “linguistici” nell’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea, in Dir. Un. eur., 2017, 861 ss., § 5; e Id., Qualche riflessione sul contributo della Corte di giustizia allo sviluppo del sistema comunitario, ivi, 2009, 141 ss. e, ivi, 152).45 In tale prospettiva, può essere utile ricordare il niente affatto marginale (né recente, né limitato all’esperienza domestica: v. supra in nota) orientamento che accoglie un’accezione lata della nozione di diritti e libertà fondamentali (cfr. a es. R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, cit., 142 ss.; P. Costa, Diritti fondamentali (storia dei), in Enc. dir. Annali, II, t. 2, Milano, 2008, 365 ss.; G. Alpa, Diritto privato europeo, Milano, 2016, 159 e passim; C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85, cit., 1424 ss.; e la già ricordata giurisprudenza della Corte di Giustizia), che non include i soli diritti umani o diritti fondamentali della persona in senso stretto (che spettano all’uomo in quanto tale: la distinzione anche rispetto ai diritti del cittadino è formalizzata almeno dal 1789; v. pure Cass., 22 luglio 2015, n. 15362, cit.), ma si estende a comprenderne pure di natura economica, mercantile, patrimoniale: contra l’inclusione a es. della libertà (di iniziativa) economica (privata) tra i diritti fondamentali costituenti diritti inviolabili dell’uomo v. F. Galgano, Commento sub art. 41, in F. Galgano e S. Rodotà, Art. 41 – 44. Rapporti economici, t. II, nel Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna, 1982, 1 ss. e, ivi, 26, ma con riferimento all’ordinamento costituzionale nazionale (ossia in prospettiva giuspositivistica, con riferimento a quel dato normativo in cui, tra l’altro, si tende a rintracciare il principio personalistico) e in presenza di voci antitetiche colà riferite (sulla categoria dei diritti fondamentali, v. pure G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento

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divergenza tra poli che sottintende l’ambizione di ciascuno di imporre l’autocratica egemonia di “un” ideale dispotico e, dunque, reca il pericolo di farlo prevalere sulla razionalità con cui l’ideologia deve necessariamente confrontarsi trovandovi un argine capace d’irreggimentarla o, senz’altro, di respingerla, tanto più se si considera che il diritto, pragmaticamente, deve essere oggettivamente sensato sul piano sia della razionalità assiologica (diritto equo, diritto giusto) del dover essere; sia della razionalità dell’essere, ossia della razionalità economica, i.e. dell’efficienza del diritto46.

Di più. L’antitesi ideologica favorisce forme di progressismo estreme: per difetto, ossia limitative di quell’ambito; o per eccesso, cioè proclivi a una moltiplicazione di “diritti” che fa perdere senso alla categoria e, inoltre, reca il rischio di far apparire la persona umana come una fattispecie e pure relativa, che abbisogna d’essere giuridicamente configurata, di ricevere attribuzioni, anziché come essere che reclama riconoscimenti per quel che è, pretesi dall’individuo in sé, a partire cioè dalla sua umanità. In entrambi i casi, si veicolano e promuovono novità che allontanano da quel nucleo faticosamente formalizzato, che rendono insicuro e svigorito47; e che indeboliscono poiché il progressismo che proceda senza gradualità,

giuridico nello Stato costituzionale, cit., cap. IV e V, e supra in nota). Indipendentemente dalla composizione e dall’estensione della categoria in considerazione, le componenti si possono ordinare gerarchicamente, riconoscendone alcuni inalienabili (cfr. C. Cost., ord., 26 gennaio 2017, n. 24, cit., 393 ss., in base al principio personalistico) o, comunque, inviolabili, intangibili; oppure si può optare per una collocazione di tutti al medesimo livello, secondo la tendenza del diritto eurounitario. Nell’uno e nell’altro caso, la tecnica del bilanciamento può operare (anche nel primo possono darsi contrasti interni per la cui soluzione è alternativa all’adozione d’una gerarchia caratterizzata da rigida fissità), ma parrebbe indispensabile nel secondo; e in entrambi sembrerebbe tanto più favorito quanto più aumentino l’estensione e l’eterogeneità della detta categoria.46 Cfr. A. Gentili, Il ruolo della razionalità cognitiva nelle invalidità negoziali, in Riv. dir. civ., 2013, 1105 ss. E v. gli accenti critici, più che nichilistici di N. Irti, Un contratto ’incalcolabile’, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 17 ss., ora nel volume Id., Un diritto incalcolabile, cit., 107 ss., ove si osserva che “[l’]immagine weberiana del diritto razionale ormai appartiene al passato” esemplificando con riferimento alla crisi della fattispecie e, segnatamente, del “concetto del contratto come fattispecie” (ivi, 109).47 Cfr. K. Polanyi, The Tacit Dimension, New York, 1966, 62 s.: “I believe that the new self-determination of man can be saved from destroying itself only by recognizing its own limits in an authoritative traditional framework which upholds it. Tom Paine could proclaim the right of each generation to determine its institutions anew, since the range of his demands were in fact very modest. He unquestioningly accepted the continuity of culture and of the order of private property as the framework of self-determination. Today the ideas of Tom Paine can be saved from self-destruction only by a conscious reaffirmation of traditional continuity. Paine’s ideal of unlimited gradual progress can be saved from destruction by revolution only by the kind of traditionalism taught by Paine’s opponent, Edmund Burke”.

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per salti, riduce il grado di condivisione che appartiene ai segnalati fattori da cui dipende sia la stabilità dei constitutional essentials che includono i diritti e le libertà in discorso48 sia, correlativamente, un’ordinata democrazia costituzionale49.

Del resto, questi ultimi formano una categoria in cui ben possono convivere situazioni (collegate a interessi e valori) differenti perché plurime sono le dimensioni che occupa la persona umana, che costituiscono le facce di un poliedro50 che riflette i diversi punti di vista da cui la si può guardare, rivestendo la complessità dell’individuo come entità biologica; e ben possono verificarsi frizioni endogene tra le singole componenti51 la cui accennata diversità, calata nelle relazioni interpersonali che le mettono in rapporto e in cui si confrontino persone che esprimano istanze particolari divergenti, può tradursi in conflitto52. Inoltre, essi si collocano (ed evolvono) in un quadro istituzionale di cui – al di fuori d’una visione prettamente liberale, soggettiva, individuale che li si considera ex se fondativi di pretese, attribuendo loro portata antagonistica rispetto allo Stato e fondamento precostituzionale53 – tendono a far parte, ponendo condizioni, ma

48 Ossia gli “equal basic rights and liberties of citizenship that legislative majorities are to respect”: v. J. Rawls, Political Liberalism, cit., 227.49 Cfr. G.K. Hadfield e S. Macedo, Rational Reasonableness: Toward a Positive Theory of Public Reason, cit., 7 ss.50 Non si allude alla frantumazione dell’unità della persona in multiple identità per coglierne specifiche sfaccettature (segnatamente attraverso distinti trattamenti di dati personali che ne moltiplicano le identità, create ciascuna in funzione d’una particolare esigenza di raccolta di informazioni e così, a es., in vista d’una specifica finalità economica: v. S. Rodotà, Persona, riservatezza, identità. Prime note sistematiche sulla protezione dei dati personali, in Riv. crit. dir. priv., 1997, 583 ss., e cfr. V. Zeno-Zencovich, Privacy e informazioni a contenuto economico nel d. legisl. n. 196 del 2003, in Studium iuris, 2004, 452 ss.), ma ai diversi ruoli e interessi che, di volta in volta, la singola persona rispettivamente assume ed esprime.51 Per un esempio, v. C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85, cit., 1424 ss., nel caso Ilva, sul contrasto, tra l’altro, tra diritto alla salute e diritto al lavoro (prevalso).52 Si può portare l’ulteriore esempio della tensione tra diritto alla riservatezza e diritto all’informazione: v., a es., A. Giuliani, Informazione e verità nello Stato contemporaneo, ne Il diritto come ordinamento. Informazione e verità nello Stato contemporaneo, Atti del X Congresso naz. della Società ital. di filosofia giuridica e politica (Bari 3-5 ottobre 1974), a cura di Orecchia, Milano, 1976, 167 ss. e 243 ss., ivi spec. 243, e N. Lipari, Diritto e valori sociali, Roma, 2004, 167. Cfr. R. V. Roppo, Diritti della personalità, diritto all’identità personale e sistema dell’informazione. Quale modello di politica del diritto, ne L’informazione e i diritti della persona a cura di G. Alpa, M. Bessone, L. Boneschi e G. Chiazza, Napoli, 1983, 29 ss., e G. Alpa, Privacy e statuto dell’informazione (Il Privacy Act e la Loi relative à l’informatique, aux fichiers et aux libertés n. 78-17 del 1978), cit., 65 ss. Il tema, nel tempo, si è dilatato: v. S. Rodotà, Tra diritto e società. Informazioni genetiche e tecniche di tutela, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 584 ss.53 V. P. Ridola, Il principio libertà nello stato costituzionale. I diritti fondamentali in prospettiva

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risultandone condizionati. Anche evitandosene una ricostruzione puramente istituzionale a favore della preferibile opzione che ne coglie e contempera il duplice, complementare carattere soggettivo (individuale) e istituzionale che sembrano manifestare, essi sono ingredienti dell’ordinamento costituzionale complessivo, pluridimensionale e pluriorientato, che dà rilievo anche a interessi metaindividuali: in esso trovano almeno “garanzie d’istituto” che tendono a tranquillizzare rispetto all’insicura loro persistenza, ossia a proteggere da tendenze eversive e ad assicurare loro una speciale protezione in congiunture residuali di rischio, o una più penetrante funzione sistemica di posizioni difensive a efficacia orizzontale54, capaci di fungere quali parametri di costituzionalità in quanto valori supremi intangibili55; ma in esso, per l’appunto, convivono con altri dettami che – propesi ad attestare ulteriori valori e principi, rivolti a perseguire altre finalità, a esempio attinenti all’assetto economico generale della società56 – concorrono a delineare l’intera cornice ordinamentale e costituiscono fattori esogeni con cui possono entrare in urto57.

storico-comparativa, cit., 188, 190.54 La Drittwirkung riguarda anche i diritti fondamentali così come riconosciuti dalle fonti eurounitarie, fondandolasi sulla considerazione che la Carta di Nizza “ha lo stesso valore giuri-dico dei trattati” ex art. 6 TUE (v., a es., M. Cartabia, I diritti fondamentali e la cittadinanza dell’Unione, ne La Costituzione europea. Un primo commento a cura di F. Bassanini e G. Tiberi, Bologna, 2004, 57 ss., e A. Zoppini, Il diritto privato e le “libertà fondamentali” dell’Unione Europea (Principî e problemi della Drittwirkung nel mercato unico), in Riv. dir. civ., 2016, 712 ss., e nell’antologia Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali a cura di G. Alpa e G. Conte, Torino, 2018, 417 ss.; per connessione, v. pure G. D’Amico, Problemi (e limiti) dell’ap-plicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), ivi, 359 ss., da cui si cita, e in Giust. civ., 2016, 443 ss., nonché Id., Applicazione diretta dei principi costituzionali e integrazione del contratto, in Giust. civ., 2015, 247 ss.); o ch’essi comunque costituiscono principi generali (v. G. Alpa, Diritto privato europeo, cit., p. 159).55 Cfr. P. Ridola, Il principio libertà nello stato costituzionale. I diritti fondamentali in prospettiva storico-comparativa, cit., 188 ss.56 Sulla c.d. costituzione economica, nell’ampia letteratura, cfr. S. Cassese, La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 2012, e G. Di Plinio, Il Common core della deregulation: dallo Stato regolatore alla Costituzione economica sovranazionale, Milano, 2005; Id., Sulla Costituzione economica. Contributo per una teoria degli effetti costituzionali dell’economia, in Il risparmio, 2008, 23 ss.; Id., La velocità delle costituzioni economiche tra passato e presente della UEM, ne Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai Trattati di Roma a cura di A. Ciancio, Torino, 2017, 207 ss.57 Si può fare l’esempio del contrasto tra la protezione e la libera circolazione dei dati personali (v. Corte Giust. UE, 9 marzo 2017, causa n. 398/15, in Foro it., 2017, IV, 165 ss.); oppure, con riguardo a C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85, cit., 1424 ss., nel caso Ilva, in cui il già segnalato al contrasto endogeno tra diritto alla salute (e alla salubrità dell’ambiente) e diritto al lavoro si aggiunge quello tra diritto alla salute (e alla salubrità dell’ambiente) e diritto allo svolgimento d’una attività economica (prevalso in uno con il diritto al lavoro).

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Nell’uno e nell’altro caso58, si registrano attriti del diritto59 interni che la contrapposizione ideologica aumenta e tende a superare solo attraverso la composizione di rigide, ma insicure, partigiane60 gerarchie assiologiche ordinanti che si propongono e divengono premesse assiomatiche d’ogni discorso61 che, quand’anche siano munite d’intima razionalità, a esempio muovendo dall’anteriorità logica dei diritti fondamentali dell’uomo, sono autoreferenziali; consolidano il conflitto; promuovono egemonie incondizionate e indiscutibili; riducono gli spazi della condivisione; abdicano al bilanciamento secondo equilibrati criteri di proporzionalità e di ragionevolezza62; soddisfano tutt’al più lo standard della razionalità assiologica, ma si disinteressano dell’accennata razionalità dell’essere di cui quei criteri possono dirsi estrinsecazione e di cui il diritto – in primis quello dell’economia, che riguarda le relazioni di mercato e, dunque, un esteso segmento dell’organizzazione sociale – non sembra che possa fare a meno. Ciò parrebbe l’opposto di quanto serve a un proficuo dialogo tra valori e interessi diversi che, depurati dagli eccessi incoerenti, aspirino a un mutuo riconoscimento e raccordo, anziché a un infecondo ius excludendi dal dominio del diritto per guadagnare un incondizionato primato su quelli che non collimino.

58 Cfr. N. Irti, I ‘cancelli delle parole’ (intorno a regole, principi, norme), cit., 81, ove il richiamo a B. Petrocelli, Tecnicismo e antitecnicismo nel diritto penale, in Riv. it. dir. pen., 1950, 285 ss., in cui si profila che il “mondo dei valori … sia … un mondo di tendenze contrastanti”; e pone problemi di selezione (relativi a chi e come si compia la scelta: v. anche G. Filanti, Valori, prin-cipi, fattispecie, in Jus civile, 2015, 720 ss., spec. 721) che, peraltro, le segnalate prospettive della “condivisione” di, e della “interazione” (o bilanciamento) tra valori e principi possono attenuare.59 Cfr. F. Carnelutti, La guerra e la pace, a cura di G. Tracuzzi, Torino, 2014, 81 s.60 Cfr. N. Irti, I ‘cancelli delle parole’ (intorno a regole, principi, norme), cit., 81, per cui sul “piano meta-positivo di sommi ‘principi’ e ‘valori’” incide la soggettività (s’incontrano “la soggettività dell’appello con la soggettività della risposta”), che può ingrossare la “vena di irrazionalità … [che] riposa sul rifiuto dell’astrazione, sull’incapacità o difficoltà di cogliere la logica propria del diritto, che è logica dello schematico e del tipico”.61 Cfr. H. Arendt, Totalitarianism: Part Three of The Origins of Totalitarianism, San Diego – New York – London, 1985, 169. A proposito di assiologie assiomatiche, v. J.N. Findlay, Platone: le dottrine scritte e non scritte, a cura di G. Reale, 1994, 365.62 Sul bilanciamento dei diritti e delle libertà fondamentali, le sue tecniche (test di necessità, test di idoneità e test di proporzionalità in senso stretto, da un lato, su cui v. pure l’art. 52, par. 1, della Carta di Nizza; e criterio di ragionevolezza, dall’altro) e i reciproci rapporti tra queste ultime, v. anche F. Bravo, Sul bilanciamento proporzionale dei diritti e delle libertà ‘‘fondamentali’’, tra mercato e persona: nuovi assetti nell’ordinamento europeo?, in Contr. e impr., 2018, 190 ss. (ivi, risp., 209 ss.; 213 ss. e 203 s.), e G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, cit., cap. VII e VIII. Sulla ragionevolezza in particolare, cfr. pure G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015, 105 ss., e S. Troiano, Ragionevolezza (dir. priv.), in Enc. dir. Annali, VI, Milano, 2013, 763 ss.

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3. Diritti fondamentali e gerarchie

Le gerarchie anche assiologiche concorrono a dar forma e sostanza all’ordinamento ed evolvono. Ma conviene contenere la chiave di lettura per cui l’ordine che s’impone, così come la norma giuridica che si afferma ciò fanno all’esito di una competizione tra campioni rivali governata da rapporti di forza63 in base ai quali soltanto si determina chi sopravvive: tant’è che persino in prospettiva etologica si spiega che la prevalenza è risultato che dipende anche dall’idoneità del costrutto a soddisfare le esigenze di coloro che ne sono avvinti, biologiche e culturali64.

Il bilanciamento rifiuta l’idea di un diritto costruito su di “una” (opinabile, almeno se non sia elementare e minimale) gerarchia contraddistinta da granitica fissità, a cui sostituisce una “gerarchia mobile”65.

In relazione a ciò, si può segnalare il rischio che il principio personalistico66, inarticolatamente inteso, possa essere eroso, specie a causa di scelte operate in seno all’ordinamento comunitario67. Riguardo a esse, però, per un verso, la

63 Esito d’un rapporto di forza formalmente ratificato dal diritto, a es., sembrerebbe a N. Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 42, l’“onnipotenza mercantile capace di determinare crisi” contrapposta alle “sempre più avvertite esigenze di solidarietà”: tuttavia, la diffusa avversione, almeno in Europa, negli USA e in Australia, per l’immigrazione (che al “mercato” parrebbe convenire) può sfatare tanto le seconde quanto la prima.64 Cfr. A. Gianola, Diritto ed etologia, in Digesto IV, Disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, V, Torino, 2010, 545 ss. e, ivi, 553 s., nonché Id., Antropologia giuridica, in Enc. dir. Annali, IV, Milano, 2011, 89 ss.65 V. R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, cit., 145.66 Ossia della prevalenza della persona sul mercato, i.e. di valori e interessi direttamente e stretta-mente inerenti alla persona rispetto a quelli di natura economica, mercantile, patrimoniale: cfr. P. Perlingieri, La persona e i suoi diritti. Problemi del diritto civile, cit., a es. 5 ss., 25 ss., 65 ss.; G. Alpa, La persona nelle costituzioni: sintesi storica, in Cultura e diritti, 2013, n. 3, 65 ss.; Id., Attuazione e attualità nella Costituzione: il caso dei diritti della persona, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, 1 ss.; per il suo fondamento costituzionale cfr. pure P. Rescigno, Per una rilettura del Codice civile, cit., 208 ss.; N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, cit., 83 ss.).67 Tenuto conto che in seno a esso i diritti fondamentali (anche quelli della persona) si collocano al medesimo livello, il che si riflette sulle tecniche e sugli esiti del bilanciamento (ché nessuno di quelli è dominante o recessivo, sicché viene meno il criterio della prevalenza), e delle indicazioni che si ricavano (v. F. Bravo, Sul bilanciamento proporzionale dei diritti e delle libertà ‘‘fondamentali’’, tra mercato e persona: nuovi assetti nell’ordinamento europeo?, in Contr. e impr., 2018, 190 ss.) sia dal Trattato di Lisbona (che comporterebbe un affievolimento della teoria dei controlimiti: per l’estensione del primato del diritto europeo sul diritto interno; per l’incremento dei poteri degli organi giurisdizionali domestici in materia di diritti fondamentali;

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teoria dei controlimiti ha mostrato di non volersi affievolire68. E, per altro verso, il pericolo proviene non tanto dai modelli applicativi, stante la considerazione che i diritti fondamentali della persona hanno trovato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia69, quanto da quelli legislativi70 dandosi in proposito

per l’accentramento in capo alla Corte di giustizia dell’accertamento e del controllo della portata dei diritti fondamentali, in conformità della cornice valoriale propria del diritto eurounitario, in occasione non soltanto di pregiudiziali interpretative, ma pure di quelle di validità delle norme comunitarie ex art. 267, par. 1, lett. b, TFUE); sia dalla Carta di Nizza (a cagione dell’art. 52, par. 1, che contiene una clausola di portata generale sulla limitabilità dei diritti fondamentali).68 V. C. Cost., ord., 26 gennaio 2017, n. 24, cit., 393 ss., in relazione a Corte Giust. UE, Grande Sezione, 8 settembre 2015, causa n. 105/14, cit., 1328 ss., prima, e, poi, a Corte Giust. UE, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, causa n. 42/17, cit., 18 ss.69 Cfr. G. Pino, La «lotta per i diritti fondamentali» in Europa. Integrazione europea, diritti fonda-mentali e ragionamento giuridico, cit., 109 ss.70 Si porta l’esempio del regolamento UE del Parlamento europeo e del Consiglio 27 aprile 2016, n. 2016/679 (in breve “GDPR”) su cui v. ad. es. il volume collettaneo a cura di S. Sica, V. D’Antonio e G.M. Riccio, La nuova disciplina europea della privacy, Milano, 2016; quello diretto da G. Finocchiaro, Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, Bologna, 2017; i due tomi di F. Pizzetti, Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati personali, (t. I, Dalla dir. 95/46 al nuovo regolamento europeo; e t. II (Il regolamento europeo 2016/679), Torino, 2016; M.G. Stanzione, Il regolamento europeo sulla privacy: origini e ambito di applicazione, in Eur. dir. priv., 2016, 1249 ss.; R. Senigaglia, Reg. UE 2016/679 e diritto all’oblio nella comunicazione telematica. Identità, informazione e trasparenza nell’ordine della dignità personale, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 1023 ss. In esso si è ritenuto che (v. F. Bravo, op. ult. cit., 190 ss.) il principio personalistico sarebbe stato rimesso in discussione nel ridelineare il bilanciamento (ivi, 204) tra il diritto alla protezione dei dati personali contemplato dall’art. 8 della Carta di Nizza (ma anche dall’art. 16 TFUE) e il contrapposto interesse alla libera circolazione dei dati quale espressione tra l’altro della libertà (d’impresa o) economica anch’essa contemplata dalla detta Carta all’art. 16 (ivi, 208); e che, in particolare, in relazione all’art. 1, par. 3, e al considerando n. 4 GDPR, sarebbe da registrare un “capovolgimento degli equilibri tra diritti e libertà fondamentali finora riscontrati” (ivi, 204), non solo e non tanto perché si dà atto che il diritto alla protezione dei dati personali non costituisce una prerogativa assoluta, siccome previsto dal detto considerando (ivi, 205), bensì in quanto ora «[l]a libera circolazione dei dati personali nell’Unione non può essere limitata né vietata per motivi attinenti alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali» ex art. 1, par. 3, citato, così attuando, ma “con una formulazione generale ed aprioristica”, l’art. 52 della Carta che ammette limitazioni dei diritti fondamentali, ma informate a proporzionalità (ivi, 204 s.). Si può peraltro anche ritenere che, in luogo di un capovolgimento, si abbia un affinamento tenendo conto che il diritto alla protezione dei dati personali non costituisce una prerogativa assoluta (considerando n. 4) poiché convive con altri diritti e libertà fondamentali; ciò trova fondamento nella clausola di loro limitabilità e bilanciamento espressa dall’art. 52 della Carta di Nizza; la “libera” circolazione dei dati personali non forma oggetto d’una “libertà”, tantomeno fondamentale, autonomamente rilevante, ma è funzionale alla realizzazione sia di diritti e libertà fondamentali che non si risolvono neppure in quella economica (sotto questo profilo, pur essendo incontestabile la

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rilievo all’art. 52 della Carta di Nizza, che prevede la limitabilità dei diritti fondamentali in generale71 implicandone l’equivalenza, sottintendendone la collocazione al medesimo livello. Sennonché, la disposizione non solo è aperta all’interpretazione, ma pone limiti e detta condizioni e criteri72. Il rischio, cioè,

rilevanza economica dei dati personali nella società contemporanea, innanzi tutto al fine di orientare le scelte imprenditoriali concernenti la produzione e l’offerta di beni e servizi che si avvantaggiano della disponibilità di quelli, appare parziale e forviante una lettura mercantile del GDPR che ne enfatizzi o, peggio, colga solo la finalità di far prevalere istanze economiche su quelle della persona, la libera circolazione sul diritto alla protezione dei dati personali per soddisfare esigenze del mercato, tanto più che nel considerando n. 9 sono le differenze di disciplina del diritto alla protezione di tali dati, piuttosto che i limiti alla circolazione di questi ultimi, a essere considerate un freno alle attività economiche e capaci di falsare la concorrenza: cfr. però A. Mantelero, il nuovo approccio della valutazione del rischio nella sicurezza dei dati, ne Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, cit., 287 ss. e, ivi, 294 s.), ma si estendono a es. a quelle di pensiero, di coscienza, di espressione e d’informazione (considerando n. 4 e art. 85 GDPR; artt. 10 e 11 della Carta), sia di interessi generali (a es. considerando n. 10 e artt. 6 e 9 GDPR; e art. 52 della Carta), oltre che all’adempimento di obblighi, tanto più che “la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione” non è che un tipo di trattamento (art. 4) strumentale a una qualche finalità e la circolazione ne è un effetto; si spiega così la ragione per cui la libera circolazione dei dati personali non può essere di per sé limitata o vietata puramente e semplicemente per motivi attinenti al diritto alla protezione di quelli, ché altrimenti si attribuirebbe alla prima un’autonomia che non ha e al secondo sicura attitudine a inciderla, mentre la comparazione dev’essere effettuata tra quest’ultimo e i diritti e le libertà effettivamente implicate (cfr. artt. 52 e 8 della Carta); di ciò pare potersi trarre conferma art. 6, par. 1, lett. f ), GDPR per cui il “legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi” tiene luogo al consenso dell’interessato al trattamento finché non ne “prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali … che richiedono la protezione dei dati personali” e che abbracciano il diritto alla riservatezza, che nella Carta (art. 7) è considerato distintamente dal diritto alla protezione dei dati personali; quest’ultimo è diritto alla «liceità, correttezza e trasparenza» del trattamento (art. 5 GDPR), la prima delle quali riposa innanzi tutto sul principio di autoresponsabilità (sul consenso dell’interessato, ex artt. 6 e 9 GDPR; o, addirittura per dati personali particolarmente delicati, sulla sua scelta di renderli “manifestamente pubblici”, ex art. 9 GDPR) e, poi, su altri “fondamenti” (v. pure art. 8 della Carta) che si rintracciano in concorrenti diritti, libertà, interessi di parte, interessi generali, obblighi e così via, di modo che non stupiscono le condizioni e i limiti posti al diritto all’oblio dall’art. 17 GDPR.71 V. F. Bravo, op. ult. cit., 208.72 Tant’è che, riprendendo il discorso sul GDPR, si è profilato che in relazione a esso possa addirittura sollevarsi una pregiudiziale di validità (che, per quanto si è dianzi accennato in nota, non parrebbe fondata) ex art. 267, par. 1, lett. b, TFUE, perché si stabilisce che la libera circolazione dei dati personali nell’Unione non può essere limitata né vietata per motivi attinenti alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (v. F. Bravo, op. ult. cit., 213); o che, in alternativa, la puntualizzazione semplicemente orienti l’operazione di bilanciamento, nel senso di attribuire alla libertà di (recte: libera) circolazione dei dati personali il ruolo di diritto “limitante” o “recessivo” (v.

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non può essere trascurato, né minimizzato, ma dipende da una concezione giuspositivistica dei diritti e delle libertà fondamentali che meccanicamente lo reca con sé73; che in ambito comunitario non può che essere piuttosto marcata, avuto riguardo all’esigenza di armonizzazione degli ordinamenti nazionali degli Stati membri; che indebolisce gli ordinari strumenti argomentativi volti al potenziamento dei diritti fondamentali della persona, ma potrebbe non eclissarli. Così, si contrappone all’idea di stampo giusnaturalistico che esistano diritti «prima, senza e anche contro lo Stato»74, che sono collegati alla sacralità della persona e che non debbono essere resi operanti nei singoli ordinamenti,

Id., op. ult. cit., 215), secondo un’opzione che appare più coerente con quanto si è dianzi osservato in nota (ma con la duplice precisazione che la comparazione sembra doversi attuare tra il diritto alla protezione dei dati personali, da un lato, e, dall’altro, i diritti e le libertà alla cui realizzazione la libera circolazione di tali dati è funzionale; e che, nel confronto da attuarsi secondo le tecniche delineate dall’art. 52 della Carta di Nizza, in base al dato positivo nessuna delle situazioni in gioco sembra suscettibile di vedersi predicato, invariabilmente ex ante, la veste di termine “limitante” o “recessivo”, data in principio l’equivalenza di tutte che giustifica quelle tecniche (idoneità, necessità, proporzionalità in senso stretto; e ragionevolezza).73 Per la prospettiva per cui la previsione dei diritti fondamentali da parte del diritto positivo di un determinato ordinamento è “insomma” condizione della loro esistenza o vigore in quell’ordinamento, v. L. Ferrajoli, Una definizione del concetto di diritti fondamentali, cit.; Id., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Roma-Bari, 2001, 5 ss.; Id., La democrazia attraverso i diritti, cit., § 3.3. Ciò si accompagna a un chiarimento circa il ruolo della scienza giuridica in Id., Una definizione del concetto di diritti fondamentali, cit (v. pure in Id., Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia. 1. Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007): sul presupposto che siano “«diritti fondamentali» … quei diritti soggettivi che spettano universalmente a «tutti» gli esseri umani”; che, se entro un sistema nomostatico (morale, diritto naturale) “fondato unicamente su principi di ragione … non esistono né antinomie né lacune”, vigendo il “principio giusnaturalistico veritas non auctoritas facit legem”, “nei sistemi nomodinamici di diritto positivo … l’esistenza o l’inesistenza … dipende da … una norma positiva” sicché “sono … possibili e inevitabili … sia lacune che antinomie” conseguenti al “principio giuspositivistico auctoritas non veritas facit legem”; che “[i]l principio di completezza, ossia il divieto di lacune, è anch’esso, al pari del principio di non contraddizione, un principio teorico normativo”: su tali presupposti si conclude che si dà “[s]ul piano metateorico … un ruolo non puramente descrittivo ma altresì critico e normativo della scienza giuridica nei confronti del suo oggetto: critico nei confronti delle lacune e delle antinomie che essa ha il compito di rilevare, e normativo nei riguardi della legislazione e della giurisdizione cui essa impone il loro completamento o la loro riparazione”.74 V. G. Oppo, Sintesi di un percorso (incompiuto) del diritto italiano, in Riv. dir. civ., 2008, 1 ss. e, ivi, 2. Sul contrasto tra le leggi della città scritte da Creonte e le leggi degli Dei di cui Antigone proclama la superiorità, resta memorabile il fraseggio tra l’uno e l’altra concepito da Sofocle, Antigone, vv. 495 ss. (a es. in Sophocles, The three Theban Plays. Antigone, Oedipus the King, Oedipus at Colonus, trans. by R. Fagles, New York, 1982, 81 s.), per la verità variamente interpretato: v. T. Ascarelli, Antigone e Porzia, in Riv. int. fil. dir., 1955, 756 ss., e A. Punzi, Dialogica del diritto. Studi per una filosofia della giurisprudenza, Torino, 2009, 163.

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ma possono essere sempre invocati dagli individui75. Una visione che, però, quanto agli esiti, può tentare di rivivere nella concezione del diritto eretto sul principio di non contraddizione76 che pretende il fondamento logico e, segnatamente, dialogico, della validità oggettiva77 delle norme giuridiche; è espressione di un costruttivismo radicale all’interno del quale l’anteriorità logica dei diritti fondamentali dell’uomo può giocare un ruolo non marginale sul terreno della ragionevolezza; e si riallaccia all’archetipo di pensiero per cui il diritto non coincide con le disposizioni di fonte lato sensu legislativa, che dopo un periodo di crisi78 ha riacquistato vitalità con il riconoscimento di una società pluralistica79. Così pure, ove il dato positivo prospetti l’equivalenza dei diritti 75 Per una rassegna critica di diverse concezioni di stampo giusnaturalistico dei diritti della persona, v. a es. A. Barbera, Commento sub art. 2, in AA.VV., Art. 1 – 12. Principi fon-damentali, nel Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna, 1975, 83 ss.76 A. Gentili, Il diritto come discorso, cit., 176 s. e passim.77 Id., op. ult. cit., 165 s., 169 ss.78 Per tutti, v. P. Grossi, Il diritto in Italia, oggi, tra modernità e pos-modernità, in Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, 3 ss. e, ivi, § 2, per il quale con l’inizio della “‘modernità giuridica’ … tra Settecento e Ottocento … si teorizza un esasperato statalismo” e lo “Stato si pone come l’unico produttore del diritto” per cui “solo la manifestazione della volontà dello Stato, ossia la legge, ha il crisma della giuridicità”, istituendosi “un vincolo strettissimo, addirittura necessario, fra potere politico e diritto”; e, così, v. Id., L’Europa del diritto, cit., 104 ss., si dà avvio a “un lungo periodo non solo di legalismo ma di autentica legolatria” in cui al “vecchio caotico pluralismo giuridico si … sostitu[isce] un rigidissimo monismo giuridico”. Il fenomeno per M. Tedeschi, La comunità come concetto giuridico, in Comunità e soggettività a cura di M. Tedeschi, Cosenza, 2006, 9 ss. e, ivi, § 2, non trovò ostacolo neppure nella teoria della “pluralità degli ordinamenti giuridici, che ha convissuto, svuotato di contenuto, con il formalismo e il positivismo giuridico” e “con lo Stato totalitario [che] ha convissuto con la pluralità di ordinamenti giuridici ma svuotando i gruppi di contenuto”, tal che “[t]utto ciò che in quegli anni non era possibile ricondurre al diritto dello Stato, come il diritto canonico e il diritto internazionale, non era considerato giuridico”. “[I]l declino dell’idea che il diritto sia nel suo complesso indipendente dalla volontà dei governanti, e che non possa identificarsi senz’altro, e senza residui, nelle leggi e nei decreti emanati di volta in volta dai detentori del potere politico, è uno dei fenomeni più impressionanti, per la loro portata, non meno che per la loro diffusione, in quasi tutte le società civili dell’epoca contemporanea” per un critico B. Leoni, La fabbrica del diritto, in Le Stagioni, 1961–1962, 22 ss., rist. in Id., Il diritto come pretesa a cura di A. Masala, con Introduzione di M. Barberis e Postfazione di A. Febbrajo, Macerata, 2004, 61 ss. e, ivi, 62.79 Con il riconoscimento (a es. art. 2 Cost.) della società pluralista basata su formazioni sociali intermedie (che per P. Rescigno, Ascesa e declino della società pluralista, in Quad. scienze soc., 1965, 333 ss., e in Persona e Comunità. Saggi di diritto privato, I, Bologna, 1966, 3 ss., da cui si cita, tendono a “colmare il vuoto apertosi tra l’individuo e lo Stato all’inizio dell’età moderna” – ivi, 8 – recuperando il modello delle comunità medievali, ossia colmando “il vuoto scavato tra l’individuo e la comunità generale dall’avvento dello Stato moderno … col resuscitare le minori comunità che l’ideologia liberale e la rivoluzione industriale avevano soppresso – ivi, 14; e cfr. R.A. Nisbet, The Quest for Community: A Study in the Ethics of Order and Freedom, New York, 1953, trad. it. Id., La comunità e lo Stato. Studio sull’etica dell’ordine e della libertà,

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che dica fondamentali, sembra ridursi la rilevanza del dibattito sulla portata dei principi generali80 nella prospettiva di riportarvi i diritti fondamentali della persona e di congegnare i primi in modo da assicurare il primato dei secondi81. E, tuttavia, non è detto: poiché non è del tutto escluso che la trama

con Introduzione di F. Ferrarotti, Milano, 1957, 40, per il quale “i delitti più grossi della Rivoluzione francese non furono quelli commessi contro gli individui ma quelli contro le istituzioni, i gruppi e gli status personali” –; e sono funzionali all’individuo, allo sviluppo della sua personalità, ai suoi diritti inviolabili che non possono esserne pregiudicati, né essere piegati a fini, interessi altri assunti superiori: cfr. P. Rescigno, op. ult. cit., 10, e Id., Le società intermedie, in Iustitia, 1957, 343 ss., e in Persona e Comunità. Saggi di diritto privato, I, cit., 29 ss., ivi 33), molteplici attori, “forze collettive precedentemente represse” che operano su diversi piani (economico, politico, culturale, sociale e così via) contribuiscono all’evoluzione dell’ordinamento (v. P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2005, 61; e Id., L’Europa del diritto, cit., 204, che fa l’esempio del “cosiddetto «diritto del lavoro»” segnalando che, nel Novecento, esso ha “[p]er buona parte … una matrice squisitamente extra-legislativa”).80 Nell’articolato dibattito che li riguarda e che riguarda il rapporto tra principi e regole, i diritti fondamentali hanno carattere di principi (v. pure G. Alpa, Le ‘autonomie contrattuali’ tra mercato e persona, ne La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà a cura di G. Alpa e V. Roppo, Roma-Bari, 2013, 204 ss., spec. 233 ss.) e i principi si configurano almeno come “precetti di ottimizzazione” (Optimierungsgebote): v. R. Alexy, Concetto e validità del diritto, Torino, 1997, 71 ss.; Id., Elementi fondamentali di una teoria della duplice natura del diritto, in Ars Interpretandi, 2010, 17 ss.; Id., Teoria dei diritti fondamentali, Bologna, 2012, 106 ss., 607. Ma la portata conformativa di questi ultimi risulta accentuata se si accolga la proposta del (neo)costituzionalismo garantista (o normativo) d’una riconfigurazione della distinzione tra principi e regole (quali precetti definitivi: definitive Gebote, nel linguaggio di Robert Alexy) collegata a una riclassificazione dei principi (talvolta direttivi, ma talaltra regolativi: v. L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in Giur. cost., 2010, 2771 ss., e Id., La democrazia attraverso i diritti, cit., §§ II e III) per superare la normatività più debole dei principi e dei valori – dunque anche dei diritti fondamentali – propria del costituzionalismo principialista (o argomentativo) sia nella versione “giusnaturalista” sia in quella “giuspositivista” (v. G. Pino, Principi, ponderazione, e la separazione tra diritto e morale. Sul neocostituzionalismo e i suoi critici, in Giur. cost., 2011, 965 ss. e, ivi, § 1.2., che si richiama anche per l’indicazione delle implicazioni – ruolo dei principi, del bilanciamento e della separazione tra diritto e morale – e, più in generale, per un’analisi critica della proposta del costituzionalismo garantista).81 Sulla distinzione tra principi e regole, nel senso di considerare i primi come “norme senza fattispecie” v. N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 36 ss. (che appare critico verso l’ascesa dei principi nell’argomentazione giuridica e la correlativa crisi della fattispecie, implicante uno spostamento “dei criterî di decisione giudiziaria al di sopra della legge”; contra, a es. L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 1 ss., fautore della teoria dei valori "positivizzati", e già Id., I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in Dir. lav., 1992, 3 ss., nonché, sui termini del confronto, v. N. Irti, Un incompiuto dialogo con Luigi Mengoni, in Eur. dir. priv., 2012, 197 ss.; per altre voci v., a es. G. Filanti, Valori, principi, fattispecie, cit., 720 ss., avverso all’“ascesa dalla fattispecie ai principi”, e F. Addis, Sulla contrapposizione tra norme e principi, in Giurisprudenza per principi e autonomia privata, cit., 219 ss. e, ivi, 244 ss., che viceversa l’asseconda, negando che vi sia “totale sovrapposizione tra certezza e calcolabilità”

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dell’ordinamento comunitario, siccome risulta anche dalle tradizioni comuni degli Stati membri – che riconoscono diritti fondamentali che di quello fanno parte in quanto principi generali (ex art. 6 TUE) che non riguardano necessariamente soltanto l’an82 –, permetta di costruire principi generali da esse attinti o su di esse modellati che, prima di operare come filtri che impediscono l’irruzione nell’ordinamento interno di regole eurounitarie incompatibili con i principi supremi della costituzione nazionale in ossequio alla teoria dei controlimiti, possano interferire contrastando l’accennata equivalenza o almeno orientando l’interpretazione delle fonti comunitarie e, tra l’altro, dell’art. 52 della Carta di Nizza83.

Non conviene invece risolvere il bilanciamento nel relativismo84 poiché,

– ivi, 245 – e congedando “l’obiezione sull’incalcolabilità” come “disagio” di chi “sia chiamato a mutare i propri strumenti conoscitivi e, in particolare, ad affiancare allo studio dello ius positum l’analisi giurisprudenziale” – ivi, 246; e cfr. N. Lipari, Il diritto civile tra sociologia e dogmatica (Riflessioni sul metodo), cit., 314 ss. –) e, a es. N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 1115 ss., G. Vettori, Regole e principi. Un decalogo, in Persona e mercato, 2015, 51 ss., che utilizza la distinzione tra “regole (con fattispecie) e … principi (senza fattispecie)”, nonché pure C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 30, che però si riferisce ai principi come a “regole” senza fattispecie; per l’avviso contrario a considerare i principi senz’altro come “norme senza fattispecie” v., a es., G. D’Amico, Problemi (e limiti) dell’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), cit., 387 s. In tema, v. pure G. Pino, I principi tra teoria della norma e teoria dell’argomentazione giuridica, in Dir. & quest. pubbl., 2011, 75 ss. Sul rapporto tra principi e valori, tal che i primi fanno «salire dal diritto ai valori, … che si celano o si calano nelle norme … Si celano, se i valori sono intesi come principî storici, creature del tempo, che l’interprete scopre o scova nel fondo delle norme positive. Si calano, se essi sono insediati fuori dalla storia, dati da sempre e per sempre, e tali che “si positivizzano”, di volta in volta, dentro singole norme», v. ancora N. Irti, La crisi della fattispecie, cit., 36 ss; e il volume Id., Un diritto incalcolabile, cit., passim. Il “problema” dell’incalcolabilità, i.e. “imprevedibilità – e perciò ingovernabilità –” del diritto, posto dal ragionamento “per principi privi di fattispecie”, dall’“ascesa … di un pensare per valori”, è preannunciato dalle clausole generali (v. C. Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, cit., 1), che costituiscono una singolarità priva di fattispecie che «sfugge allo stretto principio di legalità» (v. A. Gentili, Prefazione, a V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, XIII ss. e, ivi, XVI).82 A es. chi sostiene che possa configurarsi un principio di “supremazia del valore naturalistico … che esclude il bilanciamento dei valori e degli interessi” segnala la condizione della compatibilità con il modello di sviluppo socio-economico che è un limite alla quantità e all’estensione di parchi e riserve (v. G. Di Plinio, La protezione integrale della natura, in Principi di diritto ambientale a cura di G. Di Plinio e P. Fimiani, 2a ed., Milano, 2008, 12 s.).83 È questa una riconfigurazione del modello espresso dalla Consulta per cui il legislatore, persino quando provveda mediante leggi di revisione costituzionale, non può introdurre norme che sovvertano principi supremi modificandoli nel loro contenuto essenziale: v., a es., C. Cost., 29 dicembre 1988, n. 1146, in Foro it., 1989, I, 609 ss.84 Cfr. P. Perlingieri, “Dittatura del relativismo” e “tirannia dei valori”, cit., 225 ss.

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tra l’altro, come si è accennato, possono registrarsi disarmonie anche endogene ai diritti che si pongano al vertice della graduatoria (in ipotesi) bloccata, ch’essa è inidonea a risolvere da sé. Né in una “pericolosa deriva” rispetto a un (impalpabile) “valore intrinsecamente etico della giuridicità”85, per la medesima menzionata ragione e poiché non solo si ripiega il diritto sull’etica86 e le si assegna un ruolo maestro che sottintende l’ideale degli assoluti morali87, ma l’etica, essendo relativa all’agire per il bene, per un verso riguarda il dover essere assiologico, mentre il diritto ha un più lato fondamento (e contenuto) razionale che – vi si è fatto cenno – si estende alla razionalità dell’essere; e, per altro verso, rispetto ai valori e ai fini che promuove, lascia aperte alternative circa gli strumenti, le modalità per attuarli che possono essere plurimi e sono solitamente

85 Cfr. N. Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 42.86 Nella prospettiva del rapporto tra diritto e morale (che è “il” problema fondamentale della filosofia del diritto per G. Pino, Diritto e morale, in Che cosa è il diritto. Ontologie e concezioni del giuridico a cura di G. Bongiovanni, G. Pino e C. Roversi, Torino, 2016, 3 ss. e, ivi, 3), la loro separazione (su cui la ricerca può muovere da M. Barberis, Diritto e morale: la discussione odierna, in Revus, 2011, n. 16, 55 ss., e F. Viola, La teoria della separazione tra diritto e morale, negli Studi in memoria di Giovanni Tarello, II, Milano, 1990, 667 ss.) implica che dall’etica sia espresso un ordinamento normativo, distinto dal diritto, che si riassume nella morale, che dell’etica (descrittiva o normativa: etica applicata, etica filosofica normativa, metaetica) forma oggetto di studio.87 Viceversa, la morale e l’etica non muovono da premesse, né hanno contenuti, né offrono soluzioni e modelli incontroversi: non solo e non tanto perché si danno morali religiose e laiche diverse (v. a es. J. Rawls, Liberalismo politico, trad. it., Milano, 1994, 6 s.); esse tendono a mutare con i luoghi e il tempo, che propone realtà nuove; e i giudizi morali possono risentire del contesto in cui si tenga il comportamento. Di più. Di là di d’una semplicistica indulgenza per il relativismo, l’idea stessa degli assoluti morali non è condivisa: si può fare l’esempio dell’etica situazionale (contra, T.A. Salzman, Deontology and Teleology: An Investigation of the normative Debate in Roman Catholic Moral Theology, Leuven, 1995) dei consequenzialisti (v. J. Fletcher, Situation Ethics: The New Morality, Philadelphia, 1966) e dei proporzionalisti (v. B. Schüller, Zur Problematik allgemein verbindlicher ethischer Grundsätze, in Theologie und Philosophie, 1970, 4 ss.; per un’illustrazione dell’indirizzo, che riguarda anche Joseph Fuchs, Louis Jannsens Peter Knauer e Richard McCormick, v. R.M. Gula, What Are They Saying about Moral Norms?, New York, 1982, 61 ss.), per cui esiste un unico assoluto morale che impone di perseguire il maggior bene per il maggior numero possibile di individui, così dando alla morale un fondamento deontologico, cioè sul piano del dover essere, che non è metafisico, ma teleologico che bada ai fini; oppure di J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it., Milano, 1984, che, abbandonato l’utilitarismo a favore d’uno sviluppo del contrattualismo kantiano, sostiene (ivi, 43) la priorità del concetto di giusto (di giustizia come equità) rispetto a quelli di bene morale e valore morale (attingendo a I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it., Roma-Bari, 1979, 78, per cui “Il concetto del bene e del male non deve esser determinato prima della legge morale …, ma … dopo di essa e mediante essa”), così alterando la sequenza dei concetti fondamentali della filosofia morale (v. V. Possenti, Riflessioni su “Una teoria della giustizia” di John Rawls, in Persona y Derecho, 1993, n. 28, 121 ss. e, ivi, 125. Contra, per la difesa degli assoluti morali, v. a es. A. MacIntyre, After virtues: A Study in Moral Theory, Notre Dame, 1981.

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discussi. Né in una “filosofia” della sovranità del mercato attraverso il diritto, che in tal senso appianerebbe la tensione tra diritti economici e diritti fondamentali della persona88, poiché il bilanciamento postula la negazione di un valore o interesse assoluto rigidamente sovraordinato89; e poiché, se si sottintende una contrapposizione tra mercato e morale, si dà per scontata un’antitesi costante e naturale anziché registrare una più realistica tensione eventuale tra morale e mercato che di per sé è innocente, finendo per confondere la fisiologia con la patologia, l’amoralità e l’immoralità di alcuni con l’immoralità del tutto che mettono a rischio la sopravvivenza di quel tutto che in sé le ripudia e in ciò conviene che sia possibilmente assecondato dal diritto90. Né in un fenomeno 88 E che, per M. Barcellona, L’interventismo europeo e la sovranità del mercato: le discipline del contratto e i diritti fondamentali, in Eur. dir. priv., 2011, 329 ss. e, ivi, 344 s., non è “innocente” nell’accondiscendere all’insediamento del nuovo sovrano fin dall’inizio della modernità e nel consentirgli di “sconfiggere ogni altro pretendente al trono”, espandendo “ricorsivamente” il “codice monetario”.89 Senza peraltro negare l’esistenza di valori primari rispetto ad altri: non rifiuta la gerarchia, ma presuppone (e registra) il pluralismo dei diritti fondamentali, il “corale concorso di valori concomitanti” e ne propone la ponderazione caso per caso (cfr. F. Bravo, Sul bilanciamento proporzionale dei diritti e delle libertà ‘‘fondamentali’’, tra mercato e persona: nuovi assetti nell’ordinamento europeo?, cit., 193 s.) come tecnica per assicurarne la con-vivenza, quale modalità secondo cui vivono nell’ordinamento.90 L’ipotetica contrapposizione tra morale e mercato sembra una congettura ideologica che non appare sorretta da solidi fondamenti: per un verso, qualsiasi comportamento umano, in qualsiasi ambito si collochi, può essere conforme o difforme dalle regole morali che si assumano date; e, per altro verso, il mercato si regge sulla fiducia (in un supposto antagonista, che in realtà non è amico, né nemico, ma conclude il contratto) che è condizione dell’accordo e che, a sua volta, si regge sulla (presunzione di) moralità dei comportamenti in quel “luogo” tenuti. Il tema è assai arato: qui può bastare osservare che tra chi assume che un perfectly competitive market sia “a morally free zone” (v. D. Gauthier, Morals by Agreement, New York, 1986, 84), ossia un’area ove non operano moral constraints, un’arena in cui le valutazioni morali non giocherebbero alcun ruolo, si ammette che “the morally free zone created by the market can rise only within a deeper moral framework” che rifiuta force e fraud (ivi, 102) il che nega che the market sia morally free (per una critica a D. Gauthier, Justified Inequality?, 21 [1982] Dialogue 431 ss., v. D. Braybrooke, Preferences Opposed to the Market: Grasshoppers vs. Ants on Security, Inequality, and Justice, 2 [1984] Soc.Phil.& Pol’y 101 ss., anche nella trad. it. Id., La cicala e la formica: una parabola sul mercato, in Biblioteca della libertà, 1986, n. 93, 5 ss.); rilevare che il padre della social market economy ha posto in evidenza che “a competitive market economy, based on division of labor, was an excellent moral academy which, be appealing to their self-interest, encouraged men to be pacific and decent, as well as to practice all the other civic virtues” (W. Röpke, Die Gesellschaftkrisis der Gegenwart, Erlenbach-Zurich, 1942, ed. americana Id., The Social Crisis of Our Time, Chicago, 1942, 52), rimarcando che “[t]he market economy is a constantly renewed texture of more or less short-lived contractual relations. It can therefore, have no permanence unless the confidence which any contract presupposes rests on a broad and solid ethical basis in all market parties” (Id., Jenseits von Angebot und Nachfrage, Erlenbach - Zürich und Stuttgart, 1958, ed. americana Id., A Humane Economy: The Social Framework of the Free Market, Chicago, 1960, 125 s.), per quanto

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che appartiene al post-modernismo91 e, anzi, al “postdiritto”, che consegna al giurista il ruolo neppure più di “tecnocrate per antonomasia … cultore del positivismo legislativo o scientifico” con cui si sarebbe accreditato, ma di “bocca delle leggi economiche … o fonte di un ordine concettuale ricavato

debba darsi atto delle addizioni secondo cui “we know today … competition reduces the moral stamina and therefore requires moral reserves outside the market economy” (Id., The Social Crisis of Our Time, cit., 52) e “[m]arket and competition are far from generating their moral prerequisites autonomously … These prerequisites must be furnished from outside, and it is, on the contrary, the market and competition which constantly strains them, draw upon them, and consume them" (Id., A Humane Economy: The Social Framework of the Free Market, cit., 126), con cui si adombra non solo che il mercato non genera autonomamente regole morali, bensì le presuppone (il che casomai sarebbe coerente con la circostanza che la morale che costituisce un ordinamento normativo autonomo), ma entra costantemente in tensione con esse il che, però, (non solo appare in contraddizione con il rilievo per cui ““a competitive market economy … encouraged men to be pacific and decent, as well as to practice all the other civic virtues”, ma comunque) si risolve nel segnalare il rischio che il mercato dia occasione a comportamenti immorali che, tuttavia, per un verso sembrano addebitati, più che al mercato in sé, alla competizione (che, tra l’altro, si registra anche in altri “luoghi”) e, per altro verso, non paiono proprie del mercato, bensì di suoi attori – magari da quella sedotti – , di modo che non si dà una naturale immoralità del mercato, bensì si ha a che fare con la patologia, anziché con la fisiologia di esso che di per sé non è nemico, antagonista della morale, ma può semplicemente dare luogo a occasioni di scostamento da essa (con l’Aquinate sono “sempre l’intenzione dell’uomo (la causa finale è la prima) e il suo comportamento concreto, che determinano la moralità e le amoralità dei fenomeni finanziari e commerciali, non meno di quelli di altro genere: politica, successo, prestigio, potere”, v. L. Perotto, Introduzione alla Lettera alla Duchessa del Brabante, in T. d’Aquino, Opuscoli politici. De Regno ad Regem Cypri - Epistola ad Ducissam Brabantiae - De emptione et venditione ad tempus, trad. it e introduzione di L. Perotto, Bologna, 1997, 399 ss. e, ivi, 406; v. T. d’Aquino, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo, vol. 6, Bologna, 2000, l. III, d. 37, q. 1, a. 6, 4; cfr. D. Friedman, Morals and Markets: An Evolutionary Account of the Modern World, New York, 2008, spec. 169 ss., anche nella trad. it. Id., Morale e mercato. Storia evolutiva del mondo moderno, Torino, 2012, con Prefazione di G. Corbellini, per cui “i sistemi morali si sono evoluti in relazione alle regole che hanno governato lo scambio di beni tra gli esseri umani ... sistemi morali e logiche di scambio sono due facce della stessa medaglia”; Dan. Friedman e D. McNeill, Morals and Markets: The Dangerous Balance, 2nd edn., New York, 2013; in argomento, cfr. pure J. Coleman, Markets, Moral and the Law, Cambridge, Mass., 1988); e segnalare l’indirizzo (o il mutamento d’indirizzo) risultante dalle Considerazioni della Congregazione per la dottrina della fede decise in sessione ordinaria dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, date a Roma il 6 gennaio 2018 nella solennità dell’Epifania del Signore e intitolate Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, Roma, 2018, che, sul legame tra etica e denaro, profila che profitto e solidarietà non sono antagonisti e che, tuttavia, è auspicabile una regolamentazione esterna concernente le dinamiche dei mercati che ne preservi la base etica, la corrispondenza a regole morali (cfr. L. Einaudi, In lode del profitto e altri scritti a cura di A. Giordano, Torino, 2011, spec. 137 ss.).91 Cfr. L. Patruno, La “teologia economica” dell’Europa e il “banco da macellaio” (Schlachtbank) della Storia, in Costituzionalismo.it, f. 3/2011, http://www.costituzionalismo.it/articoli/394/.

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dalla scienza economica” in un quadro che sarebbe “oramai descrivibile in termini di sostanziale subordinazione” della politica all’economia92: se si assume e s’imputano tali effetti a un preteso “primato dell’economia”93, occorre tener conto che il bilanciamento giova, perché – come è appena parso di poter rilevare – contrasta totalizzanti primazie; che il diritto è “un” ordinamento normativo che, specie nella ricordata visione in cui se ne fonda la validità oggettiva sul principio di non contraddizione e dunque sull’intima razionalità del discorso (prescrittivo)94, attinge ad altre discipline ciò che a quest’ultima conviene, di modo che rispetto a esse non vi è chiusura95; che però non v’è confusione, diluizione dell’uno nelle altre, ma autonomia del primo che ha l’autonoma funzione (normativa) di selezionare e legittimare modelli (normativi) provvisti da altre scienze; e che, nel compiersi di questa finalità, il bilanciamento è tecnica che non solo può evitare che il diritto che tenda a mimare una monocromatica ideologia sia casomai munito di razionalità assiologica e, tuttavia, manchi della razionalità dell’essere, ma rivitalizza (o, senz’altro, riscopre) il ruolo del giurista per nulla passivo e tanto meno asservito96.

Altro conto è assumere un atteggiamento critico nei confronti delle modalità o degli esiti della ponderazione97; o, ancora, porre interrogativi su come sia

92 V. A. Somma, Comparazione giuridica, fine della storia e spoliticizzazione del diritto, in Diritto: storia e comparazione. Nuovi propositi per un binomio antico a cura di M. Brutti e A. Somma, Max Planck Institute for European Legal History Open Access Publication, Frankfurt am Main, 2018, 509 ss. e, ivi, 510 e passim (http://dx.doi.org/10.12946/gplh11).93 V. Id., op. ult. cit., 520 ss.94 V. A. Gentili, Il diritto come discorso, cit., a es. 497 ss., 503 ss.95 V. Id., op. ult. cit., a es. 97 ss.,105, 135.96 Cfr. P. Grossi, Percorsi nel giuridico pos-moderno, in Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2018, 90 ss., §§ 7 e 8, per il quale è riduttivo il “ruolo di esegeti” che “la modernità … ha buttato sulle spalle” dei giuristi; che li rende “servi della legge” ponendoli “sotto l’ombra protettiva” del legislatore; che si giova (anche) della “pigrizia culturale” che a lungo “ha reso … encomiabile … fornire apparecchi ortopedici alle claudicanze del legislatore” da parte loro; che coopera all’“ingabbiamento coercitivo e innaturale” delle fonti del diritto che “lo rinchiude nel sarcofago di un testo” e, così, alla “crisi del diritto” che “c’è, ma è crisi delle fonti” causata da una tale costrizione; che è “snaturazione … mortificazione” del giurista nella misura in cui l’esegesi non è “soltanto un primo passo”, ma “assorbe… l’intiera sua attività”; a cui si contrappone il più proprio ufficio di “interpreti/inventori” “ritrovato rispetto a civiltà giuridiche passate … fortemente promotivo nel distendersi storico di un assetto sociale” a cui “non sono … chiamati soltanto politici, sociologi, economisti”, rivestendo “[u]n ruolo privilegiato … il nuovo giurista” che passa anche per una concezione estesa delle fonti del diritto e la negazione d’una loro “interrelazione … meramente gerarchica” (v. pure la lectio magistralis Id., Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, Napoli, 2008, anche nell’antologia a cura di G. Alpa, Paolo Grossi, Roma-Bari, 2011, 19 ss.).97 A es., si lamenta un “bilanciamento sbilanciato” deplorando l’insufficiente peso riconosciuto “al lavoro e alla sua autonomia collettiva” e, in genere, un “deficit di socialità” dell’intera

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meglio tradurli in disposizioni entro plessi normativi, di portata più o meno ampia, chiamati a disciplinare particolari categorie di fattispecie98. In tali casi, a essere posto in discussione non è il bilanciamento in quanto tale a cui, in un contesto in cui appare consueta l’“incessante produzione e consumo di norme … che … rifiutano l’appello all’unità”99, parrebbe ingeneroso negare di aver favorito – in un’ottica di equilibrato (recte: graduale) percorso che si svolge su un terreno diverso da quello dell’insidioso scontro frontale tra ideologie – l’espansione del rilievo assunto dai diritti fondamentali della persona, in particolare in ambito eurounitario100; senza ridurlo nell’esperienza domestica in cui il ricorso alla tecnica in considerazione è risalente101 (sia pure con effetti talora ritenuti differenti102); e permettendo loro di fruire di una più articolata tutela

costruzione europea; o che il bilanciamento viene operato dal punto di vista delle “quattro libertà”, anziché “dei diritti sociali”: v. M. Barcellona, Le quattro libertà e i “diritti collettivi” del lavoro: un bilanciamento che non si sarebbe dovuto fare, ne I mobili confini del diritto privato a cura di L. Nivarra e A. Plaia, Torino, 2018, 31 ss. e, ivi, 36 s.98 A es., operata la “scelta di fondo che la libertà contrattuale non si possa spingere fino a legittimare la violazione di diritti fondamentali”, ossia ne costituiscano un limite, si segnala il “dilemma del legislatore moderno”: se cioè, ai fini dell’applicazione “corretta e certa del diritto”, all’interno della disciplina del contratto convenga “ignorare i diritti fondamentali” e lasciare che siano tutelati “per via di interpretazione”; oppure “menzionarli in modo che, qualunque sia il processo interpretativo, sia garantita la loro tutela” (v. G. Alpa, Le ‘autonomie contrattuali’ tra mercato e persona, ne La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà a cura di G. Alpa e V. Roppo, Roma-Bari, 2013, 204 ss. e, ivi, 239).99 V. N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., 8.100 Oltre alla giurisprudenza già citata (tra cui spec. Corte Giust. UE, 12 giugno 2003, causa n. 112/90, cit., 793 ss., e Corte Giust. UE, 14 ottobre 2004, causa n. 36/02, cit., 181 ss.), sulla penetrazione dei diritti fondamentali della persona v. pure, tra le altre, Corte Giust. UE, Grande Sezione, 13 maggio 2014, causa n. 131/12, in Foro it., 2014, IV, 295 ss.; e in dottrina, a es. G. Pino, La «lotta per i diritti fondamentali» in Europa. Integrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico, cit., 109 ss. per il quale se la Corte di Giustizia “ha spesso perseguito una strategia quantomeno di equiparazione (quando non di subordinazione) sul piano assiologico dei diritti fondamentali rispetto alle esigenze del mercato comune”, tuttavia ora “ammett[e] la possibilità di limitare le “libertà fondamentali” al fine di tutelare “diritti fondamentali” come riconosciuti dalle tradizioni costituzionali nazionali e dalla CEDU”, “[s]uperando gradualmente la tradizionale impostazione che poneva in posizione di prevalenza le libertà economiche e in posizione recessiva i diritti fondamentali”.101 Seguendo la ricostruzione di R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, cit., 56, il precedente che segna l’inizio del bilanciamento da parte della Consulta si può addirittura considerare C. Cost., 14 giugno 1956, n. 1, in Riv. dir. proc., 1956, II, 149 ss., che di quello pone il logico presupposto dei “limiti naturali” dei diritti.102 Per M. Barcellona, op. ult. cit., 37 s., mentre l’operazione di bilanciamento della Consulta serve ad accertare un eventuale sbilanciamento che determina la caducazione della norma che lascia rivivere la previgente disciplina o al legislatore di intervenire nuovamente (e, in questo senso, il giudice delle leggi “non bilancia”), la Corte di Giustizia ha un “potere di bilanciamento

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… interamente determinativo ed alla fine esclusivo … senza rinvio e senza alternativa” che “non ridà la parola alla polis … la eleva ad arbitro unico, la investe di una funzione … autenticamente politic[a]. Fino al punto che … la Corte finisce per porre essa stessa la regola”. Un potere d’incidere le leggi che, in termini generali, non è peraltro estraneo alla giurisprudenza della Corte costituzionale se non con riguardo alle sentenze interpretative (ma v. C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Tübingen, 1931, trad. it. Id., Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Milano, 1981, spec. 62, per cui “[l]a determinazione vincolante del contenuto di una legge costituzionale … dubbia è … legislazione costituzionale, non giurisdizione”; contra, in replica, H. Kelsen, Wer soll der Hüter der Verfassung sein?, in Die Justiz, VI [1930-31], 576 ss., trad. it. Id., Chi dev’essere il custode della costituzione?, a cura di C. Geraci, in Id., La giustizia costituzionale, Milano, 1981, 253 ss., che peraltro ivi dà atto che l’uso di termini generici da parte del legislatore reca “il pericolo di uno spostamento di potere … politicamente assai inopportuno”), almeno con riferimento a quelle manipolative – additive o sostitutive – (cfr. G. Parodi, Le fonti del diritto. Linee evolutive, nel Tratt. dir. civ. e comm. già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni e continuato da P. Schlesinger, Milano, 2012, 391 ss., 404 ss., 412 ss.), di là dell’attitudine di tale potere a colorare la Corte come “organo di iniziativa o codecisione legislativa” (per Kelsen, se per un verso la dichiarazione di incostituzionalità è “atto negativo di legislazione” e “un tribunale che ha il potere di annullare le leggi è di conseguenza organo del potere legislativo”, per altro verso poiché ciò “avviene in applicazione delle norme della costituzione, manca … la libera creazione che caratterizza l’attività legislativa … è principalmente applicazione e solo in misura esigua creazione del diritto, e quindi è veramente giurisdizionale”: v. risp. Id., Judicial Review of Legislation: A Comparative Study of the Austrian and the American Constitution, 4 [1942] Journal of Politics 183 ss., trad. it. Id., Il controllo di costituzionalità delle leggi. Studio comparato delle costituzioni austriaca e Americana, a cura di C. Geraci, in Id., La giustizia costituzionale, cit., 293 ss. e, ivi, 300; Id., La garantie juridictionnelle de la Constitution (La justice constitutionnelle), in Rev. dr. publ. et sc. pol., 1928, 197 ss., trad. it. La garanzia giurisdizionale della costituzione (La giustizia costituzionale), a cura di C. Geraci, in Id., La giustizia costituzionale, cit., 143 ss. e, ivi, 173; Id., op. ult. cit., 174); del connesso risalente dibattito sulla sua ammissibilità (per tutti, cfr. a favore F. Modugno, La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, I, 1646 ss.; Id., Corte costituzionale e potere legislativo, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia a cura di P. Barile, E. Cheli e S. Grassi, Bologna, 1982, 19 ss.; e, contra, G. Zagrebelsky, La Corte costituzionale e il legislatore, ivi, 103 ss.); e, dei limiti “teorici” all’esercizio di quello per ciò posti, nel tentativo di preservare il carattere giurisdizionale, non legislativo (i.e. radicalmente creativo) dell’intervento della Corte (è il caso della condizione di ammissibilità proposta da V. Crisafulli, La Corte costituzionale ha vent’anni, ne La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale. Bilancio di vent’anni di attività a cura di N. Occhiocupo, Bologna, 1978, 80 ss., che le sentenze additive siano scritte a “rime obbligate”, secondo una direttiva che diviene giustificazione e testualmente riecheggia nella giurisprudenza della Corte [a es. in C. Cost., 1 luglio 1993, n. 298, in Giust. civ., 1994, I, 3053 ss.; C. Cost., 3 marzo 1994, n. 70, in Giur. cost., 1994, 749 ss.; C. Cost., 23 giugno 1994, n. 258, in Giust. civ., 1994, I, 2708 ss.; C. Cost., 15 luglio 1994, n. 308, in Foro it., 1995, I, 32 ss.; C. Cost., 1 giugno 1995 n. 218, in Giur. it., 1995, I, 610 ss.; C. Cost., ord., 14 novembre 2006, n. 380, in Giur. cost., 2006, 3962 ss.; e C. Cost., ord., 19 dicembre 2006, n. 432, in Foro it., 2007, I, 1344 ss.]; a cui tiene luogo la più inflazionata presentazione della manipolazione come “la” «soluzione costituzionalmente obbligata» [tra le altre, v. C. Cost., 6 dicembre 2017, n. 256, in Giur. cost., 2017, 2720 ss.]; che

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multilivello che moltiplica le possibilità di loro protezione103.

4. Diritti fondamentali della persona e autonomie contrattuali

In relazione agli accennati profili, la valutazione da cui si sono prese le mosse esemplifica un modello in cui la segnalazione di istanze di ammodernamento si accompagna a proposte che si conciliano con il quadro di riferimento, favorendone la recezione in uno con l’ideale sottinteso. Qui, per l’appunto, unitamente alla tutela dei diritti fondamentali della persona104,

si precisa nel consentire la sola aggiunta che venga “trovata tra quelle a portata di mano o fatta derivare da un principio generale o, addirittura, tratta dalla stessa norma costituzionale violata” (V. Crisafulli, op. cit., 80 ss.); che si risolve nell’ammettere l’alterazione sol se la Consulta non introduca una propria creazione, ma si limiti a enunciare ciò che implicitamente, allo stato latente l’ordinamento già preveda, una “soluzione … logicamente necessitata ed implicita nello stesso contesto normativo” [v. C. Cost., ord., 14 novembre 2006, n. 380, cit., 3962 ss.] o, più latamente, “una estensione logicamente necessitata e spesso implicita nella potenzialità interpretativa del contesto normativo in cui è inserita la disposizione impugnata” ché altrimenti, ossia “[q]uando, invece, si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l’intervento della Corte non è ammissibile, spettando la relativa scelta unicamente al legislatore” [v. C. Cost., 23 aprile 1986, n. 109, in Foro it., 1985, I, 1761 ss., e C. Cost., 2 febbraio 1988, n. 125, in Giur. it., 1989, I, 30 ss.], non essendo consentite alla Corte valutazioni discrezionali proprie della funzione legislativa) o, almeno, di arginare il potere in discorso affinché non tracimi vistosamente nel terreno prettamente legislativo, ma caso mai addobbandosi con la veste d’una legislazione costituzionalmente obbligata (cfr. R. Bin, Bilanciamento degli interessi e teoria della Costituzione, in Libertà e giurisprudenza costituzionale a cura di V. Angiolini, Torino, 1992, 45 ss. e, ivi, 48, ove congeda lo schema delle “rime obbligate” come «la più “euclidea” (certo non la più affascinante) in fondo, delle forme poetiche»).103 Le fonti che li riconoscono si sono moltiplicate: alle Costituzioni nazionali si aggiungono la CEDU e la Carta di Nizza, ciascuna con le proprie Corti. Dal punto di vista della Drittwirkung dei diritti fondamentali, ciascuno degli organi giurisdizionali domestici, dopo il Trattato di Lisbona e il valore pari a quello dei Trattati da esso attribuito a quest’ultima (art. 6 TUE), hanno un’alternativa che si aggiunge all’itinerario classico: come ricorda A. Cardone, Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir. Annali, IV, Milano, 2011, 335 ss., in ipotesi di norme interne che entrino in conflitto con tali diritti, anziché sollevare la q.l.c. dinanzi alla Consulta, è divenuto possibile procedere alla disapplicazione della norma interna incompatibile sul presupposto del primato del diritto comunitario (su cui già Corte Giust. CEE, 15 luglio 1964, causa n. 6/64, cit., 137 ss., e poi C. Cost., 8 giugno 1984, n. 170, cit., 1098 ss.). Inoltre, nel caso in cui si tratti di norme comunitarie, il giudice nazionale può sollevare la questione pregiudiziale di validità ex 267, par. 1, lett. b, TFUE (cfr. Corte giust. UE, Grande Sezione, 8 aprile 2014, cause riunite n. 293/12 e n. 594/12 , in Giur. cost., 2014, 2948 ss.).104 V., a es., G. Alpa, I diritti dei consumatori e il «Codice del consumo» nell’esperienza italiana, in Contr. e impr. Eur., 2006, 3 ss., e V. Scalisi, La teoria del negozio giuridico a cento anni dal BGB,

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con particolare riguardo alla dignità105, la difesa dei quali ha guadagnato progressivamente spazio anche nell’area delle vicende negoziali in cui essi possono operare come limitazioni che condizionano le manifestazioni dell’autonomia contrattuale106. Essi possono cioè concorrere a conformare quest’ultima107 che, rispetto alla sua configurazione classica108, si è evoluta

in Riv. dir. civ., 1998, I, 535 ss.105 Cfr. N. Irti L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, 108 ss.106 V. G. Alpa, Le ‘autonomie contrattuali’ tra mercato e persona, cit., 204 ss., che trattando dei nuovi aspetti del dibattito sulla autonomia contrattuale, pone in luce i nessi tra la regolazione del mercato e la regolazione del contratto (ivi, 223), proponendo i diritti fondamentali come limite all’autonomia contrattuale (ivi, 227 ss.) ascrivendo loro la natura di principi generali (ivi, 233 ss.). V. pure G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e integrazione del contratto, cit., 247 ss.; R. Caterina, Principi generali e strategie neosistematiche nel dibattito sull’autonomia contrattuale, in Giurisprudenza per principi e autonomia privata a cura di S. Mazzamuto e L. Nivarra, Torino, 2016, 201 ss., e F. Addis, Sulla contrapposizione tra norme e principi, cit., 219, per il quale l’incidenza dei principi sull’autonomia contrattuale implica il superamento dell’idea ch’essa “incontri solo limiti eccezionali ed analiticamente predeterminati dal … legislatore”.107 Sull’attuale conformazione dell’autonomia contrattuale, v. G. Alpa, Autonomia delle parti e libertà contrattuale, oggi, in Draft common frame of reference del diritto privato europeo a cura di G. Alpa, G. Iudica, U. Perfetti, e P. Zatti, Padova, 2009, 4 ss., nonché Id., Party Autonomy and Freedom of Contract Today, in The Politics of the Draft Common Frame of Reference a cura di A. Somma, Austin, Boston, Chicago, New York, The Netherlands, 2009, 71 ss. (per il rilievo che se ne dedurrebbe che il contratto sarebbe strumento di giustizia non solo commutativa, ma pure distributiva v. A. Somma, Preface, ivi, xv ss. e, ivi, xxiv; in tale prospettiva, v. pure Id., Giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2005, 75 ss.; Id., Buona fede e giustizia contrattuale e gestione del conflitto sociale, in A. D’Angelo, P.G. Monateri e A. Somma. Buona fede e giustizia contrattuale. Modelli cooperativi e modelli conflittuali a confronto, Torino, 2005, 75 ss.; e M. Mantello, Libertà contrattuale e problemi giuridici della solidarietà, Milano, 2007). Amplius, v. G. Alpa, Il contratto in generale. I. Fonti, teorie, metodi, nel Tratt. dir. civ. e comm. già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni e continuato da P. Schlesinger, Milano, 2014, a es. 154 ss., 299 ss., 399 ss., 419 ss., 555 ss. (per una sintesi, v. Id., Il contratto in generale. Principi e problemi, Milano, 2014).108 Su cui v. a es. G. Zanobini, Autonomia pubblica e privata, negli Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, 183 ss.; Salv. Romano, Ordinamenti giuridici privati, Milano, 1955; Id., Autonomia privata (Appunti), Milano, 1957; F. Santoro Passarelli , L’autonomia dei privati nel diritto dell’economia, in Dir. econ., 1956, 1213 ss.; F. Carresi, Autonomia privata nei contratti e negli altri atti giuridici, in Riv. dir. civ., 1957, I, 265 ss.; L. Ferri, L’autonomia privata, Milano, 1959; S. Pugliatti, Autonomia privata, in Enc. dir., IV, Milano, 1959; cfr. E. Betti, Autonomia privata, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1958, 1559 ss.

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sul piano non solo istituzionale109, ma anche delle regole operazionali110, specie via via che si sono colte nuove prospettive di osservazione dei fenomeni giuridicamente rilevanti da cui li si guarda considerandone la

109 Con la severa, all’epoca dissidente critica al negozio giuridico – che è anche il portato della crisi delle ideologie sottostanti la sua costruzione – avviata e condotta da F. Galgano, Il problema del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, 391 ss., Id., Negozio giuridico (premesse, problematiche e dottrine generali), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 945 ss., Id., Teorie e ideologie del negozio giuridico, in Categorie giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico a cura di Salvi, Milano, 1978, 59 ss., Id., Crepuscolo del negozio giuridico, in Contr. e impr., 1987, 733 ss., Id., Il negozio giuridico, nel Tratt. dir. civ. e comm. già diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, III, t. 1, Milano, 1988, che lo risolve nel contratto e lo derubrica da categoria logica a «categoria analogica» (ivi, 16); v. pure P. Perlingieri, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, 134, nt. 376, e, per un’anticipazione, M. Giorgianni, Crisi e ideologie nel negozio giuridico, in Riv. dir. agr., 1972, I, 381 ss., e Id., Il diritto privato e i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1961, 391 ss. Contro il negazionismo, v. l’immediata, contrapposta, più tradizionale voce di G. Mirabelli, Negozio giuridico (teoria), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1977, 1 ss.; U. Natoli, In difesa del negozio giuridico, in Categorie giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico, cit., 261 ss.; G.B. Ferri, Il negozio giuridico, 2a ed., Padova, 2004, 11 s., 70 s., 80 ss., e v. già Id., Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966; Id., Equivoci e verità sul negozio giuridico e sulla sua causa, in Riv. int. fil. dir., 2008, 171 ss.; C. Castronovo, Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona, in Eur. dir. priv., 2009, 87 ss. e, ivi, 92; S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, 3a ed., Torino, 2017 81 ss. Per la collocazione del problema in prospettiva storica, v. P. Rescigno, Appunti sull’autonomia negoziale, in Categorie giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico, cit., 120 ss., anticipato da Id., L’autonomia dei privati, in Iustitia, 1967, 3 ss. Delinea una più ampia crisi, che investe la fattispecie contrattuale, N. Irti, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, 11 ss. (che si riallaccia a Id., Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004; Id., Il salvagente della forma, Roma- Bari, 2007; e Id., Diritto senza verità, Roma-Bari, 2011), Id., La crisi della fattispecie, cit., 36 ss., Id., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, 987 ss., Id., Un contratto ’incalcolabile’, cit., 109, ora riuniti, con altri scritti, nel volume Id., Un diritto incalcolabile, cit., passim; per un più cauto orientamento, v. a es. A. Cataudella, Nota breve sulla fattispecie, in Riv. dir. civ., 2015, 245 ss., e G. D’Amico, Problemi (e limiti) dell’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), cit., 387.110 Cfr., a es., G. Amadio, Letture sull’autonomia privata, Padova, 2005, e Id., Lezioni di diritto civile, 2a ed., Milano, 2016.

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portata economico-sociale111 e costituzionale112.Lo possono – così espandendo la rete di loro protezione e rendendo più

articolate le cause della tradizionale tensione tra autonomia privata e limiti113 posti dagli ordinamenti giuridici114 – anche al di là delle norme di fonte legislativa che provvedano loro tutele tipiche, ossia pure dove non vi siano (o non arrivino, avuto riguardo alle rispettive finalità) discipline che delineino modelli positivizzati di loro salvaguardia. Tali regole, se sono precipitati

111 V. le intuizioni di T. Ascarelli, Norma giuridica e realtà sociale, in Dir. econ., 1955, 1179 ss., Id., Per uno studio della realtà giuridica effettuale, ivi, 1956, 775 ss., Id., Certezza del diritto e autonomia delle parti nella realtà giuridica, ivi, 1956, 1238 ss., Id., Ordinamento giuridico e processo economico, in Riv. dir. lav., 1958, 275 ss., che diedero luogo a qualche polemica su diversi temi – cfr. a es. Id., La dottrina commercialista italiana e Francesco Carnelutti, in Riv. soc., 1960, 1 ss., e F. Carnelutti, Certezza, autonomia, libertà, diritto, in Dir. econ., 1956, 1193 ss. –: per P. Grossi, Scienza giuridica italiana, Milano, 2000, 284 ss., “Filippo Vassalli e Ascarelli saranno le manifestazioni più vive e più nitide di una consapevolezza svecchiatrice, ma … espressioni di un filone di pensiero giuridico … minoritario nella grande fiumana d’una dottrina ancora conquistata da legalismo e formalismo”; si vedano, poi, L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, negli Studi in onore di Alberto Asquini, III, Padova, 1965, 1077 ss., P. Trimarchi, Sul significato economico dei criteri di responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, 512 ss., e P. Barcellona, Diritto privato e processo economico, Napoli, 1973.112 Per tutti, v. P. Rescigno, Per una rilettura del codice civile, cit., 208 ss.113 Su questo classico tema, tra gli altri, v. P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969; A. Pavone La Rosa, Autonomia privata e formazione eteronoma del regolamento contrattuale, in Riv. not., 1970, I, 216 ss.; A. D’Antonio, La modificazione legislativa del regolamento negoziale, Padova, 1974; M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975; G.B. Ferri, Il negozio giuridico tra libertà e norma, Rimini, 1987, 47 ss.; Id., Il negozio giuridico, 2a ed., cit., 51 ss.; P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, 231 ss.; G. Grisi, L’autonomia privata. Diritto dei contratti e disciplina costituzionale dell’economia, Milano, 1999; A. Somma, Il diritto privato liberista. A proposito di un recente contributo in tema di autonomia privata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, 263 ss.; A.M. Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Torino, 2002; Id., L’eterno ritorno. A proposito dell’autonomia privata e dei suoi limiti, in Pol. dir., 2009, 259 ss.; U. La Porta, Limiti dell’autonomia nei contratti di scambio, in Spontaneità del mercato e regole giuridiche. Il ruolo del notaio coord. da P. Schlesinger, Milano, 2002, 157 ss.; R. Caterina, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2005, II, 771 ss.; S.M. Carbone, L’autonomia privata nei rapporti economici internazionali ed i suoi limiti, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 891 ss.; N. Lipari, Fonti del diritto e autonomia dei privati (Spunti di riflessione), in Riv. dir. civ., 2007, I, 727 ss.; F. Criscuolo, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, in Tratt. dir. civ. Cons. Naz. Not. diretto da P. Perlingieri, IV, 1, Napoli, 2008; S. Mazzamuto, Libertà contrattuale e utilità sociale, in Eur. dir. priv., 2011, 365 ss.; Id., Dottrine dell’autonomia privata dall’Italia all’Europa, ivi, 2009, 591 ss.; E. Giorgini, Ragionevolezza e autonomia negoziale, Napoli, 2010.114 Le cui differenze danno luogo a fenomeni di forum shopping: v., a es., il volume collettaneo a cura di A. Zoppini, La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Roma-Bari, 2004, ove la voce pre-occupata di A. Somma, Mercificare il diritto. La via liberista alla tutela della differenza, ivi, 58 ss.

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della rilevanza dei diritti in questione, non ne sono esaustive (se non altro non necessariamente), né esauriscono (perlomeno non ineluttabilmente) i modi in cui essa può manifestarsi, nemmeno nell’area in cui le prime sono chiamate a operare e in cui esse delineano assetti e schemi discrezionalmente forgiati e proposti dal legislatore: ciò almeno parrebbe se a quei diritti si riconosca efficacia orizzontale115 e li si reputi parametri di costituzionalità/validità in concorso con il canone della ragionevolezza.

La posizione dei diritti fondamentali della persona che si attesti al più alto livello dei valori ordinamentali (e a cui tali presupposti si associano), peraltro, ne avvantaggia un (più immediato) effetto conformativo dell’autonomia

115 Per un quadro degli indirizzi interpretativi concernenti l’applicazione dei diritti fondamentali ai rapporti tra privati, v. l’antologia a cura di G. Alpa e G. Conte, Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali, cit., passim, che offre una panoramica dei diversi modelli che operano all’interno di differenti esperienze giuridiche europee. A livello istituzionale, v. la sintesi di A. Gentili, Le fonti del diritto privato e l’interpretazione, nel Manuale del diritto privato a cura di S. Mazzamuto, 2a ed., Torino, 2017, 3 ss. e, ivi, 28 s.: se si accantona l’irrilevanza dei diritti fondamentali, si può predicare loro un’efficacia (solo) verticale, che riguarda i rapporti con lo Stato ed è quella da più tempo riconosciuta; oppure (anche) orizzontale, che riguarda i rapporti tra privati, permette loro d’incidere su questi ultimi, sull’autonomia privata, segnatamente contrattuale, e costituisce una più recente e discussa acquisizione. Tra l’altro, l’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali può essere (e si discute se sia) diretta o indiretta, i.e. immediata o mediata. Nel primo caso, possono essere fatti valere di per sé, cioè costituiscono fondamento di pretese, poteri, immunità su di essi costruiti. Nel secondo caso, possono essere fatti valere in conformità delle scelte del legislatore, in applicazione (cioè invocando non già il diritto fondamentale in sé, bensì l’applicazione) di norme che ne esprimono scelte esplicite, ma anche di clausole generali da esso poste, che si prestano a essere (im)piegate (recte: interpretate nel senso più conforme) alla tutela del diritto fondamentale, con predilezione per quella di buona fede (in tal senso sembra orientata l’esperienza tedesca: v. W.C. Canaris, L’incidenza dei diritti fondamentali sul diritto privato tedesco, in Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali, cit., 153 ss.; e P.G. Monateri e A. Somma, Il modello di Civil Law, 4a ed., Torino, 2016, 166, ove si ricorda che dopo un primo momento in cui s’ipotizzò che i diritti “fondamentali” contemplati dalla legge “fondamentale” tedesca fossero caratterizzati da un’efficacia immediata, prevalse l’indirizzo affermato dalla Corte costituzionale della “precettività mediata” di quelli attraverso le clausole del buon costume e della buona fede). Un’opzione, specie quella che si richiama alla buona fede, che un poco dissimula e non è scevra di pericoli: non tanto perché un diritto o è o non è (non potendosi disconoscere le prerogative conformative del legislatore, sia pure nel limite della ragionevolezza e della totale trascuratezza d’un diritto detto fondamentale), ma perché dietro alla fedeltà al dato positivo qui sta una (più) accentuata discrezionalità riservata all’interprete nell’incidere sull’effettività del diritto (fondamentale); e ciò reca pericoli perché, seguitando, sulla clausola della buona fede si fondò la risoluzione d’un contratto di locazione perché concluso con un contraente ebreo (v. P. Kindler, Il ricorso dei Giudici alle clausole generali in Germania, in Contr. e impr. Eur., 1998, 662 ss. e, ivi, 664). Una alternativa parrebbe (almeno nella prospettiva del diritto civile e, in particolare, della sanzione della nullità) la considerazione dei diritti fondamentali nella prospettiva della violazione, con essi, dell’ordine pubblico.

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contrattuale attraverso la (loro penetrazione nella) legislazione, in cui s’incuneano non soltanto (e non tanto) attraverso l’interpretazione del dato positivo semplicemente orientata alla loro tutela, a mo’ d’argomento; ma direttamente, divenendone la protezione (anche nei rapporti economici) una finalità della normazione. Un esempio storicamente accreditato è costituito dal diritto del lavoro116; ma – per quanto in particolare attiene al rapporto tra persona e mercato (o economia) e in relazione alla valutazione ricordata in avvio di discorso – gli si affianca il diritto dei consumatori nelle sue varie articolazioni, incluse le parti che si possono attingere ai plessi normativi concernenti i cc.dd. settori (o mercati) regolamentati (recte: più specificamente regolamentati), che formano oggetto del diritto dell’economia.

Il diritto dei consumatori, infatti, non sembra puramente ripiegato sul componimento degli interessi economici tra le parti in conflitto, ma altresì orientato alla difesa dei diritti fondamentali della persona117, tanto più che la protezione dei consumatori è finalità oramai da tempo menzionata dalle fonti comunitarie distintamente dai più tradizionali obiettivi mercantili. Di là di soggettive preferenze per l’anteposizione di questi ultimi rispetto a quelli di natura economica118 e della contingente tassonomia dei diritti del consumatore119, un’interpretazione delle disposizioni a tutela del contraente debole nell’ottica della protezione della persona si reputa giustificata, se non pretesa, nell’ordinamento interno, anche dall’art. 41 Cost. che esprime un

116 Il diritto del lavoro considera il lavoratore “come ‘persona’ fornita di dignità sociale prima ancora che come ‘contraente debole’” per P. Campanella, Prestazione di fatto e contratto di lavoro. Art. 2126, ne Il Codice Civile. Commentario fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2013, 98.117 Per tutti, v. G. Alpa, I diritti dei consumatori e il «Codice del consumo» nell’esperienza italiana, cit., 3 ss.118 V., a es., V. Scalisi, La teoria del negozio giuridico a cento anni dal BGB, in Riv. dir. civ., 1998, I, 535 ss., per cui il valore di vertice e di centro del diritto positivo è la persona e non il mercato che, in quanto espressione di una logica economicistica e patrimonialistica, le è sottordinato in posi-zione servente; e P. Perlingieri, Mercato, solidarietà e diritti umani, in Rass. dir. civ., 1995, 82 ss.119 Sull’elencazione dei diritti fondamentali del consumatore, ricollegati all’allora vigente art. 153 Trattato CE – risultante dal Trattato di Amsterdam del 1997, in vigore dal 1° maggio 1999, e dalla conferma del Trattato di Nizza del 2001, in vigore dal 1° febbraio 2003: anteriormente v., dapprima, l’art. 100A Trattato CEE così come modificato dall’Atto unico europeo, in vigore dal 1° luglio 1987, e, poi, dopo il Trattato unico europeo di Maastricht, in vigore dal 1° novembre 1993, gli artt. 100A e 129A Trattato CE; ora, a seguito del Trattato di Lisbona in vigore dal 1° dicembre 2009, v. gli artt. 12 [ex art. 153, co. 2, Trattato CE], 114 [ex art. 95 Trattato CE, integrato recuperando al co. 3 la parte dell’art. 100A del Trattato CE precedente il Trattato di Amsterdam, che l’aveva espunta] e 169 [ex art. 153, co. 1, 3, 4 e 5, Trattato CE] TFUE – , v. G. De Cristofaro, Il «Codice del consumo», in Nuove leggi civ. comm., 2006, 747 ss.

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principio di libertà (economica), ma anche un vincolo rappresentato da fini sociali120.

Si tratta di un’angolatura e una concezione che non evocano la persona per giustificare costituzionalmente l’autonomia privata e riconoscere nel contratto un valore primario dell’ordinamento, in quanto inerenti alla persona e per ciò costituzionalmente protetti dall’art. 41, ma anche dagli artt. 2 e 3 Cost.121; non si risolvono nel notare che, compatibilmente con una loro interpretazione che le funzionalizzi innanzi tutto al mercato, le regole del mercato fanno appello alla libertà positiva – dei produttori, nell’iniziativa e nella competizione, e dei consumatori, nella scelta dei beni e della consapevole decisione – nella quale, pure, la dignità della persona risiede122; ma fanno dei diritti fondamentali di quest’ultima un criterio di diretta conformazione delle regole123. Ciò sul presupposto che la libertà economica o senz’altro il mercato si confrontino con altri valori di rilevanza costituzionale, che includono tali diritti e che configurano l’una e l’altro seppure con un’incidenza variabile in ragione delle convinzioni dell’interprete: della predilezione ad ampliare gli spazi del bilanciamento dei diversi valori considerandoli coralmente concorrenti, nel convincimento che il pluralismo, la concomitanza di questi s’accompagni a un loro concorso tendenzialmente corale; oppure a costruire più rigide gerarchie che quel bilanciamento puntano a contenere, se non escludere124.

Parrebbe eccessivo estendere l’accennata chiave di lettura a tutte le norme concernenti contratti che siano (o sovente possano essere) asimmetrici125, di cui sia (o sovente possa essere parte) un contraente “debole”. Sembrano

120 V. V. Buonocore, Rapporti economici, ne I Princípi fondamentali. La Corte costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale. I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale, Napoli, 2007, 75 ss., e, ivi, 79.121 Così G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti a cura di G. Vettori, Padova, 1999, 799 ss. e, ivi, 806.122 V. N. Irti L’ordine giuridico del mercato, cit., 108 ss.123 Cfr., in termini generali, M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1974, a es. 81.124 Cfr., a es., P. Perlingieri, Mercato, solidarietà e diritti umani, cit., 103, per il quale la libertà economica e la funzione stessa del mercato sono configurate dai valori costituzionali inviolabili, quali sono i diritti dell’uomo, e inderogabili, qual è la solidarietà economica, politica e sociale: tal che l’una e l’altro debbono realizzarsi in conformità di detti valori, facendosi prevalere la dimensione dell’essere su quella dell’avere.125 Sulla categoria, per tutti v. V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, 769 ss., e ne Il contratto del duemila, 2a ed., Torino, 2005, 23 ss.; Id., Dal contratto del consumatore al contratto asimmetrico (schivando il terzo contratto)?, in Remedies in contract a cura di G. Vettori, Padova, 2009, 207 ss.; A.M. Benedetti, Contratto asimmetrico, in Enc. dir. Annali, V, Milano, 2012, 370 ss.

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sfuggire le discipline di rapporti che – anche a concedere che siano (tosto) sempre asimmetrici e conclusi in posizione di debolezza dalla controparte del contraente obbligato alla prestazione caratteristica – si applichino a “tutti” i rapporti riguardati a prescindere da particolari connotazioni soggettive della parte a presidio del cui interesse negoziale le norme siano in tesi poste. L’ambito applicativo esteso anche a rapporti in cui l’ipotetica parte debole non sia sempre un essere umano, ma possa essere un ente, sembra escludere la possibilità di predicare senz’altro a tali discipline la finalità “della tutela della dignità dell’individuo”126: tanto più, ma a conforto non necessario, se alla normativa riferita a “tutti” si affianchino regole dettate solo per alcuni dei rapporti oggetto della prima e applicabili in quanto in essi siano individui a rivestire il ruolo di parte protetta127. In tali casi, una lettura che muova nella prospettiva della strumentalità del contratto al mercato e privilegi interpretazioni della disciplina di portata più generale che ne riconoscano e postulino la funzione regolatrice del mercato sembra più appropriata e pertinente.

126 Nell’ottica della persona la disciplina del contratto asimmetrico, in particolare di quello del consumatore, è letta da A. Perulli, Diritto del lavoro e diritto dei contratti, in Riv. it. dir. lav., 2007, I, 427 ss., per accreditare un avvicinamento del diritto del lavoro al diritto civile o, meglio, al diritto (speciale o ai diritti speciali) dei contratti con contraente debole, siccome anch’essi normati in vista della tutela della dignità dell’individuo.127 È, per esemplificare, il caso della disciplina posta a presidio della c.d. “trasparenza bancaria” che tradizionalmente e in modo irriflesso si reputa riferita a contratti in cui il cliente (della banca) è parte debole (cfr., a es., G. Cavalli, Contratti bancari su modulo e problemi di tutela del contraente debole, Torino, 1976; V. Allegri, Nuove esigenze di trasparenza del rapporto banca-impresa nell’ottica del contraente debole, in Banca, borsa tit. cred., 1987, I, 56 ss.; G. Carriero, Trasparenza bancaria, credito al consumo e tutela del contraente debole, in Foro it., 1992, V, 354 ss.) e a rapporti al cui “riequilibrio” sarebbe volta (v., a es., A.A. Dolmetta, Per l’equilibrio e la trasparenza nelle operazioni bancarie. Chiose critiche alla l. n. 154 del 1992, in Banca, borsa tit. cred., 1992, I, 381 ss., e A. Maisano, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie: la difficile transizione dal diritto della banca al diritto bancario, Milano, 1993.), ma che, per un verso, si applica a tutti (quanto ai capi contenenti gli artt. 115 – 120-quater t.u.b., ma v. l’art. 118, co. 2-bis, quanto al jus variandi; gli artt. 126-bis – 126-novies t.u.b. sui servizi di pagamento, peraltro suppletivi, ex art. 126-bis, co. 3, se il cliente non sia un consumatore né una micro-impresa, fermo però quanto disposto dal Regolamento UE, n. 2015/751; gli artt. 127 – 128-ter t.u.b.) e si può considerare come una normativa prototipica del contratto asimmetrico proprio perché prescinde da particolari connotazioni soggettive della parte a presidio del cui interesse negoziale è posta; e, per altro verso, è per l’appunto integrata da norme specificamente dettate con riferimento a rapporti in cui il cliente della banca sia una persona fisica con i caratteri del consumatore (artt. 120-quinquies – 120-noviesdecies t.u.b., relativi al credito immobiliare ai consumatori; artt. 121 – 126 t.u.b., concernenti il credito ai consumatori; artt. 126-decies – 126-vicies sexies t.u.b., riguardanti i conti di pagamento) secondo le definizioni di quest’ultimo offerte dagli artt. 120-quinquies, co. 1, lett. b, 121, co. 1, lett. b, 126-decies, co. 3, lett. e, t.u.b.

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Ma, con questa precisazione, non sembra ardito un accostamento del diritto del lavoro al diritto dei consumatori128 e, più in generale, a discipline del diritto civile (contrattuale) e di diritto (privato) dell’economia che si (pre)occupino della tutela dell’interesse negoziale d’una parte che sia un individuo nel quadro di rapporti asimmetrici129. Il che introduce alla seconda delle idee sottese alla valutazione da cui si è partiti: l’inversione del processo che condusse dallo status al contratto cristallizzato nelle codificazioni ottocentesche130, ossia a un rovesciamento131 che ricolloca il primo in una più nobile dimensione annettendogli, in particolare, una funzione di protezione132.

Quel già menzionato sguardo posato sull’individuo, che lo osserva nella sua dimensione concreta, non soltanto ne fa cogliere il peculiare tratto dell’umanità, ma fa anche emergere le differenze tangibili che percorrono le società, che cioè esistono tra gli esseri umani133; dunque, l’illusorietà dell’ideale loro teorica parità, ossia d’una eguaglianza formale predicata in astratto a tutti i soggetti di diritto134 che si confronta con l’assetto fattuale di società percorse da iniquità; e i limiti d’un diritto fittiziamente egualitario predicato a società di diseguali, ossia insensibile alle diseguaglianze materiali. L’attenzione che cada sull’individuo comporta, se non un radicale passaggio “dall’astrattezza

128 V. A. Perulli, Diritto del lavoro e diritto dei contratti, cit., 427 ss.129 Sulle articolazioni dell’asimmetria informativa, economica e relazionale v. A. Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, ne Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, a cura di E. Navarretta, Milano, 2008, 355 ss. Sull’asimmetria informativa in particolare, v. A. Gentili, Informazione contrattuale e regole dello scambio, in Riv. dir. priv., 2004, 555 ss., e la monografia di M. De Poli, Assimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, 2002.130 La formula “dallo status al contratto” si suole attribuire a H.S. Maine, Ancient law, London, 1861, anche nella trad. it. Diritto antico a cura di V. Ferrari, Milano 1998.131 Su cui v. G. Alpa, Status e capacità giuridica, in Vita not., 1992, I, 433 ss.; Id., La rinascita dello status, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Bologna 1992, 435 ss.; amplius, Id., Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, cit., passim. Sull’inversione del processo, i.e. sul ritorno dal contratto agli status v. già M. Rehbinder, Status, Contract, and the Welfare State, 23 [1971] Stan. L Rev 941 ss.; P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, 209 ss.; Id., Status. I) Teoria generale, in Enc. giur., XXX, Roma, 1993, 1 ss.; Id., Status e capacità, ne I mobili confini dell’autonomia privata a cura di M. Paradiso, Milano, 2005, 15 ss.; N.J. Jamieson, Status to contract – Refuted or Refined, 39 [1980] Cam. L. f. 333 ss.; D. Cohen, The Relationship of Contractual Remedies to Political and Social Status: A Preliminary Inquiry, 32 [1982] U. Toronto L. f. 31 ss.; e, poi, A. Bruns, Die Vertrgsfreiheit und ihre Grenzen in Europa und den USA – Movement from Contract to Status?, in Juristenzeitung, 2007, 385 ss.132 V. G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, cit., 24 ss.133 V. P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., 96 ss.134 V. P. Rescigno, Soggetti e persona, cit., 21 ss.

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della soggettività alla concretezza della persona”135, una giustapposizione136 della persona al soggetto; e, con l’affiancamento dell’analisi concreta alla sintesi astratta che è il riflesso dell’interesse rivolto alla persona, affiorano scarti e l’esigenza di tenerne conto che assecondano, se non impongono l’accoglimento di un principio di uguaglianza sostanziale137. Cosicché si pongono le basi per l’introduzione di precetti diversificati per categorie di individui interessati, isolate considerando questi ultimi in concreto in relazione alle specificità delle loro condizioni138, alle caratteristiche loro peculiari suscettibili di sintetizzarsi in status; e di esprimere particolari bisogni della persona che ne sia rivestita.

Anche a questo proposito, è il diritto del lavoro l’esempio storicamente accreditato, ché costituisce un modello di disciplina che – non soltanto, come si è accennato, “ha fatto emergere … la considerazione normativa [di] un uomo in carne e ossa … [alias di] un concetto ‘concreto’ di persona”139 e dei diritti fondamentali della persona (del lavoratore) fornita di dignità140 in veste conformativa di regole di diritto contrattuale, ma così facendo – avvalora diritti contrattuali confezionati su status. Ma, anche a questo proposito, gli si affianca il diritto dei consumatori, che alimenta la tendenza che è stata avviata dal diritto del lavoro141 ed è divenuta un elemento

135 V. N. Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 55 ss.136 V. G. Oppo, Declino del soggetto e ascesa della persona, cit., 829 ss.137 Tra i tanti, cfr. P. Rescigno, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, 1515 ss.; Id., Sul cosiddetto principio di uguaglianza in diritto privato, in Foro it., 1960, II, 666 ss.; e B. Caravita, Oltre l’eguaglianza formale. Un’analisi dell’art. 3 comma 2 della Costituzione, Padova, 1984, 19 ss., 58 ss. e passim.138 La considerazione dell’essere umano “nella specificità delle sue condizioni umane e sociali”, una volta “abbandonando il vecchio schema di una eguaglianza meramente formale” che milita a superare, favorisce “discipline differenziate in funzione della diversità delle condizioni soggettive” (recte, per coerenza, “umane” o “individuali”), ossia “della qualità del destinatario (lavoratore, consumatore, imprenditore, soggetto disabile, minore e via dicendo)” di modo che per N. Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 55 ss., “[i]l diritto soggettivo non è più attribuito in astratto, ma in funzione della specifica condizione del suo titolare” “in una visione sostanzialistica e concreta della specificità delle condizioni esistenziali insita nell’idea della persona”.139 V. L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, cit., 1117 ss.; S. Simitis, Il diritto del lavoro e la riscoperta dell’individuo, in Dir. lav. rel. ind., 1990, 87 e ss.; cfr. G. Boni e A. Zanotti, Sangue e diritto nella Chiesa. Contributo ad una lettura dell’Occidente cristiano, cit., 18; e P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., 96 ss.140 V. P. Campanella, Prestazione di fatto e contratto di lavoro. Art. 2126, cit., 98.141 In coerenza, parrebbe, con l’evoluzione consolidata nel codice del 1942 per cui "non vi è più un universo che ruota intorno alla proprietà, ma un sistema economico composito in cui proprietà, credito e lavoro sono coordinati" (v. G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, cit., 319), ossia con il transito del diritto commerciale da diritto di classe a diritto comune (v. Id., op. ult. cit., 243) che spostò la disciplina contenuta nel codice civile ottocentesco

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qualificante dell’evoluzione del diritto civile142 (contrattuale) e del diritto (privato) dell’economia. Poste cioè le basi per introdurre disposizioni volte a variare la disciplina del rapporto negoziale in funzione delle caratteristiche del contraente della parte obbligata alla prestazione caratteristica, ossia per trattamenti differenziati secondo una logica che non è più quella di rimuovere trattamenti discriminanti143, ma – in positivo – di provvedere precauzioni gradate in funzione delle caratteristiche della “persona” di volta in volta coinvolta nello scambio, si moltiplicano i regimi; e, in relazione a ciò, s’inclina a ragionare in termini di “autonomie contrattuali”, ossia a usare un sintagma la cui flessione al plurale è nel contempo un’operazione tecnica e un’opzione di politica del diritto144.

5. Autonomie contrattuali e obblighi informativi

È questa una lettura della disciplina del contratto che conosce l’alternativa dell’interpretazione d’indole oggettiva della normativa che nega il recupero dello status sul contratto145; e, prima ancora, nega che la protezione della parte vulnerabile, del suo interesse negoziale o della libertà contrattuale, sia fine a sé stessa146, ossia scopo esclusivo della cospicua eteroregolazione dei contratti

dal centro della vita economica riservandogli il ruolo d’un residuo del mondo tardo-liberale di quell’epoca (v. Id., op. ult. cit., 268).142 V. L. Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Dir. lav. rel. ind., 1990, 5 ss.; e S. Simitis, Il diritto del lavoro e la riscoperta dell’individuo, cit., 87 e ss.143 V. G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, cit., 147 ss.144 V. G. Alpa, Le ‘autonomie contrattuali’ tra mercato e persona, cit., 239 ss.145 È la lettura della disciplina delle clausole abusive contenute nei contratti conclusi con i consumatori offerta, soprattutto, da G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, cit., 20, 22 s., 26 s., 29, 30, che, più in generale, ravvisa il fondamento delle normative europee a tutela del consumatore nell’essere quest’ultimo protagonista del mercato (v. Id., La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione: dal codice civile ai principi di diritto europeo dei contratti, in Eur. dir. priv., 2005, 309 ss., e, ivi, 335 s.). Sempre nell’ottica del mercato, ma anche del contemperamento degli interessi dei contraenti, cfr. G. Iudica, Clausole abusive e razionalità del mercato, nel Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore a cura di C.M. Bianca, F.D. Busnelli, L. Bigliazzi Geri, F. Bocchini, M. Costanza, G. Iudica, M. Nuzzo, V. Rizzo, M. Sesta, G. Vettori, in Nuove leggi civ. comm., 1997, 777 s., e F. Bocchini, Tutela del consumatore e mercato, ivi, 783 ss., spec. 785 ss. 146 In tal senso, invece, v. G. Oppo, Princìpi, nel Tratt. dir. comm. diretto da V. Buonocore, sez. I, t. I, Torino, 2001, 68, per il quale la disciplina dei contratti asimmetrici è posta a tutela della parte debole senza essere giustificata da un generale interesse del mercato.

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asimmetrici147 che, per foggiarne il contenuto in un’accentuata ottica di conservazione del rapporto148, si giova, dal punto di vista tecnico, delle ormai numerose norme imperative invalidanti149 diffusesi con funzione più conformativa che demolitoria150, di regole talora sostitutive delle pattuizioni delle parti, dell’ampliamento degli spazi della discrezionalità interpretativa151 per l’emenda giudiziale del contratto152, ma anche dell’intervento normativo delle autorità amministrative indipendenti di connotazione153 o senz’altro, nuovamente, di conformazione del contratto154.

Sul duplice presupposto che il contratto sia strumento di scambio,

147 La lettura nella prospettiva del mercato non riguarda solo la normativa consumeristica, ma anche, a es., la disciplina sui ritardi di pagamento (cfr. E. Camilleri, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Napoli, 2008, 378 ss., e M.C. Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto. Profili della nuova disciplina dei ritardi di pagamento, Padova, 2004, spec. 9 s.) o sull’abuso di dipendenza economica (cfr. R. Natoli, L’abuso di dipendenza economica, Napoli, 2004, 82 ss., e, prima, M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Milano, 2003, 210 s., e S. Pagliantini, L’abuso di dipendenza economica tra legge speciale e disciplina generale del contratto, in Squilibrio e usura nei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 2002, 455 ss.).148 Lo si rileva talora attribuendole e approvandone il carattere paternalistico (v. A. Nicolussi, Diritto europeo della vendita di beni di consumo e categorie dogmatiche, in Eur. dir. priv., 2003, 525 ss.); talaltra segnalandone, in un’ottica mercantile, il potenziale effetto di avvantaggiare eccessivamente il contraente debole (v. R. Pardolesi, La subfornitura, in Manuale di diritto privato europeo a cura di C. Castronovo e S. Mazzamuto, II, Milano, 2007, 1061 ss., e, ivi, spec., 1074).149 V., a es., Ros. Alessi, Contratti dei consumatori e disciplina generale del contratto dopo l’ema-nazione del codice del consumo, ne Il diritto civile oggi. Compiti scientifici e didattici del civilista, Napoli, 2006, 815 ss., e, ivi, 820 s.150 Cfr. V. Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 2007, I, 843 ss.151 Sulla cui portata, v., tra gli altri, G. Alpa, Discrezionalità e arbitrio dell’interprete. «Natura» dell’atto. «Circostanze» del caso, in Studi in memoria di Gino Gorla, I, Milano, 1994, 527 ss., e A. Gambaro, Presentazione a Barak, La discrezionalità del giudice, trad. it. di I. Mattei, Milano, 1995, 3 ss.152 Sull’estensione, a opera delle regole sul contratto asimmetrico, degli spazi in cui opera la funzione correttiva del giudice, scrutinatrice dell’assetto di interessi voluti dalle parti v. Ros. Alessi, Contratti dei consumatori e disciplina generale del contratto dopo l’emanazione del codice del consumo, cit., 820 s.153 Sui cui caratteri v. G. De Nova, Trasparenza e connotazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 935 ss.154 Cfr. G. Gitti e P. Spada, La regolazione del mercato come strategia, ne L’autonomia privata e le autorità indipendenti. La Metamorfosi del contratto a cura di G. Gitti, Bologna, 2006, 15 ss., nonché G. Gitti, Autorità indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, ivi, 91 ss., ove si profila in termini di compatibilità e, anzi, di esaltazione il rapporto tra tali interventi e la funzione dell’autonomia privata.

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quindi del mercato155 a cui è indispensabile156, e che lo squilibrio tra le parti può incidere sul contenuto negoziale, dunque sul funzionamento del mercato, anche le disposizioni sui contratti che sottintendano l’originaria imparità dei contraenti e alle quali conseguentemente si assegni una finalità di riequilibrio del rapporto, come accade a esempio per le regole in materia di trasparenza dei contratti bancari157, possono essere interpretate come correttivi che non salvaguardano (solo) il contraente debole, bensì il mercato158 che ne abbisogna ove difetti una situazione di sostanziale parità tra i contraenti e si giova di una modulazione della libertà contrattuale159. Si coglie così, del resto, un aspetto notevole della disciplina del contratto, che costituisce un momento significativo del coordinamento di due differenti concezioni del contratto: quella del contratto come composizione volontaria

155 Specie a tener conto che il mercato non è più un “dove” terrestre, ma l’unità funzionale degli scambi beni o servizi che, dunque, può dirsi veramente costituita quando corrisponda a un diritto dello spazio economico (così, N. Irti Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. civ., 1999, I, 20 ss.); e che, dunque, il mercato (e ciascun mercato), in quanto ordine degli scambi, ha bisogno di norme ordinatrici ed è designato dal suo proprio statuto giuridico, che non risulta da mani invisibili, ma da regole giuridiche (v. Id., L’ordine giuridico del mercato, cit., 10). V. pure G. Amato, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., 1992, 7 ss.156 Sul nesso di strumentalità del contratto al mercato, in quanto segmento essenziale del proce-dimento attraverso il quale si realizza la circolazione dei beni e dei servizi, v., inter alios, L. Rossi Carleo, La codificazione di settore: il codice del consumo, in Rass. dir. civ., 2005, 879 ss., spec. 884 ss., che, in relazione a ciò, assegna rilievo prioritario alle regole del mercato anche nel quadro della disciplina dei contratti dei consumatori; e giustifica una più articolata disciplina estesa sia ad antecedenti della formazione del vincolo (l’educazione, l’informazione e la pubblicità), sia ad aspetti che attengono alla fase successiva all’esecuzione del contratto (la sicurezza e la qualità, ad es.). Dall’accennata strumentalità discende che il contratto, visto nella sua funzionalità, si riflette nella realizzazione o meno di un ordinato svolgimento del mercato (cfr. Ros. Alessi, Contratti dei consumatori e disciplina generale del contratto dopo l’emanazione del codice del consumo, cit., 820 s.), sicché le regole dell’uno lo sono anche dell’altro.157 Cfr. G. Cavalli, Contratti bancari su modulo e problemi di tutela del contraente debole, cit., pas-sim; G. Alpa, La «trasparenza» del contratto nei settori bancario, finanziario e assicurativo, in Giur. it., 1992, IV, 411 ss.; A.A. Dolmetta, Per l’equilibrio e la trasparenza nelle operazioni bancarie: chiose critiche alla legge n. 154/1992, cit., 381 ss.; A. Maisano, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie: la difficile transizione dal diritto della banca al diritto bancario, cit., passim; L.C. Ubertazzi, Banche e concorrenza. Scritti, Milano, 2007, 203 ss.158 Contra, G. Oppo, Princìpi, cir., 68. Cfr. F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contr. e impr., 2000, 919 ss., nonché P. Perlingieri, Mercato, solidarietà e diritti umani, cit., 82 ss., e, amplius, Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato. Problemi del diritto civile, Napoli 2003.159 Nel senso che le disposizioni sul contratto asimmetrico modulino l’autonomia privata (e la libertà contrattuale in particolare), piuttosto che limitarla o negarla, v. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1984, 329, e G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, cit., 808.

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di interessi in posizione reciproca formale di conflitto160; e quella del contratto come strumento di svolgimento di attività economiche, che presta prevalente attenzione al profilo funzionale161.

Ma quella del mercato è soltanto una delle angolazioni in cui si può ragionare intorno alle fattispecie contrattuali162 almeno, come si è accennato, dinanzi a discipline che non si applichino a prescindere da particolari connotazioni soggettive della parte a presidio del cui interesse negoziale le norme siano in tesi poste. Sicché, perlomeno al di fuori di questi casi, può accadere che l’interpretazione provvista da tale angolatura possa

160 Si vedano, per tutti, le considerazioni esposte da R. Demogue, Traité des obligations en général, I, cit., § 16; da A. Ravà, Lezioni di diritto civile sopra i contratti in generale, lit., Padova, 1932, 10 ss., con riguardo al codice civile abrogato; e da T. Ascarelli, Contratto plurilaterale, negli Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 97 ss., in relazione al codice civile vigente; tra gli ultimi, il contratto è strumento per mediare gli interessi delle parti e per ridurre a unità il loro discorde dualismo per N. Irti Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 347 ss. e, ivi, 349 s., che, correlativamente, presupponendo che la composizione delle posizioni in rappor-to di dualità postuli trattativa, non solo rimarca l’importanza del dialogo indicando nella tecnica della lingua la principale tecnologia di conclusione del contratto e che quest’ultima è costruita «sull’astratta funzionalità della lingua», ma ritiene che nei moderni codici l’accordo sia «risultato discorsivo e conoscitivo» la cui bilateralità indica la reciprocità dialogica dell’intesa.161 Neppure questa concezione è recente, come esemplifica l’elaborazione della scuola econo-mica liberale: per resoconti e applicazioni, cfr. G. Benedetti, Negozio giuridico e iniziativa economica privata, in Riv. dir. civ., 1990, II, 573 ss., e And. D’Angelo, Contratto e operazione economica, Torino, 1992.162 Per la prospettiva, v. soprattutto N. Irti Persona e mercato, in Riv. dir. civ., 1995, I, 289 ss., e in Persona e mercato. Lezioni a cura di G. Vettori, Padova, 1996, 96 ss.; Id., Concetto giuridico di mercato e dovere di solidarietà, in Riv. dir. civ., 1997, I, 185 ss.; e Id., L’ordine giuridico del mercato, cit., passim.

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risultare non sempre esente da eccessi163, né incontroversa164, né esclusiva165, poiché può concorrere con – o aggiungersi a – altre, assai persuasive166. Sono quelle sensibili all’esigenza di contemperamento degli interessi pubblici con gli interessi privati167. E, soprattutto, sono quelle costituzionalmente

163 Si allude all’interpretazione di A. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Diritto privato europeo a cura di N. Lipari, II, Padova, 1997, 489 ss. e, ivi, 521, la cui personale chiave di lettura, semplificante l’articolazione degli interessi sul presupposto che le regole positive siano da riguardare nella limitata prospettiva in cui le si reputa funzionali alla mera strutturazione del mercato, conduce alla petizione per cui «la tutela del consumatore rileva in termini di mezzo più che di fine» (adde, L. Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto. Dal negozio solenne al nuovo formalismo, Milano, 2008, 265 s., almeno con riguardo alla portata delle prescrizioni formali che attrae al diritto degli strumenti e non degli scopi). Ciò nonostante che i processi sottostanti la politica comunitaria – e l’adozione di provvedimenti – di tutela dei consumatori siano chiariti, per tutti, da G. Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 1995, passim; né possa indurre in equivoco il contenuto dei “considerando” dei provvedimenti comunitari meno recenti e le motivazioni che essi lasciano emergere, effettivamente orientate al mercato [comune], in quanto è noto sia che essi servono (recte: servivano) a chiarire la base normativa dell’adozione del provvedimento cui ineriscono, sia l’originaria estraneità alle fonti istitutive delle Comunità europee dell’espressa menzione, tra le finalità della normazione sovranazionale, della protezione dei consumatori che ha per ciò penetrato con difficoltà l’ordinamento comunitario all’uopo piegandosi altri fini sulla cui realizzazione la loro tutela poteva indirettamente riflettersi.164 Con particolare riguardo alla disciplina delle clausole abusive contenute nei contratti conclusi con i consumatori, cfr. A. Nicolussi, Diritto europeo della vendita di beni di consumo e categorie dogmatiche, cit., 549; Id., I consumatori negli anni settanta del diritto privato. Una retrospettiva problematica, Eur. dir. priv., 2007, 901 ss., spec. 914, nt. 27; E. Navarretta, I contratti d’impresa e il principio di buona fede, ne Il diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato a cura di P. Sirena, Milano, 2006, 506 ss.; C. Castronovo, Quadro comune di riferimento e acquis comunitario: conciliazione o incompatibilità?, in Eur. dir. priv., 2007, 275 ss., spec. 278, nt. 10.165 Nota le plurime anime del Codice del consumo F. Rizzo, Azione collettiva risarcitoria e interessi tutelati, Napoli, 2008, 29.166 Della giustificazione della disciplina del contratto asimmetrico e, in particolare, di quello del consumatore esclusivamente nell’ottica del mercato, dell’efficienza e della debolezza nel ruolo contrattuale, infatti, si nota un limite che sta nel fatto che si corregge il mercato (la regola del libero incontro della domanda con l’offerta) in nome del mercato; e che disvela che vi sono altri argomenti a cui riferirsi, come la giustizia e la debolezza del ruolo sociale: v. A. Gentili, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in Contratti, 2006, 159 ss., che apre a una diversa definizione di consumatore.167 Su cui v. G. Oppo, Diritto privato e interessi pubblici, in Riv. dir. civ., 1994, I, 25 ss., e cfr. G.B. Ferri, Il negozio giuridico tra libertà e norma, cit., 65, per il riferimento ai principi infor-matori del sistema, nonché P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, cit., 273, per l’evocazione dell’interesse sociale.

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orientate168 ai valori normativi169 della solidarietà170 o, per l’appunto, della persona che guardano allo status (mutevole) del contraente171, la cui considerazione conduce a esiti opposti rispetto alla ricordata negazione del suo recupero sul contratto la cui disciplina può esserne influenzata quanto, tra l’altro, alla formazione e alla validità del negozio172; e che profilano la tutela del contraente debole non soltanto come protagonista del mercato, ma in quanto cittadino173.

Nel che s’insinua la terza idea che traspare dalla valutazione che ha dato avvio al discorso: quella della rilevanza degli obblighi informativi e della loro conformazione in funzione dei caratteri della controparte del 168 L’orientamento alla Costituzione nel ricostruire la categoria dell’autonomia privata ne comporta una più marcata, originaria conformazione sul presupposto che essa e, con essa, l’autonomia e la libertà contrattuali non sono mera autoregolamentazione: rilevandosi che tale identificazione è estranea persino nei periodi di maggior liberismo, esse sono sintesi di autoregolamentazione ed eteroregolamentazione e non hanno fondamento in concetti astratti, ma in valori e principi costituzionali dell’ordinamento che governano il giudizio di meritevolezza: v. P. Perlingieri, Diritto dei contratti e costituzione europea, in Contratto e Costituzione in Europa a cura di G. Vettori, Padova, 2006, 146, e cfr. G. Alpa, Libertà contrattuale e tutela costituzionale, in Riv. crit. dir. priv., 1995, 35 ss., e G. Iudica, L’economia di mercato tra Costituzione italiana e Costituzione europea, in Costituzione europea e interpretazione della Costituzione italiana a cura di G. Iudica e G. Alpa, Napoli, 2006, 165 ss., spec. 172 s.169 Cfr. P. Perlingieri, Valori normativi e loro gerarchia. Una precisazione dovuta a Natalino Irti, in Rass. dir. civ., 1999, 787 ss.170 V. Lipari, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 1 ss., e cfr. F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, 92 ss.; amplius, già P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., passim; Id., «Depatrimonializzazione» e diritto civile, in Id., Scuole, tendenze, metodi, Napoli, 1988, 173 ss.; Id., La tutela del consumatore tra liberismo e solidarismo, ora in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato. Problemi del diritto civile, cit., 308 ss.; e il volume a cura di P. Stanzione, La tutela del consumatore tra liberismo e solidarismo, Napoli, 1999.171 V. G. Alpa, I diritti dei consumatori e il «Codice del consumo» nell’esperienza italiana, cit., 3 ss.; Id., Le clausole abusive nei contratti dei consumatori, in Corr. giur., 1993, 639 ss.; Id., Sociologia del contratto: nuove idee, vecchi schemi, in Sociol. dir., 1984, 7 ss.; amplius, Id., La persona. Tra cittadinanza e mercato, cit., passim, e Id., Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, cit., passim; R. Calvo, La tutela del consumatore alla luce del principio di eguaglianza sostanziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 869 ss.; M. Dogliotti, Persone fisiche. Capacità, status, diritti, nel Tratt. dir. priv. diretto da M. Bessone, II, Torino, 2014, 355.172 Cfr., a es., G. D’Amico, Formazione del contratto, in Enc. dir. Annali, II, t. 2, Milano, 2008, 567 ss. e, ivi, 588 ss., e A. Gentili eV. Cintio, I nuovi ‘‘vizi del consenso’’, in Contr. e impr., 2018, 148 ss.173 Cfr. G. Alpa, Nuove prospettive della protezione dei consumatori, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, 103 ss.; Id., Art. 1, Finalità ed oggetto, in Codice del consumo. Commentario a cura di G. Alpa e L. Rossi Carleo, Napoli, 2005, 17 ss.; e N. Reich, Il consumatore come cittadino – Il cittadino come consumatore: riflessioni sull’attuale stato della teoria del diritto dei consumatori nell’Unione europea, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 345 ss.

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contraente obbligato alla prestazione caratteristica. Si pone, così, un tema che attiene a un importante aspetto delle regole riguardanti i contratti; e, in relazione a esso, si propone una profilassi che, se per un verso si può riallacciare al ripudio datato d’un orientamento prettamente individualistico a favore dell’affermazione di limiti entro cui confinare l’autonomia privata per finalità d’interesse sociale “come quelle della chiarezza e della buona fede, senza tuttavia menomare l’iniziativa individuale”174, per altro verso ha concorso a promuovere un significativo avanzamento rispetto all’ancora arretrato contesto storico in cui la proposta si collocò.

Il ricordato orientamento, infatti, non si tradusse in obblighi d’informazione tipizzati nel codice civile175, il rivelarsi dei quali fu piuttosto affidato all’applicazione della clausola generale della buona fede, che risultava però scarsamente impiegata176 da dottrina e giurisprudenza177 quando fu

174 Fine che dichiaratamente indusse Emilio Betti ad accondiscendere a mettere le proprie “forze a servizio” della preparazione del libro IV del codice civile (v. E. Betti, Notazioni autobiografiche, rist. a cura di E. Mura, Padova, 2014, 39).175 L’indirizzo bettiano dianzi ricordato di rifiuto dell’individualismo atomistico (solitamente considerato manifestazione dell’anti-volontarismo, dell’anti-pandettistica, e anti-borghese: v. M. Miletti, Diritto privato e funzione economico-sociale: radici bettiane d’una formula, in http://romatrepress.uniroma3.it/ojs/index.php/funzione/article/view/501/498, 9 ss. e, ivi, 11) non raccolse (sufficienti) consensi, sì come lamentato da chi lo espresse: cfr. M. Brutti, Vittorio Scialoja, Emilio Betti. Due visioni del diritto civile, Torino 2013, 121 ss. e, ivi, 152 e 159 s.176 Dottrina e giurisprudenza, fino agli anni settanta, hanno fatto scarso impiego della buona fede per la discrezionalità del giudicante e le difficoltà interpretative connesse all’applicazione di precetti aventi contenuto indeterminato: tra le clausole generali, è proprio con riguardo al precetto di buona fede che si è sentita l’esigenza di evidenziarne l’indeterminatezza (v. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici, in Mem. Ist. giur. Univ. Torino, LXIV, 1949, 19 ss.). In generale, per il rilievo che «the law ... represents a community sense of morality, but ... legal rules must also be fair and workable in practise with e reasonable degree of regularity, and reasobably inexpensive to apply», sicché «What is needed is a set of rules sufficiently in conformity with the community sense of morality ... at the same time preserving sufficient content to be workable», v. Waddams, Pre-contractual duties of disclosure, in P. Cane e J. Stapleton [eds.], Essays for Patrick Atiyah, Oxford, 1991, 237 ss. e, ivi, 254, da leggersi in connessione con il rifiuto del good faith principle da parte di Lord Ackner siccome canone «unworkable in practice»: House of Lords, Walford v. Miles, [1979] 2 W.L.R. 174 ss.177 Sulla resistenza a riconoscere autonoma portata normativa a clausole generali che costituiscono giustificazione soltanto formale della soluzione interpretativa discrezionale, cfr. M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1975, 197, ove della buona fede, sia pure considerata come canone ermeneutico, si evidenzia la strumentalità ad operazioni di controllo del contenuto del contratto. Storicamente, maggiori resistenze all’impiego della regola di buona fede si rinvengono in giurisprudenza: i riferimenti alla buona fede delle parti divengono progressivamente più frequenti, ma all’inizio l’argomento è sovente aggiuntivo: cfr. A. Di Majo, Libro quarto. Delle obbligazioni in generale. Artt. 1173-1176, nel Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1988, 340 ss., e la rassegna di casi esposta

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formulata la valutazione in esame. In tale situazione, quest’ultima alimentò il fruttuoso clima culturale178 in cui si caldeggiò lo svolgimento del diritto riconfigurandolo al lume dell’evoluzione economico-sociale179; in cui, in vista di tale obiettivo, si colsero e si sostennero le potenzialità delle clausole generali180; e in cui fu contributo coerente con l’obiettivo di vincere le resistenze all’uso della buona fede con profonde radici nell’individualismo181.

Ancora, l’impulso alla diffusione degli obblighi informativi connaturato alla detta valutazione si associa alla candidatura di un modello di loro disciplina che non li confina nello spazio occupato dagli insicuri esiti dell’applicazione della clausola generale della buona fede, ma ne contempla almeno in nuce la tipizzazione legislativa che ne riduce l’incertezza182. E

da L. Nanni, La buona fede contrattuale, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, collana diretta da F. Galgano, Padova, 1988. Sull’evoluzione degli usi della buona fede, si può leggere anche la ricostruzione di C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 21 ss.178 V., a es., A.M. Benedetti, Antichi e moderni a confronto. Una storia del diritto civile a Genova, in Pol. dir., 2017, 329 ss.179 Sulla necessità di badare a essa rinnovando il tradizionale bagaglio concettuale, v. S. Rodotà, Ipotesi sul diritto privato, cit., 9 ss.180 Sulle potenzialità ed i limiti propri delle clausole generali, per tutti, cfr. L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 5 ss., e S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, cit., 709 ss.181 Si può richiamare il già citato precedente in cui Lord Ackner aggiunge inoltre che “the concept of a duty to carry negotiations in good faith is inherently repugnant to the adversarial position of the parties involved in negotiation”. Per l’inesistenza nella tradizione inglese della regola di buona fede, da cui non potrebbero derivare il duty to negotiate in good faith né un generale duty of disclosure, v. pure M.G. Bridge, Does Anglo-Canadian contract law need a doctrine of good faith?, 385 [1991] Rev. Canadienne dr. comm., 414 ss., J. Cartwright, Unequal bargaining. A study of vitiating factors in the formation of contracts, Oxford, 1991, 224 s. Ma l’interpretazione non è incontroversa, potendosi confrontare in senso opposto H.K. Lücke, Good faith and contractual performance, in Finn [ed.], Essays on contract, Sydney, 1987, 155 ss.; J.F. O’Connor, Good faith in English law, Dartmouth, 1990, passim, e l’apertura della House of Lord nel risalente caso Carter v. Boehm, [1766] 3 Burr. 1905 ss., ove Lord Mansfield affermò che «Good faith forbits either party by concealing what he privately knows, to draw another into a bargain, from his ignorance of that fact, and his believing the contrary», pur precisando che «either party may be innocently silent, as to grounds open to both, to exercise their judgement upon»), ma anche le regole a guarentigia dell’intangibilità del vincolo negoziale.182 Sulla diffusione e sulle conseguenze sul piano sistematico della tecnica normativa di introdurre con provvedimenti settoriali elencazioni di dettaglio di obblighi astrattamente costituenti specificazione di clausole generali di diritto comune, cfr. C. Castronovo, Il diritto civile nella legislazione nuova. La legge sull’intermediazione mobiliare, in Banca, borsa tit. cred., 1993, I, 300 ss., A. Di Majo, La correttezza nell’attività di intermediazione mobiliare, cit., 298, e G. Alpa, La legge sulle SIM e i contratti con i clienti, in Giur. it., 1991, IV, 177 ss., in particolare sulla questione se, a fronte di siffatte elencazioni, le clausole generali di diritto comune residuino

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che, inoltre, ne suggerisce la modulazione in ragione dello status delle parti del rapporto, rispetto alla quale l’accennata tecnica di selezione appare più calzante, perché più adatta a definire e discriminare in dettaglio e all’esito di complessivo vaglio.

Infine, l’idea in questione lascia intravedere che il tema a cui si riferisce assume nel contempo rilievo nella duplice prospettiva della tutela dei diritti della persona e dei valori del mercato, ché l’individuo è (anche) homo oeconomicus per cui la difesa dell’una dalle asimmetrie informative183 può giovare pure all’altro184. Il campo degli obblighi informativi nella fase precontrattuale – ma anche in quelle genetica e funzionale, rispettivamente della costituzione del vincolo e, poi, dell’esecuzione del rapporto negoziali – si propone come un crocevia in cui si incontrano, convergendovi, istanze diverse afferenti ora la persona185 ora il mercato, che hanno a che vedere con la trasparenza; e che quest’ultima può contemporaneamente soddisfare nell’ottica raffinata del menzionato interesse sociale di bettiana memoria al quale la trasparenza si può riannodare. Un interesse a cui non appare estraneo il mercato, il suo appropriato funzionamento di cui si sottolineano i fondamenti etici186 che si avanzano a modello delle regole di comportamento

spazi di applicazione. Nell’accennata tecnica normativa, si è colta un’analogia con le cd. Verkehrssicherungspflichten proprie dell’esperienza tedesca (v. A. Di Majo, I cinquant’anni del Libro delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 159 ss. e, ivi, 170), con cui si impongono a determinate categorie di operatori economici più elevati standards di diligenza (sulle Verkehrssicherungspflichten, v. W.C. Canaris, Norme di protezione, obblighi del traffico, doveri di protezione, ivi, 1983, 567 ss. e 793 ss., e ancora A. Di Majo, Il problema del danno al patrimonio, ivi, 1984, 297 ss.).183 Sulle asimmetrie informative la ricerca può muovere da M. De Poli, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, 2002, 168 ss. e passim.184 Cfr. G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, cit., 405, per cui “essendo il consumatore homo oeconomicus, occorre collocarlo in una posizione di sostanziale parità con la controparte in ordine alle informazioni, in modo che egli possa effettuare scelte libere e consa-pevoli; occorre anche che il comportamento della controparte sia corretto; rimane marginale il controllo sul merito, cioè sul prezzo del servizio e sul costo del servizio”.185 Nell’area dei rapporti di intermediazione creditizia, anche nella prospettiva della tutela del risparmio contemplata dall’art. 47 Cost. se se ne condivide la lettura che la riconduce ai diritti fondamentali della persona offerta da A. Clini, Sovranità della persona nelle determinanti di tutela del risparmio, in P.A. Persona e amministrazione, 2017, 349 ss.186 La correttezza e l’efficienza di quest’ultimo, nonché la fiducia su cui esso si regge, si avvantaggiano di condotte ispirate a principi etici che le assecondano. Cfr., per tutti, v. F. Capriglione, Etica della finanza e finanza etica, Roma-Bari, 1997, ove si pone in luce che la conciliazione dei meccanismi economici con i processi sociali non costituisce negazione del mercato. V. pure V. Lemma, Etica e professionalità bancaria, in Banche ed etica a cura di I. Sabbatelli, Padova, 2013, 129 ss. Significativo, del resto, appare il rilievo assunto dalla responsabilità sociale dell’impresa (v. G. Oppo, Diritto dell’impresa e morale sociale, in Riv. dir.

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nei rapporti contrattuali187: le quali ove abbiano finalità di trasparenza, di là della base morale che le si assegni, appaiono funzionali tanto a tutelare la persona nelle relazioni negoziali quanto a presidiare valori mercantili che le asimmetrie informative e, più in generale, la disinformazione in principio pongono a rischio188.

Si tratta di indicazioni concernenti un rilevante profilo della disciplina del contratto che provengono da una dottrina normativa tosto profetica delle linee evolutive delle regole sugli obblighi di informazione nei rapporti

civ., 1992, I, 15 ss.; G. Santoni, Etica della società per azioni e recenti misure di moralizzazione del governo societario, in Finanza, Impresa e Nuovo umanesimo a cura di F. Capriglione, Bari, 2007, 59 ss.; G. Conte, Codici etici e attività d’impresa nel nuovo spazio globale di mercato, in Contr. e impr., 2006, 136 ss.; Id., Vincoli giuridici, principi economici e valori etici nello svolgimento dell’attività d’impresa, negli Studi in onore di Nicolò Lipari, I, Milano, 2008, 483 ss.; Id., L’ impresa responsabile, Milano, 2018; nonché il volume collettaneo a cura di Id., La responsabilità sociale dell’impresa, Roma-Bari, 2008); e la connessa evoluzione del diritto societario nel senso di superare l’orientamento restrittivo proclive a limitare l’ammissibilità degli atti liberali nell’esercizio dell’impresa ai soli strumentali all’accrescimento della clientela (v. G. Oppo, Sulle erogazioni “gratuite” delle aziende di credito, in Banca, borsa tit. cred., 1982, I, 928 ss.) a favore di un ampliamento degli atti senza corrispettivo consentiti a tutti quelli funzionali a una più generica crescita di lungo periodo del valore dell’intrapresa che badi non (sol)tanto all’interesse di breve termine degli shareholders, bensì al credito presso il complesso degli stakeholders (v., a es., A. Guaccero, Interesse al valore per l’azionista e interesse della società, Milano, 2007; M. Libertini, Impresa e finalità sociali. Riflessioni sulla teoria della responsabilità sociale dell’impresa, in Riv. soc., 2009, 1 ss.; V. Calandra Buonaura, Funzione amministrativa e interesse sociale, in AA.VV., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders. In ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2010, 101 ss.; P. Montalenti, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, 5 ss.) con riflessi anche sul trattamento fiscale di tali atti (v. E. Loffredo, Economicità nelle imprese individuali e societarie e atti onerosi, gratuiti e liberali, in Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, 193 ss. e, ivi, spec. 207 ss.).187 Cfr. M. Pellegrini, Etica e regole di condotta degli intermediari finanziari, in Banche ed etica cit., 59 ss.; e D. Rossano, Rules Regarding Relations Between Intermediaries and Customers, in Italian Banking and Financial Law. III. Regulating Activities a cura di D. Siclari, Basingstoke, 2015, 97 ss.188 Sugli effetti delle asimmetrie informative sul mercato, v. A. Akerlof, The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, 84 [1970] Q.J. Econ. 488 ss. (e, poi, con particolare riguardo al mercato del credito, J. Stiglitz e A. Weiss, Credit Rationing in Markets with Imperfect Information, 71 [1981] Am. Ec. Rev. 393 ss.): esse ostano a un’appropriata valutazione della qualità dei beni e dei servizi; incentivano a offrirne di scadenti; implicano che gli acquirenti, per contenere il rischio, orientino la preferenza verso quelli non troppo cari; determinano, così, un processo controselettivo che tendenzialmente esclude dal mercato quelli di migliore qualità. Sul processo di selezione avversa, in particolare nel mercato del lavoro in cui quello cattivo scaccia quello buono, v. pure M. Spence, Job Market Signaling”, 87 [1973] Q.J. Econ. 355 ss.; e Id., Market Signaling: Information Transfer in Hiring and Related Processes, Cambridge, Mass., 1974.

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negoziali, delle quali le prime sembrano presagi. Paiono attestarlo le normative dettate in materia con riguardo ai contratti nei settori regolamentati, nelle quali da decenni ormai si sono addensate prescrizioni che hanno tipizzato gli obblighi informativi, incalzando il ricorso giurisprudenziale alle potenzialità della clausola generale della buona fede progressivamente emerse; e li hanno differenziati non solo per tipologie di operazioni189, bensì pure – e per l’appunto – per categorie di contraenti190 (oltre che per tecniche negoziali191) facendo inizialmente leva su obiettivi mercantili. Ciò,

189 Si possono menzionare i plessi normativi che ebbero per fonti primarie la c.d. legge sulle s.i.m. quanto ai contratti aventi a oggetto attività allora denominate di intermediazione mobiliare (v., a es., G. Alpa, La legge sulle SIM e i contratti con i clienti, cit., 177 ss.); oppure il testo unico bancario, quanto ai contratti aventi a oggetto operazioni o servizi bancari o finanziari (v., a es., Id., La trasparenza dei contratti bancari, Bari, 2003); o, ancora, il d.lgs. 17 marzo 1995, n.174, e il d.lgs. 17 marzo 1995, n. 175, quanto ai contratti di assicurazione (v., a es., G. Gitti, Vecchi e nuovi confini dell’autonomia contrattuale, in Tradizione civilistica e complessità del sistema: valutazioni storiche e prospettive della parte generale del contratto, cit., 391 ss. e, ivi, 396 s.).190 Il riferimento va nuovamente alla disciplina dei contratti aventi a oggetto attività già denominate di intermediazione mobiliare (cfr. S. Mazzamuto, Il problema della forma nei contratti di intermediazione mobiliare, in Contr. e impr., 1994, 37 ss. e, ivi, 39), poi i servizi di investimento e, ora, con formula ammodernata, i servizi e le attività di investimento (cfr. P. Corrias, La disciplina del contratto di assicurazione tra codice civile, codice delle assicurazioni e codice del consumo, negli Studi in onore di Nicolò Lipari, I, cit., e, ivi, spec. 562 s.); nonché alla normativa sui contratti aventi a oggetto operazioni o servizi bancari o finanziari, poiché a regole di più generale applicazione (artt. 115 ss. t.u.b.) si affiancano disposizioni specificamente dettate per alcuni di quei contratti quando ne sia parte un consumatore introdotte a partire dalla legge 19 febbraio 1992, n. 142, con cui si intese dare attuazione alla direttiva del Consiglio 22 dicembre 1986, n. 87/102/CEE, così come modificata dalla direttiva del Consiglio 22 febbraio 1990, n. 90/88/CEE (in argomento, tra i tanti, v. A. Tidu, Il recepimento della normativa comunitaria sul credito al consumo (legge 19 febbraio 1992, n. 142, artt. 18-24), in Banca, borsa tit. cred., 1992, II, p. 403 ss., e il volume collettaneo ne La disciplina comunitaria del credito al consumo a cura di F. Capriglione, nei Quad. ric. Giur. della Banca d’Italia, n. 15, Roma, 1987).191 Si allude alla disciplina di matrice comunitaria concernente i contratti dei consumatori negoziati fuori dei locali commerciali già contenuta nella direttiva del Consiglio 20 dicembre 1985, n. 85/577/CEE, e divenuta più articolata con l’introduzione della specifica normativa recata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, 23 settembre 2002, n. 2002/65/CE, sulla commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori medesimi (in tema, tra gli altri, , afferente alla commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori (in argomento, cfr. F. Bravo, Commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, Milano, 2002; V. Zeno Zencovich, La direttiva sui servizi finanziari a distanza resi al risparmiatore, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, p. 517 ss.; N. Zorzi, La disciplina europea dei servizi finanziari, ne Il contratto telematico a cura di V. Ricciuto e N. Zorzi, Padova, 2002, 283 ss.; G. Alpa e M. Andenas, Fondamenti di diritto privato europeo, nel Tratt. dir. priv. diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2005, p. 675 ss.) esclusi dall’ambito applicativo della precedente direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 maggio 1997, n. 97/7/CE, relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza in genere.

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peraltro, quando il fine della protezione dei consumatori e i valori inerenti alla persona non avevano ancora penetrato la trama del diritto comunitario; e occorreva nondimeno rinvenire una (altra) base normativa dell’intervento legislativo che, collocato in seno a quello, promosse la modernizzazione dell’ordinamento domestico e, con essa, il fine e i valori accennati sia pure quale effetto in allora conseguito di riflesso192.

6. Standardizzazione dell’informazione precontrattuale e nuovi paternalismi

Rispetto alle segnalate linee evolutive, si possono articolare frastagliati interrogativi. De iure condito, si può porre l’implicante questione se possa dirsi superata la distinzione tra regole di comportamento e di validità193 – che presenta aspetti di ulteriore complessità ove venga in rilievo la relazione tra un contratto quadro concluso tra parti di successivi rapporti da quest’ultimo contemplati194 –; e, per connessione, si può riproporre

192 In proposito, si possono richiamare le disposizioni in materia di credito al consumo (ora ai consumatori): cfr. P. Latham, Dispositions communautaires relatives au crédit à la consommation: La Directive 87/102/CEE du 22 décembre 1986, in Revue du Marché Commun, 1988, 219 ss.193 V. G. Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di comportamento e di validità nel diritto italo-europeo, Napoli, 2013; R. Natoli, I rimedi per la violazione delle regole di condotta degli intermediari finanziari (oltre la distinzione tra regole di validità e regole di responsabilità), in Abuso del diritto e buona fede nei contratti a cura di S. Pagliantini, Torino, 2010, 303 ss., spec. 332 s.; v. pure A. Perrone, Less is more. Regole di comportamento e tutele degli investitori, in Hominum causa constitutum. Scritti degli allievi in ricordo di Francesco Realmonte, Milano, 2009, 105 ss. La questione si è posta in relazione all’orientamento che inclinò a configurare come ipotesi di nullità virtuale dei contratti, in particolare aventi a oggetto la prestazione di servizi di investimento, la violazione di regole di comportamento dettate con riguardo alla fase anteriore al perfezionamento del vincolo contrattuale: nell’ampia letteratura, v. G. D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, 37 ss.; V. Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond & tango bond), in Danno e resp., 2005, 604 ss.; Id. e G. Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della Cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, ivi, 2006, 25 ss.; G.

Cottino, Una giurisprudenza in bilico: i casi Cirio, Parmalat, bonds argentini, in Giur. it., 2006, 537 ss.; M. Franzoni, La responsabilità precontrattuale: una nuova stagione, in Resp. civ., 2006, 295 ss.; E. Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale, in Foro it., 2006, 1105 ss.; G. Sicchiero, Un buon ripensamento della S.C. sulla asserita nullità da inadempimento, in Giur. it., 2006, 1602 ss.; F. Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni unite della Cassazione, in Contr. e impr., 2008, 1 ss.; A. Gentili, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in Contratti, 2008, 393 ss.194 Resta sullo sfondo la nota questione concernente il rapporto tra il contratto quadro – a

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il dubbio se la violazione della clausola generale di buona fede possa fondare giudizi di invalidità del contratto195 al di fuori dei casi in cui rilevi mediatamente in quanto fonte di obblighi la cui violazione integri fattispecie invalidanti tipiche196 o in cui debordi in cause di annullamento classiche. Inoltre, ci si può chiedere, de iure condendo, quale sia la più appropriata disciplina del procedimento di formazione del contratto rispetto allo schema ottocentesco imperniato sul volontarismo197, tendenzialmente espansivo dell’autonomia privata198, segnatamente negoziale199, e sul connesso principio consensualistico che collega gli effetti del contratto all’accordo, a concordi manifestazioni di consenso delle parti all’operazione economico-giuridica200; se debbano esservi procedimenti diversificati e, in tal caso, quali ne siano, semmai debbano essere variabili, le più idonee configurazioni, con particolare riguardo alla previsione e alla rilevanza di specifici obblighi

es. avente a oggetto la prestazione di servizi di ntratt – e gli atti negoziali da esso previsti – nell’esempio, i singoli ordini di investimento o disinvestimento aventi a oggetto strumenti finanziari – in relazione alla natura di questi ultimi: per le due tesi che si sono confrontate, v. F. Galgano, I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’intermediario, in Contr. e impr., 2005, 889 ss., per il quale essi sono da ricondurre – nel ridetto esempio – alle mere modalità di esecuzione del contratto quadro che si riporta al tipo del mandato; e V. Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità, risoluzione e risarcimento (ovvero, l’ambaradan dei rimedi contrattuali), ivi, 2006, 896 ss., per il quale essi danno luogo a singoli contratti, ulteriori e distinti rispetto a quello quadro.195 Così parrebbe V. Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 2007, I, 843 ss. e, ivi, 848 ss.; contra, invece, siccome la buona fede regola il comportamento, ossia muovendo dalla distinzione tra regole di validità e regole di condotta, v. ad es. A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, e Id., Contratto mercato responsabilità, Milano, 2008, 179 ss.196 Non si dubita che l’omissione qualificata dalla presenza di uno specifico dovere di informazione costituisca un caso di dolo ex art. 1439 c.c.: v. A. Gentili, Le invalidità, ne I contratti in generale a cura di E. Gabrielli, II, nel Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, 2a ed., Torino, 2006, 1394, e V. Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv. a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, 816.197 Sulla volontà quale fonte dei rapporti contrattuali e sulla sua autonomia: cfr. C. Beudant, Le droit individuel et l’Etat, Paris, 1891; F. Carresi, Autonomia privata nei contratti e negli atti giuridici, in Riv. dir. civ., 1957, I, 265 ss.; A. Rieg, Le rôle de la volonté dans l’acte juridique en droit français et allemand, Paris, 1961, 5; F. Macario, Ideologia e dogmatica nella civilistica degli anni Settanta: il dibattito su autonomia privata e libertà contrattuale, negli Studi in onore di Nicolò Lipari, II, Milano, 2008, 1491 ss.198 V. J. Carbonnier, Droit civil, IV, Les obligations, 15éme ed., Paris, 1991, 46.199 Cfr. G. Palermo, L’autonomia negoziale, 3a ed., Torino, 2015, e il volume a cura di P. Perlingieri, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, Napoli, 2014.200 Cfr. A. Somma, Autonomia privata e struttura del consenso contrattuale. Aspetti storico-compa-rativi di una vicenda concettuale, Milano, 2000; e Id., Autonomia privata, in Riv. dir. civ., 2000, II, 597 ss.

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informativi precontrattuali e s’essa pure vada differenziata201; se, anche in relazione a questi ultimi, siano da registrare o convenga introdurre invalidità che si atteggino differentemente rispetto alle figure classiche e rivolte a presidiare l’integrità e l’effettività del consenso202; se, più in generale, vada apprezzato il potenziamento della clausola generale della buona fede203, a cui detti obblighi di informazione storicamente si riportano204, e s’essa

201 Cfr. G. D’Amico, “Regole di validità” e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996; Id., Formazione del contratto, cit., 588 ss.; A.C. Nazzaro, Obblighi d’informare e procedimenti contrattuali, Napoli, 2000; R. Di Raimo, Autonomia privata e dinamiche del consenso, Napoli, 2003; M.C. Cherubini, Tutela del “contraente debole” nella formazione del consenso, Torino, 2005.202 Cfr. A. Gentili e V. Cintio, I nuovi ‘‘vizi del consenso’’, cit., 148 ss.203 V. S. Rodotà, Appunti sul principio di buona fede, in Foro pad., 1964, I, 1283 ss.; Id., In tema di integrazione del contratto, ivi, 1965, I, 1433 ss.; Id., Il principio di buona fede e la vigenza dell’art. 1175 c.c., in Banca, borsa tit. cred., 1965, I, 149 ss.; Id., Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969; Id., Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 709 ss.; Id., Le clausole generali nel tempo del diritto flessibile, in Lezioni sul contratto raccolte da A. Orestano, Torino, 2009, 97 ss.; G. Alpa, La buona fede integrativa: note sull’andamento parabolico delle clausole generali, ne Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese a cura di L. Garofalo, I, Padova, 2003, 155 ss. V. pure A. Di Majo, La buona fede correttiva di regole contrattuali, nota a Cass., Sez. I, 14 luglio 2000, n. 9321; Trib. Roma, 5 luglio 2000, in Corr. giur., 2000, 1486 ss.; F.D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, 556 ss.; M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, ne Il contratto e le tutele: prospettive di diritto europeo a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, 305 ss.; Id., I nuovi controlli sul contenuto del contratto e forme della sua eterointegrazione: Stato e mercato nell’orizzonte europeo, in Eur. dir. priv., 2008, 33 ss.; Id., Sul senso delle “clausole generali”. Il diritto tra giudice e legge, in Dem. dir., 2009, 261 ss.; P. Gallo, Buona fede oggettiva e trasformazioni del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, 239 ss.; P. Rescigno, Rimeditazioni della buona fede: omaggio ad Alberto Burdese, ne Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, cit., IV, 565 ss.; G. Vettori, Libertà di contratto e disparità di potere, in Riv. dir. priv., 2005, 743 ss.; M. Baraldi, Il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, in Contr. e impr., 2005, 501 ss.; G. Smorto, Autonomia contrattuale e diritto europeo, in Eur. dir. priv., 2007, 325 ss.; A. Somma, Buona fede e giustizia contrattuale e gestione del conflitto sociale, cit., 75 ss.; U. Breccia, Clausole generali e ruolo del giudice, in Ragioni del licenziamento e formazione culturale del giudice del lavoro a cura di O. Mazzotta, Torino, 2008, 5 ss.; C.M. Nanna, Eterointegrazione del contratto e potere correttivo del giudice, Padova, 2010; C. Scognamiglio, Principi generali, clausole generali e nuove tecniche di controllo dell’autonomia privata, in Annuario del contratto 2010, Torino, 2011, 17 ss.; L. Cruciani, Clausole generali e principi elastici in Europa: il caso della buona fede e dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 473 ss.; S. Patti, Clausole generali e discrezionalità del giudice, in Studi in onore di Antonino Cataudella a cura di E. Del Prato, III, Napoli, 2013, 1693 ss.204 Per tutti, v. L. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. dir. comm., 1956, II, 360 ss.; per la tendenza a ricondurre alla buona fede anche gli obblighi informativi positivamente tipizzati, v. a es. G. Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di

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possa o addirittura debba farsi strumento della giustizia contrattuale ove quest’ultima si reputi obiettivo da coltivare o senz’altro perseguito205.

Ulteriori sono gli interrogativi che investono il contenuto e i modi dell’informazione. In proposito, l’evoluzione della disciplina pare inclini per la standardizzazione non solo degli obblighi informativi nelle diverse

comportamento e di validità nel diritto italo-europeo, Napoli, 2013, 34 ss.; contra, R. Natoli, I rimedi per la violazione delle regole di condotta degli intermediari finanziari (oltre la distinzione tra regole di validità e regole di responsabilità), in Abuso del diritto e buona fede nei contratti a cura di S. Pagliantini, Torino, 2010, 303 ss.205 V. E. Dell’Aquila, L’adeguatezza tra i vantaggi nei contratti onerosi, in Studi senesi, 1979, 448 ss.; R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, Padova, 2003; Id., Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, in Contr. e impr., 1985, 309 ss.; Id., Il problema dell’equivalenza fra le prestazioni. Introduzione e premesse storiche, in Studi Parmensi, n. 34, 1983, 159 ss.; P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 334 ss. Sul principio di equivalenza delle prestazioni in prospettiva storica e, segnatamente, per il suo radicamento nel giusnaturalismo e il collegamento con la buona fede, v. G.P. Massetto, Brevi note sull’evoluzione storica della buona fede oggettiva, in Tradizione civilistica e complessità del sistema: valutazioni storiche e prospettive della parte generale del contratto a cura di F. Macario e M.N. Miletti, Milano, 2006, 291 ss. e, ivi, spec. 307; e And. D’Angelo, Il contratto in generale. La buona fede, nel Tratt. dir. priv. diretto da M. Bessone, v. XIII, t. IV, 2, Torino, 2004, 18 ss., nt. 7. Restrittivo P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, cit., 231 ss., per il quale “il problema … non appare quello di garantire l’equità del contenuto economico del contratto, quanto di colpire quelle turbative o pregiudizi della libertà di decisione (specie per asimmetrie informative) tali da poter incidere su di una adeguata valutazione della convenienza dell’affare”; e v. già G. Marini, Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 257 ss., spec. 313. Cauti G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, in Riv. dir. priv., 2000, 21 ss.; Id., Libertà di contratto e disparità di potere, cit., 743 ss.; Id., Contratto giusto e rimedi effettivi, in Persona e Mercato, 2015, 5 ss.; U. Breccia, Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 161 ss. e, ivi, 194 ss.; Id., Equilibrio fra le prestazioni e causa del contratto di scambio, in Diritto privato comunitario a cura di P. Perlingieri e L. Ruggeri, I, Napoli, 2008, 521 ss.; A. Gentili, De jure belli: l’equilibrio del contratto nelle impugnazioni, in Riv. dir. civ., 2004, II, 27 ss.; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006; Id., Controllo contenutistico e forme di eterointegrazione del contratto, in Diritto privato comunitario a cura di P. Perlingieri e L. Ruggeri, I, cit., 503 ss.; N. Lipari, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 711 ss.; V. Roppo, Giustizia contrattuale e libertà economiche: verso una revisione della teoria del contratto?, in Pol. dir., 2007, 451 ss.; Id., Dal contratto del consumatore al contratto asimmetrico (schivando il terzo contratto)?, in Remedies in contract a cura di G. Vettori, Padova, 2009, 207 ss. V. pure F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano, 1970; A. Barba, Libertà e giustizia contrattuale, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III, 2, Milano, 1998, 11 ss.; A. Ricci, Errore sul valore e congruità dello scambio contrattuale, in Contr. e impr., 2001, 987 ss.; D. Corapi, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei Principi Unidroit, in Eur. dir. priv., 2002, 23 ss.; il volume collettaneo a cura di I. Ferroni, Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, Milano, 2002; A. Cataudella, La giustizia del contratto, in Seminari del Consiglio Nazionale Forense (2008-2009), Roma, 2010, 53 ss.; F. Tinti, La convenienza economica nel contratto, Torino, 2017.

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esperienze, ma anche delle modalità con cui adempiervi. Quanto al primo aspetto si allude al portato della tipizzazione di tali obblighi a livello comunitario che è stata ed è funzionale al ravvicinamento delle legislazioni nazionali degli Stati membri della Comunità e, poi, dell’Unione europea, originariamente all’eminente fine mercantile di favorire la realizzazione di un mercato unico e competitivo limando le differenze tra le discipline domestiche in quanto capaci di effetti distorsivi della concorrenza tra imprenditori206. Quanto al secondo profilo, si tratta del riflesso d’una disciplina divenuta gradualmente più minuziosa nel normare non soltanto analiticamente il contenuto degli obblighi in considerazione, bensì pure le modalità con cui adempiere a essi, fino al punto di spingersi a (pre)disporre bozze di documentazione informativa vincolanti nella forma e nella sostanza almeno in alcuni settori, ossia con riferimento ad alcune categorie di contratti207.

È questa seconda côté del fenomeno accennato che sembra recare più recenti novità. Per un verso, posto che parrebbe acquisito che la standardizzazione favorisca la comparabilità delle offerte dei potenziali emuli208 e, dunque, concorra a creare le condizioni della competizione concorrenziale tra i prestatori, si nota la propagazione al legislatore eurounitario della tendenza nazionale all’allestimento legislativo, precisato 206 V. già G. Bernini, La tutela della libera concorrenza e i monopoli (studio di diritto comparato). II. Comunità europee e legislazione degli Stati membri, Milano, 1963, 158.207 Si può esemplificare con riferimento al documento sui rischi generali contemplato dalla disciplina dei contratti aventi a oggetto i servizi e le attività di investimento (v. già l’art. 28, co, 1, lett. b, e l’allegato n. 3, Regolamento Consob, 1 luglio 1998, n. 11522, concernente la disciplina degli intermediari: cfr. a es. A.A. Dolmetta, Normativa di trasparenza e ruolo della Banca d’Italia, in Dir. banca merc. fin., 1998, I, 29 ss.); oppure alla c.d. nota informativa, differenziata a seconda della tipologia di operazione, a cui è stato affidato (v. già l’allegato II, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174, nonché le Circolari Isvap, 1 marzo 2005, n. 551/D, e 2 giugno 1997, n. 303) l’adempimento degli obblighi in discorso quanto ai contratti di assicurazione includendola nel fascicolo informativo composto anche dalla c.d. scheda sintetica e dalle condizioni generali di contratto (cfr. a es. E. Piras, Collocamento dei prodotti assicurativi tramite Internet e tutela del contraente, in Resp. civ. e prev., 2007, 1505 ss.).208 Sul rapporto tra standardizzazione e comparabilità, cfr. G. Carriero, Scritti di diritto dell’economia, Milano, 2010, 197 s. L’identità della struttura dei moduli impiegati dai concorrenti sembra avvantaggiarla in misura così ragguardevole che il Regolamento Ivass 2 agosto 2018, n. 41, recante disposizioni “in materia di informativa, pubblicità e realizzazione dei prodotti assicurativi”, nel confezionare modelli vincolanti di documenti informativi precontrattuali (“Dip”) “aggiuntivi” rispetto a quelli “di base” (in parte direttamente disciplinati dalle fonti comunitarie), si spinge a prescrivere l’obbligo di mantenere tutte le sezioni e le rubriche previste dallo schema di riferimento quand’anche una o più di esse fossero destinate a non essere riempite per la mancanza di informazioni integrative rispetto a quelle già riportate nel modulo di base (v. artt. 15, co. 10; 16, co. 4; 29, co. 10).

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da fonti subprimarie di attuazione, di tracce coercitive con cui adempiere agli obblighi informativi209. Per altro verso, posto che parrebbe altresì acquisito che l’informazione comandata debba fornirsi con ragguagli conformi ai canoni della chiarezza e della comprensibilità210 il difetto delle quali frustra 209 Si può fare l’esempio del prototipo noto come Standard European Consumer Credit Information (alias Secci equivalente all’acronimo italiano Iebcc che sta per Informazioni europee di base sul credito ai consumatori), ossia ai modelli di documentazione informativa imposti, confezionando appositi moduli (v. allegati II e III) dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 aprile 2008, n. 2008/48/CE, relativa ai contratti di credito ai consumatori (v. a es. M. Kenny e J. Devenney, Conclusion: consumer credit, debt and investment in Europe, in J. Devenney e M. Kenny [eds.], Consumer Credit, Debt and Investment in Europe, Cambridge, 2012, 306 ss. e, ivi, 307). Oppure quello del key information document (alias Kid o “documento contenente le informazioni chiave”: cenni in F. Greco, Intermediazione finanziaria tra «precauzione» normativa ed alea giurisprudenziale: possibili rimedi, in Resp. civ. e prev., 2018, 755 ss.; e D. Maffeis, Dum loquimur fugerit invida aetas: lo swap in cassazione, prima di Mifid II e in attesa delle probabilità, in Banca, borsa tit. cred., 2018, 9 ss.) previsto per i packaged retail and insurance-based investment products (alias PRIIPs o “prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati”) dal Regolamento (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio 26 novembre 2014, n. 1286/2014 (su cui v. a es. V. Colaert, The Regulation of PRIIPs: Great Ambitions, Insurmountable Challenges, 2 [2016] J. of Financial Regulation 203 ss.), che peraltro non predispone un modulo, ma uno schema recato in forma discorsiva (art. 8) chiamando le autorità europee di vigilanza a elaborare “progetti di norme tecniche di regolamentazione” per specificare, tra l’altro, il contenuto di ciascuno degli elementi informativi previsti dallo schema tenendo “conto dei vari tipi di PRIIP, delle differenze fra di essi e delle capacità degli investitori al dettaglio, nonché delle caratteristiche dei PRIIP” (art. 8, par. 5, co. 1 e 2) e delegando alla Commissione l’adozione di tali norme (art. 8, par. 5, u.c.) che sono state introdotte con il Regolamento delegato (UE) della Commissione 8 marzo 2017, n. 2017/653, anch’esso peraltro ancora scevro di compiuti formulari. O, ancora, quello del precedente Key Investor Information Document (alias Kiid o “documento contenente le informazioni chiave per gli investitori”) previsto in relazione all’offerta al pubblico di quote o azioni di taluni Oicvm, segnatamente “aperti”, dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 luglio 2009, n. 2009/65/CE (c.d. “UCTIS IV”) e dal Regolamento (UE) della Commissione 1 luglio 2010, n. 583/2010, adottato in attuazione degli artt. 75 (par. 2), 78 (par. da 2 a 5) e 81 (par. 1) della direttiva da ultimo citata, anch’essi introduttivi d’una disciplina che non fornisce un modulo (offerto poi dal Committee of european securities regulators con le linee guida CESR/10-1321 del 20 dicembre 2010, parallelamente a quelle relative sia alla transizione dal prospetto semplificato – introdotto con la prima delle direttive cc.dd. UCTIS III, i.e. le direttive del Parlamento europeo e del Consiglio 21 gennaio 2002, n. 2001/107/CE, c.d. direttiva “gestori”, e n. 2001/108/CE, c.d. direttiva “prodotti” – al Kiid contenute nel documento CESR/10-1319; sia alla chiarezza del linguaggio e alla struttura del Kiid contenute nel documento CESR/10-1320): cfr. N. Moloney , EU Securities and Financial Markets Regulation, 3rd ed., Oxford, 2014, 251.210 Chiarezza e comprensibilità, oltre che completezza, sono attributi dell’informazione (e delle clausole contrattuali) che danno contenuto alla nozione di trasparenza in senso sostanziale: v. a es. G. D’Amico, Mancanza di trasparenza di clausole relative all’oggetto principale del contratto e giudizio di vessatorietà (Variazioni sul tema dell’armonizzazione minima), in Id. e S. Pagliantini, L’armonizzazione degli ordinamenti dell’Unione europea tra principi e regole. Studi, Torino, 2018,

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il fine delle prescrizioni di obblighi informativi quando non neghi la stessa natura informativa della comunicazione perché inidonea a dare conoscenza e, dunque, a integrare adempimento di detti obblighi, si nota un ulteriore sviluppo nella direzione del più esigente connotato dell’adeguatezza delle informazioni. Quest’ultima si giova degli indicati canoni che a essa concorrono, ma non se ne contenta, reclamando anche altri caratteri dell’informazione quali la pertinenza, la semplificazione, la concisione, per le quali pure passa l’idoneità delle comunicazioni informative a raggiungere lo scopo in vista del quale sono previste; e che, almeno in alcuni settori, paiono insistentemente perseguite mediante la standardizzazione normativa dell’informazione, sul piano sia sostanziale sia formale, di cui sembrano costituire significativi esempi il Secci, il Kid, il Kiid211, ma anche l’Ipid o “Dip danni”212.

87 ss. e, ivi, 91 nt. 8.211 Il Kiid fu introdotto proprio a motivo della registrata inutilità del prospetto informativo previsto per all’offerta al pubblico di quote o azioni di Oicvm, derivante da un’articolazione, complessità e lunghezza tali da dissuadere dalla lettura (v. L. Burn, KISS, but tell all: short-form disclosure for retail investors, in 5 [2010] CMLJ 144 ss.; cfr. A. Baglioni, Banche di nebbia. Orientarsi nella disinformazione finanziaria, Milano, 2017, cap. 5); nonché dell’inefficienza del c.d. prospetto semplificato che, consistente nella replica delle prime due delle tre parti di quello completo (a cui s’aggiungeva), non aveva sanato il difetto) e il Kiid ha per ciò mirato a sostituire con una nota sintetica più dettagliatamente normata per assicurarne la concisione (cfr. N. Moloney, EU Securities and Financial Markets Regulation, cit., 249, e P. Van Cleynenbreugel, Conduct of Business Rules in EU Financial Services Regulation: Behavioural Rules Devoid of Behavioural Analysis?, cit., 260).212 “Ipid”, come noto, è l’acronimo di Insurance Product Information Document, che denomina il documento informativo precontrattuale standard (previsto dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 gennaio 2016, n. 2016/97, sulla distribuzione assicurativa [c.d. Insurance Distribution Directive – IDD], attuata nell’ordinamento domestico con d.lgs., 21 maggio 2018, n. 68, che ha novellato il codice delle assicurazioni private [c.a.p.] in esecuzione dell’art. 5 l. 25 ottobre 2017, n. 163, c.d. legge di delegazione europea 2016-2017) che contiene la descrizione delle principali caratteristiche dei contratti di assicurazione contro i danni, previsto dalla Direttiva IDD e disciplinato dal Regolamento di esecuzione (UE) della Commissione 11 agosto 2017, n. 2017/1469, che stabilisce un formato standardizzato del documento medesimo. La novella ha comportato rilevanti mutamenti. Per un verso, è stata riformata la previgente disciplina dell’intermediazione assicurativa (artt. 106 ss. c.a.p.) per normare in conformità dell’IDD la distribuzione assicurativa (a cui, inoltre, si applica direttamente il Regolamento delegato (UE) della Commissione 21 settembre 2017, n. 2017/2359, che integra detta direttiva quanto agli obblighi di informazione e alle norme di comportamento applicabili alla distribuzione di prodotti di investimento assicurativi, c.d. Insurance Based Investment Product o IBIPs) anche per quanto attiene al c.d. “governo e controllo del prodotto” (art. 25 IDD, nonché Regolamento delegato (UE) della Commissione 21 settembre 2017, n. 2017/2358, direttamente applicabile in proposito agli assicuratori e ai “distributori di prodotti assicurativi”): a ciò ha fatto seguito il Regolamento Ivass 2 agosto 2018, n. 40, in materia di distribuzione

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A quest’ultimo riguardo, le analisi comportamentali213 mostrano i limiti che lo strumento dell’informazione obbligatoria incontra nel tentativo di superare le asimmetrie informative e, in genere, la disinformazione. L’attitudine del mezzo a realizzare il fine dipende dalla complicità del destinatario delle delucidazioni, dalla sua disponibilità ad assumere un ruolo attivo che implica l’impegno a far proprie le notizie ricevute e fruirne effettivamente; il disinteresse per le informazioni da parte di chi le riceva rende inutile l’obbligo di fornirle; l’indolenza è diffusa e aumenta con la quantità, la complessità e l’estensione delle informazioni214 che, quando siano eccessive, anche se apparentemente ineccepibili danno luogo a una situazione analoga a quella in cui esse siano carenti o difettose215. Per ciò

assicurativa e riassicurativa. Per altro verso, è stata riformata la previgente disciplina degli obblighi informativi precontrattuali, tenuto conto che per alcuni contratti di assicurazione gli obblighi informativi conoscono una disciplina di fonte eurounitaria direttamente applicabile che regola non solo il ricordato Ipid concernente i contratti di assicurazione contro i danni, ma pure il Kid contemplato (come si è già segnalato dal Regolamento UE del Parlamento europeo e del Consiglio 26 novembre 2014, n. 1286/2014) per i PRIIPs e, così, anche per gli IBIPs: si sono così abbandonati i riferimenti al precedente strumento di informazione precontrattuale che era costituito dalla nota informativa; e, in attuazione dell’art. 185 c.a.p., si sono aggiunti in via regolamentare (Regolamento Ivass 2 agosto 2018, n. 41), documenti informativi precontrattuali ulteriori rispetto a Ipid e Kid standardizzati a livello europeo (in particolare, quali specificità della disciplina domestica, sono stati introdotti sia il “DIP Vita” per i contratti di assicurazione sulla vita diversi dagli IBIPs, sia “Dip aggiuntivi” rispetto a quelli di base: “Dip aggiuntivo Danni”; “Dip aggiuntivo IBIP”; “Dip aggiuntivo Vita”; “Dip aggiuntivo Multirischi”), superando la struttura del Regolamento Isvap 26 maggio 2010, n. 35, che distingueva tra prodotti vita, prodotti di ramo III e V e prodotti danni, per seguire più da vicino l’articolazione dei contratti assicurativi prevista dal c.a.p. Nell’affiancare modelli di base e aggiuntivi, peraltro, non si forniscono definizioni a cui affidare una distinzione concettuale o anche soltanto elencativa tra le nozioni di informazione “principale” e informazione “integrativa”, ma sembra di capire che ci si contenti che non vi siano duplicazioni di informazioni.213 Sulla Behavioural Law and Economics, nella letteratura italiana, v. a es. il volume a cura R. Caterina, I fondamenti cognitivi del diritto. Percezioni, rappresentazioni, comportamenti, Milano, 2008.214 Cfr. a es. O. Ben-Shahar e C.E. Schneider, More Than You Wanted to Know: The Failure of Mandated Disclosure, Princeton e Oxford, 2014, passim; O. Ben-Shahar, The Myth of the ‘Opportunity to Read’ Contract Law, 5 [2009] ERCL 1 ss.; P. Van Cleynenbreugel, Conduct of Business Rules in EU Financial Services Regulation: Behavioural Rules Devoid of Behavioural Analysis?, in A. Alemanno e A.L. Sibony [eds.], Nudge and the Law: A European Perspective, Oxford e Portland, 2015, 255 ss.; V. Mak, Two levels, one standards? The multi-level regulation of consumer protection in Europe, in J. Devenney e M. Kenny (eds.), European Consumer Protection: Theory and Practice, Cambridge, 2012, 21 ss. e, ivi, 40.215 Cfr. a es. V. Santoro, La tutela dell’investitore in strumenti finanziari in prodotti di investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati (PRIIPS), in Regole e mercato a cura di M. Mancini, A. Paciello, V. Santoro e P. Valensise, I, Torino, 2016, 525 ss. e, ivi, 528, nt. 5; e

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sembra apprezzabile la registrata tendenza legislativa alla normalizzazione delle modalità con cui adempiere agli obblighi informativi, in particolare provvedendo (anche) modelli volti ad assicurare che, dalle informazioni complessivamente fornite, quelle principali – e più influenti sulla formazione d’un consenso consapevole all’operazione economico-giuridica – emergano schematicamente e succintamente.

In tal modo, la disciplina degli obblighi informativi si perfeziona, quanto alle tecniche di adempimento, per rimuovere ostacoli alla fruizione della prestazione in una prospettiva in cui parrebbe che, da un lato, non si ignora che nessuno strumento, per quanto raffinato, può vincere la disinformazione se non sia utilizzato da coloro nelle cui mani sia consegnato; e, dall’altro lato, lo sforzo normativo di affinamento dei dispositivi per vincerla si associa alla scelta di lasciare che il principio di autoresponsabilità dispieghi i propri effetti, ossia di lasciare che la noncuranza che per essi manifestino coloro che sono chiamati a giovarsene dispieghi i propri effetti allocandoli in capo a questi ultimi. Sotto questo profilo, l’accennata standardizzazione (e, in genere, gli obblighi informativi) costituisce manifestazione d’un paternalismo dei mezzi (non dei fini), nonché debole (non forte), che più si avvicina – o, addirittura, può riportarsi – allo harm principle216; che è coerente con un disegno normativo che giustifica sul piano teorico limiti normativi all’autonomia contrattuale, ma in cui resta radicata la policy di conservare ampi spazi in cui possano esprimersi preferenze individuali; e che, se non può dirsi che sia senz’altro estrinsecazione dell’anti-paternalismo217, può più facilmente raccogliere aperture da parte di chi di quest’ultimo sia esponente, specie al cospetto di accadimenti che ci si convinca che vadano considerati come fallimenti del mercato che passano (anche) per fallimenti cognitivi218.

cfr. E. Righini, Behavioural law and economics. Problemi di policy, assetti normativi e di vigilanza, Milano, 2012, 144.216 Sulle accennate distinzioni riguardanti le diverse forme di paternalismo e sul “principio di danno” (che si suole ricavare dal Saggio sulla libertà di John Stuart Mill e, in ottica anti-paternalistica e liberale, segna il limite del potere statuale di comprimere la libertà individuale di scelta; inclina al più ad ammetterne restrizioni sol se vi sia un ben definito rischio di rilevante danno per l’individuo o il pubblico; e implica, tra l’altro, la c.d. “sovranità del consumatore”), v. a es. C.R. Sunstein, Why Nudge? The Politics of Libertarian Paternalism, New Haven & London, 2014, 1 ss., spec. 4, 6, 19 s., anche nella trad. it. Id., Effetto nudge. La politica del paternalismo libertario, Milano, 2015).217 Ma v. A. Zoppini, Le domande che ci propone l’economia comportamentale ovvero il crepuscolo del «buon padre di famiglia», in Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato a cura di G. Rojas Elgueta e N. Vardi, Roma, 2014, 11 ss. e, ivi, 13. Cfr. C.R. Sunstein, op. cit., 1 ss.218 Cfr., dopo la crisi economico-finanziaria planetaria con cui si è avviato il terzo millennio, R.A. Posner, A Failure of Capitalism, Cambridge, Mass., 2009, che si ascrive ai critici della teoria

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La scelta normativa in discorso ben s’inquadra nell’alveo dell’evoluzione della disciplina sulla trasparenza delle relazioni negoziali nel senso dell’affrancamento dall’originario paternalismo con cui si è posta la questione della tutela del contraente debole219, proprio di disposizioni che tutelino addirittura contro sé stesso un contraente in ragione delle sue qualità o del suo status (di protezione)220. Non sempre, tuttavia, la questione della tutela del contraente debole, specie con riguardo al consumatore, viene posta con modi meno paternalistici che in passato221; facendo i conti con il vecchio brocardo dormientibus, non vigilantibus iura non succurrunt che sanziona la trascuratezza e l’inerzia; e tenendo conto che il problema centrale è quello di articolare disposizioni poste a guarentigia della libertà contrattuale, senza indulgere in eccessive benevolenze. Parrebbe dimostrarlo la suggestiva proposta ispirata a un marcato paternalismo d’antan che ambisce a trovare fondamento nel principio di precauzione che evoca222

economica comportamentale e ai difensori della concezione dell’individuo quale essere razionale (v. C.R. Sunstein, op. cit., 8).219 Anche la dottrina ha mutato atteggiamento: v. ad es. P.S. Atiyah, An Introduction to The Law of Contract, 5th edn., Oxford, 1995, che ha molto attenuato le espressioni di favore rivolte nelle precedenti edizioni dell’opera alle disposizioni di cui al testo. E tanto più la legislazione e l’interpretazione si affrancano dai modelli paternalistici quanto più si ragioni in termini di mercato, anziché di persona e di status: cfr., ad es., F. Bocchini, Tutela del consumatore e mercato, cit., spec. 785 ss.; P. Stanzione, Per una sintesi unitaria nella difesa del consumatore, in Riv. dir. civ., 1994, I, 887 ss.; G. Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, cit., 17 ss.; G. Rossi, Diritto e mercato, in Riv. soc., 1998, 1443 ss.; B. Libonati, Ordine giuridico e legge economica del mercato, ivi, 1998, 1540 ss. (ora anche negli Scritti giuridici, I, Milano, 2013, 615 ss.). In argomento v. altresì R. Pardolesi, Clausole abusive (nei contratti dei consumatori): una direttiva abusata, in Foro it., V, 1994, c. 137 ss. e Id., Clausole abusive, pardon vessatorie: verso l’attuazione di una direttiva abusata, in Riv. crit. dir. priv., 1995, 523 ss.220 Sul paternalismo delle normative protettive che riguardano i consumatori, i minori, e così via, che limitano la libertà contrattuale, v. R.A. Posner, Economic Analysis of Law, 2nd edn., 1977, 253 ss., e, più in generale, sul paternalismo del legislatore, sulle sue origini e implicazioni, cfr. M.J. Trebilcock, The Limits of Freedom of Contract, Cambridge (Mass.) e London, 1993, 147 ss.221 V. ad es. A.T. Kronman, Contract Law and Distributive Justice, 89 [1980] Yale L. J. 472 ss.; Id., Paternalism and the Law of Contract, ivi, 92 [1983], 763 ss.; e cfr. G. Alpa, Strategie d’impresa e tutela del consumatore. Per una critica del fenomeno «consumerism», in Pol. dir., 1974, 494 ss., H. Collins, Distributive Justice Through Contracts, 45 [1992] Current Legal Problems 49 ss., e Id., Good Faith in European Contract Law, [1994] 14 Oxford Journal of Legal Studies 228 ss., ove, discettando della politica comunitaria di tutela dei consumatori, l’A. dubita che il modello migliore di disciplina sia quello di scandire una serie di diritti specifici e dettagliati, ed esprime preferenza per disposizioni intese ad assicurare la libertà di scelta, anche per i benefici che potrebbero derivarne sul piano dell’efficienza del mercato, in quanto funzionali alla concorrenza sarebbero le seconde anziché i primi; nonché N. Reich, Some Remarks on the Theory of European Consumer Law, in ERPL, 1995, 285 ss.222 Si allude alla proposta di F. Greco, Intermediazione finanziaria tra «precauzione» normativa

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e caldeggia l’istituzione di “un’autorità” addirittura “non imbrigliata nelle maglie della legiferazione, ma libera di muoversi flessibilmente tra le molteplici «rischiose» – ed ab origine inconoscibili – interazioni del mercato finanziario”; a cui andrebbe assegnato “il ruolo … di vagliare con professionalità, indipendenza e terzietà, l’an (cioè il prodotto finanziario) alla base delle singole operazioni con l’obiettivo di prevenire l’eccessivo sbilanciamento delle stesse o l’assunzione unilaterale di rischio, nell’ottica di salvaguardare gli interessi dell’investitore”; e con la quale “si attuerebbe un efficace meccanismo di pronto intervento idoneo a tamponare la propagazione di rischi «non voluti»”, “diretto a colmare il gap conoscitivo dell’investitore, sul quale non graverà più l’onere di dover decidere in situazioni di mancanza di informazioni o di difficile comprensione ma nei cui confronti saranno messi a disposizione gli strumenti necessari a tal fine”.

In proposito, non si tratta solo di rilevare che, nel settore dell’investimento in strumenti finanziari preso in considerazione, postulare “gap informativi” e, in relazione a essi, “l’onere di dover decidere in situazioni di mancanza di informazioni o di difficile comprensione” appare ingeneroso rispetto ai numerosi e via via perfezionati strumenti informativi dell’investitore predisposti dal legislatore per contrastare “distorte visioni del reale”; e non coglie la causa della disinformazione, che non è (o non è più o non è necessariamente) la carenza o la complessità delle informazioni, bensì l’indifferenza rispetto a esse. Di più: la soluzione prospettata parrebbe incongruente e inutile rispetto al fine di “colmare … gap informativi” e “garantire all’investitore gli strumenti adatti per decidere coscientemente se

ed alea giurisprudenziale: possibili rimedi, cit., 755 ss., che, nel supposto ossequio per “l'adozione di un approccio precauzionale”, muovendo dalla supposta crisi del “paradigma di razionalità”, non la risolve in “un’ardita equiparazione totale tra l’irrazionalità inevitabile dell’investitore ed una situazione di incapacità in senso giuridicamente rilevante”, e, tuttavia, sul presupposto “che la prima non si traduce in scelte errate o coatte ma riguarda il convincimento viziato da distorte visioni del reale”, trascurando i perfezionati strumenti provvisti per contrastarle e le indicazioni provenienti dal principio di autoresponsabilità che avvilisce, propone “un intervento normativo innovativo e suppletivo che possa supportare l’approccio paternalistico costituito dagli obblighi informativi”; proclamando “il fallimento delle tecniche normative basate sull’informazione”, procede “alla delineazione di una soluzione alternativa «potenzialmente» in grado di colmare quei gap informativi sussistenti tra le parti della negoziazione ed a garantire all’investitore gli strumenti adatti per decidere coscientemente se concludere o meno l’operazione di investimento”; suggerisce di sostituire a “un rapporto diretto tra intermediario ed investitore”, al “meccanismo di tutela basato sul flusso di informazioni cercando di perfezionarlo mediante la riduzione della quantità di informazioni, attraverso la trasmissione di informazioni più «semplici»”, “la triangolazione del rapporto di intermediazione, ovvero la creazione di una parte diversa dall’intermediario e dal cliente … che possa valutare in modo terzo ed imparziale l’equità delle condizioni dell’operazione di investimento prima ancora che la stessa venga conclusa”.

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P. Gaggero

concludere o meno l’operazione”.La soluzione, infatti, sta in ciò che “al fallimento delle tecniche normative

basate sull’informazione” si sostituisce un modello che implica il sindacato del“l’equità delle condizioni” negoziali e persino dei “rischi «non voluti»” per espungerli dall’operazione: ossia un disegno normativo, fortemente autoritario che cede alla retorica della giustizia contrattuale e contempla un controllo di merito, autoritativo e diffuso, sul contenuto del contratto e sulla “volizione”; che sottrae alle parti la scelta del contratto per rimetterla ad altri, riducendo gli spazi della libera manifestazione delle preferenze individuali; che ripropone forme di paternalismo forte che parevano superate; che trascura che i cultori della behavioural economics solitamente inclinano per forme di paternalismo debole tese a creare un’architettura delle scelte che lasci agli individui di promuovere i propri fini così come essi li intendono223. L’espediente prospettato, dunque, annichilisce il contratto, la persona e il mercato e fa a meno del principio di autoresponsabilità, del ricordato brocardo: ma, per l’appunto, parrebbe in modo incongruo; e inutile.

Incongruo perché si profila un intendimento rispetto al quale la soluzione offerta (che dovrebbe “colmare … gap informativi” e “garantire all’investitore gli strumenti adatti per decidere coscientemente se concludere o meno l’operazione”) non realizza l’obiettivo: non si prospettano, infatti, tecniche alternative, più efficienti, d’informazione; il tema è estraneo alla proposta, che non incide sulle tecniche dell’informazione, né colma alcun gap informativo, bensì demanda a un soggetto terzo la selezione di “strumenti” non già informativi, ma d’investimento, la cui individuazione ha l’unico effetto di restringere l’area delle operazioni disponibili tra cui l’investitore può scegliere; non ha dunque nulla a che vedere con l’obiettivo dichiarato, tant’è che un poco contraddittoriamente alla proposta si assegna il risultato di sollevare l’investitore dall’onere “di dover decidere”. Inutile perché la proposta nulla aggiunge sul terreno degli strumenti informativi e, dunque, non apporta alcun contributo che assicuri che la disinformazione sia vinta: la selezione di clausole e operazioni operata dall’autorità immaginata non assicura affatto che la scelta operata dall’investitore tra quelle soltanto sia, dunque, informata e consapevole.

Il dialogo, avviato tanto tempo fa, continua.

223 V. C.R. Sunstein, op. cit., 19 s.

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Aurelio Gentili

Su “Il contratto.Fonti, teorie, metodi” di Guido Alpa

Sommario: 1. Ritrarre un Autore attraverso un suo libro – 2. Il metodo di Guido Alpa. – 3. In che senso vi si parla di diritto – 4. In che senso vi si parla del contratto – 5. Una domanda al libro: quale contributo non meramente culturale dà una introduzione culturale alle operazioni pratiche cui l’interprete è chiamato? – 6. Il contributo critico di una cultura degli istituti giuridici alla soluzione di problemi tecnici

1. Ritrarre un Autore attraverso un suo libro

Nelle occasioni festose s’usa fare una foto al festeggiato. Perciò vorrei fare almeno un piccolo ritratto di Guido Alpa. Ma come potrei? Una personalità sfaccettata, una produzione sterminata, imporrebbero una pluralità di punti di vista che non è della pagina. Dovrei fare come quei pittori del XVII secolo che ritraevano sulla stessa tela la fisionomia dei grandi da almeno tre prospettive.

Eppure mi azzardo a dare una pennellata che cerchi di cogliere l’essenziale: la cifra costante di un giurista a tutto tondo che ha trattato a tutto tondo la sua materia. Mi pare che sia questa: GA è l’A. che più di ogni altro ci mostra come tutto si può intendere in molti modi.

Ma per dimostrare che questo sia il suo tratto caratteristico – cosa impossibile da fare rispetto al macrocosmo della sua produzione – mi servirò del microcosmo (non tanto ‘micro’! 857 dense pagine di dottrina) di un suo scritto recente: “Il contratto in generale. Fonti, teorie e metodi”, uscito nel 2014 nel Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo per i tipi della casa editrice A. Giuffré di Milano.

2. Il metodo di Guido Alpa

Il libro di Guido Alpa somiglia all’Autore: ci mostra appunto che tutto

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A. Gentili

si può leggere in molti modi. Vi si trovano infatti ricapitolati ed analizzati come introduzione colta ai successivi volumi del trattato tutti i discorsi che secoli di pensiero giuridico hanno svolto sul contratto.

Dei temi, dei contenuti, diranno altri. Qui vorrei dire del metodo scelto, e di ciò che sottende.

Questa specialità dell’approccio con cui l’Autore ha pensato il volume, che apre i cinque ora dedicati dal Trattato di diritto civile e commerciale a Il contratto in generale, non è materia di opinione. È infatti dichiarata nella premessa: “Il volume introduttivo presenta aspetti peculiari, perché nell’introduzione si devono affrontare i temi di carattere generale in cui si articolano gli aspetti essenziali dell’istituto, si deve tener conto del suo sviluppo storico, del suo profilo dogmatico e della elaborazione teorica in cui sono affluite le ricerche a sfondo economico-sociale, e si deve dar conto anche dello stato dell’arte, cioè degli approdi a cui è pervenuta l’analisi scientifica in materia, oltre che degli aspetti fattuali. Tutti aspetti che nei modelli diffusi nella letteratura giuridica sono trattati in modo sintetico” (p. 7).

Effettivamente, mentre nei modelli di trattato diffusi nella letteratura giuridica corrente sviluppo storico, ricerche economico-sociali, profili comparatistici, orientamenti dottrinali, aspetti fattuali e approdi dell’analisi sono d’uso trattati in modo sintetico, qui sono l’oggetto specifico ed esclusivo della trattazione. Negoziazione, elementi, effetti, rimedi, che sono la materia consueta dei trattati sul contratto, sono rinviati ai volumi successivi, ai quali il primo offre il contesto culturale.

Ma così come enunciato dall’Autore, con indubbio understatement, l’approccio minimizza la specialità del volume. Né a spiegarla basta il richiamo al piano editoriale, che rinvia ai volumi successivi la materia consueta. La specialità infatti qui non è di quantità (una maggiore attenzione a quegli aspetti, solitamente trattati in modo sintetico). Quanto a questo, sarebbe solo da notare che nel libro viene a piena maturazione un trend che ha caratterizzato da tre decenni la civilistica. In modo crescente negli scritti degli ultimi trent’anni gli autori hanno illuminato il tradizionale discorso dogmatico sul contratto con richiami storici, comparatistici, economici, sociologici, filosofici.

Quella specialità è invece di qualità (una diversa attenzione). Non era infatti finora mai accaduto in un trattato che quegli aspetti fossero non l’accessorio ma il principale, non uno dei contenuti ma il contenitore della trattazione. G. Alpa, scrivendo un volume di tal fatta non fa semplicemente di più di quanto da tempo anche altri fanno. Fa altro.

Mi spiegherò con un raffronto. Il libro di G.A. fa venire in mente un

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Su “Il contratto. Fonti, teorie, metodi” di Guido Alpa

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dipinto famoso quanto singolare: la ‘Flagellazione’, di Piero. In cui, con un radicale rovesciamento di prospettiva, la scena del titolo è confinata in fondo, mentre in primo piano campeggiano tre personaggi che ne parlano. Così nel libro il contratto scivola sullo sfondo e campeggiano i discorsi della storia, dell’economia, della sociologia che ne parlano.

Trovo questo rovesciamento particolarmente indovinato, e spiegherò tra un attimo perché. Prima vorrei osservare che ci troviamo dunque di fronte non ad un libro, ma ad un meta-libro. Un libro (non sul contratto, ma) sui discorsi sul contratto. E in tal modo un vero libro di cultura del contratto. Perché – ecco il motivo per cui il rovesciamento di prospettiva mi sembra davvero indovinato – mentre laddove esiste un oggetto materiale del discorso scientifico, ciò che esso è nella realtà sopravanza sempre per importanza culturale ciò che se ne dice, dove invece, come per i concetti giuridici, non c’è alcun oggetto reale fuori del discorso scientifico, è questo che conta. E la vera cultura è conoscere criticamente i discorsi che concernono l’oggetto ideale in questione.

Di questa consapevolezza GA dimostra sicuro possesso e fa uso brillante. Chi lo legga, sul contratto alla fine sa cose molto più importanti – sebbene nel libro non si snoccioli il solito rosario requisiti-interpretazione-effetti-impugnative – di quelle che si possono apprendere anche da un dettagliato manuale.

Chiarito questo, la mia riflessione sul volume è chiedermi cosa ciò significhi in termini metodologici. Naturalmente si potrebbe indagarlo a proposito di molteplici temi. Ne rassegno due.

Il ‘diritto’. Di che diritto si tratta nel libro? Il ‘contratto’. Di che contratto si tratta nel libro?

3. In che senso vi si parla di diritto

Il diritto. I libri ‘di diritto’ sono in realtà – a parte i filosofici – libri su questo o quel diritto. Il libro di Guido?

È, formalmente, il primo di un trattato di diritto privato italiano. Ma si può dire realmente che sia un libro di diritto italiano? Secondo me no. Per eccesso, non per difetto. E nel dirlo mi conforta che ce lo dica espressamente l’Autore: “Proprio dal contratto si sono diramate molteplici ricerche (…). Anche gli strumenti del mestiere (…) sono rivolti alla creazione di una koiné che è destinata a diffondersi sempre più e a prevalere sui nazionalismi miopi

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A. Gentili

e tradizionalisti” (p. 31). Alla domanda, perciò, ‘in quale ordinamento si colloca il libro di G.A.?’

la risposta è: sia pure ad uso e consumo del giurista italiano, il libro non si colloca in questo o quell’ordinamento, ma in quella koiné.

Se l’assunto è originale, il corollario è sorprendente. Parlare del contratto in riferimento ad una koiné sgancia l’oggetto, il contratto, o meglio i discorsi sul contratto, dal dato istituzionale – il diritto positivo italiano - per legarlo a quello culturale. Un bel rovesciamento di prospettiva circa il dato ontologico, conseguente a quel rovesciamento di prospettiva sul piano metodologico di cui accennavo sopra!

Vorrei essere più esplicito: i nostri nonni pensavano che il contratto è quello che ne dice la legge (italiana). I nostri padri pensarono che è anche quello che ne dice la scienza giuridica pratica e teorica che parla di quella legge. Alpa evidentemente pensa che è anzi tutto quel che se ne dice in quella koiné, al di là e al di sopra di quel che ne dice questa o quella legge, questa o quella giurisprudenza, questa o quella dottrina. In tal modo il diritto, che era nel discorso della legge, e poi anche nel discorso sulla legge, ora è nel discorso tout court.

È un mutamento di prospettiva che fa del giurista non più lo studioso di un dato istituzionale ma culturale. E infatti il discorso del libro scivola senza discontinuità dal diritto italiano ai diritti nazionali, dal civil Law al common Law, dalla dogmatica al giusrealismo, dall’esegesi all’analisi economica, dal dato formale a quello socio-economico. Caratterizzante non è più il testo di legge.

Non è una mia forzatura interpretativa; ci viene detto in chiaro: “I fenomeni giuridici, gli orientamenti culturali, la prassi dell’applicazione delle regole, sono fenomeni complessi, di cui la componente testuale è solo uno dei molteplici aspetti da considerare. Conta altrettanto, se non di più, la creazione della norma, che riflette la mentalità, la cultura, l’ambiente sociale, persino l’umore, dell’interprete” (p. 798).

Senza che appaia troppo, con l’aria di informarci più largamente (e non si può non dare atto della vasta erudizione che sorregge la trattazione) Alpa ci porta fuori dal positivismo giuridico. Il dato ‘positivo’ cui il discorso di A. si àncora non è più la legge. Veramente ‘positivi’ sono qui gli orientamenti, le prassi. E il discorso è ‘giuridico’ perché vi si riferisce. Nel senso del giuspositivismo classico quel discorso resta giuridico, al di là di questa o quella legge, solo perché una cultura giuridica, che è poi quella del mondo occidentale, crea un modello di contratto che le parti potranno assoggettare a questa o quella legge. Ma questo è la conseguenza, non l’essenza, del

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Su “Il contratto. Fonti, teorie, metodi” di Guido Alpa

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discorso del giurista. Insomma: ieri la legge precedeva il modello, oggi il modello precede la

legge. In duplice senso: viene prima e conta di più. Si può restarne colpiti, ma non scandalizzati. Dopotutto è evidente:

anche le leggi sono prodotte dalla cultura da cui emanano. Non creano le idee ma semplicemente scelgono tra quelle correnti, lasciando all’interprete ampio margine per rifoggiare la scelta, tenuto conto delle necessità e delle possibilità di riformulazione che la cultura giuridica suggerisce.

Il libro da questo punto di vista è un erudito e ragionato repertorio delle idee correnti nella citata koiné, ad uso degli interpreti.

4. In che senso vi si parla del contratto

Il contratto. I libri sul ‘contratto’ sono in realtà – compresi questa volta i filosofici – libri su questa o quella concezione del contratto. Il libro di Guido?

Dopo quanto detto va da sé che la risposta sia ‘no’. Anzi, il libro serve proprio a non trascurare le molte possibili concezioni. Alpa si dà anche la pena di elencarle: il contratto “…come espressione della libertà della persona,…come strumento di un programma economico, ..come superfetazione di valori sociali sottostanti, …come espressione della tutela di interessi individuali, ..come strumento rivolto anche a soddisfare esigenze sociali, … come oggetto dell’attività di regolazione, e così via” (p. 31). E di ordinarle: “Si è superata la teoria classica (…). Si è consolidata la teoria normativa (…). Nel nuovo millennio è in fase di elaborazione una teoria che potremmo chiamare critica (…) che storicizza le categorie, non considera i testi normativi come immodificabili, si apre alla comparazione con altri ordinamenti, colloca gli istituti nel loro contesto economico-sociale, enfatizza i valori sottostanti alle regole, affianca alla disciplina legislativa le regole prodotte da organizzazioni private” (pp.215-216). Ma non è tutto: sono più volte citate una concezione antropologica, e una funzionalista,

E va da sé anche che la pluralità di concezioni possibili, e soprattutto di concezioni correnti, influenzi i problemi del contratto e orienti diversamente le soluzioni. Per fare due esempi, le pagine sulla libertà contrattuale e le pagine sulla giustizia contrattuale sono riflessioni sulle diverse prospettive che si possono avere di uno stesso problema e sulle diverse ragioni di opposte soluzioni.

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A. Gentili

Ma sarebbe frettoloso dire che la risposta alla domanda sul concetto di ‘contratto’ oggetto del libro – tale, come visto, in via mediata, perché colto attraverso i discorsi che lo concernono - sia un secco: ‘no, nessun concetto particolare’. Del resto quella risposta nemmeno potrebbe essere un semplice no: significherebbe un rifiuto di assumere alla base dei tanti discorsi un vuoto. Ne soffrirebbe la coerenza del libro, in cui nulla più starebbe a dare unità alla trattazione.

È un problema importante e – credo – sentito dall’Autore, che accostando le disparate prospettive degli innumerevoli discorsi sul contratto ha dovuto fare i conti con la necessità di un piano dell’esposizione, per conciliare la varietà con la pertinenza e non scivolare nella farragine. Ad essere sincero, pur apprezzando il risultato non sono sicuro di condividere per intero la scelta: forse il piano espositivo poteva essere per certi aspetti diverso. Il lettore coglie appieno la molteplicità di sfaccettature dei discorsi sul contratto ma patisce un certo sperdimento.

Ma questo ora è secondario per ciò che intendo sottolineare. Quel che voglio far notare è che nel libro sotto la molteplicità dei discorsi richiamati, che ci prospettano il contratto da innumerevoli punti di vista, non manca una precisa concezione del contratto; e che essa intenzionalmente mantiene una unità nella diversità; e che infine rende possibile, una volta acquisita la molteplicità degli apporti culturali, riconoscerne l’affinità e impostare tecnicamente la soluzione del caso.

Delle citazioni dimostrano il mio assunto.“Occorre individuare la prospettiva storica in cui si colloca il paradigma

di contratto come usualmente inteso: cioè un incontro di volontà tra due o più parti volto a costituire un vincolo giuridico che sancisce lo scambio di prestazioni o lo sforzo cooperativo per svolgere una attività in comune, per realizzare cioè uno scopo ritenuto legittimo e utile dall’ordinamento. A questo schema di base si possono portare poi varianti…” (pp. 756-757). Ecco dunque esplicitata la concezione di base che consente, pur nella varietà di discorsi diversamente orientati, di intenderci quando parliamo di ‘contratto’.

E ancora: “Assumendo in modo stipulativo la nozione di contratto come il vestimento giuridico di una operazione economica conclusa da due o più parti, molti, se non quasi tutti, i problemi affrontati e risolti nelle diverse esperienze ci appaiono assai simili fra loro, molti degli interrogativi e delle questioni che si pongono i giudici e gli studiosi sono simili tra loro, molte delle concezioni che si sviluppano nei diversi contesti sono affini…” (pp. 30-31).

Mi pare che queste parole spieghino perfettamente come la varietà dei discorsi sul contratto costruisca nella ricostruzione dell’A. un ordito e non

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un mero garbuglio.

5. Una domanda al libro: quale contributo non meramente culturale dà una introduzione culturale alle operazioni pratiche cui l’interprete è chiamato?

D’uso chi commenta un libro lo descrive, sottolineandone dei punti, e lo loda o lo critica, esprimendo consensi o dissensi.

In questo caso tutte queste operazioni sono scarsamente possibili. Descriverlo è ostacolato dalla varietà: come si fa a descrivere mille profili? Apprezzare è scontato: sapienza, ricchezza, informazione, sono doti così evidenti che sottolinearle sarebbe come mettersi a dire che una circonferenza è proprio tonda. Criticare è reso difficile dalla verità di ciò che G.A. ci dice: non c’è alcun dubbio che quelli che egli riporta siano oggi i discorsi sul contratto e che se ne debba tener conto.

Vorrei perciò chiudere facendo una cosa diversa: interrogare il libro.Parto da un assunto dell’Autore. È riferito al diritto contrattuale europeo

ma vale a maggior ragione per il diritto contrattuale in sé. Ricordate ancora una volta le tante prospettive possibili A. conclude che “Tutti questi nodi debbono essere sciolti sia quando ci si accinge a compiere operazioni culturali, sia quando ci si accinge a compiere operazioni pratiche. Proporre uno o più modelli di normazione (…) è infatti al tempo stesso una operazione culturale (si potrebbe dire di politica culturale) e una operazione di natura pratica (si potrebbe dire di politica del diritto)” (p. 759).

Giusto. Ma l’operazione va compiuta. Incontestato che ormai non si possa più compierla prescindendo dalla considerazione della detta koiné (e su questo il metodo propostoci è inconfutabile) come si fa poi a compierla? Non ho dubbi che il giurista debba tener conto dei modelli delle prospettive delle prospettazioni che animano la complessiva cultura del diritto contrattuale. Ma poi deve dire qual è, e perché, la soluzione corretta di un problema tecnico.

Se non lo facesse si esporrebbe al sarcasmo sotteso alla vecchia storiella della prima notte di nozze del sessuologo. Che ritiratosi finalmente in camera con la sposina le dice: “Sai, cara, questo momento fondamentale della vita di coppia è visto in mille modi dalle varie culture. Per esempio: conosci la tradizione religiosa del trinoctio di S. Antonio, per cui gli sposi si astengono in preghiera per i primi tre giorni per propiziarsi la benedizione divina? O, invece, l’uso germanico del Morgengabe, per cui l’unione è

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A. Gentili

definitivamente consacrata solo il mattino dopo con un dono alla sposa? Per non parlare ovviamente dei costumi nuziali dello Sri Lanka, o delle pratiche suggerite dal Kamasutra. Eh, ce ne sarebbe da dire! Ma non è il momento: ora dormiamo!”.

Occorre dunque, perché faccia opera scientificamente utile, che il giurista offra, con le diverse prospettive e la loro analisi critica, l’indicazione della via che porta ad una soluzione che abbia tenuta.

Intendiamoci: il giuspositivismo legalista che credeva di risolvere tutto legiferando e poi di constatare nella legge la risposta giusta è morto e non intendo resuscitarlo. Ma sebbene io sia tra quelli che ne riconoscono la mistificazione – perché come ci dice Guido più della disposizione legale conta la mentalità, la cultura, l’ambiente sociale, persino l’umore, dell’interprete (p. 798), esso aveva almeno una buona intenzione quando prescriveva di decidere ‘secondo la volontà del legislatore’. La decisione poteva essere errata. Ma era giustificata. Nel quadro della mera descrizione di una variegata koiné può valere tutto come il suo contrario.

Insomma: quale contributo non meramente culturale dà una introduzione culturale alle operazioni pratiche cui l’interprete è chiamato? Se la risposta fosse che non ne dà, apprezzeremmo certamente il pregio del libro in termini di sapienza giuridica ma, diciamolo, non potremmo non accennare una critica alla sua utilità.

6. Il contributo critico di una cultura degli istituti giuridici alla soluzione di problemi tecnici

Guido però sfugge alla critica. Non perché nel libro compia una esplicita opzione sui modelli normativi

o, men che meno, sulla soluzione dei molti problemi tecnici ricordati. D’altronde, il piano editoriale del Trattato prevedendo questo volume come una introduzione ai problemi del contratto gli chiedeva di aprire, non anche di chiudere, il discorso su di essi.

Da questo punto di vista nel volume si trova solo una opzione metodologica. G.A. compie infatti nel libro una tacita ma inequivoca adesione alla dottrina ermeneutica. Acutissima nel ricostruire per il discorso dell’interprete il contesto culturale in cui dovrà muoversi il suo discorso, ma – almeno a mio parere – meno nel fornirgli la bussola.

Guido sfugge alla critica perché la sua introduzione non è mera

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Su “Il contratto. Fonti, teorie, metodi” di Guido Alpa

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descrizione – sia pure fatta con amplissima conoscenza – dei diversi punti di vista. È anche confronto critico di quei punti di vista, che ne fa risaltare i punti forti e i punti deboli. Ciò senza imporre dogmaticamente al lettore una risposta alle domande gli consente però di comprendere da solo quali risposte non possono essere date, perché pur avendo delle ragioni alla fine non hanno ragione.

So che G.A. è d’accordo con me in questo. Infatti lo scrive: “Posto che è difficile (…) prevedere il ritorno del giudice a mera «bouche de la loi», occorre almeno prevenire errori logici e quindi sostanziali ingiustizie” (p. 553). E il libro vi riesce, perché quando come qui le domande sono impostate bene le risposte scaturiscono naturalmente. In tal modo la ricerca di GA raggiunge anche un altro e ragguardevole effetto: rispettare il lettore, indirizzandone la riflessione ma consentendogli di giungere da sé alla conclusione.

Detto questo c’è solo da aggiungere che stimolando così intensamente il nostro desiderio di sapere GA eccita il nostro appetito di ulteriore conoscenza. Perciò penso che avendo impostato la domanda egli si sia moralmente obbligato alla risposta.

E allora dovrà piegarsi a qualcosa che non so se fosse nelle sue intenzioni: scrivere un altro libro.

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Paolo Grossi

Della interpretazione come invenzione (La riscoperta pos-moderna del ruolo inventivo della interpretazione)

Sommario: 1. L’interpretazione della legge entro il riduzionismo giuridico moderno – 2. Sulla riscoperta novecentesca della fattualità del diritto – 3. L’evento ‘Costituzione’ nell’itinerario giuridico novecentesco – 4. La ‘Costituzione’ novecentesca: un evento ‘rivoluzionario’ – 5. Una conclusione: Stato e leggi non esauriscono la giuridicità della Repubblica.

1. L’interpretazione della legge entro il riduzionismo giuridico moderno.

L’interpretazione della legge, che è un pilastro nodale per ogni ordinamento a base legislativa, può essere meglio còlta nella sua reale dimensione odierna se osservata e valutata in un confronto diacronico, utilissimo per accentuare la sua singolare caratterizzazione nell’oggi. Posto che noi siamo collocati in un tempo giuridico correttamente qualificabile come pos-moderno1, si impone il premettere quale prezioso dato comparativo la configurazione che l’interpretazione della legge ha avuto in quel tempo giuridico moderno che si assesta e si definisce nel momento giacobino della rivoluzione francese, incombendo poi nello svolgersi ottocentesco di dottrina e di prassi.

Il che è abbastanza facile essendo indiscutibilmente netto il disegno delineato in un siffatto contesto storico; nel quale assistiamo al congiungersi stretto fra un acceso liberalismo economico e un altrettanto acceso assolutismo giuridico. Lo Stato liberale (che siamo soliti chiamare con parecchia approssimazione ‘Stato di diritto’), consapevole dell’enorme capacità coesiva che ha il diritto per la saldezza del potere politico e consapevole che quel potere – ormai nelle mani del ceto borghese – ha da restar saldo per tutelare gli enormi interessi economici del ceto, si impegna – assolutisticamente – nella attuazione di un rigido monismo giuridico. Lo

1 Rimando alle precisazioni offerte in altre mie pagine: Novecento giuridico – Un secolo pos-moderno, ora in Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma/Bari, 2012.

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P. Grossi

Stato assume la veste dell’unico produttore di diritto, rendendo la legge – espressione di una volontà politica suprema – l’unica fonte di produzione; sì unica, giacché ogni altra manifestazione giuridica è posta nei gradini inferiori di una rigidissima gerarchia.

Usiamo, di proposito, l’aggettivo ‘rigido’ per sottolineare il letto di costrizione entro il quale il diritto è forzosamente immesso. Si pensi allo strumento, che la rivoluzione vuole e che Napoleone realizza, progettato per racchiudere una intiera branca giuridica entro un serrato sistema di dettagliate previsioni: il Codice, che dalla germinale Francia si estende a tutta l’Europa continentale occidentale. E’ una fonte novissima2, che non ha precedenti malgrado quel nome – Codice – usato parecchie volte nei quasi duemila anni precedenti con significati però assai diversi; novissima, se non altro, per la presunzione che le è sottesa di disciplinare dettagliatamente un ampio territorio del diritto con la pretesa alla esclusività e con la proiezione verso un futuro senza fine. Tanto è vero che, in Francia, per il primo Codice, il napoleonico Code Civil, si ha soltanto in questi anni, dopo più di due secoli di vita, una novazione profonda (che non ci può che lasciare, ohimè, perplessi).

Statalismo e legalismo si affannano a rintuzzare il più possibile il rango della interpretazione e dell’interprete. Ne abbiamo un esempio in Italia in quelle ‘Preleggi’ al Codice del 1942, che, mutate e trasfigurate in molte parti, rimangono ancora conservate in una positività formale (e stonata con l’attuale approccio giuridico pos-costituzionale) per quanto attiene proprio alla “interpretazione della legge”; dove si afferma, in modo lampante nell’articolo 12, che “non si può ad essa [legge] attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole…e dalla intenzione del legislatore”, lasciando all’applicatore il solo ricorso alla interpretazione estensiva ed analogica e ai ‘principii generali dell’ordinamento giuridico dello Stato’ e mantenendo così il principio salvante (salvante per una visione assolutistica) della statualità del diritto.

Qui all’interprete spetta una più confacente qualificazione, quella di esegeta, intendendo con la parola ‘esegesi’ (proveniente – guarda caso! – dalla scritturistica sacra) nulla più che la spiegazione passiva di un testo. Per questo, i caratteri tipizzanti della legge sono generalità chiarezza certezza, cui deve attenersi il legislatore per rendere effettiva la auspicata passività dell’esegeta. Con un risultato disarmante: primato del testo sui fatti di vita ma anche separazione del testo dai fatti di vita. E il legalismo si trasforma necessariamente in formalismo. E l’astrattezza diventa apprezzatissimo 2 Mi basta rinviare a quanto ne scrissi una diecina di anni fa: Code civil – Una fonte novissima per la nuova civiltà giuridica, in Il bicentenario del Codice napoleonico – Atti dei Convegni Lincei, 221, Bardi, Roma, 2006.

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Della interpretazione come invenzione

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carattere della norma. E, via via, si insinua, in tal modo, il mito della purezza del diritto (ridotto a forma disincarnata), nonché della scienza giuridica; in particolare, per quel che maggiormente interessa ai fini della presente lezione, della purezza del diritto civile, un diritto sublimato a ratio scripta facendogli assumere la qualità inestimabile (per i legalisti, s’intende) della meta-temporalità.

2. Sulla riscoperta novecentesca della fattualità del diritto

E i fatti – naturali, sociali, economici – nei quali è immersa l’esistenza quotidiana degli uomini e con i quali essi sono chiamati a fare i conti? La risposta è pronta: ai fatti deve pensare soltanto il legislatore. Nella visione moderna i due territorii del diritto e dei fatti appaiono separati da una sorta di impenetrabile muraglia, a cavalcioni della quale è da collocare idealmente il legislatore, il solo chiamato ad attingere alla fattualità e a trasformarla quando voglia in una dimensione anche giuridica.

E’ stata, per la scienza civilistica italiana, una impronta – questa della purezza – che è durata a lungo, tanto che, ancora negli anni Cinquanta, uno dei nostri maggiori maestri, Francesco Santoro Passarelli, si riteneva legittimato a redigere un testo di iniziazione didattica intitolàndolo ‘Dottrine generali del diritto civile’3, testo esemplare per nitore di scrittura e di concetti, ma percorso dalla volontà di ridurre il diritto civile a un prodotto depuratissimo da scorie, a una ratio scripta come si diceva più sopra.

È evidente che il culto della astrattezza e il mito della purezza rientravano in una occhiuta strategia; servivano cioè a mascherare la finalità preminente della civiltà borghese: la assoluta tutela dell’abbiente e delle sue ricchezze, cui si univa la sfrontata indifferenza per lo squallore e le miserie delle masse. Ma c’è di peggio: la conquistata uguaglianza giuridica, rendendo formalmente aperto a tutti l’accesso alla proprietà fondiaria (e, quindi, alla ricchezza), veniva a identificare il mancato arricchimento quale frutto di pigrizia o di incapacità. Ed è in Italia soltanto con la Costituzione repubblicana, e, in particolare, con la complessità dell’articolo 3, che si ha la giusta affermazione della uguaglianza giuridica di tutti i cittadini ma altresì l’impegno per lo Stato democratico a eliminare gli impedimenti fattuali a un effettivo

3 E’, infatti, questo il titolo con cui l’Autore qualifica la quarta edizione del 1954 (e, poi, le successive) delle sue Istituzioni di diritto civile pubblicate, presso l’editore Jovene di Napoli, in prima edizione nel 1944.

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benessere di tutti, anche degli ultimi.Una precisazione forse non disutile. Il ‘corso’ in cui si inserisce la nostra

lezione ha come terreno d’elezione il ‘diritto del lavoro’, e vale la pena di ricordare – e serva anche da ammonimento – i motivi per cui questa così rilevante branca giuridica abbia tanto tardato ad assumere una propria autonomia. Per tutto l’Ottocento, secolo schiettamente moderno, tutto si risolveva infatti in una schematizzazione risalente – mirabile illud ! – al diritto romano classico e durata intatta sino alla fine del secolo XIX: il rapporto di lavoro subordinato altro non era che locazione d’opere, species del genere contrattuale ‘locazione’; una species locativa la cui struttura tecnicamente non si differenziava dalla locazione di cose, e il lavoro, al pari della res concessa in godimento non gratuito, si riduceva a una energia, l’unica cosa che il lavoratore possedesse e che egli offriva ugualmente in un godimento non gratuito. Entro la compatta unitarietà del diritto civile alla cosa/lavoro era impossibile assurgere a quella dimensione etico-sociale strettamente connessa alla dignità del soggetto lavoratore alla quale siamo oggi fortunatamente avvezzi e sulla quale si è formata, tardi e lentamente, l’autonomia di un ‘diritto del lavoro’. Finché questo restava nelle spire del civilistico contratto di locazione un siffatto risultato si poneva improponibile; il lavoro restava cosa tra le cose.

Il fermento – per così dire – affrancatorio prese vita a fine Ottocento grazie alla giurisprudenza delle corti probivirali e di alcuni coraggiosi pretori, alla animosità della prassi ormai articolata in formazioni collettive e alla attenta osservazione e valorizzazione che di questa prassi fecero alcuni intraprendenti uomini di scienza (penso, fra i non molti, al giovane Carnelutti e a certi suoi lungimiranti interventi sul problema degli infortunii sul lavoro4). Certamente fu un’origine estra-legislativa, testimoniata dal naufragio del progetto di legge Cocco Ortu/Baccelli (anno 1902) mirante a una visione (e a una disciplina) nuova del lavoro5.

La società, nel suo complesso di valori interessi fatti, lentamente si avvia a prevalere; e sarà questo il segno e l’insegna di un secolo parecchio nuovo per il diritto e i giuristi, il Novecento, un tempo già pos-moderno quando il diritto si connota sempre più di una accesa fattualità6.

4 Ci riferiamo a: F. Carnelutti, Infortuni sul lavoro (Studi), Athenaeum, Roma, 1913. 5 Su questo contesto assai fertile di novità basti il rinvio a: P. Grossi, Scienza giuridica italiana-Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano, 2000, p. 97 ss..6 Cfr. P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto, ora in Ritorno al diritto, Laterza, Roma/Bari, 2015.

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3. L’evento ‘Costituzione’ nell’itinerario giuridico novecentesco

Ma il veramente nuovo, il profondamente nuovo che imprimerà un senso all’itinerario giuridico (e non solo) dell’intero secolo è senza dubbio la ‘Costituzione’; precisando subito che il vocabolo non è qui inteso nel suo significato lato e generico, bensì nella accezione specifica incarnatasi nelle Costituzioni novecentesche, frutto ed espressione di un clima autenticamente democratico nel solco del cammino inaugurato a Weimar nel 1919.

Queste Costituzioni hanno poco a spartire con le stesse giusnaturalistiche ‘carte dei diritti’, manifestazioni del costituzionalismo sette/ottocentesco e concretàntisi in nobilissime proposizioni di indole filosofico-politica7. Le nuove ‘carte’, la nostra del 1948 per esempio, ben altro vogliono essere. Come ho detto già molte volte, non si può non vedere in esse il breviario giuridico offerto al cittadino italiano nelle vicende della sua esistenza quotidiana. Si badi: a ogni cittadino italiano, qualunque sia la sua condizione economica e sociale: all’abbiente come al nullatenente, precisazione che serve per far capire più efficacemente che siamo in un pianeta giuridico distantissimo da quell’elitarismo (su basi economiche) che ha dominato la civiltà borghese.

Insomma, con le nuove Costituzioni novecentesche siamo di fronte a un messaggio schiettamente pluralistico, sia dal punto di vista sociale che da quello giuridico. Ecco perché, in una mia lezione maceratese di qualche anno fa, volli qualificare la nostra ‘carta’ quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno8. Per la prima volta, nella storia del diritto in Italia, il complesso costituzionale veniva pensato e risolto non solo sul piano filosofico o politico, ma altresì (e primariamente) su quello giuridico: radici valoriali da cui prendevano vita principii e diritti fondamentali dal carattere intrinsecamente giuridico.

Ho scritto ‘primariamente’ non perché mi sentivo – da giurista – impegnato in una modellazione apologetica, ma semplicemente perché mi riferivo a come seppero operare i nostri Padri Costituenti dietro l’orientamento teorico fornito loro da Giorgio La Pira, relatore nella prima sotto-commissione in seno ai Settantacinque: anteriorità e primato della persona umana rispetto allo Stato e, quindi, a qualsiasi coagulazione

7 Per questo, qualificabili correttamente come espressioni di un costituzionalismo senza Costituzione.8 La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno (2013), ora in L’invenzione del diritto, Laterza, Roma/Bari, 2017.

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politica9.E qui permettétemi che vi esprima un sincero rincrescimento, concernente

la pigrizia culturale dei giuristi e soprattutto dei civilisti di fronte all’evento/Costituzione, che è davvero un macro-evento. La Costituzione apparve, infatti, a molti (non a tutti, per fortuna) quasi un ingombro nel paesaggio giuridico tradizionale al pianeta di civil law, paesaggio assolutamente nitido nella sua semplicità.

Se non vi fu un rigetto, vi fu piuttosto una rimozione. Relegando quell’evento all’interno di uno scenario prettamente politico e tutt’al più sociale, si rifiutava la sua valenza di formidabile strumento giuridico nelle mani dei cittadini e soprattutto dei giudici; ci si sentiva ancora portatori del vecchio verbo monistico, ci si sentiva esegeti, orgogliosi di essere servi della legge come insegnavano i luoghi comuni della retorica post-illuministica e pos-giacobina. E la ripetevano anche grossi personaggi –grossi culturalmente – questa pseudo-verità.

Penso al mio vecchio maestro di procedura civile nell’Ateneo fiorentino, Piero Calamandrei, che, quasi al termine del suo lungo cammino legalistico10, recensendo nel 1942 il volume sulla certezza del diritto del filosofo Flavio Lopez de Oñate, usciva in una affermazione che è sempre stata per me bruciante e sempre l’ho respinta: “i giuristi non possono permettersi il lusso della fantasia”11, sottintendendo che a questi personaggi conveniva unicamente l’argomentazione logico-deduttiva, sillogistica, che dal tempo degli illuministi si assegna quale canone imperativo per la interpretazione (rectius: per la esegesi) di giuristi teorici e pratici.

9 Si vedano le precisazioni offerte nella mia ‘lezione’ citata nella nota precedente (pp. 39/59).10 L’ultimo Calamandrei, ossia il personaggio (esemplare per probità intellettuale) che riflette, dopo il 1943, sulle primeggianti ideologie cattolica e marxista, è anche un personaggio che tende a rivedere l’immacolato legalismo cui si era prima ispirato. Ho ripercorso i suoi dubbii e ripensamenti in un mio contributo biografico: Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei (2009), ora in: Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, tomo II, Giuffrè, Milano, 2014, nonché in P. Grossi, E. Cheli, G. Alpa, Piero Calamandrei – Garanzie e limiti del potere giudiziario. Relazioni e interventi alla Assemblea Costituente, Marietti, Genova, 2016.11 P. Calamandrei, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina (1942), ora in appendice al volume di Flavio Lopez de Oñate, La certezza del diritto (edizione a cura di G. Astuti, Giuffrè, Milano, 1968, p. 176). In proposito ho polemizzato espressamente nella mia adesiva recensione al felice volumetto di Vincenzo Panuccio, La fantasia nel diritto, Giuffrè, Milano, 1984, recensione che, con lo stesso titolo del volumetto panucciano, io pubblicai sui Quaderni Fiorentini, 15 (1986) (védila ora in Paolo Grossi, a cura di G. Alpa, Laterza, Roma/Bari, 2011, p. 41 ss.).

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4. La ‘Costituzione’ novecentesca: un evento ‘rivoluzionario’

Un ingombro, ho detto poco fa. Certo, un evento scomodo per giuristi pigramente e comodamente adagiati all’ombra della legge e di quei maestosi e ramificatissimi Codici. Però, un evento dal carattere spiccatamente rivoluzionario. E se ci si meravigliasse di un aggettivo così impegnativo e lo si ritenesse stonato, mi sentirei di ripeterlo e di insistervi sopra, chiarèndone subito il contenuto che intendo assegnargli. Sì, rivoluzionario, perché i Padri Costituenti si dettero da fare non redigendo un testo che fosse la creazione della loro libera volontà e, magari, del loro amplissimo potere, ma ricercando e reperendo, indi leggendo e trascrivendo in un testo destinato a consolidare il risultato di questa lettura. Se volete: inventando, termine che, usato nel significato dell’invenire latino (cercare e reperire), denuncia un’attività senz’altro attiva e impegnativa, senz’altro costruttiva, ma che non ha nulla di creativo12.

Lessero, infatti, in quel sostrato valoriale che, per la prima volta, la società italiana - dopo avere scosso dalle sue spalle le tragedie di una dittatura e di una guerra rovinosa, rimossi i condizionamenti elitarii di carattere censitario proprii del vecchio assetto borghese - era ormai capace di esprimersi liberamente. Il complesso dei valori, tra le mani sapienti dei Patres, si trasformò in principii e prese la forma di centotrentanove articoli.

Principii che, per essere fondati su valori, non avrebbero mai potuto appartenere a una dimensione meramente episodica, risultando naturalmente duraturi e proiettati nella vita lunga del popolo italiano; sicuramente, però, non immobili bensì non alieni alla capacità di ascolto del divenire di quel corpo vivo che è una comunità storica, traèndone una tensione necessariamente dinamica. E qui mi permetto di ricordare l’esempio che porgevo agli studenti nel tempo felice delle mie amate lezioni nella Facoltà giuridica fiorentina per far loro comprendere il perenne contrappunto tra durevolezza e mobilità che contrassegna la vita dei valori: questi – io dicevo – assomigliano ai ghiacciai della natura fisica, apparentemente immobili ma effettivamente dotati invece di un movimento lentissimo quanto mai incisivo nel suo impercettibile incedere. Così è per la vita dei valori (e dei conseguenti principii), che non consiste in una imbalsamazione statica ma in un dinamismo tanto lento quanto intenso.

12 Ho ritenuto precisare questa peculiare visione in parecchi recentissimi contributi, tra i quali segnalo almeno i seguenti: L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo della Corte; L’invenzione della Costituzione: l’esperienza italiana; L’invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, tutti ora in: L’invenzione del diritto, Laterza, Roma/Bari, 2017.

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P. Grossi

Il testo della nostra Carta si ràdica, infatti, in una ampia dimensione costituzionale in tanta parte inespressa ma vitale, dimensione percorsa da una precisa forza dinamica. La invenzione messa in opera dai Patres continua perennemente ben oltre il biennio del loro lavoro costituente e permette di seguire questo incessante espandersi e anche modificarsi che avviene al livello profondo delle radici. E’ quello che taluni acuti costituzionalisti chiamano la forza espansiva dei principii, che si traduce nella consequenziale espansione dei diritti fondamentali della persona. E’, puntualmente, la forza espansiva che va riconosciuta agli stessi primi articoli della ‘carta’ e soprattutto all’articolo 2.

E’, inoltre, pienamente comprensibile che nel programma dei Costituenti si inserisca armonicamente la significativa presenza di una Corte costituzionale; che è organo di garanzia in quanto continuatrice dell’opera inventiva dei Padri, una continua invenzione che è riuscita a dotare i cittadini – nei sessanta anni della sua operosità – di un accresciuto numero di situazioni giuridiche protette.

La Costituzione, insomma, come interpretazione; anzi, come criterio per ogni interpretazione in grazia della sua capacità inventiva. Il che può dirsi ugualmente del carattere inventivo della Corte Costituzionale.

5. Una conclusione: Stato e leggi non esauriscono la giuridicità della Repubblica

Credo che, a questo punto, il nostro discorso possa dilatarsi.È chiaro che – contrariamente a quanto si affermava dal legalismo

monista della modernità, artificioso nei suoi costrutti a fondazione mitologica13- il diritto non è creatura della volontà del legislatore, né si identifica in un complesso di leggi. Il diritto è, piuttosto, realtà che si colloca nelle radicazioni profonde e profondamente identitarie di una comunità storica, è realtà da ricercare, reperire, inventare.

Ed è chiaro che Stato e leggi non esauriscono la giuridicità della Repubblica.

La Costituzione, con il suo proporci un pluralismo sociale e un corrispondente pluralismo giuridico, con il suo proporsi essa stessa quale interpretazione/invenzione, esige una visione pluralistica delle cosiddette 13 Per maggiori chiarimenti su queste fondazioni mitologiche della modernità non possiamo che rimandare a: P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano, 2007 (terza edizione) e soprattutto al secondo dei saggi ivi contenuti e intitolato: Oltre le mitologie giuridiche della modernità.

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fonti, con la precisazione necessaria che queste sono tutte accomunate da un riscoperto carattere inventivo. Legislatore, giurisprudenza, scienza, prassi sono tutti coinvolti in un’opera di costruzione, una costruzione che non dovrà mai smentire quel carattere.

Chiuderei con una raccomandazione rivolta a tutti i giuristi immersi nella positività dell’oggi, siano essi teorici o pratici: apriamo le finestre dei nostri studii e guardiamo attentamente quel che succede fuori. Non possiamo che cogliervi un movimento e un mutamento intensi e rapidissimi proprii di un’età di transizione, appunto il pos-moderno, che si distanzia sempre più dall’assetto ben sigillato della modernità, senza che si sia tuttora consolidato in un paesaggio giuridico dalle architetture stabili.

Se il nostro sguardo è attento, cogliamo aspetti che possono turbarci ma che sono – lo si voglia o non – scritti nelle cose: il distacco sempre più palese fra apparato normativo e società civile, a cominciare da quei nostri Codici risalenti agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, pur ammirevoli per le intelaiature concettuali fornite da una provveduta riflessione scientifica; spesso l’assenza del legislatore incapace di tener dietro a una dinamica velocissima, spesso anche la sua impotenza ad adeguare norme vecchie e superate; spesso la sua posizione abdicativa consistente nel rinunciare a una disciplina dettagliata, limitandosi a disegnare leggi/cornice o una legislazione per principii (di cui è esempio illustre il cosiddetto ‘Codice del processo amministrativo’ del 2010, che usurpa come tanti ‘Codici’ odierni una qualifica dai connotati storico-giuridici tanto precisi e tanto diversi)14.

Da tutto ciò discende un risultato facilmente osservabile, impresso com’è nelle trame dell’odierno paesaggio giuridico: l’asse dell’ordinamento si sposta; la legge, le leggi appaiono sempre più appartate, mentre acquista centralità l’interpretazione in tutte le sue molteplici manifestazioni. Ma deve esser chiaro (e si trae – spero - agevolmente da tutto quanto abbiam detto) che l’interpretazione non è mai legata alla sola volontà dell’interprete, anche se fosse costui il titolare di un potere supremo. Interpretare è sempre un fare i conti con qualcosa che esorbita la soggettività solitaria e si còlloca in rapporto con una realtà esterna al soggetto interprete; è, infatti, sempre ricerca e reperimento – invenzione – magari sorretta da forti intuizioni e può spesso concretarsi anche in sviluppo e costruzione.

È un ruolo che fino a ieri sembrava consegnato unicamente nel grembo di un legislatore arroccato nel suo Olimpo e avvolto da un robusto vestimento mitologico; ruolo che oggi spetta anche ad altre fonti, fonti

14 In proposito abbiamo diffusamente discorso in: Sulla odierna incertezza del diritto, ora in Ritorno al diritto, cit, p. 51 ss..

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plurime ed esorbitanti dalla rigidezza della passata inchiodante tipicità. Dottrina, giurisprudenza pratica, notai, avvocati sono tutti chiamati a essere protagonisti di questa invenzione.

Se si incarna – come avviene – in una tradizione attingendo alle radici di una civiltà storica, sempre ha, tuttavia, una sua proiezione verso il futuro, sempre è presagio di futuro e contributo alla sua definizione. Svincolata dai secchi comandi che piovono dai detentori del potere, rivolge il suo sguardo con umiltà verso il basso dove corre continuo il cammino della storia, quella storia che non ha per protagonisti sovrani, guerre, sconfitte e vittorie, trattati internazionali (eventi sonori ma troppo spesso sovrastrutturali), bensì la commedia/tragedia dell’uomo comune e delle collettività, che si consuma ogni giorno dall’alba al tramonto e che è il forte ma invisibile tessuto della normale vicenda umana.

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Riccardo Guastini

Principi costituzionali: identificazione, interpretazione, ponderazione, concretizzazione

Sommario: 1. Introduzione – 2. Identificazione – 3. Interpretazione – 4. Bilanciamento – 5. Concretizzazione.

1. Introduzione

I bei lavori di Guido Alpa1 sui principi generali sono, comprensibilmente, orientati alla dottrina e alla giurisprudenza civilistica. Poco spazio vi trovano i principi costituzionali e i problemi di interpretazione e costruzione giuridica connessi, che sono alquanto diversi. Questo lavoro si propone di colmare la lacuna.

I principi generali del diritto civile sono, per lo più, principi inespressi (“impliciti”), costruiti dai giuristi ora congetturando la ratio – la ragion d’essere, lo scopo – che giustifica una o più disposizioni2, ora generalizzando la disciplina di talune fattispecie3.1 G. Alpa, I principi generali, Giuffrè, Milano, 1993; G. Alpa, I principi generali, in G. Alpa et al., Le fonti del diritto italiano. 2. Le fonti non scritte e l’interpretazione, in R. Sacco (dir.), Trattato di diritto civile, UTET, Torino 1999. 2 Il principio così costruito è una norma a struttura teleologica – ossia una norma che prescrive un fine da raggiungere (o un valore da perseguire), del tipo: “Si deve tutelare chi agisce in buona fede nei rapporti contrattuali” – la quale costituisce giustificazione assiologica delle disposizioni da cui si sono prese le mosse. Cfr. G. Carcaterra, Indizi di norme, in Sociologia del diritto, 2002, pp. 134 ss.; G. Tuzet, L'abduzione dei principi, in Ragion Pratica, 2009, pp. 517 ss.; G. Tuzet, Dover decidere. Diritto, incertezza, e ragionamento, Carocci, Roma, 2010, parte prima; G. Carcaterra, Sulla logica della costruzione dei principi generali, in Studi in onore di Franco Modugno, ESI, Napoli, 2011, vol. I, 499 ss.3 In questi casi, il principio è il risultato di un procedimento di astrazione, generalizzazione, o universalizzazione a partire da disposizioni particolari. Supponiamo di avere tre regole così strutturate: R1: Se A e B, allora Z; R2: Se A e C, allora Z; R3: Se A e D, allora Z. Le tre regole statuiscono una medesima conseguenza giuridica (Z) per tre fattispecie molecolari diverse ma con un elemento atomico in comune (la circostanza A). Se ne può inferire – induttivamente, congetturalmente – la regola più generale, ossia il principio, secondo cui tutte le fattispecie che

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R. Guastini

I principi costituzionali sono, per la maggior parte, principi espliciti, che sollevano (almeno) quattro tipi di problemi: (1) l’identificazione dei principi in quanto tali, ossia l’ascrizione dello status

(del “valore”) di principio a una determinata disposizione costituzionale; (2) l’interpretazione di – cioè l’ascrizione di significato a – una disposizione

costituzionale (previamente o contestualmente identificata come) esprimente un principio;

(3) il bilanciamento o ponderazione di tale principio con altri principi confliggenti così da selezionare il principio applicabile;

(4) la specificazione o concretizzazione di tale principio così da costruire una regola idonea a risolvere il caso di cui si tratta4.

2. Identificazione

Talvolta, i redattori di testi costituzionali etichettano espressamente talune disposizioni come “principi” (“principi fondamentali”, “principi generali”, e simili)5. Ma, per ogni disposizione costituzionale che non sia espressamente qualificata come principio, gli interpreti possono domandarsi se essa esprima una regola o un principio.

condividono l’elemento A devono avere quella stessa conseguenza giuridica: P: Se A, allora Z. Il principio P, a sua volta, consente di inferire (deduttivamente, questa volta, per rinforzo dell’antecedente) un numero indeterminato di regole particolari, quali ad esempio: R4: Se A e F, allora Z; R5: Se A e G, allora Z; R6: Se A e H, allora Z; etc. Ad esempio: dagli artt. 1573 cod. civ. (la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trent’anni), 2097 cod. civ. (il contratto di lavoro non può essere stipulato per una durata superiore a cinque o dieci anni), etc., la giurisprudenza ricava il principio secondo cui i rapporti obbligatori devono avere durata limitata. Dal quale segue, ovviamente, che non solo la locazione e il contratto di lavoro, ma ogni altro rapporto obbligatorio è soggetto alla stessa disciplina (salvo che la legge non disponga diversamente in modo espresso).4 Per quanto posso vedere, queste diverse operazioni non possono essere nettamente distinte dal punto di vista psicologico. Probabilmente, nella mente degli interpreti esse sono del tutto con-fuse: diversi aspetti di un unico processo psicologico. Questo è particolarmente vero per ciò che concerne il bilanciamento e la concretizzazione. Nondimeno, dal punto di vista logico, ciascuna di queste operazioni merita un’analisi separata.5 È il caso, ad esempio, degli articoli 1-12 della Costituzione italiana (“Principi fondamentali”); degli articoli 1-11 (etichettati come “Principi fondamentali”) e degli articoli 12-23 (etichet-tati come “Principi generali” nella sezione dedicata ai “Diritti e doveri fondamentali”) della Costituzione portoghese; e così avanti.

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Identificazione, interpretazione dei principi costituzionali

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Fatte salve le norme di organizzazione e le norme sulla produzione giuridica, alcuni – da Dworkin a Zagrebelsky6 – ritengono che le norme “sostanziali” della costituzione siano essenzialmente principi. Altri – per esempio Pace e Ferrajoli7 – pensano invece che le norme costituzionali, quelle in particolare che conferiscono diritti, siano regole, e considerano principi solo le norme programmatiche.

Come che sia, per quanto posso vedere, giudici e giuristi accademici non condividono un preciso concetto di principio. Voglio dire che, nella pratica giuridica, distinguere tra regole e principi non dipende da un qualche concetto di principio previamente accettato. Gli interpreti sembrano distinguere tra regole e principi intuitivamente e caso per caso.

E dunque quali sono – se vi sono – i criteri impiegati dai giuristi per asserire enunciati del tipo: “La disposizione costituzionale D esprime (non una regola, ma) un principio”?

Secondo il pensiero giuridico comune, i principi sembrano condividere (forse insieme ad altre) le seguenti caratteristiche. (i) I principi sono norme “fondamentali”, nel senso che (a) sono idonee

a giustificare una pluralità di regole e (b) non hanno (non richiedono) a loro volta alcuna giustificazione. Inutile dire che il preteso carattere “fondamentale” di certe norme in seno all’ordinamento è una proprietà assiologica, non fattuale. L’attribuzione a una norma di questo carattere dipende da una valutazione, in particolare da un giudizio di valore intorno alla importanza (relativa) di quella norma entro l’ordinamento giuridico nel suo complesso e/o entro una qualche sua parte (il diritto penale, il diritto civile, il diritto dei contratti, etc.).

(ii) I principi sono sovente formulati come norme categoriche, ossia non condizionali8. Mentre le regole possono (sempre, si suppone) essere ricostruite come enunciati condizionali che connettono una conseguenza

6 R. Dworkin, Introduction: The Moral Reading and the Majoritarian Premise, in R. Dworkin, Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Oxford U.P., Oxford, 1996; G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 1992.7 A. Pace, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quaderni costituzionali, 1, 2001, p. 35; L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in «Giur. cost.», 2010, 3, p. 2771; L. Ferrajoli, El constitucionalismo garantista. Entre paleo-iuspositivismo y neo-iusna-turalismo, in Doxa, 2011, p. 34; L. Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia. Due obiezioni a Robert Alexy, in Riv. fil. dir., 2015, p. 37.8 Ad esempio, “La libertà personale è inviolabile” (art. 3, Costituzione italiana); “La dignità umana è inviolabile”, “Tutti sono eguali di fronte alla legge” (art. 1 e 3, Legge fondamentale della Germania); “La sovranità nazionale appartiene al popolo” (art. 3, Costituzione francese); e così via. Cfr. G. Zagrebelsly, op. cit., cap. 6; M. Atienza, J. Ruiz Manero, Las piezas del Derecho. Teoría de los enunciados jurídicos, Ariel, Madrid, 1996.

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R. Guastini

giuridica a una determinata classe di fattispecie, i principi no: non si prestano a essere analizzati in termini di protasi e apodosi, o comunque, se mai hanno un antecedente, si tratta di un antecedente aperto. In questo senso le condizioni di applicazione dei principi sono largamente, per non dire totalmente, indeterminate9.

(iii) I principi sono “ragioni prima facie”10. In altre parole, essi sono defettibili o derogabili (defeasible, derrotables), cioè soggetti a una serie di eccezioni inespresse (“implicite”), che si manifestano solo in occasione della loro applicazione a un caso concreto11. Detto altrimenti: i principi «rappresentano ragioni che possono essere superate da altre ragioni»12, cioè sono soggetti a essere bilanciati con – ed eventualmente derogati (defeated) da – altri principi confliggenti, mentre ciò, almeno prima facie, non vale per le regole13.

(iv) A differenza delle regole, i principi non sono adatti a risolvere controversie mediante ragionamenti in modus ponens. A causa della loro forma logica, della loro defettibilità, e del fatto che sono soggetti a bilanciamento, i principi non possono essere applicati direttamente a casi individuali “concreti” senza una previa specificazione o concretizzazione. Orbene, quali di queste caratteristiche sono argomenti per asserire

che una data disposizione costituzionale esprime un principio, e quali di esse sono invece conseguenze del considerare quella data disposizione un principio e non una regola?

Pare a me che nel pensiero giuridico comune la differenza essenziale tra regole e principi stia nel carattere (si suppone) fondamentale dei principi e, forse, nella loro forma (si suppone) categorica. Tuttavia, non è affatto chiaro se le altre caratteristiche menzionate siano ulteriori ragioni per assumere che una data disposizione esprima un principio o, al contrario, conseguenze di tale assunzione.

Si prenda, ad esempio, la defettibilità. Dobbiamo pensare che una norma sia un principio a causa della sua (presunta) defettibilità, o al contrario che essa sia defettibile perché si suppone che sia un principio? Non liquet: a mio modo di vedere, la pratica effettiva dei giuristi non offre una chiara risposta 9 Per una critica puntuale della tesi che i principi siano norme categoriche vedi G. B. Ratti, Norme, principi, e logica, Aracne, Roma, 2009, cap. III. 10 R. Alexy, A Theory of Costitutional Rights (1986), trad. J. Rivers, Oxford U.P., Oxford, 2002, p. 59. 11 C. E. Alchourron, On Law and Logic, in Ratio Juris, 9, 1996. 12 R. Alexy, op. cit., p. 57. 13 R. Dworkin, The Model of Rules I (1967), in R. Dworkin, Taking Rights Seriously, New Impression with a Reply to Critics, Duckworth, London, 1978.

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Identificazione, interpretazione dei principi costituzionali

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a questa domanda. Ad ogni modo, considerare una disposizione costituzionale come un

principio (o no) è cosa gravida di importanti conseguenze pratiche nei giudizi di legittimità costituzionale. Si prendano, ad esempio, quelle disposizioni costituzionali che richiedono il pareggio di bilancio, come l’art. 81, comma 1, della costituzione italiana («Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio»). Trattare clausole siffatte come regole sembra implicare che esse non siano defettibili, cioè che non possano assolutamente essere derogate, neppure applicando altri principi costituzionali, per esempio quei principi (quelle direttive, o norme programmatiche) che raccomandano al legislatore di dare attuazione a certi diritti sociali. Trattarle come principi, per contro, consente ai giudici costituzionali di bilanciarle con altri principi e decidere che, dopo tutto, quella norma sul pareggio di bilancio non è strettamente vincolante e che il soddisfacimento di un dato diritto sociale deve prevalere.

D’altro canto, poiché i principi non hanno un preciso campo di applicazione, quanto più le disposizioni costituzionali sono trattate come principi tanto più la costituzione appare come “completa”, priva di lacune, nel senso che la costituzione appare capace di disciplinare qualsiasi materia (qualunque possibile fattispecie), così da condizionare qualunque possibile decisione futura del legislatore14. L’ovvio risultato è una drastica riduzione del potere discrezionale dell’organo legislativo e, simmetricamente, una eguale estensione del potere discrezionale dei giudici costituzionali.

3. Interpretazione

Una volta stabilito che una data clausola costituzionale esprime non una regola, ma un principio, una parte significativa del lavoro “interpretativo”, latamente inteso, è ormai fatta15. Tuttavia, malgrado il comune modo di esprimersi dei giuristi, nel quale il vocabolo “interpretazione” si riferisce normalmente a tutte le operazioni intellettuali degli interpreti senza ulteriori distinzioni, conviene adottare un concetto ristretto di interpretazione:

14 R. Guastini, La ‘costituzionalizzazione’ dell’ordinamento”, in T. Mazzarese (ed.), Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2002.15 Per inciso: io intendo la tesi di Alexy, secondo cui i principi sono “precetti di ottimizzazione” (R. Alexy, op. cit., pp. 47 ss.), non come uno speciale concetto di principio, ma come il risultato di una certa interpretazione di talune disposizioni costituzionali (previamente o contestualmente) identificate come esprimenti principi.

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R. Guastini

diversamente, risulta impossibile distinguere l’attribuzione di significato ad un testo, per esempio, dalle costruzioni inferenziali di norme inespresse (che si pretendono “implicite”), dal bilanciamento di principi, e così via.

“Interpretare”, strettamente inteso, vuol dire ascrivere significato – senso e riferimento – a un testo giuridico16. In particolare, l’interpretazione cognitiva (o “scientifica”, nel linguaggio di Kelsen) è la neutra (libera da valori) esegesi di un testo, compiuta da giuristi accademici disinteressati, mentre l’interpretazione giudiziale (“autentica”, nel linguaggio di Kelsen) consiste nel decidere un determinato significato, considerato come quello (l’unico) corretto17.

Orbene, secondo un modo di vedere diffuso, l’interpretazione costituzionale sarebbe un’impresa del tutto diversa dalla comune interpretazione delle leggi e di altri testi normativi18. Tuttavia, un’analisi, anche sommaria, delle tecniche interpretative impiegate da giuristi accademici e giudici costituzionali (o corti supreme) sembra mostrare che questa tesi è semplicemente falsa. Di fatto, l’interpretazione costituzionale condivide con l’interpretazione della legge gli stessi metodi e argomenti: il significato comune (secondo i casi “originario” o “attuale”) delle parole, l’intenzione e/o lo scopo dell’autorità normativa, i lavori preparatori, la coerenza e l’armonia sistemica, gli argomenti a simili e a contrariis, e così via.

Nondimeno, le disposizioni costituzionali che (si suppone) esprimono principi sono spesso19 formulate in linguaggio “morale” (così si usa dire), ossia per mezzo di espressioni valutative e/o che sottintendono dottrine (io direi) politiche (piuttosto che morali). Sicché ascrivere significato a tali disposizioni richiede – per dirlo con Dworkin – dei «fresh moral judgments» da parte degli interpreti, e in particolare da parte dei giudici costituzionali20. A dire il vero, lo stesso accade per molte disposizioni legislative. Ma, secondo un’opinione diffusa, quando si tratta di disposizioni costituzionali, il problema è pervasivo.

Ciò induce molti filosofi del diritto – cosiddetti positivisti “soft” o “inclusivi” – a sostenere che le clausole costituzionali in questione

16 R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 13 ss.17 H. Kelsen, The Law of the United Nations, Stevens & Sons, London, 1950, Introduction; H. Kelsen, Théorie pure du droit (1960), trad. Ch. Eisenmann, Dalloz, Paris, 1962.18 Di fatto esiste in Italia, Germania, Spagna, U.S.A., etc. una estesa letteratura specificamente dedicata all’interpretazione costituzionale. Critiche in R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit., parte quarta. 19 Spesso, ma, di fatto, non così frequentemente come ritengono molti filosofi del diritto. 20 R. Dworkin, Introduction: The Moral Reading and the Majoritarian Premise, cit.

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Identificazione, interpretazione dei principi costituzionali

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“incorporano” la morale21. Quale morale, tuttavia? La morale sociale o la morale critica degli interpreti? Tertium non datur 22.

Prima facie, la morale sociale sembra un buon candidato. Ma l’accertamento delle idee morali socialmente diffuse è questione di indagine empirica (sociologica), mentre giudici e giuristi accademici non sono scienziati sociali: non sono intellettualmente attrezzati per compiere indagini di questo tipo, e comunque il processo non è il luogo adeguato per compierle. Inoltre, di fatto, in società pluralistiche, su molte questioni morali seriamente controverse non esiste consenso sociale. I giudici costituzionali a volte fanno riferimento alla morale sociale, ma si tratta della morale sociale come essi la immaginano, o come essi la percepiscono attraverso il filtro della loro morale critica.

De facto, per quanto posso vedere, l’interpretazione dei principi costituzionali dipende largamente dalla morale critica degli interpreti: dai loro “fresh moral judgments”. E, se ciò è vero in punto di fatto, allora le clausole costituzionali23 in questione sono ovviamente soggette a un alto grado di discrezionalità interpretativa.

Come scrisse Kelsen (nel 1928), «Les conceptions de la justice, de l’égalité, de la moralité, etc., diffèrent tellement selon le point de vue des intéressés, que, si le droit positif ne consacre pas l’une d’entre elles, toute règle de droit peut être justifiée par l’une de ces conceptions possibles [...]. Mais, précisément dans le domaine de la justice constitutionnelle, elles [le formule costituzionali che si riferiscono all’eguaglianza, etc.] peuvent jouer un rôle extrêmement dangereux», a causa del «déplacement de pouvoir», dal parlamento alla corte costituzionale, che esse implicano. L’opinione di Kelsen era che «la Constitution doit, surtout si elle crée un tribunal constitutionnel, s’abstenir de ce genre de phraséologie, et, si elle veut poser des principes relatifs au contenu de lois, les formuler d’une façon aussi précise que possible»24. Tuttavia, se sia possibile una formulazione più precisa dei principi costituzionali appare questione altamente discutibile25. 21 H. L. A Hart, The Concept of Law, 2nd ed. by P. Bulloch and J. Raz, Clarendon Press, Oxford, 1994, p. 204. Vedi ad esempio J. Coleman, The Practice of Principle, Clarendon Press, Oxford, 2001; W. J. Waluchow, Inclusive Legal Positivism, Clarendon Press, Oxford, 1994.22 R. Guastini, On the Relations between Non-Cognitivism and Liberalism, in corso di pubblicazione in un Festschrift per Mikael M. Karlsson, 2015.23 Non diversamente dalle clausole generali. Cfr. V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Giuffrè, Milano, 2010. 24 H. Kelsen, La garantie juridictionnelle de la Constitution (La justice constitutionnelle), in Revue de droit public et de la science politique en France et à l’étranger, XXXV, 1928, pp. 240 ss.25 B. Celano, Come deve essere la disciplina costituzionale dei diritti? (2002), in B. Celano,

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R. Guastini

4. Bilanciamento

La tecnica del bilanciamento è analizzata in modo magistrale da Alexy nel libro sui diritti costituzionali26 . Vi è qualcosa da aggiungere al riguardo? Io non credo. Benché io sia solito esprimermi in un linguaggio diverso (forse più approssimativo), l’analisi di Alexy mi pare perfetta27.

Nella prassi effettiva delle corti costituzionali (e/o supreme)28, i conflitti tra principi costituzionali sono comunemente risolti per mezzo di un “enunciato di preferenza”, come lo chiama Alexy, la cui forma logica è: “Il principio P1 ha più peso (ossia più valore) del principio P2 nel contesto X”.

Il “contesto”, cui l’enunciato si riferisce, è un “caso”, ma naturalmente i casi sono diversi nelle diverse giurisdizioni costituzionali. (a) In un modello di giustizia costituzionale a controllo “accentrato”, nel

quale solo la corte costituzionale esercita il controllo di legittimità costituzionale sulle leggi, ogni caso ha ad oggetto una norma legislativa, la cui legittimità costituzionale è apprezzata in abstracto: la corte non risolve direttamente alcuna specifica controversia. Il contesto è dunque un caso “astratto”, ossia una classe di casi.

(b) In un modello di giustizia costituzionale a controllo “diffuso”, nel quale per contro qualunque giudice può esercitare il controllo di legittimità costituzionale, ogni caso è una specifica controversia tra due parti processuali, di tal che la legittimità costituzionale di una norma di legge è apprezzata in concreto, alla luce dei suoi effetti sui diritti e gli obblighi delle parti. Il contesto è dunque un caso individuale “concreto”, e il giudice risolve quella particolare controversia. Ciò detto, è opportuno fare quattro osservazioni.

(i) L’enunciato di preferenza, di cui sopra, è un giudizio di valore comparativo, la cui (per lo più tacita) giustificazione va ricercata in un altro giudizio di valore comparativo relativo alla giustizia delle opposte soluzioni del caso offerte rispettivamente dai due principi coinvolti. Il principio P1 condurrebbe alla decisione D1, mentre il principio P2 condurrebbe alla

I diritti nello stato costituzionale, il Mulino, Bologna, 2013. Non rientra nell’oggetto di questo saggio l’analisi del modo in cui i principi costituzionali influenzano, a loro volta, la legislazione ordinaria. 26 R. Alexy, op. cit., cap. 3. 27 R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit., pp. 197 ss. Diverse concezioni della tecnica del bilanciamento sono analizzate da D. Martinez Zorilla, Conflictos constitucionales, ponderación, e indeterminación, normativa, Marcial Pons, Madrid, 2007. 28 Lascio qui da parte l’analisi del test di proporzionalità.

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decisione D2, e D1 è più giusta o corretta di D2 (o viceversa).Così facendo, i giudici costituzionali o supremi creano una relazione

gerarchica tra i principi confliggenti coinvolti. Siffatta gerarchia ha natura assiologica: non ha nulla a che fare con la gerarchia delle fonti, giacché, nel sistema delle fonti, i principi in questione sono di pari rango. Mentre la gerarchia delle fonti, ad esempio tra costituzione e legislazione ordinaria, è stabilita dal diritto stesso29, questo diverso tipo di gerarchia è frutto di “libera” creazione degli interpreti30.

(ii) Per questa ragione, bilanciare due principi – contrariamente ad un modo di vedere diffuso – non è “riconciliarli” o trovare, tra di essi, un “equilibrio” o una “via mediana”31. Il risultato del bilanciamento, nel contesto di cui si tratta, è che un principio è applicato, mentre l’altro è messo da parte. Beninteso, il principio scartato non è annullato né abrogato: è semplicemente non-applicato in quel dato contesto.

(iii) La “preferenza” stabilita dall’enunciato di preferenza si riferisce ad un determinato caso (una specifica norma legislativa o una controversia concreta, secondo le diverse giurisdizioni). Ciò significa che la prevalenza del principio P1 sul principio P2 (o viceversa) vale solo in quel caso – quella particolare norma legislativa o quella particolare controversia, secondo la giurisdizione – mentre in contesti diversi il principio ora disapplicato ben potrebbe prevalere sull’altro (come di fatto accade).

In altre parole, la gerarchia assiologica stabilita dalla corte non è assoluta, non vale ora e per sempre. Al contrario, essa è flessibile, mobile, instabile: dipende dal caso in discussione32. Come ben dice Alexy, l’enunciato di preferenza stabilisce una «relazione di precedenza condizionale»33: se si danno le condizioni C1, P1 prevale su P2; se si danno le condizioni C2, P2 prevale su P1.

In questo modo, bilanciare due principi si risolve – come ora diremo – nel concretizzare o specificare uno di essi (o entrambi): in

29 In particolare, da quelle disposizioni costituzionali che rendono “rigida” la costituzione, impedendo qualunque mutamento costituzionale per via di legislazione ordinaria, e/o da quelle disposizioni costituzionali che assoggettano la legge ordinaria al controllo di legittimità costituzionale. 30 R. Guastini, Gerarchie normative, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXVII, 1997.31 G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, il Mulino, Bologna, 2010, pp. 182 ss. 32 F. Modugno, Scritti sull’interpretazione costituzionale, ESI, Napoli, 2008, p. 25.33 R. Alexy, op. cit., p. 52.

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R. Guastini

un determinato caso, un certo principio è concretizzato derivandone la regola R1 (il cui antecedente, o fattispecie, è C1); in un diverso caso, lo stesso principio è concretizzato derivandone la regola R2 (il cui antecedente è C2)34.

(iv) È precisamente questo carattere condizionale, e pertanto instabile, della gerarchia assiologica che produce l’apparenza (o l’illusione) di una “via mediana” tra i principi confliggenti. Occorre distinguere tra l’effetto sincronico del bilanciamento tra due dati principi in una singola decisione e l’effetto diacronico del bilanciamento tra quegli stessi principi in una serie di decisioni della medesima corte. In ciascuna decisione, un principio è sacrificato, mentre l’altro è applicato: sarebbe fuori luogo dire che i principi coinvolti siano in qualche modo “riconciliati”. Se invece si guarda allo sviluppo delle decisioni giudiziali in quella materia, si trova che in una serie di casi P1 è stato preferito e P2 è stato accantonato, mentre in altri casi P2 è stato preferito e P1 accantonato. Per esempio, in certi casi la libertà di stampa prevale sui diritti della personalità (intimità della vita privata, identità personale, etc.), mentre in altri casi accade l’opposto. In altre parole, sul lungo periodo entrambi i principi sono “parzialmente” applicati ed entrambi “parzialmente” disapplicati. Ma “parzialmente” non nel senso che in ciascun caso un principio sia in parte applicato e in parte sacrificato (non so neppure che cosa mai ciò possa significare), bensì nel senso banale che ciascun principio talvolta è applicato e talvolta no.

5. Concretizzazione

Il bilanciamento e la concretizzazione dei principi in conflitto sono spesso considerati come un’unica operazione intellettuale. Dal punto di vista psicologico ciò può essere vero. Ma, dal punto di vista logico, direi piuttosto che bilanciare consiste nello scegliere il principio applicabile, mentre concretizzare consiste nella (susseguente) applicazione, strettamente intesa, del principio prescelto.

Come ho detto in precedenza, i principi costituzionali, non avendo

34 «Le circostanze in cui un principio prevale su di un altro costituiscono l’antecedente di una regola che ha le medesime conseguenze giuridiche del principio prevalente»; «il risultato di ogni corretto bilanciamento […] può essere formulato come una norma […] derivata, che ha la forma di una regola sotto la quale può essere sussunto il caso» (R. Alexy, op. cit., pp. 54-56).

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Identificazione, interpretazione dei principi costituzionali

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precise condizioni di applicazione ed essendo quindi altamente indeterminati, non possono essere direttamente applicati a specifiche controversie. Anzi, è frequente che, nei giudizi costituzionali, i principi debbano essere confrontati con regole, ossia con norme dotate di una diversa struttura logica, il che rende difficile (se non impossibile) il confronto.

Per esempio, il principio «la salute [è] un diritto fondamentale dell’individuo» (art. 32, comma 1, cost.), per sé, non dice nulla intorno al risarcimento dei danni alla salute. Il principio «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24, comma 2, cost.) nulla stabilisce intorno alla presenza di un avvocato all’interrogatorio dell’accusato. Il principio dell’eguaglianza tra i sessi (art. 3, comma 1, cost.) non disciplina in alcun modo il lavoro notturno delle donne. Il principio «La souveraineté nationale appartient au peuple» (art. 3, cost. francese) non risponde alla domanda se una legge possa, o no, attribuire agli immigrati il diritto di voto nelle elezioni dei consigli comunali. E così via esemplificando.

Applicare una regola consiste nel dedurre da essa, per modus ponens, una prescrizione individuale (la soluzione di una controversia). Per contro, l’applicazione dei principi esige concretizzazione o specificazione: anzi, in un senso consiste proprio in questo.

Nel ragionamento del giudice si possono distinguere due livelli di discorso, che si usa chiamare rispettivamente “giustificazione interna” (o di primo livello) e “giustificazione esterna” (o di secondo livello). Grosso modo: una decisione è “internamente” giustificata quando segue deduttivamente dalle premesse (“Gli assassini devono essere puniti. Tizio è un assassino. Pertanto Tizio deve essere punito”); è “esternamente” giustificata quando le stesse premesse, a loro volta, sono fondate35.

Ebbene, le regole sono le premesse normative della giustificazione “interna” delle decisioni giurisdizionali; l’applicazione di principi appartiene piuttosto alla giustificazione “esterna” delle decisioni. Mentre le regole si applicano per via di sussunzione36, i principi si applicano – non mediante bilanciamento, come alcuni dicono, ma – ricavando da essi regole: precisamente regole inespresse (dette “implicite”, ma niente affatto implicite in senso stretto, cioè logico)37. Concretizzare un principio consiste

35 J. Wroblewski, Livelli di giustificazione delle decisioni giuridiche, in L. Gianformaggio, E. Lecaldano (eds.), Etica e diritto. Le vie della giustificazione razionale, Laterza, Bari, 1986.36 Tecnicamente: ragionando in modus ponens.37 È sciocco pensare (come molti pensano) che i principi non ammettano e non richiedano sussunzione. Data, per esempio, una disposizione costituzionale che proibisce qualunque «tratta-mento sanitario» obbligatorio (art. 32 cost.), la sussunzione è ovviamente necessaria per decidere, ad esempio, se il concetto si riferisca, o no, alla nutrizione forzata dei pazienti.

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R. Guastini

precisamente nel ricavare da esso una regola.Queste regole inespresse sono regole costituzionali giacché sono derivate

da principi costituzionali: si tratta dunque di regole che, negli ordinamenti a costituzione rigida, non possono essere derogate o abrogate dalla legislazione ordinaria. Pertanto, la derivazione giudiziale di regole, a partire da principi costituzionali, sviluppa ed espande il diritto costituzionale.

Il ragionamento mediante il quale una regola è derivata (costruita) da un principio ha il principio come premessa (una delle premesse) e la regola come conclusione. Nella maggior parte dei casi, si tratta di un ragionamento non deduttivo. In tutti i casi, esso richiede alcune premesse “arbitrarie”: arbitrarie nel senso che sono non norme giuridiche positive, ma assunzioni degli interpreti, come asserti fattuali, definizioni, e costruzioni dogmatiche.

Per esempio: “La salute è un diritto fondamentale dell’individuo” (art. 32, comma 1, cost.: principio); qualunque violazione di un diritto fondamentale è un danno ingiusto; qualunque danno ingiusto deve essere risarcito (art. 2043, cod. civ.); pertanto i danni alla salute devono essere risarciti (prima conclusione: regola); pertanto Tizio deve pagare a Caio 1.000 euro (ulteriore conclusione: soluzione giudiziale della controversia).

Altro esempio: “La sovranità nazionale appartiene al popolo” (art. 3, cost. francese); il popolo è l’insieme dei cittadini; gli immigrati non sono cittadini secondo la legge in materia di cittadinanza; la sovranità si esprime mediante il voto; pertanto la legge ordinaria non può validamente attribuire agli immigrati il diritto di voto (prima conclusione: regola); pertanto la legge che attribuisce agli immigrati il diritto di voto nelle elezioni comunali è incostituzionale (ulteriore conclusione: decisione costituzionale).

Questi semplici esempi sono intesi a mostrare che la concretizzazione di principi è un’operazione genuinamente creativa di diritto: in particolare, creativa di regole. In un senso, «the Constitution is what the judges say it is».

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Paola Ivaldi

Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore:quale ruolo per il diritto internazionale privato europeo?

Sommario: 1. La salute, diritto “non negoziabile” dei consumatori, e l’incompiuta affermazione della sua tutela nei regolamenti dell’Unione europea in materia di diritto internazionale privato – 2. Imprese multinazionali e richieste di risarcimento per danni alla salute: la mancata espansione dell’ambito di applicazione dei fori speciali previsti dal “sistema Bruxelles I” – 3. Il foro in materia di illecito e la sua finalizzazione a obiettivi di prossimità e prevedibilità nella consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea – 4. Responsabilità da prodotto e tutela del danneggiato nelle soluzioni accolte dal diritto dell’Unione in tema di legge applicabile – 5. L’art. 5 reg. Roma II, norma au parfum économique marqué, e alcune proposte per una sua rimodulazione in chiave più protettiva per i consumatori – 6. L’eterno dilemma: “materializzazione” delle norme di conflitto o innalzamento degli standard di armonizzazione, in vista di una protezione più efficace in ambito UE del consumatore vittima di un illecito crossborder?

1. La salute, diritto “non negoziabile” del consumatore, e l’incompiuta affermazione della sua tutela nei regolamenti dell’Unione europea in materia di diritto internazionale privato

Nel rievocare, lo scorso 15 giugno,1 i temi sui quali – tra la fine degli anni Sessanta del secolo scorso e l’inizio della decade successiva – la scuola civilistica genovese, raccolta intorno alla figura di Stefano Rodotà, si era particolarmente appassionata, Guido Alpa ha ricordato l’originale contributo agli studi sulla tutela del consumatore maturato in quella stagione.2 Si tratta di un tema che, stimolato dalle riflessioni comuni dell’epoca, Guido Alpa – come pure sottolineato nella stessa occasione – ha poi costantemente 1 Stefano Rodotà, professore genovese. Un ricordo, convegno tenutosi nell’aula magna dell’Università di Genova il 15 giugno 2018.2 È infatti riconducibile a tale periodo il volume curato da S. Rodotà, Il controllo sociale sulle attività private, ECIG, Genova, 1972, che raccoglie le dispense delle lezioni tenute in quegli anni nell’Ateneo genovese: G. Alpa, Stefano Rodotà, innovatore del metodo giuridico, in Politica dir., 2017, p. 495.

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P. Ivaldi

coltivato, tanto da annoverarlo tra gli interessi centrali e ricorrenti nella propria produzione scientifica.

Ambito privilegiato già nei primi lavori monografici, ancor oggi riferimento essenziale in materia,3 Guido Alpa ha valorizzato da subito la dimensione ultra-nazionale del diritto dei consumatori, che infatti considera una delle componenti essenziali del diritto privato europeo.4 E al riguardo ha altresì immediatamente sottolineato il rilievo costituzionale, dopo un percorso segnato da significativi passaggi evolutivi,5 della tutela apprestata ai consumatori, destinatari – a norma dell’art. 169 TFUE – di uno standard elevato di protezione, in primis sotto forma di tutela della salute.6

In armonia con tale obiettivo, le disposizioni dei Trattati UE volte alla tutela della salute non si limitano a considerare la valenza collettiva del bene, riassuntivo di molteplici valori e interessi, cui si riferiscono, ma ne colgono altresì la pregnante rilevanza sul piano individuale. Si tratta di una prospettiva duplice che, a livello degli ordinamenti nazionali, ha trovato espressione in disposizioni, quali l’art. 32 della Costituzione italiana, cui la prassi – secondo un orientamento ormai consolidato – raccorda la Drittwirkung ai rapporti interindividuali.7

Nelle manifestazioni legislative e giurisprudenziali più significative a livello nazionale, tra cui quella italiana, il diritto alla salute riconosciuto in capo alla persona, in quanto tale e come consumatore, assume dunque – nel suo nucleo essenziale e “irriducibile” – configurazione di diritto umano inviolabile. Una prospettiva analoga, peraltro, risulta ormai accolta dal diritto primario dell’Unione europea: all’art. 168 TFUE include infatti espressamente, tra le finalità “trasversali” rispetto a ogni politica e attività da realizzare in tale ambito, l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione della salute.8 La Carta dei diritti fondamentali (agli artt. 35 e 38)

3 Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore, Milano, 1975, e Tutela del consumatore e controlli sull'impresa, Bologna, 1977.4 G. Alpa, Il diritto privato europeo, Milano, 2016, p. 197.5 Ivi, pp. 200-204.6 Ivi, p. 198.7 Il fenomeno della “costituzionalizzazione” del diritto privato europeo è stato oggetto di esaustiva ricostruzione in numerosi scritti di Guido Alpa, tra i quali si segnala, ancora da ultimo, Dal diritto pubblico al diritto privato, parte seconda: Il superamento della dicotomia nel diritto post-moderno, Modena, 2017, p. 50 ss., nonché Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali a cura del medesimo A. e di G. Conte, Torino, passim. Sulla dimensione “privatistica” dell’art. 32 Cost., peraltro, Guido Alpa si era soffermato già negli anni Settanta del secolo scorso: Danno “biologico” e diritto alla salute. Un’ipotesi di applicazione diretta dell’art. 32 della Costituzione, in GI, 1976, I, 2, p. 446 ss. 8 L’art. 168 TFUE finalizza all’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione l’esercizio

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Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore

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conferma del resto tale approccio, riflettendo puntualmente impostazione e scelte desumibili dai Trattati dell'Unione.

Movendo dal quadro appena delineato, Guido Alpa traccia una distinzione essenziale, indispensabile anche per valutare criticamente – dialogando con lui nell’ambito di questo scritto – il ruolo del diritto internazionale privato dell’Unione europea in vista di garantire la tutela dei diritti fondamentali del consumatore, affermati dalle richiamate disposizioni sovranazionali di rango primario. Egli sottolinea come salute e sicurezza, in quanto oggetto di diritti inerenti alla persona in sé e per sé e dunque non esclusivamente propri ai consumatori, siano destinati in ogni caso a prevalere sugli interessi economici dei soggetti a vario titolo coinvolti nelle relazioni private in dipendenza o in occasione delle quali i diritti medesimi vengono posti a rischio o pregiudicati. Conseguentemente, soltanto i diritti a mero contenuto economico dei consumatori, sprovvisti della “durezza” che caratterizza i diritti fondamentali sopra evocati, possono essere oggetto di mediazione con le esigenze di protezione degli interessi economici delle imprese.9

Si constata infatti, sul terreno del diritto internazionale privato, che l’obiettivo – pur chiaramente esplicitato dai Trattati – di garantire tutela rafforzata alla salute fatica a emergere, o addirittura sembra smarrirsi, malgrado il vincolo al rispetto dei diritti fondamentali prescritto in relazione a qualsiasi misura riconducibile allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel cui alveo i regolamenti in materia vengono adottati.10 Tale conclusione risulta sostanzialmente confermata – malgrado gli auspici e le affermazioni di principio – persino se si ha riguardo agli strumenti entrati in vigore ancora di recente nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile. Tutto ciò, anche se oggi – abbandonate ormai da tempo le teorie sul carattere “neutro” o “neutrale” delle norme di diritto internazionale privato – nessuno può più seriamente dubitare che esse siano destinate a svolgere un ruolo non marginale tra gli strumenti a tutela dei diritti fondamentali, compresi quelli

delle competenze dell’Unione europea in materia di “tutela e miglioramento della salute umana”, ambito nel quale – a norma dell’art. 6 del medesimo Trattato – l’Unione europea può “svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri”. L’art. 114 par. 3 TFUE preordina poi alla medesima finalità le disposizioni dell’Unione europea volte a ravvicinamento delle legislazioni nazionali suscettibili di incidere in tale settore (comprendendovi dunque, tra le altre, anche le misure in tema di sicurezza e protezione dell’ambiente e dei consumatori), mentre l’art. 36 TFUE contempla la tutela della salute tra i motivi di deroga agli obblighi di liberalizzazione sanciti dal Trattato.9 G. Alpa, Il diritto privato europeo cit., p. 207.10 A norma dell’art. 67 par. 1 TFUE l’Unione europea “realizza uno spazio di libertà sicu-rezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri” (enfasi aggiunta).

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P. Ivaldi

“non negoziabili”, riconosciuti agli individui.

2. Imprese multinazionali e richieste di risarcimento per danni alla salute: la mancata espansione dell’ambito di applicazione dei fori speciali previsti dal “sistema Bruxelles I”

Quanto da ultimo osservato risulta particolarmente evidente con riferimento ai criteri per la determinazione del foro competente nelle controversie civili a carattere transnazionale, la cui individuazione – già ab origine,11 in armonia con una scelta di fondo, peraltro, confermata e sviluppata nel tempo – è specificamente funzionale a facilitare l’accesso alla giustizia e a garantire effettività di tutela alle parti coinvolte.12 Il “potenziamento” di tale protezione sul piano processuale non risulta tuttavia effettivamente assicurato in occasione di azioni giudiziarie intentate a seguito di violazioni anche macroscopiche del diritto fondamentale alla salute. Tale conclusione – confortata da una prassi purtroppo priva di significative eccezioni – non muta persino se si ha riguardo alle declinazioni normative più evolute del “sistema Bruxelles I”, scaturite dal processo di rifusione culminato con l’approvazione del reg. n. 1215/2012, c.d. Bruxelles I bis, in tema di competenza giurisdizionale ed efficacia delle decisioni in materia civile e commerciale.13

11 Il riferimento è alla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, che offre la disciplina paradigma sulla cui matrice si è sviluppato – a livello europeo – tutto il diritto processuale civile e commerciale e reca già una funzionalizzazione di tale sistema alla tutela di prerogative individuali (anche) a carattere inviolabile.12 R. Luzzatto, Sulla riforma del sistema italiano di diritto processuale civile internazionale, in Riv. dir. int., 1990, p. 832 ss. e V. Starace, La disciplina dell’ambito della giurisdizione italiana nel progetto di riforma, ibidem, 1992, p. 5 ss.13 Reg. (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (rifusione), in GUUE L 351 del 20 dicembre 2012, p. 1 ss. Sul processo di rifusione e sui suoi obiettivi, F. Pocar, I. Viarengo, F.C. Villata (eds.), Recasting Brussel I, Padova, 2012; a proposito del regolamento n. 1215/2012, F. Ferrari, F. Ragno (eds.), Cross-border Litigation in Europe: The Brussel I Recast Regulation as a panacea?, Padova, 2015; H. Gaudemet-Tallon, Compétence et exécution des jugements en Europe, 5e ed., Paris, 2015; F. Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel Regolamento (UE) n. 1215/2012 (rifusione), Padova, 2015; S.M. Carbone, C.E. Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale. Il regolamento UE n. 1215/2012, in G. Ajani, G.A. Benacchio (a cura di), Trattato di diritto privato dell’Unione europea, vol. 11, Torino, 2016; A. Malatesta (a cura di), La riforma del regolamento Bruxelles I. Il regolamento (UE) n. 1215/2012 sulla

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L’inadeguatezza delle soluzioni di diritto processuale civile internazionale accolte in ambito UE si evidenzia in modo particolare in caso di controversie nelle quali viene fatta valere la responsabilità per danni alla salute di imprese multinazionali operanti in Paesi terzi, specie in via di sviluppo, in presenza di società madri costituite sul territorio di Stati membri. In tali circostanze, la possibilità di attrarre le controversie nell’area europea, consentendo ai ricorrenti di radicare la causa dinanzi ai giudici del luogo in cui ha sede la società capogruppo, può talvolta costituire l’estrema risorsa per le vittime che, in mancanza di questa opportunità, vedono svanire ogni concreta prospettiva di essere risarcite.

I dati desumibili dalla prassi internazionale appaiono tuttavia sconfortanti:14 il loro esame evidenzia infatti l’estrema difficoltà di imputare a una società costituita all’interno dell’Unione condotte – all’origine di danni gravi alla salute – tenute in aree geograficamente distanti, di regola per il tramite di enti a vario titolo collegati con la prima. In situazioni del tipo descritto risulta per lo più estremamente problematico radicare la controversia dinanzi ai giudici di uno Stato membro, anche se in tale ambito (i) la società madre ha la propria sede statutaria nonché, come si verifica di frequente, (ii) è stata altresì assunta la decisione poi attuata (eventualmente mediante comportamenti meramente esecutivi) da un soggetto distinto, stabilito in un’area geografica extra-UE.

L’obiettivo di valorizzare l’effettivo “centro di gravità” (localizzato all’interno dell’Unione) della controversia transnazionale si scontra innanzi tutto, pur ricorrendo le circostanze indicate, con la difficoltà di dimostrare il carattere fittizio, o quanto meno soltanto formale, della distinzione tra società madre e società affiliata: occorre infatti offrire la prova, per lo più assai complessa, che l’articolazione strutturale costituisce un mero “schermo” giuridico, dietro al quale si cela in realtà un soggetto unitario, quanto meno ai fini dell’imputazione della responsabilità per specifici atti.

Quando tale “disvelamento” risulta impraticabile, non appare tuttavia meno impervia la via di ricorrere al criterio della sede decisionale, rilevante alla stregua di locus commissi delicti, per radicare la controversia in ambito UE. In disparte, anche in questo caso, le problematicità sul piano probatorio, tale soluzione – in presenza di un convenuto (almeno formalmente) localizzato in uno Stato terzo – non può infatti, neppure dopo la rifusione del “sistema Bruxelles I”, essere fondata sulle regole previste dal regolamento n.

giurisdizione e l’efficacia delle decisioni in materia civile e commerciale, Milano, 2016. 14 C. Bright, L’esercizio extraterritoriale della giurisdizione civile con riferimento alle gravi violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali, EUI Working Papers, 2015, spec. p. 3 ss.

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1215/2012. E ciò perché, malgrado la loro (pretesa) vocazione “globale”,15 non si è realizzata l’auspicata espansione dell’ambito di applicazione soggettivo dei criteri speciali di competenza giurisdizionale previsti da tale “sistema”, con l’inevitabile conseguenza che, in materia di illecito, l’art. 7 n. 2 del regolamento Bruxelles I bis non può operare in carenza del requisito del domicilio del convenuto in uno Stato membro.

3. Il foro in materia di illecito e la sua finalizzazione a obiettivi di prossimità e prevedibilità nella consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea

Il “sistema Bruxelles I” si rivela in via di principio inadeguato ad apprestare, nell’ambito di una controversia crossborder, una protezione rafforzata al ricorrente che lamenta danni alla salute anche quando non ricorrono le specifiche problematiche – sinteticamente evocate nel paragrafo precedente – riguardanti le società multinazionali. La Corte di giustizia, infatti, conferma in tema di illecito le scelte interpretative consolidate in riferimento agli altri fori disciplinati dall’art. 7 reg. n. 1215/2012: l’obiettivo a essi comune è essenzialmente quello di consentire all’attore di radicare la controversia dinanzi a un giudice che, pur diverso rispetto a quello “naturale” previsto dall’art. 4 del medesimo regolamento, presenta con la fattispecie, astrattamente considerata, un collegamento oggettivo così significativo da giustificare una deroga rispetto al criterio generale, risultando al contempo, e proprio per tale motivo, “ragionevolmente prevedibile” per il convenuto.16

Nella giurisprudenza della Corte non si trova così traccia di cedimenti in favore di un trattamento privilegiato per il soggetto danneggiato, ma – al contrario – viene costantemente ribadito che i fori speciali (diversi

15 Il riferimento immediato è al parere della Corte giust., n. 1/03 del 7 febbraio 2006 relativo alla competenza della Comunità a concludere la nuova Convenzione di Lugano (in Riv. dir. int. priv. proc, 2006, p. 514 ss.); in tale parere – in particolare, ai punti 144, 148 e 151 – si sottolinea tra l’altro il carattere “globale e coerente” del sistema delineato sulla base delle regole uniformi in materia di competenza giurisdizionale.16 La “ragionevole prevedibilità”, per il convenuto, del giudice dinanzi al quale è portata la controversia costituisce il fulcro della disciplina in esame, come la Corte di giustizia, proprio in riferimento ai fori speciali, non ha mancato di sottolineare con fermezza: Corte giust., 1° marzo 2005, causa C-281/02, Andrew Owusu c. N. B. Jackson-"Villa Holidays Bal-Inn Villas" e altri, punto 37. Si esprime negli stessi termini anche Corte giust., 18 luglio 2013, causa C-147/12, ÖFAB, Östergötlands Fastigheter AB c. Frank Koot e Evergreen Investments BV, punto 30.

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da quelli a protezione del contraente debole),17 operanti in via alternativa rispetto a quello del domicilio del convenuto, si giustificano essenzialmente in ragione della particolare “vicinanza” tra il giudice individuato come competente a norma dell’art. 7 reg. n. 1215 e una determinata classe di fattispecie. Dal che si desume che tale disposizione, quanto meno in via diretta, non si presta a letture consumer-friendly, anche se l’attore gode di fatto di una posizione di vantaggio quando, avvalendosi del titolo speciale di giurisdizione contemplato dal n. 2 del citato art. 7, adisce il foro del luogo di concretizzazione del danno e tale luogo risulta coincidente con quello del suo domicilio.

Sul piano teorico la teoria dell’ubiquità, storicamente affermata con riguardo al criterio di competenza giurisdizionale fondato sul luogo dell’evento dannoso,18 non offre infatti spunti per accreditare soluzioni volte ad attribuire autonomo rilievo, ad esempio, a un criterio incentrato sulla prossimità dell’illecito con il luogo in cui si trova il “centro di interessi” della persona lesa. È vero che, nel caso eDate, tale “centro di interessi” dell’attore-danneggiato è stato valorizzato in relazione a illeciti cibernetici lesivi di diritti della personalità, ma ciò è avvenuto (i) sul presupposto che tale luogo coincidesse con quello di manifestazione dei pregiudizi lamentati e, dunque, soprattutto (ii) per trarne specifiche conseguenze con riguardo all’ambito della competenza del giudice adito.19

In armonia con il proprio orientamento consolidato, la Corte di giustizia ha quindi escluso il perseguimento di finalità protettive anche nel settore specifico della responsabilità del produttore, ambito indubbiamente “sintomatico” per apprezzare il livello di tutela apprestato dal “sistema Bruxelles I” in caso di controversie nelle quali si pone il problema dei danni 17 L’obiettivo di tutela rafforzata della parte presuntivamente debole si rintraccia invece in altre disposizioni del “sistema Bruxelles I”, con riguardo ai contratti dei consumatori, di lavoro subordinato e di assicurazione, di cui agli artt. da 10 a 23 del reg. n. 1215/2012.18 Il leading case in materia – come noto – è la sentenza Corte giust., 30 novembre 1976, causa 21/76, Handelskwekerij G. J. Bier BV c. Mines de Potasse d’Alsace SA, punti 12-14 e 17-19.19 Corte giust., 25 ottobre 2011, cause riunite C-509/09 e C-161/10, eDate Advertising GmbH c. X e Olivier Martinez e Robert Martinez c. MGN Limited. Le soluzioni accolte nella sentenza eDate sono state più di recente estese al danneggiato persona giuridica: Corte giust., 17 ottobre 2017, causa C-194/16, Bolagsupplysningen OÜ e Ilsjan c. Svensk Handel AB. Essenzialmente finalizzato agli obiettivi di prossimità e prevedibilità, il foro dell’illecito – nell’interpretazione offerta dalla Corte di giustizia nelle sentenze appena richiamate in tema di diffamazione online – può altresì esplicare un virtuoso effetto concentrativo delle controversie (e quindi di “formida-bile contrappeso” rispetto alla disarticolazione della lite conseguente alla giurisprudenza Shevill): P. Franzina, Armonia decisoria e competenza giurisdizionale nel regolamento “Bruxelles I-bis”, in G. Biagioni (a cura di), Il principio dell’armonia delle decisioni nello spazio giudiziario europeo, Torino, 2016, p. 115 s.

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alla salute. Pronunciandosi ancora di recente sull’individuazione del locus actus in una fattispecie di danno da prodotto, la Corte ha infatti ribadito – ai fini dell’accertamento della competenza giurisdizionale – che tale luogo, ravvisabile nello Stato di fabbricazione del prodotto, non si presta a essere identificato nel diverso luogo in cui il prodotto è stato trasferito all’attore-consumatore.20

Nella prospettiva della disciplina UE sui titoli di giurisdizione in materia civile e commerciale si conferma pertanto come inappropriata e dunque non ammessa la valorizzazione – in occasione dell’applicazione delle regole uniformi sui fori speciali – di una ratio protettiva del consumatore, vittima di un illecito, attore nell’ambito di una controversia a carattere transnazionale.

4. Responsabilità da prodotto e tutela del danneggiato nelle soluzioni accolte dal diritto dell’Unione in tema di legge applicabile

Se il “sistema Bruxelles I” non appresta un foro protettivo per la vittima dell’illecito e dunque non contempla soluzioni specificamente ritagliate per i casi nei quali il consumatore lamenta danni alla salute, la situazione non si prospetta molto differente quando si volge l’attenzione alle disposizioni UE in materia di legge applicabile. Eppure opera in tale ambito – al pari peraltro di quanto si riscontra in materia di competenza giurisdizionale – un preciso vincolo al rispetto dei diritti fondamentali, formulato (nella sua espressione più recente) dall’art. 67 TFUE.

Quanto appena osservato non conduce certo a disconoscere che le norme sui conflitti di leggi oggi trasfuse nei regolamenti si sono discostate, già a partire dalle loro iniziali formulazioni, dall’approccio hard and fast tipico delle tecniche internazionalprivatistiche più tradizionali, per accogliere soluzioni non di rado funzionali alla protezione di interessi materiali, la cui valorizzazione si aggiunge – senza necessariamente contrapporsi – agli obiettivi classici di certezza del diritto e di armonia internazionale delle soluzioni.21

La tendenza verso la “materializzazione” delle norme sui conflitti di leggi – come noto – ha tratto iniziale ispirazione dalla Conflicts Revolution americana registratasi a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e si è poi 20 Corte giust., 25 ottobre 2012, causa C-133/11, Folien Fischer AG e Fofitec AG c. Ritrama SpA, punti 45-47.21 P. Picone, I metodi di coordinamento tra ordinamenti nel progetto di riforma del diritto inter-nazionale privato italiano, in Riv. dir. int., 1990, p. 693 ss. e in La riforma italiana del diritto internazionale privato, Padova, 1998, p. 3 ss., spec. p. 29 ss.

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rapidamente diffusa anche in ambito europeo, sia a livello dei singoli ordinamenti statali sia nel contesto comunitario (e poi dell’Unione), imprimendovi un’evoluzione certo più “silenziosa” e contenuta di quella registratasi oltre-oceano, ma comunque positivamente riscontrabile e ormai consolidata.22 Se si ha riguardo alla responsabilità per danni da prodotto, tuttavia, la soluzione accolta dal regolamento n. 864/2007, c.d. Roma II,23 pare attestarsi su un punto di equilibrio tra gli interessi del produttore, da un lato, e del consumatore dall’altro, distante dall’assegnazione di uno spazio privilegiato alle ragioni di chi ha subito una lesione del proprio diritto fondamentale alla salute.

È vero che, in riferimento alla responsabilità da prodotto, il tema della salute emerge come specifica policy della disciplina conflittuale prevista dal regolamento Roma II. Al considerando n. 20 di tale regolamento si legge, infatti, che la regola trasfusa nell’art. 5 è volta, tra l’altro, a “tutelare la salute dei consumatori”. La scelta di utilizzare il plurale nell’individuazione della categoria di soggetti destinatari della protezione suggerisce di individuare, alla base dell’art. 5, un intento duplice: quello (i) di preservare un diritto dei consumatori, considerati nella loro dimensione collettiva, oltre che (ii) di assicurare la riparazione, in una prospettiva individuale, del pregiudizio subìto dal singolo danneggiato. Si tratta di una logica che permea, peraltro, anche i numerosi strumenti adottati in materia in ambito UE,24 i quali – in armonia con l’art. 169 TFUE e allo scopo, per l’appunto, di «promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione» – armonizzano gli standard di sicurezza delineando, per le ipotesi di violazione, un regime di strict liability.25

Il citato considerando n. 20, tuttavia, include la salute dei consumatori

22 A proposito della quiet evolution registratasi nei sistemi europei di diritto internazionale pri-vato, come riflesso della più incisiva choice of law revolution che ha interessato nel secolo scorso il continente nordamericano: S. Symeonides, The American Choice-of-Law Revolution in the Court: Today and Tomorrow, in Recueil des Cours, 2002, t. 298, p. 407.23 Regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma II), in GUUE L 199 del 31 luglio 2007.24 Il riferimento è alla direttiva 85/374/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1985, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (in GUCE L 210 del 7 agosto 1985, p. 29 ss.), nonché alla direttiva 2001/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 dicembre 2001, relativa alla sicurezza generale dei prodotti (in GUCE L 11 del 15 gennaio 2002, p. 4 ss.) che modifica la precedente dir. 92/59/CEE del Consiglio, del 29 giugno 1992, relativa alla sicurezza generale dei prodotti (in GUCE L 228 dell’11 agosto 1992, p. 24 ss.).25 G. Alpa, Il diritto privato europeo cit., p. 389 ss.

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in un elenco comprensivo di altri “valori”, alla cui tutela pure è preordinato l’art. 5, rendendo così evidente l’esigenza di operarne un contemperamento. In esso si precisa infatti che la norma di conflitto cui si riferisce persegue, accanto alla predetta finalità di (i) proteggere la salute, gli ulteriori obiettivi di (ii) ripartire equamente i rischi inerenti a una società moderna altamente tecnologica, (iii) incentivare l’innovazione, (iv) garantire una concorrenza non falsata e (v) agevolare gli scambi commerciali.

La soluzione accolta dall’art. 5 reg. Roma II richiede dunque qualche precisazione in merito al contemperamento dei molteplici (e, in qualche caso, evidentemente contrapposti) interessi contemplati, nonché a proposito dell’effettiva idoneità di tale norma di conflitto a interpretare – tramite rinvio agli ordinamenti volta a volta richiamati – le svariate esigenze di cui dovrebbe costituire espressione.

Occorre innanzi tutto premettere che tali esigenze, correlate alla norma strumentale in esame, coincidono sostanzialmente con quelle poste alla base della disciplina materiale adottata, nell’ambito dell’Unione europea, nel medesimo settore della responsabilità per danno da prodotto. Si tratta di una convergenza comprensibile, in quanto le regole di conflitto tendono per lo più a riflettere, pur in armonia con la logica e le tecniche loro proprie, le scelte di ordine normativo alla base del diritto materiale in vigore nello stesso contesto normativo e con riguardo allo specifico ambito cui pure tali regole si riferiscono.26

La sola eccezione rispetto a tale coincidenza di obiettivi tra disciplina di diritto materiale, da un lato, e diritto internazionale privato, dall’altro, riguarda l’intento di “incentivare l’innovazione”, esplicitato soltanto a proposito di quest’ultimo. Pur formalmente enunciato nel considerando n. 20 più volte richiamato, tale intento non sembra tuttavia aver effettivamente condizionato la formulazione dell’art. 5 reg., che infatti pare sostanzialmente inadeguato a promuoverne il perseguimento.27 In alcuni documenti elaborati

26 La convergenza di obiettivi cui si è fatto cenno emerge chiaramente leggendo, ad esempio, il preambolo della direttiva 85/374, già richiamata, ove si sottolinea espressamente che “il rav-vicinamento delle legislazioni nazionali in materia di responsabilità del produttore per i danni causati dal carattere difettoso dei suoi prodotti è necessario perché le disparità esistenti fra tali legislazioni possono falsare il gioco della concorrenza e pregiudicare la libera circolazione delle merci all'interno del mercato comune determinando disparità nel grado di protezione del consumatore contro i danni causati alla sua salute e ai suoi beni da un prodotto difettoso” e che “solo la responsabilità del produttore, indipendente dalla sua colpa, costituisce un’adeguata soluzione del problema, specifico di un’epoca caratterizzata dal progresso tecnologico, di una giusta attribuzio-ne dei rischi inerenti alla produzione tecnica moderna” (enfasi aggiunte).27 L’art. 5 reg., attraverso la clausola della commercializzazione, rende in definitiva applicabile un medesimo standard normativo nei confronti di tutti i produttori che immettono i loro prodotti

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a livello dell’Unione, peraltro, si è sottolineato come proprio i consumatori possano giocare un ruolo decisivo in vista di stimolare l’innovazione (e l’efficienza): essi, se “fiduciosi, informati e in grado di agire attivamente”, diventerebbero infatti – accogliendo tale prospettiva – “il fulcro del cambiamento economico”.28

Se si ha riguardo alla sua formulazione, non sfugge certamente la particolare complessità della norma di conflitto in commento:29 in mancanza di una scelta ex art. 14 reg. Roma II e ove non ricorrono i presupposti di cui al precedente art. 4, par. 2, l’art. 5 impiega innanzi tutto una serie di criteri di collegamento a cascata. L’operatività di tali criteri viene inoltre subordinata al verificarsi di una condizione ulteriore: quella della commercializzazione, nell’ambito degli ordinamenti progressivamente richiamati, del prodotto che ha determinato le conseguenze lesive lamentate (o il rischio del loro verificarsi). La disposizione così formulata risulta poi completata da una clausola di prevedibilità (a garanzia del produttore) e da una finale clausola di salvaguardia, che interpreta le esigenze di flessibilità cui – come noto – il regolamento si ispira, seppur in misura prudente.

Malgrado la sua articolata struttura, non sembra chiaro come l’art. 5 possa offrire una risposta adeguata alle plurime esigenze espresse dal più volte richiamato considerando n. 20. Tutto ciò, anche se, nell’enunciare ad esempio la prima policy elencata – consistente nell’obiettivo di “ripartire equamente i rischi inerenti a una società moderna altamente tecnologica” – il considerando in esame si limita in realtà a riproporre con parole diverse uno dei principi cardine di tutto il regolamento: si tratta del principio

in un certo mercato. Tale soluzione appare funzionale a “garantire una concorrenza non falsata” e ad “agevolare gli scambi commerciali”, mentre non è intuitiva la sua correlazione con lo stimolo all’innovazione. 28 Così la comunicazione della Commissione Strategia per la politica dei consumatori dell’UE 2007-2013. Maggiori potrei per la politica dei consumatori, più benessere e tutela più efficace, COM (2007) 99 def. del 13 marzo 2007, p. 2.29 A. Saravalle, The Law Applicable to Products Liability: Hopping off the Endless Merry-Go-Round, in A. Malatesta (ed.), The Unification of Choice-of-Law Rules on Torts and the Other Non-Contractual Obligations in Europe, Padova, 2006, p. 107 ss.; P. Huber, M. Illmer, International Product Liability. A Commentary on Article 5 of the Rome II Regulation, in YPIL, 2007, p. 31 ss.; A. Dickinson, The Rome II Regulation: The Law Applicable to Non-Contractual Obligations, Oxford, 2008, p. 381 ss. (e Updating Supplement, Oxford, 2010, p. 55 ss.); P. Stone, Product Liability under the Rome II Regulation, in J. Ahern, W. Binchy (eds.), The Rome II Regulation on the Law Applicable to Non-Contractual Obligations. A New International Litigation Regime, Leiden-Boston, 2009, p. 175 ss.; C. Schmid, T. Pinkel, Article 5 Rome II, in G.-P. Calliess (ed.), Rome Regulations. Commentary on the European Rules of Conflict of Laws, The Netherlands, 2011, p. 431 ss.; R. Plender, M. Wilderspin, The European Private International Law of Obligations, 4th ed. (M. Wilderspin), London, 2015, p. 571 ss.

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per cui, nell’individuazione delle soluzioni internazionalprivatistiche da adottare, occorre ricercare “un ragionevole equilibrio tra gli interessi del presunto responsabile e quelli della persona lesa”.30 La prima finalità esplicitata, dunque, nulla aggiunge rispetto all’opzione di fondo, alla base della disciplina prevista dal regolamento Roma II.31

5. L’art. 5 reg. Roma II, norma au parfum économique marqué, e alcune proposte per una sua rimodulazione in chiave più protettiva per i consumatori

Il considerando n. 20 del regolamento Roma II – come già sottolineato – riserva specifica considerazione a un interesse, quello alla salute, di cui sono titolari i soggetti potenzialmente o effettivamente danneggiati da un prodotto difettoso. L’adeguatezza delle soluzioni accolte dall’art. 5 rispetto a tale finalità va verificata tenendo conto della sua efficienza rispetto alla tutela della salute dei consumatori per i pregiudizi che essi subiscono, in conseguenza di un medesimo fatto lesivo, tanto a livello collettivo, quanto sul piano individuale. Ponendosi innanzi tutto nella prima prospettiva, l’art. 5 presenta il limite evidente di non preoccuparsi dello standard di tutela offerto, sul piano sostanziale, dal diritto reso applicabile in virtù del criterio di collegamento volta a volta rilevante. La complessa e articolata regola di conflitto delineata da tale disposizione appare infatti “indifferente” rispetto al trattamento apprestato in favore dei consumatori, intesi come categoria, mirando soprattutto a garantire – in armonia con la logica localizzatrice che la permea – la prevedibilità della legge richiamata dai diversi criteri previsti e tra loro coordinati in via di operatività successiva.

L’art. 5 non permette infatti al danneggiato di esercitare un’opzione tra le diverse leggi nazionali in astratto applicabili, opportunità prevista invece, ad esempio, dal successivo art. 7 reg. Roma II in materia di responsabilità per danno ambientale.32 Un esercizio “asimmetrico” e unilaterale di 30 Tale principio cardine, formulato innanzi tutto dal considerando n. 16 del regolamento Roma II, viene ripreso anche dal successivo considerando n. 19, ove si precisa che la ricerca di “un equilibrio ragionevole tra i contrapposti interessi” è anche la ratio alla base della previsione di norme di conflitto “specifiche”, cui per l’appunto si fa ricorso quando tale “equilibrio ragionevole” non appare conseguibile attraverso l’applicazione della regola generale di conflitto, trasfusa nell’art. 4 del regolamento in esame.31 L’equidistanza rispetto alle parti coinvolte nella controversia viene meno essenzialmente solo nel caso dell’art. 7 del regolamento Roma II, che reca una norma di conflitto “specializzata” in tema di responsabilità per danno ambientale.32 A proposito di tale norma di conflitto sia consentito rinviare a P. Ivaldi, Unione europea, tutela

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autonomia privata analogo a quello previsto dalla disposizione da ultimo richiamata avrebbe consentito – tra l’altro con incisività maggiore, perché più ampia sarebbe in questo caso l’alternativa offerta – di apprestare una soluzione content oriented, in armonia con l’obiettivo di tutela che essa si è astrattamente prefissata.

L’obiettivo di tutela della salute dei consumatori non si presta, d’altra parte, a essere conseguito neppure per il tramite della clausola di salvaguardia, che il par. 2 dell’art. 5 reg. Roma II esplicita, riproducendo testualmente la formula impiegata dal precedente art. 4, al par. 3, in chiusura della regola di conflitto generale codificata dal regolamento. Non solo la riflessione teorica, ma neppure la prassi applicativa, offrono infatti spunti convincenti per accreditare soluzioni interpretative volte a ricollegare a tale clausola finalità diverse da quella, desumibile dal suo tenore letterale, di rendere applicabile – in via di eccezione – una legge diversa da quella positivamente indicata dalla norma, in ragione dei suoi collegamenti manifestamente più stretti con la fattispecie dedotta in giudizio. In mancanza di eventuali indicazioni in tal senso della Corte di giustizia, non sembra giustificato proporre un impiego della clausola in esame alla stregua di strumento cui ricorrere per la tutela di interessi materiali, incidendo così – inevitabilmente – sul delicato equilibrio tra flessibilità e prevedibilità complessivamente delineato dal regolamento.

Se, de iure condendo33 e a tutela dell’interesse collettivo alla salute dei consumatori, l’art. 5 venisse modificato ammettendo il ricorso, da parte del solo soggetto danneggiato, all’autonomia privata in armonia con il “principio del trattamento favorevole per la parte lesa” (richiamato dal regolamento in altro ambito),34 non vi sarebbe d’altra parte più ragione di mantenere la clausola di salvaguardia, sicuramente disarmonica in un contesto in cui alla scelta (unilaterale) del diritto applicabile venisse ricollegata la predetta valenza materiale. Una modifica nei termini ora indicati consentirebbe di ottenere l’effetto protettivo voluto senza ricorrere a tale clausola (che, anzi, nella prospettiva indicata andrebbe espunta dall’art. 5) e senza assegnare a quest’ultima funzioni che, per sua formulazione e consolidata prassi, le sono

ambientale e diritto internazionale privato: l’art. 7 del regolamento Roma II, in Riv. dir. int. priv. proc., 2013, p. 869 ss.33 In attuazione della clausola di revisione prevista dall’art. 30 del regolamento Roma II hanno preso avvio i lavori sulle ipotesi di revisione della disciplina attualmente vigente: su tale processo, ad esempio, la risoluzione del Parlamento europeo 10 maggio 2012 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti la modifica del regolamento (CE) n. 864/2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma II) (2009/2170(INI)).34 Il principio del “trattamento favorevole per la parte lesa” è evocato dal considerando n. 25 reg. Roma II, in relazione all’art. 7 in tema di danno ambientale.

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invece estranee.Occorre tuttavia domandarsi se una soluzione così congegnata risulti

anche funzionale alla tutela, sul piano non più collettivo ma individuale, del singolo consumatore che abbia effettivamente subìto, o possa in futuro ricevere, un danno alla salute causato da un prodotto difettoso. Se, nell’operare tale verifica, si volge l’attenzione al regolamento n. 593/2008, c.d. Roma I, in tema di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali,35 si evince la chiara la preferenza – a fini tutelativi del consumatore – per il criterio di collegamento fondato sulla residenza abituale di tale soggetto: in questo senso, infatti, è formulato l’art. 6 di tale regolamento. La scelta conflittuale considerata più efficiente in tale contesto, nella prospettiva di proteggere il soggetto debole del mercato, è stata dunque ravvisata nella garanzia, apprestata a quest’ultimo, di vedersi applicati in ogni caso gli standard normativi in vigore nell’ambito sociale che gli è più “prossimo”. Il che, tra l’altro, assicura un ulteriore effetto virtuoso: ai consumatori residenti in una stessa area geografica viene assicurato un trattamento che non muta in dipendenza dell’eventuale carattere transnazionale della controversia.36

Se si condivide l’assunto, alla base della disciplina accolta nel regolamento Roma I, secondo cui la proper law applicabile ai rapporti nei quali il consumatore è coinvolto coincide, a sua tutela, con quella in vigore nell’ordinamento in cui egli ha fissato la propria residenza abituale, la medesima soluzione andrebbe riproposta anche nel regolamento Roma II. Si potrebbe così immaginare di modificare l’art. 5 reg. Roma II introducendo una regola fondata in primis sul criterio appena indicato, dal quale (solo) il consumatore potrebbe discostarsi preferendone un altro, da scegliere tra quelli, oggi operanti “a cascata”, già previsti dalla disposizione in esame.

La norma così ipotizzata de iure condendo, ammettendo un esercizio dell’autonomia privata riservato al solo soggetto debole del mercato, condurrebbe a delineare un regime addirittura più favorevole per tale soggetto di quanto non sia l’attuale disciplina in materia di contratti di consumo desumibile dal regolamento Roma I (che non prevede un esercizio unilaterale di autonomia privata in favore del consumatore). Resta tuttavia il dubbio che una modifica così incisiva della regola oggi in vigore in materia di responsabilità da prodotto possa essere considerata coerente con il mantra del “ragionevole equilibrio” tra i contrapposti interessi delle parti implicate, ossessivamente ribadito nei considerando del regolamento Roma II e in 35 Regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 giugno 2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), in GUUE L 177 del 4 luglio 2008, p. 6 ss.36 P. Piroddi, La tutela del contraente debole nel regolamento Roma I, Padova, 2012, p. 125 ss.

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Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore

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definitiva desumibile, più in generale, anche dai documenti che tracciano gli obiettivi strategici per la crescita in Europa, parametrati sull’orizzonte temporale – ormai prossimo – del 2020.37

Si tratta di una perplessità probabilmente fondata. Potrebbe tuttavia apparire non meno problematica la proposta, in una diversa prospettiva, di modificare la norma di conflitto in materia di responsabilità da prodotto in termini tali da apprestare regole di conflitto differenziate a seconda che il consumatore (i) agisca per la tutela di propri interessi economici (per loro natura oggetto di mediazione con gli interessi economici delle imprese),38 ovvero (ii) lamenti la violazione del proprio diritto fondamentale alla salute, ipotesi nella quale soltanto opererebbe una soluzione sbilanciata in suo favore.

Non pare dunque facile intervenire sulla norma di conflitto in esame con soluzioni che, pur garantendo l’intento protettivo, siano al contempo complessivamente coerenti con gli assetti sui quali si fonda la normativa UE. Se ciò è senz’altro vero, è però altrettanto vero che la regola, oggi in vigore, desumibile dall’art. 5 reg. Roma II appare soprattutto funzionale ai due ultimi (ma in realtà, prioritari e prevalenti) obiettivi esplicitati dal considerando n. 20 del medesimo regolamento, entrambi incentrati sulle esigenze economiche del mercato interno. L’operatività in via successiva – in ragione del requisito del consenso alla commercializzazione – dei criteri di collegamento previsti da tale regola uniforme è infatti coerente con l’esigenza di “garantire una concorrenza non falsata” e di “agevolare gli scambi commerciali”.

In tema di responsabilità da prodotto, dunque, anche il regolamento Roma II sembra in definitiva sottrarsi a un effettivo bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco: la sensazione prevalente, accostandosi alla norma di conflitto codificata dall’art. 5, è infatti la percezione di un “parfum économique marqué”.39

37 A tale proposito rilevano ad esempio gli assetti delineati dalla Commissione nel documento Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, COM (2010) 2020 def. del 3 marzo 2010.38 G. Alpa, Il diritto privato europeo cit., ancora a p. 207.39 M. Fallon, La relation du règlement Rome II avec d’autres règles de conflit de lois, in Rev. dr. comm. belge, 2008, p. 553.

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P. Ivaldi

6. L’eterno dilemma: “materializzazione” delle norme di conflitto o innal-zamento degli standard di armonizzazione, in vista di una protezione più efficace in ambito UE del consumatore vittima di un illecito crossborder?

La finalità protettiva della vittima dell’illecito – in principio esclusa nella consolidata interpretazione delle norme UE in materia di competenza giurisdizionale, anche quando il consumatore lamenta la violazione del diritto alla salute – non trova dunque effettivo riconoscimento neppure per il tramite della norma di conflitto in tema di responsabilità per danno da prodotto. L’art. 5 reg. Roma II, che pure include tra i propri obiettivi la tutela della salute dei consumatori, considerati nella loro dimensione anche collettiva, rivela infatti una matrice prevalentemente macro-economica, quindi distante da una logica realmente sensibile agli interessi “non negoziabili” del soggetto debole del mercato.

Per quanto attiene, in particolare, tale norma di conflitto, l’analisi compiuta indica che il valore da essa prioritariamente perseguito è l’efficienza del mercato interno, anche se, per garantire tale risultato, non viene trascurata l’esigenza di contrastare i comportamenti di operatori e imprese che, determinando un abbassamento degli standard affermati a livello dell'Unione a salvaguardia di valori collettivi quali la salute, contraddicono le regole strutturali del mercato, alterandone gli equilibri.

La protezione della salute dei consumatori, in tale prospettiva, non si evidenza dunque – sul piano del diritto internazionale privato – come autonoma e diretta finalità delle norme strumentali previste in materia dai regolamenti. Eppure l’art. 3, par. 3, TUE è del tutto esplicito nell’includere lo sviluppo di “un’economia sociale di mercato” tra gli obiettivi essenziali nella realizzazione del mercato interno, a garanzia degli interessi sociali fondamentali (incluso, evidentemente, quello alla salute).40

Non si può sottacere, d’altra parte, che il “buon funzionamento” del mercato interno, cui pure (“in particolare”) mirano i regolamenti esaminati sulla cooperazione giudiziaria in materia civile, passa necessariamente anche attraverso il riconoscimento di obiettivi extra-economici che inevitabilmente incidono sulle sue dinamiche. E pare ineludibile, pertanto, che di tali obiettivi il diritto internazionale privato si faccia adeguatamente carico, delineando un contemperamento degli interessi in gioco che tenga in ogni caso conto della tutela dei consumatori, espressamente inclusa tra le policies istituzionali dell’Unione.41

40 U. Villani, La politica sociale nel Trattato di Lisbona, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2012, p. 42 ss.41 In questo senso è del tutto esplicito l’art. 12 TFUE: “Nella definizione e nell’attuazione di altre

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Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore

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Riprendendo l’indispensabile distinzione tracciata da Guido Alpa, che ha suscitato e orientato lo svolgimento di questa riflessione, la tutela del consumatore – lontana da costituire un monolite – richiede di essere modulata in ragione della “durezza” delle posizioni soggettive volta a volta in considerazione.42 In tale logica i diritti a contenuto economico dei consumatori, oggetto di (i) continuo confronto e continua mediazione con gli interessi perseguiti nell’ambito di altre politiche dell’Unione, sono suscettivi di trovare regolamentazione – in presenza di situazioni a carattere transnazionale – per il tramite di una norma di conflitto fondata sul loro (ii) contemperamento con gli interessi egualmente economici del “produttore”. Il compito affidato al legislatore europeo – anche, evidentemente, nell’ambito della disciplina di conflitto – attiene allora l’individuazione del migliore compromesso tra tali contrapposte esigenze, in linea con gli equilibri delineati dalla disciplina di settore oggetto di armonizzazione43 e in vista degli obiettivi strategici che l’Unione si è data:44 il punto di “equilibrio” individuato dall’art. 5 reg. Roma II, invece, suscita – come sottolineato nelle pagine precedenti – non pochi rilievi critici.45 Nella medesima prospettiva appare altresì urgente l’elaborazione di un’adeguata disciplina delle consumer crossborder collective redress,46 recependo l’invito formulato dalla Commissione nella sua raccomandazione del 2013.47 Si tratta di un intervento normativo indispensabile per consentire ai politiche o attività dell’Unione sono prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori”.42 G. Alpa, Il diritto privato europeo cit., p. 208.43 Nel settore della responsabilità del produttore tale standard risulta oggi tracciato, sul piano del diritto materiale, dalle direttive già cit. supra, in nota 24. 44 Oltre al documento Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, già richiamato supra, in nota 37, sono indispensabili riferimenti il regolamento 254/2014/UE, relativo a un programma pluriennale per la tutela dei consumatori nel periodo 2014-2020, e la comunicazione della Commissione Migliorare il mercato unico: maggiori opportunità per i cittadini e le imprese, COM (2015) 550 final del 28 ottobre 2015.45 A livello dell’Unione – pur in un quadro di significativa, crescente considerazione per il consumatore e per i suoi diritti – si afferma ancor oggi che l’attenzione a valori extra-economici non esime dal prestarsi affinché “non vengano frapposti inutili ostacoli normativi agli operatori del mercato, né nuovi né esistenti, a prescindere dal modello di business da essi utilizzato” (comunicazione della Commissione Migliorare il mercato unico cit., p. 4). Di tale impostazione si colgono pertanto riflessi, sul piano del diritto internazionale privato, anche nella formulazione dell’attuale norma di conflitto in tema di responsabilità da prodotto prevista dal regolamento Roma II.46 G. Alpa, Il diritto privato europeo cit., p. 601.47 Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013 relativa a principi comuni per meccanismi di tutela collettiva inibitoria e risarcitoria negli Stati membri relativi a violazioni di diritti garantiti dal diritto dell’Unione europea (2013/396/3).

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P. Ivaldi

consumatori di assolvere quel ruolo propulsivo del cambiamento economico che la stessa Commissione – come già ricordato – non ha mancato, in più occasioni, di affidare loro.

Diversamente da quanto avviene in relazione ai suoi interessi meramente economici, il diritto alla salute (al pari di quello alla sicurezza) inerisce al consumatore in quanto persona e sfugge, in ragione di ciò, a un bilanciamento fondato sulle logiche proprie del mercato. Il diritto alla salute è inevitabilmente soggetto a limiti e condizionamenti, che però si giustificano soltanto nell’ambito di un rapporto di reciproca integrazione con altri diritti fondamentali, parimenti espressivi della dignità umana.48

Accertata la difficoltà di assicurare – quanto meno a disciplina invariata – adeguata considerazione al diritto alla salute per il tramite di tecniche di diritto internazionale privato, la via maggiormente percorribile sembra essere piuttosto il consolidamento, a livello dell’Unione europea, di uno standard elevato di tutela, non comprimibile – né dagli Stati membri, né tanto meno dalla volontà dei privati – a danno del soggetto danneggiato.

Il che suggerisce, pur nel rispetto dei principi di sussidiarietà e prossimità,49 di coltivare soprattutto sul terreno del diritto materiale oggetto di armonizzazione gli sviluppi futuri più incisivi per la tutela del diritto alla salute dei consumatori, ricercando soluzioni a proposito delle quali Guido Alpa non potrà mancare di offrirci ancora il suo autorevole, indispensabile contributo.

48 Tale indispensabile integrazione permette di evitare – secondo le efficaci espressioni della nostra Corte costituzionale – l’espansione illimitata del diritto alla salute, che lo renda “tiranno” rispetto ad altre situazioni giuridiche pur provviste di carattere altrettanto fondamentale: Corte cost., sentenza n. 85 del 2013, punto 9 in diritto.49 In questo senso il regolamento 254/2014/UE cit. supra, in nota 44.

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Massimo Luciani

Quale identità?

Sommario: 1. Una scelta – 2. Un nome o un numero – 3. La digitalizzazione e il governo dei dati. – 4. La digitalizzazione e l’identità – 5. Identità dinamica? Identità liquida? – 6. A mo’ di conclusione.

1. Una scelta

Poiché, parafrasando la Historia Augusta, “multa egregia eius [scripta] claruerunt”1, davvero non si sa quale contributo scientifico di Guido Alpa scegliere, per avviare un dià-lógos a distanza con lui. Per quanto riguarda chi scrive queste brevi note, probabilmente, sarebbe stato logico optare per gli studi in tema d’interpretazione, considerato che su questo le posizioni dell’omaggiato non coincidono con quelle dell’omaggiante. Così facendo, però, anche a prescindere dalla difficoltà di affrontare in poche battute una problematica di questa portata, si sarebbe corso il rischio di un eccesso di attenzione per le idee del secondo, quando - invece - sono quelle del primo che qui contano. La scelta, dunque, è caduta su un breve saggio dedicato a “L’identità digitale e la tutela della persona”2, non solo perché è molto recente, ma anche perché è un piccolo cammeo dal quale sono aperte plurime piste di riflessione su alcune fondamentali questioni del dibattito giuridico contemporaneo.

Le pagine che seguono non vogliono seguire con acribia il percorso dell’A., commentando i suoi singoli passaggi logici, ma intendono solo mostrare, sia pure in sintesi estrema, quanto vasto sia il panorama sul quale, leggendo quel pur breve saggio, ci è permesso di affacciarci.

1 Aelius Spartianus (?), Historia Augusta, De vita Hadriani, III, 6a-7.2 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona. Spunti di riflessione, in Contratto e impresa, 2017, 723 sgg.

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M. Luciani

2. Un nome o un numero

Ci è dato vivere nell’era della digitalizzazione. Da quando Alan Turing intuì che per le macchine “intelligenti” sarebbero state necessarie istruzioni impartite in base a un codice binario3, la digitalizzazione ha fatto passi da gigante e oggi si è estesa ovunque. Ma digitalizzare significa attribuire un codice numerico e numero e nome sono fra loro incompatibili. L’attribuzione di un numero, fatalmente, comporta sempre una semplificazione e una riduzione informativa, perché deve rendere leggibile da parte di una macchina una realtà complessa e multiforme che altrimenti non potrebbe afferrare4, sicché si risolve in una dis-umanizzazione dell’informazione. Una volta disumanizzata l’informazione, però, si disumanizza anche il suo oggetto, non più immediatamente percepibile appunto come essere umano, che si può de-nominare individualmente perché è uno, mentre si può e-numerare perché è solo un qualunque “uno” fra “trenta”, “mille”, o “centomila”. Ha dunque ragione Guido Alpa quando, in apertura del suo saggio, ricorda che sino ai giorni nostri l’attribuzione di un numero invece di un nome costituiva l’eccezione: “come nella matricola militare o in quella carceraria”; come “nei padiglioni degli ospedali”; come “nei campi di concentramento”5. Oggi, invece, è la regola.

Quelli appena riportati sono tutti esempi di “istituzioni totali”, cioè di luoghi segnati da un “carattere inglobante o totale”, nel quale si oppone alla persona un “impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno”6. In quei luoghi la sostituzione del numero al nome viene normalmente7 giustificata con il richiamo all’esigenza della semplificazione e dell’ottimizzazione del servizio, ma in realtà serve al compimento di quel processo di “riduzione del sé” che, partendo dalla spoliazione di quanto si possedeva in passato e terminando con la sostituzione con quanto l’organizzazione discrezionalmente decide di attribuire, è implicato 3 A. Turing, Proposal for the Development in the Mathematics Division of an Automatic Computing Engine (ACE). Part I: Descriptive Account, rapporto all’Executive Committee del National Physics Laboratory, 1945, trad. it. di G. Lolli e N. Dazzi, Proposta per lo sviluppo nella Divisione Matematica di una macchina calcolatrice elettronica (ACE). Parte I: Presentazione descrittiva, ora in Intelligenza meccanica, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, 35.4 A. Carcaterra, Machinae autonome e robot, 5 del dattiloscritto.5 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 723.6 E. Goffman, Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, New York, Anchor Books, 1961, trad. it. di Franca Basaglia, Asylums. Le istituzioni totali. La condizio-ne sociale dei malati di mente e di altri internati, Torino, Einaudi, 1968, 34.7 Fa ovviamente eccezione il campo di concentramento, nel quale non si avverte la necessità di giustificare alcunché.

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Quale identità?

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dall’ammissione in un’istituzione totale8. Si tratta del segno rivelatore del fatto che l’istituzione è concepita come funzionale ai bisogni della persona che vi entra assai meno di quanto la persona sia intesa come funzionale alle esigenze dell’istituzione.

Gli attuali processi “ordinari” di sostituzione dell’e-numerazione alla de-nominazione hanno in comune con quei tradizionali processi “straordinari” proprio questi profili funzionali, perché in entrambi i casi le esigenze organizzative generali fanno aggio sui bisogni propriamente individuali, ma se ne differenziano perché l’uso del numero non è fatto per rimanere confinato in un determinato spazio materiale, ma - tutt’al contrario - si proietta nell’universo, finito, ma illimitato, della rete, prestandosi all’accessibilità da parte di tutti o almeno di chi del numero ha interesse (economico, securitario, etc.) a sfruttare la conoscenza. Viene a galla, dunque, un’esigenza del tutto sconosciuta alla fattispecie tradizionale: ormai impossibile il recupero del nome (a causa dell’irresistibilità dei processi di digitalizzazione), si eleva la pretesa a governare il numero, a stabilire chi e quando possa entrarne in possesso e quale uso possa farne una volta acquisitolo. Ormai apparentemente persa la battaglia per salvare l’“individuo anonimo comune statistico” cui accoratamente guardava Capograssi9 e attivatisi inauditi processi tecnici capaci di rendere irreversibile la massificazione inutilmente combattuta dalla “rivoluzione conservatrice” del primo Novecento10, la questione diventa quella del recupero di margini di libertà attraverso la costruzione di spazi di riservatezza.

È questione nuova, assai diversa da quella che si era posta all’uomo-collettivo del Novecento nella prospettiva gramsciana. Allora si trattava di comprendere come il conformismo e la standardizzazione del pensiero (inevitabili in qualunque società) potessero essere compensati da un disciplinamento delle decisioni individuali realizzato in sede collettiva che fosse capace di salvaguardare “nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale”11. Oggi, venuti meno i soggetti sociali capaci di impastare il “cemento collettivo”12 grazie al quale la dimensione 8 E. Goffman, Asylums, cit., 48.9 G. Capograssi, Su alcuni bisogni dell'individuo contemporaneo, in Scritti giuridici in memoria di V. E. Orlando, Padova, Cedam, 1957, Vol. I, 302.10 Il cui manifesto è probabilmente O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, I, Wien, Braumüller, 1918; II, München, C.H. Beck, 1922, trad. it. di J. Evola, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale, 2^ ed., Milano, Longanesi, 1970.11 A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Ist. Gramsci, a cura di V. Gerratana, 2^ ed., Torino, Einaudi, 1977, vol. II, Q 7, par. 12, 58 bis, 863.12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, Q 7, par. 12, 58, 862.

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M. Luciani

individualistica potrebbe essere trascesa, la massima aspirazione possibile sembra essere quella all’autogoverno dei dati digitalizzati che compongono la nostra identità negli archivi pubblici e privati o nella rete. Nel contesto del ripiegamento individualistico che esperiamo oggi (negato dagli ingenui i quali s’illudono che l’agorá telematica sia davvero una piazza civica in cui si matura coscienza collettiva e non una selva in cui ogni singolo si perde, senza riuscire ad allacciare alcuna relazione realmente “politica” con gli altri)13, l’autogoverno, almeno parziale, dei propri dati sarà forse ben poco, ma almeno è qualcosa.

3. La digitalizzazione e il governo dei dati

Configurare strumenti per il governo dei dati digitalizzati è ora un problema del diritto, ma poiché l’evoluzione normativa “ha accompagnato, piuttosto che non anticipato [...], l’evoluzione tecnica”14, i suoi strumenti corrono costantemente il rischio di rivelarsi inadeguati a fronteggiare il costante mutamento della tecnica che si vorrebbe regolare. Del resto, la digitalizzazione pone di per sé interrogativi di assai difficile soluzione, ai quali il diritto sa solo faticosamente rispondere.

Anzitutto, quello dell’affidabilità dei dati, connesso tanto alla segnalata semplificazione consustanziale alla stessa digitalizzazione (peraltro compensata, come subito vedremo, da sempre più sviluppate capacità di raccolta ed elaborazione), quanto alla fallibilità umana nell’opera di inserimento dei dati e di assegnazione alle macchine delle istruzioni per la loro elaborazione.

Poi il difetto di trasparenza, legato sia all’inaccessibilità dell’algoritmo che regola l’elaborazione e l’indicizzazione dei dati che alla presenza di moltissimi dati non indicizzati dai comuni motori di ricerca (si stima che siano oltre il 90%), ma che sono comunque presenti nel c.d. deep web.

Ancora, la tendenza alla concentrazione monopolistica, che, se è tipica della forma di produzione capitalistica, è ancora più spiccata nel mondo della gestione dei dati, perché chi è già presente nel relativo mercato vanta un patrimonio (i dati che possiede e l’algoritmo che serve a indicizzarli) che rende i suoi servizi particolarmente appetibili e scoraggia la ricerca di nuovi 13 Per questa osservazione mi permetto di rinviare al mio Articolo 75 - Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna - Roma, Zanichelli - Il Foro Italiano, 2005, 115.14 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 723 sgg.

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Quale identità?

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competitors15.L’impatto sulla concorrenza e sul mercato, determinato dall’influenza che il

possesso di grandi quantità di dati ha sulle strategie imprenditoriali e quindi sull’orientamento dei comportamenti dei consumatori16.

Il rischio del digital divide, legato alle diseguali capacità di accesso alle risorse informatiche e alla non meno diseguale distribuzione delle necessarie disponibilità economiche, tanto più cruciale oggi che nel mondo occidentale (e in particolare nel nostro Paese) il numero delle famiglie prossime alla soglia della povertà, per la prima volta dal secondo dopoguerra, è cresciuto invece di diminuire.

Il complesso rapporto fra qualità e quantità dei dati: trattare un’enorme quantità di dati in forma semplificata con elaboratori elettronici sempre più potenti e governati da algoritmi sempre più sofisticati consente di avere un quadro della realtà assai più dettagliato che in passato. Se in questo modo si rimedia grandemente all’inevitabile semplificazione connessa alla digitalizzazione, si esalta la capacità invasiva del possesso dei dati nella sfera privata delle persone17, radiografabili per qualsivoglia aspetto del loro comportamento, specialmente - come osserva Guido Alpa - economico-commerciale18.

La funzionalità della raccolta massiva di dati alla pubblica sicurezza. In un mondo sempre più ispirato a una logica securitaria, spaventato dalla criminalità, dal terrorismo e dalla malattia, i cittadini sono sempre più spesso inclini a scambiare la riservatezza con la sicurezza, consentendo la riduzione dei loro spazi di libertà ogni volta ch’essa sembra necessaria alla protezione della loro tranquillità. Con il paradosso, peraltro, che la logica securitaria va a singhiozzo: si copre il territorio nazionale di telecamere; si sottopongono le sagre paesane a condizioni di sicurezza impossibili da realizzare; si vogliono rendere obbligatori i seggiolini con allarme anti-abbandono dei bambini in auto, ma si tollerano le morti imputabili alla mancanza di risorse o di competenze per la manutenzione di un territorio che sappiamo essere estremamente fragile.

15 J. C. De Martin, I veri padroni digitali, ne la Repubblica del 20 luglio 2018, 30.16 G. Pitruzzella, Big Data, Competition and Privacy: a Look from the Antitrust Perspective, in Concorrenza e mercato, 2016, 15 sgg.17 G. Giacobbe, Riservatezza (diritto alla), in Enc. dir., vol. XL, Milano, Giuffrè, 1989, 1256.18 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 726.

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M. Luciani

4. La digitalizzazione e l’identità

Una questione di riservatezza, dunque. Ma, come Guido Alpa ammonisce, “il rapporto identità/ privacy è molto stretto”, sicché, sebbene diritto alla privacy e diritto all’identità “combac[i]no ma non collim[i]no”, assieme a quella si pone inevitabilmente la questione dell’identità19.

Vediamola, dunque, ma non senza prima precisare che (contrariamente a quanto fa l’onorato, si consentirà di osservare) sembra miglior partito non parlare di privacy, ma di riservatezza. Come si sa, nella nostra dottrina la discussione sul diritto alla riservatezza ha origini antiche, ma ha assorbito nuova linfa attingendo alla riscoperta del notissimo saggio sulla privacy che S.D. Warren e L.D. Brandeis pubblicarono sulla Harvard Law Review del 189020. Il loro intento (sganciare il right to privacy dal diritto di proprietà) era condivisibile e in effetti l’ancoraggio del diritto alla privacy non più ai property rights, ma alla personalità umana, alla sua inviolabilità e alla sfera della sua libertà21, costituiva un grande progresso e si poneva in maggiore sintonia con una fase sociale e ordinamentale in cui (almeno negli Stati Uniti: in Europa si sarebbe dovuto attendere ancora molto) l’equazione proprietà=libertà cominciava a essere messa in discussione. Nondimeno, gli sviluppi successivi, specie nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, avrebbero così dilatato i confini della privacy da rendere la sua evocazione bonne à tout faire. Chi ne volesse la prova potrebbe limitarsi a leggere le opinions di maggioranza nei casi Griswold v. Connecticut 22 e Roe v. Wade 23. Nel primo la Corte dichiarò illegittima una legge del Connecticut che proibiva ai medici di dare informazioni sui metodi anticoncezionali facendo leva sul fatto che “the First Amendment has a penumbra where privacy is protected from governmental intrusion” e proprio su questa misteriosa “penombra” fondò ogni possibile ampliamento delle tutele dei diritti espressamente previste dalla Costituzione (“specific guarantees in the Bill of Rights have penumbras, formed by emanations from those guarantees that help give them life and substance”; “Various guarantees create zones of privacy”). Nel secondo, disinteressandosi completamente del fondamento testuale del diritto alla privacy, gli collegò il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza (“This right of privacy, whether it be founded in the Fourteenth

19 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, loc. cit.20 S.D. Warren - L.D. Brandeis, The Right to Privacy, Harv. L. Rev., 1890, 193 sgg.21 A. Baldassarre, Privacy e Costituzione. L’esperienza statunitense, Roma, Bulzoni, 1974, 33 sgg.22 Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965).23 Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973).

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Quale identità?

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Amendment’s concept of personal liberty and restrictions upon state action […], or […] in the Ninth Amendment’s reservation of rights to the people, is broad enough to encompass a woman’s decision whether or not to terminate her pregnancy”), con un triplo salto mortale logico al quale - invece - si è opportunamente sottratta la nostra Corte costituzionale quando, nella sent. n. 27 del 1975, ha dichiarato illegittimo il divieto penalmente sanzionato dell’aborto facendo leva su un dato costituzionale preciso come quello offerto dalla garanzia del diritto alla salute (psichica) della donna, garantito dall’art. 32 Cost.

Precisato, dunque, che, in controtendenza rispetto alla posizione che oggi appare egemone nella dottrina italiana, il riferimento alla riservatezza sembra offrire basi più salde di quello alla privacy, appare comunque ineccepibile il collegamento che Guido Alpa postula fra riservatezza e identità: accumulare dati non significa solo impossessarsi di identità altrui, ma anche deformarle, scomponendo la persona in una molteplicità di frammenti da ricomporre a uso e consumo del gestore delle informazioni24. Un giuoco tanto più rischioso, questo, quanto più incerti sono oggi i confini e le basi dell’identità. L’identità, scrive il Nostro, “non è un concetto statico, ma dinamico”25, ed essa “è diventata un concetto liquido”26. Cosa è accaduto perché si giungesse a questo?

Guido Alpa pone l’accento soprattutto sulle possibilità aperte dallo sviluppo medico-scientifico e dal pluralismo culturale27, e ha ragione. La migliore riprova si ha nel dominio dell’identità di genere.

Come si legge in una nota pronuncia della Corte di cassazione, “È necessario [...] che l’interpretazione della L. n. 164 del 1982, tenga conto dell’iscrizione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere in «una civiltà giuridica in continua evoluzione» in quanto soggetta alle modificazioni dell’approccio scientifico, culturale ed etico alle questioni inerenti, nella specie, alle domande di mutamento di sesso e al fenomeno del transessualismo e più in generale alle scelte relative al genere e alla sfera dell’identità personale”28. Qui gli aspetti tecnico-scientifici e quelli psicologico-culturali si uniscono e sovrappongono inestricabilmente: il mutamento dell’identità di genere è facilitato dalla possibilità del ricorso alla chirurgia, certo, ma - allo stesso tempo - la chirurgia non è condicio sine qua non del mutamento d’identità. Sempre la Corte di cassazione, infatti, nella medesima pronuncia, ha 24 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 725.25 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 724.26 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 725.27 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 724 sg.28 Cass. civ. Sez. I, 20 luglio 2015, n. 15138.

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aggiunto che “la percezione di una «disforia di genere»” presenta un “profilo diacronico e dinamico” che “ne costituisce una caratteristica ineludibile”, sicché “la conclusione del processo di ricongiungimento tra «soma e psiche» non può, attualmente, essere stabilito in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento chirurgico”. Un ragionamento, questo, che è stato seguito (e ulteriormente perfezionato) dalla Corte costituzionale, la quale, nella sent. n. 221 del 2015 (confermata dalla sent. n. 180 del 2017), ha affermato che:a) il diritto all’identità di genere è un “elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)”;b) “la mancanza di un riferimento testuale [nelle fonti legislative] alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione [dell’identità di genere], porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali”;c) “l’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che − in coerenza con supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione”;d) “il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile [solo, intende la Corte] in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica”;e) tutto questo si deve al fatto che il diritto all’identità di genere, oltre a essere “espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)”, è “al tempo stesso, [...] strumento per la piena realizzazione del diritto, dotato anch’esso di copertura costituzionale, alla salute”.

Nondimeno, fenomeni di questo genere si inseriscono in un ancor più vasto complesso di processi economici, politici e sociali, che hanno causato la perdita delle identità collettive e (addirittura) individuali: la precarizzazione del lavoro (e la connessa volatilità del proprio posizionamento sociale); la crisi del principio di autorità; lo smarrimento del senso del legame comunitario; l’assenza di soggettività politiche paragonabili ai vecchi partiti

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Quale identità?

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che siano altrettanto capaci di generare durevoli sentimenti di appartenenza. Tutti accadimenti che hanno impatti vistosi sul diritto, sia privato che pubblico. I primi sono segnalati, appunto, da Guido Alpa. I secondi si avvertono soprattutto sul piano della rappresentanza politica. La continua lamentatio nei confronti della bassissima qualità della classe politica, sebbene fondatissima, dovrebbe anche considerare la difficoltà che quella classe incontra nell’interpretare i bisogni e addirittura nell’intendere quali siano i soggetti che è chiamata a organizzare e rappresentare: la vera radice della crisi della rappresentanza sta più dalla parte del rappresentato che da quella del rappresentante29. Direi, anzi, che lo stesso meccanismo logico della rappresentanza è messo in discussione dall’affievolimento delle identità. Se, seguendo la prospettiva schmittiana, si ritiene che la rappresentanza politica serva a rendere presente (anwesend) ciò che è assente (abwesend)30, i termini dell’assenza si sono fatti ben più drammatici che in passato.

Quando la dottrina della rappresentanza politica è stata elaborata (sulla base della dottrina della rappresentanza di diritto privato, ma assai discostandosi dalla sua ratio profonda), l’assenza che andava colmata riguardava il proscenio della politica: si escludeva che nelle società complesse e rette da sistemi fondati sulla divisione del lavoro i cittadini fossero idonei alla mobilitazione politica continua che sarebbe stata richiesta dalla democrazia (che siamo soliti chiamare, con evidente pleonasmo, diretta)31 e per questo si postulava la loro riduzione a rappresentati; nondimeno, nel backstage, i cittadini esibivano identità forti e sulla base di quelle identità si univano in soggetti sociali altrettanto forti. Oggi le cose stanno in termini diversi, perché sono proprio le identità forti a latitare ed è appunto in ragione della loro crisi che i soggetti sociali che le organizzano in proiezione maggiormente politica (partiti, sindacati), non adempiono più la loro funzione sistemica. Ma qui si annida un altro dei grandi temi problematici che Guido Alpa ha messo in luce.

29 Cfr. M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza politica, a cura di N. Zanon e F. Biondi, Milano, Giuffrè, 2001, 109 sgg.30 C. Schmitt, Verfassungslehre, 5^ ed., Berlin, Duncker u. Humblot, 1970, 243.31 Ho cercato di dimostrare la fallacia della posizione e della terminologia oggi usuali nel mio Articolo 75 - Il referendum abrogativo, cit., 1 sgg.

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5. Identità dinamica? Identità liquida?

Abbiamo già incontrato due affermazioni impegnative che campeggiano nel breve, ma denso, saggio che stiamo percorrendo: “l’identità non è un concetto statico, ma dinamico”32, e “l’identità è diventata un concetto liquido”33. Esse sollecitano interrogativi di amplissimo raggio.

Nella prima sono evidenti, per quanto inespresse, le suggestioni del pensiero heideggeriano che guarda al fluire del tempo. “Questo ente, che noi stessi via via siamo e che tra l’altro possiede la possibilità d’essere del domandare, lo indichiamo col termine di esserci”34, leggiamo in Essere e tempo, e se si abbraccia questo punto di vista risulta evidente che la natura dinamica dell’identità dipende da fattori logici e ontologici, non da una contingente condizione storica dell’uomo contemporaneo. Vero è, però, che quella condizione contingente esercita una profonda influenza sul modo in cui la dinamicità è destinata a presentarsi nel nostro qui e nel nostro oggi: l’identità, dice correttamente Guido Alpa, muta in proporzioni e secondo processi prima sconosciuti e lo fa sia per cause tecnico-scientifiche (possono variare con ben maggiore facilità l’aspetto fisico o - abbiamo visto - l’identità di genere), sia per cause economico-sociali (“cambiano anche i rapporti familiari, le occupazioni, le credenze, le adesioni partitiche e filosofiche”)35. Il dinamismo dell’identità dell’uomo contemporaneo, in definitiva, dipende tanto dalla dissoluzione di alcune certezze che in passato accompagnavano il percorso della vita, quanto dalla contemporanea disgregazione di paradigmi comportamentali e di situazioni materiali che avevano saputo plasmare, con una stabilità ormai perduta, l’orizzonte di senso verso il quale quel percorso si orientava.

Di qui anche il carattere “liquido” dell’identità contemporanea (anche in questo caso è implicito, ma evidente, il riferimento a una prospettiva analitica molto nota). Liquida o non liquida, tuttavia, per Guido Alpa l’identità deve avere, almeno in ogni singolo luogo e momento dato, una qualche oggettività: se così non fosse, infatti, come potrebbe parlare del suo impossessamento o della sua deformazione da parte dell’informatica, ovvero della sovrapposizione della digital person alla natural person36? Il problema è che la natural person si manifesta nel mondo digitale (come digital person, appunto) unicamente attraverso processi riduttivi e parcellizzati, che 32 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 725.33 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 726.34 M. Heidegger, Sein und Zeit, 18^ ed., Tübingen, Niemeyer, 2001, trad. it. di A. Marini, Essere e tempo, Milano, Mondadori, 2008, 22. 35 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 724.36 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 725.

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mettono in mostra solo profili particolari e separati dell’identità, ricostruibili attraverso l’accertamento di comportamenti puntiformi (l’ascolto di un brano di musica o la visione di un filmato in rete; l’acquisto di un bene attraverso l’e-commerce, etc.). La capacità di mettere in relazione tutti questi comportamenti consente oggi di impossessarsi di un quadro molto più esteso dell’identità di coloro i cui dati sono elaborati, ma non esiste alcuna certezza che la ricomposizione del quadro sia precisa e che l’immagine virtuale restituita dall’elaborazione corrisponda alla realtà identitaria della singola persona. Quanto più liquida è quella realtà, anzi, tanto meno accurata potrà essere la ricomposizione e tanto più deformante sarà il quadro ch’essa ci restituirà. Ecco perché l’autogoverno dei dati digitali attiene alla sfera più intima dei diritti della personalità.

6. A mo’ di conclusione

Di fronte alle sfide dello sviluppo tecnico-scientifico, Il diritto - lo accennavamo prima - riesce a rispondere solo con notevole ritardo. Il diritto ha bisogno della forma e, sebbene la regolazione giuridica sia sempre più spesso incapace di disegnare forme astratte idonee all’inquadramento dei fenomeni sociali37, il processo di formalizzazione giuridica della regolazione richiede tempo. Nelle società democratiche contemporanee il dialogo pluralistico che dovrebbe trovare alimentazione nei parlamenti viene visto con sempre maggior dispetto e proprio l’esigenza della rapidità delle risposte fa aggio sulla necessità della riflessione e del confronto. Nondimeno, nonostante la sfigurazione subita dal parlamentarismo a causa dell’insipienza della classe politica e della connivenza di non pochi studiosi, i processi del diritto restano fatalmente più lenti dei processi della tecnica. Che fare, dunque?

In chiusura del saggio di cui qui abbiamo parlato, Guido Alpa ci offre una riflessione preziosa: “Non è [...] accettabile l’idea che la persona eserciti un diritto di proprietà sui propri dati e ne possa disporre liberamente: la dimensione digitale è un prolungamento della dimensione umana, e come alla persona non si consente di alienare parti del corpo che potrebbero comprometterne la funzionalità, allo stesso modo si dovrebbe proibire la cessione volontaria di dati personali che sono particolarmente «sensibili».

37 N. Irti, La crisi della fattispecie, in Id., Un diritto incalcolabile, Torino, Giappichelli, 2016, 19 sgg.

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M. Luciani

I diritti fondamentali sono indisponibili, sì che la cessione di dati che potrebbero essere utilizzati per procurare danno alla persona non dovrebbe essere consentita, neppure se vi fosse il consenso dell’interessato”38. Ecco: il paradigma dell’indisponibilità non è affatto una novità connessa ai cambiamenti della tecnica e della scienza, ma fa parte del patrimonio più riposto della nostra tradizione giuridica. Questo significa, a me pare, che anche le grandi trasformazioni del mondo contemporaneo possono essere disciplinate sulla scorta di princìpi antichi e che non sempre c’è necessità di inventarne di nuovi o di elaborare categorie analitiche originali. Certo, le technicalities regolatorie sono indispensabili e l’intervento del legislatore, per quanto in ritardo possa arrivare, non può essere omesso. Ma il presidio dei paradigmi fondamentali della civiltà giuridica occidentale è sempre disponibile, e lo è in tempo reale (se si vuole impiegare quest’espressione ormai abusata).

Il saggio che Guido ci ha offerto non usa toni enfatici per comunicarci questa convinzione, ma se lo si è inteso bene vuole dirci esattamente questo: che c’è un patrimonio di conoscenze e di valori dei quali il giurista è custode e che questo non è tanto un complesso di beni da preservare, quanto un insieme di strumenti operativi da utilizzare. Esserne depositari impegna sia professionalmente che eticamente, ma questo fardello è gravoso solo per chi, al contrario di Guido, non lo porta con la piena consapevolezza della propria identità (appunto!) di giurista.

38 G. Alpa, L’identità digitale e la tutela della persona, cit., 727.

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Michele Marchesiello

Per una cultura giuridica della dignità.Alla ricerca del Santo Graal

Sommario: 1. Dignità e diritti umani: valori e principi – 2. Dignità umana: scatola vuota o concetto fondamentale? – 3. La prospettiva filosofica e quella letteraria.

1. Dignità e diritti umani: valori e principi

Guido Alpa sembra dotato di un peculiare sesto senso, che gli consente di arrivare in anticipo ovunque stia maturando un tema importante e attuale per la riflessione giuridica. Chiunque giunga dopo di lui, fatica non poco a trovare qualcosa di nuovo da dire.

E’ accaduto per il diritto del consumatore, la responsabilità civile, la comparazione, i nuovi contratti, il concetto di status. E, ancora, per l’evoluzione del diritto naturale, il rapporto diritto-letteratura e quello Law&Economics, l’ordine giuridico del mercato e l’affermarsi della lex mercatoria.

E via di seguito. Non c’è praticamente campo della riflessione giuridica degli ultimi (ormai) decenni, che non porti il segno della sua instancabile curiosità.

Così, in occasione della presentazione di una delle sue ultime opere,1 occupandomi - per ragioni estranee a quella circostanza - del valore e significato per il diritto delle nozioni di dignità personale e diritti umani, ho dovuto constatare ancora una volta che quel terreno era stato già percorso e ampiamente tracciato dall’instancabile fiuto di Guido Alpa.

Rassegnato, ho cominciato a interrogarmi, seguendo quella scia, sui problemi posti dall’idea di dignità alla riflessione e alle interpretazioni (usando il plurale, come accortamente ha fatto Alpa) che i giuristi danno dei ‘diritti umani’ e della dignità della persona, a partire dalla loro difficile

1 G. Alpa, Giuristi e interpretazioni. Il ruolo del diritto nella società postmoderna, Marietti , Genova, 2017

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M. Marchesiello

qualificazione: valori, o principi? Oppure valori e, insieme, principi?Mi ha aiutato Gustavo Zagrebelsky, che in un suo vecchio articolo2, in

occasione delle discussioni sull’aborto (o, più pudicamente, sull’interruzione di gravidanza) tracciava nitidamente la distinzione-opposizione tra valori e principi.

Il valore, scriveva Zagrebelsky, si colloca nella sfera morale ed è qualcosa che ‘deve valere’, cioè un ‘bene finale’ che chiede di essere realizzato in se stesso. E’ un fine che autorizza qualsiasi azione, legittimandola. La massima dell’etica dei valori è ‘agisci come ti pare in vista del valore che affermi’. In questo senso i valori sono ‘tirannici’, su di essi ‘non si vota’, a causa della loro inclinazione totalitaria, che rende impossibile il dialogo con valori opposti.

Il principio, viceversa, è ‘qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza’. Il principio è in questo senso ‘normativo’ , ma non ‘prescrittivo’ rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è ‘agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio’. A differenza dei valori, i principi non implicano una propensione totalitaria ma sono capaci – quando una stessa questione ne coinvolga più d’uno – di dialogare trovando forme di coesistenza e rispetto reciproco. I principi possono ‘bilanciarsi’ tra loro.

Assolutismo etico–giuridico da una parte, dunque, pluralismo (e non relativismo etico) dall’altra. I conflitti tra libertà e autorità, tra compassione e punizione, tra diritto alla vita e diritto alla morte costituiscono altrettanti esempi di questa tendenza dei principi a coniugarsi alla ricerca di un equilibrio possibile.

Le difficoltà nascono quando valori e principi si confondono: i principi pretendendo di essere intesi come ‘valori’ (e quindi assolutamente non negoziabili), questi ultimi mascherandosi da principi (e quindi essenzialmente negoziabili.)

Per tornare alla questione posta da Alpa e alla distinzione (o confusione?) tra i valori e i principi alla base della cultura giuridica occidentale, si propone di assegnare la dignità personale al campo dei valori, e i diritti umani a quello dei principi.

La dignità personale è un bene non negoziabile né disponibile (lo si mette in gioco anche quando la persona accetta di spogliarsene, come nel caso famoso del ‘lancio del nano’): è un ‘bene finale’, a suo modo tirannico.

I diritti umani appartengono, viceversa, al novero dei principi, posta la loro funzione normativa ma non prescrittiva quanto all’azione che ad essi deve ispirarsi.

2 La Repubblica, 22 febbraio 2008

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Per una cultura giuridica della dignità. Alla ricerca del Santo Graal

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La Costituzione – qualsiasi Costituzione – pur essendo ispirata a ‘valori’, ragiona sempre ‘per principi’, che in ogni situazione devono trovare tra loro un equilibrio ragionevole, in vista di una specie di omeostasi dell’organismo sociale.

Questa funzione regolatrice ed equilibratrice svolta da una Costituzione e dai suoi interpreti pare tanto più fondamentale oggi, davanti al moltiplicarsi spesso incontrollato dei ‘diritti’ che aspirano alla qualifica di ‘umani’ (come se ne esistessero di non-umani), determinando conflitti , spesso drammatici, non solo tra i soggetti che ne sono portatori, ma anche nella coscienza interna di ogni singolo soggetto.

Nel suo ‘The Twilight of Human Rights Law’ 3 , prendendo lo spunto dalla pratica tristemente diffusa delle detenzioni arbitrarie, delle ‘uccisioni stragiudiziali’ e della tortura, Eric Posner osservava che viviamo ormai in un’epoca in cui la maggior parte dei trattati sui diritti umani (ne esistono almeno nove), pur formalmente ratificati da quasi tutti i Paesi, viene in molti di questi stessi Paesi sistematicamente violata e disapplicata.

Si calcola che circa trenta milioni di persone al mondo vivano oggi in condizioni di schiavitù, nelle forme ‘tradizionali’ o in quelle più moderne.

Più di 150 Paesi, dei 193 appartenenti alle Nazioni Unite (il nostro incluso, come sappiamo dal G8 di Genova), ammettono forme più o meno larvate di tortura.

In molti paesi le donne continuano a costituire una classe subordinata e i bambini a lavorare nelle miniere.

Nel frattempo, non si fa che parlare di ‘diritti umani’. L’uso dell’espressione human rights nei libri in lingua inglese è aumentato di 200 volte dal 1940, ed è usato 100 volte più dei termini constitutional rights e natural rights. Devastanti interventi militari sono stati definiti ‘umanitari’.

Sempre nel frattempo, c’è ancora chi sostiene che l’incorporazione dei diritti umani nel diritto internazionale costituisca una delle maggiori conquiste della Storia ,mentre i governi continuano impuniti a violare ogni tipo di diritto ‘umano’.

Una delle ragioni di questo apparente paradosso , secondo Posner, consiste nel fatto che l’elenco dei diritti umani è andato crescendo in misura esponenziale: se ne contano oggi almeno 400 riconosciuti sul piano internazionale4. Vi è incluso praticamente ogni aspetto della vita umana che sia stato ritenuto meritevole di una protezione internazionale. Anche se 3 E.A. Posner, The Twilight of Human Rights Law, Oxford U.P. , New York, 20144 Si veda, in appendice al libro di Posner, la lista dei diritti riconosciuti dai principali trattati sui diritti umani. Anche se si deve riconoscere, con l’autore, che un diritto non è un prodotto ‘naturale’ e le sue tipologie possono essere moltiplicate e suddivise all’infinito, a colpire l’osservatore è la straordinaria ampiezza delle attività umane coperte da quella nozione.

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M. Marchesiello

animato dalle migliori intenzioni, nessuno Stato potrebbe impegnarsi – e impegnare le proprie risorse – per l’attuazione integrale di tutti i diritti posti sotto quell’etichetta.

Si sarebbe tentati di riconoscere che i giuristi sono molto bravi a ‘denominare’ e catalogare i diritti fondamentali, ma che il diritto in generale si rivela impotente – o quasi – a farli rispettare e punirne le violazioni.

Valga l’esempio del crimine di genocidio, la geniale invenzione di Raphael Lemkin, che – denominato e ‘internazionalizzato’ – continua a venire commesso, impunito, sotto gli occhi di un mondo ormai ‘ubriaco di diritti’.

E’ stata Mary Ann Glendon5 a osservare che:“Agli albori del Terzo Millennio, le decisioni inerenti i diritti dell’uomo

rischiano di degenerare in una cacofonia. Le dichiarazioni sui diritti dell’uomo corrono il rischio di diventare semplici bacheche dove questo o quel gruppo di interesse cerca di apporre il suo nuovo diritto preferito”.

E Paolo Carozza6 ha riconosciuto – con molta fondatezza - che le attuali pratiche di individuazione e interpretazione dei diritti umani si inseriscono in un vero e proprio ‘mercato di ideologie, e non di ideali’, mercato gestito per di più da una ‘circoscritta élite culturale’ (ma, diremmo piuttosto noi, ‘politica-economica-finanziaria’) spesso indifferente a ciò che è favorevole o meno al benessere dell’uomo in tempi e luoghi diversi.

Il nuovo ‘mercato dei diritti umani’ , come tutti i mercati, si configura quindi come il luogo deputato alle diseguaglianze, che – non a caso – si stanno sviluppando in modo intollerabile in tutto il mondo.

A una crisi profonda dei diritti umani e a quella, conseguente, dell’idea di eguaglianza, corrisponde la manifesta difficoltà da parte del diritto nel cercare di fronteggiare le due crisi.

In questa situazione, in modo anch’esso apparentemente paradossale, si deve registrare il crescente interesse da parte dei giuristi per l’idea - o il ‘valore’ – della dignità della persona umana.

Crisi dei diritti umani, dunque, e attenzione crescente per la dignità umana. Nella Babele dei diritti-principi, si cerca rifugio nella dignità come valore innato e non negoziabile.

E’ questa la dimensione tragica della dignità umana: più la si offende e rinnega, più l’idea di una dignità ‘innata’ nell’essere umano (nell’essere uomo, o donna) rivela la propria centralità e necessità.

5 M.A. Glendon, La visione dignitaria dei diritti sotto assalto, in Il traffico dei diritti insaziabili, a cura di Luca Antonini, Rubbettino, 2007, pag.79.6 P. Carozza,Il traffico dei diritti umani nell’epoca post-moderna, in Il traffico.., cit. sopra, p.89

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Per una cultura giuridica della dignità. Alla ricerca del Santo Graal

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2. Dignità umana: scatola vuota o concetto fondamentale ?

‘ Considerato che il riconoscimento della dignità umana intrinseca e dei diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana è il fondamento della

libertà, della giustizia e della pace nel mondo….

‘ Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona

umana…’( dal ‘Preambolo’ alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani )

‘ La dignità dell’uomo è intangibile. E’ dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla.’

( dalla Legge Fondamentale della Repubblica Federale Tedesca, art.1)

‘ La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.’( Carta Europea dei Diritti Fondamentali, capo I, art.1)

In forma meno esplicita ma più ellittica, la dignità fa la sua apparizione anche nella Costituzione italiana come ‘dignità sociale’ (art.3), come diritto a una retribuzione del lavoro che consenta ‘un’esistenza libera e dignitosa’ (art.36), come limite alla libertà di iniziativa economica privata ( art.41). Il principio personalistico cui la nostra Carta fondamentale è ispirata propone infine la dignità come ‘presupposto implicito’ (Giovanni Maria Flick ) di numerosi diritti fondamentali : presupposto che ha preso corpo grazie all’opera della giurisprudenza costituzionale7.

E tuttavia, quella che abbiamo definito la ‘dimensione tragica della dignità umana (Menschenwuerde)’ si manifesta subito nella forma dell’ambiguità e del paradosso.

C’è chi la ritiene fondamento indispensabile per una cultura e una pratica dei diritti umani. C’è al contrario chi tende a negarle cittadinanza o significato per la considerazione giuridica: vuoi innalzandola a ‘mero’ valore etico, vuoi degradandola a parola vuota di significato e sostanzialmente inutile.

Tra questi – con l’autorevole avallo di Schopenauer (‘…la parola d’ordine di ogni moralista dalla testa vuota’), Marx e Nietzsche: Marx basandosi sulla nozione ‘classica’ di dignità come indice di diseguaglianza, Nietzsche – all’opposto – lamentando la nuova pretesa ‘democratica’ della dignità che avrebbe voluto gli uomini tutti eguali.7 Cfr. La dignità dell’uomo quale principio costituzionale,a cura di M. Bellocci e P. Passaglia, quaderno predisposto dalla Corte Costituzionale in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, Roma, 30 settembre – 1° ottobre 2007.

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M. Marchesiello

Più recentemente e radicalmente, si sono espressi contro la nozione di dignità – o per la sua irrilevanza - la bioeticista Ruth Macklin e lo psicologo Steven Pinker.

Macklin8 definisce la dignità ‘a useless concept’, un concetto inutile , almeno per l’analisi etica dell’attività medica. Esso non aggiunge nulla ai principi fondamentali dell’etica medica: il rispetto per la persona, la necessità del consenso informato del paziente, la riservatezza. Macklin diffida, in particolare, della fonte principale del concetto di dignità, che ravvisa nella Chiesa Cattolica Romana.

Pinker9 si spinge oltre, definendo quella di dignità ‘a squishy, subjective notion’, una nozione flaccida e soggettiva, per niente all’altezza del peso morale che le viene attribuito, intrisa di valori religiosi giudeo-cristiani dei quali lo scienziato sociale deve diffidare.

Non solo ‘useless’ – come sostenuto da Macklin – ma addirittura nociva (harmful), la nozione di ‘dignità’ è per Pinker essenzialmente ‘stupida’ e disponibile per qualunque operazione di stampo totalitario: ‘Una società veramente libera dovrebbe vietare allo Stato di imporre ai suoi cittadini un determinato concetto di dignità’.

Filosofi e giuristi hanno dedicato alla dignità umana un trattamento più meditato e approfondito , anche se non uniforme nelle conclusioni.

Detto in termini molto – forse troppo – sintetici, il concetto di dignità è passato, dal significare la diversità e superiorità di alcuni personaggi rispetto all’uomo comune, loro subordinato e sottomesso, al significare, democratizzandosi, l’esatto contrario: ossia la radicale eguaglianza di tutti gli uomini in quanto individui.

Difficile – praticamente impossibile, forse addirittura inopportuno – interrogarsi sul significato ‘vero’ e univoco di questa nuova eguaglianza democratica, sul suo fondamento etico, religioso, filosofico o giuridico, addirittura sul suo avere o meno un fondamento e, se si, quale.

E’ un fatto che l’individuo, autentica ‘scoperta’ dell’Illuminismo, reclama ormai il pieno riconoscimento, da parte di qualsiasi ordinamento giuridico, del proprio ‘valere’ in quanto uomo dotato di ‘valore’ (Menschenwuerde).

Proprio alla ‘scoperta’ moderna dell’individuo si deve il passaggio dell’idea ‘classica’ di dignità, storicamente funzionale alle varie forme di diseguaglianza-sudditanza, alla paradossale eguaglianza di tutti gli esseri umani proprio in quanto ‘individui’ e quindi necessariamente ‘diversi’,

8 R. Macklin, Dignity is a useless Concept, https://www.ncb.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC300789/ 9 S. Pinker, The Stupidity of Dignity, in The New Republic, 28 maggio 2008

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Per una cultura giuridica della dignità. Alla ricerca del Santo Graal

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ciascuno investito della nuova e a suo modo rivoluzionaria dignità democratica.

Diversità non equivale a diseguaglianza: si può essere diversi, ma eguali - egualmente degni - nella diversità.

Si deve quindi convenire col filosofo Nick Bromell, nel configurare il termine ‘dignità’ come equivalente o strettamente connesso a ‘democrazia’.10 E dove la democrazia è in pericolo (come, secondo Bromell, negli Stati Uniti: ma, aggiungiamo noi, non solo negli Stati Uniti) è indispensabile tornare a pensare la dignità come quella ‘misteriosa qualità che esprime il valore di una persona’, su cui si fonda ogni possibilità di riconciliazione politica e quindi ogni autentica democrazia.

Misteriosa e ‘malleabile’ qualità, non nel senso che ognuno può intenderla a suo modo o in funzione dei propri interessi, ma nel senso che – a un consenso generale sulla centralità di quel valore, la dignità dell’uomo – corrispondono diverse e tra loro non necessariamente concordanti spiegazioni o ‘narrazioni’.

Dignità di chi, e perché? Se è qualcosa che ci viene conferito per natura, per quale ragione ci può essere tolta o negata?

Alla base di ogni genocidio, di ogni crimine contro l’umanità, c’è sempre l’ operazione preliminare che consiste nel sottrarre la dignità di essere umano alla vittima, nel destituirla dalla condizione umana. Ma è chiaro – ineluttabile – che proprio attraverso questa ‘sottrazione’, il carnefice priva anche se stesso di quella ‘misteriosa’ e ineffabile qualità, che solo l’arte e la letteratura riescono a rappresentare. E’ quella che chiamiamo ‘la dimensione tragica’ della dignità.

Quando si viene al diritto, le cose si complicano. E si complicano, essenzialmente, proprio a causa di quella misteriosa ‘ineffabilità’ che, accessibile all’intuizione dell’artista o dello scrittore, la fa sfuggire alla presa della prospettiva giuridica, che si nutre di generalità, astrattezza, precisione terminologica.

In quanto ‘valore’, la dignità è indimostrabile e non definibile, molto simile in questo alla Grundnorm kelseniana.

E allora, nell’interrogarsi intorno alla dignità, i giuristi da un lato prendono atto della sua inafferrabilità (o, come gli esploratori dell’ ‘800 che andavano alla ricerca delle sorgenti dei grandi fiumi africani, finiscono per dichiararsi vinti o ricorrere anch’essi all’immaginazione), e dall’altro lato dedicano la loro attenzione agli usi molteplici che di quel concetto vengono fatti dai giudici, alla ricerca di un common core, di un nucleo

10 N. Bromell, Dignity: a Word for Democracy, in Raritan, vol.35, Numero 1, estate 2015.

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M. Marchesiello

comune che dovrebbe svelarsi attraverso l’analisi delle varie interpretazioni giudiziarie.

Cristopher Mc Crudden, nel suo saggio ‘Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights’ 11,conclude che l’uso del termine ‘dignità’ - al di là di un ‘basic minimum core’ – non fornisce un criterio universalmente valido per le decisioni in materia di diritti umani. Le giurisdizioni – nazionali e internazionali – non sembrano intendersi né tanto meno comunicare tra loro a questo proposito.

Il concetto di ‘dignità’ rimane così legato al caso specifico e allo specifico contesto giuridico in cui lo si applica. Non solo, aggiunge Mc Crudden: il ricorso alla ‘dignità’ sembra esporre il processo decisionale giudiziario a forme pericolose di manipolazione e discrezionalità.

Rimane – a quel concetto – solo uno spazio limitato e del tutto secondario per l’interpretazione e l’applicazione in giudizio dei diritti umani. Né pare che le più recenti analisi politico-filosofiche sul tema abbiano influenzato in qualche modo l’uso legale e giudiziario del termine.12

Un passo avanti rispetto a Mc Crudden ( che ha posto la questione dell’interpretazione giudiziaria del concetto di ‘dignità’, ma non vi ha dato una risposta) lo compie – a stretto giro di posta – Paolo G. Carozza.13

Nella sua ‘Reply’ al saggio di Mc Crudden, Carozza ribadisce l’emergere a livello globale di uno jus commune dei diritti umani: proprio in ragione di questo nuovo ‘universalismo’ dei diritti umani , il concetto di dignità assume il valore di una common currency, di una valuta comune nel dialogo transnazionale e nelle ‘prese in prestito’ che sempre più frequentemente si registrano tra giurisdizioni.

“Il concetto di dignità umana…fornisce ai tribunali una delle principali giustificazioni nel prendere in considerazione – nelle loro decisioni – fonti straniere di diritto, svincolandosi dai limiti posti loro dal diritto positivo”,14

giustificando in questo senso chi ha parlato di una ‘super-positività’ dei principi espressi dalla Human Rights Law.15

Questa funzione, svolta dalla nozione di dignità umana, implica

11 In The European Journal of International Law,Vol.19, n°4, 200812 ‘So far, at least, there is little evidence that the legal and (…) the judicial use of the concept has been directly affected by recent philosophical/political theory analyses, or vice-versa’. Mc Crudden, op. cit. p. 66313 P. G. Carozza, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights: a Reply, in The European Journal of International Law,Vol.19, n°5, 200814 P. G. Carozza, op., cit. p.932.15 G. Neuman,Human Rights and Constitutional Rights: Harmony and Dissonance, 55 Stanford L. R., 2003, 1863.

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l’esistenza di una convinzione universalmente diffusa circa la necessità, da parte dei giudici nazionali, di attenersi a quel valore indipendentemente dalle particolari connotazioni e giustificazioni che esso può ricevere nei diversi ordinamenti, e soprattutto richiede ai quei tribunali di dare una giustificazione per tutti quei casi in cui la decisione giudiziaria ritiene di allontanarsene, sulla base del diritto positivo nazionale.

Una norma può essere considerata ‘universale’ solo nella misura in cui si presenta in termini flessibili, rispettosi dei pluralismi e dei contesti specifici cui deve applicarsi. Proprio per questo, la norma può rivelarsi tremendamente efficace, sia che la si rispetti sia che si scelga di violarla: basti pensare alle ‘uccisioni extra-giudiziali’, alle detenzioni arbitrarie, alle forme sistematiche di discriminazione, alle extraordinary renditions, alla tortura, alle condizioni inumane nelle carceri.

Per Carozza, quindi, il ‘minimum core’ di Mc Crudden diventa un vero e proprio ‘hard core’, uno zoccolo duro dell’idea di dignità umana universalmente intesa.

“Anche se non esiste un consenso internazionale su taluni aspetti dei requisiti minimi della dignità umana, esistono più che buone ragioni per sostenerne la validità: al contrario, l’esistenza di un consenso internazionale relativo alla dignità umana non è un segno infallibile della sua verità” 16

Il ‘rumore’ che caratterizza i margini della nozione, non compromette la validità del consenso che si registra al suo centro, né giustifica la ricaduta in quella che Carozza chiama ‘la dittatura del relativismo’, contrapponendola agli ‘universali’ falsamente monolitici.

Il dialogo giudiziario intorno al problema della dignità – se non deve attribuire ai giudici un ruolo privilegiato e discrezionale nello stabilirne contenuti e limiti – sembra comunque indispensabile per la protezione dei diritti umani e della dignità della persona.

3. La prospettiva filosofica e quella letteraria

Come spesso accade, anche se non può far piacere a molti di loro, i giuristi devono a questo punto cedere la parola ai filosofi, o ai poeti.

‘ I filosofi – scriveva Richard Rorty17- hanno cercato di fare chiarezza in

16 P. G. Carozza, op. cit. p.93717 R. Rorty, Diritti umani, razionalità e sentimenti, in I diritti umani,Oxford Amnesty Lectures, trad.it., Garzanti, Milano, 1994, pag.131

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questa confusione (in cosa consiste l’essenza dell’umano, di cui la dignità è espressione massima, n.d.a) …Platone sosteneva che vi è una grande differenza tra noi e gli animali…Diceva che gli esseri umani sono fatti di un ingrediente in più tutto particolare che li colloca in una categoria ontologicamente diversa da quella dei bruti’

Gli anti-platonici, come Nietzsche, rispondono che tutti gli sforzi compiuti perché la gente smetta di stuprare, assassinare , castrare e umiliare altra gente, sono – nel lungo periodo – destinati a fallire.

In questo l’uomo è un animale particolare: nella sua pericolosità e crudeltà che non trovano riscontro negli altri animali. L’idea che esistano alcuni diritti ‘innati’ o ‘inalienabili’ della persona umana non sono che ‘un tentativo risibile quanto inutile compiuto dai membri più deboli della specie per proteggersi in qualche modo dai più forti’ 18

Rorty considera un passo avanti compiuto sul piano intellettuale nel secolo XIX la crescente perdita di interesse per il contrasto tra Platone e Nietzsche.

La domanda su ‘qual è la nostra vera natura?’ viene sostituita dall’altra, pragmatica, sul ‘che fare di noi?’

Abbandonata (come un satellite divenuto inutile e lasciato inghiottire dallo spazio) ogni teoria sulla natura umana,

“Tendiamo a vederci come un animale flessibile, proteiforme, capace di darsi la forma che vuole, anziché come un animale razionale, oppure un animale crudele”.19

Il riconoscimento tutto moderno dei diritti umani e della dignità dell’uomo in quanto tale, che ha assunto la forma inedita della ‘cultura dei diritti umani’ ha messo nell’angolo la ricerca dei ‘presupposti’ e dei ‘fondamenti’ filosofici dell’idea di dignità.

Questa ‘scoperta’ della sua dimensione culturale e storica si è esposta all’accusa di relativismo da parte di chi vorrebbe considerare l’idea dignitaria come un frutto della cultura occidentale che ne avrebbe fatto dono all’umanità intera.

Ma - dice Rorty – se si può essere d’accordo (o in disaccordo) sulla pretesa superiorità morale della cultura occidentale e dell’idea democratica maturata in quel contesto, questo non consente di fare del rispetto della dignità umana un vero e proprio attributo della natura umana in generale.

Il ‘comprendere’ (das Verstehen) è – in questo senso – più vicino al modo umano di sentire e sperimentare che non il ‘conoscere’ (das Wissen).

18 R. Rorty, op. cit. p.13119 R. Rorty, op. cit.,p.132.

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E allora, come far fronte all’apparentemente insanabile conflitto tra una razionalità sempre alla ricerca di incrollabili fondamenti ontologici, e una irrazionalità che abbandona ogni tentativo di ‘conoscere’ cosa si nasconda all’interno di ogni agire specificamente umano?

Il ‘comprendere’ – in questo senso – è più vicino al modo umano di sentire del ‘conoscere’.

La risposta di Rorty – decisiva per il nostro interrogativo – è che “…l’impresa più grande che la filosofia possa sperare di compiere consiste nel fornire un quadro di sintesi delle nostre intuizioni, culturalmente determinate, in merito alla giusta scelta da operare in situazioni di volta in volta differenti…Questa generalizzazione non dovrà costituire il fondamento delle nostre intuizioni, ma piuttosto il loro compendio” .20

Esempi di questo tipo di generalizzazioni sono il ‘principio di differenza’ di John Rawls e il’diritto costituzionale alla privacy’ elaborato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Si tratta di ‘generalizzazioni riepilogative’ che aumentano la prevedibilità e il potere delle istituzioni – quelle giudiziarie in primo luogo – di informare le loro decisioni ai valori di un’etica condivisa il più largamente possibile.

A questa condivisione, e al dialogo che essa instaura necessariamente tra le Corti, fa riferimento Jan Smits21 quando – sottolineando la necessità di ‘umanizzare’ il diritto privato e il diritto dei contratti – riconosce che se da un lato non esiste la prospettiva di un concetto universale o trans-nazionale di dignità umana capace di imporsi al di là delle esperienze nazionali, riconosce dall’altro lato come si vada configurando tra i giuristi una positiva convergenza di ‘argomenti’ (una ‘armonizzazione’?) . Esisterebbe, di fatto, una international argumentative community fondata sulla condivisione di un’idea di dignità umana, comunque configurata: in termini espliciti o solo indiretti. Jan Smits definisce questo fenomeno allo stato nascente come ‘A warning sign’ per il diritto civile.

In questo approccio pragmatico , ‘umanizzante’ o umanistico, consiste il modo migliore di rendere omaggio alla storia e realizzare quello che Tzetan Todorov ha chiamato ‘lo spirito dell’Illuminismo’, dal quale anche la riflessione giuridica è stata felicemente contaminata. La ragione si impone alla razionalità, senza cadere nell’irrazionalismo.

E’ evidente – tuttavia – che il compendio, le ‘generalizzazioni riepilogative’, i risultati della ‘convergenza di argomenti’ non possono essere lasciati all’opera, pur preziosa, di compilatori o di esegeti specialisti. 20 R. Rorty, op. cit. p.13321 J.M. Smits, Human Dignity and Uniform Law: an Unhappy Relationship, in TICOM, Tilburg Insitute of Comparative and Transnational Law Working Paper, n° 2008/2.

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Lo stesso Rorty se ne rende conto , come se ne rendeva conto Bromell,nel sottolineare la qualità misteriosa e paradossale del valore della persona umana: insieme strettamente individuale e necessariamente condiviso dalla collettività. La dignità è esclusivamente ‘mia’, ma dipende anche dal valore e dalla dignità che gli altri mi attribuiscono.

Più che aiutare a risolvere un ‘caso’, l’idea di dignità costringe il giurista ad affrontare questioni-dilemmi irrisolvibili in termini generali e astratti: la vera ricerca del Sacro Graal, come qualcuno ha detto.

E’ quella che abbiamo definito la ‘dimensione tragica’ della dignità umana.

E’ ancora Rorty, il filosofo, a suggerire la via di uscita dall’impasse, esortando a concentrare tutte le nostre energie sulla ‘manipolazione dei sentimenti’, vale a dire sull’educazione sentimentale. E’ grazie a questa capacità di partecipazione ‘compassionevole’ che gli Ateniesi assistevano alla rappresentazione dei ‘Persiani’ di Eschilo o del ‘Filottete’ di Sofocle, non a caso richiamato da Bromell nel suo studio del rapporto tra dignità e democrazia. E si deve anche alla lettura della ‘Capanna dello zio Tom’ la reazione (sentimentale, certo, ma alla lunga assai efficace) di gran parte dell’opinione pubblica americana davanti all’orrore della schiavitù.

Per questa ragione – credo – anche i giuristi devono rivolgersi all’arte e alla letteratura, capaci di ‘umanizzare’ il diritto più di quanto non possano o sappiano fare gli addetti ai lavori. I tecnici – ha detto qualcuno – sono bravi nel sapere ma non sempre lo sono altrettanto nel capire.

A questo punto il nostro discorso torna a Guido Alpa, raro esempio di giurista straordinariamente bravo nel capire.

Proprio Guido (come tutti noi lo chiamiamo), nella sua sensibilità precorritrice dei temi rilevanti per la considerazione giuridica, si è chiesto se davvero diritto e letteratura siano due entità contrapposte, se il diritto non sia o non possa essere – a suo modo – una forma di letteratura e quali effetti conseguano alla interpretazione dei testi giuridici con i criteri propri della critica letteraria.22 Rispondendo a questi interrogativi, Alpa arriva alla conclusione – tratta dall’esperienza statunitense e dai suoi riflessi sull’esperienza italiana – che l’approccio letterario al diritto’ non solo è scientificamente corretto e affidabile, ma può produrre risultati cospicui’.

A questo risultato egli perviene dopo un’accurata analisi su ‘cosa si intende per ’ diritto e cosa per letteratura, distinguendo tra testi di fantasia, testi religiosi o sacri e testi afferenti il diritto, cioè testi giuridici.

Il risultato di questa analisi è che non vi sono differenze determinanti

22 G. Alpa, op, cit., p.9

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tra le tre ‘categorie’ e spesso i tre tipi di testo sono tra loro ‘intercambiabili’: ‘intrecciati’ noi diremmo. Un testo sacro può divenire un testo giuridico, un testo giuridico può presentare spiccati caratteri letterari e un testo letterario può acquisire rilevanza religiosa o giuridica.

Alpa conclude che “Non si può contrapporre il diritto alla letteratura, perché il diritto è letteratura; la separazione tra testi letterari e testi giuridici è interna, non esterna alla categoria dei testi, anche se il diritto – ovviamente – non è solo interpretabile mediante criteri letterari”.23

La dimensione tragicamente paradossale della dignità può essere affrontata – anche dal diritto - più che inoltrandoci sugli incerti sentieri della filosofia, rivolgendoci all’arte e alla letteratura: a Sofocle ed Eschilo, a Stendahl e Balzac, a Melville e Hawthorne. Solo la letteratura – come osserva Bromell – può insegnarci ad affrontare la strana condizione di chi si sente allo stesso tempo inviolabile – perché dotato di valore ‘in sé’ – e vulnerabile perché dipende dalla conferma sociale di quel valore.

Per questa ragione dignità e democrazia si richiedono a vicenda.Per questa ragione l’accrescersi vertiginoso delle diseguaglianze nel

mondo comporta una perdita non facilmente riparabile: sia in termini di dignità della persona che in termini di effettiva democrazia.

23 G. Alpa, op.cit.,p.25

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Laura Moscati

La stagione delle obbligazioni e dei contratti

Sommario: 1. Premessa – 2. David Santillana e la codificazione tunisina – 3. Un crocevia di modelli per un Codice tunisino delle obbligazioni e dei contratti – 4. Il destino di un codice nei Paesi del Maghreb.

A Guido Alpacon gratitudine, amicizia, affetto

1. Premessa

Su iniziativa di Guido Alpa, è stata presentata alla Sapienza1 la ristampa del Projet franco-italien des obligations et des contrats del 1927 ad opera di Guillaume Leyte2 tra “Les Introuvables” dell’Università di Paris II Panthéon Assas, in concomitanza non casuale con l’emanazione dell’Ordonnance dell’11 febbraio 2016 sulla riforma del diritto delle obbligazioni e dei contratti3, due momenti basilari per la revisione del libro III del Code civil finora mai modificato.

Il Progetto italo-francese è stato ristampato in Italia da più di dieci anni a cura di Alpa e Chiodi, insieme a una cospicua serie di lavori relativi alla sua preparazione e alle riflessioni dei maggiori protagonisti4, che hanno trovato nella scuola civilistica romana, riunita per impulso di Vittorio Scialoja intorno all’iniziativa, un punto di incontro e di presa di coscienza della sua 1 Presentazione del volume Projet de Code des obligations franco-italien (1927), Editions Panthéon-Assas 2015 e osservazioni sulla Ordonnance n° 2016-131 du 10 février 2016 portant réforme du droit des contrats, du régime général et de la preuve des obligations, Facoltà di Giurisprudenza, Sapienza Università di Roma, 7 aprile 2016. 2 Le projet de Code des obligation franco-italien (1927). Il progetto del Codice delle obbligazioni franco-italiano, Préf. G. Leyte, Avant-propos G. Alpa, Paris, Panthéon-Assas, Paris II, 2015. 3 Ordonnance n° 2016-131 du 10 février 2016. 4 Il Progetto italo francese delle obbligazioni (1927). Un modello di armonizzazione nell’epoca della ricodificazione, a cura di G. Alpa e G. Chiodi, Milano, Giuffrè, 2006.

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L. Moscati

autonoma configurazione rispetto alla romanistica coeva5. Il progetto costituisce un punto di riferimento primario, una delle

maggiori novità successive al primo conflitto mondiale, con antecedenti importanti, come il Codice svizzero delle obbligazioni del 1883 poi novellato nel 1911, quello tunisino del 1906, quello marocchino del 1913, che già raccoglievano in forma autonoma e unitaria il diritto delle obbligazioni e dei contratti. Inoltre, dall’analisi del Progetto risulta che le istanze della dottrina coeva trovano riscontro al suo interno; che il fenomeno del socialismo giuridico ha un ruolo nel temperare il principio della libertà contrattuale e nel proteggere gli interessi di tutti i contraenti anche i più deboli, rispondendo alle reiterate richieste di una parte della dottrina; che al giudice viene attribuita una maggiore autonomia rispetto al passato.

Le ragioni politiche dell’interruzione dei lavori nel 1936, dopo le ultime riunioni a Parigi e a Roma della Commissione binazionale, sono le stesse che portano alla creazione nel 1938 del Comitato giuridico italo-germanico per la riforma del diritto delle obbligazioni.

Nonostante ciò, l’influenza esercitata dal Progetto su molti codici, quello albanese del 1932, quello polacco del 1933, e quelli della Romania, della Grecia, del Libano, nonché il Codice italiano del 1942 e soprattutto il reiterato tentativo della sua revisione e promulgazione fino agli anni cinquanta, ne dimostrano l’intrinseca validità e ora la sua rinnovata attualità. Infatti, il convegno del 1953, appositamente dedicato all’argomento dall’Association Henri Capitant, vedeva nel Projet una forma embrionale del futuro diritto delle obbligazioni unificato per i popoli dell’Europa6. Non si può escludere, infine, che nella recente riforma del libro III vi sia un’idea latente della sua utilizzazione al di fuori della Francia7, riprendendo quella vibrante che aleggiava nel Code Napoléon.

Di recente, alcuni codici delle obbligazioni e dei contratti hanno suscitato un rinnovato interesse, come il ben riuscito esperimento svizzero di enucleare la materia per unificare il diritto degli scambi cantonali, nei lavori di Pascal Pichonnaz8. Inoltre, quelli dei Paesi del Maghreb sono stati 5 Cfr. L. Moscati, Nugae civilistiche. Sulla scuola romana del primo Novecento, in Jus Civile, 5 (2017), pp. 568-606. 6 Cfr. M. Rotondi, Rapport général, in L’intérêt d’actualité du projet de Code franco-italien des obligations (Journées de Pavie et de Milan), in Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, VIII, 1953, Paris, Dalloz, 1955, pp. 58 e ss. 7 Cfr. Rapport au Président de la République relatif à l’Ordonnance n° 2016-131 du 10 février 2016 portant réforme du droit des contrats, du régime général et de la preuve des obligations, 11 février 2016.8 Cfr. P. Pichonnaz, Le centenaire du Code des obligations. Un code toujours hors du code, in Revue de droit suisse, 130 (2011), pp. 117-226. Si veda anche Id., La modification des circonstances et

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La stagione delle obbligazioni e dei contratti

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ora definiti, da uno storico americano Dan E. Stigall, The Santillana Codes9 dal nome del giurista, autore del Projet préliminare e dell’Avant-projet del Codice delle obbligazioni e dei contratti tunisino, fonte e ispirazione del Codice tunisino del 1906 e di quelli del Maghreb.

Si può, quindi, constatare, a cavallo dei due secoli, la presenza di una fertile stagione delle obbligazioni e dei contratti, utilizzando un fortunato titolo di Guido Alpa10 adattato alla trattazione storica effettuata. In tale contesto, la codificazione tunisina, come dichiara lo stesso Santillana, si inserisce anche in una fase di rinnovato interesse per la codificazione civile e commerciale, tra cui in particolare, il Codice di commercio italiano, il Codice svizzero delle obbligazioni, il Codice di commercio tedesco e il BGB che costituiscono, oltre ai codici francesi, le principali fonti utilizzate.

2. David Santillana e la codificazione tunisina

Chi era David Santillana autore del Projet préliminaire e dell’Avant-projet del Codice tunisino e che rilievo ricoprono i testi da lui predisposti? Nato a Tunisi da una famiglia ebraica sefardita, con una componente inglese nella sua formazione e nelle sue origini, dopo una lunga permanenza in Tunisia e un interesse specifico per le istituzioni locali11, Santillana si laurea nel 1883 nella Facoltà giuridica romana e comincia a fare l’avvocato a Roma e a Firenze, prima di insegnare filosofia araba all’università del Cairo e diritto

l’adaptation du contrat, in La pratique contractuelle 2. Symposium en droit des contrats, édité par P. Pichonnaz, F. Werro, Genève-Zurich-Bâle, Schulthess Médias Juridiques SA, 2011 e in generale Id., Impossibilité et exorbitance. Étude analytique à l’exécution des obstacles en droit suisse, Fribourg, Ed. universitaires, 1997. 9 D. E. Stigall, The Santillana Codes. The Civil Codes of Tunisia, Morocco, and Mauritania, Lanhan-Boulder-New York-London, Lexington Books, 2017. In riferimento al solo Codice tunisino l’espressione è usata da R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane. Le pluralisme juridique dans le code tunisien des obligations et des contrats, Hamburg, Schenefeld, 2009, p. 14 e ora ripresa da F. Renucci, David Santillana acteur et penseur des droits musulman et européen, in Monde(s,), 7 (2105), p. 39. 10 G. Alpa, Le stagioni del contratto, Bologna, Il Mulino, 2012. 11 Cfr. David Santillana. L’uomo e il giurista. 1855/1931. Scritti inediti 1878/1920, a cura di A. Baldinetti, Roma, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 1995; A. Baldinetti, David Santillana et Odoardo Maggiorani au service du Bey, in Revue d’histoire maghrébine, 26 (1999), pp. 71-75. R. Sakrani, Sources doctrinales du code des obligations et des contrats tunisien, 2 voll., thèse, Paris 2, 2003; Ead., Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit., p. 19 e ss. e ora D. E. Stigall, The Santillana Codes, cit., pp. 56 e ss.

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L. Moscati

islamico alla Sapienza12. Senza entrare nelle complesse vicende della sua vita e della sua opera

di giurista al servizio del legislatore, che sono da tempo all’attenzione della dottrina italiana, tunisina e francese13, anche se manca una biografia intellettuale completa dell’insigne giurista, mi limito in questa sede14 a esaminare alcuni eventi e momenti che lo legano alla codificazione tunisina.

Nominato nel 1896 componente della Commissione per la formazione di un codice tunisino di diritto privato15, Santillana presenta l’anno successivo un Projet préliminaire de Code civil et commercial tunisien16, in 12 Cfr. G. M. Piccinelli, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), dir. da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, II, Bologna, Il Mulino, 2013, s.v. e in particolare F. Castro, Il modello islamico, a cura di G. M. Piccinelli, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 166-185. Si veda anche ora, con alcune inesattezze, B. Soravia, in Dizionario bio-grafico degli italiani, 90 (2017), s.v. Tra le commemorazioni si veda G. Levi della Vida, David Santillana (1855-1931), in Rivista di Studi orientali, 12 (1929-1930), pp. 453-461. Si noti che Francesco Castro, per la ricostruzione della carriera studentesca di Santillana, utilizza il fondo conservato all’Archivio storico della Sapienza Università di Roma, Santillana Davide, fascicolo 250 (F. Castro, Il modello islamico, cit., pp. 170-171), che ora non risulta reperibile, mentre con la stessa collocazione si trovano le carte relative alla carriera accademica di Santillana professore. 13 Si veda in particolare M. K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, in Revue internationale de droit comparé, 48 (1996), pp. 421-442; R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit; F. Renucci, David Santillana acteur et penseur des droits musulman et européen, cit.; A. Grilli, Un giurista italiano di diritto comune nell’era del colonialismo, David Santillana, in Le livre jubilaire. Centenaire du Dahir formant Code des Obligations et des Contrats, Éditions de l’Université d’Oujada 14 Juillet 2017, pp. 307-325 ; e ora la relazione di F. Renucci (Fusionner le droit romain, le droit musulman et les droits européens : la tentative de cosmopolitisme juridique de David Santillana) al convegno Pensée juridique occidentale et juristes romains : archéologie d’un héritage, Université Paris 1, Panthéon-Sorbonne, 15 et 16 décembre 2017. 14 Più in generale cfr. L .Moscati, Al di là del Mediterraneo. Comparazione, modelli europei e diritti orientali nell’Istituto di Diritto romano della Sapienza, in Bullettino dell’Istituto di Diritto romano Vittorio Scialoja, 2018.15 Sulle vicende legate all’introduzione della codificazione in Tunisia e alla formazione ed evolu-zione delle commissioni preposte, cfr. R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit., pp. 13 e ss. con le relative appendici di documenti. 16 Projet préliminaire de Code civil et commercial tunisien soumis à la Commissionne de Codification des Lois tunisiennes par M. D. Santillana Membre de la Commission, Tunis, Imprimerie Générale, 1897. Si tratta di un’edizione molto rara e poco studiata, la cui consultazione è stata parti-colarmente utile per comprendere la prima fase della codificazione tunisina. R. Sakrani si è soffermata sullo studio del Projet Préliminaire in rapporto con l’Avant-projet (Au croisement des cultures de droit des cultures occidentale et musulmane, cit., pp. 71-75), analizzando soprattutto le motivazioni generali delle scelte effettuate da Santillana e le influenze religiose sul diritto musul-mano piuttosto che su uno specifico parallelismo tra gli istituti e la loro evoluzione. L’autrice considera il primo e più breve progetto maggiormente legato al modello francese (come già M.

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La stagione delle obbligazioni e dei contratti

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cui la materia civilistica è affiancata da alcuni gruppi di disposizioni che riguardano specificatamente quella commerciale17. Il progetto è abbandonato in vista di uno più approfondito, di cui egli risulta relatore e realizzatore. Si tratta dell’Avant-projet de réforme du droit civil et commercial18 base del Code tunisien des obligations et des contrats del 1906 e modello di quelli del Maghreb19. Nell’Avant-projet le disposizioni relative alla materia commerciale sono decisamente più numerose e rielaborate rispetto al Projet préliminaire, soprattutto con riferimento alle società commerciali e al fallimento20.

Nel Codice del 1906, invece, queste norme sono state eliminate, a parte qualche limitato riferimento21, segno, a mio avviso, della scelta dei redattori di lasciare la materia specificamente commerciale fuori dal codice22, con un’impostazione che rovescia l’intendimento iniziale di Santillana. Per queste ragioni ci soffermiamo in particolare sul Projet préliminaire e sull’Avant-Projet, in cui è evidente il contributo del giurista italo-tunisino a favore di

K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, cit., p. 425) e il secondo, dopo l’intervento degli Ulama sacerdoti giuristi a cui attribuisce un ruolo molto forte, frutto di un connubio tra radici del diritto musul-mano ed europeo. In realtà, come vedremo, gli esempi considerati mostrano che, fin dal primo progetto, sono presenti quegli elementi autonomi che caratterizzano la codificazione tunisina. 17 Mi riferisco in particolare alle disposizioni riguardanti i libri commerciali e il registre de com-merce (L. I, tit. VII, De la preuve des obligations et de la libération) e la disciplina della bancarotta semplice e fraudolenta (L. II, tit. XV, De l'insolvabilité, de la banqueroute, et des différentes catégo-ries de créanciers, specificamente il cap. VII). 18 Code civil et commercial tunisien. Avant-projet discuté et adopté au rapport de M. D. Santillana membre de la Commission, Tunis, J. Picard et Cie, 1899. Di recente, il cosiddetto Avant-propos dell’Avant-projet di Santillana è stato paragonato con quello di Portalis: N. Ben Ammou, L’avant-propos dell’avant-projet de code civil et commercial tunisien (Commentaires d’un indigène décolonisé sur l’œuvre d’un orientaliste faisant fonction de législateur), in Le Centenaire du Code des obligations et des contrats (1906-2006), sous la direction de M. K. Charfeddine, Tunis, Centre de Publication Universitaire, 2006, pp. 65 e ss. 19 Cfr. D. E. Stigall, The Santillana Codes, cit. 20 Ecco gli esempi più significativi. Projet préliminaire tunisien, 1897: L. I, tit.7, De la preuve des obligations et de la libération, cap. I, sez. II (§ III Des livres de commerce, § VI Du registre du commerce); L. II, tit. 9, cap. II De la société proprement dite ou société contractuelle; L. II, tit. XV De l'insolvabilité, de la banqueroute, et des différentes catégories des créanciers. Avant-projet tunisien, 1899: L. I, tit.8, De la preuve des obligations et de celle de la libération, cap. I, sez. III Des livres des commerçants et du registre du commerce; L. II, tit. 9, cap. IV, sez. II Des sociétés de commerce; L. II, tit. XV De l'insolvabilité, cap. I Du concordat préventif; cap. II De la faillite, sez. I De la déclaration d'insolvabilité ou de faillite, sez. II De la gestion de la faillite, sez. IV De la clôture de la faillite, sez. VI De la réhabilitation, sez. VII Des délits en matière d'insolvabilité. Disposition générales § I De la banqueroute, § II Des crimes et délits commis par d'autres que par l’insolvable. 21 Mi riferisco in particolare alle disposizioni concernenti la figura del commerciante e l’esercizio della mercatura: Code tunisien des obligations et des contrats,1906, passim. 22 Solo nel 1959 sarà promulgato un codice di commercio.

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un’iniziativa d’avanguardia che individua nell’unificazione delle obbligazioni civili e commerciali il presupposto fondamentale per la creazione di un diritto comune ai popoli dell’Europa e al di là del Mediterraneo.

In linea generale possiamo dire che il Projet préliminaire, oltre al diritto musulmano che, come è noto, si basa su un impianto casistico23, prende a modello i codici civile e commerciale francesi, quelli italiani, il codice svizzero, alcune leggi tedesche, francesi e inglesi, mentre il BGB appena apparso diventa un punto di riferimento primario dell’Avant-Projet. E soprattutto che soltanto quest’ultimo è introdotto da un Avant-propos, di rilevanza fondamentale, che sarà esaminato, insieme ad alcuni esempi di specifico interesse per il diritto europeo, nel proseguo del lavoro.

Va detto innanzitutto che gli altri membri della Commissione sono soprattutto locali24, rispetto alla quasi esclusività di componenti francesi dell’analoga commissione per la codificazione marocchina di poco successiva25. Un altro elemento importante da sottolineare è che, nonostante il titolo, i due progetti non contengono l’intero diritto privato.

In realtà, i motivi di tale scelta sono diversi da quelli del codice svizzero, in cui prevale l’obiettivo di rendere più agevoli le relazioni commerciali di un paese federale26. Invece, predisporre un codice civile in un paese musulmano comporta o la modifica radicale del diritto di famiglia, di quello delle successioni, di parte di quello proprietario e del diritto contrattuale legato a quello matrimoniale27, oppure l’estrapolazione dal diritto privato di quella parte più “neutra” che non avrebbe dovuto necessariamente incidere sulle tradizioni coraniche.

Un altro elemento da sottolineare, è che ambedue i progetti presentano una scelta specifica, quella di unificare le obbligazioni civili e commerciali,

23 Come è stato più volte sottolineato anche di recente: M. K. Charfeddine, Le Code des obligations et des contrats: esquisse d’une évaluation de l’œuvre, in Le Centenaire du Code des obligations et des contrats (1906-2006), cit., pp. 683-686; A. Grilli, Un giurista italiano di diritto comune nell’era del colonialismo, David Santillana, cit., p. 318. 24 Se tralasciamo Stéphane Berge, direttore dei servizi giuridici del Governo tunisino e Auguste Anterrieu, vicepresidente del Tribunale misto di Tunisi, che avrà un ruolo importante anche nella codificazione marocchina. 25 Dahir. Code des obligations et de contrats du Maroc, 1913. Cfr. D. Deroussin, Le Code des obligations et des contrats marocain entre droit français et droit commun législatif mondial, in Le livre jubilaire. Centenaire du Dahir formant Code des Obligations et des Contrats, cit., pp. 265 e ss. che analizza anche il rapporto tra i due codici. 26 Cfr. P. Pichonnaz, Le centenaire du Code des obligations, cit. 27 Tale peculiarità è stata subito notata: E. Jobbé-Duval, L’histoire comparée du droit et de l’expansion coloniale de la France, Mâcon, impr. de Protat frères, 1902, pp. 26-28. L’autore definisce l’Avant-projet « un réel service rendu à la science » (p. 28).

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come proprio in quel periodo una parte della dottrina auspicava28. Primo fra tutti Vivante che, nella celebre prolusione bolognese del 188829, aveva proposto l’unificazione delle obbligazioni civili e commerciali, suscitando un’accesa discussione30, rispetto alla consolidata separazione tra Codice civile e Codice di commercio che «minacciava la purezza formale del primo confondendolo e inquinandolo con le materialità economiche del secondo»31.

Come mai Santillana ritiene che l’unificazione dei due codici possa essere un vantaggio per la Tunisia, dove la codificazione aveva già fatto il suo ingresso? Nel 1861, infatti, è promulgato un Code civil et pénal definito modesto32 e abrogato subito dopo, nel 1879 è emanata la prima Madjella, termine che equivale a quello di codice, seguita nel 1890 dal Morcel El Haïran, che riguarda in particolare la proprietà e i contratti e dal Codice rurale del 1885, codice puramente tecnico che durerà a lungo e che consente alla Tunisia di entrare nell’era della codificazione civile. Subito dopo, infatti, il protettorato francese predispone un’opera completa di codificazione sulla base dei codici francesi e in accordo con il diritto musulmano33.

Il Projet préliminaire e l’Avant-projet sono costellati di note dello stesso

28 M. Caravale, «Perché mai il diritto privato è ancora diviso in due campi, il civile e il commerciale?». La polemica sul Codice di commercio nell’Italia liberale, in Negozianti e imprenditori. 200 anni dal Code de commerce, a cura di C. Angelici, M. Caravale, L. Moscati, U. Petronio, P. Spada, Milano, Mondadori, 2008, pp. 81-116. R. Aluffi Beck Peccoz (Il modello giuridico-scientifico e legislativo-italiano in Tunisia e Marocco, in Il modello giuridico-scientifico e legislativo-italiano fuori dall’Europa. Atti del II Congresso Nazionale della SIRD, Siena, 20-21-22 settembre 2012, a cura di S. Lanni e P. Sirena, Napoli, ESI, 2013, pp. 37-46) sostiene che Santillana è stato influenzato dal coevo dibattito della dottrina italiana e da Vivante in particolare. Ma non risulta un rapporto di particolare vicinanza tra Santillana e Vivante che si opporrà alla nomina del giurista tunisino a ordinario perché assente dalle lezioni, causandogli anche la richiesta della restituzione dello stipendio da parte del Ministero: cfr. L. Moscati, Al di là del Mediterraneo. Comparazione, modelli europei e diritti orientali nell’Istituto di Diritto romano della Sapienza, cit. A mio avviso sono piuttosto il codice svizzero, sia nell’impianto sia in alcune scelte specifiche, e la stessa tradizione mussulmana come sostiene Piccinelli (in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit.) ad aver indirizzato la scelta di Santillana. 29 C. Vivante, Per un codice unico delle obbligazioni, in Monitore dei Tribunali, 1888, pp. 169-176.30 Su cui cfr. Id., Un code unique des obligations. Histoire et polémique, traduit et annoté par V. Yseux, Paris, Rousseau, 1893. 31 Cfr. P. Grossi, La «Scienza del diritto privato». Una rivista-progetto nella Firenze di fine secolo (1893-1896), Milano, Giuffrè, 1988, p. 53.32 M. K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, cit., p. 423. 33 Per la ricostruzione delle vicende si veda R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit., pp. 20-21.

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Santillana con riferimenti specifici alle consuetudini del popolo a cui il codice è destinato, e il secondo contiene l’Avant-propos da cui si evince il pensiero e il metodo dello stesso Santillana. Convinto assertore di un diritto privato comune ai popoli dell’Europa, egli ritiene che « Les legislations particulières sortent de leur isolement, se font des emprunts de plus en plus nombreux ». Egli considera « impossible de ne pas tenir compte de ce grand mouvement d’idées qui entraîne l’Europe vers l’unité du droit », che il Codice Napoleone abbia ormai esaurito la funzione di unico modello di codificazione e sia diventato il maggiore anche se non l’unico punto di riferimento, come mostrano i codici della seconda metà dell’Ottocento. Il rinvio, anche se sommario, nelle note dello stesso Santillana alla dottrina e alla giurisprudenza francesi successive al Codice mostra, infine, la volontà di adeguare il modello alla modificata realtà economica e sociale, dopo quasi un secolo di vita del codice francese.

Egli pensa che i principi comuni dei popoli europei debbano essere importati anche nei paesi al di là del Mediterraneo, con una forte impronta comparatistica che connota tutta la sua opera. Per quanto attiene al diritto musulmano, «serait chimérique, d’essayer une conciliation entre notre droit et les doctrines de l’Islam» che «reste irréductible à nos formules, hostile à nos idées, absolument incapable de transformations et des progrès par sa nature propre, qui est d’être une Loi religieuse»34. Esaminati i principi fondamentali del diritto musulmano e ridimensionato il ruolo che la religione ha avuto nella sua formazione, soprattutto in relazione ai fondamenti morali che ne hanno improntato i principi fondamentali, l’esercizio del diritto è visto come la realizzazione di un dovere, di un obbligo morale35, sulla base di una costante attenzione per l’aspetto etico del diritto36.

Secondo Santillana, al sistema giuridico islamico è mancato un metodo più rigoroso e uno spirito più sistematico, a causa di una latente incapacità di organizzazione e di disciplina, nonché di un eccesso e minuzia di regolamentazione fondata su un’idea di giustizia che proibisce ogni forma di

34 Avant-projet tunisien, p. II. 35 Ibidem, p. X. 36 D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, II, Roma, Istituto per l’Oriente, 1943, p. 54. Tale opera in due volumi è considerata a tutt’oggi insuperata e il suo autore “il capostipite di una nuova scuola che abbandona l’approccio più propriamente orientalistico…a favore invece di un approccio interdisciplinare più coerente con le prospettive di analisi del diritto positivo vigente”: G. M. Piccinelli, Continuità del formante dottrinale nell’Islam? Riflessioni sulla classificazione del diritto dei paesi islamici, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2013, p. 373. Cfr. anche V. M. Donini, Il diritto islamico tra sharia e qanun: un percorso bibliografico, ibidem, pp. 387-407.

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interesse e rende talvolta impossibile lo sviluppo degli affari37. Sono state, quindi, inserite nell’Avant-projet quelle norme del diritto

musulmano, estranee alle più recenti concezioni del diritto civile e commerciale europeo, che si plasmano più facilmente in vista della formazione di regole comuni di diritto europeo. Santillana si dichiara sorpreso nel constatare profonde analogie tra le idee dei grandi giuristi arabi e di quelli europei che trovano le loro radici comuni nel diritto romano, insinuato e poi incorporato nella civilizzazione mussulmana, e che, in alcune parti del diritto arabo, presenta segni evidenti di assimilazione. Il suo compito è quello di sottolineare queste analogie e di segnalarle nelle annotazioni ai singoli articoli che non hanno solo valenza storica ma che servono soprattutto di base per un successivo lavoro di revisione e di studio per un’opera di alta civilizzazione38.

3. Un crocevia di modelli per un Codice tunisino delle obbligazioni e dei contratti

L’Avant-projet, secondo una struttura considerata originale rispetto ai codici coevi39, è diviso in due libri (il primo riguarda la teoria generale delle obbligazioni e il secondo i diversi contratti40) e composto da 2479 articoli ordinati seguendo la sistematica del Code Napoléon, pur non rappresentando un fenomeno di importazione del modello secondo la tradizione coloniale o di una sua passiva recezione, ma di un’elaborazione dello stesso sulla base delle fonti allora disponibili. Troviamo, quindi, utilizzati i principali codici, da quello italiano del 1865, al BGB, al Codice svizzero delle obbligazioni del 1883, oltre alle ricordate fonti della tradizione mussulmana. Nei manuali di diritto islamico, come sottolinea lo stesso Santillana41, dopo la parte dedicata al diritto religioso, si passa al diritto matrimoniale, poi a quello patrimoniale, ai diritti reali e “all’infinita materia delle obbligazioni”, secondo un sistema logico diverso rispetto a quello europeo42, ma con dei punti di contatto più 37 Avant-projet tunisien pp. XI-XII. 38 Ibidem, p. XIII. 39 R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit., p. 79. Di parere contrario M. K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, cit., p. 435. 40 Anche il Projet préliminaire è diviso in due libri, il primo riguarda le obbligazioni in generale e il secondo i singoli contratti, e presenta 1851 articoli. 41 Cfr. D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, I, Roma, Anonima romana editoriale, 1926, pp. IV e ss. 42 Cfr. ad esempio l’opera di H. Ibn Ishâq tradotta dallo stesso Santillana: Il "Muhtasar" o

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numerosi di quanto non si possa pensare43. Per quanto attiene alla sostanza del diritto, vanno sottolineati alcuni

elementi di novità rispetto alla codificazione francese44. Mi riferisco in particolare ai poteri del giudice, ai rapporti di vicinato e alla materia contrattuale, solo per fare alcuni esempi. Il primo riguarda il famoso articolo 4 del Code civil che impone al giudice di giudicare, anche sotto silenzio della legge senza indicare le modalità. Il Projet préliminaire e l’Avant-projet si allontanano dal Code Napoléon sostenendo che il giudice deve seguire le “règles générales de droit”45 e la dottrina attuale ha individuato la fonte di riferimento nel Codice civile italiano del 186546. In realtà, la storia è più articolata. La fonte primaria è l’ABGB che, a sua volta, è stato ripreso dal Codice civile albertino del 1837, base di quello italiano del 1865. Ma se il Codice austriaco aveva rinviato ai principi del diritto naturale47, quello sabaudo48 e quello italiano si riferiscono ai principi generali di diritto, sostituiti nel Codice tunisino dalle “règles générales de droit” presenti nei progetti di Santillana.

I problemi di vicinato rappresentano una delle lacune del libro della proprietà del Codice Napoleone49, come il diritto d’autore e la servitù coattiva d’acquedotto. In via preliminare va detto che nella tradizione islamica, una speciale considerazione è data ai rapporti di vicinato ravvisando

sommario del diritto malechita. II. Diritto civile, penale e giudiziario, Milano, Hoepli, 1919. 43 D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, I, cit., p. VII. 44 Cfr. in generale M. K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, cit.; Id., Le Code des obligations et des contrats : esquisse d’une évolution de l’œuvre, cit., pp. 675 e ss. che definisce il Codice tunisino «un code reussi» (p. 680) anche in rapporto all’evoluzione avuta dal codice nel suo primo secolo di vita. Attraverso un’analisi comparativa delle codificazioni tunisina e marocchina D. Deroussin (Le Code des obligations et des contrats marocain entre droit français et droit commun législatif mondial, cit.) si sofferma sui punti di contatto e di allontanamento dal modello francese, inserendo i due codici tra le «codification-modification» (p. 294). 45 Projet préliminaire tunisien, art. 504; Avant-projet tunisien, art. 620; Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, art. 535. Cfr. E. Arfaoui, Place de donné et du construit dans l’harmonisation du système juridique, in Le Centenaire du Code des obligations et des contrats (1906-2006), cit., pp. 96 e ss. 46 Codice civile italiano, 1865, art. 3. Cfr. in particolare M. K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, cit., p. 430 ; E. Stigall, The Santillana Codes, cit., pp. 82-83. 47 Codice civile generale austriaco, 1811, art. 7. 48 Codice civile del Regno di Sardegna, 1837, art. 15. 49 Cfr. Le metamorfosi del diritto di proprietà. Antologia a cura di G. Alpa e A. Fusaro, Matera, Antezza, 2011, pp. 86-90.

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nel vicino una persona a cui spettano attenzioni particolari e diritti speciali50. Di conseguenza le limitazioni alla proprietà e in particolare i troubles de voisinage trovano una loro regolamentazione specifica all’interno della codificazione tunisina51. Sono disciplinate anche le azioni di nunciazione, ossia quegli istituti di tradizione romanistica, la operis novi nunciatio e il damnum infectum52 che, assenti dal Codice Napoleone, erano stati recepiti nella codificazione sabauda prima53 e in quella italiana poi54. Nel diritto francese, invece, solo la legge del 1975 presenta una disciplina complessa e gli artt. 2282 et 2283 (poi artt. 2278 et 2279) del Code civil riformato, un loro riconoscimento legislativo55. Anche in questo caso, come risulta chiaramente dalle annotazioni di Santillana, la fonte è il diritto musulmano, vicino alle scelte di alcuni legislatori europei, soprattutto nei principi di utilità sociale e di funzione morale che esso persegue56.

Per quanto attiene alla materia contrattuale, invece, strettamente legato al modello francese è il principio pacta sunt servanda che resta saldo nel diritto tunisino57, nonostante circolasse da tempo nella dottrina francese ed europea la richiesta di riformare questa parte del codice, come dimostrano gli interventi coevi in occasione del centenario del Code civil in Francia e l’impegno della Commissione Gallo del 1906 in Italia58. Di conseguenza 50 D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafi-ita, I, cit., pp. 305-307. 51 Projet préliminaire tunisien, artt. 85, 86; Avant-projet tunisien, artt. 110, 111; Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, artt. 99, 100. Cfr. alcuni cenni in D. Deroussin, Le Code des obligations et des contrats marocain entre droit français et droit commun législatif mondial, cit., p. 284; Ph. Le Tourneau, De la modernité du chapitre du C.O.C. portant sur la responsabilité délictuelle, in Le Centenaire du Code des obligations et des contrats (1906-2006), cit., p. 434 e soprattutto S. Jerbi, La responsabilité délictuelle dans le C.O.C.: les sources et les ressources, ibidem, pp. 463-466. 52 Projet préliminaire tunisien, art. 78; Avant-projet tunisien, art. 115; e, con maggiore elabora-zione, Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, art.103. 53 Codice civile del Regno di Sardegna, 1837, artt. 1506-1507. 54 Codice civile italiano, 1865, artt. 698-699. 55 Ora gli articoli citati sono stati abrogati e le azioni possessorie rinviate alla disciplina delle procedure sommarie. Cfr. L. Moscati, Considérations sur la responsabilité extracontractuelle dans les codes italiens du 19ème siècle, in Mélanges en l’honneur de Brigitte Basdevant Gaudemet, in corso di stampa. 56 Cfr. R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit., pp. 216-218. 57 Si veda in particolare S. Derouiche–Ben Achour, F. Mechri, La circulation du modèle juridique français au Maghreb et au Moyen Orient. Tunisie, in La circulation du modèle juridique français (Journée franco-italiennes), XLIV, Paris, Litec, 1993, pp. 290-294; F. Castro, Il modello islamico, cit., pp. 68-70. 58 Code civil, 1804-1904. Le Livre du Centenaire. Presentation de Jean-Louis Halpérin, Paris, Dalloz, 2004; sulle finalità della riforma e sulla composizione della Commissione Gallo, si veda

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non è ammessa la teoria dell’imprévision, dal momento che la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto resta subordinata alle sole ipotesi di impossibilità oggettiva, senza intravedere un’attenzione alla sopravvenienza per favorire l’equilibrio contrattuale e la conseguente modifica del contratto, sulla scia dei codici coevi che adottano il medesimo approccio. Inoltre, non è ammessa la risoluzione per inadempimento che in caso di impossibilità d’esecuzione seguendo il modello tedesco59.

Infatti, mentre nella dottrina si erano levate voci significative a favore di una maggiore attenzione all’equilibrio contrattuale, il legislatore europeo, solo a partire dalla legislazione di guerra e dalla conseguente produzione alluvionale del periodo, riconosce l’inadeguatezza del diritto vigente rispetto alle mutate esigenze del contesto sociale ed economico, mostrando da un lato i rischi delle trasformazioni del diritto privato anche in relazione ai successivi sviluppi, dall’altro lato il suo necessario rinnovamento rispetto all’eccessiva rigidità del codice.

Ma alcune innovazioni sono legate a una visione oggettiva del contratto privilegiando la sua funzione economico-sociale. Mi riferisco in particolare alla disciplina delle varie fasi contrattuali e all’individuazione di quella precontrattuale che proprio in quel periodo aveva sollecitato l’interesse della civilistica romana con una forte eco nella più significativa dottrina francese60.

Sul periodo precontrattuale e sulla responsabilità precontrattuale61 si riscontrano alcuni, anche se limitati, avanzamenti rispetto al Code civil francese, il quale si disinteressava completamente della fase precontrattuale. In particolare, alcune disposizioni del Projet préliminaire, dell’Avant-projet e del Codice tunisino, sulla base del Codice svizzero, lasciano intravedere una maggiore attenzione per il periodo preparatorio. Mi riferisco agli art. 18 e 24 dell’Avant-projet, ripresi dal Codice tunisino, che presentano una

in particolare G. Alpa, Il contratto in generale. Fonti, teorie, metodi, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 2014, pp. 99-100; 115-118. 59 Avant-projet tunisien, art. 300; Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, art. 273. Cfr. M. Zine, De l’esprit et de l’effectivité de certaines dispositions du C.O.C., in Le Centenaire du Code des obligations et des contrats (1906-2006), cit., p. 440 ; S. Jerbi, La responsabilité délictuelle dans le C.OC., cit., pp. 463 e ss. 60 Mi riferisco a M.R. Saleilles, De la responsabilité précontractuelle à propos d’une étude nouvelle sur la matière, in Revue trimestrielle de droit civil, 6 (1907), pp. 697-751. Cfr. ora L. Moscati, Aspetti del diritto contrattuale nella civilistica romana del primo Novecento, in Liber Amicorum Pietro Rescigno in occasione del novantesimo compleanno, a cura di F. Astone, A. Barba, A. Barenghi, F. Caggia, D. Carusi, A. Zoppini, II, Napoli, ESI, 2018, pp. 1393-1404. 61 Cfr. in particolare A. Rebaï, La periode precontractuelle dans le Code des obligations et des contrats, in Le Centenaire du Code des obligations et des contrats (1906-2006), cit., pp. 265 e ss.

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formulazione quasi identica a quella del Codice svizzero delle obbligazioni del 188362. Ma il Codice tunisino non va oltre e non prevede alcun profilo di responsabilità per la rottura ingiustificata delle trattative e, più in generale, per qualsiasi tipo di responsabilità precontrattuale, senza accogliere la teoria di Jhering.

L’attenzione per la fase precontrattuale trova nell’operato di Santillana, prima dell’elaborazione del progetto tunisino, uno specifico approfondimento. Nel noto affare Rubattino, Santillana, mentre era studente della Facoltà giuridica romana, è nominato dal Presidente del Consiglio Cairoli agente a Londra dell’imprenditore Rubattino, che voleva acquistare la linea ferroviaria Tunisi-La Goletta dalla società inglese Tunisian Railways Company63. La complessa operazione commerciale si svolge in concorrenza con la società francese Bône Guelma, interessata all’acquisizione della medesima linea ferroviaria. Si tratta, quindi, di una questione politica di particolare rilevanza per rafforzare la presenza italiana nel Nord Africa, come si evince dall’interesse e dall’appoggio mostrato dal Governo.

Senza entrare nella vicenda, che si conclude a favore di Rubattino con una brillante vittoria del giovane Santillana davanti alla Court of Chancery inglese, va sottolineato che, durante le trattative, la compagnia inglese sembra aver accettato l’offerta italiana proposta tramite Santillana e voler procedere alla stipula di una sorta di contratto preliminare. Tale istituto è sconosciuto al mondo di common law che ha, rispetto al diritto di tradizione romanistica, una concezione della formazione del contratto in cui è assente la nozione di fase precontrattuale e della responsabilità delle parti. Ma la Tunisian Railways Company viene meno agli impegni presi con gli italiani e decide di vendere la linea ferroviaria alla Bône Guelma. Santillana riesce a confrontarsi efficacemente con le peculiarità del diritto anglosassone, approfondendo la questione delle trattative dal punto di vista comparatistico e adattandola alla situazione contingente. Pochi anni dopo, quindi, nell’elaborazione del Codice tunisino il ricordo della vicenda è stato determinante.

62 Projet préliminaire tunisien, art. 16; Avant-projet tunisien, artt. 18 e 24; Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, artt. 18, 23; Code fédérale des obligations, 1883, artt. 1, 2, poi ripreso nel Codice svizzero delle obbligazioni, 1911: cfr. V. Rossel, Code civil suisse y compris le code fédéral des obligations: édition annotée, 4e éd., Lausanne 1929, artt. 1 e 2. 63 Sulla vicenda cfr. in particolare A. Baldinetti, L’affare Rubattino, in David Santillana. L’uomo e il giurista. 1855-1931. Scritti inediti 1878/1920, cit., pp. 9-42, in cui è pubblicato svariato materiale relativo alla vicenda; M. Papa, David Santillana e la vicenda Rubattino: l’approccio di un giurista continentale al sistema di Common Law, in David Santillana. L’uomo e il giurista (1855-1931). Questioni di diritto tunisino, a cura di M. Papa, Roma, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 1999, pp. 5-22; F. Castro, Il modello islamico, cit., pp. 172-174.

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L. Moscati

4. Il destino di un codice nei Paesi del Maghreb

Sulla base del testo predisposto da Santillana e approvato, si arriva all’emanazione del Codice tunisino, questa volta con il titolo corrispondente al suo effettivo contenuto. Due opere coeve segnano l’impatto immediato che ha avuto il nuovo codice. La prima di Larcher, commentatore dell’Avant-projet del codice algerino del 191664, si esprime negativamente sul codice tunisino e sottolinea i molti errori presenti nella forma e nella sostanza del diritto65. Invece, egli considera l’Avant-projet elaborato da Santillana «fort consciencieux et surtout remarquablement riche en référence bibliographiques», anche rispetto al successivo codice promulgato il 1 gennaio 1907 66.

L’opera di Morel, invece, si pone in posizione opposta rispetto a quella di Larcher. Come egli stesso afferma, si tratta di un manuale, direi un vero e proprio trattato in arabo e in francese, con lo scopo di facilitare la penetrazione del codice nel tessuto sociale del Paese e di favorire la creazione di una scuola di diritto analoga a quella francese. Considerate « dérisoires » le critiche di Larcher, Morel, attraverso una serie di osservazioni fatte per una futura revisione del codice, evidenzia che alcune inesattezze o errori del testo definitivo non erano presenti nell’Avant-projet, ma nelle modifiche effettuate successivamente, e sottolinea l’importanza straordinaria del lavoro di Santillana e il suo significato in un paese musulmano, di cui intravede le potenzialità e l’influenza diretta che avrebbe esercitato su molti codici.

Mi riferisco in particolare alla clausola penale prevista nel Projet préliminaire e nell’Avant-projet e non contenuta nel Codice tunisino67,

64 In Algeria è applicato nel 1834 il Code Napoléon. Dopo la promulgazione del Codice tunisino e di quello marocchino, anche l’Algeria si impegna nella preparazione di un codice: Avant-projet de Code, présenté à la Commission de codification du droit musulman algérien par M. Morand, Alger, A. Jourdan, 1916. 65 Cfr. Code tunisien des obligations et des contrats avec le décret du Bey du 15 décembre 1906 et du 30 juin 1907 accompagné d’observations critiques de E. Larcher, Alger, Typographie Adolphe Jourdan, 1907; si veda anche E. Larcher, Observations critiques sur le Code tunisien des obligations et des contrats, in Revue algérienne et tunisienne de législation et de jurisprudence, 23 (1907), pp. 193-199. 66 Cfr. E. Larcher, Code tunisien des obligations et des contrats, cit., p. X. 67 Projet préliminaire tunisien, art. 22; Avant-projet tunisien, artt. 333-344. Cfr. Précis du droit civil musulman. Commentaire du Code tunisien des obligations et des contrats avec annotations critiques par A. Morel, I, Tunis, Impr. rapide, 1911, pp. 194-195. Per gli sviluppi successivi con riferimento alle soluzioni innovatrici di Santillana, cfr. G. M. Piccinelli, Diritto agli interessi e clausola penale in Tunisia, in David Santillana. L’uomo e il giurista (1855-1931), cit., pp. 45 e ss.

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La stagione delle obbligazioni e dei contratti

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perché contraria allo spirito del diritto musulmano68. O ancora all’azione revocatoria assente dal testo definitivo del Codice che, pur prevedendo una sezione dedicata alle azioni surrogatoria e revocatoria69, non contiene disposizioni ad essa relative70. Invece, nel Projet préliminaire e nell’Avant-projet, era disciplinata espressamente l’azione revocatoria71.

Importanti anche i giudizi di François Geny che, in occasione del centenario del Code Napoléon, offre valutazioni lusinghiere sull’opera di Santillana «complexe et de haute inspiration» che «a su – en dehors même de la place qu’elle devait assurer au droit musulman – améliorer notablement les formules de notre droit français par le contact des idées allemandes, mais sans avoir – malheureusement, à mon gré, – serré d’assez près les procédés techniques, dont le Burgerlisches Gesetzbuch de 1896 lui présentait le précieux modèle»72.

In realtà, la dottrina avrebbe dovuto tenere maggiormente in conto le differenze tecniche tra il Projet préliminaire, l’Avant-projet e il Code che, dai pochi esempi effettuati, risultano molto significative per approfondire il pensiero di un giurista di primo piano e analizzare il complesso percorso di un codice di particolare rilevanza, anche e soprattutto in relazione alla scelta di abbandonare la strada intrapresa da Santillana di unificare la materia delle obbligazioni e dei contratti.

Tale codice ha costituito un modello per i Paesi del Maghreb a cominciare da quello marocchino del 1913, di cui è stato da poco festeggiato il centenario, e si inserisce a pieno titolo tra i maggiori protagonisti della stagione delle obbligazioni e dei contratti.

68 R. Sakrani, Au croisement des cultures de droit occidentale et musulmane, cit., p. 75. 69 Projet préliminaire tunisien, art. 229; Avant-projet tunisien, art. 352; Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, L. I, cap. IV, sez. II. 70 A. Morel, Précis du droit civil musulman, cit., p. 195. 71 Code tunisien des obligations et des contrats, 1906, art. 352 e ss. 72 F. Geny, La Technique législative dans la Codification civile moderne (A propos du centenaire du Code civil), in Code civil, 1804-1904. Le Livre du Centenaire, cit., p. 1036, su cui cfr. in parti-colare M. K. Charfeddine, Esquisse sur la méthode normative retenue dans l’élaboration du Code tunisien des obligations et des contrats, cit., pp. 684-685.

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Giampaolo Parodi

Il giudice di fronte alle sentenze additive di principionella prassi recente

Sommario: 1. Premessa – 2. Presupposti e caratteristiche delle sentenze additive di principio – 3. I rapporti con la giurisdizione comune – 4. Il séguito delle additive di principio nella prassi recente – 4.1. Il séguito della sentenza n. 170 del 2014 sul divorzio imposto – 4.2. La sentenza n. 278 del 2013 sul parto anonimo – 4.3. La giurisprudenza sull’indennità di maternità in favore del padre adottivo libero professionista – 5. Le sentenze additive a dispositivo indeterminato.

1. Premessa

Una delle costanti nell’opera scientifica di Guido Alpa, che si dispiega con respiro enciclopedico in pressoché tutti gli àmbiti del diritto privato, è l’attenzione rivolta alle modalità dell’elaborazione giurisprudenziale degli istituti e al ruolo del judicial activism nell’evoluzione degli ordinamenti1.

È peraltro difficile anche solo tentare una ricognizione dei contributi nei quali, direttamente o incidentalmente, l’Autore al quale il presente volume è dedicato riflette, anche in chiave storica e comparata, sull’uso interpretativo e integrativo dei princìpi generali2, sull’interpretazione orientata ai princìpi costituzionali3 e ai parametri sovranazionali4, sulla Drittwirkung dei diritti fondamentali5.

Per quanto concerne la dimensione costituzionale, anche nel recente

1 G. Alpa, L’arte di giudicare, Roma-Bari, 1996; Id., Il diritto giurisprudenziale e il diritto “vivente”. Convergenze o affinità dei sistemi giuridici?, in Rassegna forense, 2007, p. 493 ss.; Id., Diritto privato europeo, Milano, 2016, p. 45 ss.2 G. Alpa, I principi generali, II ed., Milano, 2006.3 G. Alpa, Diritto pubblico e privato, Modena, 2017, p. 45.4 G. Alpa, Diritti, libertà fondamentali e disciplina del contratto: modelli a confronto, in G. Alpa, G. Conte (cur.), Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali, Torino, 2018, p. 3 ss.; Id., Diritto privato europeo, Milano, 2016, p. 45 ss.5 G. Alpa, Diritto pubblico e privato, cit., p. 45; Id., Manuale di diritto privato, Milano, 2017, p. 41 s.

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G. Parodi

saggio Dal diritto pubblico al diritto privato, è centrale il riferimento alla “straordinaria attività” della Corte costituzionale che, soprattutto nell’ultimo ventennio, “ha portato a formulare diversi principi in materia di costituzionalizzazione del diritto privato”6.

In queste pagine, tali questioni vengono in rilievo in una porzione circoscritta ma significativa dell’esperienza giuridica, vale a dire il séguito giurisprudenziale delle sentenze additive di principio della Corte costituzionale, che costituisce un frangente nel quale al giudice comune è chiesto il massimo impegno sul terreno dell’interpretazione e, soprattutto, dell’integrazione del sistema legislativo.

Come di recente è stato ribadito, a fronte della pronuncia di sentenze additive, specie se additive non “di regole”, ma di princìpi, spetterà “ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione”; al legislatore, “provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione”7.

2. Presupposti e caratteristiche delle sentenze additive di principio

A partire dalla fine degli anni ottanta, nella giurisprudenza costituzionale si delinea uno strumento decisorio denominato, per lo più, sentenza “additiva di principio”.

Il dispositivo di queste pronunce dichiara – con formule variabili e atipiche – la disposizione impugnata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede, per la disciplina di una fattispecie non regolata dalla legge, una soluzione normativa non del tutto precisata: un meccanismo, un criterio, un congegno normativo di adeguamento, perequazione, garanzia, tra quelli che legittimamente – e, quindi, indifferentemente – dal punto di vista costituzionale possono ipotizzarsi in conformità ai princìpi indicati nella sentenza.

Presupposto tipico delle additive di principio è infatti la compresenza di una pluralità di soluzioni idonee a ristabilire la legittimità costituzionale, tra loro fungibili poiché compatibili con i princìpi che si tratti di attuare attraverso l’esercizio di discrezionalità (anzitutto) legislativa in conformità

6 G. Alpa, Diritto pubblico e privato, cit., p. 44.7 Corte cost., sent. n. 113 del 2011, da ultimo richiamata nella sent. n. 88 del 2018.

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alle indicazioni impartite nella motivazione della sentenza. Tali decisioni non formulano – secondo la corrente descrizione

degli effetti delle sentenze additive – norme precise, self-executing, né suggeriscono agli organi giurisdizionali chiamati a dare un séguito alla decisione costituzionale soluzioni integrative univocamente ricavabili dalla Costituzione, o dal sistema legislativo, seppure in termini indeterminati, vale a dire implicanti discrezionalità interpretativa.

Il vantaggio apparente di questa soluzione risiede sia nella possibilità per la Corte di pronunciarsi nel merito del dubbio di costituzionalità evitando di dichiarare l’inammissibilità della questione per discrezionalità del legislatore; sia nell’assenza di immediati innesti normativi, che potrebbero risultare problematici sotto il profilo delle conseguenze pratiche, ad esempio, e in particolare, di ordine finanziario.

Le decisioni in discorso sono denominate additive di principio perché nelle stesse vengono formulati, appunto, princìpi destinati a guidare sia il legislatore, nella necessaria attività conseguenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all’omissione incostituzionale; sia, ove possibile, i giudici comuni, affinché, in attesa dell’intervento legislativo, trovino in sede di integrazione del diritto una soluzione per le controversie loro sottoposte.

Si tratta di una tecnica di giudizio retta da un diritto processuale costituzionale non scritto, di fonte giurisprudenziale, ancora da ultimo evocato dalla Corte in tema di effetti della dichiarazione d’incostituzionalità, anche con il supporto di espliciti riferimenti comparatistici8.

Non è possibile riprendere qui la discussione teorica su questa tecnica decisoria; in particolare, sulla questione, affrontata anche nella recente giurisprudenza di legittimità9, dell’oggetto delle sentenze additive di principio: norma implicita di esclusione, omissione del legislatore, lacuna, o altro ancora10.

Si è in presenza, si osserva di solito in via di prima approssimazione, di un’omissione legislativa. Volendo impiegare una formula più precisa, si potrebbe parlare di lacuna assiologica, o qualificata, ossia della mancanza 8 Nella nota sentenza n. 10 del 2015 si legge quanto segue: “la comparazione con altre Corti costituzionali europee – quali ad esempio quelle austriaca, tedesca, spagnola e portoghese – mostra che il contenimento degli effetti retroattivi delle decisioni di illegittimità costituzionale rappresenta una prassi diffusa, anche nei giudizi in via incidentale, indipendentemente dal fatto che la Costituzione o il legislatore abbiano esplicitamente conferito tali poteri al giudice delle leggi. Una simile regolazione degli effetti temporali deve ritenersi consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale” (corsivo non testuale). 9 Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 1946 del 2017, sulla quale si torna sub 4.2.10 Su tali profili teorici si rinvia a G. Parodi, La sentenza additiva a dispositivo generico, Torino, 1996.

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non di una disciplina qualsiasi (di una fattispecie apparentemente non regolata) ma di una disciplina che il parametro costituzionale richiede per la disciplina di una determinata fattispecie. Come si legge nella sentenza n. 295 del 1991, si tratta della “mancata previsione, da parte della norma regolatrice di un diritto costituzionalmente garantito, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’effettività di questo”.

Si allude quindi alla mancanza di una disciplina costituzionalmente necessaria, ma non, come nel caso delle additive di prima generazione, a contenuto costituzionalmente vincolato, volendo mutuare categorie elaborate nell’ambito della giurisprudenza sull’ammissibilità del referendum.

A questa variante della pronuncia additiva – nella prassi non frequentissima, ma neppure sporadica e non di rado impiegata per affrontare questioni di particolare delicatezza – si fa riferimento anche attraverso denominazioni ulteriori: sentenza “dichiarativa”, “additiva di meccanismo”, “additiva a dispositivo generico”.

Quest’ultima opzione definitoria, in particolare, allude a un elemento strutturale che connota la tipologia decisoria di cui si tratta. Dal punto di vista semantico, infatti, è generico l’enunciato che si riferisce a una pluralità di oggetti diversi in modo indifferenziato. Si tratta di una proprietà degli enunciati distinta dall’indeterminatezza, propria delle clausole generali e dei “concetti giuridici indeterminati”, caratterizzati, questi ultimi, da un margine di incertezza circa l’inclusione di un determinato oggetto nella loro area semantica.

Nel caso delle additive di principio, si tratta di pronunce caratterizzate da una formulazione generica del dispositivo, in considerazione della pluralità di addizioni idonee a ristabilire la legittimità costituzionale, tra le quali il legislatore è chiamato a scegliere. Diversamente dalle additive di prima generazione, abitualmente considerate additive “di regole”, nel caso delle additive di principio, le addizioni idonee a ripianare la lacuna incostituzionale, alle quali la pronuncia fa riferimento, sono più d’una e tra loro fungibili, in quanto tutte compatibili con i princìpi che si tratta di attuare in conformità alle indicazioni impartite nella motivazione della sentenza.

La tecnica decisoria di cui si tratta consente di evitare, in tale situazione, il ricorso alla soluzione – secondo molti inappagante specie ove si traduca in una ipotesi d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata – della decisione di inammissibilità della questione, tipicamente adottata, pur a fronte di un’omissione contraria a Costituzione, in presenza di un petitum additivo che non sia “a rime obbligate”.

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I criteri di scelta tra le differenti tecniche decisorie non sembrano peraltro, nella giurisprudenza, del tutto assestati, o individuabili in modo univoco.

Ancora di recente, si è osservato che “il rigetto totale della questione per inammissibilità si giustifica quando la ‘questione di costituzionalità’ non è duplice: non comprende cioè un aspetto ablativo e un aspetto aggiuntivo (discrezionale), ma solo quest’ultimo. Sono i casi in cui alla Corte costituzionale si richiede di ‘inventare’ discipline, per integrare l’ordinamento con proprie determinazioni normative discrezionali, ciò che evidentemente non le compete”11.

Quest’ultimo aspetto viene ripreso nelle pagine che seguono con riguardo a quelle additive di principio che, a una parte della dottrina e della giurisprudenza, sono apparse “meramente dichiarative” proprio per la difficoltà di imputare ad esse la caducazione di una norma implicita di esclusione del meccanismo costituzionalmente necessario.

3. I rapporti con la giurisdizione comune

Le decisioni additive di princìpi vengono da alcuni considerate come più rispettose della sfera riservata alla discrezionalità del legislatore di quelle di prima generazione, anche se, per la loro stessa vocazione, in realtà promuovono – ove possibile – l’applicazione dei princìpi in esse indicati da parte degli organi giurisdizionali, allo scopo di ripianare una lacuna contraria a Costituzione, pur in presenza di una pluralità di soluzioni costituzionalmente compatibili.

In dottrina si esclude tuttavia che ciò sia lesivo delle attribuzioni legislative, giacché l’integrazione giudiziale non si porrebbe sul piano della normazione generale e astratta, bensì su quello della regola del caso concreto.

In tal senso è orientata anche la Corte costituzionale e la stessa giurisprudenza di legittimità che, in termini perspicui, ha da ultimo affrontato l’argomento, nella sentenza delle Sezioni Unite sul parto anonimo, sulla quale si torna più avanti, mentre una lettura differente viene proposta da chi osserva come la tecnica di decisione in discorso possa promuovere una forma di “supplenza” del legislatore ad opera degli organi giurisdizionali comuni, seppure guidata dai princìpi indicati dalla Corte e, probabilmente, in termini di meno accentuato judicial activism rispetto, in particolare, alla mobilitazione dei giudici sul terreno dell’interpretazione costituzionalmente

11 G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Bologna, 2018, p. 247.

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orientata, peraltro attenuata nella giurisprudenza più recente12. D’altro canto, le decisioni additive a dispositivo generico vengono

denominate additive di principio perché nelle stesse vengono formulati, appunto, princìpi destinati a guidare sia il legislatore, nella necessaria attività normativa conseguente alla pronuncia, diretta a rimediare all’omissione incostituzionale; sia, ove possibile, i giudici, affinché, in attesa o in assenza dell’intervento legislativo, trovino, in sede di integrazione del diritto, una soluzione idonea a consentire loro di definire le singole controversie13.

Si tratta pertanto di pronunce tendenzialmente caratterizzate da una duplice funzione: da un lato, orientare il legislatore nell’adempimento dell’obbligo di adeguamento derivante dai parametri costituzionali applicati e precisato dalla decisione della Corte; dall’altro, nelle more dell’intervento del legislatore, e grazie ai principi “somministrati” con la sentenza, guidare i giudici ordinari e speciali chiamati a colmare la lacuna incostituzionale in sede di definizione delle controversie concrete loro sottoposte14.

Talune decisioni additive di princìpi, tuttavia, sembrano rivolte soltanto al legislatore, risultando difficile il loro immediato utilizzo in sede applicativa ed evidenziando, di fatto, il séguito giurisdizionale delle stesse una sostanziale incapacità di esprimere soluzioni applicative conformi ai princìpi indicati dalla Corte15. 12 Non sono sfuggiti ai commentatori più attenti alcuni segnali di apparente attenuazione, nella giurisprudenza più recente, dello stigma della manifesta inammissibilità per omessa dimo-strazione del tentativo di interpretazione della disposizione impugnata in modo conforme a Costituzione. A questo riguardo, nella sent. n. 77/2018, si legge: “Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime «perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)», ciò però non significa che «ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzio-nalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito» (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017)” (corsivo non testuale).13 Ciò viene teorizzato nella nota sentenza della Corte costituzionale n. 295/1991, nei seguenti termini di portata generale: “La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una omissione legislativa – com’è quella ravvisata nell’ipotesi di mancata previsione, da parte della norma regolatrice di un diritto costituzionalmente garantito, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’effettività di questo – mentre lascia al legislatore, riconoscendone l’innegabile competenza, di introdurre e di disciplinare anche retroattivamente tale meccanismo in via di normazione astratta, somministra essa stessa un principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre frattanto rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto”. 14 Cfr. le sentenze n. 560/1987; 406 e 497/1988; 420 e 421 /1991; 88/1992; 288/1994; 284/1995; 143/1997; 179/1999; 158 e 411/2001; 148/2003; 385/2005; 160/2008; 113/2011.15 Cfr. le sentenze n. 204 e 232/1992; 243/1993; 376/1994; 171/1996; 466/2002; 280/2005; si può discutere dell’assimilabilità a tale categoria delle sentenze n. 201 e n. 339/2007, n. 1/2008, oltre che di quelle, più recenti, esaminate nei paragrafi seguenti.

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In tali casi e in quelli nei quali è la stessa sentenza additiva di principio a presentarsi come indirizzata solo al legislatore16, la pronuncia appare meramente dichiarativa dell’incostituzionalità di omissioni legislative e, come tale, non facilmente armonizzabile con l’art. 136 Cost. e con l’art. 30 della l. n. 87/1953, che postulano la cessazione dell’efficacia e l’annullamento (di una disposizione o) di una norma legislativa come normale, anzi necessario, effetto della dichiarazione d’incostituzionalità.

Si tratta di una questione da valutare anche alla luce del séguito giurisprudenziale delle additive di principio nella prassi più recente.

4. Il séguito delle additive di principio nella prassi recente

4.1. Il séguito della sentenza n. 170 del 2014 sul divorzio imposto

Nella giurisprudenza più recente, sembrava ascrivibile alla categoria delle pronunce dichiarative la sentenza n. 170 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni della legge n. 164 del 1982 in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso.

Tali disposizioni sono state dichiarate costituzionalmente illegittime “nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore” (corsivo non testuale).

Il dispositivo censura l’omessa previsione della possibilità, in presenza della richiesta di entrambi i coniugi, di “mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore”, fermo restando lo scioglimento del matrimonio a séguito di rettificazione di sesso.

Va detto che il petitum contenuto nell’ordinanza di rimessione era di segno diverso, chiedendo la Corte di cassazione una pronuncia di accoglimento parziale. Veniva infatti sollevata la questione di legittimità

16 Cfr. le sentenze n. 277/1991, 243/1993, 185 e 417/1998; 309/1999; 390/2000; 196/2004, capo 7 disp.; 219/2005. Su questo aspetto, da ultimo, Guazzarotti, 31 s.

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costituzionale dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso)17, “nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale”.

La Corte costituzionale si è discostata da tale formulazione dell’impugnazione, confermando come il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 27 della legge n. 87 del 1953) non escluda, nel sindacato in via incidentale, il potere della Corte di precisare il thema decidendum.

A fronte dell’apparente difficoltà di colmare in sede giurisprudenziale la lacuna censurata dalla Corte costituzionale, la sentenza n. 8097 del 2015 della Corte di cassazione, prima sezione civile, giudice a quo nel procedimento in via incidentale definito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 170 del 2014, ha dato di quest’ultima, a séguito di riassunzione, una lettura in qualche misura inaspettata18.

Secondo la Corte di cassazione, il dispositivo additivo di principio riportato non esclude la normale portata caducatoria della decisione d’incostituzionalità. La Corte costituzionale avrebbe infatti almeno implicitamente accertato l’incostituzionalità del cosiddetto divorzio imposto in mancanza – e a causa della mancanza – di una protezione giuridica degli ex coniugi, nelle more dell’approvazione della necessaria regolamentazione legislativa, poi intervenuta con la legge n. 76 del 2016, la quale, all’art. 1, comma 27, stabilisce che, “alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”, quindi l’applicazione dei primi 35 commi dell’art. 1 della legge n. 76.

Secondo la citata sentenza della Corte di cassazione, la decisione costituzionale imporrebbe al giudice ordinario un immediato adeguamento al principio inderogabile da essa affermato: “Nella specie tale adeguamento … non può che comportare la rimozione degli effetti della caducazione automatica

17 Nella formulazione anteriore all’abrogazione intervenuta per effetto dell’art. 36 (recte: 34 c. 39) del d.lgs. n. 150 del 2011.18 Si tratta di una lettura larga misura, ma non del tutto, inaspettata, avendo la Cassazione nella sostanza accolto la soluzione proposta da B. Pezzini, A prima lettura (la sent. 170/2014 sul divorzio imposto), in www.articolo29.it, 2014, alla quale ha aderito G. Brunelli, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti: la sentenza n. 170 del 2014 sul c.d. “divorzio imposto”, in www.articolo29.it, 2014.

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del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell’unione fino a che il legislatore non intervenga a riempire il vuoto normativo”.

In questo caso, la soluzione interlocutoria adottata dalla Suprema Corte ha esonerato quest’ultima dal compito di delineare la disciplina di un’altra forma di convivenza registrata, in effetti non agevole da introdurre in via pretoria in attesa dell’evocato intervento legislativo, pur non essendo estraneo alla giurisprudenza di legittimità lo sforzo di proporre eccezionalmente modelli, anche procedurali, di garanzia dei diritti costituzionali in attesa del necessario intervento legislativo (si pensi alla sentenza sul caso Englaro, non preceduta da una declaratoria di incostituzionalità, e a quella delle Sezioni Unite sul parto anonimo, sulle quali si torna più avanti).

In questi casi, il divieto di non liquet che caratterizza l’attività giurisdizionale pone il giudice davanti alla scelta tra una forzatura necessaria a fini di garanzia e il rigetto della domanda per mancanza del meccanismo legislativo considerato dall’additiva di principio necessario, la cui introduzione costituisce un obbligo per il legislatore (con riferimento alla prassi tedesca delle decisioni d’incompatibilità si parla di Nachbesserungspflicht).

La vicenda richiamata ripropone la questione delle decisioni additive di princìpi apparentemente rivolte solo al legislatore, in considerazione sia delle esplicite indicazioni contenute nella sentenza stessa, sia della difficoltà del loro immediato utilizzo in sede giudiziaria.

Si tratta di decisioni il cui séguito giurisdizionale ha talora evidenziato una sostanziale incapacità di esprimere soluzioni applicative conformi ai princìpi indicati dalla Corte costituzionale. Nel periodo più recente, sforzi giurisprudenziali significativi sono stati tuttavia compiuti, specialmente – e, nella prospettiva nomofilattica, opportunamente – in sede di legittimità, per garantire un séguito conforme, a partire, in particolare, dalla premessa della necessaria portata caducatoria della pronuncia costituzionale.

Come si è detto, si tratta di una premessa discussa in sede teorica.Nei casi nei quali la sentenza additiva di principio si presenta come

indirizzata solo al legislatore, la pronuncia appare in effetti meramente dichiarativa dell’incostituzionalità di omissioni legislative, non in linea, si è osservato, con l’art. 136 della Costituzione e con l’art. 30 della legge n. 87 del 1953, che postulano l’annullamento di una norma legislativa come normale, anzi necessario, effetto della dichiarazione d’incostituzionalità19; 19 Cfr. su questo aspetto A. Celotto, Corte costituzionale e legislatore. Riflessioni sugli interventi normativi volti a limitare l’efficacia nel tempo di decisioni di incostituzionalità, in F. Modugno (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, I, I “vincoli” alla funzione legislativa, Milano, 1999, pp. 160 ss.; P. Falzea, Norme, principi, integrazione. Natura, limiti e seguito giurisprudenziale. Natura, limiti e seguito giurisprudenziale delle sentenze

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né, d’altro canto, in armonia con l’incidentalità e la concretezza del giudizio costituzionale, che postulano la caducazione di una norma applicabile nel giudizio a quo20.

Si è ricordato come tale duplice requisito sia da una parte della dottrina ritenuto soddisfatto in considerazione della configurabilità dell’additiva come decisione diretta, attraverso la sua parte ablatoria, a invalidare una norma implicita di esclusione.

Nel caso delle additive di principio, tuttavia, non sempre è agevole individuare l’oggetto dell’annullamento in una norma di esclusione. Non si tratta infatti, di regola, di esclusioni accreditabili come implicite nella disposizione impugnata, cioè ricavabili argomentando a contrario a partire da quest’ultima; bensì, piuttosto, di norme inespresse e, in ultima analisi, latenti, o apocrife21, come nel caso della sentenza n. 170 del 2014, posto che le disposizioni denunciate non contengono alcun implicito riferimento alla esclusione della possibilità di proseguire “un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima”, né ad esse può essere imputata l’esclusione implicita di tale inedito e imprecisato istituto. Su tutto questo, la disposizione impugnata, semplicemente, tace.

Rimane aperto dunque il problema relativo alla necessità di armonizzare la prassi delle additive di principio “meramente dichiarative” con gli articoli 136 della Costituzione e 30 della legge n. 87 del 1953, che postulano, rispettivamente, la cessazione dell’efficacia e l’obbligo di disapplicazione della norma dichiarata incostituzionale, giacché non è sempre possibile imputare fondatamente alle disposizioni impugnate una norma implicita di esclusione di quanto ritenuto, peraltro in termini generici, costituzionalmente imposto dalla parte additiva della sentenza, ciò che appare particolarmente arduo quando l’omissione incostituzionale si presenti come “assoluta”22, in quanto non configurabile come riflesso negativo di previsioni espresse non sufficientemente inclusive, suscettibili di estensione in applicazione dei princìpi formulati nell’additiva23.

costituzionali a contenuto indeterminato, Torino, 2005, pp. 64 ss. 20 R. Romboli, La legittimità costituzionale del “divorzio imposto”: quando la Corte dialoga con il legislatore, ma dimentica il giudice, in Il Foro italiano, 2014.21 R. Guastini, Distinguendo ancora, Madrid, Marcial Pons, 2013, p. 262, peraltro con riferi-mento alla generalità delle sentenze additive. 22 A. Ruggeri, Questioni di diritto di famiglia e tecniche decisorie nei giudizi di costituzionalità (a proposito della originale condizione dei soggetti transessuali e dei loro ex coniugi, secondo Corte cost. n. 170 del 2014), in www.giurcost.org, 2014. 23 Sul tema, da ultimo, C. Panzera, Interpretare Manipolare Combinare. Una nuova prospettiva per lo studio delle decisioni della Corte costituzionale, Napoli, ESI, 2013, pp. 137 ss.

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D’altro canto, benché inappagante sul piano della tutela sostanziale, una pronuncia meramente dichiarativa non può ritenersi assimilabile a una decisione d’inammissibilità per discrezionalità del legislatore, o di rigetto con monito, poiché essa accerta pur sempre, e dichiara, l’illegittimità costituzionale di un’omissione legislativa, con affermazione di un corrispondente obbligo di adeguamento in capo al legislatore24.

Appare in ogni caso condivisibile il rilievo circa la problematicità della tecnica di decisione meramente dichiarativa rispetto alle esigenze di tutela delle posizioni soggettive, nell’ambito di un giudizio di natura incidentale.

4.2. La sentenza n. 278 del 2013 sul parto anonimo

Sulla necessità di riportare il modello decisorio in discorso al paradigma delineato dagli articoli 136 della Costituzione e 30 della legge n. 87 del 1953 e, in generale, sulla posizione del giudice di fronte alle additive di principio, le Sezioni unite civili sono intervenute, con una pronuncia di portata sistematica, per indirizzare la giurisprudenza chiamata a dare un seguito alla sentenza n. 278 del 2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione della legge n. 184 del 1983 “nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata … – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.

In motivazione, la Corte costituzionale premette che “sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni”25. Ciò nondimeno, la Corte di cassazione, Sezioni unite civili, con la sentenza n. 1946 del 2017 ha elaborato una soluzione applicativa conforme ai princìpi indicati dalla sentenza n. 278 del 2013 e, ciò che maggiormente interessa, ha proposto

24 A proposito dell’effetto non cassatorio ma obbligatorio delle decisioni d’incompatibilità del Tribunale costituzionale federale tedesco si ragiona di obbligo di adeguamento, o di riforma (Nachbesserungspflicht), sul quale cfr. K. Schlaich, Das Bundesverfassungsgericht. Stellung, Verfahren, Entscheidungen, München, C. H. Beck, 2012, pp. 295 ss. e, anche per una compa-razione con la prassi italiana, G. Cerrina Feroni, Giurisdizione costituzionale e legislatore nella Repubblica federale tedesca. Tipologie decisorie e Nachbesserungspflicht nel controllo di costituzio-nalità, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 297 ss.25 Volte a consentire, prosegue la sentenza delle Sezioni unite, “la verifica della perdurante attuali-tà della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto”.

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una chiave di lettura delle giurisprudenza costituzionale additiva destinata a guidare l’opera dei giudici comuni in termini poi da ultimo ripresi dalla stessa Corte costituzionale26.

La sentenza delle Sezioni unite muove dalla necessità di dare della giurisprudenza additiva di principio una lettura armonizzata con l’art. 136 della Costituzione: “Trattandosi di una sentenza di illegittimità costituzionale, essa produce gli effetti di cui agli artt. 136 Cost. e 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale: la norma dichiarata costituzionalmente illegittima – nella specie, l’implicita esclusione di qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare, dinanzi al giudice, un procedimento atto a raccogliere l’eventuale revoca, da parte della madre naturale, della dichiarazione originaria – «cessa di avere efficacia» e «non [può] avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»”.

La pronuncia della Suprema Corte si pone nel solco della giurisprudenza costituzionale, osservando che la circostanza che la pronuncia d’incostituzionalità “consegni l’addizione ad un principio, senza introdurre regole di dettaglio self-executing … non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio, né implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti”.

Di notevole interesse, anche in rapporto al regime degli effetti della declaratoria di incostituzionalità, è, in particolare, la precisazione per cui “l’affermazione di principio contenuta nel dispositivo di incostituzionalità non è semplice espressione di orientamento di politica del diritto, destinata a trovare realizzazione a condizione di un futuro intervento del legislatore che trasformi la pronuncia della Corte costituzionale in regole di diritto positivo. Essa è, invece, diritto vigente, capace di valere per forza propria, in quanto derivante dalla Costituzione: la legge alla quale il giudice è soggetto per il principio di legalità nella giurisdizione (art. 101, secondo comma, Cost.) è quella che risulta dalla addizione del principio ad opera della sentenza di illegittimità costituzionale” (corsivo non testuale).

Tale affermazione prende le distanze dall’orientamento dottrinale che annette alla sola parte ablatoria della sentenza additiva effetti vincolanti, riconoscendo valore meramente persuasivo alla parte aggiuntiva della pronuncia, considerata alla stregua di una proposta agli interpreti per l’integrazione dell’ordinamento reso lacunoso dalla parte caducatoria della sentenza.

26 Corte cost., sentenza n. 105 del 2018.

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Si tratta di un modello di decisione che affida ai giudici comuni il compito di colmare la lacuna costituzionalmente illegittima attraverso soluzioni pretorie, talora molto articolate, elaborate nel quadro dei princìpi, di derivazione costituzionale, delineati dalla Corte, in attesa dell’intervento legislativo.

Il modello in discorso s’inquadra nella tendenza della giurisdizione costituzionale italiana a coinvolgere sistematicamente il giudiziario, al di là dell’“iniziativa diffusa” in sede d’instaurazione del giudizio incidentale, nella “risoluzione della questione di legittimità costituzionale” (art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953) tanto a monte, per il tramite dell’interpretazione conforme a Costituzione e ai parametri sovranazionali, che evita il profilarsi della questione stessa, quanto a valle, sul piano dell’assicurazione di un séguito giurisprudenziale conforme ai princìpi formulati nelle decisioni costituzionali oggetto del presente scritto.

Si tratta di un intervento del giudice comune spesso molto impegnativo ma, in linea di massima, sebbene di tipo integrativo più che interpretativo, meno libero rispetto all’interpretazione costituzionalmente orientata, che offre all’interprete la possibilità di scegliere tra opzioni anche molto diverse, talora di segno opposto, o connotate da un grado variabile di conformità ai princìpi costituzionali27, laddove il séguito di un’additiva di principio è guidato da quanto in essa indicato.

Tale intervento viene percepito come non suscettibile di interferire con la discrezionalità riservata al legislatore, posto che, come si legge nella sentenza delle Sezioni unite, “la riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, 27 Si tratta di una variante dell’interpretazione conforme a Costituzione eccedente le esigenze propriamente adeguatrici, di individuazione di un’interpretazione conforme in alternativa ad una contraria al parametro costituzionale, diretta a privilegiare, come si legge anche in G. Alpa, Diritto pubblico e privato, cit., p. 44, “tra più interpretazioni quella più conforme al dettato costituzionale” (corsivo non testuale), anche per il tramite della declaratoria di inammissibilità per omesso tentativo di interpretazione conforme. Non è possibile soffermarsi in questa sede su tale variante dell’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a optare, tra più interpretazioni costituzionalmente compatibili, o “indifferenti”, per quella “maggiormente” conforme a Costituzione, in un'ottica di (talora problematica) attivazione del potere giudiziario sul terreno della massima diffusione dei princìpi e dei programmi costituzionali, sulla quale si rinvia a G. Amoroso, G. Parodi, Il giudizio costituzionale, Milano, 2015, e a V. Sciarabba, L'“intepretazione conforme” tra sindacato diffuso (su “norme”) e ipotesi di “graduazione della costituzionalità”: spunti di riflessione, in Bindi-Perini-Pisaneschi (cur.), Principi generali del processo comune ed i loro adattamenti alle esperienze della giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 2008. Sull’interpretazione conforme a Costituzione e sulle sue implicazioni più problematiche cfr. ora M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del diritto, Annali IX, Milano, 2015.

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nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore – di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, di cui è parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva” (corsivo non testuale).

In questo passaggio, è chiara la contrapposizione tra la posizione del legislatore, connotata da “discrezionalità politica” rispetto alla scelta tra una pluralità di soluzioni normative possibili, e quella, strutturalmente connotata da eteronomia, del giudice comune, il quale è chiamato a elaborare soluzioni giurisprudenziali, anche articolate e creative, senza “produrre un quid novi sulla base di una libera scelta”, ma individuando per la definizione della concreta controversia una “regola del caso singolo” desunta dal sistema e dal “principio vincolante” enunciato dalla Corte costituzionale, parametri eteronomi, come si è detto, significativamente ricondotti al principio di legalità della giurisdizione e di soggezione del giudice alla legge.

In tale prospettiva, la sentenza delle Sezioni Unite si preoccupa di articolare un vero e proprio decalogo – riconducibile alla funzione di nomofilachia – per la disciplina nel caso concreto del procedimento di interpello della madre anonima, secondo un modello non inedito, che ricorda la meno recente e già menzionata pronuncia sul caso Englaro28.

A differenza dalla sentenza sul divorzio imposto, quella sul parto anonimo appare più agevolmente riconducibile all’ipotesi di ammissibilità del petitum additivo di principio ricollegato ad una questione di costituzionalità duplice, comprendente cioè un aspetto ablativo e un aspetto aggiuntivo.

4.3. La giurisprudenza sull’indennità di maternità in favore del padre adottivo libero professionista

Una qualche attitudine a trovare applicazione in sede giudiziale sembrava presentare la sentenza n. 385 del 2005, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni del decreto legislativo n. 151 del 2001 “nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di

28 Corte di cassazione, Sez. I civile, 16-10-2007, n. 21748, dovuta allo stesso relatore. Quest’ultima pronuncia, pur non concernente il séguito di una sentenza additiva, è basata sulla premessa secondo la quale “pur a fronte dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali”.

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percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima”, pur dopo aver premesso al dispositivo che, “nel rispetto dei principî sanciti da questa Corte, rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela”.

Anche in questo caso, il séguito si è rivelato di segno in parte diverso rispetto alle previsioni.

La sentenza n. 385 del 2005 enuncia il principio per cui anche al padre adottivo libero professionista deve riconoscersi, in alternativa alla madre, l’indennità di maternità per l’ingresso del bambino adottato o affidato (a condizione che non abbia superato i sei anni di età29).

Sebbene la sentenza non precisi le modalità per il riconoscimento dell’indennità in alternativa alla madre, riservando al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela, il quadro normativo nel quale l’additiva di principio si è innestata appariva idoneo a suggerire soluzioni integrative suscettibili di essere adottate medio tempore, in attesa dell’intervento del legislatore30.

Nella giurisprudenza successiva, diverse pronunce, anche di legittimità, hanno tuttavia rimarcato la natura di additiva di principio “non autoapplicativa”, o meramente dichiarativa, della sentenza n. 385 del 2005.

Da ultimo, è stata decisa dalla Corte costituzionale una questione sollevata dalla Corte d’appello di Trieste concernente le stesse disposizioni del decreto legislativo n. 151 del 2001, impugnate sotto profili in buona parte analoghi, basata anch’essa sul presupposto del carattere non autoapplicativo della sentenza n. 385 del 200531.

Sulla questione sollevata dalla Corte d’appello di Trieste, che ha inteso la sentenza n. 385 del 2005 come pronuncia meramente dichiarativa, è intervenuta da ultimo la sentenza n. 105 del 2018, la quale, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni sollevate, ribadisce la dottrina della Corte

29 Art. 72 d. lgs. n. 151 del 2001.30 In particolare, per regolare nel caso singolo l’accordo tra i genitori adottivi o la rinuncia della madre, il decreto legislativo n. 151 del 2001 (all’art. 31) prevede, per il padre lavoratore subordinato, che per adozioni e affidamenti il congedo che non sia stato chiesto dalla lavoratrice, spetta, alle medesime condizioni, al lavoratore. Pur trattandosi non di congedo ma di indennità, a tale meccanismo il giudice potrebbe fare riferimento per attuare nel caso concreto il principio somministrato dalla Corte, come del resto ha fatto una parte della giurisprudenza di merito.31 I medesimi articoli 70 e 72 del decreto legislativo n. 151 del 2001 erano stati infatti censurati nella parte un cui, peraltro in conformità all’interpretazione datane in primo grado, “vietano in sostanza l’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato a tale prestazione”.

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sul ruolo del giudice comune di fronte le decisioni additive di principio “in continuità con la giurisprudenza di questa Corte”, richiamando la sentenza n. 295 del 1991, già ricordata.

Nella sentenza n. 105 del 2018 si afferma che “le dichiarazioni di illegittimità costituzionale corredate dall’addizione di un principio, enunciato in maniera puntuale e quindi suscettibile di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta … anche quando la sentenza ne ha rimesso l’attuazione al legislatore” (corsivo non testuale).

La declaratoria di inammissibilità delle questioni sollevate si fonda quindi sulla premessa per cui la Corte non può pronunciarsi una seconda volta sulla stessa questione, “come richiede il giudice a quo, indotto dalla considerazione che non si possa altrimenti dirimere la controversia pendente”.

Il principio di parità tra i genitori adottivi, aggiunge la Corte, “conforma … la disciplina dell’indennità di maternità, che oramai vive nell’ordinamento, innervata dal principio ordinatore che questa Corte ha introdotto, come peraltro affermato anche dalla Corte di cassazione in una pronuncia recente (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 27 aprile 2018, n. 10282). In conclusione, al principio, enunciato in maniera puntuale nei termini di una perfetta parità tra i genitori adottivi, il giudice dovrà dunque fare riferimento per individuare un criterio di giudizio della controversia che è chiamato a decidere”.

La decisione costituzionale in commento, unitamente al richiamato orientamento del giudice di legittimità, tende a negare la possibilità di intendere le additive di principio alla stregua di pronunce meramente dichiarative dell’incostituzionalità rivolte solo al legislatore, riportando la prassi delle additive di principio al modello prefigurato dalle previsioni costituzionali e legislative sugli effetti della dichiarazione d’illegittimità costituzionale.

Viene così precisato il paradigma teorizzato con la sentenza n. 295 del 1991, che faceva riferimento, ponendovi l’accento, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una omissione legislativa, trasformando l’indicazione tendenziale secondo la quale il giudice comune “è abilitato a fare riferimento” al principio somministrato dalla Corte in attesa dell’intervento legislativo “per porre frattanto rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto”, in un obbligo di integrazione del sistema reso lacunoso dalla (parte ablatoria della) sentenza additiva, per il tramite del principio medesimo.

Il seguito delle additive di principio risulterà così in alcuni casi adeguatamente guidato dai criteri indicati nella pronuncia della Corte, in

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altri, l’attività giurisprudenziale necessaria per ripianare la lacuna contraria a Costituzione impegnerà il giudice comune in un’opera di integrazione accentuatamente creativa, seppure indirizzata dalla pronuncia costituzionale, nelle more del necessario intervento legislativo, con esclusione della possibilità di assumere il carattere “non autoapplicativo” della decisione costituzionale.

Nella sentenza oggetto del presente paragrafo si afferma infatti che “è dovere del giudice, chiamato ad applicare la Costituzione e le sentenze che questa Corte adotta a garanzia della stessa, fondare la sua decisione sul principio enunciato, che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione”32.

5. Le sentenze additive a dispositivo indeterminato

Volendo completare l’esame della più recente giurisprudenza costituzionale additiva volta ad impegnare maggiormente i giudici comuni sul piano del seguito da assicurare alle pronunce della Corte, occorre ricordare che, in dottrina, si è proposto di includere, all’interno della categoria delle decisioni additive di principio, le sentenze additive dirette “ad evitare molte questioni analoghe e parallele” in una logica, si è detto, di “analogia anticipata”, cosicché, in questi casi, “l’additiva di principio svolge una funzione equivalente a quella dell’invalidità conseguenziale per stretta analogia, di cui anticipa il risultato”33.

Un buon esempio è costituito dalla recente sentenza n. 77 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile34, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”; analoghe, s’intende, alle

32 La Corte ha inoltre richiamato la sentenza delle Sezioni unite sopra considerata, ricordando che “in tale direzione … si è già orientato il diritto vivente, quando ha affermato che, nelle more dell’intervento legislativo, la norma applicabile, idonea a produrre effetti nell’ordinamento, è solo quella che si ispira al principio enunciato da questa Corte (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 25 gennaio 2017, n. 1946)”.33 Cerri, Corso di giustizia costituzionale plurale, Milano, 2012. 271 s.34 Nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162.

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due ipotesi dell’assoluta novità della questione trattata e del mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

In questi casi difetta il presupposto delle “rime non obbligate”, ciò che, a rigore, fa venir meno una delle premesse delle additive di principio, secondo la definizione proposta.

Sebbene la questione abbia un carattere più che altro definitorio e classificatorio, appare opportuno segnalare la differenza strutturale e funzionale tra le additive di principio, a dispositivo generico, e le additive a dispositivo indeterminato, che conviene ascrivere al novero delle additive di prima generazione.

Le additive a dispositivo indeterminato presuppongono infatti un’integrazione dell’ordinamento univocamente imposta dalla Costituzione, seppure indicata nel dispositivo in termini indeterminati, tali da lasciare agli organi dell’applicazione un margine di discrezionalità interpretativa particolarmente accentuato.

Nel caso della sentenza n. 77 del 2018, si rimette all’interprete il compito di individuare le ipotesi nelle quali ricorre l’eadem ratio che giustifica la compensazione delle spese: “Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» − sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti”.

La sentenza additiva a dispositivo indeterminato si caratterizza quindi per l’ampia discrezionalità interpretativa che attribuisce all’organo dell’applicazione. Le fattispecie analoghe, si legge nella sentenza n. 77, “ove concernenti una ‘questione dirimente’ al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari ‘gravità’ ed ‘eccezionalità’, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia”.

Le sentenze additive a dispositivo indeterminato non postulano quindi l’irreperibilità di una soluzione univocamente desumibile dalla Costituzione, ma si caratterizzano per una indeterminatezza maggiore rispetto ai dispositivi “autoapplicativi” delle cosiddette additive di regole35.

Le decisioni additive in discorso attribuiscono agli organi giurisdizionali

35 Cfr. ad esempio, sent. n. 218/1994; 303/1996; 239 e 312/1998; 253/2003; 367/2004; 19 e 151/2009, capo secondo del dispositivo; 20/2010; 57, 203 e 213/2013.

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il compito di procedere a delicate operazioni di concretizzazione e, talora, di bilanciamento “in concreto”36.

Va detto che la distinzione tra additive a dispositivo “preciso” e “indeterminato” è tutt’altro che netta, essendo spesso opinabile se un determinato termine, impiegato per la formulazione del dispositivo, sia o meno da includere tra i cosiddetti “concetti giuridici indeterminati” (unbestimmte Rechtsbegriffe), posto che la generalità dei termini del linguaggio comune è, com’è ovvio, caratterizzata da un certo grado di indeterminatezza37.

36 Cfr. ad esempio la sent. n. 110/2012, che ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’arti-colo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-l. 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui − nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari − non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi spe-cifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure” (corsivo non testuale). 37 Oltre alla sent. n. 231/2013, appena citata, tra i tanti esempi, cfr. il dispositivo della sent. n. 295/2009, che dichiara l’incostituzionalità di una disciplina in tema di pubblico impiego, “nella parte in cui non consente, allorché sia intervenuta la guarigione, la possibilità di presentare istanza di riammissione nel ruolo di provenienza” (corsivo non testuale).

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Geminello Preterossi

Un diritto per l’emancipazione sociale

Sommario: 1. Politica dei diritti – 2. Patriottismo costituzionale.

1. Politica dei diritti

Quando si parla di diritti, cioè di uno dei cardini del discorso giuridico moderno, occorre tanto sottrarsi alla retorica e al loro uso strumentale, quanto riconoscere la funzione di identificazione mobilitante che essi hanno svolto, e continuano ad adempiere nei più diversi contesti, quale aggancio simbolico per contestare il potere fuori controllo (sia politico-disciplinare sia economico-mercificante) e realizzare i propri piani di vita. É indubbio che soprattutto le nuove generazioni dei diritti, e in particolare quelli sociali, abbiano imposto un riorientamento degli ordinamenti, che obbedisce a quel movimento ascendente del potere, dal basso verso l’alto, che caratterizza, seppur tra molte aporie, la legittimazione del diritto moderno. A un certo punto, con l’età delle masse, questa presa di parola individuale è uscita dalla dimensione borghese, si è fatta spinta emancipativa, e ha imposto la costruzione di una cittadinanza sociale e di vincoli solidaristici. Autonomia dei soggetti e autodeterminazione collettiva non solo hanno dimostrato di poter avanzare insieme, ma si sono saldate, generando il sostrato sociale della democrazia costituzionale. E’ soprattutto questo equilibrio tra elemento politico ed elemento garantistico, tra promozione dell’interesse generale e tutela di quello individuale, a essere entrato oggi in crisi. A me pare che la cifra della vocazione giuridica di Guido Alpa sia rappresentata proprio dalla consapevolezza della novità dirompente che il diritto delle costituzioni post-borghesi comporta, anche nell’ambito privatistico 1: Egli ne ha saggiato e rivisitato profondamente le categorie, portando avanti una costante, proficua critica delle incrostazioni dogmatiche (sulla scia della lezione di Stefano Rodotà). Tale innovazione metodologica apre lo spazio per difendere

1 G. Alpa, Che cos’è il diritto privato?, Laterza, Roma-Bari 2009.

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G. Preterossi

e valorizzare i diritti negati e a lungo indicibili, ma non semplicemente come posizioni individuali – più o meno forti - da tutelare, bensì quali fattori di un disegno complessivo di incivilimento sociale.

Come ha mostrato Norberto Bobbio2, i diritti “giuridici” sono frutto di lotte per il loro riconoscimento, e di atti di positivizzazione. In questo senso, i diritti non sono naturali, ma storici. L’età dei diritti è sì segnata dal giusnaturalismo moderno (centrato sul soggetto, e non sulla “creatura” collocata in un ordine cosmico oggettivo e fornito di una garanzia superiore). Ma quel paradigma del diritto naturale serve a polemizzare contro il diritto vigente e a rovesciarlo, sostituendovi un nuovo diritto positivo, in grado non solo di riconoscere un sistema di valori diverso, ma di proporsi come progetto sociale da realizzare3 (da qui un compito costituzionale rilevantissimo per la politica, seppur negli alvei definiti dal nucleo indisponibile delle costituzioni4). La nuova antropologia del soggetto, tipica della modernità, è tanto un presupposto ideale del diritto positivo - allo stesso tempo universalistico e politico - inaugurato dalla Rivoluzione francese (e, seppur in un contesto storico-spaziale ben diverso, anche da quella americana, che rappresenta una sorta di seconda radice, per certi versi alternativa, del cosiddetto “Occidente”), quanto un fine alla cui piena realizzazione aprire la strada, costruendo attraverso la politica dei diritti le condizioni della loro effettività. Principi e diritti fondamentali costituiscono, per il loro contenuto etico-politico, un ponte “positivo” (cioè giuridico) tra ideale e reale, un argine e al contempo un progetto che necessita di una politica conseguente: se questo ponte viene disabilitato è lo stesso impianto materiale della Costituzione che collassa, determinando una frattura nel rapporto tra governati e governanti, che non è recuperabile per vie indirette (da quella giurisdizionale, pur preziosa in chiave di presidio della legalità costituzionale, a quella invece opaca della delega in bianco ai “tecnici”).

Quanto ricordato vuol dire che le idee sui diritti hanno certamente contato molto: anzi, mostra come esse siano state l’alimento della cultura dei diritti e delle regole5. Saldandosi a bisogni reali, hanno generato le trasformazioni costituzionali, democratiche e sociali dello Stato moderno. Ma sono sempre dovute passare, quelle idee, attraverso un trasmettitore 2 Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2005.3 M. Fioravanti, Costituzione, Il Mulino, Bologna 1999. 4 L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, Roma-Bari 2013. 5 Cfr. la ricostruzione del nesso teorie-ideologie-dottrine giuridiche nel diritto italiano in G. Alpa, Diritto civile italiano, Il Mulino, Bologna 2018.

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politico, cioè il filtro della volontà e del conflitto, dei rapporti di forza e dell’istituzionalizzazione. La dimensione ideale, pre-giuridica dei diritti, è fondamentale, ma non può essere di per sé fonte e criterio di identificazione della loro giuridicità. Anche i diritti soggiacciano al principi di delegazione e di autorità, non sono deducibili da un “assoluto” (peraltro tendenzialmente polemogeno, in società post-tradizionali): auctoritas, non veritas facit iura. Nel giusrazionalismo moderno la ratio passa dalla voluntas. Ed è, perciò, sempre una questione politica, di egemonie e contro-egemonie. Inoltre, dal punto di vista istituzionale, l’effettività dei diritti è una questione di garanzie ordinamentali, non di presunti automatismi logici o morali, facilmente catturabili dalla “neutralità” per eccellenza, quella tecnico-finanziaria.

Se si guarda, seppure in estrema sintesi, ai diritti dal punto di vista storico-filosofico, mi pare si possano evidenziare alcuni punti decisivi, validi per orientarsi ancor oggi: i diritti sono moderni; la loro “matrice hobbesiana” conta molto di più di quanto di solito non si sia disposti ad ammettere, seguendo una versione bonificata del liberalismo (i diritti non solo come limite preesistente all’ordinamento e indipendente da esso, ma come espressione di una sostanza morale immutabile ed eterna, instillata nell’individuo). Come se i soggetti non fossero sempre delle costruzioni, dipendenti dall’ordine, nel senso che sono “soggettivati” da un “ordine del discorso”, che li forgia o comunque condiziona e rispetto al quale, allo stesso tempo, essi si costituiscono differenziandosi, anche antagonisticamente. Pertanto, qualsiasi discorso sui diritti non può che essere anche un discorso sui poteri. I diritti (moderni) nascono nell’alveo dello Stato, in rapporto dialettico con la vicenda della sovranità (che quando diventerà “popolare”, sarà espressione esplicita dell’eccedenza dei diritti che, facendo massa critica in un aggregato collettivo, sono in grado di generare un’energia politica). Perché il diritto ad avere diritti6 si manifesti, occorre che sia previamente risolta la questione della sicurezza (sia civile, come sistema di astensioni dalla violenza, sia sociale, come protezione dalla roulette socio-naturale e creazione di condizioni minime di sussistenza). Soprattutto in una società di individui che si aggregano, la quale non può contare su risorse di senso comunitarie presupposte, la vulnerabilità sociale diviene maggiore, e il suo controllo il dato intorno al quale si gioca sempre la partita della legittimazione (soprattutto in periodi di crisi economica). Quindi, guardando all’origine cinque-seicentesca, la neutralizzazione delle guerre civili (in cui può vigere solo lo ius in omnia) rappresenta il presupposto del godimento dei diritti. Spostando lo sguardo sugli esiti contemporanei (e in particolar modo

6 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2013.

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meditando la lezione novecentesca, che oggi pare dimenticata), Welfare e diritti sociali si confermano sempre più come il fattore di integrazione imprescindibile per la tenuta delle democrazie. Il paradosso dei diritti nello Stato costituzionale è che essi sono argine al potere, ma allo stesso tempo hanno bisogno di un potere istituzionalizzato: la loro affermazione tenderà a mutarne modalità di esercizio e legittimazione, ma non a superarlo, a renderlo superfluo. L’idea che i diritti servano a liberarci definitivamente dal potere è ingenua e autolesionistica. Inoltre, i diritti hanno bisogno di un contesto, nel quale sia possibile agire una conflittualità non distruttiva e definire indirizzi politici funzionali alla loro realizzazione. Pertanto, il globalismo mercatista e lo spazio post-politico della governance non rappresentano un terreno favorevole alla fioritura dei diritti (tranne che dei più forti).

Nei diritti, nella rivendicazione originaria che hanno alle spalle e che esprime l’energia della soggettività, c’è una dimensione attiva, auto-espressiva, che rappresenta qualcosa di diverso, e più dinamico, della “non interferenza” liberale. Del resto, il paradigma liberale è fondamentale ai fini dello Stato di diritto, anche se è solo con la sua generalizzazione post-liberale che diviene coerente. Perché il liberalismo ha un suo lato oscuro: i diritti sono proclamati come universali, ma in realtà sono quelli del soggetto proprietario (che riempie quell’universalismo che rappresenta uno straordinario strumento di dogmatica giuridica, ma essendo troppo astratto non ha anticorpi interni rispetto alla gerarchizzazione censitaria, sessuale e razziale dei soggetti); la società borghese è già (in parte) ordinata e omogenea, ma solo perché escludente; lo Stato guardiano sarà minino ma non debole (lo “stato di eccezione” può attivarsi, se serve a difendere l’ordine proprietario); la proiezione esterna del formalismo giuridico liberale è il diritto coloniale e fino a una certa soglia temporale persino la schiavitù.

Il diritto di avere diritti e il riconoscimento della loro politicità non sono in contraddizione: a mio avviso, in quella pre-condizione qualificata come titolarità può essere letta non una statica essenza, uno status, ma la radice energetica e dinamica di una soggettività libera, che può proiettarsi nel mondo solo ponendosi in relazione con altri. C’è, cioè, nel diritto di avere diritti l’idea di una “spinta” che muove la soggettività che lotta per il proprio riconoscimento, e nel far questo contribuisce a costruire le condizioni materiali e simboliche della reciprocità di tale spazio riconoscimentale. Un che di irriducibile, che può sempre manifestarsi e mettere in questione gli assetti di potere dati (sfociando potenzialmente nella forma di vita democratica). Ma al di là dell’eroismo dei singoli, perché ciò accada occorrono contesti di agibilità, uno spazio sociale

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artificiale che formi le soggettività e ne costituisca il campo di esplicazione. Soprattutto, è necessario che quelle soggettività non siano atomistiche, senza relazione. Inoltre, presumibilmente, ci sono delle precondizioni anche per quell’originaria presupposizione di energia che fonda le successive rivendicazioni. Per questo, prima ancora del diritto ad avere dei diritti, e della loro successiva codificazione, si pone la questione della salvezza dei vulnerabili, dei totalmente esposti, la garanzia minimale della sopravvivenza come fine (che, secondo i “truismi” del “contenuto minimo del diritto naturale” di Hart7, è condizione minima di giuridicità). Che non è solo la protezione dalla violenza genocidaria, ma anche quella dalla fame. Poter rivendicare la propria dignità implica non essere totalmente in balia, non essere stato ridotto a cosa, poter alzare il volto da un piatto non vuoto. Significa, dal punto di vista simbolico, essere visibile, non essere sospinto nel campo delle “vite indegne di essere vissute”,8 o semplicemente indifferenti. I meccanismi di de-umanizzazione, di abbandono fino all’oblio, sono sempre in agguato, persino negli Stati costituzionali9. Ma credo sia una forzatura ritenere che sia implicito nei diritti un veleno nichilistico. Certo, è stato necessario inventare i diritti perché l’umano è problematico, come argine ad esso. Ma il fatto che i diritti siano un artificio della volontà (o della ratio che si fa volontà politicamente) non implica che non valgano, che non abbiano generato contesti di emancipazione, che non siano andati ben altre la logica escludente dell’individuo proprietario, del soggetto corazzato. I diritti come espressione di una sovranità dell’individuo indifferente agli altri, è solo una delle interpretazioni possibili della libertà (e dei diritti). Anzi, ne rappresenta un distorcimento, prodottosi in virtù della svolta neoliberista, con la fine del compromesso capitalismo-democrazia10.

Il costituzionalismo novecentesco (soprattutto del secondo Novecento11, sulla scia della lezione di Weimar), invece, esplicita e valorizza l’intersoggettività

7 H. Hart, Il concetto di diritto, ed. it. a cura di M.A. Cattaneo, Einaudi, Torino 2002, pp. 225 ss.8 J. Butler, A chi spetta una vita buona?, trad. it. a cura di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2013. 9 Probabilmente, dall’avvertimento di questo orizzonte elementare negato, che non consente neppure, in molti casi, di lasciare una traccia, nasce la riflessione recente di G. Zagrebelsky in Diritti per forza (Einaudi, Torino 2017). Una riflessione che, però, appare eccessivamente riduzionista, in quanto rischia di ricondurre l’intera grammatica dei diritti (e la stessa storia dei progressi sociali che attraverso di essi si sono realizzati) alla “volontà di potenza” del soggetto occidentale.10 Sul tema, cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, trad. it. a cura di B. Anceschi, Feltrinelli, Milano 2013. 11 Cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari 2017.

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dei diritti. In gioco non ci sono solo “pretese” individuali, ma la legittimazione della società: la lotta contro l’esclusione e la discriminazione, l’affermazione di diritti di riconoscimento legati alle relazioni affettive (che confermano il carattere di trasmettitore simbolico del diritto, che orienta il senso comune e autorizza ciò che prima era stigmatizzato, come nel caso delle unioni omosessuali) non sono questioni privatistiche; potersi curare e poter studiare indipendentemente dalla propria condizione sociale e familiare, l’attivazione dell’ascensore sociale, il progetto di una società orientata a una piena occupazione dignitosamente retribuita e tutelata (il nucleo oggi conculcato della nostra Costituzione, in virtù della smantellamento dello Stato keynesiano) non riguarda solo aspetti materiali, particolari perché economicistici, ma simbolici e universalistici (è qui la differenza con il conservatorismo compassionevole, o con la “tolleranza” delle diversità purché nascoste). I diritti debbono servire non solo a proteggere le persone, ma anche a generare solidarietà, legami pubblici e visibili, in società che non possono contare sulle forme tradizionali di vincolo (che peraltro erano omologanti e a volte violentemente escludenti). Solo che, perché l’individualizzazione lavori anche per il collettivo, occorre una politica robusta e autonoma. Lo spazio in cui si incontrano i piani di vita non è senza conflitti. Il loro amalgama è un’operazione politica, che presuppone molto: contesti, spazi, soggetti articolati, ethos comune e, anche, culture partigiane.

Le soggettività eretiche (ad esempio quelle, oggi, del gender performativo teorizzato da Judith Butler12), che rivendicano la propria differenza autogenerata, il diritto di essere diversi per essere se stessi, se vogliono mantenere una carica contestatrice, essere produttive politicamente e non essere catturate dal neoliberalismo, debbono accettare il terreno della politica come agire collettivo, riconoscere quei contesti politici e spaziali determinati in cui poter avere una proiezione anche rappresentativa, fuggire dalle trappole tanto del godimento/consumo solipsistico quanto della nicchia autoreferenziale. È indubbio che la ricerca se non di un’armonizzazione, di un possibile modus vivendi tra “diritto dell’individualità” e potenze etiche collettive è al centro dell’edificazione degli ordinamenti post-tradizionali. Un’operazione complessa sulla quale pende l’interrogativo sui regimi di compatibilità tra destini del Sé e dinamiche della mente collettiva: una questione di portata generale, resa attualmente più pesante dalla rottura dell’inclusione sociale e dalla conseguente “crisi d’autorità” (per utilizzare la formula gramsciana) apertasi nelle nostre democrazie, effetto e manifestazione della crisi della globalizzazione neoliberale.

12 J. Butler, Questione di genere, Laterza, trad. it. a cura di S. Adamo, Roma-Bari 2013.

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2. Patriottismo costituzionale

La via giuridica all’emancipazione sociale necessita di fiducia nelle istituzioni e partecipazione democratica. Forme e procedure, per quanto necessarie, di per sé non sono sufficienti a riprodurre quella legittimazione quotidiana degli ordinamenti, che implica la costruzione paziente delle condizioni sociali e culturali (lavoro, welfare, giustizia distributiva, formazione, credibilità della classe dirigente), che creano l’habitat del cittadino democratico.

Le comunità politiche poggiano su un senso di appartenenza collettiva. La formula “patriottismo costituzionale” sta a indicare la fedeltà a una comunità politica democratica e pluralista, sulla base dei principi fissati dalla Costituzione. Nel caso di quella italiana, la realizzazione del progetto sociale delineato dall’art. 3, l’autodeterminazione collettiva che presuppone l’inclusione attraverso i diritti (innanzitutto quelli del lavoro e sociali). In quell’articolo, che rappresenta un cardine della costituzionalismo sociale, risiede un senso non meramente procedurale e formale (alla Habermas, che aveva utilizzato l’espressione nel pieno dell’Historikerstreit, in contrapposizione al revisionismo noltiano), ma sostanziale, di patriottismo, all’insegna della giustizia distributiva.

A furia di ripetere il mantra della crisi dello Stato, del diritto pubblico e della stessa sovranità popolare, considerati ferrivecchi o addirittura regressivi, si è lasciato campo libero alla governance tecnocratica e alla polemica antidemocratica in nome delle “competenze” e delle élites “illuminate”, cioè dei ceti di “proprietà” e “cultura” (come li chiamava Rudolf Gneist nell’Ottocento). Ma come si fa a pensare che svilendo lo Stato e la sovranità democratica si possa portare avanti un programma di emancipazione sociale?

Il concetto di sovranità è scandaloso proprio perché in esso convergono grandezze (Stato, popolo, pubblico, autonomia della politica, identità collettive) oggi imprescindibili ai fini della lotta per l’effettività dei diritti sociali e la piena realizzazione di una democrazia progressiva. Non è un caso che rimuovendoli o osteggiandoli si finisca per entrare in rotta di collisione con le istanze dei ceti popolari, e in oggettiva sintonia con quelle neoliberali. Lo Stato è democratizzabile, il mercato no. La sovranità non è, in quanto tale e necessariamente, un potere selvaggio come i poteri economici sregolati, tanto che è stata oggetto di appropriazione dal basso ed è potuta diventare il principio fondante della legittimità democratica (cioè una sovranità costituzionale). Anzi, per disciplinare i poteri economici, è necessario proprio tale potere pubblico, orientato a fini sociali. Mentre

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l’ordine spontaneo del mercato si è confermato una perniciosa illusione. Così, liquidando lo Stato (nazione) si finisce per liquidare anche la democrazia costituzionale.

Ovviamente, è chiaro che il potere è anche un rischio, e che deve essere controllato, ma pensare di poterne fare a meno è puerile: tanto più in un’ottica emancipativa, perché solo attraverso un grande artificio politico è possibile spostare i rapporti di forza. Mentre il potere dominante di natura economica si presenta come un “dato”, quasi una forza naturale, e non ha bisogno dell’attivazione di un’energia politica popolare a fini di trasformazione. La garanzia effettiva dei diritti sociali e della dignità del lavoro passa dal plusvalore politico dello Stato sociale democratico e dalla riaffermazione del primato dell’interesse pubblico su quello privato.

Siamo convinti che il termine “sovranismo”, nell’uso che se ne fa oggi, non abbia un senso preciso, né tantomeno possa essere utilizzato come strumento euristico. È piuttosto un passepartout polemico per squalificare l’interlocutore e sequestrare il dibattito, impedendo una discussione nel merito. Al di fuori di tali logiche simmetriche, uno spostamento di punto di vista proficuo è quello che consente, senza nessun cedimento alla retorica nazionalista, di mettere in questione le mitologie sul post-sovrano e il post-statuale, rimettendo al centro del discorso sul diritto, anche di un diritto all’altezza dell’interazione mondiale, la centralità degli spazi politici e dei contesti concreti come arene del conflitto sociale, per reagire alla spoliticizzazione delle democrazie contemporanee e provare a rilanciare un’agenda pubblica democratica, autonoma rispetto a quella puramente economicistica e tecnocratica13.

La tesi secondo cui ormai sarebbe impossibile e illusorio recuperare sovranità democratica all’interno dello Stato-nazione è figlia dell’ideologia della naturalizzazione della globalizzazione. Come ha mostrato Luciano Gallino nella sua geneaologia del “finanzcapitalismo”14, esso è il frutto di precise decisioni, non di processi oggettivi e automatici. Lo sviluppo tecnologico ha certamente accelerato l’interazione globale, ma politicamente freni e riequilibri sono oltre che necessari possibili (e in realtà già in atto, tanto che si parla di “deglobalizzazione”: che non significa necessariamente mettere indietro le lancette della storia, ma potrebbe rappresentare l’opportunità di uscire dall’assolutismo neoliberista). Infine, siamo così sicuri che la tesi sull’impraticabilità di una riterritorializzazione democratica sia descrittiva, e non serbi invece l’idea, tipica del “progressismo” neoliberale,

13 A. Supiot, La Gouvernance par le nombres, Fayard, Paris 2015. 14 L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011.

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che la globalizzazione sia un bene in sé e che qualsiasi sua messa in questione (anche di segno “costituzionale”), non sia augurabile? Del resto, l’ipotesi inversa, quella di un ordine mondiale costituzionalizzato e di una democrazia sovranazionale (di cui non vi è traccia nella storia), è una prospettiva ad oggi del tutto ipotetica e ben poco realistica. Conflitti e indirizzi politici hanno bisogno di contenitori reali; la stessa cooperazione internazionale li presuppone. Non è a un caso che la globalizzazione sia caratterizzata dalla caduta verticale della solidarietà internazionale (ad esempio rispetto alle lotte dei popoli oppressi: si pensi a quella dei palestinesi), cui fa pendant un umanitarismo strumentale e incoerente.

A dispetto del gran discettare, dopo il 1989, di governo mondiale, governance e multilevel system of governament, la verità è che una democrazia sovranazionale non esiste (del resto, le forme politiche che l’Occidente ha inventato sono fondamentalmente tre: città, Stati e imperi15; e quella più vicina alla forma multinazionale è l’impero). Non si dà, né si capisce cosa possa essere, una sovranità “sovranazionale”. Mentre una sovranazionalità “non sovrana” è, se possibile, ancora più vaga politicamente e soprattutto troppo debole rispetto ai poteri economici globali. Se l’Europa diventasse uno Stato federale (prospettiva che oggi appare irrealistica), sarebbe sovrana come “unione” (con le peculiarità date dalla preesistenza di unità politico-culturali diverse, che ne generano una nuova, di carattere federale). Sarebbe anche “sovranazionale”, questo Stato europeo, e in che senso? Se fosse uno spazio politico a pieno titolo, dovrebbe trovare un ubi consistam, un nucleo identitario in grado di definire un’appartenenza europea, che finirebbe per relativizzare (almeno in parte) le appartenenze nazionali, ma non in nome di una generica sovra o post-nazionalità, bensì in ragione di un comune patriottismo europeo. Si pensi agli USA (che peraltro nascono wasp e diventano multiculturali, più che multinazionali, e poggiano su una sorta di religione civile comune). In realtà, in riferimento all’Europa, probabilmente da un lato si è sottovalutato il peso degli accumuli di artificialità, di cui sono fatte le identità storico-culturali, e quanto conta il fattore tempo nei processi di aggregazione politica; e dall’altro si è creduto erroneamente di aggirare per via tecnica il “politico”, la decisione costituente. La reazione alla crisi finanziaria scoppiata nel 2007 e le scelte punitive verso la Grecia e gli altri Paesi del Sud hanno fatto il resto, consumando quel patrimonio di fiducia e cooperazione di cui ancora l’Europa disponeva16.

Nel quadro del caos geopolitico globale (che ha smentito tutte le

15 P. Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Il Mulino, Bologna 2007. 16 Cfr. A. Somma, Europa a due velocità, Imprimatur, Reggio Emilia 2018.

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promesse del “nuovo ordine mondiale” e dell’humanitarian turn nel diritto internazionale17, seguite alla caduta dell’Unione Sovietica), la perdita di coscienza del “politico” è stata esiziale per la cultura progressista. L’internazionalismo è ben altra cosa dal globalismo liberale e da un generico cosmopolitismo. Gramsci insiste ripetutamente sulla centralità della questione nazionale, dalla quale bisogna partire per inquadrare il nesso nazionale-internazionale. E sottolinea come il patriottismo costituisca, in una società secolarizzata, “il nesso reale tra governati e governanti”18. C’è tutta una tradizione (da Machiavelli a Mazzini, da Montesquieu a Rousseau), che individua nel patriottismo un fattore storicamente progressivo di virtù civica. Come scrisse J.Godechot in La Grande Nazione, “il termine patrioti designa coloro che amano la propria patria, che vogliono rinnovarla per mezzo delle riforme o con una rivoluzione: sono i partigiani della rivoluzione”19. Ha ragione Massimo Luciani a sottolineare come sia “davvero strano che in nome della Costituzione antifascista si abbandoni al fascismo quel che la Costituzione (stavolta con piena legittimazione) ha fatto proprio. I costituenti non ebbero la medesima, illogica, titubanza e parlarono liberamente di nazione e anche di Patria, addirittura proclamando “sacro” il dovere di difenderla”20. Identificare patriottismo e nazionalismo è un falso storico e una distorsione concettuale.

Con la secolarizzazione, la nazione ha sostituito la religione come collante della società21. E vero che la classe ha a sua volta soppiantato la nazione nella politica rivoluzionaria comunista (cui il nazismo ha contrapposto la razza). Ma occorre ricordare che le forze “popolari”, di classe, hanno sempre in sé caratteri “nazionali”. Poi nel secondo dopoguerra, per evitare nuove crisi di sistema dei regimi politici di massa, il welfare è stato utilizzato, nel contesto di un’economia mista, incapsulata nello Stato democratico (nazionale), quale decisivo fattore di integrazione. La liberalizzazione del movimento dei capitali, l’abbandono dell’obiettivo della piena occupazione, il predominio della finanza e, nell’eurozona, la perdita della sovranità monetaria da parte degli Stati, hanno messo in crisi questo equilibrio, che aveva consentito sviluppo, redistribuzione della ricchezza e stabilità democratica.

Riannodare il filo che lega il nucleo sociale della Costituzione alla

17 Sul tema, cfr. L. Scuccimarra, Proteggere l’umanità, Il Mulino, Bologna 2016. 18 A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2007, p. 123719 Cit. in M. Rosati, Il patriottismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2000, p. IX. 20 M. Luciani, Costituzione italiana: articolo 12, Carocci, Roma 2018, p. 3.21 Cfr. E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, ed. it. a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007.

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sovranità democratica non è una proposta nostalgica e tradizionalista, ma al contrario un modo per prendere sul serio il “principio della soggettività moderna”, cioè la libertà come liberazione, riconoscendone la natura relazionale (al cui centro vi è l’indivisibilità dei diritti sociali e civili e il nesso tra autodeterminazione personale e collettiva). Ciò significa che lo Stato costituzionale o è sociale e fondato sulla sovranità democratica, o non è. Perché questo nesso tra solidarietà e autodeterminazione sia possibile, occorre un vincolo di appartenenza politico-costituzionale unito a una effettiva protezione sociale. Cioè uno spazio politico e una comunità che non sia schiava del “pilota automatico”. Ma la ricostruzione di un senso della collettività e del ruolo dello Stato nel governo dell’economia implica la messa in discussione dell’ideologia neoliberista22. Un’operazione contro-egemonica, nel solco della Costituzione.

22 I diritti fondamentali non possono fermarsi alle porte della libertà contrattuale ed economica (cfr., da ultimo, Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali, a cura di G. Alpa e G. Conte, Giappichelli, Torino 2018).

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Giorgio Resta

Le ferite della storia e il diritto privato riparatore

Sommario: 1. Il diritto come prodotto della storia e la storia come prodotto del diritto – 2. Il superamento del passato attraverso il diritto: la prospettiva del giusprivatista – 3. La frontiera della responsabilità civile: l’Holocaust litigation nell’esperienza statunitense – 4. Il versante italiano: il contenzioso civile per i crimini nazi-fascisti e le sue premesse – 5. Dal caso Ferrini alla più recente giurisprudenza sulle stragi naziste – 6. Dalle riparazioni materiali alle riparazioni simboliche: il diritto alla verità e la sua tutela civile.

1. Il diritto come prodotto della storia e la storia come prodotto del diritto

Pur a distanza di molti anni, rimane viva nella memoria di chi fu allora studente la profonda impressione lasciata dal corso di Istituzioni di diritto privato – il primo corso romano dopo la chiamata all’Università “La Sapienza” – tenuto da Guido Alpa nell’a.a. 1991-1992. La pacatezza dei toni e l’eleganza dell’eloquio conferivano un tratto insolitamente empatico alle lezioni, in contrasto con l’atmosfera di algido rigore che l’ampiezza degli spazi e l’austerità del disegno architettonico trasmettevano all’Aula I della Facoltà di Giurisprudenza. Non era soltanto lo stile comunicativo a dare un tono inconfondibile alle lezioni di Guido Alpa, ma prima ancora il contenuto della trattazione e il metodo, anzi i metodi prescelti. Sin dagli incontri introduttivi, il suo discorso tratteggiava un’immagine del diritto profondamente diversa da quella scolpita in molti manuali e, prima ancora, trasmessa dalla cultura popolare1. Lungi dall’esaurirsi in un corpo conchiuso di sapere tecnico, attingibile soltanto attraverso un accorto esercizio della logica formale, il diritto – e il diritto privato in particolare – si presentava nelle lezioni di Guido Alpa come un edificio imponente, costruito con fatica attraverso i materiali sedimentati nella storia, ma strutturalmente aperto alla comunicazione con l’ambiente esterno e mai compiuto e immodificabile, perché soggetto alla pressione degli interessi 1 Per alcuni esempi v. unicamente G. Alpa, L’avvocato. I nuovi volti della professione forense nell’età della globalizzazione, Bologna, 2005, p 13 ss.

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G. Resta

emergenti e alla grande forza dei mutamenti sociali2. La storicità del diritto, illuminata dai continui riferimenti all’opera

di Tarello, Gorla, Maine e Rescigno, era uno dei tratti caratterizzanti del discorso. A fianco di essa, un altro elemento che catturava l’attenzione dello studente, stimolandone la curiosità, era l’idea tipicamente giusrealistica del giurista come ingegnere sociale3. Qui la riflessione incrociava spesso i nomi e il pensiero di Pound, Calabresi, Trimarchi e Rodotà, e si snodava lungo un duplice registro semantico, quello del metodo d’indagine e quello della responsabilità sociale. Dal modo in cui gli istituti venivano presentati e discussi, facendo ricorso a una pluralità di approcci, da quello concettuale a quello giuseconomico, si traeva immediatamente l’impressione che, per costruire adeguate strutture d’interazione sociale, il giurista avrebbe dovuto necessariamente aprirsi ad altre discipline, come la sociologia, l’economia e l’antropologia. Né poteva trattarsi di un’attività libera negli scopi e connotata da una valenza esclusivamente tecnica: costante e accorato era il richiamo, nelle lezioni di Guido Alpa, al ruolo sociale del professore, del giudice e dell’avvocato, quali alfieri della lotta per i diritti e per l’attuazione dei valori ai quali si ispira l’ordinamento costituzionale.

Tra i molti altri aspetti, queste sono due delle cifre della lezione di Guido Alpa più profondamente impresse nella memoria di chi si è formato alla sua scuola e che, con altrettanta nitidezza, continuano a caratterizzare l’opera scientifica del maestro qui festeggiato. L’attenzione per la dimensione storica può ritenersi coessenziale al suo approccio al diritto: essa non è limitata alle opere di taglio prevalentemente storiografico, quale è ad esempio La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano4, ma informa larghissima parte dei suoi studi, sino a farsi metodo di comprensione dei problemi5. L’enfasi sulla responsabilità del giurista, teorico o pratico, è anch’essa trasversale alla sua produzione scientifica, dalle ricerche in materia di diritto dei consumatori6, ai lavori sulla persona e sulla Drittwirkung dei diritti fondamentali7, alle pagine 2 V. ora limpidamente G. Alpa, Che cos’è il diritto privato?, Roma-Bari, 2014, p 3. 3 Su questo paradigma si legga D. Howarth, Is Law a Humanity ? (Or is it more like Engineering ?), in Arts & Humanities in Higher Education, 3, 2004, p 9 ss., alle pp 11-17. 4 G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, 2000 (2 ed., Bologna, 2017). 5 Si veda ad esempio il fondamentale studio su capacità ed eguaglianza nell’esperienza storica e nel diritto privato contemporaneo: G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Roma-Bari, 19936 G. Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2 ed., 2008.7 Da ultimo G. Alpa, Diritti, libertà fondamentali e disciplina del contratto: modelli a confron-

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dedicate ai grandi maestri del diritto, come Piero Calamandrei8 o Stefano Rodotà9; e si riflette, più in generale, nell’impegno prestato in prima persona da Guido Alpa nelle istituzioni repubblicane.

Un ideale dialogo con Guido Alpa non può, dunque, non partire da una riflessione sui due elementi appena ricordati, la storicità del diritto e il ruolo sociale del giurista, riguardati però da una prospettiva affatto particolare. Non intendo cioè ragionare, come di consueto, sulle implicazioni dell’assunto per cui il diritto non è che “frozen history”, come scrisse Carl Friedrich10, o su uno dei tanti profili correlati alla funzione del giurista nella società contemporanea, anche alla luce delle più volte denunziate condizioni di crisi che coinvolgono la giurisprudenza come scienza teorica e pratica11.

Sollecitato dalla lettura del recente e ampio studio su Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’12, mi propongo invece di svolgere alcune considerazioni intorno a un problema, che è oggi quanto mai rilevante e che si colloca sulla linea di giunzione tra i due temi pocanzi evocati.

Il problema, in termini generali, è quello della “giuridificazione della storia”, ossia della tendenza, che è tipica del nostro tempo, a rendere, da un lato, gli accadimenti storici “giustiziabili” e, dall’altro, a disciplinare attraverso norme giuridiche sempre più puntuali ed incisive il confronto discorsivo con il passato e con la sua attuale memoria. Piuttosto che riflettere sul diritto come prodotto della storia, intendo quindi invertire l’angolo di osservazione e guardare alla storia (intesa anche come storiografia) come prodotto del diritto13.

to, in G. Alpa – G. Conte, a cura di, Diritti e libertà fondamentali nei rapporti contrattuali, Torino, 2018, p 3 ss. 8 G. Alpa, Un atto di ‘fede nel diritto’, in P. Calamandrei, Fede nel diritto, a cura di S. Calamandrei, Roma-Bari, 2008, p 45 ss. 9 G. Alpa, Stefano Rodotà, innovatore del metodo giuridico, in Pol. Dir., 2017, p 495 ss. 10 C.J. Friedrich, Law and History, in Vanderbilt L. Rev., 14, 1961, p 1027.11 Fra le tante diagnosi allarmate, che toccano in particolare la professione dell’avvocato, si veda unicamente R. Susskind, The End of Lawyers? Rethinking the Nature of Legal Services, Oxford, 2008; Id., Tomorrow’s Lawyers. An Introduction to Your Future, Oxford, 2013; ma per una valu-tazione più equilibrata A. Gambaro, Studiare giurisprudenza, in G. Alpa – V. Roppo, a cura di, La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Roma-Bari, 2013, 323.12 G. Alpa, Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’, in Cont. imp., 2018, p 45 ss.13 Per una prima disamina dei temi coinvolti v. G. Resta – V. Zeno-Zencovich, La storia ‘giu-ridificata’, in G. Resta – V. Zeno-Zencovich, a cura di, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, Napoli, 2012, p 11 ss.; A. Melloni, Per una storia della tribunalizzazione della storia, in O. Marquard – A. Melloni, a cura di, La storia che giudica, la storia che assolve, Roma-Bari, 2008, p 30 ss.

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Si tratta di un insieme di questioni particolarmente complesso e rilevante, su cui si è innestato, a partire dagli anni ’90, un corposo dibattito scientifico, soprattutto in relazione ai temi della giustizia di transizione14, da un lato, e del negazionismo, dall’altro15; dibattito, questo, che non soltanto non accenna a placarsi, ma che trae dalla realtà che ci circonda nuova materia su cui esercitarsi.

La verità, amara, è che il passato fa fatica a passare. Vicende di odio, discriminazione, emarginazione di singoli e gruppi,

che si immaginavano confinate ai momenti più foschi del Novecento, riemergono ciclicamente, talora sospinte e infiammate dall’effetto delle nuove tecnologie16, ma non da queste determinate17, toccando nel profondo la sensibilità del giurista educato al rispetto e alla tutela dei valori scolpiti nelle carte costituzionali e nelle dichiarazioni dei diritti postbelliche.

Riflettendo su alcuni recenti episodi di terrorismo e crimini dell’odio, Guido Alpa osserva che “si tratta di fenomeni che trascendono l’immaginazione e si sottraggono a possibili profezie, i quali tuttavia, pur costituendo l’estremo sanguinoso limite a cui può condurre l’avversione cieca verso tutto ciò che è differente da sé, non sono altro che l’espressione condotta al punto estremo di atteggiamenti mentali e di strumentalizzazioni di idee riflesse nei diversi continenti attraverso comunicazioni di gruppi politici ammantati da sedicenti credenze religiose, attività discriminatorie di fazioni, movimenti e sette intolleranti, proclami con diffusione di immagini che si ispirano a principi di intolleranza, di vendetta, di odio e insofferenza. Le azioni sono precedute dalle idee, e rafforzano quelle idee nel loro concretarsi in fatti storici” 18.

È il legame tra parole e azioni che preoccupa e inquieta, sollecitando risposte giuridiche che non si contentino di rievocare l’irenica immagine del “mercato delle idee”, quale spazio precluso all’operare della norma

14 A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Bologna, 2005.15 L. Hennebel-T. Hochmann, a cura di, Genocide Denials and the Law, Oxford, 2011; R. Kahn, Holocaust Denial and the Law. A Comparative Study, New York - Basingstoke, 2004.16 V. D. Fraser, ‘On the Internet, Nobody Knows You’re a Nazi’: Some Comparative Legal Aspects of Holocaust Denial on the WWW, in I. Hare – J. Weinstein, a cura di, Extreme Speech and Democracy, Oxford, 2009, p 511 ss. Per un semplice esempio, si veda il caso dei tweet antisemiti, deciso da TGI Paris, 24 gennaio 2013, UEJF et autres c. Twitter Inc. et Twitter France, in Dalloz, 2013, p 300; per una discussione di questo caso v. J. Francillon, Messages racistes ou antisémites postés sur le reseau social Twitter, in Rev. sc. crim., 2013, p 566.17 Sul punto v. le considerazioni di G. Alpa, Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’, cit., p 48 ss.18 G. Alpa, Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’, cit., p 45.

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e rimesso al governo di una benigna mano invisibile. E ciò perché i fatti sopra ricordati “sono il segno che sotto l’apparenza superficiale di controllabili conflitti di opinioni e di civili dibattiti si tramandano idee ripudiate dall’avvento dello Stato democratico di diritto. Ma non si tratta soltanto di apparenti o sedicenti guerre di religione o di nostalgie per i totalitarismi politici. Il Novecento ha segnato da questo punto di vista forse il livello di crudeltà e disumanizzazione più basso che la storia abbia registrato. Ma questi tragici eventi che segnano la storia dell’umanità trovavano sostegno in larghe fasce dell’opinione pubblica e sono stati favoriti dalla costruzione giuridica dell’identità delle persone o dei gruppi, che per secoli ha consolidato e giustificato la minorità di persone e gruppi, e tollerato atteggiamenti di disprezzo, di odio, di emarginazione. Insomma, con molta tristezza ma anche con forte sdegno dobbiamo prendere atto che il mondo di allora non è cambiato, ha solo trovato nuove forme di espressione e la sfrontatezza di riemergere in tutta la sua violenza” 19.

L’analisi non si esaurisce in una pensosa riflessione sul presente, ma solleva con nettezza il problema della responsabilità del giurista. “Come possono – si chiede Guido Alpa – contribuire i giuristi, non solo i creatori della legge, non solo i giudici che la applicano, ma soprattutto gli avvocati che combattono personalmente e a proprio rischio con le loro istanze e le loro perorazioni, per reagire alle prevaricazioni dei diritti dei singoli e dei gruppi?” 20 Come può il diritto – aggiungerei – far sì che le ferite della storia non siano soltanto superate, ma sanate in modo tale da sottrarre le vittime al loro status di inferiorità e evitare per il futuro il riprodursi di analoghe esperienze di sopraffazione e mortificazione dei diritti dei singoli e dei gruppi?

A questi interrogativi non ci si può sottrarre, in particolare modo nell’Europa di oggi, consapevoli dei limiti intrinseci, ma anche dell’irrinunziabilità delle risposte giuridiche21.

Non è soltanto il cultore del diritto pubblico ad essere immediatamente interpellato, ma anche il giusprivatista è chiamato a svolgere una funzione particolarmente delicata ed importante. E ciò non soltanto per una ragione storica e di identità di disciplina, essendo il diritto privato connotato per propria vocazione da un’attenzione particolare per le ragioni di libertà e eguaglianza dei singoli, in contrasto con le logiche

19 G. Alpa, Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’, cit., p 46.20 G. Alpa, Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’, cit., p 48.21 A questo riguardo, e con particolare riferimento ai temi qui trattati, si legga L. Israël, Le armi del diritto, trad.it., Milano, 2009, spec. p 84 ss.

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dell’autorità e della soggezione proprie del diritto pubblico22. Prima ancora, è un dato fenomenologico che depone in tal senso. Se si osservano le tendenze emergenti a livello internazionale, e non soltanto nel contesto delle transazioni dalla dittatura alla democrazia, ma anche nel quadro delle democrazie consolidate, ci si potrà agevolmente avvedere di come l’intera tematica della riparazione per le ingiustizie e le ferite della storia, dalla colonizzazione ai crimini di massa perpetrati nel ‘900, rifletta il ruolo sempre crescente attribuito al diritto privato, alle sue categorie, ai suoi istituti e alle sue tecniche.

In questo contributo vorrei offrire alcuni esempi di tale fenomeno, il quale al fondo interroga il giurista sulle complesse e mutevoli funzioni di tale branca dell’ordinamento giuridico, soffermandomi su alcuni aspetti meno approfonditi dalla pur vasta letteratura in materia. In particolare, rinviando ad altra sede la trattazione di un problema importante, quale è quello della regolazione dei ‘discorsi’ sul passato attraverso gli istituti privatistici (tra i quali il diritto d’autore e i diritti della personalità)23, mi soffermerò dapprima sull’uso della responsabilità civile quale strumento di riparazione dei pregiudizi storici (parr. 3-4), poi sull’emersione e la tutela civilistica del diritto alla verità (par. 5).

2. Il superamento del passato attraverso il diritto: la prospettiva del giusprivatista

La prima domanda che è opportuno porsi, trattando della riparazione delle ferite della storia, è se sia possibile guardare alle tecniche privatistiche, e in particolare alla responsabilità civile, come strumento di giustizia riparativa. Il semplice accostamento tra le due nozioni può apparire singolare, se non sorprendente. Di giustizia riparativa si discorre, infatti, prevalentemente in ambito penalistico24. Una puntuale definizione del sintagma si ritrova, ad esempio, della direttiva 2012/29/UE, che istituisce

22 Si vedano in proposito le considerazioni di P. Rescigno, in P. Rescigno – G. Resta – A. Zoppini, Diritto privato. Una conversazione, Bologna, 2017, p 13 ss.23 Il punto di riferimento in proposito è G. Pessach – M. Shur-Ofry, Copyright and the Holocaust, 30 Yale J. L. Human. 2018 (forthcoming); con riferimento ai diritti della personalità v. A. De Baets, Responsible History, New York – Oxford, 2010, 72; N. Mallet-Poujol, Diffamation et « verité historique », in D., 2000, 226.24 Per un quadro aggiornato e puntuale del dibattito in materia, G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, in Enciclopedia del diritto. Annali, X, Milano, 2017, p 465 ss.; G. Mannozzi – G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Torino, 2017, p 7 ss.

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norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato25. L’art. 2 § 1 lett. d qualifica in termini di giustizia riparativa “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Inteso come alternativo o complementare al sistema penale, il paradigma della giustizia riparativa è da tempo al centro di un articolato dibattito, che ha coinvolto molteplici branche delle scienze umane, tra cui l’antropologia e il diritto. Esso ha avuto le più importanti e sistematiche applicazioni nel contesto della transizioni dai regimi dittatoriali ai regimi democratici e in presenza di violazioni di massa dei diritti umani.

Nell’ambito della scienza giuridica, il tema è stato approfondito soprattutto dai cultori del diritto e della procedura penale, mentre il privatista se ne è interessato soltanto marginalmente. Ciò non sorprende, se si considera che è diffusa l’impressione di una tendenziale incompatibilità tra la filosofia sottostante agli strumenti di giustizia riparativa, la quale ruota intorno alle idee della cura della vittima e della riconciliazione con l’offensore, anche per fini di pacificazione sociale, e il meccanismo risarcitorio, come concretamente delineato nei codici civili classici26.

A tacer d’altro, l’attivazione dello strumento risarcitorio vive nella dimensione conflittuale del contenzioso, mentre l’amministrazione degli strumenti di giustizia riparativa vede spesso all’opera organismi che si muovono al di fuori tale logica e con l’intento di promuovere una riconciliazione tra le parti e la società intera. Si tratta poi di uno strumento tipicamente inter-privato, che poggia sull’assunto della particolarità degli interessi coinvolti e vive in un processo propriamente accusatorio, a differenza dell’altro schema, che attribuisce un ruolo di primo piano all’intervento delle autorità pubbliche o al perseguimento di finalità di interesse pubblico27. Inoltre, il sistema tradizionale della responsabilità civile ruota intorno al paradigma del “danno”, sì che non può esservi responsabilità senza la prova di un pregiudizio concretamente apprezzabile. Implicita in tale modello, peraltro, è l’idea della commensurabilità in denaro dei beni intaccati dall’illecito, e dunque del risarcimento per equivalente come ordinaria forma operativa dell’istituto. Anche sotto questo aspetto, il contrasto con le tecniche

25 In tema v. E.M. Catalano, La tutela della vittima nella Direttiva 2012/29/UE e nella giurisprudenza delle Corti europee, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p 1789 ss.; G. Mannozzi – G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, cit., p 324 ss.26 Al riguardo v. le considerazioni di G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., pp 474-479.27 Cfr. in proposito gli opportuni rilievi di A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, Paris, 2008, p 104.

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della giustizia riparativa sembrerebbe evidente, essendo queste preordinate alla cura della vittima nella sua dimensione prettamente esistenziale e alla riparazione di pregiudizi che resistono ad un apprezzamento in termini monetari e toccano i beni fondamentali della persona28.

Se queste sono le coordinate di fondo sul piano teorico, si deve però immediatamente segnalare come l’esperienza pratica degli ultimi vent’anni abbia smentito, o fortemente ridimensionato, molti degli assunti appena evocati. Non soltanto il paradigma della giustizia riparativa si è rivelato ben più eterogeneo e multiforme al suo interno, disvelando inaspettate modalità operative in ragione della peculiarità dei contesti e delle esigenze coinvolte29. Soprattutto, l’istituto della responsabilità civile ha vissuto una stagione d’intensa sperimentazione, raggiungendo un’estensione applicativa e una complessità funzionale – anche nei sistemi di civil law – spesso esorbitanti rispetto alle previsioni della dogmatica. Accanto alla funzione compensativa, quella sanzionatoria e di deterrenza hanno assunto un rilievo crescente; i filtri per l’accesso alla tutela risarcitoria sono stati significativamente allentati; la nozione di danno risarcibile è risultata notevolmente diluita30.

Uno degli effetti, o forse delle cause, di una siffatta tendenza espansiva, è stato il crescente ricorso alla responsabilità civile quale strumento di gestione dei conflitti un tempo rimessi ad altre tecniche di regolazione sociale. Tra questi, un caso molto rilevante è costituto dalle gravi violazioni dei diritti umani – richiamando la formula impiegata nei Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law adottati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 200531 – perpetrate a danno di minoranze o soggetti vulnerabili, prevalentemente, ma non esclusivamente, in costanza di regimi dittatoriali32.

Rispetto ad ipotesi di questo tipo, convenzionalmente racchiuse nella

28 Sul punto v. G. Mannozzi – G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e meto-di, cit., p 225, ove, a proposito del risarcimento del danno non patrimoniale da reato, si osserva che “è in questa dimensione pseudo-sanzionatoria che la riparazione pecuniaria si pone non già come il superamento della penalità tradizionale, bensì come la sua drammatica riconferma”.29 G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, cit., p 479 ss.30 Per un quadro d’insieme, è sufficiente rinviare a G. Alpa, La responsabilità civile. Principi, 2 ed, Torino, 2018, p 41 ss.31 Risoluzione 60/147 del 16 dicembre 2005.32 In generale, sulla responsabilità civile quale strumento di tutela dei diritti umani, v. G. Alpa, La responsabilità civile. Principi, cit., p 234 ss.

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formula historical injustices 33, le risposte giuridiche si sono notevolmente arricchite e diversificate. Se il diritto penale e il diritto internazionale umanitario hanno svolto, almeno a partire da Norimberga, un ruolo primario nel governo di tali fattispecie34, approntando una risposta di tipo eminentemente pubblicistico, la responsabilità civile ha via via occupato uno spazio sempre più rilevante. Come osservava alcuni anni fa Antoine Garapon, mentre la prima fase della ‘giuridificazione’ della storia è stata caratterizzata dal paradigma della ‘penalizzazione’ (Norimberga) e la seconda da quello della ‘riconciliazione’ (Commissioni Verità e Riconciliazione), la terza appare connotata dalla logica della ‘riparazione’ (e in particolare dalla riparazione materiale, come distinta da quella simbolica o politica)35. Riparazione, si noti, che non rappresenta più il risultato di una negoziazione tra gli Stati, come avvenuto sin dall’epoca dei Trattati di Versailles, ma che inizia ad essere costruita come diritto dei singoli, seconda una logica di progressiva ‘individualizzazione’ del problema delle riparazioni36.

Molto spesso sono proprio le tecniche risarcitorie a offrire una prima forma di ristoro alle vittime e a promuovere un proficuo processo di confronto pubblico con il passato, che circostanze del caso, scelte politiche o vincoli istituzionali del sistema finiscono talora per sopprimere o rinviare37. La responsabilità civile, in questi casi, rappresenta un tassello importante delle tecniche di giustizia riparativa, sia per la sua attitudine ad operare in funzione di ristoro degli interessi materiali delle vittime, anche

33 J. Thompson, Historical Injustice and Reparation: Justifying Claims of Descendants, in Ethics, 112, 2001, p 114 ss.; E.A. Posner – A. Vermeule, Reparations for Slavery and Other Historical Injustices, in Colum. L. Rev., 103, 2003, p 689 ss.34 In particolare, per una puntuale descrizione dell’approccio tradizionale del diritto inter-nazionale al tema delle riparazioni per le ingiustizie della storia, v. M. du Plessis, Historical Injustice and International Law: An Exploratory Discussion of Reparation for Slavery, in Human Rights Quarterly, 25, 2003, p 624 ss., alle pp 631-637; Id., Reparations and International Law: How Are Reparations to Be Determined (Past Wrong or Current Effects), Against Whom, and What Form Should They Take?, in M. du Plessis – S. Peté, a cura di, Repairing the Past? International Perspectives on Reparations for Gross Human Rights Abuses, Antwerpen-Oxford, 2007, p 147 ss.35 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., p 10; Id, Punition, liquidation, prévention : un nouveau rapport à l’histoire ?, in Tracés. Revue de Sciences humaines [Online], 9, 2009. In tema v. anche C.J. Ogletree, Repairing the Past: New Efforts in the Reparations Debate in North America, in Harvard Civil Rights-Civil Liberties L. Rev., 38, 2003, p 279 ss.36 Sul punto v. G. D’Amico, Le ‘vittime’: tra storia e diritto, in Contemporanea, 2011, p 503 ss, alla p 504; J. Luther, Riparare equamente: una storia dei diritti delle vittime, in Contemporanea, 2011, p 507 ss. 37 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., p 13.

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contro le scelte operate dal diritto pubblico, sia in quanto veicolo indiretto di accertamento dei fatti (e dunque strumento di ristoro simbolico, prodromico alla reintegrazione politica delle vittime).

A tal proposito, la recente vicenda giurisprudenziale del risarcimento dei danni sofferti dalle vittime di deportazione, lavoro coatto, stragi e altri crimini nazi-fascisti all’epoca della seconda guerra mondiale in Italia, assume un valore paradigmatico e merita un’attenta considerazione. Tuttavia essa non rappresenta un unicum nel panorama comparatistico. Anzi, il suo significato non può essere correttamente apprezzato se non si prendono le mosse dalla più importante esperienza moderna di ‘privatizzazione’ dei conflitti tra vittimi e autori di crimini contro l’umanità, rappresentata dal contenzioso relativo all’Olocausto, sviluppatosi a partire dagli anni ’90 nell’ordinamento statunitense38.

3. La frontiera della responsabilità civile: l’Holocaust litigation nell’esperien-za statunitense

È noto che all’Olocausto, come e forse più che ad altri genocidi, non è mai stata estranea una rilevante dimensione patrimoniale39. Da un lato l’appropriazione delle ricchezze del popolo ebraico è stata uno dei fattori caratterizzanti il progetto criminale del nazionalsocialismo sia dal momento dell’ascesa al potere di Hitler, sia nell’arco di tutte le fasi operative della politica di sterminio. Dall’altro, nel novero delle risposte giuridiche messe in campo dopo la sconfitta militare della Germania e la ricostituzione di uno stato democratico nella Germania Ovest, le riparazioni per i crimini contro l’umanità posti in atto dal Terzo Reich, nonché le restituzioni dei beni mobili e immobili illecitamente appropriati, hanno avuto un ruolo molto significativo.

Come ha di recente ricordato Michael Bazyler, possono distinguersi tre diverse e principali fasi del processo di riparazione40.

Nella prima fase, quella dell’immediato dopoguerra, le potenze alleate

38 S. Levmore, Privatizing Reparations, B.U. L. Rev., 84, 2004, p 1291 ss. Si discorre di privatizzazione anche in senso di contrapposizione dialogica rispetto al modello tradizionale della giustizia criminale, storicamente incentrato proprio sulla de-privatizzazione di tali conflitti (v. L. Cornacchia, Vittime e giustizia criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p 1760 ss.).39 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law, Oxford, 2016, p 153; T. Bruttmann, ‘Riparare’ le spoliazioni: dalle restituzioni agli indennizzi, in Contemporanea, 2011, p 526 ss.40 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law, cit., p 155.

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promossero una politica di confisca e riallocazione dei beni appartenuti a esponenti individuali o istituzioni rappresentative del potere nazista41. A tal riguardo, è sufficiente ricordare la legge n. 52 e la legge n. 59 del Governo militare USA42. La prima rendeva tutti i beni presenti in Germania soggetti a confisca e amministrazione da parte del governo militare occupante, disponeva il blocco di tutti i beni culturali appartenenti a istituti religiosi, scientifici o educativi, nonché dei beni posseduti o controllati dalle istituzioni del Terzo Reich, dal partito nazionalsocialista e altre organizzazioni affiliate, o da persone appartenenti all’establishment. La seconda, emanata il 10 novembre 1947, stabiliva l’obbligo di restituzione di ogni bene confiscato per ragioni di carattere razziale, religioso o politico e riconosceva in capo a una “organizzazione di successori” (la prima e più attiva di queste fu la Jewish Restitution Successor Organization) il diritto di domandare la restituzione dei beni dei soggetti deceduti e utilizzare i relativi introiti per finalità di cura e reintegrazione dei sopravvissuti43. Nell’agosto del medesimo anno, quattro Länder tedeschi introdussero per legge i primi piani d’indennizzazione monetaria delle vittime della barbarie nazista44.

La seconda fase ha inizio con gli accordi stipulati a Lussemburgo tra la Repubblica federale tedesca e rappresentanti dello stato e delle comunità ebraiche, con i quali la Germania si obbligò a stanziare 845 milioni di dollari a titolo di riparazione monetaria per i crimini compiuti dal regime nazista45. Il primo trattato bilaterale fu sottoscritto dalla Germania e Israele con l’obiettivo di contribuire attraverso la corresponsione di beni e servizi all’assorbimento da parte dello stato ebraico dei sopravvissuti dell’Olocausto. Il secondo intercorse con un ente appositamente costituito a New York, la Conference on Jewish Material Claims against Germany: la Germania si obbligava a versare indennizzi individuali a specifiche classi di sopravvissuti, mentre la Claims Conference avrebbe dovuto occuparsi della loro distribuzione. Come più volte osservato, questi accordi ebbero

41 In tema v. C. Goschler, La Wiedergutmachung in Germania, in Contemporanea, 2011, p 512 ss., alla p 514.42 Law n. 52, Blocking and Control of Property, in Military Government Germany. Supreme Commander’s Area of Control, Proclamation, Laws, Ordinances and Notices. Directives and Instruction to German Police, 7 November 1944, p 20; Law n. 59 (Amended 1), Restitution of Identifiable Property.43 Law n. 59, art. 10.44 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law, cit., p 156.45 Sul punto v. R. Ludi, Historical Reflections on Holocaust Reparations: Unfinished Business or an Example for other Reparations Campaigns?, in M. du Plessis – S. Peté, a cura di, Repairing the Past? International Perspectives on Reparations for Gross Human Rights Abuses, cit., p 119 ss., alle pp. 126 ss.

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un valore rivoluzionario, in quanto per la prima volta nella storia uno stato sovrano si impegnava a corrispondere indennizzi monetari nei confronti di singoli individui, peraltro in molti casi privi della cittadinanza tedesca46. Dal 1952 ad oggi la Germania ha corrisposto più di 70 miliardi di dollari a titolo di riparazioni, con un totale di circa 600.000 sopravvissuti di origine ebraica quali beneficiari dei piani di indennizzo47.

La terza stagione della politica delle restituzioni ha inizio negli anni ‘90 e, a differenza della seconda, è connotata dal fenomeno della ‘privatizzazione’ del sistema dei rimedi48. Il punto d’avvio di questa nuova fase è costituito da tre class actions, promosse nei confronti di alcune banche svizzere e incardinate presso la corte federale distrettuale di New York nel 199649. Tali istituti di credito erano accusati di non avere restituito le somme e i preziosi che i loro clienti, poi periti nei campi di sterminio, avevano depositato in conti correnti e cassette di sicurezza, nonché di aver intrattenuto rapporti d’affari con la Germania nazista al fine di ricollocare sul mercato i beni illecitamente sottratti ai loro legittimi titolari. Confortati dal successo, in primo luogo politico, conseguito con questa prima iniziativa giudiziaria, conclusasi con un vittorioso accordo stragiudiziale50, altri sopravvissuti e i loro familiari promossero nuove azioni collettive, prima contro importanti istituti assicurativi europei accusati di non aver onorato le polizze assicurative sottoscritte da ebrei vittime di persecuzione51, poi nei confronti delle imprese tedesche accusate di avere tratto indebiti profitti dal lavoro prestato in condizioni di schiavitù dai soggetti perseguitati dal regime nazionalsocialista52, nonché delle banche francesi53, austriache e tedesche54

46 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law, cit., p 158.47 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law, cit., p 160.48 Su questa terza fase del processo di riparazione v. M. Bazyler, The Holocaust Restitution Movement in Comparative Perspective, Berkeley J. Int’l L., 20, 2002, p 11 ss.; L. Orland, A Final Accounting. Holocaust Survivors and Swiss Banks, Durham, 2010, p 109 ss.; N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento per illeciti storici. Il caso della Holocaust litigation, in G. Resta – V. Zeno-Zencovich, a cura di, Riparare risarcire ricordare, cit., 156 ss.49 In re Holocaust Victim Assets Litigation, No CV-96-4849, 2000 US Dist. LEXIS 20817 (E.D.N.Y. Nov. 22, 2000).50 Per i dettagli N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento per illeciti storici. Il caso della Holocaust litigation, cit., p 160.51 Per i dettagli M. Bazyler, The Holocaust Restitution Movement in Comparative Perspective, cit., pp 19-22.52 Iwanowa v. Ford Motor Co., 67 F. Supp. 2d 424 (D.N.J. 1999); Burger-Fischer v. Degussa A.G., 65 F. Supp. 2d 248 (D.N.J. 1999).53 Bodner v. Banque Paribas, 114 F. Supp. 2d 117 (E.D.N.Y. 2000); Mayer v. Banque Paribas, No BC 302226 (Cal. Super. Ct. filed, March 24, 1999).54 In re Austrian and German Bank Holocaust Litigation, No. 98 Civ. 3938, 2001 US Dist.

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alle quali venivano imputati vari illeciti contrattuali perpetrati nei confronti dei clienti di origine ebraica.

Infine, l’ultimo importante filone delle controversie correlate all’Olocausto è rappresentato dalle cause in materia di restituzione dei beni culturali illecitamente appropriati dai nazisti e finiti in possesso, dopo la guerra, di alcuni dei più importanti musei e gallerie d’arte statunitensi ed europei55. La più celebre di queste controversie, avente ad oggetto alcune tele di Klimt, e in particolare l’Adele Bloch Bauer I, è culminata nella decisione della Corte Suprema USA nel caso Altmann v. Austria, resa celebre presso il grande pubblico dal film “The Woman in Gold” 56.

Nel complesso tale contenzioso si è tradotto nel pagamento di 8 miliardi di dollari nei confronti delle vittime e dei loro eredi da parte di banche, assicurazioni ed altre imprese europee57. Da questo punto di vista l’Holocaust litigation costituisce tecnicamente successo, visto che per la prima volta l’onere delle riparazioni viene fatto gravare non soltanto sulla mano pubblica, per il tramite dei classici accordi inter-statali, ma anche sui soggetti privati, i quali hanno lucrato, direttamente o indirettamente, da macroscopiche violazioni dei diritti umani. Peraltro, non si può ignorare che per raggiungere tale risultato il sistema della responsabilità civile è stato chiamato ad operare su uno spettro temporale notevolmente esteso, intercorrendo tra i fatti illeciti, il danno e il momento della riparazione lo spazio di almeno mezzo secolo; il che, evidentemente, è fonte di notevoli torsioni funzionali e difficoltà in punto di prova, ivi compresa la prova storica, determinazione dell’entità del danno risarcibile, la prescrizione dell’azione58.

Tuttavia, per una corretta valutazione del significato della Holocaust litigation, oltre che per una prognosi sulla sua esportabilità come modello giuridico, è opportuno distinguere due differenti piani d’analisi. Il primo è rappresentato dal quadro istituzionale che ha permesso e favorito l’instaurazione del contenzioso nell’ordinamento statunitense. Il secondo è quello dei fattori che hanno operato in parallelo al dispositivo giuridico, esaltandone le potenzialità e supplendo alle sue lacune.

Dal primo punto di vista, non può sorprendere che l’intero contenzioso

LEXIS 2311 (S.D.N.Y. Mar. 7, 2001).55 T. O’ Donnell, The Restitution of Holocaust Looted Art and Transitional Justice: The Perfect Storm or the Raft of Medusa?, in Eur. J. Int’l L., 22, 2011, p 49 ss.56 Republic of Austria v. Altmann, 541 US 677 (2004); nei precedenti gradi di giudizio Altmann v. Republic of Austria, 142 F. Supp. 2d 1187 (C.D.Cal., 2001), 317 F 3d 954 (9th Cir. 2002).57 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., 25.58 Su questi aspetti v. in particolare N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento per illeciti storici. Il caso della Holocaust litigation, cit., p 165 ss.

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sia iniziato e si sia sviluppato negli Stati Uniti. Esso si inscrive perfettamente nella cultura dell’adversarial legalism americano59 e nel suo quadro istituzionale, connotato da una serie ben precisa di elementi. Tra i più importanti meritano di essere annoverati i seguenti60:

• la competenza giurisdizionale universale per i casi di violazione dei diritti umani, assicurata – prima del revirement della Corte Suprema in Kiobel v. Royal Dutch Petroleum61 - dall’Alien Tort Claims Act;

• l’accettazione della giurisdizione nei confronti dei convenuti stranieri che esercitassero attività d’impresa negli Stati Uniti per illeciti commessi altrove;

• l’istituto delle class actions;• il patto di quota lite;• la presenza della giuria interamente laica;• i danni punitivi;• un giudiziario con forti connotazioni di indipendenza dal potere

politico.

Dal secondo punto di vista, è importante sottolineare che la stragrande maggioranza delle azioni in oggetto si sono concluse con una transazione e le poche che sono giunte sino al dibattimento hanno fatto registrare il rigetto della domanda62; peraltro, mentre l’ammontare complessivo dei risarcimenti versati è di tutto rilievo, individualmente le somme allocate alle vittime non possono che apparire bagatellari rispetto all’entità dei crimini perpetrati.

Tutto ciò è un chiaro indice del fatto che il meccanismo contenzioso incentrato sull’azione risarcitoria deve essere riguardato come un tassello importante, ma non esclusivo, di un più ampio mosaico, dove l’azione politica, l’associazionismo e i mass media hanno tutti assunto una posizione di rilievo63. Sarebbe ingenuo ignorare che, sin dalla proposizione della prima azione nei confronti delle banche svizzere, il governo federale statunitense ha messo in campo iniziative diplomatiche di alto livello al fine di risolvere in maniera soddisfacente per le parti coinvolte la questione dei risarcimenti,

59 Cfr. R.A. Kagan, Adversarial Legalism: The American Way of Law, Cambridge, 2003.60 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law,cit., pp 161-162; A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., pp 26-33.61 Kiobel et al. v. Royal Dutch Petroleum Co. et al., 133 S. Ct. 1659 (2013).62 N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento per illeciti storici. Il caso della Holocaust litigation, cit., p 160-165.63 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law,cit., p 162 ss.

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partecipando ai tavoli negoziali in persona dell’ambasciatore Stuart Eizenstat, speciale rappresentante del presidente Clinton64. Al contempo, le organizzazioni ebraiche e in particolare il World Jewish Congress hanno svolto una rimarchevole funzione di supporto e di pressione, non soltanto nei confronti dei soggetti privati coinvolti, ma anche del decisore pubblico. Infine, i mass media hanno offerto un’importantissima cassa di risonanza alle domande risarcitorie e più in generale alle pretese delle vittime. La visibilità così ascritta al problema dei profitti privati derivanti dai crimini pubblici ha quindi innescato una dinamica di sanzioni reputazionali, che ha fortemente condizionato l’azione negoziale delle imprese convenute, preoccupate soprattutto di limitare il danno d’immagine subito nel mercato statunitense a seguito della riapertura degli archivi della vergogna65.

Insomma, il pregio fondamentale delle azioni in oggetto – e di altre analoghe proposte, ad esempio, nei confronti delle imprese giapponesi coinvolte nei crimini di guerra all’epoca del secondo conflitto mondiale66 e del concessionario francese del servizio pubblico di trasporto su ferro, accusato sia negli USA sia in Francia di concorso nei crimini contro l’umanità67 – è stato quello di proiettare il tema delle riparazioni per i crimini patiti dalle vittime all’interno del circuito dell’opinione pubblica, innescando un dibattito sulla connivenza di parte del sistema industriale, bancario e assicurativo europeo con i regimi dittatoriali degli anni ’30 e ‘40.

Dal punto di vista delle vittime, quand’anche i risarcimenti ottenuti non abbiano raggiunto somme considerevoli, l’intera vicenda è stata vissuta come una forma di “giustizia simbolica”. Più che l’ammontare riconosciuto a titolo di risarcimento, il significato ultimo delle azioni in oggetto consisteva nel riconoscimento da parte dei responsabili delle profonde ingiustizie perpetrate in danno delle vittime e, direttamente o indirettamente, nella richiesta di perdono per tali fatti68.

64 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law,cit., p 162.65 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law,cit., p 163 ss.66 In Re World II Era Japanese Forced Labor Litigation, 114 F. Supp. 2d 939 (N.D. Cal. 2000).67 Abrams v. Société Nationale des Chemins de Fer Français, 175 F. Supp. 2d 423 (E.D.N.Y. 2001) 2000 WL 34498150. Per l’omologa azione proposta in Francia v. infra nota 77.68 Un tema particolarmente rilevante a questo proposito è quello dell’apology come nuovo stru-mento rimediale: si veda C. Jenkins, Taking Apology Seriously, in M. du Plessis – S. Peté, a cura di, Repairing the Past? International Perspectives on Reparations for Gross Human Rights Abuses, cit., p53 ss.; nonché il recente e ricco volume di N. Brutti, Law And Apologies. Profilo comparatistico delle scuse riparatorie, Torino, 2017, spec. p 34 ss. (sulle corporate apologies) e p 59 ss. (sul rapporto tra scuse riparatorie e riconciliazioni nazionali).

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4. Il versante italiano: il contenzioso civile per i crimini nazi-fascisti e le sue premesse

L’Holocaust litigation può essere considerata un’esperienza unica e difficilmente comparabile con altre analoghe, perché ha rappresentato davvero un punto di svolta importante rispetto alle risposte tradizionalmente messe in campo dall’ordinamento giuridico in presenza di violazioni su larga scala dei diritti umani. Il tema delle riparazioni per crimini di guerra e violazioni di massa dei diritti umani era, infatti, tradizionalmente considerato di pertinenza pressoché esclusiva del diritto pubblico ed internazionale e gestito prevalentemente in termini inter-statali, dunque tipicamente secondo una logica top-down69. Con questa vicenda giurisprudenziale emergono pienamente le potenzialità applicative dello strumento risarcitorio privatistico, che opera invece sul registro bottom-up70.

Tuttavia, la percorribilità del rimedio si sarebbe rivelata strettamente vincolata alla presenza dei fattori istituzionali di contesto precedentemente discussi, ed in particolare all’accettazione di una competenza giurisdizionale extraterritoriale per i casi di violazione dello ius cogens internazionale. Non è un caso che l’inversione di tendenza operata dalla Corte Suprema in Kiobel v. Royal Dutch Petroleum Co.71, ha sortito immediatamente i propri effetti

69 In questo discorso andrebbero ovviamente integrati anche gli schemi di indennizzo adottati a livello interno e governati dal diritto previdenziale. A mo’ di esempio, si consideri la legge fran-cese del 20 maggio 1946, che stabilisce i criteri per accedere alle misure di indennizzo previste per i danni di guerra, rilevante anche perché ritenuta per lungo tempo ostativa rispetto alle azioni risarcitorie individuali (v. D. Lochak, Le droit, la mémoire, l’histoire. La réparation différée des crimes antisémites de Vichy dévant le juge administratif, in La revue de droits de l’homme [en ligne], 2, 2012, p 7); nonché la legge “Terracini” del 10 marzo 1955, n. 96, concernente la concessione di un assegno vitalizio ai cittadini italiani che, perseguitati per ragioni politiche o razziali, avessero subito una rilevante perdita della propria capacità lavorativa (G. D’Amico, Le ‘vittime’: tra storia e diritto, in Contemporanea, 2011, p 503 ss, 505; circa la copiosa giurisprudenza che si è formata su tale disciplina, v. G. Speciale, Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali: l’esperienza ita-liana, in G. Resta – V. Zeno-Zencovich, a cura di, Riparare risarcire ricordare, cit., p 124 ss.).70 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., p 104.71 Kiobel et al. v. Royal Dutch Petroleum Co. et al., 133 S. Ct. 1659 (2013); tendenza confermata da Daimler AG v. Bauman, 134 S. Ct. 746 (2014). Si veda in proposito M. Stürner, Die terri-torialen Grenzen der Human Rights Litigation in den USA. Zu den Auswirkungen der Entscheidung des US Supreme Court vom 17.4.2013 in der Sache Kiobel et al. v. Royal Dutch Petroleum Co. et al., in Juristenzeitung, 2014, p 13 ss.; R.P. Alford, The Future of Human Rights Litigation After Kiobel, Notre Dame L. Rev., 89, 2014, p. 1749; J.L. Stengel – K. Pieper Trautmann, Determining United States Jurisdiction over Transnational Litigation, Rev. Litig. 35, 2016, p. 1; L. Bilsky – R.D. Citron – N.R. Davidson, From Kiobel Back to Structural Reform: The Hidden Legacy of Holocaust Restitution Litigation, Stan. J. Complex Litig., 2, 2014, p. 139.

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anche sul contenzioso relativo alla responsabilità civile da ingiustizie della storia. Non soltanto gli ultimi rivoli della Holocaust Litigation si sono infranti sulla barriera del difetto di giurisdizione. Soprattutto, quando altre vittime di genocidi e crimini contro l’umanità hanno provato ad adire le vie della giustizia della statunitense, si sono scontrate con l’indisponibilità delle corti ad allargare nuovamente le maglie della competenza giurisdizionale rispetto ad illeciti consumatisi al di fuori del territorio USA. Così è stato, ad esempio, per le azioni proposte dai discendenti degli Herero nei confronti della Germania e di alcune banche tedesche per il primo genocidio di inizio secolo72, o delle azioni intentate contro alcune multinazionali americane ed europee accusate di avere supportato il regime sudafricano ed avere tratto profitti dal sistema dell’apartheid73. È interessante, inoltre, notare che in alcuni di questi casi, e soprattutto, nell’ipotesi dell’azione promossa contro le imprese giapponesi per il lavoro prestato in condizioni di schiavitù da parte dei prigionieri di guerra di varie nazionalità74, l’insuccesso della via giudiziaria non ha impedito l’attivazione di un percorso negoziale poi concluso – è questo, in particolare, il caso della Mitsubishi – con un piano di indennizzazione individuale e dichiarazioni pubbliche di scusa per quanto accaduto nel passato75.

Alla luce di quanto sin qui osservato, si potrebbe ritenere che il ricorso alle tecniche della responsabilità civile quale risposta alle ingiustizie della storia, come emblematicamente rappresentato dall’esempio dell’Holocaust litigation, sia un fenomeno geneticamente e funzionalmente iscritto nell’esperienza statunitense e dunque non replicabile in assenza di quei fattori istituzionali che ne hanno favorito il sorgere e lo sviluppo. Ciò, tuttavia, è smentito dall’osservazione della più recente esperienza continentale, dove è dato riscontrare un’analoga tendenza alla proliferazione del contenzioso in materia di responsabilità civile per crimini contro l’umanità commessi nel periodo bellico, a testimonianza del fatto che ci troviamo in presenza di un fenomeno più radicato e meno ‘congiunturale’, connotato dalla progressiva sostituzione della tecnica giuridica alla razionalità politica nel processo di elaborazione e superamento degli illeciti storici76.

72 Herero People's Reparations Corp. v. Deutsche Bank AG, 370 F. 3d 1192 (D.C. Cir. 2004); Hereros ex rel. Riruako v. Deutsche Afrika-Linien Gmbh & Co., 232 F. App'x 90 (3d Cir. 2007).73 Le prime azioni individuali sono state riunite in In Re South African Apartheid Litigation, 238 F. Supp. 2d 1379 (J.P.M.L. 2002); 56 F. Supp. 3d 331 (S.D.N.Y. 2014).74 In re World War II Era Japanese Forced Labor Litigation, 114 F. Supp. 2d 939 (N.D. Cal. 2000).75 M. Bazyler, Holocaust, Genocide, and the Law, cit., pp 172-174.76 Questa, in fondo, è la tesi di A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., il quale tuttavia enfatizza in maniera forse eccessiva le particolarità dell’approccio statunitense.

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Il riferimento non è soltanto all’importante vicenda della responsabilità dello stato francese e di alcune società pubbliche (e segnatamente la SNCF, concessionaria del servizio pubblico di trasporto ferroviario) per il concorso nel genocidio del popolo ebraico77, ma anche e soprattutto al capitolo ancora aperto della responsabilità dello stato e delle imprese tedesche per gli eccidi, le deportazioni e gli altri crimini contro l’umanità perpetrati all’indomani dell’armistizio e dell’occupazione del territorio italiano.

Questa vicenda ha suscitato l’interesse dell’interprete, sovente in chiave apertamente critica, prevalentemente in ragione delle importantissime implicazioni sul piano del diritto internazionale delle famose pronunzie della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, le quali hanno negato l’ingresso nell’ordinamento italiano del principio di diritto consuetudinario dell’immunità giurisdizionale degli stati per gli atti compiuti iure imperii in periodo bellico78. Tuttavia, anche i profili relativi alla responsabilità civile meritano di essere attentamente meditati, in quanto testimoniano in maniera emblematica la pregnanza del processo di ‘individualizzazione’ del problema delle riparazioni e la decisiva importanza assunta dal principio di dignità umana quale pietra angolare e base assiologica del moderno diritto privato riparatore79.

Per comprendere meglio le ragioni di ordine pratico sottese alla proliferazione del contenzioso civile in materia è utile esplicitare due premesse.

La prima è che il confronto con i crimini perpetrati dalle forze nazi-fasciste ha avuto, fisiologicamente, una prevalente matrice penalistica. Benché il

77 Si veda, tra le principali pronunzie in materia di responsabilità civile dello Stato, T.A. Toulouse, 6 giugno 2006, M. Guidéon S. et consorts Lipietz, in AJDA, 2006, p. 2292, con nota di P. Chrestia; C.A.A. Bordeaux, 27 marzo 2007, SNCF c/Consorts Lipietz, in AJDA, 2007, p. 1309, con nota di J.-C. Jobart; CE, 21 dicembre 2007, Mme Colette Lipietz et autres, in RFDA 2008, p. 80; si veda infine l’avis contentieux del CE, Ass., 16 febbraio 2009, Mme Hoffman Glemane, in RFDA, 2009, p. 316. Per riferimenti v. P. Roche, La responsabilité de l’État du fait de la déportation de personnes victimes de persécutions antisémites, in Rev. fr. dr. adm., 2009, p 536 ss.; D. Lochak, Le droit, la mémoire, l’histoire, cit., p 1 ss.78 Per un quadro d’insieme, che ben evidenzia i profili di straordinaria rilevanza e innovatività delle pronunzie in oggetto, A. Riccio, La giurisprudenza fonte del diritto, in Cont. Imp., 2017, p 857 ss., alle pp 869-874. Per una sintesi delle critiche rivolte alla tesi, accolta dalla nostra giurisprudenza, che nega l’operatività dell’immunità degli stati per gravi violazioni dei diritti umani nell’ordinamento interno, v. E. Cannizzaro, Regimi internazionali di immunità dalla giurisdizione civile e Costituzione, in Riv. dir. proc. int. e arb. Int., 2015, p 12 ss.; C. Consolo – V. Morgante, Immunità e crimini di guerra: la Consulta decreta un plot-twist, abbraccia il dualismo e riapre alle azioni di danno, in Corr. Giur., 2015, p 100 ss.79 V. in particolare G. Alpa, Autonomia privata, diritti fondamentali e ‘linguaggio dell’odio’, cit., pp 69-70; Id., Dignità. Usi giurisprudenziali e confini concettuali, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, p 415.

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tema della responsabilità civile per i danni patiti in conseguenza delle stragi nazi-fasciste trovi già un importante punto d’emersione in una lontana decisione del Tribunale di Roma dell’immediato dopoguerra80 – decisione particolarmente rimarchevole sia per l’importanza dell’evento (la strage delle Fosse Ardeatine) sia per l’identità dei soggetti chiamati a rispondere in veste di convenuti (si trattava di alcuni dei più importanti esponenti dei GAP romani, tra i quali Franco Calamandrei, accusati di avere provocato con l’attentato di via Rasella l’abnorme reazione degli occupanti nazisti) 81 – i processi ai criminali nazisti sono stati condotti quasi esclusivamente (con maggiore o minore successo, a seconda delle diverse fasi storiche coinvolte) nelle aule dei tribunali penali82. Certo, non può dimenticarsi come già nella metà degli anni ’90 fosse stata ammessa la costituzione di parte civile delle vittime nel processo militare, aprendo così le porte alle prime richieste di risarcimento dei danni da parte dei perseguitati del nazismo e dei loro eredi83. Di fatto, però, è soltanto nell’ultimo decennio che, con la morte degli ultimi criminali ancora in vita, l’azione civile direttamente promossa nei confronti dello Stato o delle imprese fiancheggiatrici ha costituito una via obbligata per assicurare una qualche forma di ristoro alle vittime delle persecuzioni e delle stragi naziste. In questo senso il processo civile, a differenza del processo penale, si conferma come veicolo di una giustizia inter-generazionale84.

La seconda premessa, non meno importante, è che gli schemi statali d’indennizzo predisposti all’indomani della fine del conflitto bellico sono stati costruiti con maglie talmente strette da escludere un’ampia gamma

80 Trib. Roma, 9 giugno 1950, in Giur. it., 1950, I, 2, 577, con nota di D. Peretti Griva, L’attentato di via Rasella e le responsabilità per l’eccidio delle Fosse Ardeatine; la decisione è confer-mata in appello e in cassazione, v. Cass, S.U., 19 luglio 1957, n. 3053, in Foro it., 1957, I, 1398.81 Per i necessari approfondimenti e un’analisi della pronunzia sia consentito il rinvio a G. Resta – V. Zeno-Zencovich, Judicial ‘Truth’ and Historical ‘Truth’: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, Law & History Rev., 31, 2013, p 843 ss., alle pp 862-864; in particolare sul coinvol-gimento di Franco Calamandrei nell’attacco di via Rasella e le successive vicende giurisdizionali, v. il bel saggio di F. Cipriani, Piero e Franco Calamandrei tra via Rasella e le Fosse Ardeatine, in Clio, 2009, p 45 ss. 82 Un quadro approfondito delle tre fasi di sviluppo dei processi ai criminali nazi-fascisti è offerto da M. De Paolis, La punizione dei crimini di guerra in Italia, in S. Buzzelli – M. De Paolis – A. Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari, Torino, 2012, pp 63-155.83 Corte cost., 28 febbraio 1996, n. 60. Sul punto v. A. Speranzoni, Problematiche relative alle parti eventuali nei processi italiani per crimini di guerra, in S. Buzzelli – M. De Paolis – A. Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia, cit., p 209 ss. 84 Sul punto A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., p 79.

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di vittime astrattamente meritevoli di protezione85. In particolare, gli internati militari italiani, i lavoratori civili e le vittime di massacri militari non rientravano nelle categorie tutelate e le loro rivendicazioni erano destinate a scontrarsi con gli accordi inter-statali in materia di riparazione. In particolare, il Trattato di Pace stipulato tra le Potenze Alleate e l’Italia a Parigi il 10 febbraio 1947 conteneva una clausola di rinunzia, con funzione sostanzialmente punitiva dell’originale co-belligeranza con la Germania. L’art. 77, c. 4, del Trattato prevedeva, infatti, la rinunzia da parte dell’Italia, a suo nome e a nome dei suoi cittadini, a qualsiasi domanda di risarcimento nei confronti della Germania e dei suoi cittadini pendente alla data dell’8 maggio 1945, con la sola eccezione dei diritti acquisiti prima del 1 settembre 193986. Del pari, l’Accordo di Londra sui debiti di guerra tedeschi del 27 febbraio 1953 rinviava a un futuro trattato le altre pretese di riparazione, concernenti ad esempio la situazione dei deportati o dei lavoratori forzati. A seguito delle proteste sollevate da 8 paesi occidentali nei confronti della Germania per il ritardo con cui si affrontò la tematica dei risarcimenti, si aprirono trattative bilaterali con i vari stati, ai quali si aggiunse da ultimo anche l’Italia, sebbene da una posizione politicamente debole e giuridicamente meno favorita, in quanto pesava sul nostro paese l’atto di rinunzia contenuto nel Trattato di Pace del 194787. Ad ogni modo, nel giugno 1961 si addivenne a Bonn alla stipula di un accordo bilaterale italo-tedesco, che apprestava una qualche forma di ‘aiuto umanitario’, ma che risentiva fortemente dell’intento del governo tedesco di restringere al massimo la cerchia dei soggetti legittimati88.

85 In tema v. G. Hammermann, Le trattative per il risarcimento degli internati militari italiani 1945-2007, in Italia contemporanea, 2007, p 541 ss.; M. Ponzani, Il peso del passato. Germania, Italia e i risarcimenti alle vittime del nazismo. Intervista a Lutz Klinkhammer, in www.giornaledistoria.net; F. Focardi – L. Klinkhammer, Wiedergutmachung für Partisanen? Das deutsch-italienische Globalabkommen von 1961, in H. G. Hockerts, a cura di, Grenzen der Wiedergutmachung. Die Entschädigung für NS-Verfolgte in West- und Osteuropa 1945-2000, Göttingen, 2006, p 458 ss.; B. Maida, L’internamento militare tra storiografia e memoria pubblica, in Seicentomila NO. La resistenza degli internati militari italiani, Torino, 2014, p 19 ss.86 Tale articolo stabiliva: “senza pregiudizio di tali disposizioni e di quelle altre disposizioni che fossero adottate in favore dell’Italia e dei cittadini italiani dalle Potenze che occupano la Germania, l’Italia rinuncia, a suo nome e a nome dei cittadini italiani, a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici pendente alla data dell’8 maggio 1945, salvo quelle risultanti da contratti o da altre obbligazioni che fossero in forza, ed ai diritti che fossero stati acquisiti, prima del 1 settembre 1939. Questa rinuncia sarà considerata applicarsi ai debiti, a tutte le ragioni di carattere interstatale relative ad accordi conclusi nel corso della guerra e a tutte le domande di risarcimento di perdite o di danni occorsi durante la guerra”.87 V. L. Klinkhammer, in M. Ponzani, Il peso del passato. Germania, Italia e i risarcimenti alle vittime del nazismo. Intervista a Lutz Klinkhammer, cit., p 7.88 Accordo concluso a Bonn il 2 giugno 1961 fra la Repubblica italiana e la Repubblica Federale

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A fronte della corresponsione di 40 milioni di marchi a titolo di “riparazione morale”, a beneficio degli individui che “per razza, fede religiosa, motivi ideologici erano stati colpiti da atti di persecuzione del nazionalsocialismo”, Italia e Germania convenivano in via pattizia che: “sono definite tutte le rivendicazioni e richieste della Repubblica italiana, o di persone fisiche e giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Repubblica federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche”. L’Italia si dichiarava, pertanto, obbligata a tenere indenne la Germania da ogni eventuale azione o altra pretesa legale da parte di persone fisiche o giuridiche italiane. Il d.p.r. 6 ottobre 1963, n. 2043, che adottava le misure di implementazione del suddetto accordo, concentrava la legittimazione attiva sui detenuti (per ragioni di razza, fede o ideologia) presso campi di concentramento del tipo K.Z. 89 L’art. 1, terzo comma, ammetteva alla riparazione gli internati militari e i lavoratori non volontari soltanto nel caso in cui costoro fossero stati trasferiti nei campi di concentramento nazionalsocialisti in Germania “in seguito ad atto di resistenza o ritenuto tale o per atti considerati di sabotaggio alla produzione tedesca” 90. Con ciò risultavano esclusi la gran parte dei militari italiani disarmati dall’esercito tedesco all’indomani dell’8 settembre 1943 e internati nei campi di prigionia, nonché dei lavoratori coatti detenuti nei campi di lavoro; nell’insieme si trattava della maggioranza degli italiani deportati nei campi tedeschi. Né la situazione di tali vittime mutò in maniera sostanziale dopo la proposizione delle prime azioni risarcitorie negli Stati Uniti e l’istituzione, a seguito di intense trattative diplomatiche, della Fondazione “Erinnerung, Verantwortung und Zukunft”, responsabile della distribuzione di un nuovo fondo di indennizzo costituito con il concorso di patrimoni pubblici e privati per il risarcimento dei lavoratori forzati91. Nonostante l’apparente apertura contenuta in un documento ufficiale della Commissione Interni del Bundestag, un parere redatto da Christian Tomuschat per il Ministero

di Germania, per il regolamento di alcune questioni di carattere economico, patrimoniale e finanziario, approvato con il d.p.r. 14 aprile 1962, n. 1263. In proposito v. le considerazioni di L. Klinkhammer, in M. Ponzani, Il peso del passato. Germania, Italia e i risarcimenti alle vittime del nazismo. Intervista a Lutz Klinkhammer, cit., p 5.89 Sul punto L. Klinkhammer, in M. Ponzani, Il peso del passato. Germania, Italia e i risarci-menti alle vittime del nazismo. Intervista a Lutz Klinkhammer, cit., p 6.90 Art. 1, c. 3, d.p.r. 6 ottobre 1963, n. 2043, Norme per la ripartizione della somma versata dal Governo della Repubblica Federale di Germania, in base all'Accordo di Bonn del 2 giugno 1961, per indennizzi a cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste.91 G. Hammermann, Le trattative per il risarcimento degli internati militari italiani 1945-2007, cit., p 547 ss.

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delle Finanze tedesco sbarrò definitivamente la strada ai risarcimenti92. In tale parere si sosteneva, infatti, che la riduzione degli internati militari italiani allo stato di lavoratori civili, disposta nell’autunno del 1944, era da considerarsi contraria alla Convenzione di Ginevra e pertanto inefficace sul piano del diritto internazionale. Di conseguenza, gli internati militari avrebbero dovuto continuare a essere qualificati prigionieri di guerra e come tali privi della legittimazione attiva a domandare il risarcimento dei danni. I dinieghi opposti alle richieste di risarcimento furono impugnati da parte degli ex-internati e dalle associazioni di reduci di fronte ai competenti organi giurisdizionali tedeschi, ma senza successo93.

L’effetto congiunto di tali norme e pratiche interpretative ha fatto sì che lo strumento indennitario non abbia potuto operare in questo campo come valida alternativa funzionale rispetto al contenzioso civile, come generalmente avviene nell’ipotesi dei mass torts. Sicché l’istituto della responsabilità civile ha finito per trovarsi, giocoforza, in una posizione difficile: quella di ultimo baluardo per la protezione degli interessi delle vittime e per la loro reintegrazione nella comunità politica, e quella di luogo di risoluzione di un conflitto di natura non meramente individuale e connotato da coordinate spazio-temporali fortemente distanti da quelle attuali.

5. Dal caso Ferrini alla più recente giurisprudenza sulle stragi naziste

Il vero spartiacque nella storia delle risposte giurisprudenziali alle domande di risarcimento per le persecuzioni naziste è costituito dalla celebre controversia Ferrini94.

Luigi Ferrini, catturato in Italia all’età di diciotto anni e deportato nel campo di Kahla, dove fu costretto ai lavori forzati per conto delle imprese Reimahg Werke e Messerschmitt, aveva citato in giudizio lo stato tedesco di fronte al Tribunale di Arezzo per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla prigionia. Rigettata la domanda sia in primo grado sia in secondo grado per difetto di

92 Per i dettagli v. G. Hammermann, Le trattative per il risarcimento degli internati militari ita-liani 1945-2007, cit., p 550.93 Tra le altre v. BVerfG, 28-6-2004 – 2 BvR 1379/01; OVG Berlin, 4-11-2003 (OVG 6 M 20.03); v. G. Hammermann, Le trattative per il risarcimento degli internati militari italiani 1945-2007, cit., p 552-554.94 Si veda P. De Sena – F. De Vittor, State Immunity and Human Rights: The Italian Supreme Court Decision on the Ferrini Case, in Eur. J. Int’l L., 16, 2005, p 89 ss.

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giurisdizione, la Corte di Cassazione, con pronunzia a sezioni unite, aveva cassato tali pronunzie con rinvio, affermando il principio, assolutamente innovativo, per cui l’immunità dalla giurisdizione civile degli stati esteri non può essere riconosciuta dall’ordinamento interno in presenza di atti gravemente lesivi di diritti fondamentali della persona umana, “la cui tutela è affidata a norme inderogabili che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale, prevalendo su ogni altra norma sia di carattere convenzionale che consuetudinario”95.

Una presa di posizione così coraggiosa e innovativa aveva trovato ulteriori conferme nel 2008, quando era stata affermata l’esecutività in Italia della sentenza della Suprema Corte greca, che aveva condannato la Germania al risarcimento dei danni nei confronti di alcuni civili vittime della strage di Distomo, ribadendo l’assenza di conflitto con l’ordine pubblico interno del diniego di immunità dalla giurisdizione civile per crimini contro l’umanità96. Inoltre, sempre nel 2008, le sezioni unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a pronunziarsi sul regolamento preventivo di giurisdizione in relazione ad una causa per risarcimento dei danni e restituzione dell’ingiusto arricchimento proposta contro la Germania e la Daimler-Chrysler da alcuni cittadini italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943 e costretti ai lavori forzati presso gli stabilimenti della Daimler-Chrysler. Nel confermare con ordinanza l’opinione espressa nel 2004, la Suprema Corte ha rilevato che l’antinomia tra il principio consuetudinario di immunità dalla giurisdizione civile e quello volto alla repressione dei crimini internazionali che minacciano l’umanità intera – principi entrambi automaticamente recepiti dal nostro ordinamento per effetto dell’art. 10 Cost. – “non può altrimenti risolversi […] che sul piano sistematico, dando prevalenza alle norme di rango più elevato” 97. In secondo luogo, la Corte ha espressamente considerato, e rigettato limitatamente al profilo della competenza giurisdizionale, l’argomento dell’efficacia preclusiva del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e dell’Accordo tra Italia e Germania del 1961.

Nella coeva sentenza concernente la responsabilità civile dello stato tedesco per i crimini commessi dalle truppe d’occupazione nei confronti

95 Cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5044, in Riv. dir. int., 2004, p 539 ss., al par. 9; tra i molti commenti v. G. Giannelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati dalla giurisdizione nella sentenza Ferrini, in Riv. dir. int., 2004, p 643 ss.96 Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 14199, in Riv. dir. int., 2009, p 594; per un confronto sincronico v. M. Rau, State Liability for Violations of International Humanitarian Law – The Distomo case Before the German Federal Constitutional Court, German L. J., 7, 2005, p 701 ss.97 Cass. civ., sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201, in Foro it., 2009, I, 1568, con nota di F. Gandini.

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di civili inermi a Civitella Val di Chiana98, la Suprema Corte ha limitato l’impatto di tale disciplina pattizia anche in ordine ai profili sostanziali dei rapporti in oggetto, confinando l’effetto preclusivo alle sole questioni “ancora pendenti” al momento della sottoscrizione dell’accordo. “Va riconosciuto – ha osservato la Corte – che è munita di solida base giustificativa l’opinione accolta nella sentenza impugnata secondo cui è da escludere che possa applicarsi l’Accordo del 1961 ad una controversia, come quella dedotta nel presente processo, non ancora pendente, perché neppure iniziata alla data di stipulazione della convenzione tra i due Stati, tanto più che nessun apprezzabile argomento depone a favore della tesi del ricorrente, il quale ha sostenuto, senza convincenti argomenti, che il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, concordato con detto Accordo, comprenderebbe anche le rivendicazioni e le domande relative al ristoro dei danni morali cagionati da crimini internazionali commessi attraverso la grave lesione dei diritti inviolabili dell’uomo” 99.

Dopo la sentenza di condanna emessa dalla Corte internazionale di giustizia nei confronti dell’Italia per violazione della norma consuetudinaria sull’immunità degli stati100 e il frettoloso abbandono da parte del Governo in carica della via della trattativa negoziale con la Germania, incoraggiata dalla stessa Corte dell’Aja, il potere giudiziario ha nuovamente ripreso in mano le redini della questione.

Sollevata da parte del Tribunale di Firenze la questione di costituzionalità della regola (desunta dalle fonti interne ed internazionali) dell’immunità statale101, la Corte costituzionale, con una tanto innovativa quanto controversa pronunzia, ha munito della forza di resistenza dei contro-limiti il principio della tutela giurisdizionale per fatti gravemente lesivi della

98 Cass. pen., 21 ottobre 2008, n. 1072, in Foro it., 2009, II, 332.99 Cass. pen., 21 ottobre 2008, n. 1072, cit.100 I.C.J., 3 febbraio 2012, Jurisdiction Immunities of the State (Germany v. Italy, Greece interven-ing), in Riv. dir. int., 2012, 475.101 Il Tribunale di Firenze ha emesso 4 ordinanze di rimessione in data 21 gennaio 2014, in Foro it., 2014, I, c 976, relative a cause di risarcimento dei danni promosse da due ex militari italiani (Duilio Bergamini e Furio Simoncioni, ancora in vita al momento del processo) internati nei campi di concentramento in Germania e sottoposti a lavoro coatto; dagli eredi di un civile italia-no (Luigi Capissi) deportato e deceduto in un campo di concentramento tedesco in seguito alle sevizie subite; dalle figlie di un civile italiano (Angiolo Donati, ferito e poi assassinato nel corso di una azione di rappresaglia). Convenuto, in tutti questi procedimenti, era lo stato tedesco, al quale si aggiungevano in un caso anche gli autori materiali del crimine. Per i dettagli si veda P. Veronesi, Colpe di stato: I crimini di guerra e contro l'umanità davanti alla Corte costituzionale, Milano 2017, p 118, 127 ss.

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dignità della persona umana102. Da allora in poi i repertori si sono arricchiti di numerose altre decisioni,

di merito e di legittimità, concernenti domande risarcitorie proposte nei confronti dello stato, o di persone fisiche (autori materiali delle condotte) e giuridiche (per lo più imprese beneficiarie delle prestazioni di lavoro in schiavitù) tedesche.

Le tipologie di illecito rimesse alla cognizione delle corti sono le più varie. Tra le ipotesi principali si annoverano: a) la deportazione nei campi di concentramento e l’assoggettamento ai lavori forzati103; b) gli eccidi e le stragi commessi da forze militari104; c) ferimenti, uccisioni e altri crimini 102 Corte cost., 22 ottobre 2014, n. 238, in Foro it., 2015, I, 1152 con note di A. Palmieri e di A. Sandulli, All’estremo limite dei controlimiti: la Corte costituzionale e l’ordine legale internazio-nale. Della pronunzia, mirabile sotto molteplici profili, mette conto qui ricordare unicamente lo straordinario rilievo attribuito al principio di rispetto della dignità umana quale chiave di volta del sistema dei diritti fondamentali: “il giudice rimettente ha non casualmente indicato congiuntamente gli artt. 2 e 24 Cost., inestricabilmente connessi nella valutazione di legittimità costituzionale chiesta a questa Corte. Il primo è la norma sostanziale posta, tra i principi fon-damentali della Carta costituzionale, a presidio dell’inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, tra i quali, nella specie conferente a titolo primario, la dignità. Il secondo è anch’esso a presidio della dignità della persona, tutelando il suo diritto ad accedere alla giustizia per far valere il proprio diritto inviolabile”. Tra i molti commenti alla pronunzia, v. E. Cannizzaro, Regimi internazionali di immunità dalla giurisdizione civile e Costituzione e A. Ciampi, Perché è bene che la sentenza 22 ottobre 2014 n. 238 sia stata scritta e che sia italiana, entrambi in Riv. dir. proc. int. e arb. Int., 2015, p 12 ss.; C. Consolo – V. Morgante, Immunità e crimini di guerra: la Consulta decreta un plot-twist, abbraccia il dualismo e riapre alle azioni di danno, in Corr. Giur., 2015, p 100 ss.; alla sentenza e al suo contesto è dedicato il volume monografico di P. Veronesi, Colpe di stato: I crimini di guerra e contro l'umanità davanti alla Corte costituzionale, cit., p 11 ss.103 Cass., sez. un., 13 gennaio 2017, n. 762, in Banche dati del Foro it. (azione proposta da un significativo numero di vittime ed eredi) ; Cass., sez. un., 29 luglio 2016, n. 15812, in Banche dati del foro it. (azione proposta da un ex internato militare italiano costretto ai lavori forzati in Germania); App. Firenze, 18 agosto 2016, n. 1335; Trib. Firenze, 6 luglio 2015, nn. 2468 e 2469, in Danno e resp., 2016, n. 752, con nota di L. Molinari, Il risarcimento del danno non patrimoniale ai deportati nei campi di concentramento nazisti (entrambe relative all’azione per danni dalla deportazione nel campo di concentramento di Mathausen e assoggettamento ai lavori forzati); Trib. Firenze, 7 dicembre 2015, n. 4345 (inedita, citata da P. Veronesi, Colpe di stato: I crimini di guerra e contro l'umanità davanti alla Corte costituzionale, cit., p 229); Trib. Ascoli Piceno, 8 marzo 2016 (inedita, citata da P. Veronesi, Colpe di stato: I crimini di guerra e contro l'umanità davanti alla Corte costituzionale, cit., p 229); Trib. Roma, 10-11 ottobre 2016, n. 18546 (concernente l’azione di risarcimento danni proposta dal figlio di un partigiano italiano, il sig. Cavallina, deportato a Dachau e poi a Natzweiler); Trib. Torino, 20 ottobre 2009, in Banche dati di Ius Explorer (concernente la posizione di un militare italiano di leva, catturato a chiusa e deportato in Germania per essere assoggettato ai lavori forzati).104 Trib. Sulmona, 2 novembre 2017, in Corr. Giur., 2018, 783, con note di M.I. Papa – A. Zanobetti, Eccidio di Roccaraso: giurisdizione italiana e immunità degli Stati dalla giurisdizione civile e di G. Facci, Crimini di guerra e risarcimento dei danni; e in Giur. It., 2018, 1118, con

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perpetrati contro i civili105.Oltre alla questione dell’immunità, che continua ad essere

sistematicamente sollevata dai convenuti ma rigettata dai collegi106, le problematiche più rilevanti attengono alla quantificazione del danno risarcibile, alla legittimazione all’esercizio dell’azione, alla prescrizione del diritto. Alcune recenti decisioni di merito sul caso dei civili deportati nei campi e sulle stragi naziste, oltre a rappresentare un chiaro riscontro giudiziario del rinnovato interesse che la storiografia contemporanea ha dedicato al tema della “guerra ai civili” 107, offrono un utile compendio delle tematiche emergenti.

Tutte le decisioni esaminate muovono dal duplice presupposto che i comportamenti in questione (deportazione, lavoro forzato, violenze efferate commesse in danno dei civili inermi), integrando gli estremi dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, costituiscono illeciti rilevanti sul piano aquiliano108 e che sussiste la responsabilità diretta del Terzo Reich, anche in assenza di specifica identificazione degli autori del crimine109, in virtù del rapporto organico o di preposizione intercorrente con i militari dislocati sui territori occupati e con i funzionari a qualsiasi titolo coinvolti

nota di D. Girardi, Dall’immunità alla responsabilità degli stati stranieri: una pagina di giustizia sull’eccidio di Pietransieri. 105 Trib. Firenze, 22 febbraio 2016, in Banche dati del Foro it. (domanda proposta dalle figlie di un civile, Angiolo Donati, prima ferito e poi inseguito e barbaramente ucciso, pur essendo disarmato, nelle campagne di Falzano di Cortona da parte delle truppe tedesche nel corso di un’azione di rappresaglia contro i civili per gli attacchi subiti dai partigiani). 106 V. ex plurimis Cass., sez. un., 13 gennaio 2017, n. 762, cit.; Cass., sez. un., 29 luglio 2016, n. 15812, cit. Sul punto M. Porcelluzzi, Nulla è più come prima: la responsabilità degli stati esteri per crimini internazionali nel foro civile italiano, in Dir. comm. Int., 2018, p 245 ss.107 Si veda in proposito M. Battini – P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, 1997; L. Baldissara – P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, Bologna, 2009; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili 1943-1944, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi e violenza nazista nella Seconda guerra mondiale. Riflessioni su alcune questioni aperte, in Ricerche di storia politica, 2008, p 37 ss.108 Cfr. ad es. in tema di deportazione e internamento in un campo di concentramento e sottoposizione ai lavori forzati, qualificati crimini contro l’umanità e quindi fatti illeciti rilevanti ex art. 2043 c.c., Trib. Torino, 20 ottobre 2009, in Banche dati di Ius Explorer, ove si osserva che: “le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali, e che configurano come crimini internazionali i comportamenti che più gravemente attentano all'integrità di tali valori, sono parte integrante dell'ordinamento italiano, e costituiscono parametro dell'ingiustizia del danno causato da un fatto doloso o colposo altrui”; Trib. Firenze, 6 luglio 2015, cit., p 760; Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 14202, cit.109 Ma in alcuni casi l’azione è proposta anche nei confronti degli autori materiali del crimine (v. Trib. Firenze, 22 febbraio 2016, cit.).

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nell’amministrazione della macchina del terrore110. Di conseguenza, in ossequio al principio della continuità della personalità statale, la Repubblica Federale di Germania è tenuta a rispondere dei fatti illeciti contestati, circostanza peraltro mai contestata dallo stesso stato tedesco111.

Le questioni più complesse attengono, però, al lato attivo del rapporto. Innanzitutto, come si ricordava pocanzi, il possibile effetto preclusivo degli Accordi del 1947 e del 1961 continua ad essere dibattuto, ma non risultano scostamenti rispetto alla soluzione già fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità. Si circoscrive l’impatto di tale normativa ai rapporti di natura economica già pendenti al momento della stipula del trattato, mentre vengono sottratti al suo ambito d’applicazione le azioni risarcitorie per danni extracontrattuali, in quanto attinenti alla tutela di diritti personalissimi e – come affermano alcuni giudici di merito – “non rinunziabili dallo stato”112.

La definizione della cerchia dei soggetti legittimati ad agire e della natura del danno risarcibile risulta, invece, più problematica, in ragione dell’ampio lasso temporale intercorrente tra l’illecito e il pregiudizio di cui si invoca il risarcimento. Sono poche, infatti, le vittime dei crimini in oggetto ancora in vita113, sicché ad agire in giudizio sono prevalentemente congiunti ed eredi. Le principali tipologie di danni risarcibili sono le seguenti114:

i) risarcimento dei danni non patrimoniali iure proprio alle persone che, ancora in tenera età all’epoca dei fatti, assistettero personalmente alla barbara uccisione di genitori ed altri parenti stretti115;

ii) risarcimento dei danni non patrimoniali iure proprio a favore di coloro che, all’epoca degli illeciti, persero un parente stretto in conseguenza di atti di violenza. È da notare che la sussistenza di uno stretto rapporto di parentela viene inteso dai giudici come un elemento atto a incidere sulla prova del pregiudizio, piuttosto che sulla legittimazione ad agire116. Inoltre 110 Trib. Sulmona, 2 novembre 2017, cit.111 Sul punto, per un’analisi dei precedenti già in sede penale, v. A. Speranzoni, Problematiche relative alle parti eventuali nei processi italiani per crimini di guerra, in S. Buzzelli – M. De Paolis – A. Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia, cit., pp 238-239. 112 Trib. Firenze, 6 luglio 2015, n. 2469, cit., 761-762.113 Per alcuni esempi v. Cass., sez. un., 13 gennaio 2017, n. 762, cit.; Trib. Firenze, 6 luglio 2015, nn. 2468 e 2469, cit.114 Su questo aspetto e sui problemi di liquidazione, v. L. Molinari, Il risarcimento del danno non patrimoniale ai deportati nei campi di concentramento nazisti, cit.; e G. Facci, Crimini di guerra e risarcimento dei danni, cit.115 Cfr. il caso deciso da Trib. Sulmona, 2 novembre 2017, cit.116 In genere, per un panorama giurisprudenziale in ordine alla fattispecie della lesione del rapporto parentale e le sue conseguenze risarcitorie, v. V. Ceccarelli – E. Occhipinti – I.

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è significativo che è stato ammesso il risarcimento a favore di coloro che all’epoca dei fatti erano soltanto concepiti, ma non ancora nati117; mentre esso è stato negato ai non concepiti, i quali lamentavano la perdita dei nonni paterni o materni. Le corti hanno escluso che in tale ipotesi potesse ritenersi raggiunta la prova di un pregiudizio, ancorché presuntivamente accertato, proprio in ragione del mancato concepimento e della nascita avvenuta a distanza di tempo dagli eventi;

iii) risarcimento del danno non patrimoniale iure successionis a favore degli eredi di persone sopravvissute, anche per un limitato lasso di tempo, ai crimini posti in essere – deportazione, assoggettamento a lavoro forzato, tortura e atti di violenza – dalle milizie nazi-fasciste e nel frattempo decedute118. A tal riguardo è interessante notare che le corti abbiano ritenuto irrilevante l’effettiva proposizione della domanda giudiziale da parte degli originari titolari del diritto al risarcimento per lesione del rapporto parentale prima del loro decesso. In buona sostanza, le corti ricostruiscono la fattispecie nei termini di un credito risarcitorio penetrato nel patrimonio del de cuius prima della morte di costui e suscettibile di trasmissione secondo le regole ordinarie della devoluzione ereditaria;

iv) infine, è degno di nota che almeno in un caso – ma vi sono molteplici precedenti in sede penale, essendo stata da lungo tempo ammessa la

Sardella, Il danno alla persona derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente tutelati: non solo danno morale ed esistenziale, Danno e resp., 2016, p 493 ss., p 495.117 Trib. Firenze, 22 febbraio 2016, cit., con riferimento alla posizione della figlia che sarebbe nata dopo poche settimana dall’uccisione del padre. 118 V. ad es. Trib. Firenze, 22 febbraio 2016, cit., che afferma il risarcimento iure successionis del danno non patrimoniale patito dalla vittima “conseguente al terrore della sparatoria, dell’inseguimento dell’omicidio a freddo, sofferenze fisiche e psichiche non contestate: sofferenze che si sono concretizzate nel totale, ancorché temporaneo, annientamento della sua dignità di persona, fino alla uccisione”; Trib. Firenze, 6 luglio 2015, cit., p 763, con riferimento al danno subito da un soggetto deportato a Mathausen e sopravvissuto alla prigionia: “Questo giudice ritiene che tra i profili risarcibili perché fortemente lesivi della personalità e della salute psicofisica vi sia in primo luogo l’aver assistito di persona all’orrore del programmato sterminio. Aver assistito allo sterminio, programmato ma anche casuale (come narrato in citazione), aver assistito direttamente alla estrema sofferenza fisica e morale di centinaia di persone contemporaneamente, aver assistito alla sopraffazione umana delle vittime ed alla morte dei sopraffatti costituisce di per sé una ferita morale che ha certamente prodotto per lunghissimo tempo un dolore morale lancinante anche in A1. Sulle condizioni materiali subite direttamente dal A1 non è necessario soffermarsi troppo. Si pensi solamente al protrarsi per quasi venti mesi della condizione di terrore per la propria sopravvivenza. Si pensi alla sofferenza psichica e fisica al momento nella deportazione sui carri piombati per la Germania. Si pensi alle condizioni di lavoro sopportate come descritte in citazione”.

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costituzione di parte civile degli enti nei processi per i crimini nazi-fascisti119 - è stato ritenuto risarcibile, in aggiunta alle altre voci di danno, il danno non patrimoniale lamentato da un Comune a seguito della barbara uccisione, a titolo di rappresaglia, di 128 dei suoi abitanti (inclusi bambini, donne ed anziani) nel novembre del 1943120. Il giudicante ha ritenuto che il comune, in quanto ente esponenziale degli interessi della comunità territoriale, fosse legittimato a richiedere il risarcimento del danno (quantificato in 1.641.000 Euro) da questa patito, essendo stata la comunità in oggetto segnata per generazioni dalla memoria dell’eccidio e pregiudicata nelle sue opportunità di benessere.

Quanto alla prova dei fatti lesivi, questa è generalmente ritenuta integrata da presunzioni e risultanze storiche – l’internamento in campi come Dachau e Mathausen implicava di regola la sottoposizione a torture e altri trattamenti inumani –, ma l’onere della prova nelle azioni risarcitorie non risulta del tutto svuotato. In un caso recente, deciso dal Tribunale di Roma, ad esempio, era mancata la prova inoppugnabile – che tuttavia non sempre è possibile fornire a distanza di molti anni dall’evento, e date le condizioni nelle quali avvenivano i rastrellamenti di civili e militari da parte delle forze di occupazione tedesche – dell’avvenuta deportazione in Germania ed internamento in un campo121.

Un altro profilo particolarmente controverso è quello della prescrizione. Ci si chiede, infatti, se in sede civile possa ritenersi vigente e suscettibile di applicazione retroattiva la norma originariamente elaborata in via di consuetudine internazionale e poi codificata in diversi documenti pattizi, la quale dispone l’imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’umanità. La giurisprudenza, a ciò sollecitata dalla difesa dello stato tedesco, ha dato risposte non sempre concordanti122. Mentre alcune decisioni hanno sancito la prescrittibilità del diritto al risarcimento123, le pronunzie più recenti e nel complesso maggioritarie sono orientate in senso opposto. Muovendo dalla premessa per cui nelle materie diverse da quella penale il principio di irretroattività è posto da una legge ordinaria (art. 11 delle preleggi) e come tale è modificabile da norme di pari rango successive nel tempo, si è stabilito 119 Sul punto v., anche per riferimenti giurisprudenziali, A. Speranzoni, Problematiche relative alle parti eventuali nei processi italiani per crimini di guerra, cit., p 217 ss. 120 Trib. Sulmona, 2 novembre 2017, cit.121 Trib. Roma, 10-11 ottobre 2016, cit.122 Analoga discussione si è avuta in Francia a proposito della responsabilità dello Stato per i crimini perpetrati durante il regime di Vichy (per gli opportuni riferimenti giurisprudenziali v. D. Lochak, Le droit, la mémoire, l’histoire, cit., p 16).123 In tal senso v. con dovizia di argomentazioni, Trib. Torino, 20 ottobre 2009, cit.

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che il principio d’imprescrittibilità sancito dal diritto internazionale, essendo volto a escludere che i crimini di guerra commessi dal regime nazifascista vadano esenti da sanzione, è suscettibile di applicazione anche ai giudizi civili promossi a distanza di molti anni dall’evento124. In sostanza, si assume che i crimini in oggetto rappresentano sia illeciti internazionali che civili secondo l’ordinamento interno, la cui natura è però conformata, anche sotto il profilo della prescrizione, dall’illecito internazionale125.

Nel complesso questo filone giurisprudenziale offre uno spaccato importante dei problemi con i quali il diritto contemporaneo è chiamato a confrontarsi quando intraprende la via della ‘giuridificazione’ degli accadimenti storici e riflette un’attitudine particolarmente espansiva delle corti nei confronti della posizione delle vittime. Esso merita, ad avviso di chi scrive, un plauso particolare poiché, nonostante tutte le critiche che possano essere mosse sul piano della rottura dell’ordine giuridico internazionale o del divario tra affermazioni di principio e concreta eseguibilità delle sentenze126, esso testimonia una convinta adesione ai principi di tutela della dignità umana e garanzia dei diritti inviolabili della persona (artt. 2 e 3 Cost.) 127. Adesione che conduce, concretamente, a statuire la prevalenza della rule of law sulla rule of politics (si noti che in alcune delle più importanti controversie citate il Governo italiano ha spiegato un intervento adesivo dipendente a favore della Germania, facendo valere il principio dell’immunità degli stati e assumendo una posizione negativa in ordine alle istanze risarcitoria e quindi contraria a quella difesa dalla giurisprudenza maggioritaria) 128, nonché a innescare un rimarchevole processo di revisione e adeguamento di principi e regole consolidati. Così è, emblematicamente129, per la regola 124 Trib. Torino, 19 maggio 2010, n. 6624/216 (relativa ad un’azione di risarcimento danni proposta da un internato militare italiano); Trib. Firenze, 6 luglio 2015, n. 2469, cit.; in tema v. P. Veronesi, Colpe di stato: I crimini di guerra e contro l’umanità davanti alla Corte costituzionale, cit., p 234.125 Sul punto v. A. Galasso, Universalità del diritto della persona: prospettive ed esperienze, in R. Alessi – S. Mazzarese – S. Mazzamuto, a cura di, Persona e diritto. Giornate di studio in onore di A. Galasso, Milano, 2013, p 421 ss., alla p 428, con riferimento alla sentenza del Trib. Bologna, 12 ottobre 2011, cit., relativa a un caso di azione per danni da deportazione e lavoro forzato.126 Indubbiamente penetranti sono, a questo riguardo, le considerazioni espresse da A. Sandulli, All’estremo limite dei controlimiti: la Corte costituzionale e l’ordine legale internazionale, cit.127 In generali v. quanto osservato da J. Luther, Riparare equamente: una storia dei diritti delle vittime, cit. 128 Sul punto M.I. Papa – A. Zanobetti, Eccidio di Roccaraso: giurisdizione italiana e immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, cit., p 796.129 Ma v. per un altro esempio significativo Cons. stato, 6 agosto 2013, n. 4112/2013, ove si legge, in merito ad una controversia sulla restituzione di un quadro di pregio sottratto ai legittimi

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della prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni extracontrattuali, capovolta in nome di un opposto principio desunto dal diritto internazionale umanitario, che porta a rendere – come si è scritto – ciascuno di noi contemporaneo dell’illecito.

Ciò da un lato conferma il ruolo preponderante assunto dal potere giudiziario quale custode di ultima istanza dell’universalismo dei diritti umani130.

Dall’altro offre un ulteriore riscontro a quel fenomeno di “crisi della fattispecie” rilevato con la consueta acutezza da Natalino Irti131 e che, lungi dal segnalare un decadimento del gradiente di giuridicità di un sistema, ne riflette l’adattabilità e la sensibilità al mutato quadro dei valori. In quest’ottica non è irrilevante che la responsabilità civile si collochi su una posizione estremamente avanzata e assuma spesso un ruolo di apripista. Come più volte segnalato da Guido Alpa, esso è uno degli istituti del diritto privato che maggiormente riflettono i mutamenti sociali e le pressioni degli interessi emergenti132. Non può stupire, pertanto, come rispetto all’importante tematica della riparazione delle ferite della storia, come più in generale in relazione alla tutela dei diritti umani, anche la responsabilità civile stia svolgendo una funzione importante. Né sembra che siano del tutto condivisibili le critiche mosse a tali orientamenti da parte di chi ha rilevato come l’azione proposta dagli eredi delle vittime a più di 70 anni dai fatti abbia una curvatura prevalentemente patrimoniale, e come il rango del diritto primario leso non possa legittimare la prevalenza accordata dalla giurisprudenza al diritto alla tutela giurisdizionale rispetto a principi confliggenti, come quello dello della sovrana uguaglianza degli Stati, cui si collega il riconoscimento dell’immunità133.

proprietari in conseguenza delle leggi razziali del 1938: “La singolarità di questa lontana sequela di eventi segna tuttora il perimetro concettuale e giuridico della lite che, pur presentandosi sotto forma di censure a due atti amministrativi recenti, investe in ultima analisi il tema di grande rilie-vo della tutela delle vittime (in questo caso per fortuna colpite solo nei loro averi) di violazioni gravi dello stesso diritto internazionale e dei diritti fondamentali che esso assicura (almeno nelle sue concezioni più recenti ed evolute, sorte dalla “universalizzazione” dei diritti medesimi, quali rintracciabili nelle Costituzioni democratiche successive al secondo conflitto mondiale e, con certezza, nell’attuale Costituzione italiana). Anche la pienezza del recupero delle proprietà, specie se artistiche, illecitamente sottratte manu militari – nella specie con azione italo-tedesca – esige la deroga a molte regole tradizionali del diritto interno, fra varie ad es. quella sulla usucapione”.130 In proposito si veda, in luogo di molti, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012.131 N. Irti, ‘Calcolabilità’ weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, I, p 987 ss.132 G. Alpa, Dove va la responsabilità civile?, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, p 175 ss.133 C. Consolo – V. Morgante, Immunità e crimini di guerra: la Consulta decreta un plot-twist, abbraccia il dualismo e riapre alle azioni di danno, cit., pp 108-109.

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Come indica la determinazione mostrata dai congiunti delle vittime nel perseguire i propri carnefici a distanza di un lasso di tempo così elevato e pur in assenza di quei presupposti istituzionali – come l’istituto dei danni punitivi – che rendono l’azione in giudizio un’opzione di per sé particolarmente attraente a livello economico, il giudizio di responsabilità è volto anche a riaffermare le ragioni degli oppressi, preservare la memoria del passato e ristabilire in condizioni di parità il rapporto con l’offensore quando la ragione politica tenda a mantenere le vittime in una posizione di emarginazione o subordinazione134.

6. Dalle riparazioni materiali alle riparazioni simboliche: il diritto alla verità e la sua tutela civile

Il ristoro materiale dei pregiudizi subiti non è l’unico obiettivo perseguito dalle vittime di fatti gravemente lesivi dei diritti umani. Spesso, più che l’attribuzione di una somma di denaro, l’azione proposta ai sensi dell’art. 2043 c.c. è volta alla soddisfazione di interessi di altra natura, come l’accertamento dei fatti da parte di un’autorità imparziale e la definizione di una sfera di senso condivisa circa ciò che è stato, contro le versioni inesatte, reticenti o lacunose degli eventi proposte dagli autori dell’illecito o talora dagli stessi organi pubblici.

Mai come in questi casi il processo, pur con tutti i suoi ben noti limiti e vincoli135, opera come vettore di giustizia, sia pure in forma simbolica, e le tecniche del diritto privato sono piegate a una funzione eminentemente riparativa. Come si legge in un’efficace dichiarazione delle madri e dei parenti degli uruguaiani scomparsi all’epoca del regime dittatoriale, opportunamente richiamata da Stefano Rodotà, “la riparazione comincia con la verità dei fatti. Quindi, sia per quanto riguarda le stesse vittime 134 A tal riguardo merita di essere ricordata la prudente e ragionevole proposta conciliativa avanzata dal Tribunale di Firenze all’indomani della citata decisione della Corte costituzionale, in un caso di danno da deportazione, non presa in considerazione dallo stato convenuto: “La Repubblica Federale di Germania consenta a ciascuna delle parti attrici, a fronte della rinuncia alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale subito dal deportato signor J e proposta nella veste di eredi, di ottenere un soggiorno gratuito a scopo di studio o comunque culturale ovvero una borsa di studio del valore di 15.000,00 Euro, per sé o per altro componente della propria famiglia, da godere nella Repubblica Federale di Germania” (Trib. Firenze, 6 luglio 2015, cit., p 757; per un commento v. P. Veronesi, Colpe di stato, cit., p 224).135 Basti richiamare in proposito M. Taruffo, Note sulla verità nel processo, in Id., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009, 74 ss.

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che i familiari degli scomparsi, l’accertamento della verità e il suo riconoscimento ufficiale rappresentano la premessa di qualsiasi forma di riparazione, fino a costituire essi stessi la riparazione” 136.

La pretesa volta all’accertamento della verità si configura sempre più, quanto meno nei contesti della giustizia di transizione, come una situazione soggettiva autonomamente tutelata137. Ad essa fanno riferimento numerose sentenze138, rapporti139 e testi normativi internazionali, come ad esempio l’art. 24, c. 2, della Convenzione internazionale per la protezione delle persone contro le sparizioni forzate del 2006140. Tale disposizione riconosce un “diritto alla verità” non soltanto a favore dei congiunti, ma di qualsiasi individuo che abbia sofferto in conseguenza delle sparizioni forzate, estendendo il raggio della pretesa non soltanto alle informazioni relative al destino della vittima, ma anche a tutte le circostanze concernenti la sparizione, nonché ai progressi e ai risultati delle indagini.

Ovviamente quella di “diritto alla verità” è una formula implicante e intensamente dibattuta sul piano della teoria generale141, come può ben comprendersi se si ripensa alla celebre controversia sulla libertà di mentire che vide su posizioni contrapposte Immanuel Kant e Benjamin Constant142. Del pari, la stessa idea di una tutela individuale dell’interesse alla verità, primariamente rivolto contro le autorità pubbliche, potrebbe apparire ontologicamente in contrasto con la tendenza più recente della c.d. legislazione memoriale, la quale si propone tipicamente l’obiettivo di stabilire autoritativamente una versione ufficiale degli accadimenti del

136 S. Rodotà, Il diritto alla verità, in G. Resta – V. Zeno-Zencovich, a cura di, Riparare risarcire ricordare, cit., pp 504-505.137 V. ad es. J.A. Sweeney, The Elusive Right to Truth in Transitional Human Rights Jurisprudence, Int. Comp. L. Quart., 67, 2018, p 353 ss.; D.S. Medawatte, Chasing Tails: Establishing the Right to Truth, Mourning and Compensation, Cal. West. Int’l L. J., 46, 2016, p 69 ss. 138 Per un quadro aggiornato degli orientamenti in materia di diritto alla verità delle principali corti e organi sovranazionali nel settore dei umani, J.A. Sweeney, The Elusive Right to Truth in Transitional Human Rights Jurisprudence, cit., 360 ss.139 Si veda, esemplificativamente, lo Study on the Right to Truth. Report of the Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights, 8 febbraio 2006, UN Doc. E/CN.4/2006/91.140 V. la Risoluzione n. 61/177, del 20 dicembre 2006, con la quale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta l’International Convention for the Protection of All Persons from Enforced Disappearance.141 Per alcuni cenni v. P.V. Molinari, La verità nell’ordinamento giuridico, in Cass. pen., 2005, p 2177 ss.; M.B. Berna, Argument in Favour of Identifying the Right to Truth as an Autonomous Prerogative Within the General Theory of Human Rights, in Law Annals Titu Maiorescu U., 2017, p 31 ss. 142 Su cui v. M. Catanzariti, Menzogna e potere, Quad. fior. Storia pens. Giur., 39, 2010, p 41 ss., alle pp 42-49.

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passato, la quale è resa intangibile e protetta anche attraverso la sanzione penale contro determinate forme di negazione o distorsione da chiunque esse siano poste in essere143. Tuttavia, il conflitto è destinato a rivelarsi soltanto apparente, se si considera che tanto le istanze individuali di verità quanto le legislazioni memoriali (queste ultime in molti, anche se non tutti i casi) perseguono finalità di tutela delle vittime di gravi violazioni di diritti umani, siano queste persone singole (i desaparecidos, ad esempio), oppure gruppi e comunità (come nel caso dei genocidi del popolo ebraico e del popolo armeno, fatti oggetto di alcune delle più importanti legislazioni memoriali) 144. Nel primo caso la tutela degli interessi coinvolti si esprime prevalentemente sul piano operazionale, mirando all’acquisizione di informazioni e notizie che permettano la ricostruzione del passato145 e spesso la stessa “elaborazione del lutto” (che si tende ormai a riconoscere come bene protetto da una specifica situazione soggettiva)

146; nel secondo caso essa si concretizza sul piano del discorso pubblico, consolidando una memoria istituzionalizzata degli eventi, preservando il ricordo delle sofferenze inferte alle vittime e promuovendo condizioni di inclusione sociale che non permettano il ripetersi di violazioni dei diritti umani analoghe a quelle sperimentate nel passato147.

La stessa vicenda genetica del diritto alla verità nell’esperienza latinoamericana reca una chiara testimonianza della matrice fortemente riparatoria e orientata alla tutela delle vittime di tale posizione soggettiva. Soltanto in una seconda fase viene ad essa riconosciuta una dimensione prettamente collettiva, che concorre con quella individuale148. In contesti segnati dalle ferite della dittatura e dalle sistematiche violazioni dei diritti umani, tale diritto si afferma a seguito di una intensa mobilitazione sociale promossa dai parenti delle vittime, quale strumento essenziale al fine di

143 Sul punto, ed in particolare sul rapporto tra i due segmenti di disciplina sopra evocati, G. Baranowska – A. Glisczczynska-Gabrias, Right to Truth and Memory Laws: General Rules and Practical Implications, Polish Pol. Sci. Y.B., 47, 2018, p 97, alle pp. 98-101.144 A questo proposito v. il bel volume curato da L. Hennebel-T. Hochmann, Genocide Denials and the Law, Oxford, 2011.145 Si veda, a mo’ d’esempio, l’art. 12 della spagnola Ley de Memoria Histórica (Ley por la que se reconocen y amplían derechos y se establecen medidas en favor de quienes padecieron persecución o violencia durante la Guerra Civil y la Dictadura) del 2007. In tema v. E. Millard, ¿Por qué un derecho a la memoria?, Rev. derecho del estado, 2014, p 145 ss., p 147.146 S. Rodotà, Il diritto alla verità, cit., p 505.147 Particolarmente emblematico, sul punto, è il Preambolo della già citata legge spagnola sulla memoria storica, su cui v. G. Baranowska – A. Glisczczynska-Gabrias, Right to Truth and Memory Laws: General Rules and Practical Implications, cit., 101.148 A. Mastromarino, Stato e memoria. Studio di diritto comparato, Milano, 2018, 31.

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“restituire dignità a un passato vissuto, ma pubblicamente negato” 149. Il caso argentino è a tal riguardo davvero emblematico. Dopo la caduta

nel 1983 del regime militare, iniziato con il colpo di stato guidato dal generale Jorge Videla il 24 marzo 1976, e la pubblicazione del rapporto Nunca más ad opera della CONADEP (Comisión Nacional por la Desaparición de Personas) costituita dal Presidente Alfonsín nel 1983150, in Argentina si aprì una fase di ambiguità e silenzio circa i crimini commessi sotto la dittatura. Tale strategia, abbracciata dalla classe politica al potere insieme per calcolo e per debolezza, ebbe l’effetto di distogliere lo sguardo dalle ferite del passato e proiettarlo sul futuro, ma al prezzo di una vasta impunità per gli autori dei misfatti e della mancata soddisfazione degli interessi delle vittime. Il logico epilogo di un siffatto approccio fu rappresentato dalle due leggi di amnistia approvate sotto la presidenza Alfonsín – la Ley de punto final del 1986 e la Ley de obediencia debida del 1987 – e dalla concessione dell’indulto al generale Videla e ad altri ufficiali della famigerata Junta da parte del presidente Carlos Menem nel 1989151.

Tra le conseguenze immediate di tali normative vi fu quella di consumare la potestà punitiva dello stato – molti degli esecutori dei rapimenti andarono esenti da sanzione penale, in virtù della scriminante dell’esecuzione di un ordine del superiore, istituzionalizzata dalla suddetta Ley de obediencia debida152 – e di depotenziare il bagaglio degli strumenti a tutela delle vittime153. Ciononostante, la ‘lotta per il diritto’ non fu abbandonata, ma ripresa con rinnovato vigore e determinazione da parte delle associazioni dei congiunti di soggetti desaparecidos, come ad esempio Madres de Plaza de Mayo o Hijos, e delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani.

È in questo contesto che si sviluppano i c.d. ‘giudizi di verità’, ossia i procedimenti giudiziari promossi, oltre che per contrastare la politica governativa del silenzio, per ottenere informazioni utili in ordine alle circostanze della sparizione, le ragioni della persecuzione, il destino delle persone scomparse, il luogo di sepoltura (o di occultamento delle spoglie)154.

Inaugurate nel 1995 dal recurso de amparo proposto da Emilio F. 149 A. Mastromarino, Stato e memoria. cit., 24.150 Conadep, Nunca Más: Informe de La Comisión Nacional Sobre La Desaparicion de Personas, Buenos Aires, 1984. In tema v. E. Crenzel, Memory of the Argentina Disappearances. The Political History of Nunca Más, New York – London, 2011.151 Per i dettagli v. A. Jacqmin, When Human Claims Become Rights. The Case of the Right to Truth over “Desaparecidos”, in Oñati Socio-Legal Series, 7, 2017, p 1247 ss., alla p 1255.152 Ibid.153 M. Abregú, La tutela judicial del derecho a la verdad en la Argentina, in Revista IIDH, 24, 1996, p 11 ss., alla p 12.154 Si veda M. Abregú, La tutela judicial del derecho a la verdad en la Argentina, cit., p 15 ss.

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Mignone, padre di una ragazza desaparecida, nonché presidente del Centro de Estudios Legales y Sociales di Buenos Aires, tali azioni, pur incardinate presso i tribunali penali federali (primariamente quelli di La Plata e Buenos Aires), non si proponevano l’obiettivo della condanna dei responsabili, resa comunque impossibile dalla normativa pocanzi citata. Esse erano prive di qualsiasi finalità diversa dall’accertamento dei fatti e poggiavano sull’assunto che, se anche le leggi di amnistia avessero potuto inibire il perseguimento e la punizione dei crimini, esse non avrebbero potuto dispiegare alcun effetto preclusivo rispetto all’esercizio della funzione dichiarativa e di accertamento delle corti.

Le pretese fatte valere in giudizio, in altri termini, non erano volte all’ottenimento della giustizia, come comunemente intesa, bensì della verità. E tuttavia, a differenza delle più note Commissioni Verità e Giustizia adottate in altri contesti di giustizia di transizione155, il perseguimento della verità avrebbe dovuto avvalersi degli ordinari meccanismi contenziosi: i processi erano incardinati presso i tribunali penali federali, erano previste investigazioni e testimonianze, era assicurato il dibattimento pubblico ed era persino garantita la possibilità di citare in giudizio i presunti autori dei crimini in qualità di testimoni156.

Il raggiungimento della verità si connota, dunque, come uno strumento irrinunziabile al fine dell’attuazione dei valori di dignità umana. È significativo che, anche in questi casi, l’istanza di verità si rivolga in primo luogo contro la ragion di stato, contestando frontalmente le politiche di amnistia e riconciliazione promosse dai governi. Ma riconciliazione, ci ricordano le testimonianze accorate dei parenti delle vittime, non può esservi senza assunzione di responsabilità e, dunque, senza verità e memoria.

Le domande giudiziali furono basate, tra gli altri riferimenti, sui rapporti della Commissione Interamericana dei Diritti Umani e sui primi precedenti della Corte interamericana, che sin dagli anni ’80 – con un orientamento poi culminato nella celebre decisione Velázquez Rodríguez c. Honduras del 1998157 – aveva offerto ampi riconoscimenti al diritto in 155 Per un panorama sui diversi modelli v. A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, cit.; O. Cayla – B. Cassin – P.-J. Salazar, Vérité, Réconciliation, Réparation, Paris, 2004.156 A. Jacqmin, When Human Claims Become Rights. The Case of the Right to Truth over “Desaparecidos”, cit., p 1257.157 Inter-American Court of Human Rights, 29 luglio 1988, Velásquez Rodríguez v Honduras, Series C No 4, che sancisce l’obbligo per l’Honduras di “prevent, investigate and punish any violation of the rights recognized by the Convention and, moreover, if possible, attempt to restore the right violated and provide compensation as warranted for damages resulting from the violation” (par. 166).

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oggetto, stabilendo l’obbligo per gli stati di predisporre tutte le misure idonee ad investigare le violazioni di diritti umani compiute durante i precedenti regimi158. Un obbligo, quest’ultimo, destinato a perdurare anche in costanza di normative atte a precludere l’esercizio dell’azione penale contro gli autori dei crimini in questione159. Respinte nei primi casi e poi sempre più spesso riconosciute sul finire degli anni ’90, le istanze di verità si sono diffuse a livello nazionale e hanno portato spesso all’accertamento delle circostanze della sparizione e all’identificazione dei cadaveri. Esse hanno contribuito – per quanto possibile, ovviamente – a rafforzare la coesione sociale attraverso l’elaborazione di una versione comune e partecipata del passato, sino a condurre, come si è scritto, alla “riscrittura della storia dalla parte delle vittime” 160.

Dopo avere sollevato un ampio dibattito circa la compatibilità di tale modello con le garanzie del giusto processo (implicando una insidiosa sovrapposizione del ruolo del giudice a quello dello storico) 161, i giudizi di verità hanno poi vissuto un graduale declino, soprattutto a seguito dell’abrogazione negli anni 2000 delle leggi di amnistia e la riapertura dei processi a carico degli autori dei crimini.

Il loro impatto all’estero è stato significativo. Innanzitutto, si deve notare che i giudizi di verità condotti dalle corti argentine sono venuti ad appuntarsi, su istanza di alcune vittime ivi residenti, anche su eventi estranei alla storia locale, come ad esempio il genocidio armeno162. In secondo luogo, e soprattutto, si è instaurato un potente circolo virtuoso con la Commissione e la Corte interamericana dei diritti umani: questi organi hanno desunto dal caso argentino stimoli significativi per il consolidamento del diritto alla verità e, allo stesso tempo, tali riconoscimenti sul piano sovranazionale hanno contribuito al consolidamento di tale modello nell’esperienza interna163.

Né si tratta di uno sviluppo limitato all’area latinoamericana. Anche

158 Sulla giurisprudenza della Corte interamericana v. J.A. Sweeney, The Elusive Right to Truth in Transitional Human Rights Jurisprudence, cit., p 367-372.159 A. Jacqmin, When Human Claims Become Rights. The Case of the Right to Truth over “Desaparecidos”, cit., p 1257.160 A. Jacqmin, When Human Claims Become Rights. The Case of the Right to Truth over “Desaparecidos”, cit., p 1258.161 S. Garibian, Ghosts Also Die, Journ. Int. Crim. Just., 12, 2014, p 515 ss.; E. Maculan, Prosecuting International Crimes at National Level: Lessons from the Argentine ‘Truth-Finding Trials’, Utrecht L. Rev., 8, 2012, p 106 ss. 162 A. Jacqmin, When Human Claims Become Rights. The Case of the Right to Truth over “Desaparecidos”, cit., p 1259.163 Ibid.

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la Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata a pronunziarsi su vicende drammatiche, come l’eccidio di Katyn del 1940164, la violenta repressione negli ultimi anni del regime di Ceaucescu165, o persino i casi di extraordinary rendition166, ha di recente fatto propria una siffatta prospettiva, costellando il diritto alla verità con i principi esistenti in materia di divieto di tortura, diritto alla libertà, rispetto della vita privata e diritto a un ricorso effettivo167. Se ne è desunta l’esistenza di uno specifico obbligo dello stato, di mezzi più che di risultato, di assumere tutte le iniziative necessarie, comprese quelle di natura investigativa, al fine di esaudire le istanze di verità delle vittime e dei loro familiari e contribuire a una ricostruzione del passato quanto più completa ed attendibile possibile.

Ipotesi estreme e limitate a tutti quei drammatici casi, i quali segnano “il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità” 168?

Non si direbbe. L’ultimo capitolo della storia del diritto alla verità vede, infatti, come protagonista la giurisprudenza civile italiana. Pur muovendosi in un quadro oggettivamente distante da quello sotteso alle transizioni dalla dittatura alla democrazia, i tribunali italiani hanno comunque offerto un contributo non trascurabile alla demarcazione teorica e alla tutela giudiziale del diritto alla verità.

Due sono le principali vicende che hanno offerto il destro alle nostre corti per verificare la tenuta di una siffatta situazione soggettiva all’interno dell’ordinamento italiano. La prima è costituita dall’azione civile promossa dai parenti delle vittime della tragedia di Ustica nei confronti del Ministero dei Trasporti e del Ministero della Difesa per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal decesso dei congiunti nel disastro aereo del 1980, nonché dalle strategie di depistaggio e 164 Corte E.D.U., Grande Camera, 21 ottobre 2013, App. N. 55508/07 e 29520/09, Janowiec and others v. Russia. Su questo caso v. J.A. Sweeney, The Elusive Right to Truth in Transitional Human Rights Jurisprudence, cit., pp 378, 382.165 Corte E.D.U., 24 maggio 2011, App. N. 33810/07 e 29520/09, Association “21 December 1989” and others v. Romania.166 Corte E.D.U., Grande Camera, 13 dicembre 2012, App. N. 39630/09, El-Masri v. The Former Yugoslav Republic of Macedonia, ove si evoca anche la dimensione collettiva e metaindividuale del diritto alla verità, richiamando l’attenzione su “another aspect of the inadequate character of the investigation in the present case, namely its impact on the right to the truth regarding the relevant circumstances of the case. In this connection it underlines the great importance of the present case not only for the applicant and his family, but also for other victims of similar crimes and the general public, who had the right to know what had happened”.167 In tema v. J.A. Sweeney, The Elusive Right to Truth in Transitional Human Rights Jurisprudence, cit., p 372 ss.168 Secondo l’efficace espressione utilizzata da Cass. civ., sez. un., 29 maggio 2008, n. 14201.

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disinformazione poste in essere dai vertici dello stato repubblicano169. La seconda è rappresentata dalla domanda proposta dai parenti di Davide Cervia, un ex-sergente della Marina Militare esperto in ‘guerra elettronica’, nei confronti del Ministero della Difesa e del Ministero della Giustizia al fine di far accertare la violazione dell’obbligo di adottare tutte le misure idonee alla ricerca della verità circa le ragioni della scomparsa e il destino della vittima e per l’effetto condannare lo Stato italiano al risarcimento dei danni nella misura di un euro simbolico170.

Sia il Tribunale di Palermo nel caso di Ustica, sia il Tribunale di Roma nel caso Cervia hanno conferito alle istanze di verità la consistenza di diritto soggettivo autonomamente azionabile ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Il Tribunale di Palermo – prescindendo qui dai pur rilevanti aspetti concernenti la responsabilità civile dello stato per il disastro aereo in quanto tale171 - ha individuato negli artt. 2 e 111 Cost. le basi normative di una siffatta posizione giuridica, ritenendo che il suo esercizio non sarebbe soggetto alla prescrizione quinquennale, in quanto in sede civile avrebbe dovuto farsi luogo alla disciplina che vige in ambito penalistico in ordine al reato permanente172. Su questo punto, però, la sentenza è stata riformata nel giudizio di appello, avendo il giudice di seconde cure ritenuto prescritto “il diritto al risarcimento del danno connesso all’illecito consistito nell’avere ostacolato o impedito l’accertamento della verità sulle cause del disastro” 173.

Nel caso più recente, il Tribunale di Roma, richiamando espressamente il precedente palermitano, ha osservato che tale diritto “appartiene alla sfera dei diritti personalissimi cui fa riferimento la Costituzione, all’art. 2, ed è contenuto nell’art. 21 della Carta costituzionale. È

169 Trib. Palermo, 10 settembre 2011, n. 4067, in Danno e resp., 2012, 171, con nota di M. Manenti, Strage di Ustica: ancora sulla responsabilità (non solo omissiva) dei Ministeri preposti alla sicurezza dei cieli; App. Palermo, 6 luglio 2017, n. 1319, inedita; Cass., 28 gennaio 2013, n. 1871.170 Trib. Roma, 23 gennaio 2018, n. 1609/2018, inedita.171 Sulle numerose questioni coinvolte, v. A. Guarneri, Il disastro aereo di Ustica: pluralità di ipotesi causali e criterio della probabilità prevalente, in Resp. civ. prev., 2012, p 195 ss.172 Trib. Palermo, 10 settembre 2011, n. 4067, cit., 175 ss. Si deve notare che l’assunto dell’imprescrittibilità del diritto alla verità è fatto proprio anche dai principi guida delle Nazioni Unite per la protezione dei diritti umani attraverso azioni volte a contrastare l’impunità (UNCHR, ‘Updated Set of Principles for the Protection and Promotion of Human Rights through Action to Combat Impunity’, UN Doc E/CN.4/2005/102). Sul punto si veda anche A. Galasso, Universalità del diritto della persona: prospettive ed esperienze, cit., p 426.173 App. Palermo, 6 luglio 2017, n. 1319, inedita, con riferimento alla precedente sent. 11 marzo-8 aprile 2015, n. 520.

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G. Resta

dunque una situazione soggettiva di rango costituzionale, funzionale all’effettiva attuazione della piena e libera estrinsecazione della personalità dell’individuo”. Esso, prosegue la Corte, “va configurato come diritto di acquisire, senza ostacoli illegittimamente posti, informazioni e conoscenze ritenute utili o necessarie, sia in sé sia quale precondizione per l’esercizio di altri diritti fondamentali. […] Ogni attività, fatto o comportamento che, senza un’adeguata giustificazione che trovi fondamento in altri principi costituzionali, impedisca, limiti o condizioni l’acquisizione di informazioni siffatte, lede, conseguentemente, quel diritto” 174. Di conseguenza, le condotte omissive imputabili dagli organi competenti, caratterizzate dalla mancata comunicazione di informazioni rilevanti e dalla conduzione gravemente negligente delle indagini circa la persona scomparsa, avrebbero determinato, ad avviso del giudice, una violazione del diritto alla verità suscettibile di risarcimento. Il pregiudizio sofferto dagli attori sarebbe di natura eminentemente non patrimoniale: “la situazione di profonda incertezza e disorientamento conseguente al mancato tempestivo ottenimento di ogni completa ed esatta informazione circa il proprio congiunto, al fine di poter compiutamente valutare le ragioni della scomparsa e orientare scelte e comportamenti, non è revocabile in dubbio, così come deve ritenersi che la spinta verso la conoscenza di quelle ragioni abbia caratterizzato l’esistenza e la personalità dei familiari di Davide Cervia, canalizzando sforzi ed energie, fino alla costituzione di un’associazione a tanto finalizzata” 175.

La sentenza è stata impugnata e non è stata ancora resa una decisione in grado di appello. Tuttavia, i principi che sono in essa affermati meritano la massima considerazione e appaiono sostanzialmente convergenti con la richiamata giurisprudenza delle corti sovranazionali – che non è però espressamente citata nelle pronunzie in discorso – e con i documenti delle Nazioni Unite176. Pur all’interno di un quadro politico e ordinamentale notevolmente distante da quello ‘emergenziale’ che ha accompagnato l’emersione del diritto alla verità, anche qui il riconoscimento di un “diritto a sapere” concretamente azionabile anche nei confronti dei poteri pubblici non è privo di significative potenzialità. Esso rappresenta, infatti, un importante strumento di controllo esterno sull’esercizio del potere, che per le vittime rappresenta la premessa di qualsiasi altra forma di riparazione, e per la collettività un indiretto fattore di rafforzamento del 174 Trib. Roma, 23 gennaio 2018, n. 1609/2018, inedita, p 15.175 Trib. Roma, 23 gennaio 2018, n. 1609/2018, inedita, p 15.176 Sul punto si legga la nota di commento di D. Bacis, Il diritto alla verità nel dialogo tra corti. Roma accoglie le suggestioni di San Josè de Costarica, in DPCE On line, 2018, p 593 ss.

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Le ferite della storia e il diritto privato riparatore

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processo democratico. Sul piano della dinamica istituzionale, il diritto alla verità può, però, produrre effetti rilevanti soltanto se unito ad un giudiziario oggettivamente imparziale e determinato nell’affermazione dei diritti individuali, anche quando questi sfidino e minaccino realmente gli assetti di potere consolidato, come è avvenuto emblematicamente nel caso di Ustica. Queste pagine hanno mostrato come la giurisprudenza italiana si collochi, da questo specifico punto di vista, in una posizione di avanguardia, la quale può indubbiamente risultare politicamente controversa, ma che di fatto è quella maggiormente sintonica con il messaggio politico e giuridico racchiuso nella formula della ‘lotta per i diritti’, della quale Guido Alpa, in limpida continuità con la lezione del maestro Stefano Rodotà, è stato ed è uno dei massimi interpreti.

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Paolo Ridola

Dallo stato di diritto allo stato costituzionale

Sommario: 1. Lo stato di diritto in prospettiva storico-comparativa – 2. La versione inglese: Rule of law – 3. La versione francese: État de droit – 4. La variante tedesca: Rechtsstaat – 5. Dallo stato di diritto allo stato costituzionale – 6. Il superamento del legalismo nel costituzionalismo.

1. Lo stato di diritto in prospettiva storico-comparativa

L’espressione “stato di diritto” racchiude esperienze e offre varianti storico-comparatistiche molto differenti. Sebbene se ne rinvengano origini remote nell’antichità e nel Medioevo, è nell’età moderna che si afferma compiutamente, dapprima in Inghilterra e poi nell’Europa continentale, l’idea che colloca l’individuo al centro dell’organizzazione sociale e lo concepisce come soggetto e finalità basilare del diritto, facendo sorgere, allo stesso tempo, un complesso di strumenti di garanzia nei confronti dell’arbitrio del potere sovrano. Proprio per la latitudine e la varietà delle esperienze storiche che sintetizza, l’idea dello stato di diritto ha espresso una filosofia generale del potere ed un complesso di strumenti giuridici di limitazione del potere, rivelandosi come un concetto estremamente plastico ed attrattivo, capace di adattarsi ad una molteplicità di contesti.1 In estrema sintesi, esso si fonda sull’assunto che la libertà individuale ponga in primo piano esigenze di sicurezza e di giustizia che solo il primato del diritto può assicurare. A questo assunto si connette strettamente il corollario fondamentale del “dominio del diritto”, al quale è affidato il compito di imporre moderazione nell’esercizio del potere ed equilibrio tra gli organi che sono chiamati ad esercitarlo.Nella tradizione giuridica occidentale, centralità della persona ed “etica del giudizio” sono i pilastri fondamentali che guidano il travagliato itinerario storico che ha condotto ad assicurare il primato della iurisdictio sul potere politico.2

1 Così C. Grewe- H. Ruiz Fabri, Droits consitutionnels européens, Paris 1995, 22 ss.2 Cfr. H.P. Glenn, Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza, Bologna

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2. La versione inglese: Rule of law

La versione inglese dello stato di diritto è la rule of law. Sebbene essa abbia trovato formulazioni già in età medievale, la rule of law si afferma nel XVII secolo, durante la ribellione contro le tendenze assolutistiche dei sovrani, e quindi come strumento per limitare la sfera della prerogativa regia. La soggezione del sovrano al diritto fu dapprima rivendicata e fatta valere dai giudici di common law e successivamente, dopo la gloriosa rivoluzione del 1688, trovò definitiva consacrazione nel principio che gli atti del potere esecutivo devono trovare fondamento nell’autorità del parlamento. L’originario radicamento della rule of law nella risalente tradizione del common law non scompare con la piena affermazione della sovereignty of Parliament, e la sua storia si incentra sull’espansione progressiva del controllo giurisdizionale sugli atti di prerogativa regia.3 Nella cornice della formazione giurisprudenziale del common law, pertanto, dominio del diritto e sindacato sulla arbitrarietà degli atti dell’esecutivo vengono progressivamente a coincidere, e la tensione tra common law a formazione giurisprudenziale e sovereignty of Parliament si risolve, da Dicey in poi (e dunque dall’inizio del XX secolo), nel senso che il dominio del diritto non può che essere determinato dal parlamento, ma anche nel senso che, allo stesso tempo, la stessa sovranità parlamentare deve esercitarsi nel rispetto di un minimo di istanze di giustizia materiale, oltre che formale. Divieto di una legislazione discriminatoria e previsione di un robusto impianto di garanzie giudiziarie sono i pilastri della rule of law, consentendo ad essa di operare come strumento fondamentale di protezione dei diritti.4 Nel panorama delle varianti dell’idea dello stato di diritto, la rule of law riflette pertanto la peculiarità dello spirito giuridico inglese. Di qui le difficoltà della comprensione di essa da parte del giurista di formazione continentale, che può restare sorpreso dall’assenza del riferimento allo stato (o a un soggetto depositario del potere sovrano) nella sua formulazione, e ha incontrato difficoltà nella sua stessa traduzione, come “regola di diritto” o come “dominio del diritto”. Difficoltà che possono sciogliersi, prendendo coscienza che il significato della rule of law (ed il suo distacco dalle varianti continentali) sono inseparabili dall’ “apologia del giudice” nella teoria classica del common law, che ha costruito la supremazia del diritto su

2011, 221 ss., 377 ss.3 Cfr. J.R. Tanner, English Constitutional Conflicts of the Seventeenth Century. 1603-1689, Cambridge 1971; N. Matteucci (a cura di), I costituzionalisti inglesi, Bologna 19624 Cfr. in sintesi T. Bingham, The Rule of Law, London 2011

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un diritto intrinsecamente ragionevole, radicato nella coscienza sociale e soggetto ai mutamenti lenti e graduali della storia.5 La prerogativa regia incontra pertanto i propri limiti nello statute law di origine parlamentare e, a monte, nel common law, che si svolge dal ruolo del giudice come guardiano esclusivo della “ragione artificiale” del diritto. Apologia del giudice ed apologia del parlamento, che accompagnano l’evoluzione secolare della storia costituzionale inglese, danno vita ad un “regime misto”, che pone in primo piano, nel significato della rule of law, “la garanzia della giustizia delle leggi adottate dal parlamento”.

Con Bentham e Austin questa concezione della rule of law subirà una torsione giuspositivistica, destinata a maggior fortuna nella migrazione di essa aldilà dell’Atlantico, nel Nord America, tendendo a spostarne il focus dalla sfera dell’ is a quella dell’ ought.6 Questo spostamento, che conferisce alla rule of law una differente direzione di senso, dall’equazione diritto/libertà/common law/giudice (Coke) a quella diritto/sanzione/giudice (Austin), non altera peraltro il sostrato liberale della rule of law, che, secondo la celebre definizione di Dicey, si risolve nella “garanzia accordata ai diritti individuali sotto l’impero della costituzione inglese”, i cui principi generali sono “il risultato di decisioni giudiziarie che determinano i diritti delle persone, che ne sono state private nei casi nei quali esse adiscono le giurisdizioni”.7 Secondo la ricostruzione di Dicey, in questo quadro si inserisce la rule of law, che fa perno sulle risorse dell’esistenza di un giudice per affermare la superiorità del common law e che rinviene il diritto in “any rule which will be enforced by the Courts”. Rispetto alla sovereignty of Parliament, pertanto, la supremazia del common law opera in una duplice direzione, come garanzia degli atti legislativi adottati dal parlamento presidiata dalla sanzionabilità da parte dei giudici (“where there is no legal remedy, there is no legal wrong”). Per questa via, il rapporto tra il parlamento e i giudici rinviene proprio nel common law il necessario punto di equilibrio. Spetta al giudice –osserva Dicey- sanzionare il rispetto delle leggi, con l’occhio sempre rivolto, peraltro, al fondamento di questo vincolo sanzionabile sul terreno giuridico in un obbligo di natura etica, ciò che può consentire altresì al giudice di mettere da parte quelle norme che, prive di questo radicamento etico nel common law, restano perciò stesso prive dell’attributo della sovranità. La sovranità –conclude Dicey- è certamente un “fatto giuridico”, ma proprio perché essa non può essere concettualizzata in termini astratti, resta sempre 5 Cfr. ampiamente L. Heuschling, État de droit, Rechtsstaat, Rule of law, Paris 2002, 165 ss.6 Si v. ancora L. Heuschling, op. cit., 213 ss.7 Così A. V. Dicey, Introduzione allo studio del diritto costituzionale. Le basi del costituzionalismo inglese, ediz. ital. a cura di A. Torre, Bologna 2003, 153 ss.

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soggetta ai limiti politici ed etici che sono ad essa sottostanti. Supremazia del common law e sovereignty of Parliament non si misurano su gerarchie astratte, ma su dinamiche delle quali i giudici sono attori essenziali, chiamati a presidiare, attraverso la tradizione di common law, un pilastro fondamentale del moderno costituzionalismo, che concepisce il parlamento come un body al servizio della comunità politica. La fase più recente dell’evoluzione della rule of law è caratterizzata da un legame più stretto con la protezione dei diritti umani. L’influenza sul sistema giuridico inglese dell’adesione del Regno Unito alla Cedu, l’adozione dello Human Rights Act nel 1998, le ripercussioni del costituzionalismo “cooperativo” dei diritti possono aver cooperato a questi sviluppi. A partire dagli anni ottanta del XX secolo, l’ interpretazione della rule of law è stata investita dalla corrente del “liberal normativism”, che ha tentato di liberarla dall’ombra soffocante della sovranità.8 Anche questa fase di sviluppo della rule of law si è accompagnata, in una linea di continuità con la tradizione, alla rivendicazione di un controllo più penetrante del giudice, ma con una più marcata insistenza sul carattere materiale del principio, che riconduce ad “uno standard al quale la legge deve conformarsi”9, standard necessario al fine di prevedere, con un certo grado di certezza, “come l’autorità pubblica userà dei suoi poteri” e di consentire ad ogni individuo di “pianificare i propri affari sulla base di tale conoscenza”.10 Materializzazione e giurisdizionalizzazione della rule of law si manifestano su due piani concorrenti, il rafforzamento del controllo giurisdizionale sull’amministrazione e, a livello costituzionale, la contestazione più decisa della sovranità del Parlamento di Westminster.Quel che caratterizza questa evoluzione della rule of law è ancora, pertanto, il principio che pone al centro di essa l’appello ad un giudice, in quanto il dominio del diritto esige che le questioni di diritto siano risolte dai tribunali, ma con una decisa torsione in senso materiale. Stretta, nella sua storia secolare, la rule of law tra apologia del giudice e apologia della sovranità parlamentare, essa sembra trovare ora, in questa fase del suo lungo percorso, un punto di equilibrio e di forza nel fondamento di un “common law constitutionalism”.

8 Si v. M. Loughlin, Foundations of Public Law, Oxford 2010, 312 ss.9 Cfr. P.P. Craig, Formal and Substantive Conceptions of the Rule of Law, in Public Law 1997, 467 ss.10 Così F.A. Hayek, La società libera, Firenze 1969, 190 ss.

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3. La versione francese: État de droit

La versione francese dell’ État de droit giungerà alla sua elaborazione dogmatica dalla fine del XIX secolo grazie all’apporto dei grandi giuristi della III Repubblica (Carrè de Malberg, Duguit, Esmein, Hauriou), sotto l’influsso, manifestatosi con accentuazioni differenti, delle coeve elaborazioni della dottrina tedesca.11 La concezione francese dello stato di diritto, peraltro, presenta peculiarità, che riportano alle idee costituzionali affermatesi durante la Rivoluzione ed alle contraddizioni che esse racchiudevano: l’affermazione della primazia dei diritti dell’uomo e della divisione dei poteri, da un lato; una fiducia incrollabile nella infallibilità della legge e nel mito della volonté générale, ed una profonda sfiducia nel ruolo del giudice, dall’altro. Questo spiega perché, anche quando durante la III Repubblica si affermerà il principio di legalità e l’impianto del diritto amministrativo francese avrà larga diffusione in Europa, l’elaborazione dell’ État de droit non conoscerà, fino al preambolo della Costituzione del 1946 e soprattutto fino al 1971, con la svolta del bloc de constitutionnalité, la preminenza dei diritti fondamentali né la supremazia della costituzione. E tuttavia occorre riconoscere che idee elaborate dal liberalismo costituzionale francese, il modello di una società migliore costruita a misura dell’individuo ed un assetto politico-giuridico funzionale alla preservazione di essa, sono state la principale fonte di ispirazione, se non la “infrastruttura concettuale” 12 dello stato di diritto. L’idea francese dell’ État de droit ha in queste scaturigini un fondamento antropologico, sempre insidiato peraltro dal culto della legge, che si rivelò, allo stesso tempo, baluardo contro lo spettro del dispotismo e l’arbitrio, per effetto del dogma della generalità e dell’astrattezza e della riduzione del giudice a bouche de la loi, e peraltro strumento della risoluzione dello stato di diritto nel regime parlamentarisme absolu. Preminenza del potere legislativo, innalzato a guardiano esclusivo della costituzione e a garante dei diritti individuali, e la limitazione dei poteri del giudice, chiuso nello stretto quadro della legalità e chiamato ad applicare la legge secondo un ragionamento sillogistico, compongono un impianto coeso, nel quale trovarono posto coerentemente il rifiuto della figura del “giudice interprete” e quello del controllo di costituzionalità della legge. 13

Con questo ingombrante bagaglio ideologico alle spalle, i giuristi della III Repubblica avrebbero intrapreso un’opera imponente di concettualizzazione

11 Si v. ampiamente L. Heuschling, op. cit., 375 ss.12 Così C. Grewe- H. Ruiz Fabri, op. cit., 27.13 Si v. L. Heuschling, op. cit., 323 ss.

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dello stato di diritto, che, pur nelle diverse posizioni dottrinali, lascia sullo sfondo il legame tra legalità e diritti. La subordinazione dello stato al diritto oggettivo è, secondo Duguit, il perno dello stato di diritto. In questa formula si agglutinano il fatto materiale che trae origine da una solidarité sociale, anteriore ed esteriore rispetto alla “construction juridique de l’état”, e l’ordinamento oggettivo che ne perimetra la legittimità e ne delimita i poteri. Il legame tra “fatto materiale” e “costruzione giuridica” dello stato è molto stretto, in coerenza con l’approccio realista di Duguit, e si muove sul piano della legittimità piuttosto che su quello della legalità. L’ État de droit ha il suo fondamento più profondo nell’obbligo all’ obéissance au droit, che ha una base morale e comunitaria molto forte. Nell’ état de droit, in definitiva, il vincolo del giudice e dell’amministrazione alla legge poggia su una concezione dello stato che, in quanto traspone il fatto materiale della dimensione sociale in una realtà giuridicamente fondata, non può esso stesso fare leggi “contraires au droit” ed è peraltro “obligé par le droit de faire certaines lois”.14

La concettalizzazione proposta da Raymond Carré de Malberg è molto elaborata dal punto di vista dogmatico e più influenzata dalla dottrina jellinekiana dell’autolimitazione dello stato, ma anch’essa si muove lungo il crinale della irrelatezza tra legalità e diritti. L’ État de droit, nell’accezione di Carré, si è lasciato alle spalle l’ État de police, nel quale “l’autorità amministrativa può, in modo discrezionale e con una libertà di decisione più o meno completa, applicare ai cittadini tutte le misure di cui essa giudichi utile prendere l’iniziativa, in vista di far fronte alle circostanze e di attendere in ogni momento ai fini che essa si prefigge”. Da questo concetto, ritenuto sinonimo di un État dispotique, Carrè tiene distinto l’État de droit, che egli identifica con “quello che, nei suoi rapporti con i soggetti privati e per la garanzia del loro status individuale, si sottomette esso stesso ad un regime di diritto”, e comprende sia le regole che “determinano i diritti dei cittadini” che quelle che “fissano previamente le vie ed i mezzi che possono essere impiegati per realizzare i fini statali”. Ed aggiunge che, in forza dei principi dello stato di diritto, l’autorità amministrativa può usare nei confronti degli amministrati solo “i mezzi autorizzati dall’ordinamento vigente ed in particolare dalle leggi”, e per converso agli amministrati è assicurato, per sanzionare l’osservanza delle leggi, “un potere giuridico di agire dinanzi ad un’autorità giurisdizionale al fine di ottener l’annullamento, la riforma o in ogni caso la non applicazione degli atti aministrativi dai quali sono lesi”. Come ho accennato, questa concettualizzazione dello stato di diritto risente l’influenza delle elaborazioni della coeva dottrina tedesca (Laband,

14 Cfr. L. Duguit, L’état, le droit objectif et la loi positive, Paris 1901

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Mayer, Jellinek), ma con un’appendice importante, e non priva di qualche ambiguità di significato, che affianca al concetto dello stato di diritto quello dell’ État legal, lo stato –aggiunge Carré- “nel quale ogni atto del potere amministrativo presuppone una legge alla quale esso si riconnette e della quale deve essere assicurata l’esecuzione”. Precisazione ambigua, giudicata da alcuni commentatori come un arretramento verso l’ État de police, in quanto l’ État legal si muove sul terreno stretto del diritto amministrativo. E tuttavia, mentre lo stato di diritto “è stabilito semplicemente e unicamente nell’interesse e per la salvaguardia dei cittadini”, il regime dell’ État legal è orientato in un’altra direzione, in quanto si riallaccia “ad una concezione politica che conduce all’organizzazione fondamentale dei poteri”. Si coglie qui un passaggio importante, destinato a sviluppi nel dibattito dottrinale francese. Nella concettualizzazione dell’ État legal prevale, secondo Carré, un profilo formale, che si riallaccia alla superiorità, derivante dall’investitura del corpo elettorale, del corpo legislativo. Di qui la “dicotomia” tra questo, nel quale “si incarna” il principio democratico, e lo stato di diritto, che rinvia invece al profilo sostanziale, che attiene alla protezione dei diritti ndividuali attraverso il ruolo dei giudici, “guardiani inflessibili” di esso. In breve, se occorre pronunciarsi sui diritti dell’individuo, soccorre necessariamente la via giurisdizionale, “con esclusione di ogni altro meccanismo, politico, di protezione dei diritti”.15

Come è stato rilevato nel dibattito successivo16, l’ambiguità della distinzione tra État legal e État de droit racchiudeva un’intuizione destinata a fare strada in Francia. Lo stato legale, in quanto radicato nell’organizzazione dei poteri, non implica di per sè un vincolo del legislatore ad “un principio di rispetto del diritto individuale che si imponga ad esso in modo assoluto”. Al contrario, lo stato diritto non può che “implicare logicamente” –con un importante avanzamento rispetto al tardo liberalismo giuridico della III Repubblica- che “la costituzione determini con la sua supremazia e garantisca ai cittadini quei diritti individuali che devono restare collocati al di sopra degli attentati del legislatore”.17 Era tracciata una strada anticipatrice, la via francese alla transizione dallo stato di diritto allo stato costituzionale, che bisognerà attendere gli anni settanta del secolo scorso per vederne il compimento attraverso il ricorso al bloc de constitutionnalité nella giurisprudenza del Conseil constitutionnel. In una storica decisione 15 Si v. R. Carré de Malberg, Contribution a la théorie générale de l’état, I, Paris 1920, 285 ss., 382 ss.16 Si v. M. Troper, Le concept de l’état de droit, in Droits, 1992, 51 ss.; L. Favoreu, De la démo-cratie a l’état de droit, in Le débat, 1991, 58 ss.17 Si v. L. Favoreu, La consitution et son juge, Paris 2014, 13 ss.

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del 1971 in tema di libertà di associazione, il Conseil traccia il perimetro del principio di costituzionalità, attraverso la individuazione di un blocco normativo, assai eterogeneo sia sotto il profilo dell’origine storica che sotto quello dei contenuti, e comprensivo della Dichiarazione del 1789, del preambolo alla Costituzione del 1946, della Costituzione del 1958 e di “principi fondamentali riconosciuti dalle leggi della Repubblica”, retaggio anch’essi di un’identità repubblicana radicata nella storia costituzionale francese. Il Conseil ha chiarito, nella sua giurisprudenza, che la Costituzione del 1958 riveste, tra i quattro elementi del bloc de constitutionnalité, un rilievo centrale, ma ne ha anche ribadito con forza l’unità complessiva. Le potenzialità di questo possono essere dispiegate solo attraverso uno sforzo interpretativo di homogénéisation dei contenuti di esso che, in quanto risalenti ad epoche diverse della storia francese e espressivi di ispirazioni differenti, sarebbero suscettibili di produrre “antinomies constitutionnelles” praticamente insuperabili (si pensi, solo per fare un esempio, alla sacralità della proprietà nella Dichiarazione del 1789 e ai limiti sociali dell’economia privata nel Preambolo del 1946), ove non armonizzati in via interpretativa attraverso un contemperamento guidato dal forza espansiva e dalla centralità del principio repubblicano nella Costituzione del 1958.

4. La variante tedesca: Rechtsstaat

La terza variante dello stato di diritto, il Rechtsstaat di derivazione tedesca, è storicamente meno risalente, ma ha prodotto le elaborazioni dogmatiche che hanno influenzato più profondamente le categorie del diritto pubblico europeo.18 Sebbene l’idea del Rechtsstaat affondi radici più remote nelle esperienze del dispotismo illuminato nella seconda metà del XVIII secolo, la sua sistemazione teorica accompagna la storia costituzionale tedesca del Vormärz, che precede le rivoluzioni del biennio 1848-49, manifestandosi in questo frangente storico soprattutto sul piano filosofico-giuridico, e poi, sopratutto, quella della fondazione dello Staatsrecht della Costituzione del Reich del 1871, al termine del faticoso processo di unificazione, dal quale la ricostruzione dogmatica del Rechtsstaat prese le mosse. Sarebbe parziale, tuttavia, arrestarsi ad una rappresentazione delle categorie dogmatiche elaborate dalla letteratura tedesca nella seconda metà del XIX secolo, trascurando che il Rechtstaat è uno dei problemi fondamentali della

18 Si v. O. Jouanjan, Une histoire de la pensée juridique en Allemagne (1800-1918), Paris 2005

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storia costituzionale tedesca, il quale rinvia a snodi di questa di lungo periodo, in particolare alle tensioni tra statualismo e organicismo, tra stato autoritario (Obrigkeitsstaat) e principio consociativo, tra il principio monarchico e il principio rappresentativo nel deutscher Konstitutionalismus.19 E’ emblematica di questa contraddizione la polarizzazione tra concezione formale e concezione sostanziale dello stato di diritto. Meno evidente nelle prime teorizzazioni di questo, di ispirazione più marcatamente liberale, come in quella del Mohl, che poneva l’accento su uno stato limitato dall’autodeterminazione dell’individuo, il solco tra le due concezioni si sarebbe approfondito in quelle successive.20 Ha osservato Konrad Hesse che tutta la storia costituzionale tedesca è attraversata dalla tensione tra Rechtsstaat e “forma politica”, dal dilemma tra neutralità formale del primo rispetto e contenuti materiali della decisione politica, dalla difficoltà di coniugare aspetti formali ed aspetti materiali dello stato di diritto, una difficoltà sconosciuta alla tradizione della rule of law, che ha istituito un legame indissolubile tra libertà individuale e libertà politica.21 Nel 1910, in tempi non lontani dal crollo del wilhelminisches Reich, Richard Thoma, giurista di solida formazione liberale, tracciava, nella ricostruzione della parabola dello stato di diritto, il bilancio di un passato non risalente, che ne aveva fatto lo strumento di un ircocervo liberale-autoritario, e ne delineava il tracciato di una compiuta evoluzione in direzione liberale, attraverso un approccio storico-critico alla dogmatica del Rechtsstaat. Prendendo le distanze dalle scuole della pandettistica, Thoma poneva con vigore, come propria della scienza giuridica, l’esigenza della comprensione delle trasformazioni del diritto e della evoluzione critica di esso, un compito al quale la scienza stessa avrebbe dovuto attendere nella consapevolezza di porsi come scienza culturale (Kulturwissenschaft) e come scienza storica (Geschichtwissenschaft). Seguendo questa indicazione di metodo, Thoma inquadra il rapporto tra stato di diritto e scienza del diritto amministrativo in coordinate molto estese, osservando che la legalità dell’azione amministrativa è il fondamento dello stato di diritto, ma non il compimento dell’ideale che lo sostiene, il quale rinvia anzitutto, come suggerito da von Stein, Gneist e Rosin, all’assetto dei rapporti tra aministrazione e società, trovando realizzazione nell’autoamministrazione (Selbstverwaltung) dei corpi intermedi e nella

19 Sia consentito rinviare su ciò, per qualche ulteriore svolgimento, a P. Ridola, Stato e costitu-zione in Germania, Torino 2016, cap. I20 Questo passaggio è approfondito da L. Heuschling, op. cit., 73 ss.21 Cfr. K. Hesse, Der Rechtsstaat im Verfassungssystem des Grundgesetzes (1962), in Id., Ausgewälte Schriften, Heidelberg 1984, 94 ss.

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freie Entfaltung delle forze sociali.22 La posizione di Thoma rifletteva un approccio critico al Rechtsstaat del Reich guglielmino, che nella coeva elaborazione dottrinale aveva trovato peraltro alcuni pilastri fondamentali: la responsabilità dei funzionari, la sottrazione dell’amministrazione ai giudici comuni (Verwaltungsgerchtsbarkeit), ed infine la riserva di legge (Vorbehalt des Gesetzes), non espressiva, peraltro, di una concezione sostanziale della legalità, ma prigioniera di quella visione armonica del rapporto tra Esecutivo monarchico e maggioranza parlamentare, che rifletteva gli equilibri, o piuttosto le contraddizioni, del Reich.23 Thoma coglieva lucidamente come queste contraddizioni si risolvessero nell’insufficienza della concezione meramente formale dello stato di diritto, la quale aveva trovato la sua prima sistemazione, in chiave filosofico-giuridica, intorno alla metà del XIX secolo, nell’opera di Stahl. Lo stato di diritto, benchè trovi il proprio fondamento ideale nei limiti fissati alla sua attività dalla sfera della libertà dei privati, non implica, secondo Stahl, un ordinamento complessivo degli scopi e dei poteri dell’amministrazione né una piena protezione dei diritti individuali, non definisce, in breve, finalità e contenuti dell’azione dello stato, ma soltanto i modi per realizzarli. Questa premessa, sviluppata poi da Bähr e da Otto Mayer, avrebbe comportato il riconoscimento di estesi poteri normativi dell’Esecutivo non soggetti alla legge. Ma soprattutto una accezione dello stato di diritto circoscritta alla forma dell’azione dei poteri pubblici non riusciva ad oscurare dietro il paravento della neutralizzazione formale l’obiettivo politico di preservare l’assetto dualistico della forma di governo e, come è stato acutamente osservato, la perimetrazione dello stato di diritto al profilo formale restringeva “la cerchia dei presupposti costituzionali” 24, facendo prevalere il legalismo (formale) sul costituzionalismo (materiale). All’alba del XX secolo, nel clima mutato delle riforme del Reich guglielmino, che avevano consentito l’ingresso dei partiti di massa nel Reichstag e l’avvio dello stato sociale, il liberale Thoma percepiva l’insufficienza della concezione formale dello stato di diritto, prevalsa nella prassi costituzionale ed amministrativa e nella dottrina maggioritaria, con posizioni condivise non solo dai fondatori dello Staatsrecht, ma dai loro più illustri contestatori (Gierke, Preuß), che identificarono il concetto “moderno” dello stato di

22 Si v. R. Thoma, Rechtstaatsidee und Verwaltungswissenschaft (1910), in Id., Rechtsstaat- Demokratie- Grundrechte, a cura di H. Dreier, Tübingen 2008, 1 ss.23 Su questo passaggio della storia costituzionale tedesca sono fondamentali le opere di D. Jesch, Gesetz und Verwaltung, Tübingen 1961; e di E. W. Böckenförde, Gesetz und gesetzgebende Gewalt, Berlin 195824 Così U. Scheuner, Die neuere Entwicklung des Rechtsstaats in Deutschland (1960), in Id., Staatstheorie und Staatsrecht. Gesammelte Schriften, Berlin 1978, 185 ss.

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diritto nella centralità del profilo formale, ritenuto del tutto coerente con l’idea dello “stato guardiano notturno/ Nachtwächterstaat” e funzionale rispetto al fine fondamentale di assecondare il libero dispiegarsi delle forze sociali. Distaccandosi da queste posizioni, Thoma riteneva che l’ “idea individualistica dello stato di diritto” avesse esaurito la sua funzione storica, sopraffatta dalle “forze creatrici degli ideali sociali e nazionali”. Tanto quell’idea nasceva dall’emancipazione del terzo stato attraverso la lotta per l’eguaglianza formale, tanto l’emancipazione del “quarto stato” richiedeva “aiuti statali ed eguaglianza materiale, e dunque giustizia sociale”.25

Con l’avvento della Costituzione di Weimar la robusta impalcatura del Rechtsstaat avrebbe dovuto fare i conti con un catalogo di diritti fondamentali con rango costituzionale, il quale avrebbe aperto la strada ad un rafforzamento delle garanzie dello stato di diritto. Dopo l’entrata in vigore della Legge fondamentale del 1949, la consapevolezza dell’intreccio tra Rechtsstaat e “costituzione politica” diverrà il filo conduttore del dibattito dottrinale, ed il vincolo dei poteri pubblici all’osservanza della costituzione (art. 19.4 GG) sarà ritenuto espressivo di una trasformazione profonda della legalità, che non consiste in un aggiornamento della concezione formale dello stato di diritto ereditata dal positivismo giuridico, ma nell’accoglimento di una visione della direzione dello stato “mirata” al perseguimento di obiettivi di giustizia materiale 26. Derivano di qui una concezione più ampia della legalità ed una concezione più penetrante della discrezionalità dei pubblici poteri, i cui ambiti rinviano alla Wertordnung che inquadra i contenuti della costituzione. Collocato nella cornice di orientamento delle norme costituzionali, il principio di legalità opera come argine alla “tirannia di un egualitarismo uniformante ed immoto”, e lo stato di diritto rinviene finalmente negli Staatszwecke “presupposti costituzionali” che implicano il superamento della concezione formale di esso. Il principio del Rechtsstaat deve armonizzarsi pertanto con i “principi di struttura” richiamati dall’ art. 20 GG, ed in particolare con quello dello stato sociale, in quanto esso non è più “espressione di un individualismo senza limiti”. Questo non comporta un arretramento della legalità, ma al contrario potenzia l’elemento fondamentale dello stato di diritto, l’imposizione di limiti giuridici all’esercizio del potere, la quale si estende anche, nel mutato quadro costituzionale, ai compiti di riequilibrio (Ausgleich) svolti dallo stato. Una pretesa che va aldilà della mera legalità formale, in quanto si prefigge propriamente “la lotta contro l’arbitrio e il torto (der Kampf

25 Così R. Thoma, op. cit., 23 ss.26 Così U. Scheuner, op. cit. 204 ss.

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gegen Willkür und Unrecht)”, che si annidano sempre nell’ “esercizio discriminatorio, non imparziale e senza limiti del potere politico”. Inteso in senso materiale, lo stato di diritto incorpora pertanto “la protezione della libertà personale e politica del cittadino”, la quale comprende anche una “conformazione equilibrata e giusta delle relazioni umane”, ed inoltre un criterio “di moderazione e di limitazione giuridica di ogni esercizio di pubblico potere”.27 Secondo la ricchissima ricostruzione di Ulrich Scheuner, che ho sintetizzato, l’emersione di criteri di equilibrio, di compensazione, di moderazione ha sicuramente comportato non soltanto un legame molto stretto tra lo stato diritto ed il principio di proporzionalità, così come il principio di legalità è stato investito decisamente dalla evoluzione dei canoni dell’interpretazione imposta dai contenuti della costituzione. Nelle critiche alle ponderazioni Scheuner scorge pertanto con grande lucidità un ritorno al positivismo legalistico contrastante con la supremazia della costituzione sulla legge e con il concetto stesso dei diritti fondamentali. Questo non vuol dire che la legge non conservi un ruolo centrale nello stato di diritto, ma solo che essa non è più una “misura fissa”, ma uno strumento di giustizia sociale e di riequilibrio delle diseguaglianze, in piena coerenza con il nuovo ruolo dello stato di diritto, che non ha più dinanzi a sé soltanto “individui autonomi che tendono alla libertà”, ma i condizionamenti ed i fattori di dipendenza dell’uomo contemporaneo, tanto nei rapporti con i poteri pubblici quanto in quelli con potenti organizzazioni private. “La rassegnazione alla dipendenza sociale –conclude efficacemente Scheuner- non è più un elemento dello stato di diritto”.28

L’itinerario della discussione sullo stato di diritto ci ha condotto pertanto dal tramonto dell’assolutismo illuminato agli equilibri delle democrazie pluralistiche. In queste il primato del diritto deve essere inteso non più come riferito al diritto in quanto tale, nella sua dimensione meramente autoritativa, ma piuttosto ai contenuti di esso. E’ in questi contenuti, ispirati da criteri di eguaglianza materiale (gleicher Maß) che trovano fondamento, trasformandosi, l’antica imparzialità e l’idea di un diritto neutrale, e nel concetto dello stato di diritto si ricongiungono, superando l’antica polarizzazione, Maß e Form.29

27 Cfr. ancora U. Scheuner, op. cit., 216 ss.28 Si v. ancora U. Scheuner, op. cit., 221.29 Cfr. K. Hesse, op. cit., 96.

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5. Dallo stato di diritto allo stato costituzionale

L’espressione “stato costituzionale” sintetizza l’insieme delle trasformazioni offerte dal costituzionalismo nelle democrazie pluralistiche, le quali hanno comportato la progressiva erosione degli schemi concettuali del giuspositivismo statualista. Con essa si indica, in un’accezione molto generale, il modello delle costituzioni delle democrazie pluralistiche, il quale ha avuto, da alcuni decenni a questa parte, una straordinaria capacità di propagazione su scala mondiale, anche per effetto di convenzioni internazionali, processi di integrazione sovranazionale e di recezione incrociata fra le costituzioni statali.30 Si tratta peraltro di un modello che, pur facendo riferimento ad alcuni contenuti costituzionali essenziali (dignità dell’uomo e diritti della persona, partecipazione politica come processo pubblico comunicativo, divisione dei poteri orizzontale e verticale, stato di diritto, stato sociale, indipendenza dei giudici), presenta variabili significative, dipendenti dall’accentuato divario dei contesti storico-culturali e socioeconomici nei quali esso si impianta. E’ anche affermazione corrente che con tale modello si sia affermata pienamente la supremazia della costituzione, soprattutto grazie allo sviluppo che in esso hanno trovato gli istituti del controllo di costituzionalità.

L’elaborazione della categoria dello stato costituzionale costituisce l’approdo di un travagliato e complesso itinerario culturale, iniziato durante gli anni della Repubblica di Weimar, che ha comportato un radicale mutamento di prospettiva (dallo Staatsrecht al Verfassungsrecht: dallo stato alla costituzione) nello studio degli assetti delle comunità politiche. Ciò vuol dire non soltanto che il modello indicato tende a trascendere l’organizzazione degli stati, ma soprattutto che, anche con riferimento all’esperienza di questi, la costituzione non si (im)pone più come l’espressione della sovranità dello stato e dei suoi limiti, e che in essa convivono e si coordinano nel pluralismo sfere distinte, quella privata, quella pubblica (riferita alle molteplici forme di organizzazione dell’opinione pubblica), ed infine, ma senza alcuna pretesa di esclusività, quella statale. Inoltre, il legame fra costituzione e pluralismo investe non soltanto i contenuti di quella (ad es., con il rilievo delle associazioni, dei partiti, delle organizzazioni degli interessi, di svariate manifestazioni dello spazio pubblico), ma le dinamiche costituzionali e le modalità attraverso le quali si afferma il valore della costituzione: il pluralismo si profila, in breve, come elemento qualificante

30 Sono fondamentali i contributi offerti da P. Häberle, Verfassungslehre als Kulturwissenschaft, II ediz., Berlin 1998

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dell’ effettività della costituzione. Questa trasformazione ha investito anzitutto le dinamiche costituzionali, le quali hanno assunto un andamento spiccatamente processuale, che ha dato risalto alla comunicazione fra i molteplici soggetti che ad esse prendono parte, e che si manifesta tanto nella fase costituente (come dimostrano gran parte delle transizioni succedutesi negli ultimi tre decenni) che in quella dei mutamenti costituzionali che, infine, nella fase dell’adeguamento della costituzione in via interpretativa. L’adattamento delle dinamiche costituzionali ad un processo pubblico pluralistico ha reso meno netta la distinzione fra foundations, transformations e interpretation della costituzione31, e dimostra che è essenzialmente sul terreno della capacità di sorreggere una “concordanza pratica” della complessità sociale che si misura, come su un permanente evolutivo banco di prova, la supremazia della costituzione.32

Il concetto dello “stato costituzionale” è dunque un indicatore di trasformazioni profonde del costituzionalismo e segna altresì anche il recupero della tensione etica che è componente essenziale del patrimonio culturale del costituzionalismo sei-settecentesco e che il liberalismo giuridico aveva poi finito per convogliare (e per disperdere) nella costruzione del positivismo legalistico. Gli itinerari del rapporto fra il diritto e la legalità costituiscono un altro capitolo fondamentale per orientarsi nelle esperienze costituzionali del XX secolo, sospese fra continuità e discontinuità con quelle del costituzionalismo . Il costituzionalismo sei-settecentesco muoveva da una teoria della giustizia e da contenuti etici forti, ai quali si riconducevano sia i profili materiali della costituzione (i diritti individuali) che i congegni organizzativi di essa (la divisione dei poteri). Con lo sviluppo del positivismo giuridico, che era strettamente connesso al disegno di unificazione politica perseguito dal liberalismo giuridico ottocentesco, si produsse un restringimento degli orizzonti del costituzionalismo sul terreno formale.33 Lo scioglimento dei legami fra il diritto e i suoi contenuti etici, la liberazione del legislatore dal vincolo a diritti “fondamentali”, il cui riconoscimento finì per assumere, pertanto, mero carattere programmatico, la centralità assunta dal principio di legalità dell’amministrazione ed una interpretazione a maglie larghe dell’istituto della riserva di legge e del suo ruolo di presidio dei diritti individuali, rappresentarono i pilastri di questo

31 Riprendo qui la nota elaborazione, ancora incompiuta, proposta da B.A. Ackerman, We the People, Cambridge/Mass.- London 1991-201432 Si v. K. Hesse, L’unità della costituzione, a cura di A. Di Martino e G. Repetto, Napoli 2014, 85 ss.33 Su ciò resta fondamentale e pionieristico il saggio di N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1963, 985 ss.

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processo di formalizzazione dell’eredità del costituzionalismo.34 Allo stesso tempo questa evoluzione radicalizzava uno stato di tensione fra il diritto e la legalità, che le esperienze costituzionali del XX secolo si sarebbero indirizzate a sciogliere. Cominciò ad affermarsi l’indirizzo che il diritto non debba essere definito in base al metro della conformità ad uno schema legale associato a quello della sua vigenza positiva, ma anzitutto in base alla corrispondenza ad un quadro di valori materiali. E’ noto quale ruolo abbiano giocato, nel determinare questo mutamento di prospettiva, le esperienze tragiche dei totalitarismi, dello sterminio e della guerra totale. Ma sarebbe parziale declinare questa vicenda solo come una riscoperta del diritto naturale. Essa è certo presente nel rifiuto del positivismo giuridico, che ha utilizzato, nella c.d. “formula di Radbruch”, ad esempio, l’argomento del totalitarismo, per giungere ad affermare che tali esperienze hanno prodotto un diritto così radicalmente ingiusto che ad esso si deve in radice negare valore.35 Più complessa sembra invece la valutazione dei contenuti delle costituzioni del pluralismo soprattutto in relazione ai diritti fondamentali. Tali contenuti hanno un legame profondo con l’apertura della costituzione alla società, cosicché il loro distacco dal fondamento giusnaturalistico si fonda sulla premessa che la costituzione struttura non solo lo stato, ma la società, e che è questa dimensione repubblicana della costituzione a fondarne una legittimazione indipendente dal diritto naturale. Questa legittimazione conferisce peraltro alla costituzione un carattere intrinsecamente dinamico, quella di un processo pubblico esposto alle sollecitazioni della società aperta, e questa configurazione dei principi costituzionali come law in public action si pone peraltro in contraddizione con la fissità del diritto naturale.36

6. Il superamento del legalismo nel costituzionalismo

Seguendo questa linea di pensiero, la formula dello stato costituzionale è stata ritenuta espressiva di una linea di tensione tra costituzionalismo e legalismo, che le compatte costruzioni del liberalismo giuridico avevano oscurato ed invece gli assetti delle democrazie pluralistiche

34 Si v. H. Dreier, Der Rechtsstaat im Spannungsverhältnis zwischen Gesetz und Recht (1985), in Id., Recht- Staat- Vernuft. Studien zur Rechtstheorie 2, Frankfurt a.M. 1991, 73 ss.35 Si v. M. Stolleis, Nahes Unrecht, fernes Recht. Zur juristischen Zeitgeschichte im 20. Jahrhundert, Weimar 2014, 7 ss.36 Si v. su ciò la fondaentale elaborazione teorica di P. Häberle, Verfassung als öffentlicher Prozeß, III ediz., Berlin 1998, 93 ss.

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avrebbero fatto emergere con forza. Mentre il costituzionalismo pone l’accento sul contenuto di valore delle costituzioni e potenzia il ruolo della giurisprudenza nel far valere tali contenuti anche contro l’azione del legislativo e dell’esecutivo, il legalismo resta ancorato all’idea della centralità del legislatore e riduce gli spazi di una giurisprudenza chiamata a dare voce ai contenuti materiali della costituzione. Aldilà dei riflessi sui rapporti fra poteri, si intravvedono sullo sfondo due indirizzi differenti del pensiero giuridico, l’uno (il costituzionalismo) costruito su un’idea del diritto sostanziata di contenuti etici, l’altro (il legalismo) su una concezione positivistica del diritto.37 In breve, occorre sgombrare decisamente il campo da equivoci che hanno spesso accompagnato le interpretazioni storiografiche del costituzionalismo, e ribadire con forza che la tesi secondo la quale il giuspositivismo statualistico sarebbe stato l’unico approdo coerente dell’eredità del costituzionalismo è il frutto quanto meno di una visione unilaterale (se non di un fraintendimento). Essa trascura la forte tensione etica e valutativa racchiusa nell’ideologia del costituzionalismo, cui gli esiti del liberalismo giuridico ottocentesco (e le ragioni di fondo del disegno di forte unificazione politica che lo ispirò) avrebbero impresso una torsione giuspositivistica sempre più marcata, rinserrando la garanzia dei diritti entro l’orizzonte della legalità, di un diritto im-posto dalla volontà del legislatore.

Questo scenario di mutamento ha posto su basi profondamente differenti i canoni interpretativi ed argomentativi sui diritti. Dal momento che le costituzioni sono costrette a misurarsi con la complessità sociale e con il pluralismo, ciò ha reso impraticabile la strada dei congegni di neutralizzazione elaborati dal liberalismo giuridico e peraltro ineludibile il ripensamento della tensione fra il diritto e la legalità. Una tensione, come ho già accennato, sostanzialmente estranea alla storia del costituzionalismo. Faccio riferimento non soltanto alle origini medievali del costituzionalismo inglese (all’idea della soggezione del sovrano ad un diritto radicato nella coscienza sociale e inteso come concretizzazione storica dei principi del diritto naturale)38, ma anche alle radici dell’idea dello stato di diritto nel giusnaturalismo razionalista, che non ne separavano l’essenza da una teoria della giustizia e da un impianto valutativo, ed anzi la connotavano di elementi sostanziali prima che procedurali.39 Sono note le motivazioni 37 Cfr. ancora R. Dreier, Konstitutionalismus und Legalismus, in Festschrift für W. Maihofer, Frankfurt a.M. 1988, 85 ss.38 Si v. B. Tierney, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico 1150-1625, Bologna 200239 Si v. le classiche opere di P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (1961), nuova ediz.

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storiche per le quali il liberalismo giuridico avrebbe finito per radicalizzare l’opposizione fra il diritto e la legge. Il punto è che il pluralismo ha scardinato sia un impianto di protezione dei diritti rimesso a congegni di neutralizzazione presidiati dalla legalità formale, sia una concezione del rapporto fra la costituzione e la legge costruita sul paradigma dello Stufenbau kelseniano, e di rigide gerarchie normative.

Questo passaggio è decisivo per comprendere storicamente le cause della trasformazione dei canoni argomentativi utilizzati dalle corti costituzionali per l’interpretazione dei diritti fondamentali. L’affermarsi di una giurisprudenza sui diritti fondamentali che fa ricorso a canoni di ragionevolezza (fondati sul bilanciamento degli interessi coinvolti) o sulla ponderazione (Abwägung) dei differenti contenuti di valore incorporati dai principi costituzionali, segna un radicale distacco dalle rassicuranti neutralizzazioni della legalità formale, dal paradigma dello stato di diritto di derivazione liberale e dagli strumenti di garanzia che esso apprestava ai diritti: diritti pubblici soggettivi, non a caso, secondo il filone ricostruttivo del tardo liberalismo giuridico culminato con Jellinek, e non (o non ancora) diritti fondamentali , cioè diritti connotati da una funzione costitutiva dell’ordinamento costituzionale complessivo. Le due vie dell’interpretazione dei diritti fondamentali, che ho appena ricordato, quella della Güterabwägung di derivazione tedesca e quella, di derivazione statunitense, del balancing fra gli interessi (e quella italiana, per così dire, intermedia del controllo sulla ragionevolezza delle leggi) sono differenti, perché radicate in contesti storico-culturali e in concezioni differenti della costituzione.40 E’ tuttavia comune ad esse la consapevolezza delle trasformazioni che il pluralismo ha prodotto nell’assetto e nell’interpretazione dei diritti fondamentali. Già nel 1905 la dissenting opinion del justice Holmes sul caso Lochner riconduceva al problema del pluralismo la controversia tra emergenza della questione sociale e interpretazione di stampo liberale della Costituzione statunitense. Holmes contestava la decisione della maggioranza della Corte suprema federale, che aveva giudicato incostituzionale una legge dello stato di New York la quale aveva introdotto limitazioni dell’orario di lavoro dei panettieri, asserendo il contrasto con la contractual freedom garantita dal XIV emendamento di una misura legislativa considerata come esercizio di un invadente potere di polizia, ispirato da un pregiudizio classista e lesivo dell’imperativo costituzionale della equal protection of a cura di F. Tessitore con due note di N. Bobbio e G. Calogero, Napoli 2000; e di H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, Bologna 1998-201040 Si v. P. Ridola, Il principio libertà nello stato costituzionale, Torino 2018, 110 ss.

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the laws. Sullo sfondo della questione, il giudice dissenziente coglieva lucidamente le ricadute del conflitto sociale e dell’articolazione del tessuto pluralistico sull’interpretazione costituzionale. Holmes contestava la tesi che una costituzione abbia “lo scopo di incorporare una particolare teoria economica, sia essa il paternalismo e la relazione organica tra cittadino e stato oppure il laissez faire“. Al contrario, “essa è destinata a gente dalle vedute sostanzialmente diverse e la circostanza puramente accidentale che alcune opinioni sono per noi naturali e familiari e altre inconsuete o persino urtanti non deve essere decisiva per la soluzione del problema se le leggi che le accolgono contrastino con la Costituzione degli Stati uniti”. Ed il justice Holmes segnalava con forza che la costruzione di un ordinamento ragionevole rappresenta la sfida più impegnativa dell’interpretazione costituzionale nelle democrazie pluralistiche: “un uomo ragionevole” ben potrebbe considerare la legge “un provvedimento opportuno” dal punto di vista sanitario”, ed “uomini che certamente non potrei definire irragionevoli potrebbero giudicarla il valido avvio di una disciplina generale dell’orario di lavoro”, e “non ritengo necessario discutere – egli concludeva – se essa meriti la censura di disparità di trattamento”.41 Si coglie pertanto nella dissenting opinion un aspetto che va molto aldilà della consapevolezza della centralità della questione sociale e dei problemi del lavoro nel catalogo dei diritti, perché scava in profondità nell’interpretazione costituzionale, anticipando la dottrina, prevalsa poi nei decenni successivi, secondo la quale l’unica razionalità che è plausibile pretendere dalla costituzione non si fonda su astratti principi di ragione né, per converso, sui canoni argomentativi consueti alla mentalità del giuspositivismo, sui rigidi schemi della sussunzione e della dialettica regola/eccezione , ma su un approccio ad una lettura del testo costituzionale aperta alle risorse del contemperamento ragionevole ed equo delle istanze, evidentemente conflittuali, delle società pluralistiche.

E’ difficile negare (riprendo qui una suggestione di Luhmann) che, venuta meno l’antica pretesa (liberale) di ordine della sfera politica, a causa della complessità e differenziazione crescenti dei sistemi sociali, si siano prodotte inedite tensioni e ricchezza di alternative in tutte le sfere della società, ma anche, allo stesso tempo, sfide penetranti alla dogmatica dei diritti fondamentali, alla quale si impone di abbandonare le tranquillizzanti armonie del liberalismo giuridico ottocentesco per misurarsi con “nuove più complicate realtà”.42 Né è casuale che gli schemi protettivi troppo rigidi della Lochner era, nei quali si combinavano testualismo e più antiche

41 Cfr. O.W. Holmes, Opinioni dissenzienti, a cura di C. Geraci, Milano 1975, 48 ss.42 Cfr. N. Luhmann, Grundrechte als Institution, IV ediz., Berlin 1999, 14 ss.

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suggestioni giusnaturalistiche, sarebbero entrati in crisi già nei decenni del XX secolo, per poi sfociare, negli anni trenta del XX secolo, nella svolta che avrebbe consentito alla Corte suprema di inaugurare uno scrutinio nel judicial review nel campo delle libertà economiche meno rigoroso di quello osservato per i diritti civili e politici. Una svolta che fu allora subita da una Corte suprema conservatrice nello scontro con le politiche presidenziali di welfare negli anni del New Deal, ma che fu anche costruita facendo ricorso ad una saggezza argomentativa nella quale il realismo avrebbe trovato un solido supporto culturale nel pragmatismo delle coeve scuole filosofiche statunitensi.43

Nello svolgimento di questo itinerario giocano evidentemente un ruolo decisivo le grandi opzioni di principio contenute nelle costituzioni del pluralismo: esse sottendono una visione del diritto non riducibile né alla conformità ad uno schema legale (il giuspositivismo formalistico) né alla mera fattualità (il giuspositivismo che chiamerei sociologico), ma definita dal paradigma dell’adeguatezza/ corrispondenza ad un quadro di valori materiali. E dunque a scalzare la tesi che non vi sia alcun legame necessario fra diritto e morale, fra il diritto positivo e la giustizia non ha contribuito soltanto la volontà di fare argine, dopo la fine della seconda guerra mondiale, al totalitarismo come male estremo della politica, ma anche la necessità, imposta dal pluralismo, di caricare la costituzione di un inedito compito di unificazione politica, inedito perché operante sullo scenario di società caratterizzate dalla disomogeneità e attraversate dal conflitto.

(*) Dedico questo scritto, con riconoscenza ed amicizia, a Guido Alpa, come omaggio ad un Maestro del diritto civile sempre attento all’influenza dei principi costituzionali sull’interpretazione, e ad uno studioso di larghissime aperture alla comparazione e alla storia del pensiero giuridico.

43 Si v. T.A. Aleinikoff, Constitutional Law in the Age of Balancing, in The Yale Law Journal 96 (1987), 443 ss.; e più di recente A. Barak, Proportionality. Constitutional Rights and their Limitations, Cambridge 2012

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La polizza di carico elettronica e il sistema Bolero

Sommario: 1. Premessa. Cenni sulle fonti di regolamentazione dell’EBL – 1.1. La Legge Modello UNCITRAL 1996 sul commercio elettronico – 1.2. Le regole sulla polizza di carico elettronica predisposte dal C.M.I. (Comité Maritime International) nel 1990 – 1.3. I documenti di trasporto elettronici nelle c.d. “Regole di Rotterdam” – 2. Il sistema Bolero – 2.1. Prerequisiti per operare nell’ambito del sistema Bolero – 2.2. Validità legale dei messaggi come regolata dal Bolero Rulebook – 2.3. Efficacia probatoria e carattere vincolante e non contestabile di tutte le comunicazioni veicolate tramite Bolero – 2.4. Regole di funzionamento della polizza di carico elettronica Bolero – 2.4.1. L’emissione della polizza – 2.4.2. Il trasferimento successivo dei diritti sulla merce – 2.4.3. Il diritto alla riconsegna della merce e il passaggio alla versione cartacea – 2.4.4. Giurisdizione e legge applicabili – 2.4.5. Rapporto con le Convenzioni internazionali – 3. Conclusioni.

1. Premessa. Cenni sulle fonti di regolamentazione dell’EBL

Ormai da lungo tempo la tradizionale polizza di carico cartacea mostra inconvenienti rispetto a un sistema più efficace e rapido di trasferimento dei diritti sulla merce in essa incorporati.

Tali inconvenienti possono sintetizzarsi: (i) nei ritardi dovuti al ritardo nell’arrivo della polizza: con la modernizzazione del trasporto marittimo, è facile infatti che la nave e il carico arrivino a destino mentre i documenti sono ancora in corso di verifica presso la banca per scopi di credito documentario; (ii) nei costi del sistema cartaceo: si calcola che circa il 10-15 % dei costi del trasporto sia dovuto alla emissione di documenti cartacei.

Questi inconvenienti possono essere superati dalla polizza di carico elettronica (EBL: acronimo per Electronic Bill of Lading), che può essere trasmessa dal vettore al ricevitore o alla banca titolare di un pegno sulla merce in un paio di secondi, e i cui costi (di emissione, trasmissione e archiviazione) sono infinitesimali rispetto a quella cartacea.

Vi sono inoltre altri vantaggi. La polizza di carico elettronica può essere verificata sullo stesso computer cui è stata trasmessa, e il testo può essere interpolato senza necessità di emettere un nuovo documento. Ancora, vi

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sono vantaggi nella conservazione e archiviazione. Infine, l’EBL è preferibile in termini di sicurezza contro l’alterazione e le frodi.

Per comprendere tale ultimo aspetto occorre considerare che l’EBL si colloca nel sistema E.D.I. (Electronic Data Interchange), che è stato designato a facilitare il commercio e lo scambio di documentazione in assenza di documentazione cartacea, e che funziona come sistema di comunicazione chiuso, basato sul trasferimento di dati strutturati, sulla base di standard concordati, tra parti commerciali1.

Le informazioni contenute in un’EBL sono securizzate mediante un sistema di chiave privata che viene emessa in sostituzione del documento di legittimazione.

Il possessore della chiave privata ha titolo per ottenere la consegna della merce. Se la merce viene venduta in transito, la chiave privata viene cancellata e sostituta con una nuova chiave privata emessa a favore del nuovo soggetto che ha titolo sulla merce. Per ottenere la sicurezza nella trasmissione dei dati, si fa ricorso a tecniche di firma digitale2.

Si tratta allora di esaminare se e in che modo la polizza di carico elettronica possa rappresentare un valido equivalente funzionale della polizza cartacea.

Le funzioni fondamentali della polizza di carico sono, come è noto: (1) quella di ricevuta di presa in carico della merce; (2) quella di documentazione del contratto di trasporto; (3) quella di titolo (di credito, e quindi) di legittimazione per la (ri)consegna della merce3.

1 Cfr. C. Reed, J. Angel, Computer Law, 4a ed., London, Oxford University Press, 2000, p. 321-326; K. Burden, EDI and Bills of Lading, in Computer Law and Security Report, 1992, p. 269; D. Faber, Electronic Bills of Lading, in Lloyd’s Maritime and Commercial Law Quarterly, 1996, p. 233. Sul sistema dell’E.D.I. cfr. G. Finocchiaro, I contratti informatici, in Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da F. Galgano, vol. XXII, Padova, 1997, ove ampi riferimenti bibliografici e documentazione, nonché Commercio elettronico, documento informatico e firma digitale. La nuova disciplina, a cura di C. Rossello, G. Finocchiaro ed E. Tosi, Torino, 2003, specie, p. 531 ss.2 Per una più dettagliata descrizione del meccanismo di funzionamento delle tecniche di cifratura e firma digitale mi permetto di rinviare a C. Rossello, Comunicazioni elettroniche, in Dir. mar., 2006, p. 1032 ss., ove anche un’analisi di quella che in allora era la bozza di Convenzione UNCITRAL sul trasporto di merci (in tutto o in parte) via mare, destinata a dare forma alle c.d. “Regole di Rotterdam”, sulle quali infra nel testo.3 Cfr. per tutti R. Aikens–R. Lord–M. Bools, Bills of Lading, 2nd ed., New York, Informa Law from Routledge, 2016, p. 19 ss.; J. Wilson, Carriage of Goods by Sea, 7th ed., Harlow, 2010, p. 122, 134, 137; N. Gaskell–R. Asariotis–Y. Baats, Bills of Lading: Law and Contracts, London, Informa Law from Routledge, 2000, p. 3 ss.; K. Burden, EDI and Bills of Lading, cit., p. 269; A. D’Ovidio, G. Pescatore e L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, 13a ediz., Milano, 2013, p. 573 ss.; G. Righetti,

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La funzione sub (3) è molto importante, perché fa della polizza di carico un titolo negoziabile, in modo tale che il trasferimento del documento comporta il trasferimento della merce. Dal punto di vista pratico, essa serve a far sì che la merce in viaggio possa essere venduta o usata come garanzia mediante il trasferimento della polizza.

Applicato alla polizza di carico elettronica, il sistema di cifratura a doppia chiave asimmetrica consente che, una volta ricevuta sul computer del destinatario, la polizza elettronica costituisca prova del contratto di trasporto ad ogni effetto (come se fosse un documento cartaceo). Allo stesso modo, essa costituisce ricevuta della presa in consegna della merce da parte del vettore. L’unico elemento da verificare in maniera più approfondita è se l’EBL possa integrare il requisito della prova del titolo di legittimazione ai fini della riconsegna della merce e della negoziabilità, circolazione e trasferimento dei diritti sulla merce stessa.

Nell’ambito del commercio internazionale, esistono da tempo fonti di “Soft Law”, e cioè di linee-guida non vincolanti, destinate alla disciplina dell’EBL.

Si tratta delle previsioni della Legge Modello sul commercio elettronico elaborata fin dal 1996 dall’UNCITRAL (Commissione delle Nazioni Unite per il Diritto del Commercio Internazionale) e delle regole sulla polizza di carico elettronica predisposte dal C.M.I. (Comitè Maritime International) nel 1990.

1.1. La Legge Modello UNCITRAL 1996 sul commercio elettronico

Come detto, l’UNCITRAL ha elaborato nel 1996 una legge modello sul commercio elettronico, che introduce principî generali in materia di commercio elettronico e più in generale di scambio di comunicazioni e informazioni in forma dematerializzata4.

La Legge Modello UNCITRAL (Uncitral Model Law on Electronic Commerce with Guide to Enactment 1996 with additional article 5-bis as

Trattato di diritto marittimo, II, Milano, 1990, specie p. 990 ss., ove ampi riferimenti.4 Per un commento cfr. C. Rossello, Commercio elettronico. La Governance di Internet tra diritto statuale, autodisciplina, soft law e lex mercatoria, Milano 2006, p. 110 ss., ove anche il testo integrale della Legge Modello Uncitral e della Guida Applicativa (in Appendice, pp. 205-275). In precedenza rispetto alla stesura dell’Uncitral Model Law 1996, la necessità di una rivoluzione tecnologica dei documenti di trasporto era stata evidenziata da Groenfors, Simplification of Documentation and Document Replacement, in L.M.C.L.Q., 1976, p. 250 ss.; Ramberg, Electronic Transfer of Rights to Goods in Transit, in Trading with EDI. The Legal Issues, ed. by Thomsen and Wheble, London, IBC Financial Books, 1989, p. 185-195.

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C. Rossello

adopted in 1998, di seguito anche: “la Legge Modello”) non contiene regole direttamente applicabili, ma propone agli Stati membri l’adozione di alcuni principî generali in materia di commercio elettronico, lasciando agli Stati medesimi assoluta libertà per quanto riguarda le regole di dettaglio5.

Si tratta in sostanza di linee guida mirate a valere come riferimento per gli Stati nel formare le proprie legislazioni nazionali.

L’ambito oggettivo di applicazione di tali principi copre in realtà tutti i tipi di Data Messages, intesi questi ultimi come «informazione generata, inviata, ricevuta o archiviata mediante strumenti elettronici, ottici o similari, inclusi (ma non limitati a) electronic data interchange (E.D.I.), posta elettronica, telegramma, telex o telefax» [(art. 2 (Definitions), lett. a)], e quindi, nella sostanza, tutte le informazioni che non necessitano di un supporto cartaceo per la trasmissione e circolazione.

Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione, la Legge Modello si occupa dei rapporti tra emittente e destinatario dei “Data Messages”.

I principî fondamentali consegnati agli Stati membri, articolati in 15 disposizioni, sono quello della eliminazione della discriminazione tra documento cartaceo e documento elettronico (c.d. “media bias” del supporto cartaceo) e quello di equivalenza funzionale, in base al quale la funzione e la ratio di alcuni istituti giuridici tradizionali (la forma scritta, la sottoscrizione e la forma originale) sono stati rivisitati al fine di introdurre nel contesto dematerializzato proprio del commercio elettronico istituti equivalenti, in grado di assolvere le stesse funzioni.

La sezione seconda della Legge Modello (artt. 16 e 17) è specificamente dedicata al settore del trasporto (Carriage of goods), inteso sia come trasporto marittimo che come trasporto per via terrestre o aerea.

L’art. 17 (intitolato «Transport Documents») dell’Uncitral Model law dichiara che laddove la legge richieda che una determinata azione nell’ambito del contratto di trasporto (fra quelle menzionate nel precedente art. 16, e cioè:

5 Anche se in realtà la Guida applicativa allegata alla Model Law contiene già indicazioni sufficientemente precise per la normativa di dettaglio. Come risulta dalla consultazione del sito www.uncitral.org/uncitral/en/uncitral_texts/electronic_commerce/1996Model_status.html , fino ad oggi hanno adottato una legislazione conforme ai principi della Model Law 71 Stati per oltre 150 giurisdizioni. Tra gli altri, i seguenti Paesi: Australia (2011), Cina (2004); Francia (2000); India (2000); Irlanda (2000); Messico (2000), Nuova Zelanda (2002), Repubblica di Corea (1999), Singapore (2010); Slovenia (2000); Sud Africa (2002); Tailandia (2002) e Venezuela (2001). Inoltre, una legislazione influenzata dalla Model Law e dai principî sui quali essa si fonda è stata adottata negli Stati Uniti d’America (Uniform Electronic Transaction Act, adottato nel 1999 dalla National Conference of Commissioners on Uniform State Law) e nel Canada (Uniform Electronic Commerce Act, adottato nel 1999 dalla Uniform Law Conference of Canada).

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fornire i marchi, numero quantità o peso della merce; dichiarare la natura o il valore dei beni; confermare che i beni sono stati caricati; comunicare a un soggetto i termini e le condizioni del contratto di trasporto; dare istruzioni al vettore; reclamare la consegna della merce; autorizzarne il rilascio; dare notizia della perdita o avaria della merce; fornire qualsiasi altra notizia connessa all’esecuzione del contratto di trasporto; garantire acquistare, rinunciare, trasferire o negoziare diritti sulla merce; acquistare o trasferire diritti e obblighi nell’ambito del contratto di trasporto) sia compiuta per iscritto o adoperando un documento cartaceo, tale requisito è soddisfatto se l’azione è compiuta usando uno o più messaggi elettronici6.

1.2. Le regole sulla polizza di carico elettronica predisposte dal C.M.I. (Comité Maritime International) nel 1990

Come è noto, il Comitè Maritime International (C.M.I.) è un’istituzione storica fondata nel 1897, il cui scopo è quello di proporre una “codificazione universale” di principî standard (con valore di linee guida, e pertanto di soft law) ricavata da vari codici marittimi medievali.

Con l’obiettivo di dematerializzare i documenti mediante l’uso di E.D.I. e di facilitare l’utilizzo della polizza di carico elettronica, il C.M.I. ha introdotto nel 1990 le Rules for Electronic Bills of Lading. Tali linee guida rappresentano un corpo di regole volontarie che possono essere incorporate nel contratto di vendita o di trasporto su base convenzionale, e cioè in virtù di accordo delle parti. In tal modo l’uso della polizza di carico elettronica è da considerare automaticamente conforme con la regolamentazione internazionale dello scambio elettronico di dati. Di conseguenza la “Regole C.M.I.” non solo consentono l’utilizzo di polizza di carico elettronica, ma stabiliscono anche quale debba essere la forma dell’EBL.

L’art. 3 (a) stabilisce che «le Regole uniformi di condotta per lo scambio di dati per Teletrasmissione (UNCID) 1987 governeranno la condotta delle parti», e l’art. 3 (b) dichiara che lo scambio di dati per via elettronica nel quadro delle Regole C.M.I. dovrà conformarsi con gli standard fissati nelle UN Rules for Electronic Data Interchange for Administration, Commerce and Transport (UN/EDIFACT).

Anche in questo caso, si prevede l’equivalenza funzionale tra dati trasmessi per via elettronica e forma scritta (art. 11). Il testo delle regole C.M.I. è reperibile all’indirizzo http://comitemaritime.org/Rules-for-6 Cfr. J. Clift, Electronic Commerce: the UNCITRAL Model Law and Electronic Equivalents to Traditional Bills of Lading, in 27 International Business Lawyer, 1999, p. 311 ss.

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C. Rossello

Electronic-Bills-of-Lading/0,2728,12832,00.html .

1.3. I documenti di trasporto elettronici nelle c.d. “Regole di Rotterdam”

Infine va dato conto, sia pure in sintesi estrema, del fatto che una disciplina dei documenti di trasporto elettronici è contenuta nelle c.d. “Regole di Rotterdam”, e cioè nella Convention on Contracts for the International Carriage of Goods Wholly or Partly by Sea (di seguito: “la Convenzione”), predisposta dall’UNCITRAL sulla base di un progetto iniziale del Comitè Maritime International, adottata dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’11 dicembre 2008, e aperta alla firma a Rotterdam il 21 settembre 20097.

Nonostante la Convenzione in questione non sia ancora entrata in vigore, in difetto del numero di ratifiche necessarie, essa rappresenterebbe infatti, una volta divenuta applicabile, la prima fonte di regolamentazione normativa in materia di titoli elettronici di trasporto in parallelo ai documenti cartacei.

L’espressione “titoli elettronici di trasporto” viene adoperata in quanto la Convenzione fa riferimento ad essi, e non ad un particolare tipo di documento (polizza di carico o altri documenti tipizzati di trasporto). Ne consegue che la relativa disciplina è applicabile a trasporti documentati non soltanto da polizze di carico, ma da tutti i tipi di documento di trasporto, ivi compresi quelli elettronici, indipendentemente dal fatto che siano titoli di credito (come la polizza di carico) o meno8.

L’art. 1.14 delle Regole di Rotterdam definisce «transport document» come quel documento, emesso dal vettore in relazione a un contratto di trasporto, che: (i) attesta la presa in consegna della merce e (ii) evidenzia o 7 Per un commento, data la sterminata mole di bibliografia, ci si limita a rimandare, anche per la loro autorevolezza, ai contributi dei tre delegati italiani che hanno partecipato ai lavori del Working Group on Transport Law dell’UNCITRAL che nel corso di tredici sessioni, tenutesi a Vienna e a New York dal 2002 al 2008, ha redatto il progetto di Convenzione sottoposto dall’Assemblea dell’UNCITRAL all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la sua adozione. Si cfr. allora F. Berlingieri, S. Zunarelli e C. Alvisi, La nuova Convenzione UNCITRAL sul trasporto Internazionale di merci “wholly or partly by sea” (Regole di Rotterdam), in Dir. mar., 2008, p. 1161-1265. Si segnalano poi tre volumi collettanei: Y. Baatz–C. Debattista–F. Lorenzon et al., The Rotterdam Rules: A practical Annotation, London, Informa, 2009; R. Thomas (Editor), A New Convention for the Carriage of Goods by Sea – The Rotterdam Rules, London, Lawtext Publishing, 2009; The Rotterdam Rules 2008, ed. by von Ziegler, Schelin, Zunarelli, Alphen aan den Rijn, 2010.8 Come ad esempio la sea way bill o la mera cargo receipt. Cfr. F. Berlingieri, Documenti del trasporto, in Dir. mar., 2006, p. 1027.

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contiene il contratto di trasporto. Da tale definizione risulta evidente che il documento di trasporto deve svolgere soltanto due delle tre funzioni tipiche della tradizionale polizza di carico, con esclusione pertanto della funzione di titolo di credito rappresentativo delle merci trasportate, rendendo meramente facoltativa la possibilità di emettere documenti “negotiable”, ossia contenenti la clausola “all’ordine” o “negoziabile”9.

Il principio generale che sta alla base delle Regole di Rotterdam dedicate al documento di trasporto è quello della completa equiparazione tra i documenti cartacei e quelli elettronici, in modo tale che l’emissione di un electronic transport record10, il suo controllo esclusivo e il suo trasferimento abbiano i medesimi effetti della emissione, del possesso e del trasferimento di un documento del trasporto cartaceo11.

Per quanto concerne le procedure in tema di emissione e trasferimento dei titoli, di garanzia della loro integrità, di prova della legittimazione del titolare e di consegna del titolo all’avente diritto, le Regole di Rotterdam hanno preferito rinviare alle procedure menzionate nel titolo, evitando così di cristallizzare in una Convenzione destinata a durare nel tempo tecniche in continua e rapida evoluzione12.

Dato sintetico conto delle fonti di regolamentazione dell’EBL, sia a livello di soft law che di potenziale e futuro diritto uniforme, questo lavoro si concentra su una descrizione del sistema “Bolero”, adottato da un prestigioso 9 Vedi S.M. Carbone, Contratto di trasporto marittimo di cose, in Tratt. dir. civ. e comm. già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni e continuato da P. Schlesinger, 2a ed., Milano, 2010, p. 158 ss.; F. Berlingieri, S. Zunarelli e C. Alvisi, La nuova conven-zione UNCITRAL sul trasporto Internazionale di merci “wholly or partly by sea” (Regole di Rotterdam), cit., p. 1185-1193.10 La definizione di “electronic transport record” di cui all’art. 1.18 è assai ampia, e ricomprende qualsiasi comunicazione in forma elettronica, ottica, digitale o simili, che costituisca ricevuta del carico ed evidenzi o contenga il contratto di trasporto. Cfr. M. Goldby, The performance of the bill of lading’s functions under the UNCITRAL’s draft Convention on the Carriage of Goods: unequivocal legal recognition of electronic equivalents, in J.I.M.L., 2007, p. 160 ss.; Id., Electronic alternatives to transport documents: a framework for future developments, in A New Convention for the Carriage of Goods by Sea. The Rotterdam Rules, ed. by Thomas, cit., pp. 225-241; C. Debattista, Transport Records, in Y. Baatz – C. Debattista – D. Lorenzon et al., The Rotterdam Rules: A practical Annotation, cit., cap. 3.11 L’equivalenza funzionale tra comunicazioni materializzate e comunicazioni elettroniche viene trattata specificamente nel cap. 3 delle Regole, dedicato alle registrazioni elettroniche di trasporto, e nel cap. 8, relativo ai documenti di trasporto e alle registrazioni elettroniche di trasporto. Per l’analisi del testo della Convenzione è preziosa la traduzione in Italiano curata da Francesco Berlingieri, della quale ho potuto disporre grazie alla cortesia del compianto Autore.12 In tal senso F. Berlingieri e S. Zunarelli, Dalle Regole dell’Aja-Visby alle Regole di Rotterdam. Effetti del cambiamento sul commercio marittimo, testo della relazione al Convegno tenutosi a Genova il 19-20 ottobre 2009.

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C. Rossello

“parterre” di banche italiane ed estere, come verificabile tramite il link indicato di seguito: www.bolero.net/customers .

2 .Il sistema Bolero

Il sistema “Bolero”, che sta per “Bill of Lading Electronic Registry Organization”, è stato lanciato commercialmente nel settembre 199913.

Bolero Ldt. è nata nel 1996 come joint venture tra SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Transaction) e TT Club (Through Transport Mutual Insurance Association Ltd.) e il progetto è stato appoggiato anche dalla Commissione Europea. Lo scopo del progetto era quello di disegnare un quadro contrattuale in grado di garantire che la polizza di carico elettronica assolvesse la funzione di titolo di legittimazione, fronteggiando il problema del trasferimento elettronico dei diritti sulla merce.

La caratteristica specifica di “Bolero” è quella di essere una soluzione contrattuale multilaterale: ogni soggetto che desidera contrattare nell’ambiente elettronico “Bolero” (caricatori, vettori, banche, consegnatari e altri soggetti correlati come ad esempio autorità portuali) deve diventare membro della “Bolero User Association”. I membri devono osservare le prescrizioni contenute nel “Bolero Rulebook”, le quali contengono regole generali e definizioni, regole di ammissione dei membri, previsioni disciplinari e regole sul ruolo e le responsabilità del Registro.

Fin dalla sua introduzione il sistema ha risolto il problema della mancanza di attestazione di ricezione proprio di Internet. In precedenza rispetto all’introduzione della PEC e sistemi equivalenti, il mittente in Internet non poteva essere sicuro che il suo messaggio fosse stato effettivamente ricevuto dal destinatario. Nel sistema “Bolero”, il messaggio inviato viene immediatamente riscontrato da una conferma di ricezione contestualmente all’invio al destinatario. Quando il destinatario scarica il messaggio, automaticamente accusa ricevuta a “Bolero”, che fornisce al

13 Cfr. www.bolero.net. In dottrina cfr. R. Caplehorn, The Bolero System, in Cross-Border Electronic Banking: Challenges and Opportunities, edited by C. Reed, I. Walden, L. Edgar, 2nd ed., London, Informa Law from Routledge, 2014, cap. 4; Id., Bolero.net. The Global Electronic Commerce Solution for International Trade, in (14) Butterworths Journal of International Banking and Financial Law, 1999, p. 421 ss.; P. Mallon & A. Tomlinson, Bolero: Electronic “Bills of Lading” and Electronic Contract of Sale, in (5) International Trade Law Quarterly, 1998, p. 257 ss.; A. Nilson, Bolero. An Innovative Legal Concept, in (6) Computers and Law (New Series), 1995, p. 17 ss.

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mittente la conferma che il messaggio è stato ricevuto. Nel “Bolero Rulebook” (di seguito anche: “BRB”) si prevede una presunzione rispettivamente di invio e di ricezione delle comunicazioni di cui sopra nel momento stesso in cui esse vengono veicolate telematicamente tramite “Bolero” (regola 2.2 del BRB). In caso di contestazioni esiste un unico protocollo di comunicazione che prova l’invio e la ricezione dei messaggi.

In questo modo il sistema garantisce la funzione della polizza di carico elettronica come ricevuta di consegna e come prova del contratto di trasporto.

Per quanto concerne il titolo di legittimazione, la funzione di certezza rispetto ai terzi è assolta dal “title registry”, che agisce come terzo fiduciario, trasferendo i diritti sulla merce a mezzo di novazione, mentre il vettore dà riconoscimento del trasferimento mediante cessione dei diritti (attornment).

2.1. Prerequisiti per operare nell’ambito del sistema Bolero

Il sistema “Bolero” opera su base convenzionale. È pertanto necessario che tutti i soggetti coinvolti (il vettore/caricatore che emette la polizza di carico elettronica; il venditore e l’acquirente della merce; l’eventuale istituto di credito finanziatore e titolare di pegno sulla merce) accettino di essere vincolati dalle regole contenute nel “Bolero Rulebook”. È inoltre necessaria la procedura di registrazione di tutti i soggetti in questione all’associazione “Bolero”. Sotto il profilo pratico, la tecnologia necessaria per aderire a “Bolero” è molto semplice. L’addestramento tecnico comporta una tempistica compresa in un range da 1 a 3 giorni.

2.2. Validità legale dei messaggi come regolata dal Bolero Rulebook

Affrontando per primo uno snodo cruciale, il “BRB” prevede che ogni utente che abbia aderito a “Bolero” si impegna a riconoscere l’autenticità di qualsiasi comunicazione, avviso o altro genere di informazione veicolata attraverso “Bolero” sotto ogni profilo, e cioè a dire: (i) autenticità della sottoscrizione; (ii) identificazione del mittente; (iii) identificazione del destinatario. Inoltre, si prevede una presunzione rispettivamente di invio e di ricezione delle comunicazioni di cui sopra nel momento stesso in cui esse vengono trasmesse telematicamente tramite “Bolero”.

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2.3. Efficacia probatoria e carattere vincolante e non contestabile di tutte le comunicazioni veicolate tramite Bolero

Il “BRB” prevede l’assoluta equivalenza funzionale delle comunicazioni elettroniche rispetto a quelle cartacee [regole 2.2.2 (Validity and Enforceability) e 2.2.3 (Messages as Evidence) del BRB]. Sicché laddove la legge, il contratto, gli usi o la prassi relativi a qualsiasi operazione richiedano la prova scritta, tale requisito va considerato soddisfatto dall’equivalente elettronico, con relativo impegno degli Utenti a non contestarne la validità. Gli Utenti si impegnano espressamente a riconoscere (e, specularmente, a non disconoscere) la funzione ed efficacia probatoria delle comunicazioni elettroniche in qualsiasi procedimento giurisdizionale [regola 2.2.2 (Validity and Enforceability), sub b. 3 (Undertaking not to Challenge Validity)].

2.4. Regole di funzionamento della polizza di carico elettronica Bolero

Nei paragrafi che seguono si sintetizzano al massimo le regole di operatività della polizza di carico elettronica “Bolero”.

2.4.1. L’emissione della polizza Ogni vettore si impegna a che la Bolero Bill of Lading (“BBL”) da lui

emessa: (i) includa la ricevuta di presa in consegna della merce caricata a bordo della nave o comunque di presa in consegna per la caricazione e (ii) contenga i termini del contratto di trasporto. Tale messaggio viene trasmesso per via telematica al “Title Registry” di “Bolero”.

Nel momento in cui origina la “BBL”, il vettore ha l’obbligo di: (a) indicare il caricatore; (b) indicare l’intestatario nominativo della “BBL”, oppure (b.1) indicare un titolare “all’ordine” (che può essere soggetto diverso dal titolare nominativo); (b.2) indicare un consegnatario; (b.3) girare in bianco la “BBL”, in tal modo designando il portatore quale “portatore all’ordine”.

La “BBL” può essere trasferibile o non trasferibile. La prima può essere emessa “al portatore” o “con girata in bianco”.Nel caso di polizza emessa “al portatore”, il vettore si impegna a

riconoscere che detto portatore possa designare un nuovo portatore, un detentore di pegno o un consegnatario, e che ogni successivo portatore all’ordine o detentore di pegno ha il medesimo diritto di designazione.

Se invece il vettore fornisce al “Title Registry” istruzioni per emettere una

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“BBL” con girata in bianco, si impegna a riconoscere che: (i) il portatore può designare un nuovo portatore, oppure un detentore di pegno o un consegnatario, e (ii) ogni successivo giratario, detentore di pegno o portatore all’ordine ha il medesimo diritto di designazione.

2.4.2. Il trasferimento successivo dei diritti sulla merceIl presente è uno snodo fondamentale, che peraltro risulterà familiare a

chi abbia esperienza in materia di titoli di credito, in quanto la disciplina è sostanzialmente analoga. Successivamente all’emissione di una “BBL”, il trasferimento dei diritti sulla merce in essa incorporati (“Constructive Possession of the Goods”) può avvenire mediante la designazione di: (a) un nuovo portatore all’ordine; (b) un nuovo titolare di pegno; (c) (omissis); (d) un nuovo consegnatario.

Per effetto della sopra menzionata designazione, il vettore ha l’obbligo di riconoscere che, a partire dal momento di detta designazione, i beni descritti nella “BBL” sono di titolarità dei soggetti sopra indicati.

2.4.3. Il diritto alla riconsegna della merce e il passaggio alla versione cartaceaValgono in proposito le regole tradizionali relative alla b/l cartacea. Il

vettore può effettuare la consegna esclusivamente ai soggetti titolati come da paragrafi che precedono. In diversa ipotesi, incorre in responsabilità per il valore di fattura della merce.

Il titolare di pegno sulla merce che risulti anche attuale “portatore all’ordine” e che eserciti il suo diritto di garanzia sulla “BBL” acquisterà automaticamente la qualità di “portatore all’ordine”, con conseguente novazione del contratto di trasporto.

Il “BRB” prevede che, in qualsiasi momento antecedente la consegna a destino della merce da parte del vettore, il “portatore all’ordine” ha diritto a chiedere al vettore di emettere una polizza di carico cartacea.

2.4.4. Giurisdizione e legge applicabiliIl “BRB” prevede la giurisdizione inglese e l’applicabilità della legge inglese

esclusivamente con riguardo a: (i) controversie concernenti l’inosservanza delle regole contenute nel “BRB” medesimo; (ii) l’interpretazione delle regole contenute nel “BRB”. È importante sottolineare come, in relazione a qualsiasi altro genere di reclamo al di fuori di quelli sopra indicati, il “BRB” prevede la giurisdizione non esclusiva delle Corti inglesi. In sostanza, qualsiasi Utente ha il diritto di sottoporre qualunque controversia – fatta

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C. Rossello

eccezione per quelle sub (i) e (ii) – a qualsiasi giurisdizione competente.

2.4.5. Rapporto con le Convenzioni internazionaliUn contratto di trasporto in relazione al quale sia stata emessa una

“BBL” rimane comunque soggetto a qualsiasi Convenzione internazionale (o normativa nazionale di ratifica di detta Convenzione) che risulterebbe applicabile obbligatoriamente qualora fosse stata emessa una polizza di carico cartacea. Dette Convenzioni internazionali debbono considerarsi incorporate nella “BBL”. Nel caso di conflitto tra le menzionate Convenzioni internazionali e le diverse previsioni del contratto di trasporto contenute nel testo della “BBL”, avranno prevalenza le Convenzioni internazionali.

3. Conclusioni

Nella seconda decade del terzo millennio i byte hanno rimpiazzato la carta, e la dematerializzazione impera pressoché in ogni settore di attività: dal trasferimento elettronico di fondi, alla circolazione dei titoli azionari, al commercio elettronico e alla conclusione di contratti on-line, alle comunicazioni elettroniche certificate (PEC).

La tradizionale polizza di carico cartacea sconta gli svantaggi descritti in premessa. Soprattutto tra soggetti che operano in continuità di rapporti commerciali, la polizza di carico elettronica presenta vantaggi in termini di sicurezza e non alterabilità, rapidità e maggior economicità.

Che sia tempo per un cambiamento?

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Luigi Rovelli

Brevi cenni sui massimi sistemi:cultura giuridica versus cultura economica

Sommario: 1. Brevi cenni sui massimi sistemi: cultura giuridica versus cultura economica.

1. Brevi cenni sui massimi sistemi: cultura giuridica versus cultura economica

Nicolò Lipari dedica l’ultimo capitolo del suo volume “Il diritto civile tra legge e giudizio” al rapporto fra “diritto e cultura”. Dà atto che per fenomeni storici (ivi ampiamente analizzati) “l’irriducibile realtà del diritto vivente nel momento stesso in cui si misura attraverso risultati interpretativi, inevitabilmente riconnette la regola della decisione non ad un testo ma ad un suo significato”, costituendo il testo solo il limite fra i significati possibili; e conseguentemente individua come passaggio essenziale del procedimento applicativo del diritto “giudizi, valutazioni , criteri che appartengono anche ad altri contesti culturali”. Nello stesso tempo rappresenta il pericolo che, se il diritto si riducesse (ed il rischio è avvertito) “a mera fruizione dei rapporti di forza, della dialettica mercantile, al limite dei sondaggi come modo di ancoraggio dei giudizi di valore”, l’esito della frantumazione sarebbe il “non diritto”, il prevalere delle “ragioni dell’opportunismo e della convenienza” rese come criterio giuridico: in ultima analisi, probabilmente, il prevalere, nella gerarchia dei valori, del criterio dell’utile su quello del giusto. Non è questo l’esito che egli prefigura; ma, per scongiurarlo, si esige una rifondazione del ruolo del giurista. Un ruolo, a ben vedere, non difforme da quello che Guido Alpa, l’Autore della “Cultura delle regole”, nella sua finissima opera storica sulla dottrina civilistica italiana (e non solo italiana) ha individuato essere stato nelle capacità delle generazioni via via succedutesi dei giuristi delle epoche passate; quello talora di fornire le basi culturali per le grandi riforme dell’età della codificazione; e talora di riuscire nell’invarianza dei “testi” a governarne l’interpretazione per trarne i significati più congrui alla regolazione di pur mutevoli e pur mutati rapporti sociali.

Con formula riassuntiva, lo stesso Guido Alpa rileva che “assumendo

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L. Rovelli

la storia del diritto in una accezione lata, si deve sottolineare che un conto sono i testi normativi, altro conto sono i percorsi della cultura giuridica che quei modelli è chiamata a redigere a interpretare ed applicare……. Alla circolarità dei modelli si accompagna la circolarità delle idee, ed entrambi i fattori debbono fare i conti con le realtà istituzionali, politiche, economiche e sociali”, vale a dire con il “contesto” storico.

E allora, sembra soggiungere Lipari alle riflessioni di Alpa, il ruolo del giurista cambia di prospettiva .Non si tratta più (o non si tratta soltanto) di assumere la centralità della legge intesa come insieme dei testi che i tecnici sono chiamati ad intendere e decodificare, ma semmai di comprendere ed accettare “la centralità dell’uomo di legge, il quale deve essere consapevole che il suo ruolo lo chiama ad una visuale a più ampio raggio capace di saldare i testi ai contesti. Il giurista deve essere capace di mettersi al timone, sapendoci stare”.

È certamente vero che dell’intreccio fra intelligenza dei contesti e logica, tra ésprit de finesse ed ésprit geométrique, chiave di sintesi tra la cultura umanistica e quella scientifica e della loro costante interazione si alimentano, nella teoria e nella prassi, i buoni studi di diritto e prende vita lo stesso “diritto vivente”. Meno sicuro è il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica (anche la più qualificata) all’uomo di legge - in quanto tale - e dunque alla cultura (olistica o meno che sia) che egli esprime, di quella virtuosa centralità che le pagine di Lipari auspicano che egli possegga e mostri di possedere.

E questo richiama l’importanza crescente che, nella post modernità, ha assunto una cultura - quella economica - che, nell’ottica delle tre culture (scienze naturali, scienze sociali, discipline umanistiche) proposta da James Kagan, pare comprenderle tutte.

Ciò ci consente qualche riflessione sull’attuale stato di salute della cultura giuridica e della cultura economica.

Una antica maledizione cinese consiste nell’augurio di vivere in tempi “interessanti “! I tempi che ci sono dati non possono essere da noi evitati .Ci sono molti sintomi che ci mostrano come il tempo che viviamo sia un periodo “interessante”: un tempo di transizione in cui la mutazione coinvolge valori, convinzioni, certezze, equilibri profondamente radicati nella tradizione. Non si tratta di esprimere giudizi, né di formulare proposte. Si tratta soltanto di capire, di cercare di capire. Ciò non sembri riduttivo; semmai troppo ambizioso.

Il primo spunto origina dalla constatazione, in sé forse banale, del prevalere, nel mondo odierno, quanto meno nell’Italia di oggi del sapere

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economico su quello giuridico; della maggiore credibilità della scienza economica su quella dei giuristi. Questo fenomeno è relativamente recente ma tende ad accentuarsi. Rammenta Tarello che, sul finire del settecento, studiosi di problemi giuridici metodologicamente innovatori introdussero elementi di pensiero economico nello studio di questioni giuridiche; e bastò tacciarli come “les économistes” per screditarne la rilevanza nel pensiero giuridico. Ad avviso di Tarello, questa espulsione dal campo contribuì ad impoverire gli studi di diritto rinforzando in essi tecniche argomentative (quali ad esempio: adducere inconveniens non est resolvere argumentum) già allora “tradizionali e retrivi”. Ma aggiunge che allora, ed ancora per lungo tempo, la configurazione disciplinare della giurisprudenza aveva “un rilievo assai maggiore nella determinazione delle strutture sociali e dei modi di esercizio del potere di quanto non avessero… le discipline che se ne distaccarono o se ne staccano (come l’economia, come la sociologia, come la sociologia del diritto.)”.

Certo oggi l’attenzione all’economia anche nel nostro Paese è più forte, quasi spasmodica man mano che si estende la consapevolezza che la “golden age” è alle nostre spalle e si diffonde il timore che, per dirla con Ungaretti “si va facendo la frattura fonda”.

La scienza economica, ancora al tempo di Adamo Smith, era una branca della filosofia morale non ancora separata dall’etica e nutrita di diritto. Lo stesso Adam Smith ha insegnato diritto e le sue “lezioni di Glasgow” sono un perfetto corso di “common law”. Codice napoleonico da un lato e la Pandettistica dall’altro per oltre un secolo hanno segnato nell’Europa continentale il tempo della prevalenza della dottrina giuridica sul sapere economico. Ma certamente a partire dalla prima metà del novecento il pensiero economico, già resosi autonomo dall’etica, indaga, con metodo scientifico sui meccanismi di creazione e di diffusione della ricchezza; elabora una scienza dell’ “utile” come distinto dal “giusto” e segna una subvalenza del secondo termine sul primo; si avvia a diventare la “regina” delle scienze sociali e si spinge ad estrarre le regole di comportamento, le regole giuridiche, secondo modelli di azione propri dell’uomo come homo oeconomicus. Ma vediamo le cose più da vicino.

Certo se, con Ronald Coase conveniamo che impresa e mercato formano congiuntamente la struttura istituzionale del sistema economico, essi, anche dalla teoria economica, non possono essere assunti come dati a sé stanti perché il terzo attore, quello che ne determina i ruoli, è costituito appunto dal diritto. Questo può assumere ed assume - diacronicamente, ma anche, come oggi avviene, sincronicamente - sia un ruolo promozionale

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dei diritti dei cives sia, agendo su punti diversi della disciplina giuridica, la funzione di strumento per maggiori performances dell’economia (e si parla in tal caso di un “diritto per l’economia” tema magistralmente indagato da Pierluigi Ciocca).

Nella tradizionale dimensione statuale dell’esercizio della sovranità, il punto di sintesi fra incentivazione allo sviluppo economico, diritti della persona e diritti sociali (o di seconda generazione) era affidato alla legge dello Stato e quindi a quelle scelte che le maggioranze politiche via via emerse andavano compiendo contemperando “utile” e “giusto” secondo le gradazioni dell’uno e dell’altro storicamente determinate secondo i tempi e secondo i luoghi.

Tutto questo sta venendo meno; in parte è già “il passato”. Ciò che fa difetto, oggi, è quello che Natalino Irti ha chiamato la “coestensione tra politica, diritto ed economia” quella coestensione che ha consentito al diritto - come precipitato di lungo periodo della politica - di governare i fenomeni economici.

L’attività economica oggi ha una estensione spaziale che sovrasta di gran lunga quella degli Stati. L’interconnessione planetaria (così l’enciclica Charitas in veritate definisce il fenomeno della globalizzazione) sconvolge a tal punto gli assetti del potere statuale, che secondo Ulrich Beck, la minaccia verso di esso non deriva più dalle invasioni ma dalle “non invasioni” o peggio dalla “ritirata” degli investitori. Ed un economista come Fitoussi ha garbatamente notato che quello che per un paese è delocalizzazione con le sue drammatiche conseguenze, per un altro rappresenta un investimento estero fonte di occupazione e benessere, e realizza così la “Shumpeteriana” distruzione creativa .

L’iniziativa economica che l’articolo 41 della Costituzione vuole libera, ma non in contrasto con la dignità umana, per sua natura, produce poteri di direzione e di organizzazione degli uomini. Ma questi poteri si sono fatti oggi aspaziali e atopici e non si lasciano raggiungere dal diritto statuale se non per brevi ed esili frammenti. Territorialità della regola e spazialità del regolato erano la garanzia dell’antica coestensione fra politica, diritto ed economia.

È definitiva l’attuale scissione? Una forma di “coestensione” è possibile solo sul piano sovrannazionale ed in questa dimensione si sta sviluppo con grandi contraddizioni il percorso per sottoporre a condivise regole giuridiche gli attori dei mercati, specie di quelli finanziari . Il germe della contraddizione e dunque la difficoltà del risultato sta nell’ovvia considerazione che la reazione di ciascuna comunità statuale porta a scegliere per sé la via cosiddetta “di concorrenza fra gli ordinamenti”; induce cioè gli

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Stati verso un modo di essere del proprio ordinamento che sia “compiacente” agli investimenti di capitali. Il che produce anche effetti positivi assai importanti spingendo verso le liberalizzazioni, l’eliminazione degli sprechi e verso la modernizzazione di discipline obsolete (come per noi è avvenuto con la riforma delle società di capitali e delle procedure concorsuali). Ma, nello stesso tempo, “il diritto arretra” rispetto all’economia e lascia alle leggi dell’economia di stabilire quali sono i diritti compatibili con essa.

Al contempo, invece, nelle società si alimenta l’esigenza di uguaglianza e si genera una domanda di giustizia sempre più pervasiva. La sete di diritti individuali, sociali e collettivi origina da reali bisogni ed ha base giuridica sia nel costituzionalismo nazionale sia anche in fondamentali testi normativi soprannazionali come la Carta europea dei diritti dell’uomo e la Carta dei diritti (o carta di Nizza) incorporata con il trattato di Lisbona nel diritto dell’Unione Europea. Essa è sorretta anche da quello che Michel Foucault chiama “il carattere pastorale del potere” (che aspira, almeno in linea di principio a garantire a tutti alcuni beni considerati vitali e fortemente contesi); questa sete trova il suo sfogo nel ricorso sempre più diffuso ai tribunali come solo luogo in cui poter far valere pretese che non trovano altrimenti sedi di concreta realizzabilità.

Ciò che ogni cittadino, ma soprattutto l’operatore economico esigerebbe dal diritto, dalla “scienza giuridica” è una risposta in termini di certezza - la Weberiana calcolabilità - agli infiniti problemi che pone la dialettica dei rapporti individuali e sociali. E, in un certo senso, il principale prodotto dell’azienda - giustizia è dare questa risposta, che è la giurisprudenza stessa, il cosiddetto “diritto vivente”. Giurisprudenza che trova la sua unità nel suo vertice funzionale, la Corte di Cassazione, alla quale, quale giudice di diritto e di ultima istanza, si addice il ruolo istituzionale di nomofilachia. Strumento della certezza possibile, ma anche il solo mezzo per produrre (specie attraverso le Sezioni Unite in quanto risolutrici dei contrasti) le innovazioni mature e dare ad esse il valore di una svolta e dunque una portata culturale e pratica che finirebbe per disperdersi se esse si producessero in un’area di disordinata anomia. Ma il bonum della certezza è meno qualità dell’interprete che dell’ordinamento su cui esso opera. Sostiene Luigi Ferraioli che oggi assistiamo paradossalmente alla simultanea sconfitta di Creonte e di Antigone perché è in crisi la legalità positiva. Crisi per lui imputabile soprattutto a tre fattori: il primo dato dal declino della sovranità dello Stato e dunque del primato della legge; il secondo dall’inflazione legislativa seguita all’età della decodificazione infine dal”vistoso dissesto” del linguaggio legislativo. Nel labirinto normativo si perde il filo d’Arianna del pensiero sistematico; l’accresciuta rilevanza del

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momento interpretativo su quello nomopoieutico nella formazione del diritto ha consentito anche al nostro sistema di civil law di fruire dell’arricchimento dato dalla Law and economics.

Trovo però inesatto parlare di crisi generalizzata del modello tradizionale.La legislazione per fattispecie astratte di stampo codicistico copre ancora rilevanti aree della esperienza giuridica. Ma i tratti caratterizzanti del “nuovo” vanno nel senso del passaggio “dalla legge al diritto”, non solo per il rilievo dei principi costituzionali comunitari , ma per il proliferare di clausole generali.

Ed è vero che “il fatto” che nella logica sillogistica tradizionale appariva semplificato e scarnificato, impoverito di tutte le sue singolarità pur di rendersi confrontabile con la fattispecie astratta, riprende, verso i principi, per intero la sua densità di linee e di carattere. Ed emerge in questo senso la formula che Paolo Grossi chiama della fattualità e quasi carnalità del diritto civile; che guadagna così nella aderenza al concreto fatto della vita ,conosciuto nella sua interezza, ciò che perde in termini di formulabilità di una regola generale che individui una volta per tutte la fattispecie astratta rilevante.

Per altro verso, vero fenomeno parallelo di autopoiesis of law, si è formata una lex mercatoria che ha costruito e forgiato modelli contrattuali sfornati dalle law firms anglosassoni; strumenti che, non previsti dagli organi legislativi degli Stati, regolano in modo uniforme i mercati internazionali e alcuni di essi anche i mercati interni. Alcuni di questi modelli (sub-fornitura; franchising) hanno l’effetto di trasformare in rapporti di mercato fra imprenditori quelli che nella sostanza erano rapporti fra capitale e lavoro, potenziale fonte di conflitto; di qui anche l’emersione nell’ordinamento eurounitario del cosiddetto terzo contratto.

Ma, come ha osservato Francesco Galgano, la società civile così dinamica che crea geo-diritto,che si auto organizza e si studia di fare da sé, è a ben vedere, la societas divitum; mentre la societas pauperum continua a rivolgere “allo Stato” le proprie rivendicazioni e a reclamare “il diritto di avere diritti”.

In sintesi: la crisi economica e finanziaria, producendo crescita delle disuguaglianze e ponendo a rischio lo Stato sociale (per il pericolo stesso di default dei debiti sovrani) mette in crisi il costituzionalismo stesso ed i suoi valori nel contesto della World economy; crea sfiducia verso i suoi stessi “interpreti” istituzionali per la limitatezza dei loro spazi di intervento nella concretizzazione in sede giudiziale dei cosiddetti “diritti sociali”. Forse anche per questo non è affatto avvertita dall’opinione pubblica la “centralità dell’uomo di legge”; mentre è ben avvertita quella delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali pubbliche e private e dei suoi operatori.

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Crisi del costituzionalismo e declino dello Stato-nazione sono le due facce della stessa medaglia; e se è utopistico e in verità poco ragionevole immaginare che si crei d’incanto una via d’uscita che restauri davvero il primato del diritto sull’economia, può e deve essere ricercata la via del confronto anche dialettico fra le due culture.

Un verso del poeta tedesco Hölderlin suona così: un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando ragiona. Noi, che crediamo invece nella forza della ragione, pensiamo che sia possibile che sia un “sogno realizzabile” una via di uscita dalla crisi che sia una via di uscita umanistica che veda le ragioni dell’utile confrontarsi con quelle del giusto; che si interroghi non solo, come si deve, sul quanto produrre ed a quale costo, ma a quale fine.

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Giuseppe Santoro-Passarelli

Rappresentatività e legittimazione al conflittonei servizi pubblici essenziali

Sommario: 1. Dialogo con Guido – 2. Due constatazioni: Inesistenza nelle leggi sullo sciopero nei s.p.e. di criteri di selezione dei soggetti legittimati a proclamare lo sciopero e terziarizzazione del conflitto – 3. La struttura della legge e la sua funzione: garantire il contemperamento dell’esercizio dello sciopero con i diritti della persona costituzionalmente rilevanti – 4. Diverse modalità di esercizio dello sciopero nel lavoro privato e nei s.p.e. – 5. Valorizzazione degli obblighi di informazione a carico delle imprese per gli utenti – 6. La Commissione di garanzia ha un “limitato” potere di mediazione tra le parti e un potere di controllo della legittimità degli atti e dei comportamenti dei soggetti singoli individuali e collettivi. – 7. La legge n. 146 procedimentalizza l’esercizio dello sciopero nei s.p.e. – 8. La proclamazione è un requisito di legittimità dello sciopero – 9. Un discorso de iure condendo sui criteri di individuazione della rappresentatività ai fini della proclamazione dello sciopero – 10. Sulla clausola di comunicazione preventiva di adesione allo sciopero – 11. Sulle forme elusive della disciplina dell’esercizio dello sciopero – 12. Conclusioni.

1. Dialogo con Guido

Desidero continuare il mio dialogo, mai interrotto, con Guido riportando una sua valutazione su una mia raccolta di scritti ormai pubblicata una dozzina di anni fa “Realtà e Forma nel diritto del lavoro”1. Scrive Guido “Realtà e forma sta a significare , invertendo l’ordine dei termini per meglio sottolineare il messaggio, che i rapporti giuridici nascono da un substrato economico e sociale, e sono tradotti in “forma” dal giurista, il quale però non può, more kelseniano, operare mediante astrazioni e formule magiche, ma deve rimanere aderente al contenuto e alle condizioni materiali in cui essi nascono e si svolgono . Un approccio quindi non solo giuspositivistico, ma, se mi è consentito enfatizzarlo, giusrealistico. E questo aspetto contraddistingue l’originalità del pensiero di GSP, rispetto alle concezioni del Padre, e rispetto a quelle di molti giuslavoristi contemporanei”.

Ovviamente questa valutazione mi ha molto gratificato perché un amico, 1 Giappichelli Torino, 2006

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benchè collega, ha, a mio avviso, centrato con la consueta finezza e sensibilità il senso e lo sforzo del mio impegno nell’approccio al diritto de lavoro.

Nel corso di questi decenni il diritto che dal lavoro prende nome e ragione è stato uno dei laboratori più attivi che ha consentito di verificare il punto più delicato dei rapporti tra diritto formale e materiale, e cioè come quest’ultimo si innesti nell’ordinamento giuridico formale attraverso le cerniere delle norme costituzionali in materia di lavoro.

E a questo proposito voglio soffermarmi su un altro binomio che in questo momento risulta di grande attualità perché il rapporto tra i due termini è piuttosto controverso. Mi riferisco al binomio rappresentatività e legittimazione al conflitto nei servizi pubblici essenziali partendo da due constatazioni o, se preferite, da due osservazioni di metodo.

2. Due constatazioni: Inesistenza nelle leggi sullo sciopero nei s.p.e. di criteri di selezione dei soggetti legittimati a proclamare lo sciopero e terziarizzazione del conflitto

Le leggi n. 146 del 1990 e n. 83 del 2000 non prevedono alcun criterio di selezione dei soggetti collettivi legittimati a proclamare lo sciopero e di conseguenza non individuano alcun criterio di misurazione della loro rappresentatività.

Diversamente da una serie di norme del nostro ordinamento che richiamano questo principio a cominciare dall’art. 39 Cost che considera il numero degli iscritti criterio per selezionare i sindacati legittimati a stipulare contratti collettivi con efficacia generale. Come è noto la norma non è stata attuata ma il tema è tornato di attualità.

Anche lo Statuto dei lavoratori ha accolto la rappresentatività anzi la maggiore rappresentatività presunta, cioè non misurata effettivamente, dei sindacati ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali2.

Parimenti la legge3 prevede criteri per la misurazione della rappresentatività dei soggetti legittimati a partecipare alle trattative per la contrattazione nel lavoro pubblico.

2 E la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 231 del 2013 nell’interpretare l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori riformato dal referendum ha riconosciuto la partecipazione alle trattative e non più la sottoscrizione del contratto come criterio di selezione dei soggetti legittimati all’esercizio dei diritti sindacali e ha affermato la necessità che il sindacato sia effettivamente rappresentativo rispetto ai lavoratori. 3 Art. 43 del d.lgs. n. 165 del 2001.

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Quanto ai testi unici del 2014 e poi del 2018 sulla falsa riga della legge sulla contrattazione nel lavoro pubblico, hanno previsto nel lavoro privato gli stessi criteri per individuare i sindacati legittimati a trattare.

Ma a questo proposito bisogna osservare che è vero che il testo unico riconosce alle tecniche di governo del conflitto pari dignità rispetto a quelle dell’efficacia, e tuttavia, come è stato opportunamente segnalato, il testo unico, pur distinguendo opportunamente l’esigibilità dalla prevenzione del conflitto, non disciplina quest’ultima ma stabilisce che la materia della prevenzione costituisce un obbligo che le parti stipulanti i contratti collettivi nazionali di categoria dovranno assolvere4.

E infine, è appena il caso di ricordarlo, questi accordi vincolano solo coloro che li sottoscrivono o si riconoscono in essi ma soprattutto non sono ancora stati attuati.

È inutile dire che l’inesistenza di criteri selettivi per individuare i soggetti legittimati alla proclamazione dello sciopero ha consentito la nascita, accanto ai grandi sindacati confederali, di una serie di sindacati che talvolta non hanno neppure il diritto di bacheca o che sono poco rappresentativi rispetto al servizio nel suo complesso e in certi casi sono rappresentativi rispetto al personale che svolge un segmento del servizio.

Questa circostanza mette in evidenza come diventa importante individuare senza incertezze l’ambito di applicazione entro il quale misurare la rappresentatività. Nel lavoro pubblico questo ambito a livello nazionale è costituito dal comparto.

La seconda constatazione riguarda quella che è stata chiamata con espressione felice la terziarizzazione del conflitto5. Cioè nello sciopero nei s.p.e. oltre alle parti, e cioè i sindacati dei lavoratori e il datore di lavoro o le rispettive associazioni, esiste un terzo attore costituito dagli utenti del servizio. Utenti che risentono degli effetti dello sciopero senza essere responsabili in alcun modo delle cause all’origine di quello sciopero.

È vero che la legge prevede e regola le organizzazioni degli utenti ma questi possono esprimere pareri e, nella prassi, raramente fanno sentire la loro voce e, comunque, non hanno alcun potere a parte quanto previsto dall’art. 7 bis. D’altra parte va detto che il ruolo degli utenti spesso si

4 A. Maresca, Sciopero e funzionamento del contratto collettivo: l’esigibilità, in Diritti fondamentali e regole del conflitto collettivo: esperienze e prospettive, a cura di G. Pino, Milano, 2015, p. 116 ss.5 A. Accornero, La terziarizzazione del conflitto e i suoi effetti, in Il conflitto industriale in Italia. Stato della ricerca e ipotesi sulle tendenze, a cura di G.P. Cella - M. Regini, Bologna, 1985, p.275 ss.

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sovrappone e si scambia con quello dei lavoratori6.E proprio di questa diversa morfologia dello sciopero nei s.p.e. tiene

conto la legge n. 146 del 1990 emanata anche con il consenso sindacale.

3. La struttura della legge e la sua funzione: garantire il contemperamento dell’esercizio dello sciopero con i diritti della persona costituzionalmente rilevanti

Infatti la l. n. 146 affida, in prima istanza alle parti il governo del conflitto. Più precisamente riconosce alle parti il potere di disciplinare attraverso accordi sindacali l’esercizio dello sciopero, accordo che individua le prestazioni indispensabili, ossia quelle prestazioni che comunque devono essere effettuate durante lo sciopero dai lavoratori e anche dalle imprese.

E inoltre affida alla Commissione di Garanzia la funzione di valutare l’idoneità dei suddetti accordi al fine di garantire il contemperamento del diritto di sciopero con i diritti della persona riconosciuti dalla Costituzione.

In altri termini il contemperamento tra il diritto di sciopero e i diritti della persona costituisce la funzione essenziale della Commissione di garanzia e la stella polare che guida la sua azione.

D’altra parte bisogna sottolineare che tale contemperamento non può essere statico ma è dinamico perché la Commissione deve tenere conto del contesto in cui il contemperamento è effettuato e quindi nel corso del tempo tale contemperamento può subire alcune modificazioni e aggiustamenti.

Un esempio si è verificato di recente a proposito del trasporto pubblico locale quando la Commissione per limitare il disagio degli utenti del trasporto pubblico locale determinato da una reiterazione degli scioperi ha deciso, innovando la precedente regolamentazione, di prolungare l’intervallo tra uno sciopero e l’altro da 10 a 20 giorni7, anche in considerazione del fatto che allo stato della vigente normativa non esisteva alcun altro strumento per limitare la reiterazione degli scioperi.

E poiché, come si è detto, il contemperamento operato dalla Commissione di norma deve garantire il 50% del servizio ma deve tenere conto anche del contesto, bisogna chiedersi se di fronte ad uno sciopero con poche adesioni debba valere lo stesso limite del 50%? Anche perché le aziende, di fronte a 6 M. Carrieri, Conflitti in movimento. Verso un rebus quadrangolare?, in Diritti fondamentali e regole del conflitto collettivo: esperienze e prospettive, cit., 2015, p. 44.7 Si è espressa favorevolmente sul ricorso a questo tipo di intervento della Commissione, M. Magnani, Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, in Quad. Arg. dir. lav., Cedam, Padova, 2018, n. 15, p. 100.

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scioperi cui partecipano pochi lavoratori, preferiscono chiudere il servizio per ragioni di sicurezza e si limitano ad offrire le prestazioni indispensabili8.

4. Diverse modalità di esercizio dello sciopero nel lavoro privato e nei s.p.e.

Come è noto la legge n. 83 del 2000 ha rafforzato i poteri della Commissione di garanzia perché alla valutazione di idoneità degli accordi già riconosciuta dalla legge n. 146 ha aggiunto il potere di regolamentazione provvisoria che è esercitato dalla Commissione quando le parti non raggiungono l’accordo o quando l’accordo è valutato inidoneo o anche parzialmente idoneo. E la regolamentazione provvisoria è un tassello indispensabile per rendere effettivo il potere di valutazione della Commissione9.

Nel caso di idoneità parziale verificatosi di recente a proposito dell’accordo nazionale sul trasporto pubblico locale, la Commissione ha formulato una nuova proposta che ha recepito l’accordo sottoscritto dalle parti e lo ha integrato con la previsione di più incisivi obblighi di informazioni all’utenza e di un intervallo di 20 giorni anziché di 10 tra uno sciopero e l’altro, e ha riaperto i termini per le nuove audizioni. E secondo i termini previsti dalla legge la Commissione ha emanato una delibera di regolamentazione provvisoria.

Questo caso mette in evidenza e conferma come la regolamentazione provvisoria prevista dalla legge n. 83 del 2000 colmi un vuoto lasciato dalla legge n. 146 in caso di inidoneità o idoneità parziale dell’accordo.

5. Valorizzazione degli obblighi di informazione a carico delle imprese per gli utenti

Sotto un altro aspetto lo sciopero nell’industria viene esercitato con modalità diverse da quello nei s.p.e. Infatti nel primo si registra una significativa riduzione del numero degli scioperi perché, venuta meno

8 G. Pino, I servizi minimi da garantire commisurati all’effettiva rilevanza dello sciopero, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 113 ss.9 È noto che prima della l. n. 83 del 2000 la Commissione aveva solo un potere di proposta quando valutava inidoneo un accordo tanto che la prima giurisprudenza della Commissione aveva riconosciuto pieno effetto alle proprie delibere ricorrendo ad un’in-terpretazione creatrice più praeter che secundum legem.

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nella maggior parte dei casi la tutela reale del posto di lavoro, lo sciopero si esercita come extrema ratio per la difesa del posto di lavoro.

Viceversa lo sciopero nei servizi pubblici si aggira intorno alle 2000 proclamazioni, per la precisione nel 2017, 2448, anche se poi a seguito di revoche spontanee e interventi della Commissione il numero si riduce a meno della metà10.

Ma soprattutto, diversamente da quanto si verifica nell’industria, lo sciopero diventa una sorta di passaggio necessario da espletare prima di dar corso alla composizione della vertenza.

In altri termini lo sciopero spesso diventa per i sindacati con pochi iscritti uno strumento di visibilità e di legittimazione e, talvolta finisce per depotenziare lo stesso diritto e i sindacati confederali che ricorrono allo sciopero molto meno frequentemente.

6. La Commissione di garanzia ha un “limitato” potere di mediazione tra le parti e un potere di controllo della legittimità degli atti e dei comportamenti dei soggetti singoli individuali e collettivi

Per questo motivo diverse regolamentazioni provvisorie della Commissione hanno rafforzato gli obblighi di informazione che gravano sulle imprese a comunicare agli utenti le motivazioni dello sciopero, i sindacati che le promuovono e i tassi di adesione ai precedenti scioperi indetti dagli stessi sindacati.

A mio avviso, fermo restando che le informazioni fornite dalle imprese all’utenza non consentono alla Commissione di sindacare nel merito le motivazioni dello sciopero bisogna anche chiedersi, sia pure con qualche dubbio, se la Commissione possa esprimere un giudizio di opportunità sulle motivazioni dello sciopero e cioè bollinarli come inopportuni, in ragione della moral suasion che secondo autorevole dottrina la Commissione può esercitare nei confronti dei sindacati anche se gli scioperi sono legittimi, ossia sono rispettosi della procedura prevista dalla legge per proclamare lo sciopero11.

10 La nostra legge è generalmente rispettata dalle parti sociali. Nell’anno in esame, la Commissione, infatti, sulle anzidette 2.448 proclamazioni, ha rilevato violazioni delle regole legali e/o contrattuali, solo su 331, intervenendo, di conseguenza, con i propri poteri di indicazione immediata. Tali interventi hanno avuto un tasso di adeguamento di circa il 90% tanto che sono state solo 20 le delibere di apertura del procedimento di valutazione, con irrogazione di sanzioni, per astensioni effettuate in modo illegittimo.11 M. Rusciano, Sciopero, servizi essenziali, moral suasion della Commissione di Garanzia,

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7. La legge n. 146 procedimentalizza l’esercizio dello sciopero nei s.p.e.

Certamente ai sensi dell’art.13 lett. b) la Commissione, su richiesta congiunta delle parti, può emanare un lodo sul merito della controversia. Ma a parte quest’ultima ipotesi verificatasi solo una volta, la Commissione sulla base dell’art. 13 lett. c), oltre a svolgere la sua funzione principale di giudice di legittimità degli atti e dei comportamenti dei soggetti individuali e collettivi, ha ritenuto di potere assolvere anche una funzione propositiva e di mediazione nella ricerca di soluzioni, anche transattive che prevengano il conflitto e favoriscono l’accordo tra le parti12. Nel caso specifico del trasporto pubblico locale l’attività di mediazione aveva lo scopo di favorire la ripresa del dialogo fra le parti per il rinnovo del contratto collettivo.

Anche ai sensi dell’art. 13 lett) h la Commissione, quando rileva la mancata corresponsione della retribuzione ai lavoratori in particolare, perché le amministrazioni pubbliche non provvedono al trasferimento delle risorse alle imprese, può invitare le suddette amministrazioni, anche se formalmente soggetti terzi, a desistere dal comportamento illegittimo13.

8. La proclamazione è un requisito di legittimità dello sciopero

Non c’è dubbio infatti che la caratteristica principale delle leggi n. 146 del 90 e n. 83 del 2000 è quella di avere procedimentalizzato l’esercizio dello sciopero.

Queste leggi hanno previsto una serie di obblighi:Collettivi che gravano sul sindacato o sui soggetti collettivi che

proclamano lo sciopero, come l’obbligo di preavviso, di indicare la durata e le ragioni dello sciopero, obbligo di rispettare determinati intervalli tra uno sciopero e l’altro, l’obbligo di evitare forme sleali di azione sindacale.

Obblighi collettivi che riguardano i sindacati e i datori di lavoro di effettuare le procedure di raffreddamento e di conciliazione

Obblighi individuali che incombono sui singoli lavoratori e sui datori d lavoro di effettuare le prestazioni indispensabili

in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 6012 Delibera della Commissione di Garanzia n. 14/496 del 14 dicembre 2014; e delibera n. 1550/12 del 15 luglio 2013 per gli addetti agli impianti di carburante. In senso adesivo cfr. G. Pino, voce Conflitto collettivo nei servizi pubblici essenziali, in Enc. dir., Annali, Milano, 2017, p. 285.13 Delibera della Commissione di garanzia n. 15/12 del 19 gennaio 2015.

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G. Santoro-Passarelli

Obblighi individuali che incombono sui datori di lavoro di comunicare agli utenti determinate informazioni

Sanzioni a carico dei sindacati, dei singoli lavoratori e dei datori di lavoro che non osservano i suddetti obblighi

Orbene dall’analisi di questa normativa discende innanzitutto una sostanziale equivalenza tra sindacati e soggetti collettivi anche, se come ha rilevato un’autorevole dottrina14, dall’interpretazione sistematica della legge si desume che i soggetti legittimati a proclamare lo sciopero devono essere soggetti stabilmente organizzati con la conseguenza dell’illegittimità delle coalizioni occasionali e degli scioperi spontanei.

E a proposito dei soggetti collettivi che non hanno la forma dell’associazione sindacale bisogna avere cura di distinguere tali soggetti che decidono l’azione di autotutela dai lavoratori che vi aderiscono. In caso contrario il soggetto collettivo verrebbe a diluirsi nelle singole individualità, e cioè nei singoli lavoratori che si pongono in sciopero per una pretesa comune.

Un esempio recente di soggetto collettivo che non ha la forma del sindacato e che ha promosso uno sciopero ritenuto legittimo dalla Commissione è il Movimento per la dignità della docenza universitaria che ha dimostrato di rappresentare circa il 30% dei docenti universitari ma che soprattutto ha rispettato le regole per la proclamazione dello sciopero.

9. Un discorso de iure condendo sui criteri di individuazione della rappresentatività ai fini della proclamazione dello sciopero

Si tratta allora di accertare se la proclamazione dello sciopero che compete ai soggetti collettivi, l’obbligo del preavviso, l’indicazione della durata e delle motivazioni dello sciopero, il divieto di forma sleale di azione sindacale sono dati normativi che consentono all’interprete di qualificare la titolarità dello sciopero nei servizi pubblici essenziali non più solo individuale ma anche collettiva e quindi, come è stato sostenuto, congiunta15.

Per questa ragione la tesi della titolarità collettiva dello sciopero sostenuta

14 E. Ghera, Lo sciopero nei servizi essenziali: diritto individuale o potere collettivo, in Diritti fondamentali e regole del conflitto collettivo: esperienze e prospettive, cit., p. 274 ss.15 L. Nogler, La titolarità congiunta del diritto di sciopero, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 183/2013, in http://csdle.lex.unict.it/docs/workingpapers/La-titolarit-congiunta-del-diritto-di-sciopero/4431.aspx

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Rappresentatività e legittimazione al conflitto nei servizi pubblici essenziali

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inizialmente solo da Calamandrei nel 195216, ha ricevuto dopo la legge n. 146 nuova linfa17. Anche se una parte rilevante della dottrina continua a sostenere la titolarità individuale dello sciopero18.

D’altra parte come ha sostenuto Ghera19 la titolarità individuale e la titolarità collettiva non entrano in contrapposizione ma pur collocandosi a livelli diversi si completano nell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

A mio avviso, se la titolarità del diritto di sciopero è congiunta bisogna chiedersi se la proclamazione dello sciopero possa essere ancora considerata un invito a scioperare o piuttosto un presupposto di legittimità dello sciopero. In questo secondo caso ne consegue che in assenza della proclamazione, lo sciopero è illegittimo. Io sarei propenso a optare per la

16 P. Calamandrei, Significato costituzionale dello sciopero, in Riv. giur. lav., 1952, I, p. 221; v. successivamente sulla titolarità collettiva del diritto sciopero U. Romagnoli, Sulla titolarità del diritto di sciopero, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1988, p. 581 ss.; G. Pino, Conflitto e autonomia collettiva. Contributo allo studio della regolamentazione contrattuale del diritto di sciopero, Torino, 2005; A. Zoppoli, La titolarità sindacale del diritto di sciopero, Jovene, Napoli, 2006, e in misura più problematica R. Romei, Ripensare il diritto di sciopero?, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2012, p. 331 ss. e di recente lo stesso A. fa un ulteriore passo avanti nel riconoscimento della titolarità collettiva dello sciopero in Id., Sciopero e titolarità dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 134. La tesi della titolarità collettiva nello sciopero nei servizi pubblici essenziali è sostenuta tra i primi da M. Rusciano, L’iter formativo della legge 83 del 2000, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2002, p. 173 ss.; e G. Pino, Per una rilettura dei temi sulla titolarità del diritto di sciopero. La titolarità collettiva come presupposto del modello autoregolato, in Dir. rel. ind., 2004, p. 48 ss.17 V. anche M. Magnani, Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 97, secondo la quale «la ritenuta titolarità (esclusivamente individuale) non presenta alcuna necessarietà costituzionale».18 V., ex multis, F. Carinci, Il diritto di sciopero: la nouvelle vague all’assalto della titolarità individuale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2009, p. 423 ss.; Id., Ancora una parola sulla titolarità individuale dello sciopero de jure condito, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappre-sentatività sindacale, cit., pp. 7 ss.; A. Bellavista, Sciopero e rappresentatività sindacale: un infelice connubio, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività, cit., 75 ss.; G. Santoni, Il conflitto nei servizi pubblici e la sua regolazione, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività, cit., p. 142.19 E. Ghera, Lo sciopero nei servizi essenziali, cit., p. 276, «perché il profilo collettivo dell’esercizio dello sciopero ha il suo fondamento nel principio cardine della legge n. 146 e cioè nel contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, contemperamento realizzato in prima battuta dagli stessi accordi sindacali che individuano le prestazioni indispensabili e in seconda battuta dalla Commissione di Garanzia che controlla l’idoneità delle prestazioni indispensabili a realizzare il suddetto contemperamento e in caso di mancato accordo interviene con la provvisoria regolamentazione».

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G. Santoro-Passarelli

seconda soluzione.Ciò non significa ovviamente che la proclamazione dello sciopero

obblighi i lavoratori iscritti al sindacato proclamante a scioperare o che i soggetti non iscritti non possano partecipare a quello sciopero.

Come ho già sostenuto in altra sede20 lo sciopero nei s.p.e. è una fattispecie a formazione progressiva costituita da una prima fase o dimensione collettiva, necessaria, che si concreta nella proclamazione dello sciopero di competenza dei soggetti collettivi e da una seconda fase, o dimensione individuale, eventuale, costituita dalla partecipazione allo sciopero dei lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato proclamante dal momento che questa seconda fase rientra nella disponibilità del singolo lavoratore.

Ciò detto bisogna chiarire, una volta per tutte, che il discorso sulla titolarità congiunta o individuale dello sciopero non ha alcuna incidenza sul diverso tema della rappresentatività sindacale dei soggetti collettivi proclamanti che la legge n. 146 infatti non prende in considerazione21.

20 G. Santoro-Passarelli, Rappresentatività sindacale e legittimazione al conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2017, p. 87.21 Secondo un attento Autore (G. Pino, Manuale sul conflitto nei servizi pubblici essenziali, Giappichelli, Torino, 2009, p. 31-35), un altro meccanismo di selezione della rappresentatività sindacale può ritrovarsi nella stessa fase della valutazione di idoneità dell’accordo presso l’organismo di garanzia della legge. Come si è già avuto modo di dire, in base ad un principio espresso dalla Commissione fin dal primo periodo del suo funzionamento, la valutazione di idoneità da parte dell’organismo di garanzia conferisce alle regole pattizie un’efficacia erga omnes, esse diventano, in pratica la disciplina generale del settore. Si tratta di un principio, espresso per la prima volta in due delibere di indirizzo, ormai storiche, del 3 giugno e del 18 luglio 1991, nelle quali esso veniva desunto dai garanti, pur nell’auspicio di “intese piene, solide ed affidabili … che, per l’ampiezza del concorso sindacale, hanno una larga base d’intesa”, comunque, «indipendentemente … dall’ampiezza dei consensi che su di esse si sia formata»; contestualmente, lo stesso principio veniva, opportunamente, collocato “entro i limiti della ragionevolezza”. Il richiamo non è di poco conto: a cosa può essere, infatti, ricondotto il criterio della ragionevolezza, in tale contesto? Non sembra alla congruità dei contenuti dell’accordo, sarebbe questa una prerogativa della Commissione ovvia e dunque quasi inutile da ribadire; deve piuttosto ritenersi che il richiamo al criterio della ragionevolezza conduca, qui, ad un’implicita verifica della rappresentatività dei soggetti firmatari l’accordo sulle prestazioni indispensabili. Così, la funzione di valutazione degli accordi, da parte della Commissione di garanzia, potrebbe porsi come un rimedio all’assenza di regole certe sulla rappresentatività sindacale.

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10. Sulla clausola di comunicazione preventiva di adesione allo sciopero

Non appartengo a quella schiera di autori che vuole enfatizzare la rappresentatività come criterio di selezione dei soggetti legittimati a proclamare lo sciopero, ma so bene che quando si affronta questo argomento da parte di taluni sorge subito il sospetto che chi auspica un intervento legislativo in materia voglia attentare al diritto di sciopero.

Io non appartengo a questa schiera, ma come ho già rilevato, il conflitto collettivo si sviluppa su presupposti che non possono essere completamente coincidenti con quelli che selezionano i soggetti abilitati alla contrattazione collettiva.

Ciò premesso prendo atto che ormai il dibattito sulla rappresentatività sindacale con riguardo alla legittimazione al conflitto oscilla tra chi, come le Confederazioni preferiscono arrivare a questa verifica attraverso l’attuazione dell’art. 39 Cost e chi (vedi i disegni di legge Sacconi ed Ichino presentati nella legislatura appena finita e mai discussi) pensa ad un’integrazione della legge n. 146 come forma di attuazione dell’art. 40 cost., con particolare riferimento al settore della mobilità.

Secondo questi disegni di legge il Governo dovrebbe emanare decreti che accolgano come criterio per proclamare lo sciopero, o il raggiungimento di una soglia di rappresentatività del 50% o, in caso di mancato superamento di tale soglia, si prevede il ricorso al referendum.

Ho già espresso le mie perplessità sulla soglia che, francamente, mi sembra troppo elevata e anche sul ricorso al referendum perché l’uso di questo strumento impone tempi non sempre compatibili con la proclamazione dello sciopero che richiede tempi necessariamente brevi.

Ma ciò che è importante chiarire, e che viene invece quasi sempre omesso, quale sia l’ambito di applicazione entro il quale la percentuale deve essere misurata ai fini della verifica della rappresentatività. La dimensione nazionale o quella aziendale dal momento che, spesso, si tratta di aziende che operano a livello locale?

La soglia del 5% richiesta dalla legge sul lavoro pubblico ai sindacati per essere convocati alle trattative è riferita al Comparto. Anche il testo unico del 2014 fa riferimento alla soglia del 5% per essere convocati alle trattive e l’ambito di applicazione è costituito dal contratto collettivo, ma, come è noto, nel lavoro privato, in assenza di una legge, non è sempre scontato definire l’ambito di applicazione in cui verificare la rappresentatività.

In assenza comunque della legge sulla rappresentatività , a mio avviso, vanno apprezzate le clausole dei contratti collettivi in materia di esercizio

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G. Santoro-Passarelli

del diritto di sciopero nelle quali (v. Gruppo delle Ferrovie dello Stato 31 luglio 2015) si prevede la proclamazione dello sciopero da parte della Rsu, purché sia dichiarata congiuntamente ad una o più organizzazioni sindacali stipulanti il ccnl, e la decisione sia assunta dalla maggioranza qualificata del 50% + 1 dei componenti la Rsu oppure dalla Rsa a maggioranza22.

È appena il caso di precisare che si tratta di un accordo che vincola solo coloro che lo hanno sottoscritto o coloro i quali in esso si riconoscono.

Ma a questo proposito vale la pena porsi una domanda, e cioè se possano essere oggetto di valutazione di idoneità da parte della Commissione tali clausole al fine di riconoscere ad esse un’efficacia generale.

A questo interrogativo sarei propenso a rispondere in senso negativo perché oggetto della valutazione d’idoneità da parte della Commissione sono, ai sensi del diritto vigente, le prestazioni indispensabili e le misure a queste strumentali e non le clausole che regolano un metodo di governo del conflitto e quindi determinati requisiti di rappresentatività.

Salvo l’intervento del legislatore che estenda l’oggetto della valutazione di idoneità anche al raggiungimento di una determinata soglia di rappresentatività dei sindacati proclamanti lo sciopero.

Come ho già detto non desidero enfatizzare il discorso sulla rappresentatività come criterio necessario e sufficiente a risolvere i problemi che derivano da una reiterazione eccessiva degli scioperi in particolare in taluni servizi essenziali. So bene che secondo una parte della dottrina una legge che consideri la rappresentatività come criterio selettivo dei soggetti collettivi legittimati a proclamare lo sciopero potrebbe cadere sotto la scure del giudizio di costituzionalità23. Per contro c’è chi è favorevole24 e chi sostiene che la rappresentatività dovrebbe avere un ampio ambito

22 A. Zoppoli, La Commissione di garanzia alle prese con la titolarità del diritto di sciopero (Riflessioni sull’accordo Ferrovie dello Stato 2015), in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2017, p. 601.23 Secondo V. Bavaro, Sciopero e rappresentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di scio-pero e rappresentatività sindacale, cit., p. 21, la rappresentatività potrebbe essere usata al massimo come criterio che stabilisce una priorità nella proclamazione dello sciopero e non un’esclusività e cita l’art. 19 St. lav. a sostegno della sua tesi senza considerare però che quella norma, nella sua formulazione originaria, usava il criterio della maggiore rappresentatività presunta come criterio per individuare solo ed esclusivamente i soggetti legittimati all’esercizio dei diritti sindacali. Parimenti critico sull’uso del criterio della rap-presentatività per selezionare i soggetti collettivi legittimati a proclamare lo sciopero A. Bellavista, Sciopero e rappresentatività sindacale: un infelice connubio, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 75 ss.24 M. Ricci, Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 2.

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Rappresentatività e legittimazione al conflitto nei servizi pubblici essenziali

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di applicazione e cioè di consenso 25 e chi, con diverse argomentazioni, afferma che «se lo sciopero non poggia su un minimo di rappresentatività non si possa neppure parlare di sciopero»26. Ed è condivisibile l’osservazione che nel momento in cui si è affermata la tesi della titolarità individuale il problema della rappresentatività non si poneva perché vigeva il sistema sindacale di fatto nel quale i sindacati erano rappresentativi 27.

E ancora, se è vero che la rappresentatività riguarda la rappresentazione degli interessi organizzati bisogna prendere atto che sul piano concettuale la stessa non si esaurisce in una misurazione quantitativa dei rappresentanti28. E tuttavia se il ricorso a criteri accolti in passato dalla giurisprudenza per dare corpo e sostanza normativa alla maggiore rappresentatività risultavano sicuramente più idonei e rispondenti alla ratio della norma, tuttavia lasciavano un margine eccessivo alla discrezionalità del giudice, sicché il criterio di misurazione strettamente quantitativo accolto dalla normativa sul lavoro pubblico e dal testo unico del 2014 appare, ai fini dell’applicazione, il più efficiente perché oggettivo e controllabile.

A questo punto sembra corretto porsi un interrogativo finale a proposito della rappresentatività e cioè se questo requisito ai fini della proclamazione dello sciopero debba essere considerato un mezzo di governo del conflitto nei servizi pubblici essenziali29 e magari solo nei servizi particolarmente vulnerabili come quelli del trasporto in una prospettiva di semplice contemperamento tra diritto di sciopero e diritti della persona costituzionalmente garantiti, o se invece la rappresentatività debba essere considerato un dato strutturale del sistema in connessione con la regolazione della contrattazione collettiva 30.

25 P. Pascucci, Sciopero nei trasporti e rappresentatività sindacale, contemperamento e limiti di accesso al conflitto, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 111-112.26 L. Corazza, La nozione di sciopero nel prisma della rappresentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 3127 Cfr. L. Corazza, La nozione di sciopero, cit., p. 34.28 Così ancora L. Corazza, op. cit., p. 35.29 In questo senso A. Zoppoli, La rappresentatività per lo sciopero nei servizi essenziali, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 157.30 Pone con chiarezza questo interrogativo, M. Magnani, Diritto di sciopero e rappre-sentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., pp. 101-102.

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G. Santoro-Passarelli

11. Sulle forme elusive della disciplina dell’esercizio dello sciopero

Un’altra riflessione riguarda la clausola dell’accordo o in assenza di accordo, della regolamentazione provvisoria che stabilisca l’obbligo di comunicazione preventiva del lavoratore di adesione allo sciopero.

A parte le diverse opinioni della dottrina31 sulla sua legittimità o meno, bisogna realisticamente prendere atto che c’è una forte contrarietà dei sindacati a inserirla negli accordi e non mi sembra che ci siano i presupposti perché la Commissione possa inserirla allo stato in una regolamentazione provvisoria.

Certo, se è vero che la legge n. 146 segna il passaggio dall’età dei diritti all’età del bilanciamento degli interessi, questa clausola potrebbe contribuire a limitare il disagio degli utenti perché consente al datore di lavoro di avere una maggiore certezza sull’effettiva consistenza dello sciopero e forse lo costringe ad una più efficace preparazione delle soglie minime di servizio da garantire. Una clausola di questo tipo è prevista nell’ordinamento francese.

Bisogna anche dire che la clausola di comunicazione di adesione preventiva non funziona nelle ipotesi in cui vi sia una trattativa in corso che spesso si chiude qualche minuto prima dell’inizio dello sciopero. E quindi si comprende come in questo caso il lavoratore non sia in grado di sapere se parteciperà allo sciopero e quindi di comunicare preventivamente la sua adesione.

Infine, come si è detto, la legge n. 146 procedimentalizza l’esercizio dello sciopero, e proprio per questa ragione non consente ai soggetti collettivi e individuali di utilizzare in forma elusiva altri istituti come l’assemblea che di per sé realizza una forma di astensione dal lavoro.

31 In senso favorevole G. Proia, Servizi pubblici essenziali e la dichiarazione preventiva della volontà individuale di sciopero, in Arg. dir. lav., 2007, p. 620 ss.; e O. Razzolini, Appunti sull’obbligo di comunicazione preventiva di partecipazione allo sciopero, in Quaderni della Commissione di Garanzia dello sciopero, 2018, n. 1, p. 45; P. Tosi, Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 68 ss., mette in evidenza che l’adesione preventiva obbligatoria appare preferibile rispetto alla previsione di soglie minime di rappresentatività ai fini della proclamazione dello sciopero; per la legittimità delle clausole di comunicazione preventiva di adesione allo sciopero nei contratti collettivi cfr. P. Lambertucci, Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 92; in senso contrario, tra gli altri, A. Garilli, Diritto di sciopero e libertà di circolazione: il disegno di legge delega del governo Berlusconi, in Arg. dir. lav., 2009, p. 984 ss.; e A. Bellavista, Sull’obbligo di comunicazione preventiva di partecipazione allo sciopero (discutendo con Orsola Razzolini), in Quaderni della Commissione di Garanzia dello sciopero, 2018, n. 1, p. 58; e da ultimo M. Rusciano, Sciopero, servizi essenziali, moral suasion della Commissione di Garanzia, in Aa. Vv., Diritto di sciopero e rappresentatività sindacale, cit., p. 56 ss.

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Rappresentatività e legittimazione al conflitto nei servizi pubblici essenziali

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Per questa ragione la Commissione in una recente delibera del 6 aprile 2017 ha ribadito il principio “che il diritto di assemblea non costituisce un equivalente funzionale del diritto di sciopero e che, ove essa si svolga in violazione delle regole stabilite dalla contrattazione collettiva , ovvero risulti indetta con il chiaro intento di eludere la normativa dello sciopero, potrà essere considerata una forma di astensione illegittima con le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla legge n. 146”.

Parimenti devono essere considerate forme elusive della legge il ricorso alle assenze per malattia quando queste si attuano in forma massiccia in occasione di uno sciopero. È ovvio che in questi casi gli accertamenti istruttori devono dimostrare in modo incontrovertibile che il congedo per malattia è usato come una forma celata di astensione collettiva.

12. Conclusioni

In conclusione si può dire che le leggi sullo sciopero hanno contribuito a civilizzare il conflitto collettivo nei s.p.e., perché questo, pur nella sua elevata diffusione, grazie alla legge n. 146 che ha dato luogo a una fitta rete di accordi e, grazie all’attività di vigilanza della Commissione, si svolge sempre e comunque attraverso la salvaguardia di soglie minime di servizi sulle quali i cittadini utenti possono fare affidamento.

A questo proposito vale la pena richiamare quel che è avvenuto di recente in Francia dove nei mesi scorsi per protestare contro le riforme attuate dal presidente Macron è stato proclamato uno sciopero dei treni destinato a protrarsi, ad intermittenza per tre mesi e si è inoltre assistito ad un blocco rilevante del sistema aeroportuale. Questo è stato possibile perché la legge Sarkozy che pure ha introdotto la clausola di comunicazione di adesione preventiva, non prevede le prestazioni indispensabili e neppure gli intervalli tra uno sciopero e l’altro.

E allora voglio concludere questo discorso con un interrogativo che non è retorico ma che lascio alla vostra riflessione, perché non ho certezze ma molti dubbi e cioè se in un sistema economico e sociale complesso e articolato come quello italiano sia complessivamente più conveniente l’astensione del legislatore sulla materia della rappresentatività, o invece sia preferibile il suo intervento nelle forme che riterrà più opportune (criteri di selezione dei soggetti collettivi legittimati a proclamare lo sciopero, o altre modalità come l’estensione dell’oggetto della valutazione

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G. Santoro-Passarelli

da parte della Commissione di Garanzia di idoneità degli accordi o le clausole di comunicazione di adesione preventiva) avendo presente che la rappresentatività non sempre risolve tutti i problemi.

Infatti non è tanto importante limitare la proclamazione dello sciopero dei sindacati con pochi iscritti, quanto neutralizzare gli effetti degli scioperi con poche adesioni che bloccano completamente il servizio soprattutto perché l’azienda preferisce per ragioni di sicurezza chiudere completamente il servizio. E questa evenienza può essere evitata stabilendo che alcune figure professionali indispensabili al funzionamento del servizio non possono astenersi dal lavoro.

E parimenti, in particolare nel settore dei trasporti, deve essere limitata la reiterazione frequente degli scioperi che risultano pregiudizievoli per l’utenza, magari prolungando il periodo di intervallo tra uno sciopero e l’altro, come ha deliberato di recente la Commissione di Garanzia, senza limitare ovviamente il diritto e le ragioni dello sciopero.

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Alessandro Somma

Dal diritto dei consumatori al reddito di cittadinanza:un percorso neoliberale

Sommario: 1. Diritto privato dei consumi e ordine capitalista – 2. Società dei consumi e conflitto redistributivo – 3. Consumerismo e neoliberalismo – 4. Homo oeconomicus vs homo sociologicus – 5. Consumerismo critico – 6. Lavoro del consumatore e reddito di cittadinanza – 7. Un intellettuale resistente.

Non molti anni or sono il diritto dei consumatori era un tema alla moda, a cui si usava dedicare innumerevoli indagini. Nel tempo l’interesse è in parte scemato, se non altro perché le mode, per definizione, sono passeggere: possono tornare, ma sono comunque destinate a vita breve. Ciò nonostante la materia ha oramai confini certi e una collocazione definita, sebbene a cavallo delle tradizionali partizioni del sapere giuridico, e in quanto tale conserva un posto di tutto rispetto nel panorama scientifico.

Nella sua maturità il diritto dei consumatori ha però cessato di ispirare le riflessioni e analisi critiche che avevano caratterizzato la sua giovinezza, quando alcuni mettevano in discussione i suoi fondamenti e persino l’opportunità di identificarlo come materia autonoma. Essa è ora saldamente ancorata all’ideologia fondativa dell’attuale modo di concepire il rapporto tra ordine politico e ordine economico: il neoliberalismo, per cui i pubblici poteri devono occuparsi di mercato e dunque regolarlo, tuttavia per codificare e imporre le sue stesse leggi, per tradurle in leggi dello Stato.

Di qui l’utilità di riprendere alcune riflessioni risalenti di Guido Alpa, che come è noto è stato un pioniere tra gli studiosi del diritto dei consumatori1. I suoi scritti abbondano di analisi che per un verso salutano con favore la nascita e lo sviluppo di nuove forme di tutela della persona, in questo caso dalle insidie della società dei consumi, ma per un altro mettono in luce la loro ambiguità di fondo. Analisi la cui rilettura risulta più che mai utile in un’epoca caratterizzata da innumerevoli trasformazioni, non 1 Tra le innumerevoli pubblicazioni dedicate al tema, richiameremo qui in particolare Tutela del consumatore e controlli sull’impresa, Bologna, 1977 (qui di seguito Alpa 1977) e Diritto privato dei consumi, Bologna, 1986 (qui di seguito Alpa 1986).

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A. Somma

ultime quelle derivanti dalla rottura delle antiche barriere tra consumo e attività lavorativa, ovvero dalla diffusione di quanto si è definito in termini di prosumerism. Un’epoca, ancora, pervasa dalla tendenza ad assimilare i paradigmi neoliberali fino a renderli una sorta di diritto naturale cui attingere per disciplinare lo stare insieme come società. Di qui un ulteriore motivo di interesse per Guido Alpa, giurista e intellettuale sempre pronto a confrontarsi con le mode: non tuttavia perché incapace di resistere al loro fascino, bensì per insegnarci, ieri come oggi2, come cogliere quanto merita di essere conservato, ma anche e soprattutto come resistere a ciò che solo apparentemente assume le vesti di una novità positiva.

1. Diritto privato dei consumi e ordine capitalista

Come si sa, il diritto dei consumatori è un campo del sapere giuridico relativamente recente. Nasce poco più di un secolo fa con il contributo fondamentale di uno scrittore, saggista e attivista statunitense di fede socialista, e in particolare di un suo noto romanzo scritto per sensibilizzare sulle condizioni miserevoli in cui versavano i lavoratori dei macelli di Chicago3.

Il romanzo ebbe un notevole successo, nel senso che attirò l’attenzione dell’opinione pubblica e persino della politica sulle vicende trattate. Le conseguenze non si registrarono però sul piano del diritto del lavoro, bensì su quello del diritto dei consumatori. Lo stesso anno in cui venne pubblicato, videro infatti la luce il Federal Meat Inspection Act e il Pure Food and Drug Act, due provvedimenti concernenti l’esercizio di poteri di polizia per finalità attinenti alla salute pubblica. Il primo colpiva il commercio di carne adulterata, stabiliva standard sanitari per la macellazione, e affidava nel merito ampi poteri ispettivi alle autorità amministrative. Il secondo provvedimento si occupava del commercio di prodotti alimentari in genere, di alcolici e di medicinali, prescrivendo l’indicazione degli ingredienti in etichetta e affidando anch’esso all’Amministrazione il potere di verificarne l’applicazione4.

Questo episodio è rivelatore della natura del diritto dei consumatori, ovvero della circostanza per cui esso non nasce per contrastare i fondamenti 2 Ad es. Introduzione, in G. Alpa e A. Catricalà, Diritto dei consumatori, Bologna, 2016, p. 17 ss. (Alpa 2016a) e Mercato e concorrenza, ivi, p. 39 ss. (Alpa 2016b).3 U. Sinclair, The Jungle, New York, 1906.4 Cfr. N. Meijer, N. Tilkin-Franssens e B. van der Meulen, Eleven Decades of US American Federal Food Law, in European Food and Feed Law Review, 2015, p. 433 ss.

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Dal diritto dei consumatori al reddito di cittadinanza

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dell’ordine capitalista, all’epoca simboleggiati da quanto la Corte suprema statunitense aveva statuito con la celeberrima sentenza Lochner5. Quel diritto non voleva cioè mettere in discussione la libertà contrattuale, né tantomeno insidiare la proprietà privata o il principio di concorrenza: intendeva al contrario presidiare il loro sviluppo in termini sistemici, ovvero metterli al riparo dai comportamenti incompatibili con la sopravvivenza del mercato eretto a sistema. E proprio questa circostanza viene messa in luce da Alpa, che analizza in particolare il diritto privato dei consumi. Un diritto di cui si è discusso fin dagli anni in cui furono narrate le vicende dei macelli di Chicago6, che tuttavia sorge solo in un secondo momento, quando non era più rinviabile l’emanazione di una disciplina della produzione e del consumo di massa: fenomeni altrimenti affrontati con gli strumenti dello scambio individuale, in quanto tali inadatti ad assecondare le dinamiche dell’ordine capitalista.

Torneremo su questo punto, così come sulla circostanza per cui il diritto dei consumatori è alimentato da una tendenza risalente: quella che concerne la funzionalizzazione dei diritti e delle libertà da cui trae fondamento l’equilibrio e lo sviluppo di un ordine incentrato sulla proprietà privata e il principio di concorrenza. Una tendenza appalesatasi fin dal principio del Novecento, quando si è discusso di funzione sociale di quei diritti e di quelle libertà per negare il loro carattere assoluto. Fin da subito il nuovo approccio non volle però implicare una rottura dei fondamenti dell’ordine capitalista, ma semplicemente aggiornarli rispetto alla necessità di assecondare il moto della “interdipendenza sociale”, in un contesto nel quale la divisione del lavoro aveva oramai prodotto “una notevole divisione delle funzioni”7.

Ma torniamo al diritto dei consumatori, e in particolare alla disciplina della produzione e del consumo di massa. Alpa identifica innanzi tutto le finalità di sistema cui viene subordinato l’esercizio dei diritti e delle libertà dei produttori e dei consumatori di massa. Questi ultimi operano in un contesto che produce un costante incremento dei beni di consumo e deve pertanto creare le condizioni per un loro assorbimento da parte dei consumatori. E ciò significa che il consumo dipende dalla produzione, motivo per cui “non svolge una funzione attiva: far nascere i bisogni, e

5 Lochner vs New York, 198 U.S. 45 (1905).6 Scontati i riferimenti a R. Saleilles, De la déclaration de volonté. Contribution à l’étude de l’acte juridique dans le code civil allemand, Paris, 1901, p. 229 s. e a J. Kohler, Zwölf Studien aus dem Bürgerlichen Gesetzbuch. Bezugsverträge und Par. 138 BGB, in Archiv für Bürgerliches Recht, vol. 31 (1908), p. 235 ss.7 L. Duguit, Les transformations générales du droit privé depuis le code Napoléon, 2. ed., Paris, 1920, pp. 25 ss. e 37.

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poi soddisfarli, è il problema di ogni impresa”, sicché “orientare i bisogni per facilitare l’assorbimento della produzione altro non significa se non innalzare il livello dei consumi per smaltire le scorte” (Alpa 1977, 10 e 14). È in tale prospettiva che il neoliberalismo intende tutelare i consumatori: per alimentare con i loro comportamenti il meccanismo concorrenziale, ovvero determinare una redistribuzione delle risorse orientata dal sistema dei prezzi determinatisi per effetto del libro incontro di domanda e offerta.

Stando così le cose, non è un caso se all’epoca in cui nasce e si sviluppa il diritto dei consumatori il fenomeno dei monopoli e degli oligopoli è particolarmente diffuso, tanto da richiedere interventi del legislatore ulteriori rispetto alla definizione della prima disciplina antitrust: il celeberrimo Sherman Act del 1890. Interventi che mirano a recuperare il ruolo attribuito al consumatore dall’economia classica, entro cui veniva esaltato in quanto “re del mercato” (Alpa 1986, 15), ovvero come soggetto capace di controllare il sistema dei prezzi posto a presidio della redistribuzione delle risorse.

Evidentemente si può pensare di affidare al diritto un compito diverso, ovvero di tutelare i consumatori dal funzionamento del mercato concorrenziale, e a monte di difenderli dalla logica del consumo edonistico. Il diritto potrebbe cioè promuovere il “recupero della umanità del singolo, spesso ridotto a semplice meccanismo, fruitore di beni e servizi che ne esauriscono totalmente le funzioni vitali”: potrebbe “difendere l’uomo dai consumi, dalla opprimente cattura della società” (Alpa 1977, 20 s.). Ciò presupporrebbe però il riconoscimento della frizione tra gli interessi dei consumatori e dei produttori dei beni destinati al consumo di massa. Ma proprio questo viene impedito dall’ortodossia neoliberale, complice la visione dell’impresa allineata alla concezione del diritto dei consumatori come diritto dell’impresa capitalistica: è una visione alimentata ad arte per accreditare l’idea di una naturale convergenza degli interessi di quest’ultima con gli interessi della collettività.

Più precisamente il diritto dei consumatori nasce e si sviluppa in termini funzionali a promuovere l’immagine dell’impresa come istituzione. E questa viene a sua volta pensata per alimentare costruzioni interclassiste: quelle per cui nell’impresa “si fonderebbero gli interessi degli azionisti con quelli della collettività dei consumatori e dei lavoratori dipendenti” (Alpa 1977, 16). Il che si coordina al meglio con l’ideologia tecnocratica, che non a caso prende corpo anch’essa nei luoghi in cui nasce il diritto dei consumatori.

È infatti con il New Deal statunitense che si promuove la direzione tecnocratica dell’ordine economico, fondamento della spoliticizzazione cui pure mira l’interclassismo e la sua volontà di reprimere o quantomeno

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occultare il conflitto redistributivo. A questo mirava l’affermazione secondo cui “il vero lavoro, il vero pensiero e la vera azione devono provenire dai tecnici, la classe più abile e più lucida di tutte”. Solo i tecnocrati, si sosteneva, avrebbero tra l’altro imposto una dialettica tra consumatori e produttori per la quale i primi avrebbero formulato una domanda di beni informata e “intelligente”, con ciò inducendo i secondi a immettere sul mercato solo “merci oneste descritte onestamente”8.

Non è un caso se anche l’immagine dell’impresa come istituzione ha giocato un ruolo determinante nella diffusione dell’ideologia tecnocratica, sviluppatasi del resto a partire da riflessioni circa le forme del modo di produzione capitalista: in particolare quelle relative alla separazione tra proprietà e controllo realizzata dalla disciplina delle società, la prima distribuita entro una massa indifferenziata di azionisti e il secondo concentrato nelle mani dei manager. Ebbene, proprio negli anni del New Deal si sono denunciati con forza i risvolti di un simile schema, ovvero dell’immane concentrazione di potere nelle mani di soggetti posti al vertice di entità le cui dimensioni consentono loro di “competere da pari a pari con lo Stato moderno”. E si è osservato che, se per un verso si è assistito alla “eliminazione dell’interesse dei proprietari passivi” e dunque al contenimento del loro egoismo, per un altro verso i gruppi di controllo dovrebbero evitare di riproporre i vizi del vecchio ordine: dovrebbero cioè assecondare “le pretese della comunità”. Il tutto sullo sfondo della convinzione per cui “il controllo delle grandi società deve dare origine ad una tecnocrazia imparziale, che valuti i vari interessi dei diversi gruppi della comunità e distribuisca a ciascuno una quota degli utili, basandosi sull’interesse pubblico piuttosto che sulla cupidigia dei singoli”9.

È noto che queste riflessioni si sono sviluppate in un contesto decisamente favorevole alla diffusione di schemi corporativi, promossi dal New Deal in quanto argine “all’azione diretta e alla rivoluzione”10. Si tende però a trascurare la circostanza che quegli schemi non si limitano a riguardare l’interazione tra capitale e lavoro, chiamati a cooperare in quanto rappresentativi del fronte dell’offerta di beni. Anche il fronte della domanda trova una collocazione definita entro un ordine che si conferma essere concepito per alimentare il funzionamento del capitalismo, piuttosto che per difendere i lavoratori e i consumatori dalle relative negatività.8 S. Chase, A New Deal, New York, 1932, p. 229 ss.9 A.E. Berle jr e G.C. Means, Società per azioni e proprietà privata (1932), Torino, 1966, p. 332 ss. Il lavoro viene ripreso anche da Alpa 1977, 17.10 C. Manion, The Constitutionality of New Deal Measures, in 9 Notre Dame Lawyer, 1933-34, p. 387.

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2. Società dei consumi e conflitto redistributivo

Evidentemente l’interclassismo cui rinvia la società dei consumi è una mistificazione: “nella logica sociale del consumo esplodono in modo anche più netto le contraddizioni delle società capitaliste e quindi di riflesso le differenze di classe” (Alpa 1986, 22). Queste ultime si devono però occultare per accreditare l’idea secondo cui la società dei consumi realizza l’uguaglianza e, in quanto tale, previene il conflitto sociale. Idea funzionale a produrre l’equilibrio e lo sviluppo dell’ordine capitalista e dei suoi fondamenti, primo fra tutti il principio di concorrenza.

Se peraltro la società dei consumi può dirsi egualitaria, è solo perché eleva il consumo a misura della felicità, e a monte riduce quest’ultima a vicenda altra rispetto all’appagamento individuale nelle sue innumerevoli manifestazioni: la degrada a condizione umana rilevante solo nella misura in cui appare misurabile11. Si tratta peraltro di un modo artefatto di valorizzare e valutare il sentire individuale, prescindendo dal quale la società dei consumi mostra il suo vero volto. Emerge cioè in modo evidente che non produce un livellamento delle individualità, non relativizza le differenze sociali, né tanto meno alimenta l’interclassismo: al contrario fa deflagrare “le contraddizioni delle società capitalistiche e quindi di riflesso le differenze di classe” (Alpa 1977, 22).

Altrimenti detto, l’interclassismo cui rinvia la società dei consumi è funzionale a combattere i conflitti sociali prodotti dalla modernizzazione capitalistica, almeno quelli che il neoliberalismo non riesce a ricomporre attraverso il richiamo a valori premoderni: come da tempo suggerito dai cultori del cosiddetto umanesimo economico12. Il mercato è in effetti popolato da due fronti, quello della domanda rappresentata dall’insieme dei consumatori e quello dell’offerta incarnato dai produttori, e non vi è dunque spazio per le divisioni che caratterizzano il secondo fronte: il lavoro deve cooperare con il capitale, e in tal senso operare in ambiente pacificato.

Tutto ciò richiede di concepire i rapporti di produzione in termini “neutri e asettici” (Alpa 1977, 14), ovvero di spoliticizzarli: di osservarli come vicende destinate a svilupparsi entro una cornice data, immodificabile nella misura in cui la deviazione rispetto allo schema prestabilito intralcia l’equilibrio e lo sviluppo dell’ordine capitalista. È in questo modo che

11 J. Baudrilliard, La società dei consumi (1970), Bologna, 2010, p. 39 ss.12 Ad es. Alexander Rüstow e Wilhelm Röpke: cfr. D. Haselbach, Autoritärer Liberalismus und Soziale Marktwirtschaft. Gesellschaft und Politik im Ordoliberalismus, Baden-Baden, 1991, p. 159 ss.

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il conflitto redistributivo viene sterilizzato, ovvero occultato e al limite represso in quanto intralcio al sistema di funzionalizzazione dei diritti e delle libertà posto a presidio del principio di concorrenza.

Se così stanno le cose, lo sforzo di rifondare il diritto dei consumatori attorno al proposito di tutelarli dal funzionamento del mercato rischia di essere frustrato da una contraddizione di fondo: quella per cui il proposito in discorso richiede una lettura dell’ordine capitalista attraverso le lenti della teoria delle classi, laddove la categoria dei consumatori non si presta a essere analizzata ricorrendo a quelle lenti. In effetti quella dei consumatori non è una classe, tanto è vero che “nel mondo dei consumi si riflette meccanicamente la stratificazione in classi propria delle società capitaliste” (Alpa 1977, 23).

Chi valorizza quest’ultima circostanza, finisce per ritenere la categoria dei consumatori un punto di riferimento incapace di produrre costruzioni all’altezza del compito di mettere questi ultimi al riparo dai danni provocati dal mercato concorrenziale. Prescindere dal riferimento alla classe significa infatti omettere l’analisi dei rapporti di produzione, il che porta a disconoscere il nesso inscindibile tra il momento della produzione e il momento del consumo. Da ciò non discende però che occorre circoscrivere la tutela al solo consumatore che ricava dal proprio salario le sostanze per acquisire beni sul mercato. A quest’ultimo si potrà infatti assimilare il proprietario dei mezzi di produzione per effetto di una valutazione circa la funzione del suo comportamento di consumo: rilevante se dettato dalla volontà di provvedere al proprio sostentamento e non anche di alimentare il processo produttivo13.

Un simile risultato si ottiene valorizzando le acquisizioni della sociologia dei ruoli, sulla quale avremo modo di tornare tra breve. È per ora sufficiente segnalare che essa viene ritenuta incompatibile con il proposito di superare un punto di vista interclassista: la mera assimilazione dei comportamenti di lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione dal punto di vista della loro funzione, ovvero l’enfasi sulla circostanza per cui quei comportamenti sono funzionali al loro sostentamento, porta a occultare le differenze nelle aspettative tipicamente condizionate dall’appartenenza di classe. Il che riduce la tutela del consumatore a “una formula generica e aperta ai contenuti più disparati”14.

Altrimenti detto, il diritto dei consumatori può rappresentare uno 13 Come richiesto da K. Tonner, Zum Stellenwert des Verbraucherschutzes, in Demokratie und Recht, 1975, p. 119 ss.14 E. Roppo, Protezione del consumatore e teoria delle classi, in Politica del diritto, 1975, p. 708 ss.

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strumento di tutela dal funzionamento del mercato capitalista solo se, in caso di divergenza tra gli interessi di consumo dei lavoratori e dei proprietari dei mezzi di produzione, si sceglie di privilegiare i primi a scapito dei secondi. Peraltro, se si eleva il punto di vista della classe a unico criterio per la costruzione della tutela del consumatore, si rischia di trascurare vicende che invece meritano di essere prese in considerazione, anche e soprattutto per sviluppare la tutela dal funzionamento del mercato capitalista. Si trascura cioè “la vera dinamica della realtà e dei rapporti sociali”, capace di emergere solo se la categoria dei consumatori non viene ridotta a “un corpo uniforme e livellato”: se si tiene conto delle differenze quanto a livello di istruzione, a capacità di spesa, e magari anche di quelle relative alla natura dei beni acquisiti, ovvero al loro costituire beni primari o voluttuari (Alpa 1977, 22 ss.).

Di qui la proposta di predisporre strumenti di tutela differenziati. Alcuni azionabili da tutti gli appartenenti alla categoria, ovvero integranti forme di protezione collettiva. Altri pensati per specifiche situazioni di debolezza, cui dedicare specifiche forme di protezione, come è ad esempio opportuno per i cosiddetti consumatori del ghetto (Alpa 1977, 24 s.). Per articolare al meglio, come si è detto, la tutela dal funzionamento del mercato capitalista arricchendo senza annacquare i punti di vista che valorizzano l’appartenenza di classe.

3.Consumerismo e neoliberalismo

Il diritto dei consumatori non è però nato con le finalità da ultimo menzionate, e neppure si è sviluppato volendole in qualche modo valorizzare. Esse hanno in massima parte costituito tema di riflessione per la dottrina dei decenni passati, che come abbiamo detto ha però complessivamente abdicato a favore di costruzioni finalmente in linea con il pensiero neoliberale: secondo cui il mercato costituisce il miglior strumento di redistribuzione delle risorse, tanto che l’inclusione sociale deve essere fatta coincidere con l’inclusione nel mercato. Motivo per cui al diritto viene riservato il compito di farlo funzionare correttamente, di consentire la direzione del comportamento dei consociati attraverso l’imposizione della concorrenza, e più in generale di funzionalizzare i diritti e le libertà al mantenimento dell’equilibrio e allo sviluppo dell’ordine capitalista.

A ben vedere l’ispirazione neoliberale della tutela dei consumatori precede

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l’affermazione di quell’ideologia, che come è noto prende corpo a partire dagli anni Trenta, ma diviene egemone solo nel corso degli anni Ottanta: quando la fine del Blocco socialista avvia la cancellazione del compromesso keynesiano. Del resto il consumerismo è stato oggetto di innumerevoli “strumentalizzazioni a fini politici”, a partire da quella delineata dal noto discorso al Congresso statunitense, con cui negli anni Sessanta il Presidente John Kennedy ha enunciato quanto sarebbe poi passato alla storia come Consumer Bill of rights15 (Alpa 1977, 28).

Il discorso muove dalla premessa secondo cui il consumo crescente di beni ha incrementato il tenore di vita degli statunitensi a tal punto da essere nel tempo divenuto il più elevato al mondo, motivo per cui, se i consumatori sono bistrattati, “l’interesse nazionale soffre”. Per questo si promuove lo sviluppo di alcuni “diritti dei consumatori”, tra i quali spicca il “diritto a essere informati”, in qualche modo sollecitati dal clamore suscitato dalle prime inchieste sugli stratagemmi utilizzati dai “persuasori occulti”: i pubblicitari impegnati ad alimentare la produzione e il consumo di massa16. Si spiega così l’enfasi sulla necessità di predisporre strumenti di protezione “contro le informazioni, gli annunci pubblicitari e le etichettature fraudolente, ingannevoli o gravemente fuorvianti”.

Nel Bill of rights è centrale anche il “diritto di scegliere” per accedere “ad una varietà di prodotti e servizi a prezzi competitivi”, per soddisfare il quale si richiede l’emanazione di provvedimenti che affianchino la legislazione antitrust in vigore, pure celebrata come “lo scudo più forte a disposizione dei consumatori contro la crescita di poteri monopolistici fuori controllo”. Ricaviamo da queste considerazioni il principale riscontro di come la tutela del consumatore sia parte integrante di una costruzione dell’ordine economico incentrata sull’ortodossia neoliberale, il cui fondamento risiede nel corretto funzionamento del meccanismo concorrenziale. È questa, come abbiamo detto, la condizione ritenuta necessaria e sufficiente a rendere il mercato il miglior strumento di redistribuzione della ricchezza, in virtù del quale ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Il corretto funzionamento di quest'ultimo presuppone il contrasto delle concentrazioni di potere economico, o meglio la sua polverizzazione. In tal modo gli individui sono costretti a reagire in termini automatici agli stimoli del mercato, ovvero a reprimere comportamenti diversi da quelli indotti dal libero incontro di domande e offerta. Quei comportamenti sono ritenuti condotte antisistema in quanto difendono la persona dal 15 Special Message to the Congress on Protecting the Consumer Interest del 15 marzo 1962. Il testo è riprodotto ad es. qui: www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=9108.16 Sulla scia di V. Packard, The Hidden Persuaders, New York, 1957.

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funzionamento dell’ordine capitalista. Sono pertanto prevenuti attraverso la funzionalizzazione dei diritti e delle libertà economiche, del quale il diritto dei consumatori costituisce una parte fondamentale in quanto relativo ai comportamenti dei componenti il fronte della domanda. Per questi ultimi, esattamente come per chi rappresenta il fronte dell’offerta, si prevedono modelli comportamentali eventualmente capaci di produrre emancipazione sociale e individuale, tuttavia solo come riflesso e non anche finalità prima di disposizioni pensate per il sostegno del mercato concorrenziale.

Possiamo documentare tutto ciò ricorrendo al divieto di discriminazione, codificato dalle Carte dei diritti fondamentali a partire dal secondo dopoguerra per precisare il principio di parità formale, e in particolare per evitare che fosse violato in virtù dell’appartenenza a una cosiddetta razza, oltre che in ordine ai tratti identitari tipicamente presi in considerazione dal sistema dei diritti di matrice liberale: primi fra tutti il genere, la religione e gli orientamenti politici.

Quanto viene ritenuto il primo provvedimento antidiscriminatorio precede però la conclusione del secondo conflitto mondiale. Si deve al legislatore statunitense, che in piena seconda guerra mondiale lo concepisce per promuovere “la piena partecipazione di tutti i cittadini statunitensi al programma di difesa nazionale”, per la quale si vieta la “discriminazione tra lavoratori nell’industria bellica a causa della razza, del credo, del colore o dell’origine nazionale”17. Sicuramente questa misura ha contribuito all’e-mancipazione dei neri, e tuttavia la sua finalità era un’altra: evitare che datori di lavoro razzisti impedissero di valorizzare il “lavoro negro”18 e più in gene-rale di “mobilizzare forza lavoro”19. Si volevano insomma impedire com-portamenti antisistemici dal punto di vista del funzionamento del mercato concorrenziale: i comportamenti di chi, in presenza di un’elevata domanda di un certo bene, non risponde con un’offerta adeguata perché condizionato da propositi inconciliabili con quel punto di vista.

Peraltro il modo neoliberale di intendere il divieto di discriminazione prevale anche successivamente, nonostante sia stato fatto proprio e amplificato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra. Quest’ultimo si riconosce nei fondamenti della democrazia economica20, alla base di un’attenzione per i tratti identitari concernenti il sistema dei diritti

17 Executive Order 8802 del 25 giugno 1941, cosiddetto Fair Employement Act.18 E.B. Dickerson, The Participation of Negro Labor in Our War Effort, in 2 Lawyers Guild Review, 1942, p. 24 s.19 J.E. Pate, Mobilizing Manpower, in 22 Social Forces, 1943-44, p. 154 ss.20 Rinvio ad A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, 2014, p. 89 ss.

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sociali: come si ricava ad esempio dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, in cui si vieta di discriminare anche per ragioni “di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (art. 2). Ciò nonostante, nei rapporti fra privati, l’approccio tradizionale non solo non è stato abbandonato, ma è anche divenuto il fondamento per l’evoluzione del diritto privato, in particolare quella che ha caratterizzato il contesto europeo.

Notoriamente tra le fonti del diritto privato europeo si annovera anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, nella quale il divieto di discriminazione viene precisato con riferimento anche al “patrimonio” e alla “nascita” (art. 21), ma ciò nonostante nel diritto derivato non si trovano tracce di questa impostazione.

Le direttive relative alla materia lavorativa si occupano di discriminazioni fondate sul “sesso” e sulla “religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”21. Sicuramente si tratta di una misura capace di produrre effetti emancipatori anche rilevanti a favore dei soggetti considerati, in particolare se si tratta di disabili, e tuttavia è in massima parte una misura motivata da propositi concernenti il suo effetto sistemico: indurre il datore di lavoro a non rinunciare all’apporto di lavoratori nei cui confronti il prevalere di pregiudizi impedisce di riconoscere la qualità del contributo fornito alla produzione di ricchezza.

Un ragionamento analogo vale per le direttive concernenti altri profili rilevanti per il funzionamento del mercato: come in particolare l’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, che il diritto privato europeo richiede sia assicurato senza distinzioni fondate sulla razza, l’origine etnica o il genere22. Anche qui: è sicuramente vero che simili misure consentono forme non trascurabili di conformazione dell’attività privata finalizzate a tutelare la persona dal funzionamento del mercato capitalistico. E tuttavia queste misure mirano in prima battuta a evitare che il fronte dell’offerta dei beni circoscriva arbitrariamente la cerchia di chi è chiamato a selezionarli in base al meccanismo concorrenziale. Chi opera in questo modo, infatti, altera

21 Cfr. Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 “che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” e Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006 “riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”.22 Cfr. rispettivamente Direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000 “che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica” e Direttiva 2004/113/CE del 13 dicembre 2004 “che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura”.

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il sistema per cui il fronte della domanda, ovvero i consumatori nel loro complesso, sono tenuti a selezionare i beni e servizi offerti: sistema alla base del funzionamento dell’ordine neoliberale in quanto strumento per redistribuire risorse orientato dal meccanismo dei prezzi.

Se così non fosse, non si potrebbe spiegare come il divieto di discriminazione nella circolazione dei beni e dei servizi non viga anche con riferimento ai tratti identitari rilevanti per il sistema dei diritti sociali: i tratti che rinviano alla consistenza patrimoniale e all’origine sociale, o se si preferisce all’appartenenza di classe della persona interessata. In questi casi vale anzi il contrario: come si ricava in particolare considerando la disciplina del credito, concepita per evitarne l’erogazione a beneficio di chi non fornisce ampie rassicurazioni circa la sua capacità di restituire le somme prese a prestito. Il tutto per tutelare il sistema bancario e del credito in genere, la cui stabilità viene minacciata dall’indebitamento privato di soggetti in stato di insolvenza, con ripercussioni più che note sull’indebitamento pubblico. A dimostrazione di come il divieto di discriminazione rappresenti una misura volta a favorire la sola parità di chances utile al funzionamento del mercato23.

4. Homo oeconomicus vs homo sociologicus

Abbiamo poco sopra evocato la sociologia dei ruoli, e verificato che il suo impiego appare in qualche modo funzionale ad alimentare un approccio interclassista: essa considera i comportamenti individuali dal punto di vista della loro funzione immediata, ovvero procurare i mezzi necessari al sostentamento, e omette così di operare distinzioni relative alla forza sociale dei consumatori, innanzi tutto quelle concernenti l’appartenenza o meno dei mezzi di produzione. Tutto ciò è indubitabile, e tuttavia la sociologia dei ruoli impone di riflettere sul tipo umano di riferimento per la definizione degli strumenti di tutela del consumatore, e in quanto tale offre un notevole contributo per documentare l’ispirazione intimamente neoliberale dell’approccio consolidatosi con il passare del tempo.

Lo possiamo verificare a partire dalle riflessioni di un noto sociologo tedesco di formazione liberale, che sul finire degli anni Cinquanta ha messo a confronto tre tipi umani: l’homo oeconomicus, il psychological man e l’homo

23 P. Ridola, Diritti di libertà e mercato nella “Costituzione europea”, in Associazione italiana dei costituzionalisti (a cura di), La costituzione europea, Padova, 2000, pp. 329 ss. e 352 ss.

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sociologicus, elaborati come si intuisce, rispettivamente, dall’economia, dalla psicologia e dalla sociologia24. Li considereremo in quanto costituiscono a ben vedere i possibili punti di riferimento più o meno impliciti per il legislatore impegnato a definire forme di tutela privatistica dei consumatori.

Il primo tipo umano, quello elaborato dall’economia, viene tratteggiato con espliciti richiami alla materia di cui ci stiamo occupando: è “l’uomo profondamente informato e razionale da capo a piedi”, ovvero “il consumatore che prima di ogni acquisto soppesa con cura bisogno e prezzo e confronta centinaia di prezzi prima di decidere”, o “l’imprenditore che riunisce nella sua testa tutti i mercati e le borse ed orienta tutte le sue decisioni secondo questo sapere”. Il secondo tipo, quello cui si è dedicata la psicologia, è “l’uomo delle motivazioni sotterranee”, che “se pure sempre compie il bene, tuttavia può sempre volere il male”. Il terzo tipo si contrappone a entrambi, giacché la sociologia, diversamente dall’economia, non crede nella capacità di orientare i comportamenti umani all’analisi razionale dei loro costi e benefici, e inoltre considera l’individuo come membro di un gruppo e non, come la psicologia, come singolo. L’homo sociologicus è tale in quanto le sue condotte ricalcano modelli comportamentali cui attenersi per evitare di essere considerati devianti: “per ogni posizione che l’uomo può assumere, sia essa caratterizzata dal sesso, dall’età, dalla famiglia, dalla professione, dalla nazione, dalla classe o da quel che si vuole, la società conosce attributi e forme di comportamento”. Più precisamente l’individuo è prigioniero di ruoli, di complessi di aspettative presidiate da un sistema di sanzioni e incentivi morali o sociali: “se il singolo assume ed accoglie le sollecitazioni che gli si offrono, rinuncia ad una intatta individualità, ma guadagna la approvazione della società in cui vive”, mentre se “fa resistenza alle sollecitazioni della società, può conservare una indipendenza astratta ed inutile, ma è destinato alla condanna ed alle sanzioni della società”.

I tipi umani di riferimento per le elaborazioni della psicologia e della sociologia sono indubbiamente utili a individuare il modello di tutela più adatto al consumatore. Come abbiamo detto, non sono il risultato di analisi attente alla posizione rivestita da quest’ultimo nell’ordine capitalista, che per molti aspetti mirano a stabilizzare piuttosto che a mettere in discussione. E tuttavia sono strumenti utili a contestare i fondamenti di quell’ordine, primo fra tutti la capacità di autodeterminazione dell’individuo, alla base del funzionamento del mercato concorrenziale, ma anche e soprattutto delle principali tecniche di tutela del consumatore25. Quest’ultimo è infatti 24 R. Dahrendorf, Homo sociologicus (1958), 3. ed., Roma, 1989.25 Già G. Alpa, Il ruolo dell’informazione nella tutela del consumatore, in Rivista critica del diritto privato, 1987, p. 815 ss.

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eterodiretto in quanto psychological man le cui motivazioni sono manipolate ad arte ricorrendo ai sofisticati meccanismi messi in luce fin dai tempi in cui si denunciava l’opera dei “persuasori occulti”. La sua capacità di autodeterminazione è poi menomata perché, in quanto homo sociologicus, deve orientare la propria condotta a modelli ben definiti, concepiti per soddisfare specifiche aspettative di ruolo. Il che evidentemente influisce in modo determinante sui comportamenti di consumo in quanto condotte funzionali a ricondurre l’individuo ai gruppi sociali di appartenenza o di riferimento.

Ma torniamo a riflettere sul diritto dei consumatori allineato all’ortodossia neoliberale. Che questa impronta lo caratterizzi fin dalla sua nascita, lo possiamo ricavare da una delle più risalenti disposizioni in materia, ovvero il celeberrimo articolo del Codice civile italiano secondo cui “non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto” alcune condizioni generali di contratto considerate particolarmente onerose: quelle “che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria” (art. 1341). Nel merito la Relazione al Re formula alcuni rilievi concernenti i costi e i benefici della contrattazione standard, che per un verso asseconda “la realtà economica odierna” bisognosa di “una rapida conclusione degli affari”, ma per un altro sacrifica a essa “il bisogno di una libertà di trattativa che importerebbe intralci spesso insuperabili”. Di qui la scelta di ammettere, ma anche di disciplinare il fenomeno, per prevenire “abusi nei casi in cui gli schemi prestabiliti contengono clausole che mettono i clienti alla mercé dell’imprenditore”26.

Il tutto avendo però come punto di riferimento l’homo oeconomicus, il consumatore perfettamente capace di autodeterminarsi, il cui unico problema è il possesso di un adeguato livello di informazioni circa i termini dell’affare da valutare nei suoi costi e nei suoi benefici. La cosiddetta doppia firma sulle condizioni ritenute più onerose viene considerata indizio sufficiente di una doppia lettura di quelle clausole, e questa un riscontro della particolare attenzione con cui sono state ponderate. Il che è evidentemente una finzione, indispensabile però a imporre un ordine pubblico economico compatibile con la necessità di preservare il mito neoliberale secondo cui i mercati sono capaci di autoregolarsi, ovvero di svilupparsi a partire dal libero

26 Relazione al Re, Libro delle obbligazioni, n. 78.

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incontro di domanda e offerta.Questa impostazione nasce con il diritto dei consumatori, assieme al

quale cresce senza alterazioni di fondo. Certo, si sono nel tempo sviluppate forme di tutela ritagliate su un tipo umano mutuato dalla sociologia, ovvero ricavate dalla constatazione che il comportamento del consumatore, in quanto eterodiretto, non muta in modo significativo in relazione al livello di informazioni di cui dispone. È almeno in parte il caso della disciplina delle clausole abusive nel diritto privato europeo, a cui si è giunti nella prima metà degli anni Novanta27. Lì il livello di consapevolezza del consumatore circa i termini dell’affare è considerato irrilevante, dal momento che le clausole contrattuali non negoziate sono inefficaci per il solo fatto di determinare “un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto”.

Si tratta peraltro di un’eccezione, a ben vedere dovuta alla circostanza per cui la Germania ha in materia imposto il suo modello, notoriamente maturato nel corso degli anni Settanta e dunque all’epoca in cui l’ortodossia neoliberale veniva ancora efficacemente contrastata28: un modello consolidato, tanto che le forze politiche disposte a rimetterlo in discussione ne avrebbero risentito in termini di perdita del consenso. Ecco perché si è deciso di imporlo ai Paesi europei meno sensibili alle tematiche consumeristiche, i cui operatori economici avrebbero altrimenti acquisito notevoli vantaggi competitivi rispetto ai tedeschi.

Quanto abbiamo sommariamente ricostruito è la classica eccezione buona a confermare la regola secondo cui in area europea è l’homo oeconomicus il punto di riferimento per il diritto privato dei consumatori. Sono numerosi i riscontri di questa circostanza, che si può ricavare in modo esemplare considerando un istituto particolarmente celebrato dalla letteratura: il diritto di recesso, o ius poenitendi, accordato in particolare nei contratti conclusi a distanza o fuori dai locali commerciali29. Ebbene, il fondamento di una simile misura risiede nel convincimento per cui, se il consumatore si trova in un luogo nel quale non è indotto ad attrezzarsi per soppesare in modo vigile e razionale i costi e i benefici dell’operazione economica, non possiede la capacità di autodeterminarsi. Di qui la possibilità di un pentimento nel momento in cui, dopo avere

27 Art. 3 Direttiva 93/13/Ce “concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori”.28 Cfr. AGB-Gesetz del 9 dicembre 1976, sulla cui matrice politico normativa ad es. N. Reich, Markt und Recht. Theorie und Praxis des Wirtschaftsrechts in der Bundesrepublik Deutschland, Neuwied e Darmstadt, 1977, p. 120 ss.29 V. Direttiva 2011/83/Ue “sui diritti dei consumatori”.

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recuperato quella capacità, reputa che la conclusione del contratto sia stata inopportuna. Il tutto a beneficio, più che del singolo, dell’ordine economico nel suo complesso: il diritto di recesso consente il ripristino della funzione di sistema affidata ai consumatori, innanzi tutto chiamati a selezionare la produzione attraverso raffronti meditati delle opzioni in campo, e con ciò ad alimentare il meccanismo del libero incontro di domanda e offerta.

5.Consumerismo critico

Il diritto dei consumatori si occupa del cosiddetto contatto sociale disciplinando il fenomeno della pubblicità, quindi della distribuzione dei beni con disposizioni dedicate al relativo contratto e al credito al consumo, infine della fruizione del bene e dunque, in particolare, della responsabilità del produttore30. Viene così trascurato quanto attiene a un approccio al tema dei consumi di tipo non meramente edonistico, rivolto alle vicende che alzano lo sguardo oltre la qualità del prodotto o dello strumento utilizzato per farlo circolare: vicende quali i rapporti del produttore con il potere politico, i suoi comportamenti rispetto all’ambiente, il trattamento riservato ai lavoratori, eventuali connessioni con l’industria delle armi o l’eventuale ricorso alla sperimentazione su animali.

Questi aspetti possono essere considerati da altri settori dell’ordinamento, come ad esempio il diritto del lavoro o il diritto dell’ambiente, che tuttavia si possono efficacemente invocare solo con riferimento a beni che circolano nel medesimo contesto statuale in cui sono stati prodotti. Peraltro l’ordine capitalista è caratterizzato da una pervasiva divisione internazionale del lavoro, per cui i beni possono essere destinati a Paesi diversi da quelli nei quali sono stati prodotti, e anzi questo è notoriamente ciò che di norma accade. Di qui l’utilità di un diritto dei consumatori che almeno indirettamente si interessi, oltre che di cosa si produce, anche di come lo si fa, almeno nelle situazioni in cui il diritto dei Paesi produttori trascura questo aspetto o comunque evita di valorizzarlo.

A questi aspetti dedicano attenzione i fautori del cosiddetto consumerismo critico31. Questi mirano tra l’altro alla costruzione di un sistema di commercio equo e solidale con i produttori del Sud del mondo, che rispetto 30 G. Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori, Roma e Bari, 2006, p. 17 ss.31 V. ad es. Centro nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico. Tutto quello che serve sapere per una spesa giusta e responsabile, nuova ed., Bologna, 2011 e AA.VV., Piccola guida al consumo critico. Acquisti responsabili e stili di vita etici 2.0, Milano, 2016.

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ai produttori del Nord agiscono in un sistema di regole del tutto inidoneo a prevenire comportamenti disdicevoli sotto i profili evidenziati, e in tale prospettiva invitano a premiare con l’acquisto chi mette in circolazione beni nel rispetto di determinati parametri etici, e a punire con il boicottaggio chi invece non ne tiene conto32.

Occorre però considerare che gli operatori economici del commercio equo e solidale sostengono costi che non sorgono nell’ambito dei circuiti tradizionali, dove i prezzi sono anzi contenuti proprio perché si risparmia sulla tutela del lavoro o dell’ambiente. Nel merito il diritto dei consumatori non solo non aiuta a contenere un simile svantaggio competitivo, ma sovente contribuisce a incrementarlo, in quanto definisce parametri relativi alla qualità dei prodotti il cui rispetto comporta costi particolarmente elevati se affrontati dai produttori di dimensioni contenute. Il che si verifica sovente nel circuito del commercio equo e solidale, impegnato a combattere la formazione di oligopoli tipica invece delle produzioni tradizionali: tendenza del resto immanente all’ordine capitalista (Alpa 1986, 16 s.), oltretutto posta in relazione con la diffusione di misure consumeristiche33.

Insomma, il diritto dei consumatori non si limita a trascurare le istanze di ordine etico relative alla produzione di beni di consumo: di fatto ostacola l’operato di chi invece ne tiene conto. Il tutto avallato dal contesto europeo, che a ben vedere si occupa di commercio equo e solidale, tuttavia per forzarlo entro schemi neoliberali, in quanto tali inesorabilmente destinati a snaturarlo.

Lo ricaviamo a titolo esemplificativo da una Comunicazione della Commissione in cui si riconosce che “i consumatori possono contribuire con le loro decisioni d’acquisto al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile”, per poi affermare che si tratta comunque di un fenomeno rispetto al quale non si devono “prendere iniziative in materia di classificazione o fissazione dei criteri relativi”: un fenomeno la cui rilevanza è e deve restare quella di mere “iniziative private”. Ciò non toglie, peraltro, che queste iniziative debbano svilupparsi nel rispetto dell’ortodossia neoliberale, in linea con quanto stabilito dalle istituzioni poste a presidio dell’ordine economico internazionale. La Commissione precisa infatti che, ove un diritto nazionale decidesse di occuparsi di commercio equo e solidale, non potrebbe farlo con modalità destinate a privilegiarlo rispetto

32 Per tutti Centro nuovo modello di sviluppo, Boycott. Scelte di consumo scelte di giustizia, 5. ed., Foggia, 2009 e F. Gesualdi, Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale, 3. ed., Milano, 2007.33 Come da tempo riconosciuto anche dai cultori del diritto di impostazione neolibe-rale: per tutti P. Ulmer, in Verhandlungen des Fünfzigsten Deutschen Juristentages, vol. 2 (Sitzungen), München, 1974, pp. H 21, H 25 e H 40.

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alle tradizionali prassi commerciali: “qualsiasi intervento governativo o meccanismo normativo… deve tenere conto degli obblighi imposti dall’Organizzazione mondiale del commercio, in particolare per garantirne un funzionamento trasparente e non discriminatorio”34.

Se così stanno le cose, il diritto dei consumatori non potrà arricchirsi di disposizioni destinate a bilanciare la posizione sfavorevole in cui si trovano gli operatori del commercio equo e solidale. Continuerà cioè a rappresentare lo “schermo della realizzazione degli interessi della collettività” dietro il quale nascondere la sua vera natura: presidiare un ordine concepito per alimentare “la ricerca del profitto” quale principale “interesse perseguito dall’impresa” (Alpa 1977, 29).

6. Lavoro del consumatore e reddito di cittadinanza

Negli schemi tradizionalmente alimentati dall’ortodossia neoliberale, lavoratori e consumatori sono ricondotti a due fronti contrapposti: rispettivamente quello dell’offerta e quello della domanda di beni e servizi. Altrettanto tradizionale è il tentativo di ricomporre le fratture interne al fronte dell’offerta, ovvero di costringere capitale e lavoro entro la categoria omnicomprensiva dei produttori, per alimentare un clima cooperativo e pacificato, in linea con la volontà di spoliticizzare il mercato: di metterlo al riparo dal conflitto redistributivo. È invece più recente il tentativo di azzerare la barriera tra lavoro e consumo, ovvero di promuovere quanto è stato efficacemente descritto in termini di “lavoro del consumatore”35 o “prosumerismo”36.

Ci si riferisce innanzi tutto al coinvolgimento del consumatore nel processo di produzione e distribuzione dei beni e dei servizi, in massima parte reso possibile dall’utilizzo intenso di tecnologie, attraverso le quali un numero crescente di incombenze sono delegate ai destinatari finali di quei beni e di quei servizi. È quanto si verifica ad esempio nel ricorso al commercio elettronico, o con l’utilizzo di scanner e casse automatiche

34 Comunicazione della Commissione “Contribuire allo sviluppo sostenibile: il ruolo del commercio equo e solidale e dei programmi non governativi in ambito commerciale a garanzia della sostenibilità” del 5 maggio 2009, Com/2009/0215 def.35 M.A. Dujarier, Il lavoro del consumatore. Come coproduciamo ciò che compriamo (2008), Milano, 2009.36 P. Degli Esposti, Essere prosumer nella società digitale. Produzione e consumo tra atomi e bit, Milano, 2015.

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nella grande distribuzione, o ancora con l'assemblaggio di prodotti a cura dell’acquirente. Il tutto incentivato anche e soprattutto perché consente di contenere l’impiego di forza lavoro, di sostituirla con chi, oltre a non percepire alcun salario, è sempre disponibile e motivato37: il prosumerismo consente di ridurre i costi di produzione, sovente in misura superiore a quella che poi si riflette sul costo finale del bene o del servizio.

Peraltro il lavoro del consumatore è molto più pervasivo rispetto a quanto abbiamo appena detto, dal momento che comprende anche le innumerevoli attività svolte in ragione dell’incalzante dissoluzione del confine tra tempi di vita e tempi di lavoro. Il riferimento è ai fenomeni alimentati dall’economia della conoscenza, come viene definita con terminologia in linea con l’ortodossia neoliberale, innanzi tutto quella impiegata nei documenti europei38. È però preferibile il termine “capitalismo cognitivo”, con cui evidenziare criticamente le ricadute di un ordine economico entro cui le forme di accumulazione sono sempre meno incentrate sul modo di produzione postfordista, e sempre più dipendenti dalla capacità di mettere a profitto il valore rappresentato dalla conoscenza. Il che implica la dissoluzione dei confini fisici delimitanti i luoghi della produzione, a conferma di come l’accumulazione sia oramai identificata “con lo sfruttamento della vita nella sua essenza”, ovvero di come la vita nel suo complesso sia “messa in produzione e quindi a valore”: tanto che il capitalismo cognitivo sarebbe a ben vedere divenuto “bio-cognitivo”39.

Simili trasformazioni sono evidentemente il frutto del progresso tecnologico, e in particolare dell’uso di internet come strumento attraverso cui alimentare reti di relazioni umane e sociali praticamente sconfinate. Reti capaci di veicolare una mole di informazioni altrettanto sconfinata, non di rado fornite nell’ambito di un accordo formalizzato: quello per cui le informazioni sono concepite come corrispettivo per l’accesso a servizi il cui valore, sia detto per inciso, è nettamente inferiore rispetto ai profitti assicurati dalla profilazione dell’utente40. A testimonianza di come, qui ancor più che nelle forme di prosumerismo descritte poco sopra, ci troviamo di fronte a una vera e propria attività lavorativa del consumatore.

Al lavoro del consumatore la letteratura si sta dedicando con interesse

37 Ad es. V. Codeluppi, Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Torino, 2008, p. 27 ss.38 Per tutti Comunicazione della Commissione “Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” del 3 marzo 2010, Com/2010/2020 def.39 A. Fumagalli, Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, Roma, 2018, p. 8.40 Per tutti E. Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, Torino, 2016, p. 79 ss.

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crescente, sebbene non sempre per mettere in luce, come invece in questa sede, gli aspetti negativi del fenomeno. Sono infatti diversi i contributi nei quali il prosumerismo viene celebrato come una pratica attraverso cui il consumo si libera finalmente dalla produzione, cessando così di essere in tutto e per tutto dipendente da essa, come era invece nel contesto fordista41. Il prosumerismo è insomma presentato come un’occasione di “empowerment del consumatore”: se nel mercato tradizionale quest’ultimo rivestiva un ruolo di secondo piano, incapace come era di condizionare le scelte imprenditoriali, l’assunzione di compiti nel processo di produzione e distribuzione dei beni e dei servizi consente di ribaltare la situazione, o quantomeno di riequilibrarla42. Non è però questo l’aspetto più problematico, bensì quello che attiene alla tutela del consumatore-lavoratore, che evidentemente non si può realizzare attraverso le modalità tradizionali, tanto meno se sono quelle privilegiate dall’ortodossia neoliberale, incentrate come sono sul ripristino della capacità di autodeterminazione.

Di certo non si possono estendere al consumatore tutte le tutele previste per il lavoratore, e tuttavia non si può non tenere conto che in fin dei conti il primo assolve a funzioni riconducibili alla sfera del secondo: quello svolto dal consumatore, il cui rapporto con il produttore del bene o l’erogatore del servizio viene solo saltuariamente più o meno formalizzato, è comunque considerato un lavoro almeno in senso sociologico ed economico43.

Nel merito può essere utile considerare le forme di pressione contemplate dal consumerismo critico, che come abbiamo detto mira a influenzare il comportamento dei produttori, con modalità capaci di adattarsi alle situazioni nelle quali il consumatore è anche lavoratore: come nel caso dello sciopero dei consumi. Secondo alcuni anche il reddito di cittadinanza può trasformarsi in una sorta di remunerazione assicurata al consumatore-lavoratore, che può essere intesa come una forma di tutela almeno risarcitoria. Invero, tra i motivi per cui dovrebbe essere istituito, occupa un posto di primo piano la volontà di concepirlo come una remunerazione per lo sconfinamento dei tempi di lavoro nei tempi di vita, o eventualmente un modo per riappropriarsi dei frutti di quello sconfinamento: il reddito di cittadinanza “non è altro che il corrispettivo del salario nell’epoca fordista”44.

Questa soluzione rischia però di aggravare il problema che intende

41 G. Fabris, Dalla produzione al consumo, in V. Codeluppi (a cura di), Tra produzione e consumo. Processi di cambiamento della società italiana, Milano, 2004, p. 12.42 Cfr. i contributi raccolti in V. Codelluppi e R. Paltrinieri (a cura di), Il consumo come prodizione, Milano, 2007.43 M.A. Dujarier, Il lavoro del consumatore, cit., p. xxiii s.44 A. Fumagalli, Economia politica del comune, cit., p. 31.

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risolvere. Essa finisce infatti per consentire all’ortodossia neoliberale di proliferare al meglio anche sotto le forme di accumulazione tipiche del capitalismo cognitivo: le stesse che per alcuni dovrebbero invece portare alla fine del capitalismo tout court, complice la crescente diminuzione dei profitti realizzati attraverso lo sfruttamento del lavoro e l’incremento della produzione di beni e servizi oltre l’ordine proprietario45.

Il reddito di cittadinanza assicurerebbe al contrario lunga vita al capitalismo cognitivo, innanzi tutto perché costituisce un espediente attraverso cui socializzare le perdite riconducibili al suo funzionamento, e nel contempo realizzare la privatizzazione dei profitti che ne derivano: i produttori che mettono la vita a valore continuerebbero a farlo indisturbati, dal momento che ci penserebbe la fiscalità generale a retribuire le forme più pervasive di estrazione del valore. Di più: il reddito di cittadinanza incentiverebbe la moderazione salariale, che risulterebbe più accettabile a fronte di quanto rappresenterebbe una sorta di integrazione a carico dello Stato. Non è dunque un caso se la sua istituzione viene da tempo auspicata da settori importanti del pensiero neoliberale46.

Insomma, il reddito di cittadinanza è una misura produttiva di pace sociale e comunque capace di ricomporre il conflitto redistributivo, con ciò assicurando ulteriori chance di sopravvivenza al capitalismo: un altro modo per consentirgli di “guadagnare tempo”47. Il tutto mentre l’inserimento del reddito di cittadinanza si accompagna di norma al ridimensionamento dello Stato sociale, il che peraltro si combina con un ulteriore effetto nefasto: l’accantonamento delle politiche di piena occupazione, magari incentrate sul ridimensionamento dell’orario di lavoro48.

7. Un intellettuale resistente

Il reddito di cittadinanza, dunque, non solo non rappresenta una forma di tutela del consumatore-lavoratore, ma costituisce un presidio dell’ortodossia

45 Da ultimo P. Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, Milano, 2016.46 Al proposito Ph. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale (2017), Bologna, 2017, p. 38 ss.47 Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (2013), Milano, 2013.48 Cfr. A. Somma, Il reddito di base incondizionato come presidio dell’ortodossia neoliberale, in Id. (a cura di), Lavoro alla spina, welfare è la carte. Lavoro e previdenza ai tempi della gig economy, Milano, 2019 (in corso di pubblicazione).

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neoliberale, secondo cui la relazione di lavoro deve essere degradata a relazione di mercato qualsiasi, e la sicurezza sociale considerata una vicenda da affidare al meccanismo concorrenziale. Il tutto al netto di una considerazione che rende il quadro ulteriormente cupo: il reddito di cittadinanza costituisce un trasferimento di risorse illimitato nel tempo e incondizionato, cumulabile cioè con altri redditi ed eventualmente con il welfare, e in questa forma non è stato mai significativamente realizzato. Quanto nel corrente dibattito pubblico viene indicato come reddito di cittadinanza è infatti il reddito minimo garantito, erogato ai soli cittadini in età da lavoro privi di reddito o con reddito al di sotto della soglia di povertà, oltretutto subordinato alla ricerca attiva di occupazione. È cioè una misura saldamente ancorata all’ortodossia neoliberale, capace forse di spingere i disoccupati nel lavoro, tuttavia solo per incrementarne l’offerta e dunque provocarne l’ulteriore svalutazione, ovvero per alimentare il fenomeno del lavoro povero49.

Se così stanno le cose, l’immagine del diritto dei consumatori come fondamento dell’impresa capitalistica non vale solo per le disposizioni che appartengono oramai tradizionalmente alla disciplina del mercato. Vale anche per gli interventi che il legislatore vorrà concepire per tenere il passo con le evoluzioni dell’ordine economico. Il tutto in un clima di rinnovata accondiscendenza rispetto all’ideologia che fa da sfondo a questa situazione, ovvero di adesione ai fondamenti del neoliberalismo.

Di qui il particolare interesse per le riflessioni critiche di intellettuali come Guido Alpa, impegnato a ricostruire le linee di fondo della materia e soprattutto a fornire chiavi di lettura per meglio apprezzare il contesto in cui si è formata e opera. E questo non vale solo per la sua produzione più risalente, della quale si potrebbe dire che accoglieva impostazioni non certo isolate, almeno non tanto quanto lo sono ora. Giacché Alpa ha continuato, come è noto, ad occuparsi di diritto dei consumatori, e soprattutto a farlo senza tradire l’impostazione iniziale: una caratteristica, se ne converrà, decisamente poco diffusa.

In un clima nel quale il diritto degli anni Settanta costituisce tutt’al più tema per qualche commemorazione50, Alpa riprende idee già esposte in quegli anni: non certo perché reputi che il tempo non sia passato, o peggio per sostenere l’opportunità di un ritorno a epoche oramai trascorse, ma per trarre spunti utili a fornirne interpretazioni critiche per il presente, oltre che suggestioni per il futuro. Il tutto senza cedere all’idea secondo cui 49 Per tutti C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, 2015, part. p. 51 ss. e G. Commisso e G. Sivini, Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?, Trieste, 2017, p. 33 ss.50 Ad es. L. Nivarra (a cura di), Gli anni Settanta del diritto privato, Milano, 2008.

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il passare degli anni è scandito unicamente da fatti naturali, in quanto tali non modificabili, che il cultore del diritto deve semplicemente amministrare attraverso buone pratiche, con la diligenza del buon tecnocrate. Questa è del resto l’attitudine più adatta a far prosperare l’ortodossia neoliberale, che mira a spoliticizzare il mercato concorrenziale, a sterilizzare il conflitto capace di metterne in discussione i fondamenti: che da questo punto di vista vuole ridurre il giurista a un cultore del postdiritto51.

Non è naturale, innanzi tutto, l’attuale pervasività della società dei consumi, resa da Alpa ricorrendo alle parole di Zygmut Bauman, secondo cui, ora più che mai, “nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la sua soggettività senza riportare in vita, risuscitare o reintegrare costantemente, le capacità che vengono attribuite e richieste a una merce vendibile”52. Un quadro drammatizzato dalla globalizzazione dei mercati, che ha imposto un “edonismo individuale” esasperato e “definitivamente spazzato via ogni utopia sociale”, ulteriormente complicato dalle dinamiche alimentate dalla recente crisi economica e finanziaria: che ha divaricato “il solco che divide i ceti sociali” e costretto “all’emarginazione fasce sempre più larghe della popolazione” (Alpa 2016a, 17 ss. e 25).

Ciò nonostante resiste l’idea del consumatore come “re del mercato”, e a monte come homo oeconomicus. Idea illusoria e buona solo a occultare la circostanza che la persona è invece in balìa delle “strategie attuate da chi controlla il mercato”, ovvero “il luogo dove si registrano prevaricazioni in danno di una massa di acquirenti e di utenti che non sono in grado di effettuare le scelte migliori”. Il tutto da evidenziare ricorrendo agli strumenti della psicologia e della sociologia, che ora come nei decenni trascorsi non devono essere utilizzate per alimentare approcci interclassisti alla materia, ma se non altro per evitare di assolutizzare la teoria delle classi e dunque di vedere che “tra i consumatori si possono distinguere varie categorie”. Proprio quegli strumenti consentono di smascherare, oltre alla fallacia dell’idea secondo cui il consumatore informato può “compiere scelte libere e vantaggiose”, anche i reali obiettivi della retorica sorta attorno al fenomeno del consumerismo: il suo rappresentare un “fattore di promozione del marketing”. Invero il consumerismo vorrebbe indurre a ritenere che, attraverso la mobilitazione, si possono orientare i comportamenti delle imprese. Mentre è evidente che “in un sistema economico a capitalismo avanzato le imprese saranno indotte” a modificare i loro comportamenti solo se perseguono in tal modo 51 A. Somma, Verso il postdiritto? Fine della storia e spoliticizzazione dell’ordine economico, in Politica del diritto, 2018, p. 79 ss.52 Il brano di Bauman si trova in Consumo dunque sono, Roma e Bari, 2007, p. 17.

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la “massimizzazione del profitto” (Alpa 2016a, 22 ss.).Occorre peraltro sottolineare come la disciplina del mercato conforme

all’ortodossia neoliberale occulti il ruolo che, nello schema appena tratteggiato, viene affidato allo Stato. Quell’ortodossia induce a credere che il mercato autoregolato non richieda alcuna norma per poter funzionare: che sia sufficiente il libero incontro di domanda e offerta. Di qui la pretesa di ritenere che l’ordine economico neoliberale sia un ordine spontaneo, in quanto tale spoliticizzato e bisognoso di restare tale per poter assolvere al meglio al proprio compito: redistribuire risorse tra i consociati. Abbiamo ampiamente documentato il carattere ideologico di questa costruzione, che occulta il ruolo dello Stato quale entità chiamata a rendere storicamente possibile il funzionamento del capitalismo, e che in tale prospettiva opera tra l’altro attraverso la funzionalizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali.

Alpa torna su questo schema per documentare quanto sia illusoria la tutela dei consumatori attraverso il presidio del principio di concorrenza: se non in termini assoluti, almeno considerando le sue concrete realizzazioni. Queste testimoniano un attaccamento all’immagine dell’impresa come istituzione, a cui ci siamo dedicati in precedenza, funzionale a legittimarla come la sede più adatta a mediare tra i diversi interessi rappresentati nel mercato. Anche ora si vuole accreditare una comunanza di interessi dell’impresa e dei consumatori, o quantomeno la possibilità di coordinarli in modo equilibrato ricorrendo allo strumento della governance. Nonostante sia a tutti evidente che “gli interessi degli imprenditori sono solidi, coagulati, assistiti da una protezione storicamente risalente”, laddove “gli interessi dei consumatori non sono interessi di categoria, non sono coagulati ma frammentati, non sono forti ma deboli” (Alpa 2016b, 40 ss. e 56 ss.).

Insomma, Alpa ci dice che l’ortodossia neoliberale gode di ottima salute, e soprattutto che fagocita qualsiasi istanza di tutela di interessi che non siano quelli funzionali ad alimentare il mercato autoregolato. Ce lo dice oggi, esattamente come ce lo diceva ieri: offrendo così un raro esempio, oltre che di capacità di analisi a tutto campo dei fenomeni studiati, anche di resistenza del pensiero critico.

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Chiara Tenella Sillani

La riforma francese del diritto dei contrattie il destino della causa

Sommario: 1. La riforma francese del diritto dei contratti – 2. La scomparsa del requisito causale – 3. La corrente riformista e le vicende della causa nel nostro ordinamento – 4. Il multiforme ruolo della causa nella dottrina e nella giurisprudenza – 5. Considerazioni conclusive.

1. La riforma francese del diritto dei contratti

La recente riforma francese del diritto dei contratti, di cui all’Ordonnance del 10 febbraio 2016, oggi definitivamente approvata1, ha l’espresso scopo - come si enuncia nella sintetica presentazione al testo - di rendere le disposizioni in materia più chiare, semplici e prevedibili, restituendo al codice civile quel ruolo preminente ed autorevole nel panorama internazionale che ne ha segnato la gloriosa storia. E’ evidente, in tale rinnovamento, anche l’intento di fare del diritto contrattuale (delle obbligazioni e delle prove) la legge prescelta dagli operatori economici per regolare i propri rapporti commerciali internazionali; questa ambiziosa aspettativa deve peraltro misurarsi, nella competizione tra ordinamenti, con il modello anglo-americano in posizione decisamente privilegiata non fosse altro che per la pratica di utilizzare gli schemi negoziali formulati in lingua inglese sulla base delle impostazioni giuridiche di common-law; d’altra parte, avverte Guido Alpa, “les règles apportées par l’ordonnance ne sont pas séparées du corps du Code civil mais en font partie intégrante. Normalement, quand la loi applicable est choisie, il est fait référence au systeme juridique désigné tout entier; si l’on choisit 1 Come noto, la riforma francese del diritto delle obbligazioni e dei contratti è giunta a compimento con l’approvazione della legge di ratifica (loi du 20 avril 2018, ratifiant l’ordonnance du 10 février 2016). Tra i commenti più recenti, A. Fusaro - E. Gabrielli (a cura di), La riforma dei contratti in Francia, in Giur.it., 2018, p. 1216 ss.; D. Valentino (a cura di), La riforma del Code civil: una prospettiva italo-francese, Napoli, 2018; F. Bien, J-S. Borghetti, Die Reform des französischen Vertragsrechts: Ein Schritt zu mehr europäischer Konvergenz?, Mohr Siebeck, Tubinga, 2018.

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C. Tenella Sillani

des corps de règles suffisantes en soi-meme, il faut que ces derniers incorporent la merger clause, de façon à empecher que des règles quel es parties n’avaient pas contemplées, pénètrent l’interprétation du contrat. En somme, les règles de l’ordonnance ne sont pas «extractibles» du Code civil et applicables comme un bloc séparé”2.

2. La scomparsa del requisito causale

A prescindere dalle auspicate fortune del testo riformato, alcune innovazioni sono di certo significative anche per il giurista italiano; tra queste spicca la eliminazione della causa3, “pur trattandosi della <nozione più celebre del diritto francese delle obbligazioni>”4. Essa, prima inclusa nei panni di “une cause licite dans l’obligation”5 - non compare infatti più tra gli elementi di validità del contratto che ora figurano elencati nell’art. 1128 (dove è scomparso anche l’oggetto)6. E’ stato altresì abrogato il contenuto normativo dell’art. 1131, in cui si negava efficacia all’obbligazione mancante di causa, o con causa falsa o illecita7.

E’ evidente, in tali significative modifiche, sia la presa d’atto di una più moderna teoria giuridica del contratto, sia l’influenza dei progetti di armonizzazione del diritto privato europeo dei contratti (i Principi

2 G. Alpa, Réflexions sur le projet français de réforme du droit des contrats, in Rev.int. de droit comparé, 2015, p. 892; per l’edizione italiana: Note sul progetto francese di riforma del diritto dei contratti, in Riv.crit.dir.priv., 2015, p. 189. 3 In aerea francofona, questa soluzione era stata peraltro già adottata nel 1991 dal Codice civile del Quebec. 4 G. Alpa, Note sul progetto francese di riforma del diritto dei contratti, cit., p. 193. In proposito, tra gli altri, L. Pontiroli, Morte e trasfigurazione della causa (ed altre catastrofi) nel code civil, in A. Fusaro - E. Gabrielli (a cura di), La riforma dei contratti in Francia, cit., p. 1229 ss. ; J. Rochefeld, Le contenu du contract: que reste-t-il de la cause? in D. Valentino (a cura di), La riforma del Code Civil: una prospettiva italo-francese, cit., p. 83 ss.5 Art. 1108 vecchio testo: «Quatre conditions sont essentielles pour la validité d’une conven-tion: Le consentement de la partie qui s’oblige; Sa capacité de contracter; Une objet certain qui forme la matière de l’engagement; Une cause licite dans l’obligation». 6 Art. 1281: “Sont nécessaires à la validité d’un contract: 1° Le consentement des parties; 2° Leur capacité de contracter; 3° Un contenu licite et certain”. Sulla impostazione ideologica che aveva fondato storicamente l’ingresso dell’oggetto tra i requisiti del contratto, cfr. G. Alpa, voce Oggetto del negozio giuridico, in Enc.giur.Treccani, XXIV, Roma, 1991, p. 2 ss. 7 Art. 1131: « L’obligation sans cause, ou sur une fausse cause, ou sur une cause illecite, ne peut avoir aucun effet » (lo stesso articolo riguarda oggi i vizi del consenso).

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Unidroit; i Principles of European Contract Law; le Code européen des contrats del progetto Gandolfi; lo stesso Draft Common Frame of Reference) nei quali l’abbandono del requisito causale viene giustificato anche per l’inconciliabilità di causa e consideration.

In realtà, come avverte, tra gli altri, Denis Mazeaud, se dalla “… lettura dei testi [si] rileva che la parola ‘causa’ non appare più, ciò tuttavia non permette di concludere che questa sia puramente e semplicemente scomparsa nel nostro droit positif, e ciò nella misura in cui alcune delle sue funzioni, quelle tradizionali ovvero alcune più moderne, sono conservate o consacrate”8.

A scorrere gli articoli riformati emerge, in effetti, che, a fronte della meticolosa cancellazione di ogni menzione di tale elemento, il ruolo dallo stesso svolto, in prospettiva di volta in volta soggettiva o oggettiva, viene in parte preservato, sia pure affidato ad altre formule e a diversi concetti, dal carattere neutro o altrettanto complesso oppure didascalicamente esplicitato. Se l’art. 1128 sopprime la causa come requisito di validità del contratto (ritenendo sufficienti la volontà delle parti, la capacità e un contenuto certo e lecito), l’art. 1162 legittima un controllo in ordine alla non contrarietà all’ordine pubblico dello “scopo” del contratto, come sostanzialmente già avvenuto in Olanda con la riforma del 19929, a prescindere dalla conoscenza o meno di questo da parte di tutti i contraenti (art. 1162)10. Detto controllo si prospetta possa intervenire anche ricorrendo alla nozione - peraltro ugualmente enigmatica - di “contenuto” del contratto: in tal senso, sancire la nullità di un contratto perché il suo contenuto è contrario all’ordine pubblico non è diverso dal pronunciare la nullità di un contratto viziato da

8 D. Mazeaud, Prime note sulla riforma del diritto dei contratti nell’ordinamento francese, in Riv.dir.civ., 2016, 2, p. 440. Nello stesso senso, G. Chantepie-M. Latina, La réforme du droit des obligations. Commentaire théorique et pratique dans l’ordre du Code Civil, 2° ed., Paris, 2018, p. 232 ss.; A. Fusaro, Gli effetti del contratto nella riforma del Code civil francese, in Riv.dir.priv., 2, 2017, p. 13, secondo cui a fronte della soppressione della causa, “si registra l’introduzione degli artt. 1169 e 1170, i quali avrebbero attitudine a vicariare alcune funzioni del concetto abbandonato”. 9 Codice civile olandese del 1992 , art. 3:40, al: “Un atto giuridico che per il suo contenuto o per il suo scopo è contrario al buon costume o all’ordine pubblico è nullo”. Sull’evoluzione del diritto olandese, si segnala, H. Ankum, La causa del contratto nello sviluppo del diritto olandese fino al nuovo codice civile del 1992, in L. Vacca (a cura di), Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica, Torino, 1997, p. 397 ss.10 Art. 1162: “Le contrat ne peut déroger à l’ordre public ni par ses stipulations, ni par son but, que ce dernier ait été connu ou non par toutes les parties ». Il termine usato è “but”, già evocato, del resto, da Henry Capitant nel 1927, per distinguere la causa dai motivi: H. Capitant, De la cause des obligations (Contrats, Engagements unilatéraux, legs), Paris, 1927, p. 18 ss.

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una causa in contrasto con l’ordine pubblico11. A sua volta, l’art. 1169 afferma che un contratto a titolo oneroso è nullo,

qualora, al momento della sua conclusione, la controprestazione convenuta sia “illusoire ou dérisoire”; il che corrisponde alla regola operativa sviluppata dalla giurisprudenza francese - e nostrana - della nullità per mancanza di causa. Ancora, rileva l’art. 1170 a termini del quale la clausola che priva della sua sostanza l’obbligazione essenziale del debitore è da ritenersi non scritta; regola che nuovamente consacra un indirizzo giurisprudenziale fondato sulla causa12.

Dunque il Code, come scrive Mario Barcellona, “rinuncia alla causa, ma non rinuncia affatto a quel controllo che il giudizio causale implementava…”13. Allora? “Molto rumore per nulla”, per ripetere il titolo di un commento critico alla riforma francese?14. Non proprio.

Il tramonto della causa, sia pure a volerlo ridurre a mera omissione del lemma in un testo legislativo, non è infatti predicato a livello solo progettuale o comunque di soft law, con ricadute meramente ipotetiche sulla disciplina generale del contratto, ma rappresenta l’esito di una precisa opzione che coinvolge non un codice qualunque ma un monumento storico quale il Code Napoléon, che, in materia, aveva raccolto l’eredità di Domat, Pothier, Pufendorf, Grozio, trasferendola poi in molti sistemi di civil law. Una scelta legislativa di per sé dirompente a livello simbolico, strategico, politico15.

La formale cancellazione di tale requisito di validità, d’altra parte, conduce la dottrina a interrogarsi sugli esiti pratici della riforma, rilevando molti che l’affidare a nozioni ugualmente generiche (come quella di “scopo” o “contenuto”) il controllo sulla liceità del contratto, non risolve (o addirittura amplifica) i problemi interpretativi sollevati dalla nozione 11 Così M. Graziadei, Le contrat au tournant de la réforme : les choix du juriste français e le précédent italien, in Revue des contrats, 2015, p. 724; D. Mazeaud, Prime note sulla riforma del diritto dei contratti nell’ordinamento francese, cit., pp. 440-441 ss.; in senso critico, M. Fabre-Magnan, Critique de la notion de contenu du contract, in Revue des Contrats, 2015, p. 639 ss. Dà conto del dibattito, G. Terlizzi, Le nozioni abbandonate : la rivoluzione delle parole nella riforma francese del diritto dei contratti, in Riv.dir.civ., 2017, p. 704.12 Cfr., Cass. Com, 22 ott. 1996, n. 93-18632: Bull. civ. IV, n. 261, la quale, in nome della causa, ha considerato non scritte le clausole limitative del risarcimento che contraddicono l’obbligazione essenziale sottoscritta da parte del debitore professionista; e ciò al fine di proteggere il co-contraente professionale contro le clausole abusive. In proposito, cfr. E. Navarretta, La causa e la rèforme du code civil francese, in Persona e mercato, 2018, p. 33.13 M. Barcellona, Un’altra complessità: l’orizzonte europeo e i problemi della causa, in juscivile, 2016, 5, p. 368. 14 F. Benatti, Note sulla riforma del libro III del codice civile francese: molto rumore per nulla, in Banca, borsa e tit. cred., 2016, p. 627 ss.15 D. Mazeaud, Une nouvelle rhapsodie doctrinale pour une réforme du droit des contrats, in Recueil Dalloz, 2009, p. 1364 ss. Cfr., sul punto, anche G. Terlizzi, op.cit., p. 704.

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di causa, oltretutto senza quel substrato di riflessioni (e applicazioni) sedimentate intorno a quella. Ci si chiede altresì come rendere compatibile la sostanziale ammissione del nudo patto rispetto a un sistema ancora dominato dal principio consensualistico16; quale natura riconoscere al rimedio esperibile in ipotesi di corrispettivo meramente simbolico, a fronte della protezione di interessi che appaiono ristretti alle sole parti del contratto (probabilmente una nullità relativa); ancora, quale sia l’ambito di applicazione della “caducité”, concetto elaborato dalla giurisprudenza con riguardo alla causa e che oggi, recepito negli artt. 1186 e 1187 novellati, viene riferito al difetto sopravvenuto di un elemento essenziale del contratto o di un contratto collegato; si rileva inoltre come sia “mal congegnata” la disposizione in base alla quale nei contratti sinallagmatici (meglio sarebbe stato dire commutativi) l’assenza di equivalenza delle prestazioni non è causa di nullità del contratto (art. 1168), in quanto ignora i contratti aleatori17.

3. La corrente riformista e le vicende della causa nel nostro ordinamento

A prescindere da tali quesiti e dubbi sistematici - cui le future stagioni dovranno necessariamente offrire risposte -, può essere interessante domandarsi se tale corrente riformista che ha investito il Code civil possa in qualche modo riguardare anche il nostro ordinamento, dove, alla stregua dell’art. 1325 n. 2 c.c., la causa è un requisito del contratto (e non dell’obbligazione come era nel Code Civil), da valutare in relazione ai parametri delle norme imperative, dell’ordine pubblico e del buon costume (art. 1343 c.c.).

Allo stato, è evidente - la precisazione appare di certo superflua - che l’interrogativo non riguarda eventuali proposte di rinnovamento legislativo analoghe a quelle d’oltralpe, sulla scorta della stretta comunanza di molteplici atteggiamenti culturali; il nostro codice, del resto, ha quasi 16 E. Navarretta, La causa e la rèforme du code civil francese, cit., p. 32 ss. Sulla riforma, si vedano anche le considerazioni di M. Franzoni, La causa e l’interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, in Persona e Mercato, 2018, p. 54 ss.17 G. Alpa, Réflexions sur le projet français de réforme du droit des contrats, in Rev.int. de droit comparé, cit., p. 893, il quale, oltre a sottolineare l’assenza di un limite al difetto di equivalenza, altresì constata il mancato coordinamento della regola di cui al riformato art. 1170, con i precedenti artt. 1167 e 1168. In proposito, si segnala che nell’Avant-pro-jet Catala, si prevedeva che “Les contracts aléatoires son depourvus de cause lorque, dès origine, l’absence d’alea rend illusoire ou dérisoire pur l’un des contractans la contropartie convenu » (art. 1225-3).

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centoquarant’anni meno del modello francese, ha risentito l’influenza, soprattutto nella tecnica legislativa, di quello tedesco, e offre già regole soltanto ora inserite nel Code civil. Il rischio potrebbe consistere infatti nel predisporre, al fine di adeguarsi precipitosamente al moderno diritto dei contratti, un apparato normativo non ben coordinato e privo di coerenza sistematica (è questa, del resto, la critica che Guido Alpa muove alla novella francese18). Ciò che invece può essere tratto dalle rinvigorite discussioni in ordine al tramonto, alla morte, o alla risurrezione della causa19, come indotte dagli sviluppi normativi in atto in Europa e, in particolare, nella vicina Francia, è un’ulteriore riflessione sul suo attuale ruolo per giustificarne la presenza o, forse meglio, la “sopravvivenza” nel codice civile.

Un richiamo alla storia dell’esperienza giuridica europea potrebbe certamente giovare a ricondurre in una prospettiva meno astratta ed evanescente il discorso sulla causa, in cui è stata racchiusa la distinzione tra promesse vincolanti e non vincolanti, rappresentandola come vestimentum dell’agire dei privati ovvero come razionale giustificazione sia dell’assunzione di obblighi sia, soprattutto, dei trasferimenti di ricchezza connessi alla volontà individuale. Non essendo possibile in queste poche pagine tratteggiare tale percorso, si rinvia agli approfonditi e raffinati studi disponibili in materia20. Appare peraltro opportuno ricordare che la “crisi” di tale nozione o comunque una sua trasformazione significativa, è da noi iniziata già con il codice del 1942, dove la visione unitaria del contratto è venuta a sostituire quella atomistica delle promesse accolta nel codice del 1865 sulla falsariga del Code Napoléon (del quale, significativamente, l’art. 1119 riproponeva il termine “causa dell’obbligazione”). Ciò ha infatti portato una parte degli interpreti a considerare la causa, divenuta requisito del contratto, elemento non più autonomo, bensì assorbito nella nozione di contenuto21; altra parte - ed è stata la maggioranza - a riguardarla quale sintesi degli effetti del negozio, considerati non “oggetto voluto”, ma “funzione” dello stesso (o,

18 G. Alpa, Réflexions sur le projet français de réforme du droit des contrats, in Rev.int. de droit comparé, cit., p. 878 ss.; per l’edizione italiana: Note sul progetto francese di riforma del diritto dei contratti, cit., p. 185 ss. 19 Il riferimento è alle riflessioni di U. Breccia, Morte e resurrezione della causa: la tutela, in Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, p. 241; dello stesso, cfr. altresì, Causa e “consideration”, in Riv.dir.priv., 2007, p. 575 ss. Si veda altresì, A. Di Majo, I principi dei contratti commerciali internazionali dell’Unidroit, in Contratto e impresa/Europa, 1996, p. 292. 20 Per tutti, cfr. A. D’angelo, Promessa e ragioni del vincolo. I. Profilo storico e compara-tistico, Torino, 1992. 21 Per tale atteggiamento anticausalista, cfr., tra gli altri, G. Giorgi, Teoria delle obbliga-zioni, 7° ed., Firenze, III, 1907 n. 445.

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meglio, come funzione tipica dell’atto appartenente a quel tipo)22. Il che, incentrando l’attenzione sul contratto e non più sulla promessa, ha condotto la nozione a intraprendere una strada diversa e più complessa, divenuta nel tempo sempre meno limpida.

A un decennio dall’entrata in vigore del nuovo codice civile merita un cenno anche per l’impostazione storico-comparativa adottata, il celeberrimo studio di Gino Gorla23, il quale, sotto l’etichetta del modello di civil law, ha registrato la contiguità fra gli atteggiamenti francesi e quelli italiani, riconoscendo in entrambi la tendenza a richiedere, per la rilevanza giuridica di un contratto, una “causa sufficiente”, ossia una ragione adeguata all’impegno; rispetto al modello francese si trovano peraltro regole concrete - l’astrazione processuale, il numero chiuso delle promesse unilaterali, l’accessorietà della fideiussione - in funzione di tutela dell’interesse del promittente. Per l’illustre autore, nei contratti di scambio ovvero in quelli che implicano una controprestazione, la causa onerosa, intesa come “interesse alla promessa”, è idonea a sostenere l’impegno preso (senza richiedere un rapporto di adeguatezza tra le prestazioni, salvo colpire ipotesi estreme di squilibrio); per le promesse di dare a titolo gratuito è richiesta invece la forma solenne dell’atto pubblico o la traditio (per accertare la volontà di obbligarsi). In definitiva, per Gorla i requisiti della causa e della forma hanno solo la funzione di accertare la ponderatezza della manifestazione di volontà. Queste riflessioni sono state poi sviluppate da Rodolfo Sacco24, il quale ha cercato di contrastare la sempre più estesa nebulosità del formante dottrinale, attraverso un approccio realistico, rifacendosi al concetto di causa in concreto e registrando le molteplici regole in cui si articola il principio causalistico. Analizzando le soluzioni privilegiate, Sacco identifica il concetto di causa nella promessa interessata, precisando che laddove i sacrifici siano reciproci la causa cessa di essere un problema; fuori dei contratti interessati e di quelli con funzione di garanzia o pagamento, l’atto formale (come nella donazione) o la traditio (come nel comodato) suppliscono il difetto di causa.

22 R. Sacco, Temi generali, in R. Sacco - G. De Nova, Obbligazioni e contratti, Torino, 2018, IV ed., p. 305 ss. 23 G. Gorla,Il contratto: problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casi-stico, Milano, 2 vol., 1955. 24 R. Sacco, Temi generali, cit., p. 307 ss.

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4. Il multiforme ruolo della causa nella dottrina e nella giurisprudenza

Il ricordo di tali letture, chiare e consapevoli della storia e delle diverse esperienze giuridiche, segnala la distanza - e non solo per ragioni temporali - delle attuali concezioni di quanti discettano sul ruolo insostituibile della causa, a fronte dell’orientamento anticausalista che ne afferma la raggiunta inutilità, esibendo il sistema altri strumenti, meno vaghi ed incerti, per sostenere gli impegni presi e per operare il controllo sull’autonomia privata, alla luce delle norme imperative, dell’ordine pubblico e del buon costume. La numerosità dei diversi ruoli alla stessa assegnati non giova certo alla chiarezza: di volta in volta essa è considerata strumento per individuare lo scopo pratico perseguito dai contraenti; canone di interpretazione e qualificazione del contratto; criterio di adeguamento del contratto in relazione alle circostanze sopravvenute; mezzo per valutare il merito dell’accordo - correggendone o integrandone il contenuto - ovvero per sindacare la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti. A prescindere dall’elenco dei differenti compiti (e dal relativo commento), l’atteggiamento di una parte degli studiosi appare caratterizzato da un dato significativo (o comunque genera una tale impressione). Viene costantemente ribadito che l’attuale impostazione ha definitivamente abbandonato quella connotazione ideologica della causa che, agli albori del nuovo codice del ’42, funzionalizzava l’autonomia privata al perseguimento di interessi coerenti con quelli generali; nondimeno, sottilmente riemerge, sia pure in altra veste, l’idea della “funzione”: del singolo e isolato contratto, non più riguardato alla luce dello schema astratto predisposto dal legislatore (è questa, più o meno, la configurazione della “causa concreta”), si prospetta infatti un controllo basato su princìpi, quale la congruità o proporzionalità degli scambi, che consentono di incidere sull’attività dei privati, magari nell’ottica di realizzare un “contratto giusto”. In tal senso, è esemplare la tesi che vede nella “causa” una clausola generale dell’ordinamento giuridico, dal ruolo simile a quello oggi sempre più assegnato alla “buona fede”, il cui contenuto è letto nel segno di finalità espresse da “valori”25.

Quanto alla giurisprudenza essa fa ampio uso della “causa”, rivestendola con le differenti formule elaborate nel tempo dalla dottrina: prima la bettiana “funzione economico-sociale” dell’atto di autonomia privata26; poi

25 R. Rolli, Il rilancio della causa del contratto:la causa concreta, in Contratto e impresa., 2007, p. 416 ss. 26 E. Betti, Teoria del negozio giuridico, in Tratt.Vassalli, Torino, 1960, p. 170 ss.

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la “funzione economico-individuale”, coniata da Giovanni Battista Ferri27, oggi divenuta “causa concreta”, espressione fortunatissima, come ci ricorda Enzo Roppo28. Di là dalle massime stereotipate, la fonte giurisprudenziale, potendo accedere alla molteplicità e flessibilità di significati assegnati al termine “causa” nell’accumulo dei decenni e nel mutarsi delle premesse ideologiche, esibisce anch’essa, al pari della dottrina, applicazioni variegate, talora contraddittorie oppure esorbitanti se non errate (esemplare l’analisi critica offerta in tal senso da Enzo Roppo), che non di rado conducono, come auspicato o più spesso “registrato” dalla dottrina, a sindacare le pattuizioni negoziali alla luce di supposte esigenze di “giustizia” o per garantire la “congruità” degli scambi. Si tratta, in altre parole, di pronunce non sempre facilmente riconducibili a percorsi decisionali univoci, le quali, per ciò stesso, veicolano incertezze del diritto che finiscono per tradursi in costi, soprattutto per gli operatori economici. Della causa (o meglio, della “causa concreta”) anche la giurisprudenza offre una lettura di volta in volta oggettiva o soggettiva (così stemperando il riferimento al modello tipologico); la collega ad eventi sopravvenuti alla conclusione del contratto che ne rendono impossibile la realizzazione in concreto, con conseguente dichiarazione di nullità dello stesso29; su di essa direttamente o indirettamente fonda il giudizio di meritevolezza di cui all’art.1322 c.c., declinato nell’ottica delle finalità socialmente non dannose o non contrastanti con l’utilità sociale, con conseguente declaratoria della nullità del contratto (esito già peraltro raggiungibile anche ricorrendo ai principi di ordine pubblico)30; ad essa si rifà per sindacare il preteso equilibrio tra le prestazioni (desumibile sulla base dei parametri costituzionali offerti, in particolare, dall’onnipresente art. 2), pur prescindendo dal diverso potere 27 G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966.28 V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv.dir.civ., 2013, p. 957 ss.29 E. Gabrielli, Causa in concreto e patti parasociali, in Giur.it., 2014, 7, 1613.30 G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 355: “i criteri dei quali l’ordinamento si avvale per la valutazione della meritevolezza dell’interesse sono quelli enunciati dall’art. 1343 c.c.: norme imperative, ordine pubblico, buon costume. Soltanto quando l’interesse perseguito con il contratto sia contrario a siffatti principi, l’interesse non è meritevole di tutela”; nello stesso senso, R. Sacco, voce Interesse meritevole di tutela, in Dig.disc. priv. – sez.civ. Agg. V, 2010, p. 783, secondo il quale la giurisprudenza avrebbe adoperato l’art. 1322 c.c. “come puro schermo, per colpire contratti visibilmente contrari ai buoni costumi o altrimenti viziati”. V. altresì A. Guarneri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, in Riv.dir.civ., 1994, I, p. 799, il quale propone una lettura abrogativa della norma di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c. In tale ottica, può essere anche letta la recente pronuncia della Cassazione del 31 luglio 2017, n. 19013, in tema di contratti derivati.

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negoziale delle parti. La ricchezza di significati attribuiti al termine causa incide, dunque, sul

formante giurisprudenziale, accrescendo la discrezionalità delle decisioni, fino anche a prospettare un “governo giudiziario del contratto”, come sostanzialmente affermato in una pronuncia della Cassazione31.

Perciò forse non stupisce che laddove le esigenze di certezza appaiano più forti, come per i contratti del commercio internazionale, i Principi Unidroit espungano la causa dagli elementi del contratto, in quanto percepita (lo ricorda Joachim Bonell nel suo libro esplicativo) come fonte di litigi vessatori ed inutili32. L’art. 3.2 dispone, infatti, che “Un contratto è concluso, modificato o sciolto con il semplice accordo delle parti, senza bisogno di altri requisiti”33; ciò anche significa che, nell’ottica del mercato, l’agire interessato, la ragione utilitaristica, alla base degli scambi, può dirsi ormai insita nel volere delle parti34 (come se la promessa interessata fosse già di per sé vincolante, non per legge di natura come direbbe Grozio35, ma secondo la lex mercatoria), purché il consenso sia espresso in modo consapevole e non condizionato (ma ciò aprirebbe un altro interessante capitolo del moderno diritto dei contratti) e finché le parti vogliano che duri. In tal senso, può anche spiegarsi, come suggerisce una dottrina straniera, la ragione per cui, a fronte di indirizzi giurisprudenziali non univoci dei giudici supremi, nel nuovo codice civile olandese del 1992 la nozione di causa non compaia tra gli elementi essenziali del contratto36.

Verrebbe così da pensare che la riforma francese, la quale anche in tema di causa si dice ispirata, come già sopra evidenziato, alle soluzioni offerte dalla giurisprudenza altrettanto ricca e variegata quanto la nostra - D.Mazeaud afferma che essa ha inteso imprimere “nel marmo del Code

31 Cass,, 11 febbraio 2005, n. 2855, in Contratto e impresa, 2005, p. 501, con nota di M. Baraldi, Il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, che parla, appunto, di “governo della discrezionalità nell’esecuzione del contratto”. 32 M.J. Bonell, An International Restatement of Contract Law. The UNIDROIT Principles of International Commercial Contracts, New York, 1994, p. 73.33 L’esclusione del requisito causale non impedisce, peraltro, alle parti di reintrodurlo, come sembra consentire l’art. 3.19. 34 M. Barcellona, Un’altra complessità: l’orizzonte europeo e i problemi della causa, cit., p. 364 ss.35 U. Grozio, The Jurisprudence of Holland, trad. Di Lee, Oxford, 1926, L. III, cap. I, n. 109 e cap. II, n. 46. In proposito, cfr. A. D’angelo, Promessa e ragioni del vincolo,. I, Profilo storico e comparatistico, cit., p. 133. 36 H. Ankum, Le causa del contratto nello sviluppo del diritto olandese fino al nuovo codice civile del 1992, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica, cit., p. 397 ss.

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civil una serie di regole create dalla Cour de Cassation”37 -, con l’eliminare tale requisito dagli elementi essenziali del contratto, con il cristallizzare alcune soluzioni basate sullo stesso, abbia inteso (o finisca per) disarmare i giudici di uno strumento dagli utilizzi incerti, offrendo al contempo regole specifiche e circoscritte (quasi a voler implicitamente riconfermare la preminenza della legge sulla giurisprudenza fonte del diritto). Laddove i giudici riguardavano nella prospettiva della mancanza di causa il difetto di equivalenza - almeno tendenziale - del sinallagma, discettando - come i nostri - sull’entità del corrispettivo, oggi l’art. 1169 dispone, come già detto, la nullità del contratto a titolo oneroso, qualora, al momento della sua conclusione, la controprestazione convenuta sia “illusoire ou dérisoire”. Soluzione, a ben vedere, non distantissima dall’idea, sottesa alla nozione di “consideration”, che solo lo scambio o comunque la formale corrispettività sia il fondamento della vincolatività della promessa (in common law, come è noto, le parti non si possono vincolare senza scambiarsi alcunché, benché, nell’ottica tradizionale, anche un centesimo o un granello di pepe - si tratta della celebre “peppercorn theory”- può costituire “consideration”). Alla luce di tale disposizione, la teoria sulla congruità/proporzionalità delle prestazioni apparirebbe assai ridotta nei suoi spazi operativi38.

5. Considerazioni conclusive

In questa prospettiva, la questione della “causa” sembrerebbe pertanto incentrarsi non solo sui mezzi a disposizione, ma anche sull’uso degli stessi laddove suscettibili di significati variegati e, quindi, sui modelli concettuali/ideologici che guidano il controllo sulla serietà degli impegni e, in senso lato, sull’autonomia privata. E’ evidente che se la dottrina predica che la certezza del diritto non rappresenti più un valore, qualunque imprevedibile soluzione giudiziale finisce per essere rappresentata come arricchimento, dal basso, del variegato e pulsante mondo del diritto, con buona pace degli

37 D. Mazeaud, Prime note sulla riforma del diritto dei contratti nell’ordinamento francese, cit., 434.38 L. Pontiroli, Morte e trasfigurazione della causa (ed altre catastrofi) nel code civil, cit., pp. 1254-1255, ritiene invece che la norma “fornisca al giudice maggiori occasioni d’intervento sul contenuto del contratto”. Cfr., sul tema del “prezzo”, L. Klesta, La determinazione del prezzo nel contratto: una riflessione alla luce della recente riforma francese, in. Riv.dir civ., 2018, p. 90 ss.

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C. Tenella Sillani

operatori economici tendenzialmente avvezzi ai soli rischi calcolabili39. Come già adombrato in premessa, il panorama offerto dal moderno

diritto dei contratti a livello europeo e, in particolare, dalla riforma del Code Napoléon, esibisce un orientamento differente da quello ancora prevalente nel nostro ordinamento in tema di causa: viene infatti affidato a criteri diversi da tale controversa nozione il compito di selezionare le promesse vincolanti, perché serie e meditate, da quelle inidonee a far conseguire l’assunzione di obblighi (esemplare, in tal senso, anche il diritto di pentirsi - di fonte comunitaria - riconosciuto ai consumatori in una serie di contratti che sfruttano, come quelli conclusi fuori dei locali commerciali, la poca ponderazione; oppure l’elenco delle clausole vessatorie contenute nei contratti dei consumatori, la cui nullità consente un equilibrio sostanziale a fronte di impegni imposti e non contrattati). D’altra parte, le esigenze di protezione del contraente non professionista vengono sempre più veicolate dal formalismo negoziale, il quale, come insegnano Gino Gorla e Rodolfo Sacco, supporta tradizionalmente l’assenza di causa o finisce per restringerne l’area di operatività40. Ancora, una - quantomeno presupposta - nozione unitaria di causa del contratto non sembra più corrispondere alle diverse propensioni di rischio delle differenti categorie di contraenti (come mostra l’esempio dei Principi Unidroit); mentre gli interessi dei soggetti meno attrezzati esigono chiari interventi legislativi più che variegate decisioni giudiziali, anche al fine di impedire, come direbbe Luigi Mengoni, che “siano rimesse continuamente in discussione…soluzioni già collaudate dall’esperienza”41. Vi è poi l’ampia categoria dei contratti amministrati dalle autorità indipendenti, che evidentemente prescindono dalle discussioni in tema di causa. Occorre, d’altra parte, altresì riflettere sulla disciplina dei rimedi, laddove il modello della nullità codicistica, connesso alla mancanza o al difetto della causa, può risultare meno efficiente rispetto alla annullabilità o alla nullità relativa.

Se si è avvertiti di ciò, se si è consapevoli della frammentazione del diritto, ma, al contempo, della necessità di regole “calcolabili”, è inevitabile che ci si chieda “se sia davvero utile il persistente ricorso ad una formula così consolidata nella dogmatica e nella prassi, così ricca di tradizione storica e di potere evocativo, ma anche tormentata da esasperazioni ed equivoci concettuali e

39 N. Irti, Un diritto incalcolabile, in Riv.dir.civ., 2015, p. 11 ss. Id., Calcolabilità webe-riana e crisi della fattispecie, ivi., 2014, p. 987 ss.40 A. Gambaro, Sintesi inconclusiva in tema di causa e contratto, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica, cit., p. 571.41 L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica - Saggi, Milano, 1996, p 52 ss.

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La riforma francese del diritto dei contratti e il destino della causa

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da promiscuità terminologiche”42. Ripetendo il giudizio di Gerardo Broggini, si può affermate, in definitiva, che “Per l’eccesso di senso, per la eterogeneità di significati, per la sovrapposizioni di funzioni ormai assunte da altri strumenti contrattuali, la nozione di causa è destinata a scomparire quale elemento normativo autonomo del contratto e dell’obbligazione in genere”43.

Oggi, in ogni caso, la causa è ancora presente nel nostro codice civile e, probabilmente, resterà ancora negli anni a venire quale requisito essenziale del contratto. L’auspicio è che la giurisprudenza tutta e quella dottrina che ne celebra i fasti creativi siano maggiormente consapevoli dei rischi insiti nella incertezza che le impostazioni più sopra riassunte possono determinare; che cioè siano avveduti ed attenti interpreti del diritto contemporaneo, come insegna Guido Alpa.

42 A. D’Angelo, Contratto e operazione economica, Torino, 1992, p. 189.43 G. Broggini, Causa e contratto, in Causa e contratto nella prospettiva storico-compara-tistica, cit., p. 31. Evidenzia l’impossibilità di ridurre l’istituto “ad una soglia di intelligi-bilità e fruibilità accettabile, per le difficoltà di individuare un comune denominatore di significati, per le ambiguità degli usi promossi da dottrina e giurisprudenza”, G. Alpa, L’uso giurisprudenziale della causa del contratto, in Nuova giur.civ.comm., 1995, II, p. 1.

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Fabio Toriello

Prodotti, consumatori e mercato. Un percorso tra diritti interni ed armonizzazione europea

Sommario: 1. Responsabilità da prodotto difettoso e scienze sociali – 2. Responsabilità da difetto e obblighi di diligenza – 3. La sicurezza dei prodotti nel diritto comunitario – 4. Natura della responsabilità – 5. Responsabilità da prodotto difettoso e danno non patrimoniale – 6. Il danno non patrimoniale nella dimensione europea – 7. I periodici rilevamenti della Commissione a seguito delle attuazioni nazionali: equilibrio del mercato vs. “cultura del risarcimento” – 8. Controllo ex-post e giudizi europei – 9. Consumatori e illeciti antitrust – 10. Valori tutelati, rimedialità del risarcimento e regolazione del mercato.

1. Responsabilità da prodotto difettoso e scienze sociali

Il capitolo relativo alla responsabilità del produttore, immancabile nelle trattazioni in materia di responsabilità civile, si pone in posizione centrale anche nell’ambito della disciplina del mercato dei prodotti industriali, per gli evidenti legami che il fenomeno dei danni connessi al processo produttivo presenta con la società dei consumi di massa. Gli studi dedicati al tema rivelano quanto sia fruttuosa per la sua più profonda comprensione la considerazione di profili emergenti dalle scienze sociali intese in modo allargato e multidisciplinare, dalla sociologia dei consumi1 alla scienza economica2. Il tema costituisce poi uno dei cardini sui quali ruota il dibattito circa la ricostruibilità di una categoria unitaria di responsabilità di impresa3.

1 Cfr. già G. Alpa- M. Bessone- U. Carnevali- G. Ghidini, Il consumatore e l’Europa, Milano, 1979, p. 95; G. Alpa - M. Bessone – V. Roppo, Una politica del diritto per la pubblicità commerciale, in Riv. Dir. Comm., 1976, I, p. 345; M. Bessone- F. Oriana- V. Roppo, Dal codice di lealtà pubblicitaria al controllo “amministrativo” dell’advertising, Ipotesi di un progetto di disciplina giuridica della pubblicità commerciale, in Giur. It. 1974, IV, 184.2 Nella “convinzione che quando nel mondo del diritto penetrano concetti tratti dall’economia ci si deve aspettare che si trasformino con il trasformarsi delle tecniche di organizzazione economica” G. Alpa, La responsabilità d'impresa nel terzo millennio, in G. Alpa- G. Conte (a cura di), La responsabilità d'impresa, Milano, 2015, p.5.3 “La ricostruzione (e la stessa categoria) di responsabilità d’impresa è stata criticata in

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F. Toriello

L’argomento investe poi il rapporto tra codificazione e leggi speciali4. Le trattazioni del tema non ignorano, infine, la ricostruzione delle

esperienze nazionali precedenti la direttiva europea del 1985, anche nella consapevolezza dei debiti culturali della teoria del rischio come criterio di imputazione della responsabilità nei confronti dei valori sociali e politici del socialismo giuridico italiano e francese di fine ottocento5.

particolare da due punti di vista: uno, logico formale, e l’altro, di politica del diritto. Da un lato si sottolinea che la responsabilità di impresa, intesa come strict liability, non risponde alla funzione essenziale della responsabilità civile, volta a sanzionare l’illecito; sì che nel presentare lo sviluppo complessivo della tort law negli Stati Uniti si preferi-sce accostare la strict liability alle attività straordinariamente pericolose e assegnare alla product liability uno spazio a sé. Dall’altro lato, privilegiando la prospettiva liberista, si critica la astrazione dei giudizi dalle esigenze dell’economia, in un sistema che dovrebbe essere regolato da principi di diritto privato negoziati dagli operatori del mercato”, cosic-ché la creazione di una categoria generale di enterprise liability sarebbe contraria all’idea liberale/liberista di affidare la materia a regole singole, concepite e negoziate volta per volta dagli attori sul mercato; considerazioni che sembrano potersi estendere alle tenden-ze che ci paiono caratterizzare il diritto della responsabilità civile dell’impresa nell’ambito del diritto europeo armonizzato: cfr. op. ult. cit. p. 18. E la conclusione sembra dunque dover essere quella per cui “non c’è un’aggregazione, meglio, una agglutinazione di tutte le ipotesi di responsabilità speciale riconducibili all’impresa, non c’è in altri termini una equiparazione tra responsabilità d’impresa e responsabilità per rischio o responsabilità oggettiva. A cominciare dalla responsabilità del fabbricante, in cui le scelte del diritto comunitario, volendo contemperare interessi delle imprese e interessi dei danneggiati (nella gran parte dei casi consumatori) hanno optato per una responsabilità oggettiva attenuata”: G. Alpa, op. ult. cit., p. 68; v. altresì G. Conte, Responsabilità sociale d’impre-sa, in G. Alpa- G. Conte, op. cit., p. 791 e ss.; nonché gli scritti raccolti in G. Conte ( a cura di), La responsabilità sociale dell’impresa , Roma- Bari, 2008.4 E per quanto riguarda il diritto interno vedi la considerazione per cui, trovandosi le regole sulla responsabilità di impresa frazionate nel codice civile per quanto riconducibili allo schema della responsabilità oggettiva, “in tutti questi casi, al di là dell’ambito specifico in cui la disposizione è collocata e quindi della particolare attività che si contempla, queste ipotesi sono considerate tipiche non dell’attività d’impresa ma della responsabilità oggettiva, la responsabilità senza colpa in senso moderno che si è venuta costruendo alla fine dell’ottocento”, in tale categoria ricomprendendosi le regole di responsabilità volte a tutelare la proprietà, poi l’industria, e più di recente i consumatori, l’ambiente, gli interessi diffusi ed il mercato: ancora G. Alpa op ult. cit. 19.5 V. anche la considerazione secondo cui “anche all’interno di tendenze fondate su categorie dogmatiche vecchie di secoli si registrano dunque spinte rivolte a realizzare una disciplina della responsabilità più adeguata alle società a capitalismo avanzato”: G. Alpa, op. ult. cit., p. 11; in argomento v. poi G. Alpa – M. Bessone, La responsabilità civile. Illecito per colpa, rischio di impresa, assicurazione, Milano, 1976. Nonché la prima edizione, sempre del 1976, de La responsabilità del produttore, con capitoli dedicati all’esperienza tedesca, francese e di common law; la seconda edizione, 1980, e la terza, del 1987, si arricchivano di aggiornamenti relativi alle stesse esperienze nazionali nonché al progetto di direttiva

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Prodotti, consumatori e mercato

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2. Responsabilità da difetto e obblighi di diligenza

“…si tratta però di modelli di responsabilità diversi tra loro che hanno un’origine comune, il diritto dell’Unione Europea. Ambiente, consumatori, concorrenza sono infatti i valori contemplati dalla Carta dei diritti fondamentali, dal trattato fondativo dell’Unione, sono oggetto di regolamenti e direttive comunitarie, di normative statuali introdotte in applicazione di quei principi e di quelle disposizioni, talvolta aggiornando e modificando normative o regole giurisprudenziali preesistenti” 6

Com’è noto, la direttiva del 1985 esonera il produttore da responsabilità per assenza del presupposto rappresentato dal difetto (non perché il prodotto abbia funzionato bene, ovviamente, ma) quando l’uso di ragionevole destinazione non fosse tale da richiedere un livello di sicurezza maggiore (art. 6.1.b). Ciò ha l’effetto di focalizzare il giudizio sul punto di vista del produttore al momento della fabbricazione e della messa in circolazione nella prospettiva delle sue previsioni di commercializzazione. La sua previsione di destinazione, se ragionevole, lo scagionerà da responsabilità per danni pur presentatisi in un successivo momento. La norma di responsabilità sembra dunque spuria, e potrebbe porsi il dubbio se essa contenga due componenti: quella che riconduce la regola di responsabilità al modello oggettivo basato sulla sola causalità, accanto ad una regola secondaria impositiva di un “obbligo di ragionevole previsione dell’uso di destinazione”. Il produttore deve dunque, nell’ambito del regime dettato dalla direttiva, usare una certa misura di diligenza quando fabbrica e commercializza, pensando alle conseguenze future della propria impresa?

Se ci si pone alla ricerca nell’ordinamento interno di norme che incarnino un’impostazione di questo genere, innanzitutto la disposizione di apertura del capo dedicato all’inadempimento detta il presupposto di responsabilità costituito dalla mancata o ritardata esecuzione, mentre nella norma (o clausola, a seconda delle impostazioni teoriche) generale in tema di illecito il presupposto della responsabilità è dato dalla sequenza fatto colpo/doloso, causalità, danno ingiusto. Come pure noto, interviene a questo punto del giudizio di responsabilità la regola causale quale filtro di risarcibilità del danno: affermare che non si risarciscono danni-conseguenza indiretti e mediati significa porre un primo argine al rischio di dover risarcire sempre e comunque7, ma si tratta appunto di filtro causale, non

comunitario, analizzato poi nel dettaglio, anche con riguardo alle relative attuazioni nazionali.6 Cfr. G. Alpa La responsabilità d’impresa, cit., 31. 7 Dal tenore letterale dell’art. 1223 c.c. (che postula la distinzione concettuale tra un evento

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basato su di una valutazione della diligenza del debitore/danneggiante. Secondo una ricostruzione accreditata, il primo dei tre elementi in cui si può concettualmente suddividere la nozione di danno (il “fatto fonte”, nella terminologia di Gorla8) non è disciplinato, ma è dato per presupposto nell’ambito dell’art. 1223 c.c., che invece si occupa di disciplinare la responsabilità per i c.d. danni/conseguenza, così come è dato per presupposto dalle altre norme di responsabilità: quella in tema di inadempimento di obbligazioni (art. 1218 c.c.), quella in tema di responsabilità per dolo, per colpa (art. 1225 c.c. ) e per rischio. E così, premessa la distinzione tra danno/evento e danni/conseguenza, si ritiene in maggioranza che la valutazione causale intervenga in due momenti: il primo corrispondente alla cd. “causalità in fatto”:9 in cui occorre stabilire quale danno sia stato causato da chi a fini di imputazione della responsabilità, e tale valutazione- rispetto ai criteri di responsabilità in vigore- va svolta in relazione alla violazione dell’obbligo di diligenza ex art. 1218 c.c. e 2043 c.c. (chiedendosi chi lo

negativo quale la “perdita subita” e le sue ulteriori derivazioni causali quali il “mancato guadagno”) la dottrina maggioritaria ha trovato conforto per sostenere la differenza tra danno-evento e danno-conseguenza: cfr. C.M. Bianca, La responsabilità, Milano, 1994, 109 e ss.; C. Rossello, Il danno evitabile, Padova, 1990, 11 e ss; ma v. anche Corte cost.184/1986 e Corte cost.372/1994 ove si è rilevato che “la prova della lesione è in re ipsa prova dell’esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell’integrità fisica psichica difficilmente si può guarire in modo perfetto)” mentre una tale prova non è necessariamente sufficiente ai fini del risarcimento poiché “è sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere commisurato”. La distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza è riconosciuta in giurisprudenza anche in materia di inadempimento contrattuale; per esempio Cass. 26 luglio 2017, n.18392, in Foro it., 2017, I, p.3358 Ma, come si sa, la dottrina ha potuto distinguere anche più finemente tra: i) comportamento o evento primo (o “fatto fonte di responsabilità”, inteso come formula di sintesi concettuale per tutta la serie di micro-fatti ed eventi virtualmente scomponibili in misura atomistica: cfr. G. Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica: “fatto dannoso e conseguenze”, in Riv. Dir. Comm, 1951, I, p. 405); ii) danno, nel senso di prima conseguenza fisico/naturale, e iii) danno nel senso di conseguenze dannose successive. Favorevoli alla tripartizione P. Rescigno, Libertà del “trattamento” sanitario e diligenza del danneggiato, in Studi Asquini, vol. IV, Padova, 1965, p. 1637; F. Realmonte, Il problema del rapporto di causalità, Milano, 1967, p.154; V. Carbone, Il fatto dannoso nella responsabilità civile, Napoli, 1972, p.327; F.D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964; C. Salvi, Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, Napoli, 1985, p.49; R. Scognamiglio, voce Risarcimento del danno, in Nss. Dl, 1969, p.13; in posizione minoritaria P. Forchielli, Il rapporto di causalità nell’illecito civile, Padova, 1960.8 Ma v. anche E. Pacifici Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, Torino, 1927, p. 484.9 Cfr. C. Salvi, voce Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p.1250.

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Prodotti, consumatori e mercato

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abbia violato) ed art. 1227/2 (per chiedersi qui se sia stato il danneggiato a porre in essere una condotta imprudente concausante il danno); ed il secondo e distinto momento, in cui occorre invece chiedersi quali danni/conseguenza siano risarcibili rispetto ad un criterio causale spesso designato come “causalità giuridica” 10 che esclude dal novero dei danni risarcibili quelli che non siano “conseguenza immediata e diretta” ex art. 1223 c.c. La seconda fase del ragionamento causalistico ha funzione di selezione dei danni risarcibili, accanto ad altre due norme che assolvono analoga funzione di filtro: in materia contrattuale non sono risarcibili i danni, causati senza dolo, imprevedibili (art. 1225 c.c.)11, e non sono risarcibili i danni –pur causati dal danneggiante- evitabili dal danneggiato con la ordinaria diligenza (ex 1227/2 c.c.); norma, quest’ultima, ispirata ad un principio generale di correttezza12, o al principio solidaristico13, all’obbligo di salvataggio ed al dovere di protezione 14 e ancora all’obbligo di correttezza che governa il 10 Cfr. ancora C. Salvi, ult. loc. cit.11 Cfr. R. Pucella, La causalità incerta, Torino, 2007, pp.272-273; v. S. Patti, Pena privata, in F.D. Busnelli- S. Patti, Danno e responsabilità civile, Torino, 2003, p.247, ove la colpa del danneggiato non è comunque vista come parametro diretto di quantificazione del danno ma come criterio di ripartizione del suo ammontare “determinato senza alcun riferimento alla gravità della colpa- tra danneggiante e danneggiato, mediato dal giudizio sull’eziologia tra comportamenti e danno-conseguenza”; C. Rossello, Il danno evitabile, cit., p. 26; P. Trimarchi, Causalità e danno, cit., p. 7; v. peraltro la lettura eterodossa della disposizione, da parte di C. Castronovo, Le due specie della responsabilità civile e il problema del concorso, in Europa dir. priv., 2004, p. 109.12 Che da alcuni si fa risalire al dovere generale costituzionale di solidarietà, che impone al creditore l’obbligo positivo “di cooperare per ridurre e limitare la responsabilità del danneggiante” (C.M. Bianca, La responsabilità, cit., p.143), ovvero “il dovere- positivo- di buona fede in capo al creditore, funzionale ad evitare (od attutire) i possibili esiti dannosi di azioni riferibili a terzi “(R. Pucella, op. cit., p. 243, nota 164), e “di tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno” (TAR Puglia, 16.5. 2012, n.943); Cass.20.21984, n.1203, in Arch.civ., 1984, p. 864; Cass.13.12.1980, n.6430, in Foro it., 1981, I, p. 1339; Cass.7.4.1983, n.2468; 13 Cfr. G. Alpa, Il problema della tipicità dell’illecito, cit., p.127-176; Id., Colpa omissiva e principi di responsabilità civile, in Giur. it., 1979, I, 1, p. 1366; P. Trimarchi, voce Illecito, in Enc. Dir., XX, Milano, 1970, p. 99-100; per C. Rossello, op. cit., p. 62, “la condotta positiva consiste precisamente nell’imporre il dovere giuridico del danneggiato di uniformarsi ad un comportamento attivo e premuroso degli altrui interessi”; mentre in giurisprudenza ricorrono i richiami ai principi di buona fede, di correttezza e di interesse sociale (Cass.15.7.1982, n.4174; Cass. 26.21979, n.1264; Cass.13.11.1978, n.5201; Cass.27.5.1977, n.2179; Cass.sez. lavoro 27.9.1985, n.4719, in Foro it., 1986, I, p.999; Cass.20.21984, n.1203, in Arch.civ., 1984, p.864; App. Torino 27.4.1960, in Giust. civ. 1960, I, p.1243).14 Cfr. C. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, p. 123; G. Benatti, Osservazioni in tema di “doveri di protezione“, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 1342; A. di Majo, Delle obbligazioni in generale, Scialoja- Branca, 1988, p. 121 e ss;

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giudizio sul comportamento del debitore ex art. 1175 nonché in base ad altri indici legislativi (1180, 1181, 1185/1)15.

Ecco dunque un’indicazione utile ai fini del discorso introdotto in esordio di paragrafo: la norma-filtro in tema di risarcibilità del danno non impone direttamente un dovere di agire (o meglio: non è questa la norma che lo impone) ma si limita a sancire l’esclusione del risarcimento per il caso in cui il danneggiato non si attivi, potendo (non: dovendo) farlo, quando tale possibilità rientri e non sorpassi una misura media, normale, ordinaria, di diligenza16. Il quadro di diritto interno offre dunque un paradigma (nell’assenza di paradigmi di diritto privato europeo) nel quale l’obbligo di diligenza senz’altro sussiste, ma prima ed al di fuori delle regole di responsabilità17.

L. Mengoni, Obbligazioni“ di risultato“ e obbligazioni“ di mezzi“, in Riv. dir. comm., 1954, 1, p.185 e ss.; G. Visintini, La responsabilità contrattuale per il fatto degli ausiliari, Padova, 1965, p.45. 15 Cfr. S. Rodota’, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 110; U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, 1, p. 10; U. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, p. 55; M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, cit., p.348; L. Nanni, La buona fede contrattuale, Padova, 1988, p.269; F. Carusi, voce Correttezza, in Enc.dir., X, Milano, 1962, p.710; L. Rovelli, voce Correttezza, in Dig. It., sez.civ., IV, Torino, 1989, p. 425; G. Alpa, Pretese del creditore e normativa di correttezza, in Riv. dir. comm., 1971, 2, p.277. Per un’estensione dell’area di applicazione dell’art. 1175 c.c. alle fasi precontrattuali cfr. Cass. 12.7.2016, n.14188, in Foro it., 2016, I, 2685, e in motivazione a p.2694-5.16 Specificamente sul tipo di condotta richiesta ai fini dell’applicazione della norma sul contributo colposo cfr. Cass. SS. UU. 21.11. 2011, n.24406. C. Rossello, op. cit., p.58; V. Carbone, Il fatto dannoso, cit., p.335; nello stesso senso anche A. De Cupis, I fatti illeciti, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna- Roma, 1971, I, p. 263; nello stesso senso Cass.24.1.1972, n.178, in Giust.civ.1972, 1,705; Cass.11.5.1973, n.1269; Cass.25.3.1961, n.681, in Giust.civ., 1961, 1, p.978; Cass.25.21959, n.535, in Giust.civ., 1959, I, p.617; Cass. 29.10.1973, n.2826.17 Si è peraltro anche sostenuto che i canoni di “correttezza” e “buona fede” costituirebbero il contenuto flessibile dell’obbligo mentre la “diligenza” opererebbe sul diverso piano della valutazione a posteriori del comportamento del debitore, e dunque quale criterio di responsabilità: S. Rodota’, voce Diligenza (dir. civ.) in Enc. dir., XII, Milano, 1964: la relazione al Codice civile “è chiarissima (n. 559) nell’indicare l’art. 1176 come la sede della disciplina della misura del comportamento del debitore, rinviando al complesso di “cure e cautele” da impiegare nell’adempimento, e dunque quale criterio obiettivo generale, non soggettivo individuale, e comunque da commisurare al tipo speciale del singolo rapporto. Infatti, si è osservato da parte di questa dottrina, la diligenza si trova sempre qualificata nel codice in rapporto a contesti che aiutano a definire la portata relativa (diligenza ordinaria, normale, del padre di famiglia, del mandatario, del buon allevatore, secondo la natura dell’attività esercitata, e così via); quella della diligenza è dunque una nozione “ellittica, polisensa, volta ad individuare un metro di valutazione della condotta, rapportato ad una varietà di situazioni di fatto”, p.540.

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Prodotti, consumatori e mercato

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Tornando allora alla direttiva, in essa non pare di poter scorgere indicazioni sull’obbligo di diligenza in capo al fabbricante, ma come abbiamo visto ciò non esclude che un obbligo possa essere dettato da norme diverse. Qui piuttosto sorge il rischio di una lacuna: se fossimo nel contesto di un ordinamento interno, ciò che una norma sul risarcimento dei danni non dice (misura della diligenza e correttezza) può normalmente ritrovarsi nel sistema generale; ma se guardiamo a quell’“isola” giuridica costituita dalla direttiva, nel mare dei sistemi nazionali di diritto civile, sorge il dubbio se le singole norme nazionali sui doveri di diligenza possano combinarsi efficacemente con la regola comunitaria-europea sull’assenza del difetto (art. 6.1.b della direttiva). Come su altri aspetti del regime armonizzato di responsabilità del produttore (per es. il tema della prova del difetto, su cui v. infra il par. 8), questo sembra un problema destinato (o forse concepito) per restare aperto a soluzioni variabili e frutto del dialogo tra i livelli dell’ordinamento europeo, e segnatamente tra i suoi attori giurisdizionali; sempre che il legislatore non se ne occupi ex professo, come in parte accaduto proprio in tema di sicurezza dei prodotti18.

3. La sicurezza dei prodotti nel diritto comunitario

“Poiché la sola previsione della responsabilità implica l’assolvimento della funzione risarcitoria e sanzionatoria ma non necessariamente quella preventiva, si sono pro-mossi e adottati interventi anche in questo settore” 19

Inteso come regola positiva, il principio della tutela del consumatore non è attribuibile al merito della Corte di Giustizia ma ai redattori del Trattato e al legislatore del diritto comunitario derivato20. Negli stessi anni in cui la

18 Per un analogo rischio di “loop” giuridico in materia di diritto antitrust- tra principio generale di private enforcement, competenze statali sui rimedi e sulle procedure, e vincolo di primazia ed effet util del diritto europeo-v. M. Libertini, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, Milano, 2014, p.459-460.19 Cfr. G. Alpa La responsabilità d’impresa, cit.; p. 42.20 Sul diritto comunitario dei consumatori v. per tutti G. Alpa, I contratti dei consuma-tori, Roma, 2002; Id., Tutela del consumatore e controlli sull’impresa, Bologna, 1977; J. Calais-Auloy, F. Steinmetz, Droit de la consommation, Paris, 1995; B.W. Harvey-D.L. Parry, The law of the consumer protection and fair trading, London, 1997; L. Kraemer, EEC consumer law, Bruxelles, 1986; G. Howells-T. Wilhelmsson, EC consumer law, Alderschot-Brookfield-Singapore-Sidney, 1997; G. Alpa-M. Bessone, I contratti stan-dard nel diritto interno e comunitario, a cura di F. Toriello, Torino, 1997.

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Commissione andava costruendo i propri programmi di azione legislativa, peraltro, anche la Corte offriva il proprio supporto contribuendo a chiarire i rapporti tra regola generale di liberalizzazione degli scambi commerciali e regola derogatoria a protezione della sicurezza e salute dei consumatori21. La Corte di Giustizia ha in particolare ravvisato nell’obiettivo della difesa dei consumatori uno dei possibili parametri di valutazione della legittimità di misure restrittive della libertà di circolazione delle merci22, elevandolo a principio normativo generale: uno Stato può adottare misure restrittive della libertà di circolazione intracomunitaria se ciò sia fatto in vista della difesa dei consumatori. Si tratta dunque di un principio destinato a produrre effetti nella valutazione di legittimità degli atti normativi, nel contesto di un giudizio di ponderazione tra “obiettivi di politica comunitaria” e “principi”23.

Naturalmente la Corte di Giustizia si è altresì premurata di evitare fraintendimenti e incertezze quanto all’estensione applicativa del principio in parola, procedendo ad una precisa definizione della nozione di consumatore, come del soggetto che agisca al di fuori dell’attività professionale24, a prescindere dall’attualità di quella attività25, del resto in sintonia con le

21 Affermando, per esempio, che “l’art. 30 del Trattato CEE non osta a che uno Stato membro applichi una normativa nazionale, che vieta la messa in vendita degli oggetti di metallo argentato privi di punzonatura rispondente ai requisiti stabiliti dalla stessa normativa, ad oggetti di questo genere importati da altro Stato membro nel quale sono stati legittimamente messi in commercio, purché tali oggetti non siano stati sottoposti … ad una punzonatura avente un contenuto informativo equivalente a quello delle punzonature prescritte dalla normativa dello Stato membro importatore e comprensibile per il consumatore di questo Stato”: Corte Giust. CE, 22.6.1982, causa 220/81, in Foro it., 1983, IV, p. 346; oppure che “lo Stato membro di importazione non può ostacolare l’importazione e la messa in commercio, con la denominazione generica “formaggi”, di prodotti legalmente fabbricati e messi in commercio in un altro Stato membro con la stessa denominazione qualora venga assicurata l’informazione del consumatore”: Corte Giust. CE, 11.10.1990, causa 210/89, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1991, p.1141; per ulteriori indicazioni giurisprudenziali comunitarie in tema di protezione dei consumatori v. G. Alpa (a cura di), Codice del consumo e del risparmio, Milano, 1999, p. 58 ss.22 Corte giust CE, 20.2.1979, causa 120/78, caso Cassis de Dijon, in Raccolta, p.649.23 Nello stesso senso cfr. Corte giust CE, 12.7.1979, causa 153/78, Commissione/Germania, in Raccolta, p.2555; Corte giust. CE, 5.10.1977, causa 5/77, Denkavit, in Raccolta, p.1555; Corte Giust. CE, 8.11.1979, causa 251/78, ibidem, p.3369.24 Corte Giust. CE, 19.1.1993, n.89/91, in Contratti, 1993, p.249; Corte Giust. CE, 15.9.1994, n. 318, in Nuova giur. civ. com., 1996, I, p.298, con nota di F. Toriello, Contratti dei consumatori e Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla giurisdizione, ibidem, p.300. In argomento v. peraltro Giudice di Pace di l’Acquila, 3.11.1997, in Giust. Civ., 1998, p.2341 con nota di L. Gatt, L’ambito soggettivo di applicazione della normativa sulle clausole vessatorie, ibidem. 25 Si è infatti precisato che non può considerarsi consumatore chi stipuli un contratto per

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acquisizioni del diritto di fonte legislativa in tema di diritto ad una piena informazione26, di libertà contrattuale dal vincolo vessatorio

27 o comunque

non meditatamente assunto (perché sorto in luoghi ed in momenti non favorevoli alla piena consapevolezza delle proprie decisioni negoziali)28, in tema, infine, di garanzie post-vendita29 (per non citare le direttive in materia di contratti speciali, nel settore assicurativo, bancario e finanziario in generale)30. Tali sviluppi si sono affacciati alla scena normativa comunitaria ed europea parallelamente alle iniziative rivolte a completare il quadro della tutela dei diritti nel momento giurisdizionale, sotto il profilo dell’accesso alla giustizia e sotto il profilo della predisposizione di strumenti rimediali cautelari31, nonché sotto il profilo della creazione di uno spazio giudiziario

l’esercizio di un’attività professionale non attuale ma futura: Corte Giust. CE, 3.7.1997, C-269/95, in Giust. Civ., 1999, I, p.13, con nota di U. Corea, Sulla nozione di “consu-matore”: il problema dei contratti stipulati a scopi professionali, ibidem.26 In questo contesto si inseriscono la direttiva n. 89/592 sull’insider trading e la direttiva n. 84/450 sulla pubblicità ingannevole; cfr. A. Princigalli, op. cit.; A. Di Majo, 1988; C. Rossello, I poteri dell’autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di repressione della pubblicità ingannevole, in V. Afferni (a cura di), Concorrenza e mercato, Padova, 1994, p. 682 ss. Cfr. inoltre le direttive nn. 79/581 sull’indicazione dei prezzi dei prodotti alimentari, e 88/314 sui prezzi dei prodotti diversi dagli alimentari; Cfr. G. Howells-T. Wilhelmsson, op. cit., p. 121 ss.; identica funzione svolgono le direttive nn. 89/298 e 80/390, su cui v. G. Ferrarini, Sollecitazione del risparmio e quotazione in borsa, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo-Portale, 10, Torino, 1993,vol. II, p. 250 ss. 27 Il rinvio è naturalmente alla direttiva n. 93/13 sulle clausole abusive, su cui v. per tutti, nell’ambito della vastissima letteratura, G. Alpa-M. Bessone, I contratti standard nel diritto interno e comunitario, Torino, 1997. 28 Cfr. la direttiva sui contratti stipulati fuori dei locali commerciali nonché la direttiva sui contratti negoziati a distanza. 29 Si allude ovviamente alla direttiva sulle garanzie nelle vendite di beni di consumo. In materia cfr. M. Tenreiro, Garanties et services après-vente: breve analyse du livre Vert pre-senté par la Commission européenne, in Rev. eur. dr. consomm., 1994, p. 5; G. Howells-C. Bryant, Consumers’ guarantees: competition or regulations?, in Eur. consumer law. j., 1993, p. 3; C. Kelley-J. Comand, Extended warranties: consumer and manifacture perceptions, in The journal of consumers affairs, 1991, p. 68; H. Micklitz, Protection du consommateur et marché interieur. Quelques reflections sur les contracts de reparation et de garantie, in Rev. trim. dr. eur., 1992, p. 515; P. Ancel, La garantie conventionelle des vices cachés dans les conditions generales de vente en matièrie mobilière, in Rev. trim. dr. economique, 1979, p. 203; G. Woodroffe, Buying and selling law special report: guarantees, in Chartered insti-tute of purchasing and supply, London, 1993 30 Cfr. Alpa, Codice del consumo e del risparmio, Milano, 2000.31 Circa il rimedio inibitorio, G.M. Armone, La salute collettiva del consumatore e le sue forme di tutela, in Riv. critica dir. privato, 1994, p. 110; cfr. altresì G. Canale, Normativa comunitaria, responsabilità del produttore e tutela del consumatore in via preventiva, in Giur.

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funzionante con criteri (di giurisdizione, competenza, circolazione della cosa giudicata) uniformi32. Ancora, questo processo si è realizzato senza che d’altra parte il legislatore comunitario/europeo trascurasse di prendere in considerazione la praticabilità di vie alternative alla tutela privatistica -con il suo eventuale risvolto giurisdizionale- per premiare in particolare talvolta l’approccio preventivo che è precipuo della tutela pubblicistica/amministrativa33. In questo contesto è da citare la normativa comunitaria in tema di sicurezza dei prodotti, introdotta dapprima con la direttiva n. 92/59 e poi dalla direttiva 2001/95 34. Lo scopo di queste direttive è duplice: in via preventiva, stabilire requisiti minimi armonizzati di sicurezza dei prodotti destinati alla circolazione infracomunitaria; in secondo luogo, introdurre procedure di emergenza atte ad intervenire correttivamente nel caso di insorgenza di difetti. Il principio generale in tema di sicurezza è quello per cui i produttori devono immettere nel mercato soltanto prodotti sicuri (tale sicurezza essendo definita come la situazione in cui ogni prodotto destinato all’uso ragionevolmente prevedibile, anche continuativo, non presenta rischi o comunque presenta un minimo di rischi compatibile con l’uso del prodotto, considerato come accettabile e coerente con un alto livello di protezione per la salute e sicurezza delle persone). Come si è osservato in dottrina, la direttiva sulla sicurezza dei prodotti “rappresenta un ulteriore tassello della politica comunitaria diretta alla tutela dei

piemontese, 1986, p. 470 ss.; B. Capponi, Diritto comunitario e azioni di interesse collettivo dei consumatori, in Foro it., 1994, IV, 439 ss. in materia cfr. altresì C.M. Verardi, I cinquant’anni del Codice Civile e la tutela del cittadino consumatore, in Rass. dir. civ., 1993, p. 837 ss. P. Trimarchi, Illecito (dir. priv.), in Enc. dir., p. 104; F. Cafaggi, Verso un approccio sistematico ai rimedi contro la difettosità dei prodotti, in AA.VV., Il danno da prodotti in Italia-Austria-Repubblica Federale di Germania-Svizzera, a cura di F. Patti, Padova, 1990, p. 108). 32 Cfr. S.M. Carbone – C. Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, Torino, 2016. 33 Così come è nota, in generale, la alternatività, ed entro certi limiti, cumulabilità dei rimedi privatistico (successivo) e pubblicistico (di controllo preventivo) in talune esperienze nazionali; in tema di tutela del consumatore contro le clausole, abusive prima della direttiva n. 93/13 v., per l’esperienza francese, G. Alpa- M. Bessone, I contratti standard nel diritto interno e comunitario, a cura di F. Toriello, cit.,pp. 107 ss. 34 Sulla direttiva del ’92 v. F. Maniet, The european directive on general product safety and its implementation in the EU member states, in Atti dell’International seminar on consumer law-Riga; G. Howells-T. Wilhelmsson, EC Consumer law, London, 1997, p. 48 ss.; l’attuazione italiana si è avuta con d.l. 17 marzo 1995, n. 115, in G.U. 20 aprile 1995, n. 92; sull’attuazione italiana cfr. M. Condinanzi, L’attuazione della direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti, in Contratto e impresa/Europa, 1997, p. 941.Sulla direttiva del 2001 v. G. Alpa, La responsabilità d’impresa nel terzo millennio, in G. Alpa-G-Conte (a cura di), La responsabilità d’impresa, Milano, 2015, p. 42 e ss.

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consumatori che con il trattato sull’Unione Europea è poi assurta a dignità di azione autonomamente prevista”35, ed è caratterizzata da un approccio al problema dell’armonizzazione legislativa «trasversale» in quanto applicabile a tutti i generi prodotti36, fatte ovviamente salve normative più specifiche settore per settore37. Ed in effetti un tratto caratteristico della responsabilità del produttore nella sua versione europea sta nello stretto rapporto che la normativa ha con la disciplina di regolazione del mercato, in ciò sicuramente più completa e penetrante rispetto alla versione statunitense38.

4. Natura della responsabilità

“La responsabilità del produttore comprende anche le informazioni sul prodotto e le etichette. Lungi dall’essere fondata sulla colpa, come si era proposto agli albori delle ricerche in materia, si tratta di responsabilità oggettiva (ancorché attenuata) e si estende all’importatore, ad opera del principio generale di responsabilità” 39

Così come consente il sovrapporsi di normative nazionali in tema di responsabilità sia contrattuale sia extracontrattuale con la disciplina da essa portata, la direttiva consente in particolare, in questo modo, il cumulo della responsabilità contrattuale con quella in essa stabilita, che d’altra parte ha natura extracontrattuale40. È in questo modo ammesso ex lege il concorso di responsabilità extracontrattuale (comunitaria) con quella eventuale contrattuale e/o aquiliana di fonte nazionale41.

Circa la qualificazione più specifica del tipo di responsabilità extracontrattuale sancita, si è ritenuto – a tacere di una isolata tesi mediana

35 M. Condinanzi, op. cit., p. 941; cfr. inoltre F. Cafaggi, La responsabilità dell’impresa per prodotti difettosi, in N. Lipari (a cura di), op. cit., pp. 1001, 1004 e 1011. 36 F. Maniet, op. cit.; M. Condinanzi, loc. ult. cit.;37 Per un resoconto delle quali si rinvia a D. Cerini- V. Gorla, Il danno da pro-dotto, Torino, 2011, p. 151 e ss; specificamente in tema di farmaci Cfr. E. Menga, Responsabilità da farmaco difettoso: il delicato equilibrio tra tutela della salute e salvaguardia delle esigenze della produzione, in Danno e resp., 2016, p. 41 e ss.38 Cfr. ancora G. Alpa La responsabilità d’impresa, cit., p. 42-43; v. anche G. Howells, Introduction, in G. Howells (gen. ed.), The law of product liability, London, 2007, p. 15. 39 Cfr. G. Alpa La responsabilità d’impresa, cit., p. 40.40 In quanto l’esistenza di relazioni contrattuali non è posta a fondamento della sussistenza della responsabilità del produttore; cfr. J. Fagnart, op. cit., p. 8. 41 In tal senso cfr. J. Fagnart, loc. ult. cit.; J. Ghestin, op. cit., p. 135; J. Fagnart-De Neve, La responsabilitè civile, Cronique de jurisprudence, in JT, 1985, p. 453.

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42– da parte di molti che sul produttore incomba una responsabilità

di tipo oggettivo, escludendosi che si tratti di responsabilità per colpa presunta43. Tale opinione si ritiene altresì confortata dalle dichiarazioni della Commissione davanti al Parlamento, ed è condivisibile, nel senso che senz’altro la responsabilità richiede come presupposto il verificarsi di un difetto del prodotto e non un determinato comportamento da parte del danneggiante; presupposto oggettivo e non colpa del danneggiante, ed in questo senso responsabilità di natura oggettiva. Ma sulla tesi che il comportamento del fabbricante sia del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento della responsabilità non può pacificamente convenirsi, considerando al contrario che quanto meno due degli eventi esonerativi previsti dall’art. 6 della direttiva fanno riferimento a ipotesi di esclusione del comportamento colpevole in capo al fabbricante. Ed ancora prima rispetto alle cause di esonero, se “il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto” (art. 1 direttiva), ma se il prodotto non si rivela difettoso ex art. 6.1.b) rispetto all’uso ragionevolmente prevedibile, è segno che un margine di rilevanza della valutazione della diligenza del produttore è immanente al sistema in vigore. La configurazione in termini di responsabilità quasi oggettiva «pendant long temps preconisée» proprio dalla dottrina italiana44 pare tuttora dunque riverberare effetti importanti sui principi di diritto europeo in tema di responsabilità del produttore45.

Sono peraltro da ricordare alcune decisioni italiane di legittimità che hanno qualificato la responsabilità da prodotto come “presunta e non oggettiva, poiché prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore ma non anche dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto”46. È da notare che in tale occasione non si è modificata l’impostazione ormai consolidata circa l’onere della prova (e dunque si è riconfermato “che incombe sul soggetto danneggiato la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno bensì tra difetto e danno mentre il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni di cui all’art. 127 cod. cons.”) ma 42 La responsabilità stabilita dalla direttiva non avrebbe né natura contrattuale né delictuelle, e ciò si desumerebbe dall’art. 13: J. Huet, op. cit., p. 11.43 In quanto «la condition de la responsabilité est donc le defaut du produit et non la faute du producteur», J. Fagnart, op. cit., p. 9. 44 Come ricordato da J. Fagnart, loc. ult. cit. 45 Cfr. T. Bourgoignie, The 1985 Council directive on product liability and its implementation in member States of the European Union, in AA.VV., La directive 85/374/CEE relative à la responsabilité du fait des produits: dix ans après- Directive 85/374/EEC on product liability: then is after, a cura di M. Goyens, Louvain-La Neuve, 1996, p. 31. 46 Cass. 28.7.2015, n 15851, in Danno e resp., 2016, p. 41 ; v. altresì Cass. 29.5.2013, n 13458.

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si è – a quanto pare - optato per una scelta lessicale per la quale l’onere di dimostrare il difetto escluderebbe la possibilità di definire “oggettiva” la responsabilità (e “oggettivo” il criterio della sua imputazione). Una terminologia più ortodossa peraltro non chiamerebbe “oggettivo”, ma “assoluto” il regime di responsabilità in cui non si debba neppure provare il difetto47, lasciando all’attributo “oggettivo” l’area di significato che si contrappone da un lato alla cd. responsabilità assoluta (che discende dal danno anche in assenza di difetto, come per l’attività dell’esercente di attività nucleari, almeno in alcune sue applicazioni nazionali 48) e dall’altra all'area di significato caratterizzata dall’onere della prova della colpa del danneggiante49.

5. Responsabilità da prodotto difettoso e danno non patrimoniale

“…dalla integrale soddisfazione a favore del danneggiato alla ridistribuzione delle risorse nell’ambito della società alla funzione di deterrenza, fino ad arrivare alla sua “rinnovata funzione punitiva” 50

Il Tribunale di Bologna ha riconosciuto il risarcimento del danno non

patrimoniale nel caso del letto pieghevole-automatico “esploso” durante

47 Cfr. a mero titolo esemplificativo le Relazioni periodiche sull’applicazione della direttiva, infra sub. Par. 7.48 In argomento v. G. Alpa, La responsabilità d’impresa nel terzo millenio, in G. Alpa – G. Conte (a cura di), La responsabilità d’impresa, Milano, 2015, p. 30 e ss. 49 Crf. G. Alpa, op. ult. cit., p. 17; così, ci pare più correttamente, si è qualificata “oggettiva, fondata non sulla colpa ma sulla riconducibilità causale del danno alla presenza di un difetto nel prodotto” la responsabilità del produttore, da parte di Cass. 1.6.2010, n 13432, in Danno e resp., 2011, p. 276. Del resto, dire che la natura è “presunta” – nella terminologia di Cass. 28.7.2015, n 15851, cit. , significa dire che una volta provato il difetto e il suo nesso causale con il danno la responsabilità è sussistente in modo tendenziale, e non in modo assoluto, visto che la prova di alcuni fattori (per lo più riconducibili al caso fortuito, salva la difesa dei rischi di sviluppo) può escludere la responsabilità; ma non per questo diremmo “responsabilità tendenziale”. Cass. 29.5.2013, n 13458, cit., ha comunque ribadito il punto centrale della disciplina, la quale “prevede un tipo di responsabilità che prescinde dalla colpa del produttore, conseguendo alla mera “utilizzazione” del prodotto difettoso da parte della vittima”. Su questi temi Cfr. M. Gorgoni, Responsabilità per prodotto difettoso: alla ricerca della (prova della) causa del danno, in Resp. Civ. prev., 2007, p. 1592 e ss., nonché Ar. Fusaro, Danno da prodotti pericolosi o difettosi: regole di riferimento e incertezze ermeneutiche, in Riv. crit. dir. priv., 2015, p. 203 e ss. 50 Cfr. G. Alpa op. ult. cit., p.4

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la sua chiusura51, e nella sentenza resa nel caso dell’artroprotesi anche il Tribunale di Mantova ha accolto la tesi favorevole al riconoscimento del d.n.p52. Il Tribunale di Monza ha più recentemente riconosciuto il risarcimento del solo danno biologico ritenendolo oggetto di implicito rinvio da parte dell’art. 123 cod. cons. (“danni risarcibili”, sub specie di “danno da morte o da lesione”) e negando ingresso a forme diverse di d.n.p. (segnatamente il morale e il cd. esistenziale)53. Ancora, si è ritenuto che il danno alla persona risarcibile in base alla nuova disciplina sia esclusivamente quello derivante da morte o da lesioni personali 54, fermo restando che - qualora si ravvisi comunque un comportamento colposo del produttore e la sussistenza di un fatto-reato – si possa riconoscere il risarcimento del danno morale: “il vantaggio offerto al consumatore dal d.P.R. n. 224/88, ovvero la possibilità di ottenere un risarcimento a prescindere dalla colpa del produttore, non può essere diminuito per effetto di una preclusione assoluta ad ottenere il ristoro dei danni non patrimoniali 55; ma ove non siano accertati profili di colpa da parte del produttore è da escludersi la risarcibilità del danno morale mentre è possibile il risarcimento del danno biologico conseguente ad una caduta dovuta al cedimento strutturale della scala anche in assenza di prova che il difetto di fabbricazione sia dovuto a colpa del fabbricante56.

Queste sentenze sono esemplari del fermento interpretativo, non scevro da incertezze e oscillazioni applicative, che contraddistinguono nell’ordinamento italiano il dibattito sul danno non patrimoniale, tanto in seno alla dottrina quanto nel dialogo tra formanti.

Come si sa, nell’ordinamento italiano si è discusso a lungo sulla tipicità delle ipotesi di risarcimento del d.n.p. (rispetto alla norma interna di riferimento)57; al tema si è dovuta interessare la Corte costituzionale

51 Trib. Bologna, 3.4.2007, n. 2354, cit.52 Trib. Mantova, cit., 2.7.2010, in www.ilcaso.it 53 Trib. Monza, 10.2.2015, in “www.lider–lab.sssup.it”. Letteralmente peraltro il richiamo al tipo di evento caustivo di danno, morte/lesione, non è sufficiente ad individuare categorie di danni risarcibili. Nel caso di specie si deve però convenire sul rigetto della domanda per una sospetta insufficienza di allegazione e prova, se non inconsistenza, dei “danni da stress per perdita di oggetti di valore affettivo nonché per disagio dovuto alla assenza dall’abitazione”.54 Trib. Monza, 20.7.1993 Tentori c. Soc. ditta Rossin, cit. in Foro it., 1994, I, 13955 Trib. Vercelli, 31.1.2003, n. 208, citata in R. D'Arrigo, La responsabilità del produttore, Milano, 2006, p.219..56 Trib. Milano, 31.1.2003 Ferrara c. La Vetroscala s.a.s., cit.57 Che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale solo nei casi determinati dalla legge; in argomento cfr., nella vastissima letteratura, G. Alpa, Il danno biologico, 3° ed.,

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inizialmente dissociando il diritto al risarcimento dalla capacità reddituale ma lasciando la voce di danno ancorata al presupposto del fatto penalmente rilevante58, più tardi rivalutando tale conclusione alla luce della spinta proveniente dalle corti di merito59, dalla dottrina (non solo strettamente giuridica)60 e dai pronunciamenti di legittimità61. In quell’occasione - da una parte - la Corte Costituzionale manteneva ferma l’originaria connessione del risarcimento civilistico alla dimensione di supporto alla

Padova, 2003; F.D. Busnelli, Il danno biologico. Dal “diritto vivente” al “diritto vigente“, Torino, 2001; C. Castronovo, Danno biologico. Un itinerario di diritto giurisprudenziale, Milano, 1998; M. Bargagna- F.D. Busnelli (a cura di), La valutazione del danno alla salute. Profili giuridici, medico-legali ed assicurativi, Padova, 2001; M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, Padova, 2001.58 Cfr. Corte Cost. n.88 del 1979.59 Le finalità della giurisprudenza -e della dottrina (in particolare la scuola civilistica genovese) - erano dirette “a recuperare il valore costituzionale della salute nell’ambito delle tecniche di risarcimento del danno alla persona; essendo il diritto alla salute una posizione soggettiva garantita a tutti, senza differenze di estrazione sociale e di capacità di produrre reddito, i criteri di liquidazione erano identici per tutti. E contemporaneamente alla formula del “danno biologico“ si assegnava anche un compito semplificante, consistente nell’assorbire tutte le voci e sotto-voci di danno che la fantasia o le circostanze del caso avevano indotto il giudice a creare, come il danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno derivante dalla compromissione della capacità lavorativa generica”, il tutto in un contesto in cui “il panorama del risarcimento del danno alla persona presentava da un lato una sorta di giungla confusa nella quale la sperequazione era la regola, e dall’altro lasciava intravedere un nuovo eden in cui l’ordine e l’eguaglianza se potevano essere ripristinati” poiché al danno morale in senso stretto e al danno reddituale “si affiancava, per merito della inventiva dei giudici del Tribunale di Genova, quella nuova voce onnicomprensiva, traducibile in tabelle più moderne rispetto a quelle utilizzate dalla prassi assicurativa”: G. Alpa, Il danno biologico, pp.30-31; v. anche F.D. Busnelli, Il danno alla salute: un’esperienza italiana; un modello per l’Europa?, in F.D. Busnelli. S.Patti, op. cit., 85. E proprio in quell’“Eden” evocato da Guido Alpa un altro dei protagonisti della stagione genovese - sul versante giurisprudenziale- ricorda d’altra parte, nei decenni successivi, la “moltiplicazione patologica delle voci di danno diffuse nella pratica giudiziaria…soprattutto per effetto di una indiscriminata utilizzazione della nuova voce di danno riassumibile nel concetto di danno esistenziale”, ed il “sicuro avvenuto superamento di un certo livello di guardia nel campo del risarcimento dei danni non patrimoniali”: C. Viazzi, Il danno non patrimoniale dopo la sentenza delle Sezioni Unite 11 novembre 2008, n.26972, in Nuova giur. ligure, 2009, risp. p.39 e p.43, ove anche la icastica sintesi “alla Okkam”: danna non sunt moltiplicanda praeter necessitatem, p.42.60 Come ricordato da G. Alpa, Il danno biologico, cit, 18, “si deve ai maestri della medicina legale…l’idea…che la valutazione del danno alla persona non debba tener conto solo della diminuzione di reddito o della capacità di lavoro perduta a causa del sinistro ma debba considerare anche la validità perduta, validità psico-fisica comune a tutte le persone”. 61Cfr. Cass 6.6.1981 n. 3675, in Giust. civ., 1981, I, p. 1903.

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reazione penale62, e rimaneva ferma anche una lettura filologica dell’art. 2059 c.c. in coerenza con la connessione sanzionatoria richiamata tale da imporre di riconfermare che l’art 2059 c.c. porrebbe, per precise ragioni di politica del diritto storicamente ricostruibili, un limite al risarcimento del danno non patrimoniale, e dunque ricavandone la risarcibilità del danno biologico, nel quadro di tale norma solo nei casi di sussistenza di un fatto di reato. Ma dall’altra parte restava la sfida interpretativa di rinvenire una base giuridica alternativa che consentisse il risarcimento del danno biologico in quanto danno di natura non patrimoniale, nei casi non riconducibili a ipotesi di fattispecie penalmente sanzionate. Così la sentenza 184, pur qualificando l’art. 2043 come “norma in bianco”, escludeva che attraverso tale disposizione si potesse bypassare il limite dettato dall’art. 2059 c.c., ma perveniva alla soluzione della risarcibilità del danno biologico nel sistema vigente di responsabilità civile solo ed esclusivamente a patto di rileggere l’intero sistema alla luce delle norme costituzionali, in funzione della tutela piena dei valori della persona, ed in particolare delle attività realizzatrici di essa, prima fra tutte la tutela della salute alla luce dell’art. 32 Cost.: “può desumersi, in considerazione dell’importanza dell’enunciazione costituzionale del diritto alla salute come diritto fondamentale del privato, la difesa giuridica che tuteli nella forma risarcitoria il bene della salute personale”, precisando anche che tale tutela non può passare attraverso l’art. 2059 ma va ricondotta “alla norma risultante dal combinato disposto degli art. 32 Cost e 2043 c.c.”.

Ora, se più recentemente il danno biologico è stato legislativamente definito63, è d’altronde constatazione condivisa che il percorso che ha portato all’affermazione normativa di questo istituto sia stato accidentato, e che i risultati, quelli intermedi e quelli di approdo, siano soprattutto frutto della prassi giurisprudenziale (ciò che del resto è vero di gran parte del diritto della responsabilità civile64).

La Corte costituzionale ha poi avuto anche occasione di affrontare il tema della risarcibilità del danno biologico causato da uccisione di congiunto (sentenza 372 del 1994), evidenziando la difficoltà di riconoscere il risarcimento ex art. 2043 c.c. per l’impossibilità di ricostruire una colpa del danneggiante in relazione alla sua condotta rapportabile - non già alla

62 Cfr. Corte Cost. 184/1986.63Come lesione all’integrità psicofisica della persona suscettibile di valutazione medico-legale: dapprima ex art.13 d.lgs. 23.2.2000 n.38; art.5/3 l. 5.3.2001 n.57; l.12.12.2002, n.273. Crf. Poi il d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, cd. Codice delle assicurazioni private, recentemente modificato dal D.M. 17.7.2017, in G.U. 196 del 23.8.2017.64 Cfr. per tutti S. Rodota’, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1967.

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prima vittima ma- al terzo colpito di riflesso dal danno-evento. L’unico modo di superare il problema dell’impossibilità di imputare all’autore del fatto una colpa avente effetti addirittura nei confronti dei terzi congiunti sarebbe stato quello di impostare una responsabilità oggettiva per pura causalità e non una responsabilità inquadrata nell’art. 2043 (ma si trattava di un’ipotesi ricostruttiva che la Corte non poteva istituire, data la sede ed il contesto del rinvio).

Successive pronunce della Corte di cassazione facevano tuttavia registrare un’inversione di rotta su questo tema: da una parte si affermava l’operatività di una presunzione di colpa in talune ipotesi legislativamente previste65, e contemporaneamente si superava anche la lettura dell’art. 2059 in combinazione con l’art.185 c.p. (secondo la quale sarebbe stata necessaria la completa configurabilità di un fatto di reato ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale) ritenendosi sufficiente la sussistenza “di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività alla astratta previsione di una figura di reato, con conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge” 66 ; le due importanti sentenze della Corte di Cassazione, nn.8827 e 8828 del 31 maggio 2003 mostravano - nei termini con cui la stessa Corte costituzionale con sentenza n. 233, di pochi mesi successiva, le elogiava- “l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona” prospettando “nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 c.c. tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona” 67.

Con le sentenze del Maggio 2003 la portata dell’art. 2059 veniva in effetti estesa rispetto all’interpretazione letterale che la voleva esclusivamente operante in ipotesi di danno commesso nell’ambito di una

65 Le sentenze 7281 e 7282 del 12 maggio 2003 affermavano che alla risarcibilità del danno non patrimoniale nel quadro dell’art. 2059 non ostava il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno nell’ipotesi in cui la colpa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge, ciò che accade- secondo la Cassazione- nei casi di cui agli artt. 2051 e 2054 c.c., e sempre che- ricorrendo la colpa in tali termini presunti- il fatto sia qualificabile come reato.66Con le parole di Corte Cost 233/2003, in Corr. giur. 2003, p.1028; con nota di M. Franzoni, Il danno non patrimoniale e il danno morale: una svolta per il danno alla perso-na; e in Danno e resp., 2003, p.939, con nota di M. Bona, Il danno esistenziale bussa alla porta e la Corte costituzionale apre (verso il nuovo articolo 2059 c.c.).67 Per una selezione della giurisprudenza di legittimità ed anche di merito sullo specifico tema del danno biologico si veda ancora G. Alpa, op. ult. cit., pp.209-442.

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fattispecie penalmente rilevante, dando alla disposizione un’interpretazione costituzionalmente orientata nell’ambito della quale il danno non patrimoniale diveniva una categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi di lesione di valori inerenti alla persona costituzionalmente garantiti. Ciò nel quadro di una nuova sistemazione del danno non patrimoniale del quale si veniva cogliendo la necessità e la piena possibilità giuridica di tutela anche al di fuori delle ipotesi di reato, nel solco di una nuova tradizione legislativa emersa soprattutto negli anni ’90 (con riguardo alla legge sulla responsabilità dei magistrati, alla legge sul trattamento dei dati personali, alla ragionevole durata del processo: ipotesi di risarcimento di danno non patrimoniale al di fuori di fattispecie penalmente rilevanti) ed ancor prima in coerenza con il percorso che si era iniziato a tracciare con l’affermazione del danno biologico, esempio fulgido di danno non patrimoniale costituzionalmente protetto al di fuori delle ipotesi di reato68. Cosicché la presa d’atto dell’evoluzione del diritto vivente consentiva alla Corte costituzionale di confermare che “l’art 2059 c.c. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge” restando in tal modo superato il dubbio di legittimità costituzionale originato da una lettura contraria della norma.

In parallelo agli sviluppi giurisprudenziali del nuovo secolo va poi ricordato l’affermarsi di una “diffusa convinzione che le regole che riguardano il danno alla persona non debbano essere disgiunte dalla valutazione- di natura macroeconomica- dei loro effetti sia sull’intero sistema economico che su quello in cui operano le compagnie di assicurazione”69.68 Una importante raccomandazione che accompagnava tale nuova estensiva rilettura della disposizione codicistica era d’altra parte quella inerente la prova del danno, in relazione alla quale la Corte di cassazione sanciva la necessità della prova del danno scartando la teorica del danno in re ipsa; cfr. R. Pucella, La causalità incerta, cit.,p. 151 e ss.69 Il che spiega “perché i governi che si sono succeduti negli ultimi anni si siano preoccupati di proporre regole concernenti i criteri di valutazione del danno alla persona non tanto con il fine di uniformare i risarcimenti in caso di identità o di affinità di lesioni, quanto per contenerne l’ammontare, e quindi l’inflazione; talvolta anche al fine di favorire le compagnie di assicurazione, stante la ripetuta denuncia del deficit loro derivante dal settore della assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione di veicoli”: G. Alpa, op. ult. cit., pp. 22-23. Una conferma di questa lettura è in Corte Giust. UE, 23.1.2014, C- 371/12 Petillo c. UNIPOL, punto 15. Un secondo fattore di arricchimento del quadro normativo in tema di danno non patrimoniale è costituito dall’accentuazione del carattere di frammentarietà della disciplina del danno alla persona, portato dagli interventi normativi succedutisi negli scorsi decenni in materia di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione di veicoli

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La giurisprudenza italiana di legittimità degli ultimi dieci anni è infine stata segnata dall’intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione le quali nelle note sentenze del novembre 200870 hanno fissato il principio secondo cui la categoria giuridica del danno non patrimoniale ha natura unitaria e omnicomprensiva, e le sottocategorie (tra cui, come più che noto, il biologico e il cd. esistenziale) hanno solo valenza descrittiva, a presidio del divieto di duplicazioni risarcitorie.

La giurisprudenza successiva ha applicato il principio con esiti non sempre del tutto uniformi71 per non dire che proprio mentre giungeva a compiuta definizione e disciplina legislativa il danno biologico le possibilità di risarcimento del danno non patrimoniale si arricchivano - grazie ad un conio al quale, ancora, contribuivano dottrina, giurisprudenza di legittimità e decisioni di merito- di una nuova categoria di danno risarcibile: la giurisprudenza sul danno esistenziale maturava tra la seconda metà degli anni ’90 e primi anni 2000 con l’intento di consentire risarcimento a fattispecie eterogenee e di difficile accertamento e quantificazione72-

e natanti, di infortuni sul lavoro e malattie professionali, di trasporto internazionale passeggeri per via ferroviaria, marittima o aerea, responsabilità del fabbricante di prodotti difettosi, ed ancora le regole speciali in materia di danni da vaccinazione (in materia si vedano le sentenze della Corte costituzionale n.27 del 1998 sulla vaccinazione contro la poliomielite e la più recente sentenza 268 del 2017 sull’obbligo di risarcimento in caso di vaccinazione non obbligatoria) e da attacchi terroristici; in tema v. ancora G. Alpa, op. ult. cit., pp. 23-24.70 Cass. SS. UU., 11 novembre 2008 n. 26972-3-5, in Foro it, 2009, I, p. 120, con note di A. Palmieri, La rifondazione del danno non patrimoniale, all’insegna della tipicità dell’interesse leso (con qualche attenuazione) e dell’unitarietà; di R. Pardolesi – R. Simone, Danno esistenziale ( e sistema fragile): “die hard”; G. Ponzanelli, Sezioni unite: il “nuovo statuto” del danno non patrimoniale; E. Navaretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali. Cfr. altresì la rassegna giurisprudenziale di S. Balbusso, Il danno non patrimoniale da perdita del congiunto, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2010, II, p. 403 e ss. 71Cfr. Cass. 18.11.2014 n. 24473, in Rep. Foro it. 2014, n. 233; Cass. 7.11.2014, n. 23778, in Danno e resp., 2015, p.493, con nota di A. Frigerio, Perduranti incertezze nella liquidazione del danno non patrimoniale; Cass. 24.9.2014, n. 20111, in Foro it. Rep. 2014, voce Danni civili, n.232; Cass. 28.1 2014, n.1762, in Rep. Foro it., voce Danni civili, n.170, Cass. 16.1.2014, n. 759, in Rep. Foro it., voce Danni civili, n. 162, Cass. 11.10.2013, n.23147, in Danno e resp., 2014, p.279, con nota di G. Ponzanelli, Il “buonismo” della Cassazione e la facile dimenticanza del danno-conseguenza; Cass. 22.8.2013, n.19402, in Rep. Foro it., voce Danni civili, n.231.72 Fattispecie “non facilmente inquadrabili nella rigida griglia delineata dal sistema cosiddetto bipolare, poiché non apparivano in grado di attraversare le maglie strette della risarcibilità del danno morale, e, al contempo, non presentavano la matrice medico-legale intrinsecamente connessa alla nozione di danno biologico in senso stretto“: G. Pedrazzi, Il danno esistenziale, in G. Ponzanelli (a cura di), La responsabilità civile. Tredici variazioni sul tema, Padova,

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talvolta in assenza di una chiara consapevolezza circa le problematiche di inquadramento delle domande risarcitorie nell’ambito dell’art. 2043 c.c., rispetto ai necessari presupposti per una declaratoria di responsabilità 73 - quali il pregiudizio alla serenità familiare, il danno di natura edonistica, il danno alla vita di relazione, il danno da emozioni, il danno estetico, l’incapacità lavorativa generica, o il danno alla vita sessuale, accomunati dal derivare da illeciti limitanti le attività realizzatrici della persona, ove obbligata a modificare il proprio comportamento nel contesto familiare o sociale, in contrasto con quanto garantito all’art. 2 Cost.74

2002, p.42; S. Patti, op. cit.,19. Di qui la critica di F. Gazzoni, Alla ricerca della felicità perduta (psico-favola fantagiuridica sullo psico-danno psico-esistenziale), in Riv. dir. comm., 2001, p.675; F.D. Busnelli, Interessi della persona e risarcimento del danno, in Riv. trim. dir. proc. civ.,, 1996, p.1; C. Scognamiglio, Il danno biologico: una categoria italiana del danno alla persona, in Europa dir. priv., 1998, p. 259; V. Zeno-Zencovich, Law & comics: Paperon de Paperoni, Gatto Silvestro, Bugs Bunny, Willy Coyote e la responsabilità civile, in Danno e resp., 1999, p.356; R. Caso, Danno per lesione del rapporto parentale: tra esigenze di giustizia e causa risarcitorio, in Danno e resp., 2000, p. 67; G. Ponzanelli, Sei ragioni per escludere il risarcimento del danno esistenziale, in Danno e resp., 2000, p.693. 73 Il che pure ha suscitato le censure di quella dottrina che ha messo in luce la tendenza della giurisprudenza “esistenzialista” a riconoscere risarcimenti in assenza di una seria verifica dei requisiti dell’ingiustizia del danno, ove non della stessa esistenza di un danno, con il rischio di determinare una tendenza alla sovra-compensazione e di trasformare un sistema improntato alla funzione compensativa in una sorta di sistema di sicurezza sociale diffuso a carico dei privati assunti quali danneggianti; così F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in F.D. Busnelli- S. Patti, cit., chiede un po’ provocatoriamente a p.152: “e il danno?”.74 I settori rilevanti per la realizzazione individuale sono stati, per esempio, distinti nelle aree biologico-assistenziale, affettivo-familiare, sociale, culturale e religioso e nella sfera degli svaghi: P. Ziviz, L’evoluzione del sistema di risarcimento del danno: modelli interpretativi a confronto, in Riv.crit. dir. priv., 1999, p.61. All’indomani delle sentenze del novembre 2008, comunque, un modello di applicazione “ortodossa” del dictum che sembra particolarmente fedele al prodotto della nomofiliachia delle SS.UU. è stato sintetizzato (sottoforma, in realtà, di resoconto applicativo) da C. Viazzi, Il danno non patrimoniale, cit., 46 e ss.. Sulla reazione della giurisprudenza successiva alle sentenze del Novembre 2008 v. G. Grasso, sul risarcimento del danno non patrimoniale, con particolare riguardo all’inadempimento contrattuale: la giurisprudenza è “unita” contro le “Sezioni Unite”?, in AA.VV., La discrezionalità del giudice. Le esperienze in Italia e Germania. Spunti per una comparazione funzionale all’esercizio delle professioni giuridiche, atti del convegno tenuto a Napoli, 15-16.10.2010.

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6. Il danno non patrimoniale nella dimensione europea

“… anche a non considerare la flessibilità, spesso l’evanescenza, certamente lo scarso rigore concettuale con cui si creano e si utilizzano i termini, le categorie, le formule del diritto nell’ordinamento comunitario, vi possono essere beni giuridici che non identificano un oggetto reale concreto né sono individuabili in capo a soggetti specifici…” 75

In Petillo c. UNIPOL76, nel negare che la normativa italiana (segnatamente l’art. 139 cod. ass.) porti ad esclusioni d’ufficio o limitazioni eccessive e sproporzionate del risarcimento dei danni da sinistro della circolazione stradale, la Corte di giustizia ha affermato che in linea di principio non vi è incompatibilità tra le norme europee di armonizzazione delle coperture assicurative r.c. auto77 ed il sistema italiano di risarcimento del danno biologico, poiché “…tali direttive non ostano, in linea di principio, né ad una legislazione nazionale che impone ai giudici nazionali criteri vincolanti per la determinazione dei danni morali da risarcire né a sistemi specifici, adeguati alle particolarità dei sinistri stradali, anche se tali sistemi comportano, per determinati danni morali, un metodo di determinazione della portata del diritto al risarcimento meno favorevole alla vittima rispetto a quello applicabile al diritto al risarcimento delle vittime di sinistri diversi da quelli stradali” (punto 43).

In particolare, il fatto che per quantificare il risarcimento del “danno immateriale” risultante da lesioni di lieve entità taluni elementi del calcolo applicabile in materia di risarcimento delle vittime di incidenti diversi da quelli stradali siano omessi o limitati non incide - precisa la Corte- sulla compatibilità delle direttive europee con una legislazione nazionale di tale contenuto, “dal momento che quest’ultima non ha l’effetto di escludere d’ufficio o di limitare in maniera sproporzionata il diritto della vittima a beneficiare di un risarcimento”.

Complessivamente riguardando la giurisprudenza della Corte si può innanzitutto notare l’uso di una terminologia (danni residuali, riferito

75 Cfr. G. Alpa La responsabilità d’impresa cit., p. 5576 Corte giust. UE, 23.1.2014, C-371/12.77 Si tratta della cd. prima direttiva, 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicu-razione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, in GU L 103; della cd. seconda direttiva (dir. 84/5/CEE del Consiglio), come modificata dalla dir. 2005/14/CE; e della cd. terza direttiva (dir. 90 232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990) come modificata dalla dir. 2005/14 e dalla dir. 2009/103/CE.

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alla categoria nostrana del danno cd. esistenziale; danni morali, ma come fungibile rispetto a “immateriali”, e senza ulteriori e più minuziose distinzioni all’interno della categoria del d.n.p. paragonabili a quelle che l’elaborazione italiana ci consegna) che può legittimamente suscitare in qualunque lettore il sospetto che la tematica della integrale riparazione del danno alla persona abbia fatto registrare sviluppi con velocità, o sensibilità, diverse nel dibattito europeo rispetto a quello italiano. Una verifica sulle relazioni periodiche della Commissione circa l’applicazione della direttiva sulla responsabilità da prodotto conferma la tendenziale neutralità dell’organo europeo sull’argomento: in quella sede, constatata la difformità delle soluzioni si rinvia a future sistemazioni della materia negli ordinamenti nazionali (il che induce a pensare che evidentemente si tratti di difformità non ancora percepite come perniciose per l’equilibrio dei rischi nel mercato unico); i livelli nazionali d’altra parte stanno effettivamente cercando ciascuno una propria via di definizione del tema, per lo più attraverso sistemi di classificazione uniforme (cd. nomenclature) delle tipologie di d.n.p. risarcibile, spesso elaborati congiuntamente tra esperti di estrazione giuridica e medico-legale78.

L’ipotesi che il grado di elaborazione concettuale italiano sia, se non il più raffinato, quantomeno tra quelli meglio attrezzati al compito a cui anche altre comunità di studiosi attendono, pare fondata, così come pure emerge da un raffronto tra livelli di risarcimento che l’Italia è l’ordinamento più generoso in tema di d.n.p.79. Per converso il livello

78 Cfr. in Francia il Rapport Dintilhac del Luglio 2005 e nel Regno Unito le Guidelines elaborate dal Judicial College giunte alla 15° edizione; in dottrina v. S. Banakas, Non-pecuniary loss in personal injury: topography, architecture and nomenclature in the European Landscape, in J. comp. law, 2015, p. 291; A. Nicolussi, Danno non patrimoniale in Europa, in S. Delle Monache (a cura di), Responsabilità civile: danno non patrimoniale (diretto da Salvatore Patti), p.52 e ss.79 Una interessante ricerca commissionata dall’IVASS ha permesso di accertare che “in caso di morte, in Italia (e Spagna), a prevalere sul risarcimento complessivo è il danno di tipo “non patrimoniale” (che comprende anche il danno morale) senza alcuna relazione con il reddito della vittima mentre in Germania e Regno unito il danno non patrimoniale in caso di morte assume rilevanza trascurabile o addirittura nulla (Germania). Per quanto concerne il danno patrimoniale, la valutazione in Italia, Germania, Francia e Regno unito è operata con tecniche simili, anche se più rigorosa in questi ultimi tre Stati o vengono adottate tavole di mortalità frequentemente aggiornate. La Spagna è invece l’unico paese nel quale, per i danni patrimoniali, è in vigore da diversi anni una tabella di legge (baremo) che prevede voci risarcitorie unitarie specifiche al variare del reddito. Dal punto di vista quantitativo è da evidenziare il caso italiano ove il danno non patrimoniale assume un valore di oltre quattro volte la media; il valore scaturisce dall’applicazione (prevalente sul territorio nazionale) delle tabelle del Tribunale di Milano divenute di riferimento dopo la sentenza della Cassazione

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risarcitorio del danno patrimoniale in Italia e in Spagna è di gran lunga inferiore a quanto avviene nei sistemi francese tedesco e britannico, ciò che parrebbe spiegarsi con una diversa impostazione del finanziamento delle spese di assistenza futura e di adattamento eventuale dell’alloggio80.

7. I periodici rilevamenti della Commissione a seguito delle attuazioni nazionali: equilibrio del mercato vs. “cultura del risarcimento”

La direttiva 85/374 è stata attuata nel termine nel Regno Unito, in Grecia e in Italia, mentre Lussemburgo, Danimarca, Portogallo e Germania l’hanno attuata nel 1989, seguite dall’Olanda (1990), dall’Irlanda (1991) dalla Spagna (1994); la Francia ha approvato la legge di attuazione n. 98/389 il 19 maggio 1998.

L’impatto della normativa comunitaria sugli ordinamenti interni è stato, come ripetutamente osservato dalle dottrine nazionali, senz’altro notevole a livello teorico e sistematico.

Il primo resoconto delle occasioni di applicazione della direttiva e delle relative leggi nazionali di recepimento in occasione del decimo anniversario dell’adozione dello strumento normativo metteva peraltro in luce la scarsità di decisioni europee basate sulla normativa speciale. Pareva che i giudici nazionali disapplicassero sostanzialmente la direttiva, preferendo rifarsi di volta in volta alle varie norme nazionali generali in tema di responsabilità civile, in ciò legittimati dalla previsione facoltizzante della stessa direttiva (art. 15)81.

del 2011. Di conseguenza, pur essendo il danno patrimoniale liquidato in Italia inferiore alla media europea, il danno complessivo risulta comunque pari al doppio”: L. Matarazzo, Il ramo RC Auto: raffronto tra l’Italia e alcuni paesi della UE su premi, sinistri e sistemi risarcitori del danno alla persona, in Quad. n.1 IVASS, ottobre 2014, p.17.80Cfr. ancora L. Matarazzo. cit.:“sebbene il danno non patrimoniale italiano sia pari ad oltre il doppio della media si osserva che il danno patrimoniale è liquidato spesso via forfettaria in quanto…le prestazioni sanitarie sono erogate dal servizio sanitario nazionale senza alcuna rivalsa nei confronti del responsabile dell’assicuratore”: p.20; utile anche per il rilievo dell’assenza di uno specifico bilancio tecnico nell’ambito del servizio sanitario nazionale italiano che consenta di verificare il rapporto tra premi, sinistri e riserve tecniche- da un lato- e sufficienza o meno delle prestazioni erogate, di talché “in caso di insufficienza del contributo infatti il maggior costo di tale assicurazione sanitaria da responsabilità civile auto ricadrebbe sulla fiscalità generale del paese“, in nota 13. V anche L. Vismara, Il risarcimento del danno alla persona in Europa: una comparazione, in Claims Focus Gen-Re, Settembre 2013.81 A. Stoppa, La direttiva sulla responsabilità da prodotti difettosi compie dieci anni, in Economia dir. Terziario, 1995, p. 905 ss.

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La seconda relazione, del gennaio 2001, confermava l’assetto originario sulla base del rilevato interesse dei produttori ad una norma che rendesse prevedibili i costi di responsabilità, evitando la diseconomia data da “distorsioni della concorrenza derivanti da regolamentazioni divergenti in materia di responsabilità” (punto 1.1.); la priorità dell’obbiettivo emergeva già dall’ordine di esposizione degli ambiti di efficacia della direttiva sottoposti a monitoraggio, il primo dei quali era appunto l’impatto sul mercato, anche con riguardo all’influenza della direttiva sulla competitività delle imprese europee nei confronti dei concorrenti esterni (2.1.2); dalle risposte pervenute dalle rappresentanze delle imprese giungevano voci contrarie ai “punitive damages” in quanto introduttivi di un “clima di imprevedibilità dell’esito per i produttori”, con la conseguenza di un innalzamento dei premi di assicurazione, e proprio la stretta connessione con il meccanismo assicurativo era alla base del rigetto dell’ipotesi della “market share liability” come regola di responsabilità condivisa su base oggettiva in relazione alle quote di mercato82 (3.2.1.); si rilevava nuovamente l’esiguità del contenzioso e l’alta percentuale di transazioni raggiunte grazie al contributo delle compagnie di assicurazione, con esiti “rapidi ed efficaci” (2.2); in relazione al danno alla persona si constatava che generalmente le lesioni venivano indennizzate dai sistemi di sicurezza nazionali indipendentemente da valutazioni circa la responsabilità (2.2.), e si guardava con favore all’istituzione di fondi nazionali di indennizzo per danni alla salute causati dai vaccini; si precisava che il regime di responsabilità oggettiva è di tipo “relativo” (3.1), riconnettendo alla difesa dei rischi di sviluppo la possibilità di esonero (le compagnie sul punto chiarivano la propria contrarietà ad un regime privo di tale via di esonero: “trattandosi di rischi imprevedibili e sconosciuti…sarà molto difficile coprirli e gli assicuratori potrebbero escluderli dalle loro polizze”: 3.2.2); si prefigurava una netta ripartizione di aree di competenza normativa tra l’ambito della “sicurezza” –inteso come un primo bene da garantire- e l’ambito definito del “risarcimento” (non: “responsabilità”), inteso come secondo obbiettivo per una corretta e funzionale organizzazione del mercato (3.2.4); si escludeva l’estensione della regola di responsabilità oggettiva ai fornitori in quanto la statistica non indicava che nella sfera della distribuzione si annidasse un problema di inefficienza del mercato (3.2.7); anche l’estensione della regola al danno subìto dai professionisti veniva scartata per la ragione che il tipo di problema appariva meglio gestibile nel contesto dei diritti contrattuali nazionali (“gli utenti professionali o hanno

82 Cfr. in argomento R. Pucella, op. cit., p. 288 e ss; v. altresì E. Poddighe, I “mass torts” nel sistema della responsabilità civile, Milano, 2008.

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la possibilità di chiedere la riparazione nell’ambito del diritto contrattuale o sono risarciti tramite l’assicurazione professionale”: 3.2.9).

Di questo “compromesso conciliatorio degli interessi in gioco” (3.2) le parti sociali ed economiche tornavano ad occuparsi in occasione del terzo rilevamento dati avvenuto nel 2005, ed in tale occasione assicuratori e produttori lamentavano il timore che la “cultura del risarcimento”, intesa come l’insieme di istanze miranti a migliorare l’accesso alla giustizia ed alle riforme procedurali (non si parlava di misure di più diretto intervento ed effetto nella sfera economica dei consumatori), potesse alterare l’equilibrio. Dal punto di vista dell’industria (manifatturiera ed assicurativa) quelle che costituiscono anime portanti della tutela, pur sempre solo indiretta, del consumatore (in quanto obbiettivi tesi a realizzare precondizioni per la tutela effettiva) rappresentavano genericamente (e temutamente) i segnali di una “cultura del risarcimento”, alla quale si contrapponeva il desiderio di immutabilità dell’equilibrio, economicamente efficiente, raggiunto.

8. Controllo ex-post e giudizi europei

Tralasciando in questa sede una rassegna delle prese di posizione della Corte del Lussemburgo inerenti la corretta interpretazione della direttiva rispetto alle normative nazionali83, conviene ricordare solo la più recente, che trae ancora origine da una causa per danni alla salute da vaccino asseritamente difettoso, ed è significativa ancora una volta per comprendere i limiti della potestà normativa statale nelle materie di competenza comunitaria-europea e per meglio definire le finalità e le funzioni della normativa oggetto del giudizio. Nella causa di merito davanti al giudice nazionale gli attori avevano dedotto l’insorgenza di una patologia in concomitanza con la somministrazione del vaccino, e tale consequenzialità temporale – in assenza di una comprovata ereditarietà e di patologie pregresse – avrebbe dovuto essere presa in considerazione quale mezzo di prova presuntivo per inferire la difettosità del prodotto e il nesso di causa rispetto alla malattia intesa come danno-conseguenza. In appello la domanda risarcitoria era stata rigettata, escludendosi che la prova presuntiva potesse applicarsi- oltre che al nesso 83 C. giust. CE 29 maggio 1997, causa n. C-300/95; Corte Giust Cee, 25.4.2002, causa C-52/00, Commissione c. Repubblica Francese; nonché le sentenze rese lo stesso gior-no, C-183/00, Gonzales Sanchez c: Medicina asturiana; C-154/00, in Raccolta, 2002, 1-3827 ss. Nello stesso senso Corte giust. UE, 10.1.2006, C-402/03, in Racc., I- 199. Corte giust. UE, 4.6.2009, C. 285/08, in Racc., I-4733.

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eziologico tra inoculazione e malattia- anche all’esistenza, a monte, di un difetto del prodotto farmaceutico.

Tornata allo stesso grado di appello dopo una cassazione con rinvio per vizio di motivazione, in tale seconda occasione la Corte d’appello modificava il proprio avviso ritenendo non più l’insussistenza della prova del difetto, ma l’insussistenza nel merito di presunzioni gravi, precise e concordanti (dunque implicitamente facendo applicazione di questo istituto probatorio) che consentissero di dare per provato il nesso di causalità tra vaccinazione e patologia84.

Ma è possibile in base alla direttiva provare per presunzioni il difetto e/o l’eziologia? Se la direttiva non lo esclude, esclude forse invece un sistema in cui la presunzione di causalità sia fatta discendere da indizi di causalità che siano (in qualche modo) determinati in base ad una tipizzazione limitativa delle circostanze che possono essere dedotte dalle parti in causa e apprezzate alla luce del prudente apprezzamento del giudice? E se invece la direttiva esclude il mezzo di prova presuntivo allora possono darsi solo prove certe e scientifiche del difetto?

Sulla prima questione la Corte ricorda che il lemma “danno“ trova definizione nella direttiva, mentre “prova“ e “causalità“ non sono definite, il che però non deve consentire una interpretazione restrittiva delle modalità di prova permesse dello strumento di diritto derivato poiché altrimenti il principio di effettività rischierebbe di essere pregiudicato; sono dunque ammessi mezzi di prova presuntivi purché il cuore dell’art.4 sia rispettato e non sia messa in pericolo l’effettività del regime di responsabilità (istanza consumeristica) nè “gli obiettivi perseguiti dal legislatore dell’Unione” (e questo riferimento va decifrato). Ora, le presunzioni agevolano il compito istruttorio dell’attore pur senza invertire l’onere della prova, quindi appaiono compatibili con la distribuzione del carico di allegazioni e di prove voluto dall’art.4 della direttiva85. Ed allora come si deve/può provare il difetto? A

84 L’insufficienza del mezzo presuntivo- la sua levità/imprecisione/discordanza- era argomentata sulla base dello scarso consenso scientifico sul rapporto tra vaccino anti-epatite B e malattie demielinizzanti.85 “E’ senz’altro vero che un regime probatorio nazionale come quello oggetto della prima questione è tale da agevolare il compito del danneggiato chiamato a fornire le prove richieste per consentirgli di far sorgere la responsabilità del produttore. Infatti, emerge in sostanza dalle prospettazioni contenute nella decisione di rinvio che un regime siffatto non impone al danneggiato di produrre, in ogni circostanza, prove certe e inconfutabili della sussistenza del difetto del prodotto e del nesso di causalità tra quest’ultimo e il danno subìto, ma autorizza il giudice, se del caso, a concludere che tali elementi esistono, fondandosi su un complesso di indizi la cui gravità, precisione e concordanza gli consentono di ritenere, con un grado sufficientemente elevato di probabilità, che una simile conclusione corrisponda alla realtà. 29. – Tuttavia, un regime probatorio siffatto non è, di per sé, tale da comportare

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parere della Corte, non necessariamente attraverso una via certa, positiva e scientifica ma anche attraverso indizi indiretti, altrimenti -si è detto- sarebbe frustrato l’obiettivo consumeristico di protezione della salute e- ecco nuovamente il secondo criterio guida- la “giusta ripartizione dei rischi”86.

A questo punto la Corte avverte che il corretto equilibrio tra interessi impedisce la forme di presunzione ingiustificate come quelle che consisterebbero nel lasciar passare conclusioni logiche poco cogenti basate su elementi non pertinenti o insufficienti, perché anche una tale prassi-alterando in direzione uguale e contraria quella “giusta ripartizione dei rischi inerenti alla promozione tecnica moderna tra danneggiato e produttore”- implicherebbe una insoddisfacente verifica da parte del giudice e un appesantimento dell’onere della prova contraria sul produttore.

Pare invece più interessante, rispetto all’obiettivo di ricostruzione del quadro rimediale generale nel settore della responsabilità civile da prodotto difettoso, la puntualizzazione offerta dalla Corte circa la valenza paritetica e neutrale del principio di effettività, o effetto utile. A questo proposito conviene focalizzare l’attenzione sui richiami isolati poco sopra ad “obiettivi perseguiti dal legislatore dell’Unione“, giustapposti (o contrapposti?) al regime di responsabilità (punto 28 della motivazione), all’esigenza di evitare l’instaurazione ai danni del produttore di forme di presunzione ingiustificate (punto 34) e a quello di porlo al riparo dal rischio di trovarsi “obbligato a

un’inversione dell’onere della prova gravante sul danneggiato ai sensi dell’art. 4 della direttiva 85/374, poiché tale regime lascia, in tal modo, al medesimo l’onere di dimostrare i vari indizi la cui compresenza permetterà eventualmente al giudice adito di fondare il proprio convincimento quanto alla sussistenza di un difetto del vaccino e del nesso di causalità tra quest’ultimo e il danno subìto. 86 La Corte osserva: “Peraltro un regime probatorio che precluda ogni ricorso a un metodo indiziario e preveda che, per soddisfare l’onere della prova previsto dall’art. 4 della suddetta direttiva, il danneggiato è tenuto a fornire pro va certa, tratta dalla ricerca medica, dell’esistenza di un nes so di causalità tra il difetto attribuito al vaccino e l’insorgen za della malattia sarebbe in contrasto con quanto richiesto dalla stessa direttiva. 31. – Infatti, uno standard probatorio di tale grado…avrebbe l’effetto di rendere in un numero elevato di situazioni eccessivamente difficile o — quando, come nella fattispecie, è pa cifico che la ricerca medica non ha permesso né di stabilire né di escludere l’esistenza di un nesso di causalità siffatto — impossibile l’affermazione della responsabilità del produtto re, in tal modo compromettendo l’effetto utile della direttiva 85/374– Una limitazione siffatta quanto al tipo di prove am missibili sarebbe inoltre in contrasto con taluni degli obietti-vi perseguiti dalla suddetta direttiva, nel novero dei quali rientrano in particolare, come emerge dai suoi ‘consideran do’ secondo e settimo, quello di garantire una giusta riparti-zione dei rischi inerenti alla produzione tecnica moderna tra il danneggiato e il produttore e, come emerge dal primo e dal sesto ‘considerando’ della stessa direttiva, quello di tutelare la sicurezza e la salute dei consumatori”.

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rovesciare la suddetta presunzione” prima ancora che “i giudici di merito abbiano preso conoscenza degli elementi di valutazione di cui dispone il produttore e degli argomenti presentati da quest’ultimo“ (punto 36) 87.

Un chiarimento deriva dal secondo quesito che è stato interpretato dalla Corte come se fosse riferito ad un’ipotesi (de iure- giurisprudenziale o legislativo- condendo) di presunzione assoluta, quella dal cui operare “deriverebbe la conseguenza che, anche quando i fatti così pre-identificati non siano, per ipotesi, idonei a dimostrare in modo certo la sussistenza di un simile nesso di causalità, il produttore risulterebbe privato di ogni possibilità di produrre ele menti di fatto o di far valere argomenti, ad esempio di ordine scientifico, al fine di tentare di rovesciare tale presunzione, e il giudice sarebbe così privato di ogni possibilità di valutare i fatti alla luce di tali elementi o argomenti” (punto 53).

Un tale tipo di presunzione violerebbe la regola sull’onere della prova di cui all’art.4 della direttiva (danno, difetto e causalità vanno provati da parte del danneggiato).

Ciò che scredita agli occhi dei giudici del Kirchberg l’ipotesi della pre-identificazione di elementi presuntivi del difetto e/o della causalità (attraverso norme di legge o decaloghi giurisprudenziali, ma potremmo anche pensare a norme tecniche o protocolli di fonti autoregolamentari88) è l’automatismo di funzionamento di un tale istituto.

Vi sarebbe pregiudizio dell’onere della prova: ciò significa che l’art.4 correttamente inteso non mira ad avvantaggiare il consumatore così tanto da sgravarlo dell’onere di allegare e provare indizi seri e concordanti. Il carico probatorio sul consumatore è dunque un valore da non “pregiudicare”89.

Leggendo questi riferimenti in continuità con la giurisprudenza precedente sembra possibile concludere come l’obbiettivo centrale della normativa comunitaria sia quello di mantenere un corretto equilibrio tra

87 Ma non funziona così la presunzione? Non ha forse l’effetto di mettere la parte che la subisce nella posizione di offrire le controprove dopo che ha cominciato a materializzarsi il rischio di soccombenza, una volta entrate nel materiale logico e probatorio le “conse-guenze che la legge o il giudice trae”, “les consequences que la loi ou le magistrate tire” (art. 1349 Code civil) dal fatto noto?88 Sulla normazione tecnica vedi G. Smorto, voce Certificazione di qualità e normazione tecnica in Dig. It. Disc. Priv. Sez. civ., Aggiornamento I, Torino, 2003, 205; A. Genovese, Il mercato dei dispositivi medici. Precauzione, sicurezza, responsabilità, in Contratto e impre-sa/ Europa 2010, p. 319. Mi permetto altresì di rinviare a F. Toriello, Codici deontologici nel diritto privato comunitario, in G. Alpa-P. Zatti, Codici deontologici e autonomia pri-vata, Milano, 2006, pp. 385 e ss.89 Cfr. G. F. Simonini, La responsabilità da prodotto e l’interpretazione conforme al diritto comunitario, in Contratto e impresa, 2013, p. 220 e ss.

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istanze in gioco, o, se si preferisce, quello di mantenere quella misura di tutela consumeristica strettamente e coessenzialmente concepita per un equilibrio regolato delle condizioni giuridiche di funzionamento del mercato, come tale da non turbare; più precisamente ancora, al cui turbamento da parte di norme statali la direttiva osterebbe90.

9. Consumatori e illeciti antitrust

“Delineando un concetto di colpa dissociato da ogni valutazione in chiave sogget-tiva del comportamento, dottrina e giurisprudenza accreditano così una nozione che perde i connotati di rimprovero morale e di “sanzione“, per assumere invece quelli oggettivi che individuano un comportamento difforme da (anzi, contrari a) disposizioni di legge. Ed una forma cioè di culpa in re ipsa quella che si manifesta nell’inosservanza di regole predisposte dal legislatore al fine di ordinare il processo di produzione e di prevenire, in tal modo, la diffusione di prodotti di qualità inferiore a quelle prescritte, e perciò nocivi alla salute” 91

90 Il tema è ancora dibattuto: con riferimento alla direttiva 42 /1993 sui dispositivi medici la corte di giustizia con sentenza del 16 febbraio 2017 in causa C-219/15 ha ritenuto che un organismo notificato, che interviene nell’ambito della procedura relativa alla dichiarazione di conformità CE, non è tenuto ad effettuare ispezioni impreviste, a controllare i dispositivi e/o ad esaminare la documentazione commerciale del fabbricante, e nondimeno in presenza di indizi atti suggerire che un dispositivo medico può non essere conforme ai requisiti posti dalla direttiva tale organismo deve adottare tutte le misure necessarie al fine di rispettare gli obblighi ad esso imposti dalla direttiva; che deve dunque essere interpretata nel senso che l’intervento dell’organismo notificato nell’ambito della procedura relativa alla dichiarazione di conformità è volto a proteggere i destinatari finali dei dispositivi medici, di talché il diritto comunitario è neutrale rispetto all’eventualità che i diritti nazionali disciplinino prevedano l’insorgenza della responsabilità dell’organismo notificato per violazione degli adempimenti impostigli dalla direttiva, fermi restando i principi di equivalenza e di effettività dell’eventuale rimedio risarcitorio. A tale pronuncia è stata data interpretazione in chiave di prevalenza della dimensione personalistica rivolta alla tutela della salute e della sicurezza dei consumatori, a scapito dell’altro corno dell’alternativa dei valori in gioco, quello della tutela della libera circolazione dei prodotti nel mercato interno: F. Carrozza, L’“affaire PIP”. Dispositivi medici difettosi e responsabilità dell’organismo notificato, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1244 e ss. Non pare però che il tenore testuale della pronuncia legittimi necessariamente tale lettura, potendosi invece dare una interpretazione più neutrale della posizione adottata dalla Corte, nel senso di lasciare spazio a norme interne eventualmente responsabilizzanti purché non siano di disturbo al contemperamento degli interessi come divisato della direttiva prodotti. La Corte ricorda infatti che “da una giurisprudenza costante risulta che il regime istituito dalla direttiva 85/374…non esclude l’applicazione di altri regimi di responsabilità contrattuale o extracontrattuale perché essi si basino su elementi diversi, come la colpa”.91 Cfr. G. Alpa La responsabilità d’impresa cit., p. 13

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Il Libro Bianco in materia di illecito antitrust esordiva, nella sezione dedicata alla discussione dei criteri di responsabilizzazione, constatando la diversità di approcci tra i vari Stati membri con riguardo all’adozione del criterio della colpa, e rilevando che in alcuni Stati membri l’esistenza della colpa non è una condizione necessaria per la concessione del risarcimento di danni antitrust o è talvolta presunta in modo “inconfutabile” una volta comprovata l’infrazione. Nel discorso della Commissione dunque l’alternativa corre tra una regola di responsabilità non fondata sulla colpa ed una regola fondata sulla presunzione assoluta di colpa, e “la Commissione non vede ragioni per esentare gli autori dell’infrazione da responsabilità a causa dell’assenza di colpa” (Libro Bianco 2.4). Il proposito di non voler esentare da responsabilità per assenza di colpa sembrerebbe far propendere per una scelta in favore della regola di responsabilità per pura causalità, ma dal successivo discorso della Commissione emerge la preferenza per una regola che ponga la responsabilità sulla base della prova dell’infrazione (e anche degli altri due elementi, anche se la Commissione non lo chiarisce espressamente) ma dalla quale si possa sfuggire con la controprova della “reale scusabilità”. Dunque l’esonero non discende, nel contesto indicato, dalla prova del fortuito ma dalla prova della diligenza. Non si tratta di responsabilità oggettiva, dunque.

Non semplice si presenta poi il problema interpretativo circa la “reale scusabilità”, definita dal Libro Bianco come la situazione soggettiva in cui l’agente “ragionevole” pur impiegando un “livello elevato di diligenza” non potesse ciononostante essere consapevole dell’effetto anticoncorrenziale (“…che il comportamento limitava la concorrenza”). La prova esonerativa immaginata non era dunque, nel Libro Bianco, relativa alla condotta anticoncorrenziale in sé, la cui tenuta ed i cui effetti illeciti sono ormai assodati – al grado del giudizio di responsabilità in cui la prova liberatoria dovrebbe inserirsi92– e non consiste neppure nell’avere adottato ragionevoli condotte, coeve al comportamento illecito, improntate alla massima o alta diligenza e finalizzate all’acquisizione di informazioni (economiche, commerciali, finanziarie) relative all’impatto concorrenziale. Quest’ultimo, da valutarsi ovviamente alla luce dei criteri da tempo fissati nella prassi amministrativa e giurisprudenziale antitrust.

Per come era pensata nel Libro Bianco, la prova esonerativa non avrebbe dovuto vertere sui comportamenti concreti posti in essere nella 92 Così come l’attore non è onerato, nei casi di follow-on, della dimostrazione dell’e-sistenza di un requisito soggettivo in capo al danneggiante, “perché ciò che conta è il risultato, l’effetto del comportamento, ai fini dell’applicazione della disciplina della concorrenza”: G. Alpa, op. ult. cit, p. 10.

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sfera della “consapevolezza” dell’imprenditore (per esempio: dover provare di aver adottato determinate misure o condotte), ma sulla situazione astratta ed ipotetica in cui nessuno di ragionevole e ad un livello alto di diligenza avrebbe potuto essere consapevole dell’effetto anticoncorrenziale. Il convenuto per danni antitrust dovrebbe dunque dimostrare l’impossibilità della previsione dell’effetto anticoncorrenziale, cioè la sua imprevedibilità a partire da uno standard alto di comportamento ragionevole e diligente.

Quanto alla direttiva 104/2014 si è insistito sull’incompletezza della disciplina ivi dettata, con conseguente onere di integrazione, non solo di recepimento, sui legislatori nazionali93, e si è notato in dottrina come manchi la precisazione se il danneggiante debba provare la colpa o il dolo dell’impresa che ha violato la disciplina antitrust94, pur evidenziandosi come in assenza di norme espresse in senso derogatorio ai principi generali, “deve ritenersi che il danno da illecito antitrust sia risarcibile solo se la relativa azione sia stata posta in essere con dolo o colpa” con conseguente applicazione analogica della presunzione di colpa di cui all’art. 2600 c.c. in tema di concorrenza sleale95.

In effetti la direttiva 104 definisce l’oggetto, definisce vari lemmi, si occupa dell’esibizione delle prove, l’efficacia delle decisioni delle autorità, ma non contiene un enunciato paragonabile a quello dell’art. 1 della direttiva sulla responsabilità da prodotti difettosi (“il produttore è responsabile…”) né funzionalizza i rimedi che appresta (in tema di acquisizione di prove e soprattutto di disponibilità del rimedio risarcitorio) all’accertamento di una responsabilità.

10. Valori tutelati, rimedialità del risarcimento e regolazione del mercato

“C’è una analogia con l’illecito dello Stato per violazione di norme comunitarie: la violazione della norma è considerata illecito in sé per sé; quindi uno dei requisiti dell’atto illecito che debbono essere accertati dal giudice nazionale per l’applicazione diretta della normativa comunitaria è già soddisfatto. E non è necessario dare la prova della colpa o del dolo se la violazione è accertata.” 96

93 G. Villa, La direttiva europea sul risarcimento del danno antitrust: riflessioni in vista dell'attuazione, in Corr. giur., 2015, p. 308.94 G. Alpa, op. ult. cit.9 95 Così. M. Libertini, op. cit., p. 490; L. Nivarra, in A. Frignani- R.Pardolesi- A. Patroni Griffi- L.C.Ubertazzi, Diritto antitrust italiano, p.1459; M. Tavassi- M. Scuffi, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, p.311.96 Cfr. G. Alpa La responsabilità d’impresa cit., p. 65

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Si potrebbe ritenere che se la tendenza è quella a concepire il rimedio risarcitorio come un addentellato privatistico di rinforzo alla lotta che Commissione e Autorità nazionali conducono in opposizione ai cartel-li, l’aspettativa del legislatore europeo è verosimilmente nel senso che o questo nuovo strumento si inserisce rapidamente, con efficacia e senza diseconomie applicative nella policy dell’Unione - come dire: senza troppe complicazioni di fine diritto civile nazionale- o manca il bersaglio. Meno malignamente, si può osservare che il risultato dell’armonizzazione in questa occasione è stato pensato in funzione del solo rimedio concreto da realizzare in pratica: l’ottenimento di un risarcimento; o forse si potrebbe dire in termini economici e meno giuridici: l’ottenimento della traslazione di risorse dai contravventori alle loro controparti sul mercato97.

Si può cioè ipotizzare che a differenza di altri momenti di introduzione di rimedi risarcitori dal livello europeo al livello nazionale- dove ciò che interessava era armonizzare le regole civilistiche (ma si è detto: e ciò nep-pure esclusivamente in funzione di protezione dei beneficiari classici delle corrispondenti regole nelle tradizioni nazionali: i danneggiati; e piuttosto per- o almeno altrettanto per- evitare diseconomie derivanti dalla disuni-formità normativa, tanto più nocive al funzionamento del mercato), nel caso dell’illecito antitrust l’obbiettivo non sia stato quello di armonizzare regole (che a seconda dei casi nazionali non ci sono, o non ci sono col grado di radicamento che altri settori della r.c. hanno nelle esperienze nazionali98), ma semplicemente aumentare il carico di deterrenza contro i “responsabili” di intese ed abusi di mercato.

Ecco allora che la dimensione della responsabilità entra in gioco solo per individuare i soggetti legittimati passivi, i quali però sono già stati giudicati meritevoli di conseguenze riparatorie in un contesto giuridico che è pensato per sfuggire ai giudizi di responsabilità civile tradizionale99.

97 Cfr. dunque ancora A. Nicita, Deterrenza, sanzioni e mercato. Una riflessione econo-mica, in M. Maugeri – A. Zoppini (a cura di), Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, Bologna, 2010 p. 27 e ss., per utili indicazioni circa la tendenziale assenza di preferenza tra strumenti privatistici o pubblicistici di enforcement, dal punto di vista della scienza economica; Cfr. G. Gitti – P. Spada, La regolazione del mercato come strategia, in G. Gitti (a cura di), L’autonomia privata e le autorità indipendenti, Bologna, 2006, p. 16.98 Cfr. i risultati offerti nella relazione di D. Waelbrock-D. Slater-G.Even- Shoshan, Study on the conditions of claims for damages in case of infringement of EC competition rules (Ashurts), 31.8.2004; v. altresì A. Andreangeli, EU Competition enforcement and human rights, Cheltenham, 2008.99 G. Villa, op. cit., p. 309, parla di “…testo normativo di cittadinanza italiana ma di idioma apolide” , riferendosi all’attuazione italiana di cui si era in attesa all’epoca della

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Nelle intenzioni del legislatore europeo il giudizio di responsabilità inteso come imputazione di un fatto illecito è probabilmente superfluo, se l’autore della violazione così è già stato giudicato, almeno nei procedi-menti cd. follow on.

Quando poi la direttiva si riferisce al problema della causalità, non sembra riferirsi al nesso tra fatto-fonte e danno-evento o tra compor-tamento e danno- evento (per usare altra terminologia), ma al nesso tra danno-evento e danno-conseguenza ai fini della selezione dei danni risarcibili e dunque della quantificazione del risarcimento (l’unico profilo di interesse nella prospettiva del diritto UE), al qual proposito il consi-derando 11 dice che qualora i diritti civili interni prevedano condizioni inerenti l’elemento soggettivo dell’illecito o il nesso di causalità potranno pur mantenerle ma sempre che non si pongano in contrasto con i principi giurisprudenziali di effettività ed equivalenza100.

Uno strumento normativo siffatto (dimesso e velleitario101) sorpassa dunque il tema dell’an per andare direttamente agli aspetti processuali ed al quantum (art. 17).

Ora, in tema di private enforcement sembra convincente ricostruire le coordinate qualificanti dello strumento di diritto europeo, ancora una volta, attorno alla rinnovata categoria della tutela rimediale102, il che è sostenibile innanzitutto come conseguenza logica della funzione verso la quale l’azionabilità privata dell’illecito antitrust è proiettata dalla direttiva (in sintesi: in vista dell’obiettivo di completamento della funzione sanzionatoria delle condotte illecite affidata al circuito amministrativo, che

pubblicazione del saggio. Lo Stato membro non può evitare di recepire la normativa, che però è “apolide” da un punto di vista logico/terminologico.100 In tema v. S. Mazzamuto – A. Plaia, I rimedi del diritto privato europeo, Torino, 2012, p. 162 e ss.101 R. Pardolesi, Il private enforcement del diritto antitrust: un animale fantastico, e dove trovarlo, in B. Sassani (a cura di), Il private enforcement nella disciplina della concorrenza. D. legs. 3/17, Pisa, p. 10102 La premessa concettuale del discorso sui rimedi è quella che a partire dalla constatazione di una diversa possibile impostazione del sistema delle tutele (per raffronto con l’esperienza anglosassone) domanda “quale spazio…sussiste anche nella civil law per organizzare un sistema di tutela attorno all’idea del “rimedio”, avente valenza sostanziale, anziché a quella del diritto soggettivo? “, ove la ricerca di un tale spazio appaia “una scelta quasi obbligata quando, nonostante ogni sforzo, non è dato rinvenire una posizione definibile come diritto soggettivo e ciò nonostante l’evidenza di un bisogno di tutela”: A. di Majo, op. cit., Milano, 2001, XIV. Della categoria rimediale si è del resto ben sottolineato come essa determini “un radicale mutamento di prospettiva nell’opera di edificazione del sistema, la cui chiave di volta non è più individuata nel diritto soggettivo ma nel mezzo di soddisfacimento dell’interesse meritevole di tutela”: S. Mazzamuto – A. Plaia op. cit., p. 1 e ss.

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sembra richiedere da un punto di vista di tecnica legislativa la massima semplificazione possibile dei passaggi necessari per pervenire al primo e più diretto risultato materiale prefigurato dal legislatore dell’Unione, cioè il risarcimento a favore dell’attore danneggiato; ma anche del secondo e indiretto obbiettivo, costituito dall’appesantimento delle conseguenze economiche sull’infringer e dall’effetto di deterrenza generale in questo modo provocato).

In secondo luogo, la prospettiva di inquadramento come rimedio sembra raccomandarsi sempre sul piano della tecnica dell’armonizzazione legislativa anche da un punto di vista di migliore divulgabilità dell’istituto giuridico rispetto ad una platea di ordinamenti nei quali non necessariamente la “clausola indifferenziata che reca divieto di arrecare danno ad altri” come fonte di responsabilità costituisce il perno della tutela risarcitoria103.

Tutto ciò sembra infine implicare che di fronte all’approccio che predilige la diretta previsione e prefigurazione da parte dell’ordinamento degli effetti materiali selezionati (dal legislatore dell’Unione, in base alle proprie politiche) per essere garantiti dai nuovi strumenti normativi (nel caso della direttiva 104: un “risarcimento”), si possa prescindere dalla completa ricostruzione di una fattispecie di responsabilità. Ma se queste sono le intenzioni, per così dire, di massima concretezza ed apertura mentale del legislatore dell’Unione, occorrerà verificare in che modo e con che esiti di coordinamento si ricombineranno le fonti dei due livelli. A ben vedere l’evoluzione della materia in tema di r.c. da prodotto difettoso mostra lo sviluppo di un rimedio risarcitorio strutturato secondo un modello di tutela non particolarmente originale- dal punto di vista concettuale- se paragonato alle acquisizioni dottrinali, giurisprudenziali o legislative che il panorama internazionale, sicuramente oltreoceano ma anche in Europa, offriva, ma era innegabile il grande impatto in termini di armonizzazione del diritto. Del resto non solo il legislatore dell’Unione non ha ovviamente inventato il sistema della responsabilità civile, e neppure l’idea della responsabilità oggettiva, ma non è neppure mai stata sulla sua agenda la completa occupazione dell’area che corrisponde a questa materia (il corrispondente dictum nelle sentenze della Corte è ormai una massima104).

In materia il legislatore europeo è invece intervenuto, per così dire,

103 A. Di Majo, op. ult. cit., p. 180, ove pure la constatazione che “potrebbero in teoria costituire eccezione sistemi (come quello francese, e, sulle sue orme, quello italiano) che invece conoscono una clausola generale di responsabilità, nel senso di predicare la responsabilità di ogni danno colposamente provocato”, p. 181.104 V. altresì la Quarta Relazione sull’applicazione della direttiva “prodotti”, Bruxelles, 8.9.2011, COM (2011) 547 def., al punto 4.

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in tempo prima che i diritti nazionali- ognuno con la propria antica ed elaborata tradizione- potessero, con velocità varia l’uno dell’altro, introdurre fattori di concorrenza tra ordinamenti potenzialmente pregiudizievole per l’uniformità di tutela dei consumatori, non intesa solo come obiettivo da porsi fine a se stesso ma quale precondizione giuridica del funzionamento del mercato (questo è diventato sempre più chiaro proprio dall’analisi dei giudizi di compatibilità tra direttiva r.c. prodotti e normative nazionali di attuazione).

Uno strumento (quello della tutela risarcitoria) di pura origine statale è stato in tal modo elevato a tecnica di indiretta regolazione del mercato dal livello legislativo europeo, che ne ha affidato d’altro canto il controllo applicativo ad un sistema giurisdizionale che trova bensì nel Lussemburgo un punto di riferimento ermeneutico ma che è alimentato dalla cooperazione dei giudici nazionali del rinvio pregiudiziale e dell’applicazione casistica.

Gli stessi giudici nazionali del resto non hanno la facoltà di collaborare in quella direzione, ma ne sono obbligati, pena il coinvolgimento della responsabilità extra-contrattuale dello Stato in una delle sue conformazioni; questo sì – la responsabilità civile dello Stato- strumento innovativo istituito dal livello gerarchicamente superiore nell’ordinamento europeo, candidato ad acquistare progressivamente un ruolo di principio di chiusura del “sistema” rimediale, quale garanzia di ultima istanza a beneficio del soggetto di diritto, e cittadino, dell’Unione.

In una prospettiva di composizione che potremmo definire modulare della tutela risarcitoria, si è poi osservato come gli interessi vengano selezionati dall’Unione105 ma come poi sia alla fase processuale nazionale che spetta di garantirne la soddisfazione. Così gli strumenti di diritto europeo secondario/derivato si concentrano sugli aspetti che dovranno essere gestiti dagli Stati, e tali strumenti- per il loro contenuto- sono tipicamente portatori di armonizzazione di aspetti rimediali e processuali, e del resto sono questi gli aspetti che si riveleranno problematici. Il che probabilmente è inevitabile in un processo di armonizzazione di questa ampiezza (lo confermano casi di conflitto tra norme interne e direttiva “prodotti”).

L’aspetto rimediale della tutela emerge chiaramente dal modo con cui il legislatore dell’Unione tende ad interpretare, e fare conto su, gli istituti della responsabilità civile delle tradizioni nazionali, e di ciò appare emblematica la tecnica di redazione della direttiva sull’enforcement nel settore antitrust, dove l’obiettivo dell’intervento è quello di conferire ai singoli un rimedio in funzione di deterrenza rispetto alla violazione del diritto dell’Unione, e

105 Cfr. ancora S. Mazzamuto-A. Plaia, op. cit., p. 36.

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rispetto alla quale la valutazione di illiceità delle condotte sembra sottratta al compito del giudice del merito, gravato dall’obbligo di attenersi a norme del diritto dell’Unione (e questo è un dato, per così dire, naturale che sarebbe errato percepire come un’ingerenza “estranea”; il diritto dell’Unione non è “altro” da ciò che un giudice nazionale riconosce come fonte applicabile alla fattispecie da dirimere) ma soprattutto obbligato ad arrestare la propria cognizione di fronte alle valutazioni e pronunciamenti compiuti da organi amministrativi dell’Unione (o nazionali), il che a quanto pare è visto dal legislatore dell’Unione come un altro elemento altrettanto naturale al quale il giudice interno dovrebbe abituarsi velocemente106.

Ciò detto, più che aggiornare il tema della funzione della responsabilità civile (in tema di prodotti difettosi o di danno antitrust) rispetto alla classica tripartizione risarcimento/deterrenza/punizione, occorrerà valorizzare la sua funzione “comunitaria- europea” nella prospettiva dell’armonizzazione107. Al discorso descrittivo sulle funzioni della responsabilità civile si può del resto aggiungere poco che non sia di mero aggiornamento dell’elenco o di ammodernamento terminologico o di riclassificazione108.

106 Si è acutamente osservato come le regole antitrust si prestino in questo modo a ridurre il corrispondente illecito a “soluzione di private enforcement della regolazione”, affrontando “in chiave essenzialmente “politica” il problema della legittimazione a fare valere la regola senza pronunciarsi sulla struttura della stessa regola”: A. Genovese, Il risarcimento del danno da illecito concorrenziale, Napoli, 2005, cit., p. 108, nota 100; ivi, p. 178 e ss., anche per l’inquadramento della responsabilità da illecito concorrenziale come basata sulla violazione di regole di concorrenza (costruite attorno ai principi della correttezza professionale) in quanto lesiva di un “vantaggio competitivo di un altro imprenditore. Non c’è differenza da questo punto di vista tra norme che sanciscono privative e norme che stabiliscono regole di condotta. Tutte queste norme stabiliscono le condizioni che consentono all’imprenditore di sfruttare il vantaggio competitivo sul concorrente”. In questo contesto, la posizione giuridica protetta potrebbe raffigurarsi come il diritto a partecipare ad un “gioco” (della concorrenza e del mercato) in cui i competitors giochino in modo pulito e leale, dunque un diritto con una propria connotazione attiva di pretesa su comportamenti altrui nel particolare contesto concorrenziale. Per richiami alla teoria del diritto soggettivo di gestione dell’impresa propugnata da R. Nicolo’, Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile, in Riv. Dir. Comm., 1956, I, p. 190 e ss., v. ancora A. Genovese, op. ult. cit., p. 162-163, la quale declina la posizione soggettiva dell’imprenditore piuttosto “come interesse giuridico qualificato che, se ne sussistono le condizioni, accede alla protezione risarcitoria”, ibidem, p. 180107 Un bel termine, questo, tratto dal gergo musicale che nel nostro caso significa “prevenzione del rischio di eccessiva varietà normativa e giuridica”. Gli Stati hanno desiderato in questo caso una musica orchestrata da un livello superiore.108 Cfr. per tutti G. Alpa, La responsabilità civile, cit., p. 131 e ss.; vi si ricorda tra l’altro come Glanville Williams (The Aims of the Llaw of Tort, in Current Leg. Probl., 4, 1951, p. 137 e ss.) ponesse in rilievo l’effetto voluto delle regole di responsabilità civile, rispetto

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Prodotti, consumatori e mercato

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Ebbene, da quanto evidenziato emerge la pregnante funzionalizzazione dell’istituto risarcitorio ad un obiettivo generale nell’ambito delle politiche dell’Unione: il risarcimento dovuto in base alla regola di responsabilità oggettiva nel mercato dei prodotti produce il ben noto effetto (se non deterrente, quantomeno di) miglioramento delle capacità di previsione del tasso di dannosità dal lato del “best risk avoider”, il quale può allocare risorse in vista dell’obbligo di risarcire oppure può trasferire la posta passiva sui professionisti del rischio; quest’ultima soluzione può far dubitare dell’effettività della funzione di prevenzione (del danno)109 ma non può obliterare il rilievo che lo spostamento del rischio finanziario sul mercato assicurativo – pur con il connesso effetto di ripartizione nel mercato dei costi assicurativi- aumenti comunque il tasso di soddisfazione per i risarcimenti ottenuti (anche chiamandoli in modo meno “aquiliano”: indennizzi), ed anche questo va sicuramente considerato un effetto convergente verso l’efficienza del mercato. In tema antitrust, poi, questa funzionalizzazione era dichiarata fin dagli atti preparatori della direttiva, era introdotta dalla giurisprudenza della Corte ed è confermata dalla lettura della direttiva stessa110.

alla centrale domanda inerente l’obiettivo al quale si finalizza la regola risarcitoria, se come risposta ad un impulso di giustizia- nei vari sensi in cui il termine venga adottato- o per scopi di pacificazione sociale o di deterrenza o di punizione. Inoltre, una volta acquisita la non neutralità, ed invece la piena politicità delle teorie sulla responsabilità civile, (su cui v. sempre G. Alpa, op. cit., p. 155), può essere interessante inserirsi nel dibattito là dove occorre affrontare la questione se negli attuali sistemi la violazione di regole di comportamento, ove sia una violazione connotata in senso morale, abbia per così dire perso il mordente o meno, una volta constatata la tendenza dei giudici della responsabilità civile ad “operare per prevenire comportamenti antisociali più che per reprimere comportamenti immorali:” v. ancora G. Alpa, ibidem, p. 158, a proposito del pensiero di André Tunc.109 Cfr. G. Ponzanelli, La responsabilità civile, cit., p. 39 e ss.110 Si è osservato in dottrina quanto sia arbitrario “accreditare l’idea che la ratio della disciplina in discorso non sarebbe costituita da istanze di giustizia contrattuale bensì dall’obiettivo di efficienza del mercato e di coincidenza tra mercato reale e mercato ideale. Una simile prospettiva, nella quale il consumatore e/o l’impresa debole risultano “in sostanza agenti della razionalità del mercato“ se da un lato mette giustamente in luce l’inevitabile connessione tra interesse privato e interesse generale- nel senso che un mercato ordinato e sano si giova del corretto esercizio dell’autonomia privata anche da parte dei soggetti deboli e, viceversa, un mercato corretto giova a tutti, non soltanto ai soggetti forti- inverte l’ordine dei valori, nel momento in cui accredita la tutela dei consumatori come il falso scopo dell’obiettivo vero, che sarebbe costituito dalla salvaguardia del mercato”, poiché questo sarebbe un “messaggio carico di ambiguità, perché presenta la poziorità che in tal modo sarebbe da riconoscersi al mercato come una ineluttabilità” di cui l’interprete non potrebbe che limitarsi a prendere atto: C. Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in Europa e diritto privato, 2006, pp. 422-423. L’indicazione, espressa

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F. Toriello

Incidentalmente, si potrebbe aggiungere che se oggi si guarda con rinnovato interesse a rimedi sanzionatori da inserire nel sistema della responsabilità civile, forzandone la capacità massima di estensione in nome della sua storia e dei suoi ascendenti punitivi o argomentandone la già avvenuta commistione con la funzione afflittiva per via di interventi legislativi, forse è anche perché il “sistema della responsabilità civile” ed i suoi attori non sono inclini ad abdicare ad un ruolo (che la responsabilità ha ed ha avuto) maggiormente incisivo in quanto collegato alla funzione riparatoria rispetto alle conseguenze di condotte individualmente e socialmente dannose. Sapere che il danno verrà indennizzato, quindi una inefficienza del mercato verrà neutralizzata, senza però garanzie che l’autore della corrispondente condotta abbia perlomeno ricevuto un segnale utile in funzione di prevenzione e deterrenza potrebbe non bastare, alle società contemporanee. Quanto al settore antitrust, se una inclinazione pro-punitive damages non è per ora leggibile nella trasposizione italiana ciò può forse spiegarsi anche con la percezione di minore necessità di tale tipo di rimedio, visto che per definizione l’enforcement dovrebbe andare ad aggiungersi alla principale reazione dell’enforcement pubblicistico, già di per sé finalizzato (anche, se non necessariamente) alla sanzione delle condotte.

su temi di ambito contrattuale ma con accenti di tenore generale, è ovviamente preziosa. D’altra parte nella ricerca della comprensione dell’“obbiettivo vero” sembra comunque irrinunciabile il tentativo di rintracciare nell’ambito delle pronunce interpretative della Corte di giustizia indizi utili per ricavare dalla prassi giurisprudenziale rationes non evidenti alla lettura del formante legislativo; se in tale ricerca emerge il valore dell’equilibrio del mercato, pur tra diritti soggettivi da tutelare (quello alla tutela della salute e al risarcimento dei danni in capo al consumatore lo è, come quello all’attività economica in regime concorrenziale da parte degli imprenditori), come faro interpretativo ciò’ può anche non significare l'avallo di una poziorità del mercato come scelta di politica del diritto ordoliberale ma semmai la poziorità della policy di regolazione di esso, come funzione primaria delle politiche europee; quali valori possano orientare tali politiche esula invece dal tema di questo contributo. Su questi argomenti Cfr. A. Somma, Temi e problemi di diritto comparato, IV, Diritto comunitario vs. Diritto comune europeo, Torino, 2003, p. 21 e ss.; v. altresì, per un resoconto del dibattito dottrinale italiano su questi temi G. Marini, La responsabilità negli anni settanta. Uno studio sulla relazione pubblico/privato (parte I), in Riv. crit. dir. priv., 2008, p. 62-65.

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Giovanna Visintini

Atipicità dei fatti illeciti e danno ingiusto

Sommario: 1. Il solco tracciato da Stefano Rodotà – 2. Il superamento del requisito della colpa come criterio generale – 3. Illecito civile e valori costituzionali – 4. L’espansione delle frontiere della ingiustizia del danno – 5. Il dialogo (mancato) fra dottrina e giurisprudenza.

1. Il solco tracciato da Stefano Rodotà

L’occasione di questi dialoghi con Guido Alpa mi consente di tornare su un argomento che ci ha accomunato nei nostri studi, quello con cui Guido ha intitolato una monografia inserita nella Biblioteca ordinata da Pietro Rescigno “Il problema dell’atipicità dell’illecito” edito da Iovene nel 1979, tema da lui successivamente ripercorso nei suoi numerosi scritti dedicati alla responsabilità civile.

Entrambi ci siamo mossi nel solco del libro di Stefano Rodotà intitolato “il problema della responsabilità civile” edito nel 1969. Questo libro ha segnato un passaggio importante nell’interpretazione della disciplina codicistica sui fatti illeciti: quello di aver separato il concetto di illecito da quello di colpa civile e di leggere nell’art. 2043 cod. civ. una duplice previsione: la prima relativa ad una clausola generale di responsabilità (il danno ingiusto) e la seconda, che fissa uno dei criteri di collegamento o imputazione della responsabilità (la colpa). In altri termini a questo maestro del diritto e alla sua teorizzazione si deve l’avvio ad una maggiore consapevolezza che la recezione legislativa del requisito dell’ingiustizia del danno si è tradotta nell’inserimento nel codice civile vigente di una clausola generale di responsabilità civile, come strumento il più adatto a regolare una realtà in continuo e crescente dinamismo, lasciando libero il giudice di apprezzare le modalità delle fattispecie concrete e di svolgere un ruolo creativo nella costruzione di una serie aperta di fatti illeciti (1). Ecco l’atipicità, ovvero l’avvio di una tipizzazione ad opera della giurisprudenza di

1 Cfr. S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, ed. Giuffrè, Milano, 1964, passim e spec. a p. 116 ss. e la recensione a Rodotà di F. Galgano, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 535 ss.

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G. Visintini

fattispecie concrete di lesioni di interessi rilevanti in contrapposizione a una tipizzazione legislativa ovvero a una enumerazione tassativa di figure di illeciti.

Il punto di vista tradizionale all’epoca in cui Rodotà scriveva questo libro, come è noto, era dominato da una posizione dottrinale che rimproverava al legislatore del ’42 di essere incappato in un errore giuridico con la trasposizione di un requisito, quello dell’ingiustizia, dal fatto al danno; posizione dottrinale che, a mio avviso, confondeva la nozione di ingiustizia con quella di antigiuridicità. I rappresentanti di questo indirizzo affermavano che un pregiudizio economico, di per sé, non può essere giusto né ingiusto e che pertanto l’ingiustizia era un requisito del fatto e non del danno. In realtà l’errore non è stato del legislatore, ma è stato della dottrina, che ha, in un certo senso, passato sotto silenzio un requisito indiscusso del fatto illecito, la ‘lesione dell’altrui sfera giuridica’, circoscrivendo il concetto di danno in questo contesto legislativo al solo pregiudizio economico misurabile in denaro2.

Con ciò ignorando quanto era scritto nei lavori preparatori del codice civile laddove veniva spiegato l’inserimento dell’aggettivo ingiusto accanto al danno, innovando sotto questo profilo il testo del precedente legislativo (art. 1151 cod. abr. del 1865) in tutto conforme al modello del code civil (art. 1382).

Si legge testualmente nella Relazione del Guardasigilli: «Perché il fatto doloso o colposo sia fonte di responsabilità occorre che esso produca un danno ingiusto. Si precisa così, conferendo maggior chiarezza alla norma dell’art. 1151 cod. civ. del 1865, che la culpa e la iniuria sono concetti distinti; quindi si esige che il fatto o l’omissione, per essere fonte di responsabilità debba essere doloso o colposo (omissis) e debba inoltre essere compiuto mediante la lesione dell’altrui sfera giuridica»(3).

È chiaro il significato di queste parole. Si voleva richiamare l’attenzione sull’elemento oggettivo dei fatti illeciti, sulla cui necessità regnava un consenso unanime al punto che nel codice precedente non si era sentito il bisogno di menzionarlo espressamente: il damnum iniuria 2 Mi limito a richiamare, fra gli esponenti di tale dottrina, fra gli altri, G. Pacchioni, Il danno ingiusto secondo il vecchio e il nuovo codice, in Scritti in onore di C. Ferrini, II, Milano, 1947, p. 164 ss.; A. Fedele, Il problema della responsabilità del terzo per pregiudizio del credito, Milano, 1954, p. 117; L. Barassi, Teoria delle obbligazioni, II, Milano, 1964, p. 432; A. De Cupis, Il danno, I, Milano, 1966, p. 12. S. Pugliatti voce “Alterum non laedere” in Enc. dir. Milano 1958, p. 98 ss.; P. Schlesinger, L’ingiustizia del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, p. 336 ss. Per una rivisitazione dei vari approcci teorici alla formula ‘danno ingiusto’ v. V. Scalisi, Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 29 ss.3 Cfr. la Relazione del ministro Guardasigilli al codice civile, n. 267.

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datum, con cui si alludeva alla lesione di un diritto altrui.Tuttavia in Italia per lungo tempo gli interpreti ignorarono questa

novità legislativa e la assommarono nell’elemento soggettivo e cioè nel fatto colposo, nell’idea che, essendo la colpa la violazione di una norma predisposta a tutela dei diritti dei singoli, solo in presenza di un comportamento colposo poteva darsi la lesione di un diritto e quindi un danno ingiusto.

In questo modo si risolveva il requisito dell’ingiustizia del danno nell’antigiuridicità della condotta.

Anche la nota posizione dottrinale che – al fine di spiegare la differenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ricorreva alla formula del dovere generico del neminem laedere la cui violazione, si diceva, dava luogo alla responsabilità aquiliana, laddove la responsabilità c.d. contrattuale era conseguenza della violazione di una obbligazione specifica – intendeva quella formula come la sintesi verbale di una serie di obblighi previsti dalla legge a tutela dei diritti dei singoli e pertanto si muoveva sul terreno della colpa, intesa come violazione di un dovere, come unico criterio di imputazione della responsabilità civile sia contrattuale che extracontrattuale (4).

2. Il superamento del requisito della colpa come criterio generale

Negli anni in cui scriveva Rodotà si cominciava a parlare di responsabilità oggettiva e intorno ai libri di Pietro Trimarchi5 e di Guido Calabresi6 si era avviato un dibattito molto ricco volto a richiamare l’attenzione su una serie di criteri di imputazione della responsabilità diversi dalla colpa.

E quindi quando si comincia ad essere consapevoli del fatto che la colpa non integra l’unico criterio di imputazione della responsabilità e si viene accreditando la teoria della responsabilità oggettiva nel contempo ci si accorge del significato della nozione legislativa di danno ingiusto e del fatto che la selezione degli interessi meritevoli di tutela aquiliana era stata affidata, consapevolmente, dal legislatore del 1942 ai giudici con la innovazione legislativa qui descritta, e non rinviata ad altre norme nei confronti delle quali l’art. 2043 avrebbe dovuto assumere un ruolo subalterno. 4 Cfr., per tutti, S. Pugliatti, voce “Alterum non laedere”, in Enc. dir., Milano, 1958, p. 98 e ss.5 Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 19616 Costo degli incidenti e responsabilità civile, con la presentazione di Rodotà, Milano, 1975

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Pertanto da questo momento la norma assume il valore di norma primaria che, da un lato, prevede uno dei criteri di imputazione della responsabilità, la colpa, e d’altro lato, recepisce la clausola generale, alla stregua della quale il danno, inteso come lesione dell’interesse altrui, deve essere ingiusto. La dottrina civilistica e la giurisprudenza italiane scoprono l’importanza delle clausole generali come tecnica legislativa adatta a regolare una realtà in continuo e crescente dinamismo e rivalutano la scelta legislativa del 1942, affermando che compete al giudice di apprezzare le modalità delle fattispecie concrete e di stabilire ogni volta se il danno è ingiusto.

In questo quadro nel bel libro di Federico Roselli dal titolo “Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali” anch’esso inserito nella biblioteca Rescigno, l’a. esprime un giudizio di utilità della nozione di clausola generale, cioè di disposizione dal contenuto elastico, in cui il legislatore delega al giudice una scelta di valore nell’individuazione in concreto della casistica da riportare nell’alveo della direttiva generica della legge. L’utilità è di prima evidenza - scrive l’a. - laddove sia necessario adattare le formule legislative alla infinità varietà dei casi pratici come si coglie nei numerosi rinvii alle regole del costume in diritto di famiglia e a quelle della pratica commerciale nel diritto delle obbligazioni, alla correttezza e lealtà nella contrattazioni. Roselli si pone poi il problema del controllo sulla possibile eccessiva discrezionalità dei giudici nell’uso delle clausole generali, controllo che oggi più che mai si richiede dalle migliori voci del mondo che ci appartiene e mi limito a citare quanto scrive Galgano in uno degli ultimi suoi scritti apparsi in Contratto e impresa nel 2012 intitolato “La giurisprudenza fra ars inveniendi e ars combinatoria” a proposito di alcune sentenze di Cassazione in cui gli era sembrato che i giudici tendessero a dimenticare che sono soggetti alla legge. Galgano scriveva che gli operatori del diritto devono sì fare opera di interpretazione anche integrativa del sistema legislativo, ma devono appoggiare le loro decisioni su argomentazioni coerenti con il dettato legislativo, perché altrimenti, e non lo possono fare, incorrono in trasgressione della legge.

Ora Roselli, oltre a segnalare gli strumenti messi in opera dalla Suprema Corte di cassazione per contrastare un diritto eccessivamente libero (si pensi alla cassazione delle sentenze di merito per omessa e insufficiente motivazione), sostiene che i criteri di riduzione dell’indeterminatezza propria delle disposizioni elastiche sono forniti dal sistema perché il giudice è delegato dalle direttive generiche della legge a rinvenire valori e apprezzamenti di ambienti, ceti e comunità all’interno del sistema.

Anche nella costruzione di Rodotà è presente la preoccupazione di porre

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un freno all’arbitrio del giudice, ma l’approccio è ribaltato rispetto al punto di vista tradizionale, perché l’attenzione è portata finalmente sulla natura degli interessi colpiti.

Rodotà insisteva sulla circostanza del riferimento legislativo del requisito dell’ingiustizia al ‘danno’ anziché alla ‘condotta’ e metteva in relazione tale innovazione con quel più generale orientamento rinvenibile nel codice del 1942 (artt. 833, 1175, 1337) e anche nella Costituzione (art. 41 cpv.), laddove è stato introdotto il limite della solidarietà all’operare dei soggetti in quanto membri della stessa comunità e non solo in quanto titolari di un rapporto obbligatorio fra essi instauratosi. In altri termini Rodotà affermava che si ha ingiustizia del danno tutte le volte che risulta violato il limite della solidarietà in riferimento a situazioni preesistenti del soggetto danneggiato, giuridicamente rilevanti in base ad altre norme, diverse dall’art. 2043 cod. civ.

3. Illecito civile e valori costituzionali

Si può dire che Guido Alpa è stato il primo fra i civilisti a raccogliere questo il messaggio di rinvenire nella Costituzione i valori cui attingere nell’interpretazione del sistema codicistico in materia di fatti illeciti e nell’uso delle clausole generali presenti in questa disciplina.

Il libro che ho sopra menzionato anticipa e supporta gli indirizzi giurisprudenziali che già allora cercavano di ampliare la tutela della salute con il richiamo alle norme costituzionali. Norme come gli artt. 2, 32, 38, 42 e 41 cost. cui, secondo l’a., la giurisprudenza può dare attuazione diretta anche nei rapporti tra privati dovendosi in allora far fuori il pregiudizio secondo cui le direttive costituzionali si rivolgono solo al legislatore. Norme che esprimono valori atti a risolvere conflitti tra interessi, tipo quello in materia di inquinamento ambientale tra l’interesse alla salute e le ragioni della proprietà e quello in materia di tutela della vita privata tra il diritto alla riservatezza e la libertà di cronaca e altro ancora.

Ma tornando all’ingiustizia del danno occorreva contrastare in modo definitivo l’altro vecchio pregiudizio che assicurava la risarcibilità dei danni per la sola lesione di diritti soggettivi assoluti e la rifutava agli interessi che non assurgono alla dignità di diritto soggettivo e in questa direzione si muove con determinazione la produzione scientifica di Guido Alpa con grande attenzione all’esperienza francese come modello fondato sull’atipicità ma senza trascurare l’analisi della Law of Tort inlese e americana

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e la dottrina tedesca. L’approccio comparatistico che ha caratterizzato da sempre la produzione scientifica di Alpa, ha certamente servito ad eliminare i pregiudizi e a supportare gli indirizzi giurisprudenziali che già allora cercavano di ampliare la tutela della salute con il richiamo alle norme costituzionali.

Il movimento che va sotto il nome del danno biologico che viene tutto scandito nel segno dell’ingiustizia trova in Alpa uno dei fondatori e si è espresso con l’ausilio di interpretazioni a partire dai valori costituzionali. Infatti, con la giurisprudenza sul c.d. danno biologico si è attuato un superamento della concezione della tutela aquiliana della salute che nel linguaggio dei giuristi era ridotta nei limiti di tutela dell’integrità fisica e del diritto alla incolumità individuale. Era questa, infatti, la terminologia in uso a livello di codice civile e di codice penale, oltre che di legislazione speciale nella materia. Ovverossia l’espressione legislativa non era ‘diritto alla salute’, ma ‘diritto alla integrità fisica’ o ‘diritto alla incolumità individuale’. È sufficiente leggere, a conferma, gli articoli del codice penale sui delitti contro la vita e l’incolumità individuale sopra citati e l’art. 5 cod. civ. che si occupa degli atti di disposizione che comportano lesioni all’integrità fisica.

Quindi per lungo tempo a livello legislativo la tutela della salute era circoscritta ad una tutela alle lesioni dell’integrità fisica oltreché nei limiti di un problema assicurativo del rischio rappresentato dalla malattia o da infortuni sul lavoro nel campo della legislazione speciale previdenziale.

La tutela della salute veniva inoltre ridotta ad una dimensione individuale: laddove vi è una lesione personale, il cittadino ha diritto al risarcimento del danno e – se è lavoratore – anche all’assicurazione obbligatoria contro le lesioni della salute che sono collegate a mansioni lavorative.

Con l’ausilio di argomentazioni a partire dalla Costituzione, in particolare dall’art. 32 Cost., si comincia a privilegiare una terminologia diversa e a preferire l’espressione ‘diritto alla salute’, come diritto primario ed assoluto direttamente tutelato dalla Costituzione, al termine ‘diritto alla integrità fisica’. Oltre a questo ricordo en passant che nell’accezione dell’art. 32 Cost. il diritto alla salute viene presentato non soltanto come un diritto dell’individuo ma anche, nel contempo, come un diritto della collettività.

E questo dato ha supportato una giurisprudenza mirata a dilatare la tecnica della responsabilità civile alla tutela, non solo del diritto individuale, ma anche del diritto ad un ambiente salubre.

Si deve dunque riconoscere che il diritto alla salute nell’accezione ampia cui si riferisce la norma costituzionale ha acquistato un contenuto diverso dal diritto alla integrità fisica cui si riferisce l’art. 5 cod. civ. Tale evoluzione

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rivela tutta la sua importanza soprattutto, come vedremo, a proposito dei danni da inquinamento ambientale e dei danni alla salute psichica non accompagnati da lesioni o traumi fisici.

Infatti, con riguardo al primo settore, le argomentazioni tratte a partire dall’art. 32 Cost. consentono ai giudici, da un lato, di ritenere esperibile un’azione inibitoria da parte di proprietari di case vicine a insediamenti industriali che mettono in pericolo la salute degli abitanti e, d’altro lato, consentono di assicurare la tutela civilistica dell’integrità fisica delle vittime delle immissioni industriali attingendo direttamente dalle norme costituzionali i criteri di valutazione degli interessi in gioco. Quindi si accredita una sorta di azionabilità diretta, da parte dei giudici, di norme costituzionali anche nei casi in cui l’iniziativa processuale dei singoli si basa soltanto sull’art. 844 cod. civ. e quindi su una richiesta di tutela contro violazioni della proprietà.

Con riferimento al secondo settore l’accezione costituzionale del diritto alla salute consente di accreditare una tutela aquiliana contro le alterazioni dello stato di salute anche non coincidenti con lo stato di malattia. E ciò palesa tutta la sua importanza se si pensa che da sempre i danni alla salute non accompagnati da una malattia nel corpo o nella mente non rientrano nella definizione del reato di lesione personale di cui all’art. 582 cod. pen., che prevede, fra i presupposti di applicazione del reato, l’esistenza di una malattia collegata causalmente alla lesione stessa (7).

In definitiva, stanti le inevitabili connessioni in questa materia tra la valutazione del danno alla persona in sede penale ed in sede civile, il riferimento alla salute nel quadro della valutazione dell’ingiustizia del danno è certo nel senso di allargare la tutela ad interessi fino ad ora trascurati a causa delle discussioni intorno all’esistenza o meno di uno stato di malattia o di uno stato di incapacità generica o specifica di svolgere una attività lavorativa.

Attualmente la categoria del danno biologico è stata recepita dal legislatore e la portata innovativa della sua creazione è stata soprattutto quella di indicare la soluzione risarcitoria del danno alla persona in una liquidazione eguale per tutte le persone, con riferimento a parametri equitativi e non correlata soltanto all’incidenza sulla capacità lavorativa o, in generale, sul reddito. Ma sotto questo profilo il discorso attiene alla valutazione delle conseguenze dannose del fatto illecito e dunque al significato del termine danno come pregiudizio economico. Come dirò più 7 Allo stato attuale, la disciplina di cui al testo non è stata variata nella sostanza. In particolare, la legge 24 novembre 1981, n. 689, non ha innovato in materia anche se ha introdotto delle aggravanti che tengono in maggior conto il valore sociale e gli interessi in gioco in vista delle esigenze di una vita di relazione: cfr. artt. 60, 91, 92 legge cit.

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avanti non bisogna confondere le diverse accezioni del termine danno nel contesto dell’art. 2043 c.c.

4. L’espansione delle frontiere della ingiustizia del danno

Le argomentazioni in termini di ingiustizia svolte a proposito del diritto alla salute hanno servito ad ampliarne la tutela come ho cercato sinteticamente di spiegare fin qui, ma si tratta pur sempre anche nei suoi connotati più recenti (esemplificando: diritto a un ambiente salubre, diritto alla qualità della vita e al benessere psichico) di un diritto assoluto dell’individuo. Ma l’impatto di questa clausola generale del danno ingiusto è stato molto più ampio fino ad estendere la tutela aquiliana a interessi che non assurgono al rango di diritti soggettivi. Mi limito qui a ricordare l’estensione di questa tutela ai c.d. interessi legittimi oggi affidata alla giurisdizione amministrativa. E mi fa piacere menzionare qui le più recenti prese di posizione del Consiglio di Stato sull’argomento qui affrontato che attestano una maggiore consapevolezza del duplice significato del termine danno (‘lesione di interesse’ e ‘pregiudizio risarcibile’) nel contesto dell’art. 2043 laddove viene espressa una massima ricorrente che recita: «Nel processo amministrativo, per danno “ingiusto” risarcibile a sensi dell’art. 2043 s’intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico»8.

È ovvio che con il termine ‘danno’ nella lingua italiana si allude ad un pregiudizio, che può essere patrimoniale o anche morale, ma nel linguaggio del legislatore esso ricorre in diversi significati.

Il significato del termine, quando si parla di ‘danno ingiusto’ come elemento oggettivo del fatto illecito, o di ‘danno-evento’ per alludere, in questa seconda versione, ai reati di danno contrapposti ai reati di pericolo, è quello di lesione dell’interesse tutelato; quando invece si parla di danno in rapporto al risarcimento, e cioè in riferimento al regime sanzionatorio, l’espressione assume il significato di perdite patrimoniali, mancati guadagni, sofferenze morali patite dalla vittima dell’illecito, ovverossia il significato di ‘pregiudizio’ valutabile in termini economici in quanto oggetto di riparazione o di compensazione.

8 Cfr. C.St. 5 febbraio 2018, n. 701; Id. 12 febbraio 2014, n. 674

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Atipicità dei fatti illeciti e danno ingiusto

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Ora, a volte le problematiche inerenti all’accertamento della lesione dell’interesse ed al calcolo dei danni risarcibili possono sovrapporsi nel quadro delle decisioni giudiziali, e ciò può parzialmente giustificare un uso promiscuo del termine giuridico ‘danno ingiusto’. Ma spesso tale sovrapposizione non ricorre, come quando si chiede il risarcimento di danni riflessi o indiretti ove si può agevolmente distinguere tra lesione dell’interesse tutelato e ripercussioni economiche della lesione (ad esempio: lesione della reputazione mediante la diffamazione, da un lato, e perdita di clientela e di chances di carriera o di affari, dall’altro, oppure quando i danneggiati civili non sono i soggetti passivi del reato: danni da uccisione, ove la lesione dell’interesse riguarda la vittima diretta del reato, mentre il danno risarcibile, oggetto di riparazione, riguarda i congiunti).

Si deve dunque aver chiara la differenza tra ‘danno ingiusto’ ex art. 2043 cod. civ., ove si allude all’elemento oggettivo del fatto illecito, la tradizionale iniuria, e ‘pregiudizio risarcibile’, cui si riferiscono gli artt. 1223, 1225, 1227, 2058, 2059 cod. civ. Norme, queste ultime, che presiedono alla valutazione dell’ammontare del danno da risarcire e, cioè, selezionano le poste di danno risarcibili.

Sovrapporre tali concetti di danno equivale a mescolare problemi giuridici diversi: il problema della ingiustizia della lesione, quello dell’individuazione del responsabile, quello della selezione dei pregiudizi risarcibili. Purtroppo la sovrapposizione di queste aree di problemi è all’ordine del giorno presso buona parte della giurisprudenza e della dottrina civilistica. Probabilmente ciò avviene per l’esigenza, avvertita da alcuni civilisti, di una ridefinizione al passo con i tempi e di un capovolgimento della ‘prospettiva tradizionale’ con la quale viene presentata nel nostro ordinamento la categoria generale dell’illecito civile (9).

5. Il dialogo (mancato) fra dottrina e giurisprudenza

Tuttavia tale categoria esiste, è legislativa ed è stata tramandata da una lunga tradizione che abbiamo in comune con molti altri ordinamenti. Non

9 Cfr. C. Salvi, Il danno extracontrattuale. Modello e funzioni, Napoli, 1985; Id. La responsabilità civile, Milano, 2 ed. 2017; F.D. Busnelli, Nuove frontiere della responsabi-lità civile, in Jus, 1976, p. 41 ss.; F.D. Busnelli e U. Breccia, Diritto alla salute e tutela risarcitoria, ed. Giuffrè, Milano, 1978; P. Cendon (a cura di), La responsabilità civile. Saggi critici e rassegne di giurisprudenza, ed. Giuffrè, Milano, 1988; C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, 3 ed. Milano, 2006.

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G. Visintini

è la categoria che è andata in crisi, ma è la portata applicativa della categoria ad aver subito una evoluzione.

A tacer d’altro, tutti i discorsi ‘neosistematici’ non facilitano affatto l’opera dei giudici.

È mancata, in sostanza, in questa materia, una felice interazione tra dottrina e giurisprudenza, sicché non è infrequente che la confusione tra i due significati del termine ‘danno’ ricorra anche in sentenze dei massimi organismi giudiziali; e ciò non è in linea con il nostro compito di docenti di diritto che è proprio quello di fare chiarezza sul linguaggio tecnico-giuridico e di supportare il lavoro dei giudici. Quando questi ultimi sono chiamati ad applicare l’art. 2043 c.c. devono svolgere diverse indagini: la prima relativa alla verifica sulla posizione del danneggiato se sia titolare di un interesse giuridicamente rilevante e se dunque abbia subito una lesione ingiusta, la seconda quella se vi sia un responsabile e a che titolo, la terza relativa alla perdita economica subita e al calcolo dell’equivalente monetario di questa perdita e ultima quella sulla ricorrenza del nesso causale tra il danno e la condotta del responsabile.

E’ qui nella conoscenza dell’istituto che sta il miglior controllo sulla clausola generale del danno ingiusto onde evitare una discrezionalità eccessiva da parte dei giudici: non qualunque danno è risarcibile ma solo in presenza degli altri requisiti per l’applicazione della tecnica della responsabilità civile. I discorsi isolati sui danni e le loro infinite tipologie hanno un carattere descrittivo ma non vincolano il giudice ad emettere una sentenza di condanna al risarcimento se manca la verifica di una lesione ingiusta e del nesso causale. Come pure in in mancanza di un pregiudizio effettivo, la sanzione del risarcimento non scatta nella logica dell’art. 2043 cod. civ., anche se poi nel sistema esistono altri rimedi civilistici di reazione a un fatto illecito (non produttivo di un danno valutabile economicamente), rimedi che non esigono la prova dell’attualità di un pregiudizio, come l’azione inibitoria (10).

Chiudo quindi con questa avvertenza sulla scorta dei numerosi scritti che ho dedicato all’argomento11: è corretto parlare di atipicità degli illeciti

10 Sull’azione inibitoria come rimedio di reazione al fatto illecito cfr. A. Bellelli, L’inibitoria come strumento generale di tutela contro l’illecito, in Riv. dir. civ., 2004, p. 607, ivi altre citazioni.11 Mi limito a citare I fatti illeciti. I. Ingiustizia del danno, 3a ed. 2004 nella collana I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, diretta da F. Galgano; il Trattato breve sulla responsabilità civile. Fatti illeciti. Inadempimento. Danno risarcibile, Cedam, Padova, 2005 e Cos’è la responsabilità civile. Fondamenti della disciplina dei fatti illeciti e dell’inadempimento contrattuale, Napoli, ESI, 2 ed. 2014.

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Atipicità dei fatti illeciti e danno ingiusto

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con riferimento alla formula del danno ingiusto che figura nell’art. 2043 c.c., ovvero alla direttiva generica secondo cui i giudici possono riconoscere come ingiusta la lesione di nuovi interessi che appaiono, al momento di emettere la decisione, degni di tutela. Ma tale valutazione deve accompagnarsi alle altre che l’istituto della responsabilità civile impone, in particolare a quella volta a individuare un responsabile e in base a quale titolo di imputazione, quello della colpa previsto dall’art. 2043 con riguardo ai danni da fatto proprio del responsabile o quelli a carattere oggettivo previsti dalle norme successive all’art. 2043, che, dunque, non può essere definita, come si legge spesso, di per sé una clausola generale. A veder bene la norma contiene fra le altre direttive la formula generica del ‘danno ingiusto’ che sì può essere definita una clausola generale valevole per tutte le fattispecie di fatti illeciti, e non solo per quella disciplinata nell’art. 2043, ove si prevede che per rispondere di una propria azione dannosa occorre dimostrare che l’azione sia almeno colposa e che da essa sia stato cagionato un danno, nell’idea risalente che non risponde ad equità riversare sugli altri le conseguenze dannose dei propri errori. Ma il precetto generale del danno ingiusto va oltre questa disposizione e si applica anche quando si incorre in responsabilità civile per essere proprietari di un edificio, per essere esercenti di un’attività pericolosa o per fatti dannosi commessi da persone diverse collegate da un particolare rapporto con il responsabile.

Si può discutere sulla formulazione legislativa e sulla collocazione della clausola generale ma non vi è dubbio che questo che ho cercato sinteticamente di riassumere è il suo significato. Di gran lunga preferibile è la menzione di questo requisito nella Raccolta dei principi fondamentali della responsabilità civile elaborati dall’ European Group on Tort Law sotto l’etichetta Protected Interests e forse il modello francese che non ha codificato tale direttiva e ha lasciato ai giudici il compito di elaborarla (ogni magistrato in Francia ricerca nei casi concreti la lesion d’un intérȇt protegé) avrebbe creato minori fraintendimenti; ma tant’è questo è il sistema italiano e bisogna prenderne atto con l’ausilio della interpretazione nel solco dei grandi orientamenti giurisprudenziali.

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Vincenzo Zeno-Zencovich

“Maestro” and “Scuola” as pillars of the Italian academic structure

Summary: 1. The playing field: recruitment procedures – 2. Culture and sub-culture of academic “schools” – 3. “Maestro”-“Magister” – 4. Co-opting as the basic rule of all academic communities – 5. A reputational market.

1. The playing field: recruitment procedures

When an Italian academic tries to explain to a foreign colleague the structure of his or her environment he/she is faced with some conceptually untranslatable terms which render his/her presentation incomprehensible, especially when talking to an Anglo-American colleague.

The first – fundamental – notion which I shall have to present, albeit in a cursory way, is the “concorso”, a competitive procedure – common to all European continental countries (concours, in French; Auswahlverfahren, in German; concurso in Spanish) – through which the holder of an academic post is chosen. In Italy (but not only here) a constitutional provision (article 97) establishes that access to any civil service post, at whatever role and level (national, regional, local), must be through a “concorso”.

The aim – which however not very often is reached – is to avoid that those who are in government or in a public office choose civil servants on the basis of discretionary criteria. Civil servants remain in office until retirement and therefore cannot – except in the case of very serious misgivings – be dismissed. If one applies this criterion to academic recruitment one understands how crucial the “concorso” is. All posts for associate and full professor are tenured; and this applies not only to public universities (which are the vast majority) but also to the not many private ones: once a professor is vested he/she remains in role until retirement.

This premise is essential to understand some basic differences with other

* Non per esterofilia ma per evidenti ragioni pratiche – tentare di spiegare a degli studiosi stranieri alcune particolarità del sistema accademico italiano – il presente scritto è in inglese.

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V. Zeno-Zencovich

academic systems in which access is much easier because what is at stake is, generally and especially at the lower level, a limited-time contract of employment which can be renewed and only in a limited number of cases is transformed in a tenure. The “concorso” procedure however is used not only for tenured posts but also for lower positions: Ph.D. candidates, post-docs, assistant professors.

In these selection procedures the role of the “Maestro” and of the “Scuola” are essential, in as much as they are the main track through which access to an academic post is governed. To see things from an institutional perspective, the “concorso” – whatever its mutant rules are (which change in average twice every decade) – sets the legal playing field in which a “Maestro” and a “Scuola” must operate if they want to have some significance.

In an academic mythology the “Maestro” manages to create posts for his “Scuola” like Moses draw water from rocks by striking them. Reality is much less miraculous. The body of law in the field of “concorsi” is highly complex and is made of primary legislation, ministerial decrees, university by-laws and – most important – a vast amount of case law set out by hundreds of decisions by the administrative courts (in first instance the “Tribunali amministrativi regionali”, and on appeal, the “Consiglio di Stato”). The knowledge of these rules – as happens in any regulated market – is essential for the “Scuola” and the “Maestro”. Under-estimation of their importance often leads to extended litigation which may bring to the annulment of the selection procedure or, at any rate, at its forestallment, with consequent loss of time, opportunities and of academic reputation. One can therefore – parodistically – compare the “concorso” to one of those board games with rather loose rules (e.g. “Risk”) in which players – in this case the “Maestro” and the “Scuola” – must compete, using the law, their skills but also their shrewdness. The other players may be at a national level as in the case of other “Maestri” and “Scuole” in the same disciplinary sector (e.g. private law or constitutional law); but also, at a local level they may belong to other groups wishing to consolidate and expand their position in the faculty. Here the essential rules in the selection procedure must be mentioned. Italian academics is divided in nearly 400 (!) “scientific disciplinary sectors” (SSD) starting with MAT/01 (Mathematical logic) and ending with SPS/14 (History and Institutions of Asia). This fragmentation is generally widely criticized in the sense that it creates hundreds of walled gardens, some of which are controlled by a dozen full professors (sometimes even less: AGR/20, Zoocultures, has nine full professors; L-ANT/01, Prehistory, eight) who, substantially, hold the keys to open or close access to academia.

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A further negative feature is that the extremely narrow scope of some SSDs is a significant obstacle to inter-disciplinary researches (and researchers). On the positive side it is argued that this very clear partition promotes studies in areas that otherwise would be neglected or marginalized: it is completely different if occasionally a young philosopher engages – at his/her risk and peril – in aesthetics; or if systematically a considerable group of young scholars research and write on aesthetics which is the only way to gain access to the M-FIL/04 SSD which is entirely and exclusively devoted to aesthetics and different from M-FIL/03 (Moral philosophy).

Therefore the “board game” which absorbs the ingenuity and the efforts of much of the Italian academia is the role that each professor has in his/her SSD, a role which is widely related to selecting those who are admitted to the club. To use another metaphor, in the “concorso” the winner often belongs to a team (the “Scuola”) that devotes considerable time to preparing the game, building academic and professional relations which are indispensable when it comes to decision-making within the selection committee. Sometimes collaboration reigns among the members of the various “Scuole”; in other cases, there is a continuous war in order to control the club, with historical enmities, alliances, marriages of convenience, geographical partitioning of the national territory et similia.

2. Culture and sub-culture of academic “schools”

It would however be misleading to present the relationship between “Maestri” and “Scuole” and the “concorso”, seen as the moment of public investiture of a scholar, only as a struggle for power. Very often a “Scuola” is strongly characterized with certain distinctive cultural features or methodological tenets. Quite often a new “Maestro” emerges because of the new ideas that he/she proposes and which are gradually received by others and forms a “Scuola”. The cultural differences have been, in the 20th century and still, of an ideological nature (mostly as expression of marxism, or secularism as opposed to denominational approaches); at the same time some “Scuole” have characterized themselves for openness to international scholarship as opposed to a purely domestic one. From a methodological point of view in all fields new areas have fallen under investigation, using new parameters and goals. From this point of view the diversity has rendered possible the emergence of pluralistic approaches, and often this has

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V. Zeno-Zencovich

marked the birth of a new “Maestro” who is remembered precisely for his/her innovative studies which have influenced future generations.

Pluralism can be noticed – at least in the field of legal studies – also from a political point of view: preference towards this or that ideology (left-wing; liberalism; social-catholic) does not appear to be a criterion of selection and of affiliation to a certain “Scuola”, although there may some areas (typically labour law) which may inevitably determine preferences of scholars.

Looking always at the positive aspects, one of the reasons for which – in no way indulging in nationalistic pride – many Italian academics are of world repute and considered leaders in their field of specialization is precisely the very strong competitive environment in which they have grown and at the same time they have had possibility/necessity to devote themselves entirely to relatively small areas of their otherwise very broad discipline.

What has been said until now is valid for practically all Italian academia, whether engaged in sciences, humanities or social sciences. Clearly a certain number of peculiarities remain especially in those areas which are naturally international (such as mathematics or physics) and others that are naturally domestic (typically Italian language and literature). In other cases, academia is so interwoven with practice – such as in medical schools which usually have an annexed clinic providing services under the national health service – that further aspects (and rules) have to be considered.

Although here we shall be talking of the notion of “Maestro” and “Scuola” in the field of the law, one should consider that this is not a distinctive feature of law professors. As a matter of fact the model of law faculties can be considered an archetype for the rest of academia. From a historical perspective one should not forget that the first European university, Bologna, founded in 1088, was built around the law faculty, to which the others were subsequently added. One of the great professors of those first years was Irnerius, who – quite naturally – gave birth to a “Scuola” with four main disciples: Bulgaro, Marino Gosia, Jacopo and Ugo. There is a further characteristic that must be mentioned. Already at those times it was very clear that one could not study and teach the law without putting it to practice. This is the reason why – contrary to most of other Western countries – a very high number of Italian law professors, especially if their field of expertise is ius positum (private law, criminal law, commercial law, administrative law, procedural law), are at the same time practicing lawyers. And in many cases the leading professors in that area are also the leading lawyers, highly demanded by private and public clients. Among the illustrious examples of this tendency is today’s honoured colleague, professor

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Guido Alpa who not only is a prominent practicing lawyer but for over a decade has been the Chairman of the Italian Bar Association.

3. “Maestro”-“Magister”

A common translation in English of “Maestro” is “mentor”. But clearly its semiotics are different. Its sense is clearly connected to medieval transmission of knowledge in theological and philosophical institutions: not by chance in those ages one speaks of magister and of scholastica, two terms which entail a very significant pedagogical relationship between the teacher and his pupils. On a much more down-to-earth – and contemporary – vision a “Maestro” establishes a long-lasting relationship with his pupil, which ordinarily starts when the former was the supervisor of the latter’s final dissertation which is a compulsory requirement for graduating. It should be noted that commonly the most gifted students choose the general subject on which they intend to graduate (history of law or civil procedure, etc.), or the professor, having perceived a certain inclination of the student, suggest that he or she graduate with him/her. The final dissertation is the first evidence that a “Maestro” receives on the quality of the student and, after graduation, may suggest that he/she continue their studies in various forms of free and non-formalized collaboration.

A common feature of the past – when young but brilliant professors started their career in provincial universities – was that they prepared the ground for local younger scholars who, afterwards took their place, when their “Maestro” moved to a more prestigious university. Owing to such academic migrations one could easily draw the map of the “Scuola” following the various chairs occupied during the years.

The relationship between “Maestro” and pupil is based on social conventions which are generally followed, being of mutual convenience. On the one side the “Maestro” offers guidance, suggesting topics of research, reviewing the writings of the young scholar, involving him/her in editorial activities (periodicals, edited volumes, case and handbooks, etc.), suggesting his/her name for conferences which the “Maestro” cannot attend. The pupil, in exchange, helps the “Maestro” in providing assistance and tutorship to students; following the preparation of final dissertation; organizing seminars and workshops for students; making background research and completing footnotes of the “Maestro’s” writings. One must consider, that contrary to

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academic institutions in other parts of world, Italian professors – and, at any rate, Italian law professors – do not have any secretarial assistance, unless they occupy some position in the academic governance (dean of the faculty, head of a department). The administrative staff is engaged only in the, sufficiently burdensome, red-tape aspects of the office where they work, and in no way are they engaged in activities concerning teaching and research. This is why the role of the junior assistants of the “Maestro” is so important.

The next step is admission to a Ph.D. programme (“dottorato di ricerca”). Here the relationship between “Maestro” and pupil is formalized. In Italy the Ph.D. programme is a three-year curriculum, which clearly depends on the area of research. The number of posts available is limited – very limited, after the general budget cuts to universities – and only half of those admitted receive a grant (apx. € 1000 per month) which is not very high but is tax-exempt and quite attractive in respect of many other forms of first employment, especially for law graduates.

The Ph.D. title is a prerequisite for any further academic career, and therefore is very sought after by all those who have the ambition to pursue it. In the field of the legal professions it is of practically no relevance, although for civil servants (in the judicial bodies or public administration) it may eventually be useful for future promotions.

In this first step the role of the “Maestro” is essential: not only will he/she generally write an extremely laudatory letter of recommendation but will also exert his influence on the selecting committee (if he/she is not already part of it). What is at stake is not only academic prestige, but also the sincere belief in the qualities of the candidate and the strengthening of the “Scuola”. A good and experienced “Maestro” understands quite easily the qualities and the defects of his/her pupils and knows that for the most promising admission to the Ph.D. programme is the only way to steer them away from the temptations of the legal profession or of international institutions, which in many cases may appear much more rewarding.

The problems in the relationship between “Maestro” and pupil arise after the Ph.D.: the pupil may receive a three-year post-doc grant (“assegno di ricerca”), which is important for his/her cv, but does not guarantee any stable position. For this reason, only a few post-docs eventually make their way up the academic ladder into a tenured post.

Here a further legal constraint should be mentioned: in the past (meaning since the mid-19th century) academic mobility was very strong, especially at the higher levels. Professors were competing to move to more prestigious universities. In the field of law, clearly, bigger towns offered also

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greater professional opportunities. In this 21st century, budgetary cuts have substantially frozen the circulation of academic personnel: it is not a remote possibility that a young scholar should graduate from a university, follow all his/her cursus honorum in that university, and end up as emeritus without ever been a member of any other faculty.

This phenomenon, commonly known as “localism”, is deleterious, because it impoverishes diversity in academic communities and stifles competition on the merits. It is an exceptional event that a young scholar from Rome can win a post in Milan or vice versa. One of the main goals of the “Maestro” is to search for funds for post-doc grants, assistant professors, associate and full professors. In this endeavour he/she must compete with all the other faculty members, each with a similar, and exclusionary, goal. Once the funds have been obtained they are substantially “tagged” for a certain pupil. The “Maestro” has not fought this – or any other – battle for the benefit of some unknown scholar, of dubious repute. If he/she (the external candidate) is so clever why hasn’t he/she found a post in their own university? The most obvious impression is that he/she has been discarded by another “Maestro” and “Scuola” and sent “abroad” in search of fortune.

This approach becomes ever more complex when one climbs the academic ladder and the no-longer young scholar manages to become associate or full professor. It is quite common that there is a in-breeding within a “Scuola”, although there are some noticeable exceptions in which a faculty decides to call someone quite unrelated (but clearly not unfriendly) to the professor holding the post (not all professors have the prestige of a “Maestro”).

4. Co-opting as the basic rule of all academic communities

Surely the playing field in which the “Maestro” and his “Scuola” operate is governed by a considerable number of laws, regulation, by-laws and case-law. But the turn these formal rules take depends considerably on the basic social norm of all academic communities, i.e. co-opting.

Co-optation is a common rule in any selected group: whether a club, a fraternity, a political party, a church, a team. The new-comer must be accepted by his/her elders or peers. It is rather improbable that one can break into a closed circle and become part of it against the will and whim of those who control it. This can be considered a disreputable practice, but it is the practice of all academic communities, especially if they consider

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themselves high-ranking. What might be classified as a feudal organization of Italian academics, is

quite simply the formalization of a century-old ritual which brings a novice to high-priesthood. Co-optation in academics is based on evaluations that only very partially have to do with the merits of the scholar who is co-opted: how many times dull-as-ditch-water professors have been preferred to lively and younger colleagues on the basis of well-written arguments that it is impossible to disprove, just as it is impossible to disprove the judgement of excellence given to a film or to a wine over another one?

Personal character, ability to enter in group relationships and conform to certain standards of civility (which increasingly now include to gender issues), co-operation in general academic governance, good and appropriate relation with students, are all elements which are carefully examined. Nobody is willing to accept someone who claims he/she is THE genius, and the rest of his/her colleagues are fools.

If this is the sociology of academic groups – at least in all Western societies – it appears to be rather hypocritical to denounce practices that are perfectly coherent with the co-optation procedure. What should – and maybe could – be measured are the results of these procedures. An extremely difficult task because one might even be able to establish that certain persons should have never been boarded on the university liner of excellence (but often modest researchers are excellent teachers; and vice versa). What is impossible to establish – because there is no counterfactual evidence – is how many hypothetically very good would-be professors have been rejected through the procedures one has set out above. If one had to apply the law of averages to Italian academics, considering – shall we say – the last 70 years and comparing the level of academic reputation in other countries of similar size and tradition the results – notwithstanding the severe criticisms set out above – cannot be considered only negatively.

The role of “Maestro” and “Scuola” is essential in guaranteeing stability to the system. This stability however quite often can turn into stagnation: younger scholars may tend to flatter their “Maestro” in the choice of their topic of study, in their perspectives, rarely challenging his or her conclusions. In some cases, well known, there is a citational obligation. Even if in the field of legal studies impact factor is not an accepted practice to evaluate publications, in some cases those belonging to a certain “Scuola” will quote, in the footnotes, only their “Maestro” and their comrades-at-arms. In these cases, the result is generally conformism and books without any scientific merits. At any rate, in the academic community the social norms are well

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known and interiorized by its members since the beginning. It is extremely rare that some misunderstood genius – at least in the field of legal studies (can the victim step forward, please?) – has been forced to emigrate to avoid submission to medieval practices. Rather, the father-son relationship that frequently is established between “Maestro” and pupil encourages the latter – at a certain point – to break the bond and start a new road. If one looks at the field of legal studies surely what is lacking is not pluralism of approaches and methods. More correctly one can lament the lack – in a great number of law professors – of a broader view that goes beyond the national boundaries. But this is not a defect unique to Italian academics. It is sufficient to look at the highly glorified US law scholarship to realize that only a few have ever attempted to discover if and what legal life exists in other jurisdictions. The greater the Nation and/or its history, the broader the comfort zone of academics.

5. A reputational market

If co-optation is the non-written procedure common to all academic communities, there is a further element of great importance which keeps the system together. Academy is what is called a reputational market. Professors – and law professors are no-different – are valued on the basis of the opinion of their peers. It is quite common that some academics are often interviewed by the media or participate in talk-shows. Generally, the fame they acquire in the general public is inversely proportional to that they have among their colleagues. Especially in continental Europe where professors are high-ranking civil servants their salary is the same whatever their reputation. Their wage is esteem among their peers, co-optation in even more exclusive scientific circles and academies, constant invitation to participate in conference, preface books, direct series, preside selection committees.

The Italian “Maestro” and “Scuola” institutions must be seen in the light of this reputational market. A “Maestro” is such only if he is acknowledged by his peers. Otherwise the term is used in jest, to indicate its opposite. Clearly, if every professor is a “Maestro” simply because he has a pupil everybody can claim to be a “Maestro”. Some, a handful in the last 70 years, outstanding scholars who were tenured still in their twenties were recognized as such very soon. Others became “Maestri” much later. The majority have never claimed to be such, not having such an ambition, although they may

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V. Zeno-Zencovich

have a very high reputation as individuals.The difference from an individual reputation and a “Maestro” is the

existence of a “Scuola”, i.e. a group of younger scholars who continue in the steps of their mentor, who recognize his/her intellectual primacy and express their gratitude in accordance with the social norms of the academic community.

In this the relationship “Maestro”/ “Scuola” is revealing because it is two-ways. The prestige of a “Maestro” for a long time lights the road his/her pupils are following. But at a certain point the academy, quite rightly, asks itself what is the reputation of the pupils of the “Maestro”. In many cases they have kept up to the expectations. In other cases, they simply fall among the average professors of no particular relevance or, worse, their bad reputation may reflect on the “Maestro” who therefore suffers the brunt of his erroneous choices.

In this perspective “Maestro” and “Scuola” are the objects that are weighed in the reputational market and are useful indicators when making choices. The first question which is put to a young scholar, or concerning a professor one does not know, is “Who is your (or his) ‘Maestro’?”. A question that rarely would be made elsewhere, but not for reasons of politesse, but simply because it is not a revealing piece of information, while in Italian academics it is the first and most important. In many instances the origin of the scholar is a guarantee of quality, because the “Maestro” is known for his/her rigour in selecting his/her pupils and in preparing them to the many tasks of academic research and teaching.

Therefore, setting aside rather ridiculous metrics imported from hard sciences (ridiculous, obviously, when applied to social sciences and to the humanities) “Maestro” and “Scuola” if used in a non-sectarian way can be extremely useful in guiding evaluation of scholars and of their works.

* * *From a comparative perspective – which here cannot be presented

because it requires in-depth knowledge of social practices – what would be useful is understanding to what extent the relationship Mentor-pupil is or may be relevant in other academic systems; if affiliation to a certain academic group (which in Italy is classified as a “Scuola”) is important in the cooptation procedure1. It is therefore necessary to pierce the veil of lip-

1 A first attempt in this direction has been made 25 years ago by U. Mattei and P.G. Monateri in a special issue of the Am. J. Comp. L. (41, 1993) devoted to “The Faces of Academia: Selecting Minds Symposium”. It is worth while providing the summary of the issue: T. Weir, Recruitment of Law Faculty in England; J. Gordley, Mere Brilliance: The

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“Maestro” and “scuola” as pillars of the Italian academic structure

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service towards the idea that academia selects only the best, on their merits, and look, instead, at university professors as a large community which includes many individuals with different qualitative levels.

Furthermore - but this is rather difficult in the field of legal sciences - one should look at the output. Insisting on procedures (which is the common approach in the Anglo-Saxon world) as the best guarantee in a selection procedure appears rather one-sided and ignores the fact that players adapt to the rules and tend to build a curriculum in function of the formal requirements of the game. Academic due-process surely may satisfy the need for fairness, but it is doubtful that it is the most efficient way to select the best brains on the market. To close on a provocative idea, maybe selecting university professors is nearer to the ways one selects performing artists than those used to select top managers of a firm2.

Recruitment of Law Professors in the United States; P. Legrand, Attitudes v. Aptitudes: In re Faculty Hiring in Canadian Law Schools; C. Mouly, C. Atias, Faculty Recruitment in France; J. Kohler, The Selecting Minds: The Recruitment of Law Professors in Germany; U. Mattei, P.G. Monateri, Faculty Recruitment in Italy: Two Sides of the Moon; R. de Groot, Recruitment of Minds: Selecting Professors in the Netherlands; N. Cohen, D. Friedmann, Selecting Minds in a Multicultural, Besieged, Isolated Society; E. A. Feldman, Mirroring Minds: Recruitment and Promotion in Japan’s Law Faculties; R. Bernard, Selecting Minds: An Afterword; M. J. Bonell, Legal Studies in Today’s Europe: Towards a European Lawyer. It would be interesting to verify in which countries significant differences have arisen in this last quarter of a century. For further reflections on the French system see P.-Y. Gautier, Le concours d’agrégation au plus intime : Institutes coutumières , in Mélanges dédiés à Louis Boyer, Presses Universitaires Toulouse 1996, p. 2212 Or to put it with James Gordley’s words (supra): “Perhaps the best way for any of us to promote a flourishing of legal scholarship at our schools is to spend less time recruiting and more time thinking about law”.

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Andrea Zoppini

Guido Alpa, maestro realista del diritto

Sommario: – 1. Un libro di J. Frank nella biblioteca di G.A. – 2. Il realismo giuridico americano degli anni ’30 – 3. L’experimental jurisprudence – 4. La ripresa del metodo realista negli anni ’70 – 5. La teoria dell’interpretazione nel pensiero di G.A. – 6. La teoria della norma – 7. Commiato.

1. Un libro di J. Frank nella biblioteca di G.A.

Il dialogo che queste pagine intrecciano con gli scritti e con il pensiero di Guido Alpa muove da un libro da lui ricevuto in dono, quello di Jerome Frank, Law & the Modern Mind (New York, 1930, ristampa 2009, New Brunswick, N.J.).

Anni or sono, a conclusione d’un appuntamento fissato per disbrigare altro, la conversazione divaga e spazia su altri temi.

G.A. coglie l’occasione per rammentare un giudizio di Giovanni Tarello – da lui stesso profondamente condiviso –, per il quale solo la scuola realista del diritto avrebbe còlto l’essenza della norma giuridica, e come fenomeno sociale e come costrutto deontico.

In ciò il giusrealismo manifesta la sua assoluta superiorità rispetto al dogmatismo e al formalismo, e così pure agli altri metodi che si contendono il primato nell’ascrizione d’un significato e d’un senso alla norma giuridica.

Solo il metodo giusrealista, infatti, appare autenticamente in grado di spiegare il circolo ermeneutico e assiologico che la norma giuridica crea tra l’essere e il dover essere.

La datità del diritto sta nel suo dover essere, il con-sistere nel comando che si rivolge e s’impone al soggetto; eppure, l’essenza ultima del dover essere si risolve nel suo esserci, ossia nella misura e nei limiti in cui si diano comportamenti conformi al comando.

Qualche giorno dopo il nostro incontro, mi viene recapitato Law & the Modern Mind, che colma così una lacuna nella mia formazione.

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A. Zoppini

2. Il realismo giuridico americano degli anni ’30

Il libro di Frank è ricco di suggestioni, ne provo a cogliere talune che mi aiutano a dialogare con il nostro onorato.

La critica più radicale di Frank si appunta sull’imperatività del precetto normativo.

La norma – nella lettura tradizionale – opera nel nome del padre, perché si presenta come un suo surrogato sociale. Gli è, infatti, che le regole giuridiche aspirano a determinare, in maniera ultimativa, ciò che è ingiusto e decidere chi dev’essere punito, divenendo, appunto, un sostituto del father as infallible judge.

Frank, al contrario, propugna l’idea, eminentemente politica, d’una società priva della funzione paternalistica, destinata a capitolare di fronte a una democrazia fraterna, in ciò accompagnando il passaggio da un modello statuale autoritativo a quello democratico-paritario, che si affranca dal bisogno infantile dell’autorità.

In quest’ottica, Frank sottolinea come alla giurisprudenza competa non già una funzione attuatrice e garante d’un diritto astrattamente uniforme, quanto a essa spetti il cómpito – autenticamente creativo – d’individuare la regola che si applica nella realtà del caso concreto, secondo un’idea di giustizia che però trascende il singolo caso. E, proprio perché tale opzione postula una naturale imprevedibilità, un’irregolarità necessaria e inevitabile, ciò impedisce di comprendere e iscrivere la giurisprudenza pratica nel paradigma formalista della norma positiva e del giudice bouche de la loi.

3. L’experimental jurisprudence

La scuola giusrealista americana degli anni ’30 del Novecento ha realizzato un’autentica inversione di prospettiva negli studî giuridici: con essa si sposta il baricentro metodologico dallo studio del diritto astratto e dalla regola scritta o codificata, all’analisi del processo decisionale.

La valorizzazione del dato esperienziale rispetto alla logica formale e l’affermazione del carattere eminentemente politico del diritto animano la corrente del realismo giuridico in senso proprio, cui è possibile ascrivere lo stesso Jerome Frank, e così pure la corrente della c.d. sociological jurisprudence cui si legano i nomi di Roscoe Pound e di Benjamin Cardozo.

Rispetto alla teoria formalista, che declina l’interpretazione alla stregua

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Guido Alpa, maestro realista del diritto

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d’una attività meccanicamente necessitata, che si avvale di strumenti quali l’argomentazione dialettica, il distinguishing e la sussunzione, il giusrealismo ascrive all’attività interpretativa una natura liberamente creativa.

Ciò postula una transizione dal sillogismo deduttivo alla vaghezza dei concetti: per quanto sia sempre possibile scomporre la norma in proposizioni logico-deduttive (del tipo se A, allora B), esse possono essere comprese appieno solo traguardando le nozioni indeterminate, il cui significato precettivo non precede, ma di necessità segue l’interpretazione.

Il giusrealismo realizza quella che Frank definisce una experimental jurisprudence: la sperimentazione di concetti che, proprio perché semanticamente indeterminati, operano come meccanismi omeostatici e trasformano la realtà nel momento stesso in cui sembrano apparentemente descriverla. In altri termini, i dicta giurisprudenziali smarriscono il contenuto squisitamente dichiarativo e divengono strumenti per modificare il dato ordinamentale e poi la realtà all’interno della quale essi s’iscrivono.

L’antagonismo oppositivo rispetto al dogmatismo e al metodo formalista è evidente.

Il giusrealismo rifiuta una definizione ontologica di ciò che il diritto è o dovrebbe essere, ritenendo, invece, che esso coincida con i risultati, di volta in volta, conseguiti nella pratica di trasformazione delle situazioni soggettive concrete, diritti che si plasmano e si piegano attraverso l’uso dei concetti.

Tale impostazione pragmatica consente di cogliere la costante natura in divenire del diritto (il continuo inizio che non si risolve, quindi, né nell’essere né nel dover essere), secondo un processo di costante (ri)definizione, rimessa, in ultimo, alle decisioni delle corti.

La giurisprudenza pratica è richiesta di farsi sperimentatrice, liberandosi dal giogo della norma intesa come comando assoluto, atteso che – come si diceva poc’anzi – essa è insuscettibile d’essere conosciuta prima d’inverarsi nel caso singolo.

Per il giusrealista questa libertà dell’interprete non esclude l’uniformità e la prevedibilità della decisione, che tuttavia non è un a priori imposto dalla norma generale e astratta o dovuta a qualche condizione di necessità logica, ma si determina invece a posteriori, in quanto frutto del fluire del diritto vivente.

Al fondo della concezione di Frank v’è la convinzione che la sentenza del giudice non discende da un procedimento sussuntivo astratto né sarebbe il prodotto di un ragionamento formalizzato.

La premessa maggiore del presunto sillogismo, ovvero la protasi descritta nel dato normativo, non rappresenta la precondizione necessitata cui il

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A. Zoppini

giudice si attiene, ma s’identifica con il processo interpretativo stesso, che non è estraneo e tantomeno logicamente scindibile dal singolo caso. La premessa minore, ovvero il fatto che reclama l’applicazione d’una regola di diritto, non è un dato oggettivo in quanto anch’esso viene costruito nel processo ed è manipolato in vista della decisione.

La sentenza è, quindi, frutto non solo delle intuizioni e delle inclinazioni personali di chi è chiamato a renderla, ma anche di bias cognitivi e dei rapporti di forza che conducono il giudice alla decisione.

La casualità che anima il processo decisionale e, da ultimo, la stessa sentenza porta Frank a negare il mito della certezza del diritto.

Questa conseguenza, tuttavia, non (gli) appare un disvalore, perché l’incertezza è essa stessa un valore sociale e proprio l’attività creativa della giurisprudenza consente di superare «la tendenza del bambino a cercare sicurezza nella forza del padre». Ciò perché le libere decisioni dei giudici devono operare in favore dell’uomo e non essere ciechi e sordi meccanismi di attuazione della norma astratta, che invece is made by and for men.

4. La ripresa del metodo realista negli anni ’70

L’interesse di G.A. per il pensiero di Jerome Frank non mi ha certamente sorpreso e, dianzi, ho indugiato su taluni passaggi del libro ricevuto in dono proprio perché mi consente di lumeggiare e dialogare meglio con il pensiero del nostro onorato.

L’attenzione e l’interesse per la scuola giusrealista è senz’altro coerente con il suo modo di concepire il diritto, perché G.A. è un giurista garbatamente, ma fermamente, insofferente verso il metodo dogmatico.

Direi un antidogmatico mite.In quest’opzione metodologica confluiscono molti elementi che hanno

concorso a formare la sua personalità scientifica e poi la sua storia culturale.A iniziare dall’avere G.A. attraversato da protagonista la rifondazione

metodologica che, a partire dagli anni ’70 del Novecento, ha ripensato le categorie ordinanti della scienza giuridica italiana. Un crinale culturale che è stato ben lumeggiato nel libro curato da Luca Nivarra (Gli anni Settanta del diritto privato, Milano, 2008), ove si dà conto della trasformazione da allora intrapresa dal metodo giuridico e dall’asse valoriale del diritto privato.

Basti pensare alla contestazione del metodo dogmatico tradizionale, alla lettura costituzionale del codice civile, alla centralità assiologica dei valori,

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alla tutela della persona e degli status rilevanti, quali in particolare quelli di lavoratore subordinato e di consumatore. Proprio il consumatore definisce un paradigma ideal-tipico dello squilibrio consustanziale ai rapporti tra soggetti privati, dottrina alla cui costruzione proprio G.A., in quegli anni, ha concorso in modo pionieristico.

Non è d’altra parte casuale che la formazione di G.A. sia stata profondamente influenzata e si sia alimentata nel dialogo con talune delle personalità scientifiche che, di recente, Pietro Rescigno (nell’intervista raccolta in Diritto privato. Una conversazione, Bologna, 2017) ha indicato tra le più originali e innovative degli anni ’70: non solo Giovanni Tarello, che ricordavo sopra, ma soprattutto Stefano Rodotà, maestro accademico di G.A., e poi Pietro Trimarchi.

Parimenti, sempre gli anni ’70 segnano la crescente importanza nella formazione dello studioso del diritto privato del diritto comparato e della comparazione dei sistemi giuridici.

Un metodo di studio, quello comparatistico, improntato, nell’opera di G.A., a un’opzione schiettamente funzionale, che guarda agli interessi tutelati al di là della forma astratta che ciascun ordinamento sceglie per dare protezione giudiziale ai singoli diritti. (Un’opzione metodologica oggi divenuta indispensabile anche per la dominanza delle fonti unioniste nelle singole esperienze giuridiche nazionali, basti pensare che già nel 2004, al momento della celebrazione dei duecento anni del Code Napoléon, si è calcolato che l’80% delle norme di diritto privato vigenti in Francia fossero di derivazione comunitaria).

Merita inseguire talune di queste suggestioni culturali e verificare – seppure brevemente e per tratti impressionistici – quali traiettorie interpretative abbiano poi descritto, osservare il modo nel quale esse sono state coltivate, guardare a come si sono successivamente radicate.

Anche qui viene in soccorso ed è utile guardare alla cultura giuridica statunitense.

Non è casuale che il realismo americano degli anni Trenta abbia conosciuto una ripresa d’attenzione proprio negli anni ’70, un decennio che pure oltreoceano ha segnato una faglia decisiva negli studî giuridici. Infatti, a partire da quegli anni, l’impostazione giusrealista ha rappresentato il terreno di coltura ideale per un rinnovamento metodologico e culturale, favorendo percorsi che hanno disegnato traiettorie tra loro poi autonome e divergenti, anche ideologicamente, quali i Critical Legal Studies, la teoria giuridica femminista e gl’insegnamenti dell’analisi economica del diritto.

In tutte queste correnti culturali è evidente l’antagonismo rispetto al

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A. Zoppini

formalismo astratto, il progetto di superare l’autonomia del diritto e delle categorie giuridiche, per cogliere e catturare lembi di realtà sociale.

I Critical Legal Studies denunciano l’arbitrio che si annida nel diritto, di cui contestano la pretesa intrinseca razionalità, coerenza e giustizia, sì da metterne in luce i condizionamenti ideologici che permeano le strutture legali (secondo un approccio detto decostruzionista). Gli stessi diritti e le libertà, più che in funzione della realizzazione esistenziale dell’individuo, sottendono piuttosto una finalità politica coerente con le ragioni del liberismo.

La teoria femminista del diritto afferma il carattere discriminatorio consustanziale alle categorie giuridiche classiche pensate dal liberalismo (a iniziare dal soggetto unico di diritto). Ciò postula il riconoscimento della disuguaglianza, a tutela della quale si chiede d’introdurre nella teoria e nella pratica dell’interpretazione strumenti capaci di cogliere e soppesare la diversità femminile (ad es. l’etica della cura, fondata sull’equità e attenta alle individualità, rispetto all’etica dei principi, ritenuta tipicamente maschile) e di favorire il passaggio a un diritto flessibile, capace di farsi carico delle specificità individuali e di genere.

Parimenti, le premesse del realismo giuridico si rinvengono nell’analisi economica del diritto, che coniuga l’etica normativa liberale, un approccio pragmatico e il metodo fondato sull’economia del benessere (come ben mostrano gli studî pionieristici di Richard Posner). Anche per il metodo giuseconomico, come testimoniano gli scritti di Guido Calabresi, l’interprete rifugge dalle nozioni astratte e guarda, di contro, alle possibili alternative nell’ascrizione d’un significato alla norma, scegliendo tra di esse quella che assicura un’allocazione efficiente in relazione alle prevedibili conseguenze economiche e ai possibili effetti redistributivi a breve e/o a lungo termine.

5. La teoria dell’interpretazione nel pensiero di G.A.

Ho richiamato l’influenza del giusrealismo americano sulle principali correnti del pensiero giuridico contemporaneo, dottrine che nel tempo hanno descritto traiettorie divergenti, perché ciò aiuta a comprendere molto della visione del diritto e della norma giuridica che G.A. propone.

Provo a investigarne le tracce in due diverse letture, tra i suoi molti scritti recenti: uno in tema di interpretazione, l’altro di principî generali.

In Giuristi e interpreti. Il ruolo del diritto nella società postmoderna (Marietti, Genova, 2017), Alpa dà conto, prima di tutto, d’un atteggiamento verso la

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cultura del diritto, attitudine che si potrebbe dire sincretismo giuridico e che si manifesta nella capacità di dialogare con scuole e opzioni interpretative tra loro diverse, quando non a dirittura antagoniste e incompatibili.

Nel libro l’autore si confronta con le principali tematiche che trascorrono il dibattito giuridico contemporaneo: dal law & literature all’ordine giudico del mercato, dall’analisi economica del diritto alla nuova lex mercatoria, dalla centralità della persona all’antropologia giuridica.

Come avvertivo poc’anzi, questa disponibilità e capacità di confronto a tutto tondo, l’attitudine a dialogare in modo costruttivo con dottrine tra loro antagoniste, è una rifrazione dell’opzione giusrealista, atteso che il realista non si ferma ad osservare lo schema logico dell’argomentazione, non ipostatizza un metodo o propugna uno schema astratto d’interpretazione, perché lo ritiene poziore rispetto agli altri. Al contrario, traguarda il processo interpretativo e considera l’esito ultimo dell’interpretazione, soppesa le conseguenze pratiche implicate dalla scelta verso l’una o l’altra soluzione.

Le opzioni metodologiche non sono assunte quali ipostasi o quali dati oggettivi d’una presunta realtà artificiale creata dalla norma, quanto piuttosto sono strumenti argomentativi, riguardati e usati quali tools piuttosto che ritenuti fine a se stessi.

Proprio perché l’interpretazione serve a fare ‘cose con regole’, i valori non negoziabili e sottratti alla disponibilità e alla manipolazione dell’interprete – a iniziare dalla tutela e dal rispetto della persona umana – sono quelli che si manifestano all’esito dell’interpretazione: non rileva il modo nel quale si argomenta, ma ciò che effettivamente si tutela (e in che misura).

Merita rileggere quanto G.A. scrive quando s’interroga su cosa sia il diritto (posto a raffronto della letteratura), che si sostanzia non solo della legge scritta, ma anche della giurisprudenza pratica e così pure dalle dottrine: «... così descrivendolo ci allontaniamo dalla concezione kelseniana, e da quella – se possibile ancor più formalista – dei molti che ancora oggi configurano il diritto come un rigido sistema di comandi. Noi siamo dalla parte del “diritto mite” secondo l’accezione di Gustavo Zagrebelsky, o “flessibile”, secondo l’accezione di Jean Carbonnier: un diritto che si forma ed è imposto non solo dall’alto ma con il concorso dei singoli, dell’autonomia privata, delle prassi, e così via; un diritto quindi non solo costituito dalle fonti scritte ma anche dalle fonti “non scritte”» (p. 13).

Ancora, dialogando con lo storico del diritto sul ruolo del giurista, scrive che «il giurista positivo che non sappia cogliere il significato della norma al di là del suo tenore letterale, che non si renda conto della sua attuale vigenza o della sua erosione se distante dalla vita reale, che non si liberi dalle

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A. Zoppini

incrostazioni del giusformalismo sterile non è un buon giurista e non assolve degnamente e in modo responsabile il suo compito primario» (p. 311).

E d’altra parte non potrebbe essere più chiara presa di distanza dal formalismo e dal concettualismo lo stigma verso il «fing[ere] che nulla vi sia dietro la forma, e che comunque ciò che sta “dietro” non sia di […] competenza» del giurista. Ciò accade – scrive ancora G.A. – «e sono i casi più eclatanti e deprecabili» per un malinteso «senso corporativo di specificità del pensiero e delle competenze del giurista che ne fa un creatore di formule neutre e tecnicamente perfette. Quasi che il diritto, per sua natura, dovesse essere alieno da qualsiasi considerazione di carattere politico, sociale, economico» (p. 233).

6. La teoria della norma

Vengo, a questo punto, alla teoria della norma giuridica che un saggio del 2014 (apparso in Giustizia civile, p. 957 ss.), I principi generali. Una lettura giusrealistica consente di illuminare.

I principî costituiscono un topos cruciale della giuridicità contemporanea, un angolo prospettico privilegiato per chi voglia interrogarsi e osservare la struttura del comando giuridico. Essi sottendono, da un lato, la dialettica insita nella opzione tecnica rules vs principles; dall’altro, e ancor più significativamente, la possibilità d’ascrivere un potere normativo all’interprete, che prima argomenta l’esistenza del principio di diritto e poi, ritenutolo applicabile al singolo caso, ne deriva le regole precettive chiamate a governarlo.

Gl’interrogativi che gravitano intorno ai principî generali attraversano il diritto in molte sue manifestazioni (che s’estendono anche al diritto dei commerci e delle società di capitali e pure ai principî contabili), e si risolvono in quest’alternativa: se si abbia a preferire un ordinamento che si affidi a regole che scolpiscono la specie del fatto posta ad antecedente dell’applicazione d’una regola; ovvero sia meglio affidarsi a principî, di necessità vaghi e indeterminati, che proprio per questo consentono all’interprete – e prima di tutto al giudice – di scegliere e argomentare la soluzione assiologicamente migliore per il caso concreto.

La strada dei principi generali è irta di non pochi ostacoli, logici e teorici, e pure frapposta e frenata da taluni quesiti preliminari (ben illustrati in un libro linceo del 1992, I principi generali del diritto, Accademia dei Lincei,

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Roma, in particolare nelle relazioni di Angelo Falzea e di Pietro Rescigno). Ci si deve chiedere se (e, allora, in che misura) i principî generali – specie

quando non coonestati dalla norma – possano dirsi rivestiti di giuridica cogenza; poi si deve replicare all’obiezione che tali principî sono in realtà contraddittori e ambigui, atteso che per ciascuno di essi può trovarsi un principio antagonista; in ultimo, non ci si può sottrarre alla considerazione che, così, si pregiudichi il valore della certezza del diritto.

Di questi interrogativi si fa carico il saggio di Alpa, con uno stile insieme consapevole e misurato. Non c’è la volontà e neppure il tentativo d’affermare una verità definitiva, ma si cerca piuttosto di comprendere un dato della giuridicità effettuale, si vuole guardare funzionalmente alla norma, piuttosto che affermarne un’astratta e indimostrata cogenza.

Pertanto, quanto alla ricognizione dei principî generali, è necessario guardare al modo nel quale essi sono impiegati, prima di tutto dalla giurisprudenza.

Solo così è, infatti, possibile sciogliere il nodo della loro normatività: «[s]e si esaminano i “principi generali” nella prospettiva realistica del diritto occorre muovere innanzitutto da una ricognizione dei dati di fatto; e sulla base di questi si possono porre alcuni interrogativi di base» (p. 958).

È poi evidente che la redazione di un catalogo di principî è il prodotto della discrezionalità dell’interprete, ma essa non è né arbitraria né partigiana: «non si tratta, come spiegano i cultori dell’ermeneutica giuridica, di una libertà assoluta, in quanto l’interprete nella sua attività deve attenersi ai canoni consolidati e condivisi dalla comunità degli studiosi» (p. 960).

In tale prospettiva, determinante è la ricognizione su come i principî sono affermati e poi usati dal giudice delle leggi e così pure dalla corte regolatrice nazionale e da quella garante dell’uniforme applicazione delle norme unioniste: tale operazione ne fa affiorare la funzione ordinante, quella nomofilattica, quella armonizzante.

Paradigmatico il caso dell’abuso del diritto, che al contempo propone una tecnica di interpretazione della norma e un argomento retorico.

Con tale principio si coonesta e s’autorizza il giudice a interpretare la norma in senso antiletterale, atteso che la diagnosi di un abuso giustifica che ci si possa discostare dalla norma scritta, per applicare la regola che appare effettivamente conforme ai valori espressi dall’ordinamento in quel momento storico rispetto al caso concreto.

Con il che – sia consentito aggiungere una personale notazione – da un lato, chi contesta l’abuso del diritto introduce un’eccezione ammissiva del fatto, atteso che, nel confessare che la norma andrebbe applicata al

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caso concreto, chiede al giudice di discostarsi dalla stessa per applicarne una diversa. Dall’altro, il giudice che l’accoglie e che fonda la propria motivazione sull’abuso del diritto non deve tuttavia pregiudicare il diritto al contraddittorio e l’onere della prova che incombe su ciascuna parte: proprio perché fondata sull’osservazione del singolo caso, l’abuso del diritto richiede che, nella fase processuale in cui esso è contestato o accertato, sia (ancora) possibile allegare ed eccepire i fatti materiali che ad esso danno sostanza.

Parimenti emblematici d’un diverso modo di concepire la norma e l’ordinamento giuridico sono quei principî che consentono il dialogo tra fonti eterogenee e tra le corti giudiziarie nazionali e quelle dell’ordinamento europeo.

Sono proprio i principî – talora frutto dell’attività autenticamente nomogenetica della corte di Lussemburgo – che consentono di mettere in relazione e fare dialogare tra loro le diverse norme e istituti giuridici che innervano la struttura multilivello dell’Unione europea.

Emblematico il ruolo dialettico che si crea tra i diritti fondamentali e i principî dell’Unione, da un lato, e, dall’altro, i principî di autonomia e libertà contrattuale.

La libertà e l’autonomia dei singoli di disciplinare i proprî interessi sono rilette funzionalmente a fronte dell’esigenza di assicurare una tutela effettiva ai principî fondanti del diritto unionista, a iniziare dal divieto di discriminazioni ingiustificate, e pure dell’esigenza – parimenti apprezzabile in termini di effettività – di garantire una concreta cogenza alle libertà fondamentali del Trattato.

Ma a dimostrazione dell’equilibrio, pure in un’analisi che tradisce la partecipazione e la propensione di Alpa per un diritto argomentato piuttosto che per un diritto imposto, non manca tuttavia la considerazione e l’analisi di quelle opinioni che ne denunciano il costo per la certezza del diritto.

7. Commiato

A commiato da questa pagina e dal nostro onorato, è giusto chiedersi qual sia oggi il legato del realismo giuridico e, nella specie, cosa ci (e mi) ha insegnato Guido Alpa.

Si tratta d’un interrogativo che trascende queste pagine e la capacità d’analisi di chi scrive. Provo, tuttavia, a raccogliere le idee di cui ho detto sinora in due conclusive notazioni.

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Difficilmente oggi l’interprete potrà rinunciare all’interpretazione orientata alle conseguenze, per usare la formula di Luigi Mengoni. Il vettore valoriale costituisce ormai un dato assorbente dell’analisi della norma, che certamente non può essere contenuto e rovesciato da alcuna analisi formalista.

Parimenti, è la giurisprudenza degli interessi e l’analisi funzionale delle norme quella che meglio, perché in modo trasparente e attento a tutte le implicazioni, appare sorreggere un processo interpretativo argomentato, motivato e (per questo) prevedibile.

Proprio il diritto europeo ci ha insegnato a guardare alla tutela concreta che effettivamente gli interessi ricevono, a prescindere dalle ipostasi formali e financo dalle qualificazioni di vertice degli istituti, quali sono il diritto pubblico e il diritto privato.

Questi insegnamenti Guido Alpa ha saputo accompagnare con la personale disponibilità, con la mitezza dell’argomentazione, con la comprensione e il rispetto delle ragioni dell’altro, che ne hanno segnato la cifra umana prim’ancora che quella di studioso del diritto.

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