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I Favolosi Rothschild - F. Morton

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lasotria della famiglia rothschild e le loro gesta

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Frederic Morton

I favolosi Rothschild

RIZZOLI • EDITORE

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Proprietà letteraria riservata (<•) HKil by Frederic Mortori ((-) mai by The Curtis Publishing Co. (f1) 1963 Rizzoli Editore, Milano

I i(»lo orininole dell'opera: The Rothsehilds il Immuni, New York, 1962

l io,In ione di Pllena Spagnol Vaecari

l(,lilo m Ibi collana "Diapason"

I ih ion, lolly: ninnilo 1966

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P r e f a z i o n e

Negli ultimi centocinquant'anni la storia di Casa Rothschild è sta-ta. in misura sorprendente, la storia segreta, "dietro le quinte" del-

l'Europa occidentale. Labilità negli affari non basta a spiegare il feno-meno Rothschild; esso ha radice, essenzialmente, nell'uso virtuosistico

della famiglia come unità, come un unico strumento di forza. Essendo un romanziere, a me interessa soprattutto il mondo dei sentimenti e delle emozioni. Un cambiavalute diventa un grande ban-

chiere non semplicemente perché è bravo in aritmetica,ma perché i suoi impulsi e riflessi lo predispongono al successo. Nel mio libro ho quin-

di guardato principalmente al lato "umano" dell'epopea Rothschild. L'aritmetica conserva però la sua importanza. Non sono uno storico

«dell'economia né un esperto delle finanze; e inoltre mi rendo conto che un'èquipe di studiosi dovrebbe probabilmente passare anni negli im-mensi archivi delle banche di Londra e Parigi, prima di poter mettere insieme una particolareggiata cronaca tecnica della Casa. L'intento di

questo libro è diverso. Esso vuole dare una realtà umana, di carne e di sangue, al mito noto al mondo come "Rothschild".

Tuttavia ho cercato di dotare il racconto di tutti i necessari puntelli economici e storici, e qui, come in altre fasi della stesura del mano-scritto, ho potuto valermi dell'aiuto altrui.

Devo ringraziare quasi tutti i membri viventi del clan Rothschild per la pazienza con cui mi hanno accolto nei loro uffici e nelle loro

case, a volta addirittura incoraggiando la mia curiosità. In particolare, ringrazio la baronessa Hilda per la sua introduzione generale all'argo-mento; il barone Philippe e sua moglie Pauline per aver richiamato la

mia attenzione su parecchie attività sociali ed estetiche della famiglia; la moglie del barone Elie per le notizie sulle collezioni d'arte Roth-

schild. Molto preziosa mi è stata la collaborazione del barone Guy, capo della casa francese; di sua sorella Bethsabée e di sua madre, la

vedova del barone Edouard; di Lord Rothschild; di Mr. Edmund, socio

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dirigente della banca inglese, e di sua moglie Elisabeth; del decano della famiglia, barone Eugene e di sua moglie Jeanne.

Ho un debito di riconoscenza anche con parecchi soci d'affari dei Rothschild, come Leo Spitzer e Léonard Keesing di New York, Leo Kelly e J. F. Goble di Londra, il maggiore Peter Barber della tenuta di Exbury, Robert Jablon di Parigi. A Vienna, Ritter Wilhelm von Gut-mann, Frau Clementine von Ruzicic e Herr Richard Karlberger mi hanno dato alcune notizie preziose; lo stesso ha fatto Cecil Roth di Oxford, e non solo con la sua eccellente storia del ramo inglese della famiglia nel periodo vittoriano, The Magnificerà Rothschilds.

Ringrazio inoltre, per i loro consigli e commenti, Cecil Beaton, James R. Rorimer (direttore del Metropolitan Museum of Art), Vin-cent Sheean, Peter B. Kenan della facoltà d'economia della Columbia University, e Gilbert Millstein.

Wilhelm Schlag, addetto culturale presso il consolato austriaco a New York, mi è stato di preziosissimo aiuto nel procurarmi materiale d'arte.

Tutte le persone sopra nominate hanno contribuito a quest'opera; ma io solo sono responsabile delle sue insufficienze od errori.

Approfitto dell'occasione per riconoscere il mio debito con Ted Patrick e Harry Sions di Holiday, che per primi mi hanno suggerito l'idea del libro, di cui alcune parti, in una stesura diversa, sono state pubblicate sulla loro rivista.

Infine, riconosco il più grande di tutti i miei debiti. Mia moglie, Marcia Coiman Morton, mi è stata compagna indispensabile in que-st'impresa, dalle ricerche iniziali sino alla revisione definitiva. La ste-sura del libro ha tratto costante beneficio dal suo estro e dalla sua mi-steriosa allegria.

F. M.

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Ci sono ancora?

U"K l",SIONE A PAUILLAC

Il pomeriggio del 4 marzo 1961, le strade acciottolate di un piccolo villaggio nel sud-ovest della Francia si riempiono di una folla in attesa,

Finestre gremite di facce, binocoli puntati. Poco dopo le due una ban-da di musicanti cinti di fasce cremisi intona una fanfara, e le note si

spandono per le vigne circostanti. Un battaglione di gendarmi, impor-tato per l'occasione, prende posto lungo l'orlo della strada. E lentamen-te appare alla vista un corteo fiabesco.

Lo guidano un maestro delle cerimonie con bastone d'avorio, abito nero e calze di seta, e due minuscoli paggetti in brache al ginocchio. Dietro di essi avanza lentamente, ad andatura di cerimonia, la flotta presidenziale di limousine che il sindaco della vicina Bordeaux riserva solitamente al generale De Gaulle. Un patrimonio di orchidee copre la prime automobile, dall'estremità anteriore del cofano ai fanalini di co-da. Essa trasporta una principessa, il giorno delle sue nozze.

La sposa indossa un abito di satin bianco (firmato dall'uomo nel cui augusto nome si son suggellati tanti idilli contemporanei, monsieur

Belenciagà), porta un diadema di visone bianco e diamanti, tiene in mano un ramo di melo fiorito recato in volo quel mattino dalla Tur-

chia. Lo sposo al suo fianco è, come vuole il nostro cuore, un giovane molto bello, molto intelligente, molto povero.

Gli ospiti che li seguono nelle altre macchine sono giunti da Parigi con un contingente privato di vagoni pullman aggiunti al Sud Express. E c'è Cecil Beaton, fotografo ufficiale in temporanea licenza di sua maestà la regina d'Inghilterra; svolge il suo compito in smoking e ci-

lindro. Sì, qualunque cerimonia può diventare splendida, con un centinaio

li migliaia di dollari. Ma il carattere fiabesco di questa non sta sem-plicemente nel suo splendore, bensì nel fatto che ha qualcosa di fami-

liare; il fascino della fiaba sta non nell'essere narrata, ma nell'essere narrata una volta ancora.

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E la fiaba una volta ancora è narrata a Pauillac, il 4 marzo 1961. È il matrimonio di una Rothschild: di Philippine, figlia del barone Philippe di Chàteau Mouton. Ognuna delle pennellate che compongo-no l'iridescenza del quadro ha una storia, tramandata dalle vecchie si-gnore della Famiglia, da nutrici, da maggiordomi, da tutti gli archivisti con o senza livrea. Mentre la processione sta ancora sfilando per la stra-da del villaggio, la porta di servizio del Chàteau Mouton si apre per lasciar passare una torta nuziale alta un paio di metri. La decorano - fatte di zucchero filato - le cinque frecce Rothschild : il simbolo dello stemma di famiglia, concepito centoquaranta anni fa in mezzo ai po-grom di Francoforte, sfidando l'indignazione della Consulta Araldica austriaca. E quando le limousine del corteo si fermano davanti ai gran-di cancelli, una squadra di uomini che lavorano nella tenuta dà una mano ai gendarmi per formare un cordone. Ognuno di quegli uomini porta al braccio una fascia gialla e blu: i famosi colori dei corrieri Rothschild che hanno corso il mondo, attraverso disastri e trionfi, da Napoleone alla prima guerra mondiale.

Nessun nome moderno ha dietro di sé una storia tanto illustre. Nessuna famiglia non reale possiede da tanto tempo un potere così grande, così peculiare. Oggi molti membri del clan non riescono a na-scondere il senso di una quasi regale dignità, che nel nostro mondo è diventata anacronistica quando non addirittura irritante. Non basta definire la Famiglia "ancora molto ricca"; i patrimoni dei Rothschild in Inghilterra e in Francia sono, come sempre, incalcolabili.

Ai più, il nome "Rothschild" evoca l'idea di una ricchezza pro-verbiale e piuttosto astratta e impersonale. Ma per i molto ricchi, per chi conosce di persona i membri della Famiglia o amerebbe conoscerli, "Rothschild" significa qualcosa di ben vivo, qualcosa di invidiabil-mente, ridicolmente, irraggiungibilmente esagerato; qualcosa come un vecchio cocchio d'oro con un tiro di dodici destrieri bianchi.

Nei vagoni privati che trasportavano la famiglia al matrimonio le implicazioni bizantine dei nome trovavano conferma in un lusso bi-zantino. Alexandre, il Dior dei parrucchieri, ammette nel suo istituto parigino solo il tout-Paris - cioè la crème della società francese - o le-gittime cittadine dell'Olimpo come Jacqueline Kennedy o la princi-pessa Margaret. Sui pullman che correvano verso Bordeaux, Alexandre e una sceltissima équipe di suoi lavoranti attendevano, pettine alla ma-no, la loro presenza era un omaggio dell'anfitrione. Qualunque delle

ospiti dei Rothschild poteva farsi ritoccare l'acconciatura dal maestro

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In persona, mentre maggiordomi in guanti bianchi offrivano champa-gne e caviale. Alexandre conosce lo splendore della Famiglia; e la sua

agenda, una sorta di Gotha quotidiano, lo conferma. In quel libro, co-me nell'immaginazione del gran mondo, una designazione come "com-tesse Pierre" non significa nulla, se non vi si accompagna un cogno-

me; ma "barone Elie" o "barone Philippe" possono significare solo • le Rothschild"

« Sono i veri successori dei Borboni in Francia» sospirava al prin-cipio quest'anno un redattore di Vogue. « Sono gli unici per cui ba-sta il nome di battesimo.»

La Famiglia riunita a Pauillac e quella che abita a Buckingham Pa-lace sono le sole che ancora abbiano a loro disposizione grandi regni di

funzione. E da generazioni la Famiglia di Buckingham Palace riconosce questa affinità: la regina Vittoria mangiava e dormiva spesso in case

Rothschild; il duca di Windsor si rifugiò presso un Rothschild (del ra-mo austriaco) dopo l'abdicazione. Dove i re non ci sono più, possono

bastare i presidenti: l'unica volta che il presidente di Francia Coty ha pranzato ufficialmente in una casa privata, fu nel '52, nella residenza parigina del barone Philippe, il padre della sposa.

Come qualunque bambino nato a un così alto livello, la sposa ave-va ricevuto in eredità, oltre a tutto il resto, la storia. Qualcuno ha detto

che il giorno della sua nascita ogni piccolo Rothschild possiede 150 milioni di dollari e ha 150 anni d'età; le cifre possono essere inesatte, ma l'idea è precisa. Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo, la personalità

Rothschild si è cristallizzata assumendo caratteri così definiti che nes-sun nuovo possessore del nome può interamente sfuggirvi. I giovani

Rothschild di oggi (ce ne sono più d'una dozzina al di sotto dei ventun anni) possono parlare di Sartre o prediligere il cool jazz, ma le loro

esistenze fanno ancora parte di un antico disegno genealogico. Ciò è dovuto all'usanza di sposarsi tra consanguinei, e a un senso fortissimo

della tradizione familiare: caratteristica comune agli ebrei e agli ari-stocratici.

Anche l'aspetto più sbalorditivo del matrimonio di Pauillac era consacrato da precedenti familiari. Il parroco del villaggio aveva cele-

brato l'unione di Philippine con un cattolico (pronunciando un sermo-ne un po' imbarazzato sull'Antico Testamento e sulle virtù degli ebrei). In realtà, qui si stava semplicemente rinnovando un antico e tradizio-

nale scandalo. Da sempre questa dinastia così coscienziosamente ebrai-ca permesso alle sue figlie (non ai figli) di sposare dei cristiani.

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Tradizionale era anche la confusione nell'albo degli ospiti al Chà-teau Mouton, su cui più di settanta Rothschild avevano apposto le loro firme. Nella famiglia i nomi si ripetono attraverso le generazioni; con questo, la Casa sottolinea la sua unità e continuità, fa rivivere gli ante-nati nei suoi giovani membri, e fa perdere la pazienza ai biografi. Non c'è nulla che confonda le idee come l'albero genealogico dei Roth-schild. Il ramo inglese, per esempio, è stato fondato da un Nathan Mayer, seguito da un Lionel e da un Nathaniel, poi da Lionel Walter, Lionel Nathan, James Nathaniel e Nathaniel Charles. Oggi manda alle riunioni di famiglia l'attuale lord Rothschild, Nathaniel Mayer Victor, e suo figlio Nathaniel Charles.

Non contenti di ripetere i nomi di battesimo, i Rothschild hanno anche una serie, che pure si ripete, di pseudonimi : una peculiarità par-ticolarmente notevole per alcuni dei personaggi intervenuti alle nozze di Pauillac. Henri de Rothschild, nonno della sposa, scrisse alcuni drammi di successo sotto il nom de piume di André Pascal; suo figlio Philippe ha scritto commedie e fatto film con lo pseudonimo di Phi-lippe Pascal; sua figlia Philippine, la sposa, compare nei programmi della Comédie Fran$aise col nome di Philippine Pascal. Il fatto che in Jacques Sereys abbia sposato un direttore della Comédie dimostra co-me ogni interesse dei Rothschild trovi espressione dinastica.

Quella che altrove sarebbe un'inclinazione frivola qui diventa una importante caratteristica familiare. La golosità del clan non solo ha dato il "soufflé Rothschild" alla cucina internazionale; non solo solle-citato gli chef al servizio della Famiglia a spingere l'arte della pasticce-ria oltre le precedenti frontiere; non solo ha dettato al barone Alphon-se, nel 1905, una clausola testamentaria con cui lasciava 25.000 franchi oro al « caro genero Albert... affinché possa comprarsi dei cioccolati-ni » ; ma anche dato origine alla dilettevole e inviolabile legge secondo la quale in tutte le riunioni di famiglia si deve servire soufflé di cioc-colato.

"CHUTZPAH" E ORCHIDEE

Le orchidee che ornavano l'automobile della sposa erano il segno tangibile di un'altra caratteristica Rothschild: l'intolleranza per l'im-perfezione, anche per la più trascurabile. Per i Rothschild, pretendere

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ciò che ve di meglio al mondo è un imperativo categorico e indiscuti-bile. Più di qualsiasi altro gruppo, essi hanno ciò che in yiddish si chiama chutzpah, con una parola foneticamente e filologicamente impa-rentata con il greco hybris. Hybris indica un orgoglio incapace di scen-dere a compromessi, e alle fine autodistruttivo. Achille morì di hybris, ma i Rothschild vivono prosperosamente di chutzpah.

Le orchidee che rivestivano la macchina di Philippine venivano dall'immensa tenuta di Exbury, vicino a Southampton; vi sorgono tren-ta serre, costruite in legno di tek, che tengono sotto vetro circa sedici-mila metri quadrati di terreno. Appartengono a Edmund de Roth-schild, attuale socio dirigente della banca della famiglia a Londra; e i fiori che coltiva devono la loro regale bellezza a una passione d'esigen-tissimo intenditore ereditata dal padre, Lionel. Durante la seconda guerra mondiale, per esempio, buona parte del personale addetto alle serre fu chiamata sotto le armi, e Lionel si rese conto di non poter provvedere a tutte le tenere piantine. « Molte, molte furono distrutte » ricorda 1' "uomo delle orchidee". « Mister de Rothschild non se la sentiva di venderle, perché pensava che nessun altro avrebbe potuto curarle come richiedeva la loro qualità... »

Passiamo ai rododendri, altro elemento base della decorazione flo-reale di Pauillac. Anche questi erano stati portati da Exbury. Un tem-po un esercito di duecento giardinieri vi curava le immense colture di fiori di Lionel de Rothschild; oggi Edmund, suo erede, possiede un parco che contiene più centinaia di migliaia di superbi rododendri che qualunque altro punto del globo. Ne deve ringraziare non solo le cure di suo padre, ma anche una chutzpah inesorabile.

« Mister Lionel » racconta l'amministratore della tenuta, Peter Barber, « creò più di milleduecento ibridi di rododendro. Ma era spie-tato con quelli che non fossero più che belli. Era capace di osservare per dieci anni un vivaio di piantine; aspettava che fiorissero tutte per scegliere quelle assolutamente perfette... e distruggere tutte le altre. Era una regola assoluta. Nei suoi giardini non voleva neppure un fiore che fosse di qualità semplicemente buona. »

Anche davanti a prove spiacevoli, la famiglia rimane fedele alla regola dell'impeccabilità. Durante l'ultima guerra Chaim Weizmann, capo del sionismo mondiale, abitava al Dorchester Hotel di Londra. Anche l'attuale lord Rothschild vi si era trasferito, essendo impossibile tenere aperte le case per la mancanza di servitori chiamati sotto le ar-mi. Durante un'incursione aerea Weizmann, chiuso nel rifugio insie-

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me agli altri ospiti dell'albergo, assistette agli sforzi del giovane lord per calmare i suoi tre rampolli : una vana fatica che durò tutta la not-te. Infine, Weizmann chiese a milord perché non avesse mandato i bambini in America, come avevano fatto tante altre persone fornite di mezzi.

« Perché? » ribatté sdegnato lord Rothschild facendo ammutolire il paciere. « Perché mi chiede! Per via del loro maledetto cognome! Perché se mandassi via questi tre disgraziati piccini, il mondo direbbe che sette milioni di ebrei sono dei vigliacchi. "

Neanche in un milieu frivolo come quello di Saint-Germain-des-Prés viene meno il senso, caratteristico della famiglia, d'una speciale responsabilità. Una sera dell'anno passato tre giovani coppie molto eleganti sedevano ai tavoli esterni di uno dei caffè più bohémien. Un sonatore d'organetto si avvicinò col cappello teso. I tre uomini del gruppo tirarono fuori qualche moneta; « Merci » disse il sonatore d'organetto, e stava per andarsene quando con un gesto rapido la bella ragazza che gli altri chiamavano Philippine gli ficcò in mano una ban-conota. Nessuno ci fece molto caso, tranne forse coloro che sapevano chi fosse: non più una ragazza in compagnia d'amici, ma, d'improvvi-so, una Rothschild di fronte a un mendicante.

UN SILENZIO D'ORO

E tuttavia una praticità borghese ha sempre temperato questa re-gale coscienza di sé, questa imperiale ricchezza. C'è, per esempio, un curioso indumento del barone Philippe, che forse fu indossato anche nel gran giorno di Pauillac. Philippe, che si alza molto presto e quindi si ritira di buonora, ama ficcarsi in letto non appena finite le amenità postprandiali. Così il suo sarto ha dovuto confezionargli un indumento di seta, dal collo morbido, che svolge la duplice funzione di un'impec-cabile camicia da portare sotto l'abito da sera, e di camicia da notte. Quest'invenzione permette al barone di sostenere la parte del perfetto padrone di casa, pur ricevendo gli ospiti in pigiama.

Lo stesso spirito si ritrova nella dozzina di castelli e palazzi da cui i Rothschild si mossero per andare al matrimonio di Pauillac. Queste grandi dimore barocche contengono più mobili Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI di quanti ne possedessero i tre sovrani insieme. Ormai da

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decenni "stile Rothschild" significa, nel gergo degli arredatori, un insieme di mobili Borbone e soprammobili Rinascimento, un'opulenza di similoro e di boiseries... « il grande stile francese dei Rothschild » lo definisce Cecil Beaton. Tutto ciò indica amore per il lusso, ma non un amore esclusivo e cieco: vi si accompagna infatti un sano senso ebraico del pratico e dell'utile. Nella grande casa parigina della vedova di Edouard c'è, per. esempio, una stupenda sala da bagno tutta costruita in argento e marmo. Vi si nota un solo elemento dissonante: che si rivela, a guardarlo più da vicino, un piccolo quadro di controllo delle comunicazioni telefoniche. Con questo la baronessa può ottenere qua-lunque numero e comunicazione, rapidamente e in segreto, senza ricor-rere al solito apparato di segretari.

Il clan non nasconde solo qualche oggetto, come il suddetto qua-dro telefonico; nasconde addirittura se stesso. Non è un caso che il principale banchetto di nozze di Philippine abbia avuto luogo nelle cantine del Chàteau Lafite Rothschild, un altro castello della famiglia vicino a Pauillac. Con tutto il suo splendore e la sua straordinaria con-centrazione di ricchezza, la festa si svolse sotto terra, in un remoto an-golo di Francia. I Rothschild amano brillare; ma, con grande dolore dei socialmente ambiziosi, brillano solo in camera, fra i loro simili e per i loro simili.

La loro inclinazione al ritiro e al silenzio sembra cresciuta nelle ultime generazioni. Il capostipite della famiglia imponeva questa con-dotta, tanto tempo fa; ma alcuni dei suoi figli, nel loro assalto alle più difese cittadelle europee del potere, afferrarono qualunque arma a por-tata di mano, e tra le altre anche la più sfacciata pubblicità. Oggi la famiglia coltiva l'inudibilità e l'invisibilità della sua presenza. Come risultato, alcuni credono che poco ne resti, all'infuori di una grande leggenda; e i Rothschild son ben contenti di affidare solo alla leggenda le loro relazioni pubbliche.

Le due grandi banche di Londra e Parigi (che probabilmente sono i due più potenti istituti finanziari privati del mondo) e il grande quartiere generale degli affari del barone Edmond a Parigi non hanno neppure una targhetta col nome sulla porta. I Rothschild controllano decine di società industriali, commerciali, minerarie, turistiche, ma nes-suna porta il loro nome. Le ditte di loro proprietà, essendo private, non devono pubblicare nessun bilancio né alcun altro rapporto sulla loro situazione finanziaria; e non lo fanno.

Socialmente, "Rothschild" significa altissima società. Nella snobi-

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stica Europa, quattro generazioni di ricchezza non sempre bastano a dare ad una famiglia diritto di cittadinanza nel gran mondo; ma l'han-no dato ai Rothschild, a questa gente che quasi mai fa parlare di sé, che quasi mai si lascia vedere dai comuni mortali, che è di casa al St. James Club di Londra o nel palazzo della Contessa di Parigi, e non tanto partecipa dell'esclusività di questi sancta sanctorum, quanto la conferma con la sua presenza.

Altrettanto silenziose le attività benefiche della famiglia. Pochi sanno che Guy, capo della famiglia francese, è presidente del Fonds Social Juif Unifié; o che uno speciale settore della banca londinese prepara una lista mensile di beneficenze (destinate a ebrei e non ebrei) che il socio dirigente dispenserà; o che una potentissima - e timidissi-ma - Fondazione. B. de Rothschild, diretta dalla sorella di Guy, Beth-sabée, opera a New York, Parigi e Tel Aviv. Essa sostiene (e alloggia) la Compagnia di danze di Martha Graham, sovvenziona il balletto francese e artigiani di Israele, provvede largamente all'educazione del-le tribù indiane d'America, alle ricerche sull'arte indiana; e tutto sotto l'egida del silenzio.

Infine, il clan mantiene un riserbo quasi assoluto sulle sue svariate attività sportive e culturali. Si, gli appassionati di corse di cavalli pos-sono sapere che i colori gialli e blu dei fantini che montano i cavalli del barone Guy ad Ascot, Longchamps e Deauville sono gli stessi delle bandiere che sventolano sui castelli Rothschild dall'una e dall'altra parte della Manica. Gli zoologi possono conoscere l'esistenza di una ornithoptera Rothschildi (una sgargiante farfalla della Nuova Guinea) e della Rhea Rothschildi (uno struzzo del Sud America), animali sco-perti entrambi nel corso di spedizioni finanziate dai Rothschild. Gli intenditori di vini possono venerare nel Mouton Rothschild e nel La-fite Rothschild due dei chiaretti più squisiti del mondo. Botanici e amanti del giardinaggio devono ringraziare la passione della famiglia per i fiori : la stupenda azalea Rothschild, i molti rododendri che por-tano lo stesso nome, le fantastiche orchidee di Exbury.

La Famiglia ha lasciato in tutti questi campi la sua impronta, visi-bile perlomeno agli specialisti. Ma al Louvre, al British Museum, pres-so una dozzina d'altre istituzioni, ci sono in questo stesso momento centinaia di ricercatori e di studiosi d'arte chini su una cornucopia di tesori senza sapere che un tempo essi brillavano nelle biblioteche e adornavano i salotti dei Rothschild. Le donazioni in toto di questi ulti-mi fanno apparire misere, al confronto, quelle dei Medici.

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A Vienna, casa Rothschild è stata spazzata via dal ciclone della Wehrmacht, nel 1938. Ma sopravvive, e non solo nelle ricchissime col-lezioni lasciate al Kunsthistorisches e al Kunstgewerbe Museum. Il suo ricordo letteralmente, ancora fragrante : ogni primavera i parchi e le piazze della città sono invasi dai fiori venuti da quelle che erano un tempo le serre Rothschild nella Hohe Warte.

Ogni giorno contadini provenienti da tutte le parti dell'Austria giungono in pellegrinaggio alla Stefanskirche, la cattedrale dell'intera nazione. Tutte le province austriache fornirono materiale indigeno per ricostruirla dopo i danni subiti nella seconda guerra mondiale. La fa-miglia, una provincia di per sé, diede le pietre del suo più grande pa-lazzo: quello di Prinz Eugenstrasse, troppo monumentale per trovare un nuovo padrone nel 1956. Fu demolito proprio nel momento in cui la Stefanskirche aveva bisogno d'una trasfusione di marmi preziosi, e le pietre della dimora ebraica furono così trasportate direttamente alla cattedrale cattolica.

Solo in una delle città più importanti per la sua storia il clan ha lasciato poche tangibili impronte. Francoforte possiede, è vero, un Parco Rothschild, e i suoi archivi municipali conservano qualche in-giallito documento degli inizi della famiglia; ma le rovine della prima casa dei Rothschild, distrutta dalle bombe, sono state abbattute quattro anni fa per far posto a un nuovo palazzo per uffici. Non molte vestigia dei Rothschild sopravvivono lungo le rive del fiume Meno.

Eppure qui, in una piccola dimora stretta fra le altre case del ghet-to, hanno avuto radice gli splendori delle nozze di Pauillac. Qui, con una stella gialla appuntata al caffettano, Mayer Amschel Rothschild possedeva due secoli fa una botteguccia, qui sposò Gutele Schnapper, qui crebbe con l'aiuto dei di lei cinque figli prodigiosi che conquista-rono il mondo, assicurandosi un potere più reale e più durevole di quello di tutti i Cesari venuti prima di loro e di tutti gli Hitler venuti dopo.

Qui, la loro storia e il loro nome entrarono nella Storia.

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Il ghetto

MAYER L'ORFANELLO

È quasi impossibile incontrarsi con un Rothschild dei nostri giorni senza incontrarsi prima con i suoi antenati. L'atrio della sua casa, l'an-ticamera del suo ufficio sono quasi invariabilmente gremiti di quadri, busti, rilievi, qualche volta persino piccoli monumenti degli avi. Tutti questi Valhalla sono però curiosamente incompleti : del fondatore del-la dinastia non si conosce nessun ritratto, benché verso la fine della sua vita Mayer Rothschild potesse permettersi le più squisite opere di pen-nello che il denaro può comprare.

Tuttavia, l'assenza stessa di un ritratto solenne ci permette di rie-vocare più vividamente l'immagine che i contemporanei ci hanno tra-mandato; un'immagine molto diversa da quelle dei figli tarchiati, im-placabili, dal genio mostruosamente pratico, che egli generò. Il patriar-ca era un uomo alto, delicato, con le spalle strette e curve dello studioso. Quando sorrideva, nei suoi occhi ammiccava una luce che non è molto caratteristica dell'uomo d'affari.

In lui doveva agitarsi uno strano sogno; qualcosa lo spingeva a scelte coerentemente peculiari e strane. La più inspiegabile di tutte lo riportò, un giorno della primavera 1764, nella sua città natale, Franco-forte sul Meno.

Gli antenati di Mayer erano da molto tempo piccoli mercanti che svolgevano i loro traffici nel ghetto della città. Ma l'avvenire del ragaz-zo sembrava dirigersi altrove. I suoi genitori Io avevano mandato - era il più sveglio d'una nidiata di figlioli - a Yeshiva, vicino a Norimberga, perché diventasse l'orgoglio della famiglia : un rabbino. Mayer si com-portò brillantemente, ma i suoi studi durarono poco; entrambi i geni-tori morirono, e non rimase nessuno che potesse provvedere al suo mantenimento. Per buona fortuna, certi parenti gli trovarono un posto di apprendista nella banca ebraica Oppenheimer, a Hannover.

Nei suoi panni, un altro non si sarebbe mosso da quella città. La Germania era ancora un mosaico di piccoli stati, ciascuno con leggi

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proprie; diversamente da Francoforte, Hannover tollerava gli ebrei, o per lo meno non rendeva loro la vita intollerabile. Mayer era bravo. La sua strada era chiara: rimanere alla banca, far carriera, raggiungere il grado più alto nella gerarchia degli impiegati; forse, con l'aiuto di Dio, prima di morire, avrebbe potuto diventare socio. Invece, Mayer tornò a casa. Scelse la strada sbagliata e divenne immortale.

Ma quando rientrò a Francoforte, quel giorno di primavera, lo ac-colsero solo meschine umiliazioni. Traversando il fiume dovette pagare il pedaggio imposto agli ebrei. Da lontano non solo vide il quartiere dov'era nato ventanni innanzi, ma ne sentì l'odore. Le case del ghetto si affollavano intorno a un unico vicolo buio, largo poco più di tre metri; si stendeva, come avrebbe detto più tardi Goethe : « fra il muro della città e un fossato ».

Lungo la strada, Mayer non potè evitare i monelli il cui diverti-mento favorito consisteva nel gridare : « Giudeo, fa' il tuo dovere! » ; al che il giudeo doveva fare un passo di laro, togliersi il cappello e in-chinarsi. Dopo avere così intrattenuto i ragazzini del posto, Mayer giunse alle pesanti catene con cui i soldati chiudevano ogni sera la Judengasse, la strada degli ebrei.

Da vicino, il ghetto non offriva uno spettacolo più incoraggiante. I negozi riversavano sulla stradicciola mucchi di vestiti usati e di mas-serizie sporche; in questa confusione si rifletteva un'ordinanza che vie-tava agli ebrei di Francoforte l'agricoltura, le attività artigianali e per-sino il commercio di generi nobili come le armi, la seta, la frutta fresca.

Anche sulle ragazze che Mayer incontrava pesava il pugno di ferro dei gentili : un altro editto cittadino limitava a cinquecento il numero delle famiglie ebree, a dodici la quota annua dei matrimoni.

Quando Mayer arrivò a casa sua e un vecchio amico lo salutò: « Ehi, Rothschild! » quella parola stessa potè solo ricordargli che non possedeva un vero cognome: era un privilegio negato alla sua razza. Come mezzo di identificazione, gli ebrei ricorrevano spesso alle inse-gne che distinguevano le case prima che entrassero nell'uso i numeri. Gli antenati di Mayer avevano vissuto un tempo in una casa con un'in-segna rossa (Rothschild), all'estremità più prospera della Judengasse, e il nome era rimasto benché la famiglia si fosse trasferita in una dimora più umida e umile, dietro l'Insegna della Casseruola. Qui entrò Mayer; attraversò un cortiletto pieno d'ombra e di rifiuti e raggiunse un se-condo cortile, dove i suoi fratelli Moses e Kalmann avevano un nego-zio di robivecchi. Il suo viaggio era finito; cominciava un'epopea.

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IL SOGNATORE DEL GHETTO

Nell'umida Casa della Casseruola, Mayer Amschel faticò paziente-mente per anni. E a questo punto dobbiamo chiederci: previde vera-mente il bene che gli sarebbe venuto dal sacrificare una brillante e or-dinata carriera in una banca di Hannover all'amore per il luogo dove aveva visto la luce? Aveva capito le possibilità latenti nella sua città natale? Sapeva che il signore di Francoforte, il giovane principe Gu-glielmo di Assia-Hanau, era un plutocrate fra i principi; che aba corte di Guglielmo era in via di creazione un impero finanziario per il quale a un certo punto sarebbero occorsi dei viceré? Scendeva davvero attra-verso il tetto angusto questo sogno, allietava davvero le sue notti?

Perché, aba luce del giorno, quanta distanza correva fra lui e il principe! Aba luce del giorno Mayer era uno dei tre fratebi in caffet-tano che razzolavano tra vecchi mobili, sporcizia, rifiuti e anticaglie di quart'ordine. Non avrebbe potuto comprarsi neppur uno fra i molti cavabi che schizzavano fango contro le mura del ghetto mentre corre-vano verso il castello di Guglielmo a Hanau.

Col passare del tempo, parve chiaro a tutti che Mayer non sarebbe mai stato in grado di comprarsi, nonché un cavabo, nemmeno una seba. Nella bottega di robivecchi aveva avviato, con più entusiasmo che profitto, un nuovo commercio: quello debe monete antiche. Gli anni di Yeshiva vivevano ancora in lui. Era un rabbino mancato; ed era stato contagiato dal secolare, nostalgico amore deba sua razza per la poesia e per il sapere. I denari e i talenti che adesso comperava, le antiche monete russe, palatine, bavaresi, erano oggetti che poteva ana-lizzare, interpretare, spiegare, descrivere, confrontare. Non, però, ven-dere.

O così parve sulle prime. Nella Judengasse c'era troppo bisogno di valuta corrente perché qualcuno si interessasse di quella ritirata daba circolazione, e gli abitanti cristiani deba città non erano più sensibili degli ebrei al fascino di quegli inutili pezzetti di metallo. Bisognava spingersi più lontano, fino ai castelli e alle dimore intorno a Franco-forte. Mayer vi si avventurò. Dopo tutto, aveva persino qualcosa che, con un po' di buona volontà, avrebbe potuto chiamare un'"aderen-za" : a Hannover aveva fatto delle commissioni per un certo generale von Erstoff, ora alla corte del principe Guglielmo a Hanau.

Il generale ebbe la bontà di ricordarsi di lui; e Mayer scoperse che gli aristocratici amici del generale si interessavano abe sue bizzarre mo-

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nete, ai suoi cimeli di famiglia. Ascoltarono con piacere la sua loqua-cità sorprendentemente erudita, si divertirono alla cantilenante parlata ebraica con cui vantava la sua merce, sfogliarono il catalogo scritto con così leggiadri svolazzi; e, persino, comprarono!

Di tanto in tanto tornarono a comprare. Mayer, imbaldanzito, man-dò i suoi cataloghi adorni di ghirigori a principi e principotti di tutti i dintorni. Un giorno venne introdotto all'augusta presenza del principe Guglielmo in persona. Sua altezza, vuole la leggenda, aveva appena vinto a scacchi, e quindi guardava il mondo con occhio benigno. Mayer gli vendette una manciata delle sue medaglie e monete più rare. Fu la prima transazione d'affari tra un Rothschild e un capo di stato.

Mayer tornò nella Judengasse trionfante ma non ricco. Pensava di metter su famiglia; ma a mantenerla non poteva bastare qualche for-tunata escursione nelle alte sfere. Perciò Mayer fondò, nella Casa della Casseruola, una Wechselstube, cioè una banca rudimentale dove si po-tevano cambiare le svariatissime valute correnti in Germania. Le fiere che si tenevano a Francoforte portavano in città ogni sorta di ducati, fiorini, carlini e qualsiasi altra valuta; e da queste differenze di cambio Mayer cominciò a trarre un guadagno costante.

Diventò un buon partito; e la gente cominciò a vederlo spesso in casa di Gutele Schnapper, una piccola ma energica ragazza di diciasset-te anni il cui padre aveva una bottega all'estremità chic della Juden-gasse. La dote prometteva di essere discreta, Gutele era carina, il suo stufato eccellente. Che cosa poteva volere di più un bravo giovanotto ebreo?

Mayer voleva qualcosa di più. C'erano quelle vecchie monete, e i gentiluomini che gliele compravano... Il sogno continuava sommessa-mente a parlargli, e lui, lui curvava ancora di più le spalle. Di nuovo si rifiutò di seguire la buona strada borghese verso un successo che fos-se semplicemente buono. Non usò i profitti dello scambio di valute per ingrandire la Wechselstube, sua principale fonte di guadagno, ma li investì nel commercio numismatico.

Si comprò alcuni raccoglitori di monete di cui aveva bisogno, e presentandosi con questa nuova attrezzatura si procurò altri clienti di gran nome - come il duca Karl August, patrono di Goethe a Weimar -che però pagavano prezzi minimi. Vendeva sempre, anche se non di continuo, al suo signore, Guglielmo. E si divertiva un mondo.

I suoi fratelli - che continuavano ad occuparsi del reparto roba usata della ditta comune - non sapevano darsi ragione del sorriso tena-

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ce che brillava nella barba di Mayer. Lo osservavano perplessi. Quanto tempo passava su quei suoi cataloghi. Con quanta cura li aveva fatti stampare in complicate lettere gotiche! Come continuava a corregger-ne gli elaborati frontespizi e a ritoccarne lo stile, che persino per quei tempi pareva curioso ed arcaico! Sembrava, pensavano i fratelli, un talmudista intento a scrivere un libro.

Infatti, Mayer aveva davvero cominciato a scrivere. Ora lettere, non libri; lettere di contenuto pratico, petizioni a vari principi locali. La gentilezza del tono, lo stile fiorito, l'attenzione meticolosa alle for-malità, e quello scadere, talvolta, nell'idioma del ghetto, tutto ciò era tipico di Mayer.

« È stata mia particolare, grande e buona fortuna, » cominciava « servire la Vostra nobile principesca Serenità varie volte e con Vostra graziosa soddisfazione. Sono pronto in ogni momento a usare tutte le mie energie e tutta la mia fortuna per servire la Vostra nobile e prin-cipesca Serenità ogni volta che in futuro si compiaccia di comandarmi. Sarebbe per me un potente incentivo a questo fine se la Vostra nobile principesca Serenità volesse concedermi la distinzione di nominarmi agente di Corte di Vostra Altezza. Ho l'ardire di chiederlo con tanta più fiducia in quanto so che nel farlo non do nessun disturbo; mentre per parte mia una tale distinzione farebbe crescere la mia statura com-merciale e mi tornerebbe di vantaggio in tanti altri modi, che son si-curo, grazie ad essa, di poter fare strada e fortuna in questa città di Francoforte. »

E così un giorno - il 21 settembre 1769 - le persone che percor-revano la metà più povera della Judengasse ebbero qualcosa di nuovo da guardare. Un giovanotto dalle spalle curve e dalla barba nera stava inchiodando un'insegna sulla Casa della Casseruola; l'insegna portava le armi della casa d'Assia-Hanau, e al di sotto proclamava in lettere dorate :

M. A. ROTHSCHILD AGENTE DI CORTE

DI SUA SERENISSIMA ALTEZZA IL PRINCIPE GUGLIELMO DI HANAU.

Quello di Agente di Corte era un titolo molto comune. Il conferi-mento era solo la pubblica conferma del fatto che chi ne veniva inve-stito aveva avuto qualche transazione d'affari con la corte; non com-

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portava nessun obbligo da parte del principe né significava un grande passo avanti nella carriera di Mayer.

Tuttavia fece colpo nel vicinato. Il padrone della Casa della Casse-ruola accettò di vendere ai tre fratelli un quarto dell'edificio, come Mayer gli chiedeva da molto tempo. Il padre di Gutele, fino a quel momento un po' riluttante, acconsentì a dare la figlia in sposa al nuo-vo dignitario. Il titolo inoltre esentava chi lo possedeva da alcune delle restrizioni cui eran soggetti gli ebrei; era una specie di passaporto che rendeva un poco più facile viaggiare.

Ogni volta che passava davanti alla facciata di casa, Mayer indugia-va un momento a guardare la nuova insegna, schiudendo le labbra al suo strano sorriso. Gutele cominciò a mettergli al mondo dei figli, e Mayer alzava i piccoli sino all'insegna, spiegando il significato dello stemma e delle parole. I fratelli sorridevano sotto i baffi, la moglie era indaffarata nelle faccende domestiche; ma i bimbi nelle braccia di Ma-yer guardavano la targa con occhi seri. Sembrava che vi riconoscessero la prima pietra di un edificio immenso.

IL PRINCIPE GUGLIELMO

Il giovane principe che aveva conferito al venditore di monete quella distinzione - un attore di spalla nel dramma dei Rothschild -era un personaggio interessante. Nonostante le proporzioni relativa-mente esigue dei suoi domini, Guglielmo aveva nelle vene un sangue così blu come quello di qualsiasi monarca europeo. Nipote di Gior-gio II d'Inghilterra, cugino di Giorgio III, aveva inoltre per zio il re di Danimarca e per cognato quello di Svezia. Naturalmente i suoi pa-renti erano ricchi; ma ciò che li rendeva anche più importanti per Guglielmo - e che diede loro una parte di primo piano nella storia di Mayer Rothschild - era il fatto che quasi tutta l'augusta serie di sovrani era indebitata col piccolo principato di Hanau.

Quando si trattava di quattrini questo nababbo, questo aristocrati-co il cui blasone era famoso in Germania sin dal Medio Evo, diventa-va furbo come l'ultimo dei parvenu. Fu il primo grande mercante-re. La merce che Guglielmo vendeva - come aveva fatto prima di lui suo padre, il langravio Federico di Assia-Cassel - era il valore militare; ma ne cavava più profitto di quanto avesse saputo fare papà. Guglielmo

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arruolava i suoi sudditi maschi e li sottoponeva all'addestramento ne-cessario prima di metterli sul mercato : raffinava e perfezionava le sue truppe; le lustrava e affilava sui campi di manovra; controllava persino i codini degli ufficiali e i moschetti dei soldati semplici. Infine, quando un'infornata era cotta a puntino e confezionata a dovere, vendeva il tutto all'Inghilterra, che usava i mercenari d'Assia per mantenere la pace nelle colonie.

Questo commercio dei tutori della pace rese a Guglielmo un pa-trimonio. Ogni volta che uno dei suoi soldati veniva ucciso, il principe riceveva un indennizzo extra, per compensarlo dei dolori della vittima; e col crescere delle perdite aumentavano i denari nelle sue casse. Que-sti denari Guglielmo poi li prestava, con lodevole mancanza di pregiu-dizi, alle persone giuste : dai fabbricanti di candele con credito solidis-simo ai re che pagavano gli interessi sotto forma di favori. Favori re-gali da una parte, talleri borghesi dall'altra avevano fatto di lui il più ricco sovrano d'Europa. Probabilmente egli ammassò la più grande fortuna che un privato abbia mai posseduta dopo i Fugger... e prima dei Rothschild.

In una vita così austeramente consacrata agli affari, Guglielmo aveva un solo hobby: l'adulterio; e anche a questo si dedicava con quella che vorremmo chiamare, se ci è concesso, una coscienziosità commovente. Oltre ai tre figli avuti dalla consorte ufficiale, la princi-pessa reale di Danimarca, Guglielmo ne aveva messi al mondo almeno ventitré illegittimi. Erano tutti bastardi molto soignés, con documenti di nobiltà acquistate dall'augusto debitore, l'imperatore Francesco d'Austria.

Una conseguenza indiretta d'una delle liaisons di Sua Serenità contribuì a rafforzare i vincoli sin allora tenui che lo univano a Mayer Rothschild. Gli otto ragazzi di Frau von Ritter-Lindental, una delle prolifiche favorite del principe, avevano un tutore di nome Buderus; e il figlio di Buderus, Cari, entrò alla corte come addetto al tesoro. Il giovane Cari, che torneremo a incontrare, ben presto si rese caro alla parsimoniosità di Guglielmo. Secondo un cronista, egli concepì un piano « per accrescere i profitti di una delle latterie del principe con il semplice espediente di proibire l'uso... di omettere nei conti le frazioni di heller » (il cui valore corrispondeva a poco più di cinque delle no-stre lire). « Il giovane Buderus » continua la storia « dimostrò che que-sto avrebbe fatto aumentare le entrate di 120 talleri. La rivelazione piacque tanto al principe Guglielmo... che in aggiunta ai normali

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doveri incaricò Buderus di tenergli la sua amministrazione privata. » Fu Buderus che contribuì all'invenzione della tassa sul sale, con cui

Sua Serenità provvide al mantenimento della numerosa progenie. E fu Buderus che cominciò a interessarsi in modo particolare a Mayer Am-schel, che tanto spesso compariva a Hanau con strane merci. A Bude-rus quell'ebreo piaceva; e gli piacevano anche le monete rare che rice-veva in regalo alle feste. C'erano molte feste in un anno. Grazie a Bu-derus, la Wechselstube di Mayer fu incaricata di incassare alcune delle tratte di Sua Serenità per lo sconto su Londra. Finalmente i Rothschild erano entrati nel giro bancario internazionale.

Era qualcosa; ma qualcosa di molto, molto piccolo. Il principe Gu-glielmo sapeva appena che l'ebreo Mayer esisteva. Semplicemente, pre-feriva distribuire le sue lettere di cambio sull'estero fra quanti più scontatori possibile; un'eccessiva concentrazione avrebbe potuto far va-riare sfavorevolmente il cambio. Buderus potè aiutare Mayer in qual-che altra transazione di poca importanza; poi i rapporti fra la Wech-selstube e la corte parvero cessare del tutto. E accadde un fatto che rese più profondo che mai l'abisso fra il piccolo Mayer e il grande principe.

Il padre di Guglielmo morì. Nel 1785 Sua Serenità diventò padro-ne degli immensi possedimenti paterni, del palazzo, del titolo di lan-gravio d'Assia-Cassel. Con tutta la sua corte - completa di moglie, amante, figli legittimi, bastardi, cortigiani e via dicendo - Guglielmo lasciò Hanau e i dintorni di Francoforte per installarsi nel grande pa-lazzo di Wilhelmshòhe a Cassel.

Lo stesso anno Mayer e la moglie Gutele si trasferirono con armi e bagagli in una casa un tantino più grande, con un'insegna verde que-sta volta: fu una miserabile, oscura migrazione da un punto all'altro del ghetto, mondi interi al di sotto del principesco trasferimento da Hanau a Wilhelmshòhe. Eppure fu il viaggio di Mayer, non quello del principe, a terminare in un luogo destinato ad essere il teatro d'una storia che ancor oggi conserva un significato per noi.

NASCITA DI UNA DINASTIA

In vecchiaia, riandando il passato, Mayer confessava che il decennio dal 1780 al '90 era stato il più bello della sua vita. Aveva superato da poco la quarantina; e quelli erano stati anni di una tranquilla, casalinga

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felicità. Da una parte, nella vita della famiglia, non era ancora comin-ciata quella fase tumultuosa, frenetica che dei Rothschild avrebbe fatto "I Rothschild"; dall'altra, si erano già lasciati alle spalle la miseria e il bisogno.

Si erano lasciato dietro, per esempio, lo sporco cortiletto della Casa della Casseruola. Quella dell'Insegna Verde era una dimora molto più bella; aveva la facciata sulla strada, era alta tre piani e rifletteva la po-sizione sociale di Mayer, divenuto ormai un solido mercante. Certo an-che qui, come in tutto il ghetto, lo spazio scarseggiava. La casa dell'In-segna Verde era alta ma stretta, le sue stanze piccole e scure. Due ca-mere da letto dovevano bastare ai genitori e alla prole in continuo aumento (Gutele mise al mondo venti figli, di cui dieci sopravvis-suti). Armadi e credenze dovettero essere ficcati sotto le scale ripide e scricchiolanti; qualcuno fu ricavato nel muro.

E non era un'esistenza tranquilla. Fuori, la Judengasse formico-lava e urlava; dentro, scale e pavimenti, le une e gli altri di venera-bile età, gemevano ad ogni passo. Tutte le volte che la porta di strada si apriva, si udiva il suono di una vecchia campanella, che da quando era lì aveva annunciato agli abitanti della casa non solo l'arrivo di clienti, ma anche i pogrom e la polizia.

Al suono della campanella, Mayer accorreva; e questo avveniva un centinaio di volte al giorno. Aveva più daffare che mai; per mantenere la casa e la famiglia aveva aggiunto alla Wechselstube, e al commercio di monete e di merci di seconda mano, quello dei tes-suti. Non c'era più nessuno ad aiutarlo, perché il fratello Kalmann era morto nel 1782 e Moses s'era ritirato dagli affari. Così Mayer si affannava a mandare avanti tutti gli eterogenei reparti dell'azien-da, sempre sorridendo del suo strano sorriso.

Del resto, aveva tutte le ragioni d'essere contento. Il negozio, più spazioso, attirava clienti migliori. Sconche, la figlia maggiore, che se-deva alia cassa, ebbe un vestito nuovo. Ben presto Mayer fece ordine in bottega rinunciando al commercio di roba usata, e col tempo prese a vendere non solo cotone ma anche vino e tabacco; la nobiltà, oltre all'aroma, di queste merci pervadeva tutta la casa.

Al pianterreno si trovava anche la cucina, tre metri per uno e mezzo, con un focolare tanto piccolo che non ci stava più d'una pen-tola per volta. Vicino c'era, lusso inaudito, una pompa: i Rothschild erano fra i pochi privilegiati della Judengasse che non dovevano uscir di casa per andarsi a prendere l'acqua da bere.

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Naturalmente, la cucina era il regno di Gutele; e altrettanto si dica per il salotto tenuto con ogni cura al piano superiore. (Molti anni dopo lo avrebbero chiamato "la Camera Verde" per il colore delle imbottiture sbiadite e perché Gutele si sarebbe ostinata a vive-re qui mentre i figli regnavano sull'Europa dai loro palazzi.)

Il sabato sera, dopo le preghiere alla sinagoga, Mayer amava por-tarsi in casa i rabbini. Seduti nel salotto verde, sorseggiavano lenta-mente un bicchiere di vino e discutevano, della creazione del mondo e dei tempi messianici, fin nel cuore della notte. Anche negli altri giorni della settimana, finito il lavoro, Mayer era capace di prendere dallo scaffale il grosso libro del Talmud e leggerlo salmodiando men-tre tutta la famiglia lo stava ad ascoltare immobile, in silenzio.

Mayer non era però uno di quegli uomini che passano tutto il loro tempo sui libri. La casa dell'Insegna Verde aveva una specie di terrazzo che s'affacciava sul cortile interno; siccome gli ebrei non potevano metter piede nei giardini pubblici, questo serviva alla fami-glia da luogo di ricreazione. Qui Mayer giocava con i bambini mentre Gutele, da quella brava moglie ebrea che era, sedeva silenziosa nello sfondo, sferruzzando, cucendo, lavorando d'uncinetto, rammendando. Sul terrazzo, Mayer insegnava alle figlie a coltivare un po' di fiori e di erbe, e parlava, nel suo fantasioso linguaggio, delle piante: quasi come se fossero vecchie monete. Qui celebrava anche la Festa dei Tabernacoli (che non si deve svolgere al chiuso) sotto rami di pino attraverso i quali si vedevano le stelle brillare nel cielo del ghetto.

In casa c'era un altro posto nel quale Mayer si recava non meno spesso che sul terrazzo, ma molto più segretamente. Sull'altro lato del piccolo cortile si trovava l'ufficio della contabilità: la prima, primi-tiva banca Rothschild, che copriva una superficie non superiore a qualche metro quadrato. Conteneva una grande cassa di ferro, con un meccanismo fatto in modo che la cassa non si apriva di lato col luc-chetto ma solo alzando il coperchio da dietro. Però, la sua funzione era soprattutto quella di gettare polvere negli occhi a chi entrava nella stanzetta. Le pareti erano piene di scaffali segreti, e una porta nasco-sta immetteva in una cantina altrettanto segreta, separata da quella "ufficiale" della casa. Anche la sua funzione era del tutto diversa da quella d'una cantina normale. Vi erano conservati documenti, con-tratti, scritture legali, e a partire da un certo momento strane carte che avevano a che fare con sua altezza, il langravio Guglielmo d'Assia-Cassel, che sembrava così lontano.

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Legami invisibili cominciavano a stendersi fra il piccolo locale sotterraneo nella casa dell'Insegna Verde e le alte torri di Wilhelm-shohe. Pochi ne erano al corrente, mentre quei vincoli venivano for-giati; e nessuno sospettava che il piccolo mercante del ghetto avrebbe eclissato il principe, né che, viva sua serenità, la famiglia della Juden-gasse avrebbe messo insieme ricchezze più favolose delle sue, facendo impallidire la fama secolare del suo nome, riducendo il grande prin-cipe alla funzione di un trampolino di lancio.

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Cinque tappeti volanti

ENTRANO IN SCENA I RAGAZZI

Nessuna fanfara annunciò l'avvento dei Rothschild al potere mondiale. Alla fine del decennio 1780-90 il nome Mayer Rothschild continuava a significare poco o nulla per il principe Guglielmo nel suo fastoso castello di Wilhelmoshòhe; e quel nome rimaneva oscuro nello stesso ghetto di Francoforte.

Alle radici delle conquiste della Famiglia sta proprio questa capa-cità di passare inosservata, di agire non vista e non udita. La sua meta era così alta, la sua posizione, al confronto, così bassa, il suo primo punto d'appoggio così precario, le sue risorse così misere; qua-lunque rivale accorto avrebbe potuto distruggerla con un sol colpo.

Tuttavia i tre possenti strumenti con cui la casa di Mayer avrebbe soggiogato un continente erano già al lavoro, sia pure su scala mi-nima.

1. La clientela dei Rothschild era composta, in proporzione cal-colata, non solo di borghesi ma anche di alcuni fra i massimi espo-nenti della nobiltà tedesca; pazienza se la loro alta posizione compor-tava per Mayer bassi profitti.

2. Rothschild attirava il langravio praticando prezzi modesti (imi-tando fedelmente in ciò la tattica impiegata dallo stesso Guglielmo con la casa imperiale di Vienna). Mayer si era così guadagnato anche la cooperazione sempre più importante di Buderus che, nella sua qualità di principale collaboratore finanziario del langravio esercitava un'influenza notevole sul più grande patrimonio d'Europa.

3. Mayer aveva dei figli. Questo era, ed è, il più semplice e il più efficace fra tutti gli

strumenti di potere: aver dei figli. In sostanza, il sogno che viveva nell'anima di Mayer era dinastico. Tutti i suoi traffici presso le corti locali - quel crearsi aderenze, quell'incantare la gente con la sua par-lantina e la cortesia, e il girare come un piccolo venditore ambu-lante - erano un investimento dinastico. Se non fosse stato padre, sa-

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rebbe stato solo un vano gesticolare; e Mayer sarebbe morto scono-sciuto, come una specie di gracile trovatore semitico. Ma siccome aveva dei figli, diventò un gigante, un uomo che spostava montagne. Tutte le sue fatiche si rivelarono semi da cui dovevano nascere spi-ghe che i figli avrebbero mietuto; e a loro volta i figli, mietendo, avrebbero seminato per i loro figli e per i figli dei figli.

Forse gli antichi romani furono la nazione più formidabile che il mondo abbia conosciuto; forse Napoleone fu il più formidabile indi-viduo. E forse la famiglia che nel tempo di cui stiamo parlando an-cora faticava, sconosciuta, nella casa dell'Insegna Verde, fu la Fami-glia par excellence della storia moderna. Finché visse solo con sua mo-glie Mayer fu semplicemente un ebreo come tanti; o, se vogliamo, un Cesare senza centurioni. Ma presto quei figli avevano cominciato a uscire dal grembo di Gutele come tante impavide legioni.

Primo era venuto Amschel, futuro tesoriere della Confederazione Germanica. Poi Salomon, destinato a raggiungere in Vienna impe-riale l'altissima posizione che il langravio Guglielmo aveva inutilmen-te sognato per tutta la vita. Poi Nathan, che doveva conseguire in Inghilterra un potere superiore a quello di chiunque altro. Poi Kal-mann, che avrebbe dominato la penisola italiana, e infine Jacob, che signoreggiò la Francia durante la Repubblica e l'Impero.

Dapprincipio, naturalmente, i cinque ragazzi e le loro cinque so-relle furono solo un pugno di volonterosi apprendisti ebrei, che pian piano andavano alleggerendo dei loro fardelli le spalle curve di Mayer; facevano commissioni, stavano dietro il banco, tenevano i conti.

Ma il loro carattere si rivelò presto. Erano molti diversi dal vec-chio Rothschild. Quando Mayer portava il discorso sulla storia ebrai-ca (forse uno di loro vorrebbe andare a Yeshiva?) o parlava di mo-nete antiche, i loro occhi, pur rimanendo obbedienti, diventavano vuoti. Ma al mercato si svegliavano, eccome; e alla Wechselstube sembrava che avessero addosso l'argento vivo. Erano dei calcolatori diabolici. Capaci di entrare in casa correndo, con qualcosa - spesso cotone - che avevano comprato per un boccon di pane e che riven-devano a caro prezzo, con una premura e rapidità impressionanti, di lì a qualche ora.

Il successo solleticava le loro qualità; ma per raggiungerlo ave-vano bisogno del padre, della sua mitezza. Così venne fissato un pre-cedente che avrebbe informato tutto il futuro: in casa Rothschild il talento può essere individuale, ma il lavoro per attuare le idee bril-

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lanti che uno ha avuto vien fatto in comune. Fratelli e cugini si com-pletano a vicenda, e così le generazioni.

Con tutta la loro prodigiosa energia, i cinque rampolli dell'Inse-gna Verde sarebbero forse andati incontro al fallimento, se non ci fosse stato Mayer Amschel. Mayer mitigava, addolciva; temperava quell'energia con la grazia, l'unica cosa che sarebbe sempre mancata ai fratelli; mostrava alla gente una faccia simpatica, in un tempo in cui l'arte di piacere era ancora più importante dell'abilità di nego-ziare. In altre storie di self-made meri, i figli, più raffinati, costruiscono sopra il lavoro di badile fatto dal padre; in questa, il padre rifiniva i progetti, sbozzati a colpi di mazza, dei ragazzi.

Il progetto iniziale era basato su un ragionamento complesso e ingegnoso. Primo, c'era il commercio di stoffe di cotone dei Roth-schild: stoffe pagate con denaro che andava in Inghilterra, cioè ai grossisti di cotone di Manchester. Secondo, sua serenità il principe mercante di soldati, il langravio, riceveva denaro dall'Inghilterra sotto forma di tratte. Terzo (in genere i ragionamenti dei Rothschild sono ramificati come i tentacoli dei polipi), quei grossisti di cotone si sarebbero potuti pagare direttamente con le tratte del langravio su Londra - e i Rothschild avrebbero potuto speculare così anche sulla differenza fra i tassi di sconto, se solo Guglielmo avesse nuovamente affidato a Mayer tratte per lo sconto, e in quantità un po' più rilevante. Quarto, perché Mayer non faceva subito una visitina a Guglielmo nella sua nuova corte di Cassel, con qualche storiella divertente e una collezione di belle monete antiche a prezzo così basso da permettergli poi di chiedere un favore?

"Subito" significava, in questo caso, l'anno 1787: due anni pri-ma della rivoluzione francese. Mayer riempì di tesori la sua cassetta foderata di velluto. Di lì a poco il langravio acquistava a buonissimo prezzo una ventina di pezzi rari, e insieme ad essi riceveva una pe-tizione con cui M. A. Rothschild gli ricordava il titolo di Agente di Corte concessogli tempo innanzi e qualche piccola operazione di sconto compiuta qualche anno prima.

La corte ci mise parecchio prima di soddisfare la richiesta di Mayer. Finalmente nel 1789 arrivarono alla Wechselstube tratte per un valore di 800 sterline, cui ne seguirono altre a un ritmo che di-venne ben presto intenso e costante, vantaggiosissimo.

Ma questa nuova fonte di reddito non bastava a soddisfare i cin-que dinamici e impazienti giovanotti. Che cos'era quello scontare

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tratte - che equivaleva, in sostanza, a incassare assegni - in confronto alle operazioni sui titoli in cui il langravio investiva buona parte delle sue enormi rendite? E a chi erano affidate queste operazioni? Non forse a quei grossi banchieri di Francoforte, ai Fratelli Bethmann e a Rueppell & Harnier? E non c'erano dei dissapori fra loro e la corte?

Un bel giorno i giovani Rothschild si trovarono, cappello in ma-no, davanti ai grossi banchieri. «Vi preghiamo,» dissero nel loro buffo tedesco della Judengasse « lasciate che facciamo da interme-diari fra voi, famosi finanzieri, e quel caratteraccio del principe Gu-glielmo. »

I banchieri osservarono divertiti i ragazzotti così ansiosi di la-vorare per loro. Non avevano una briciola di dignità che potesse essere offesa, e forse possedevano l'elementare vitalità che avrebbe potuto soddisfare le impaziente, i "mach'schnell" di sua altezza serenissima. I grandi banchieri accettarono l'offerta, e pagarono ai ragazzotti una piccola commissione perché facessero loro da messag-geri, e da zimbelli al principe Guglielmo.

Furono ben serviti. A Guglielmo piacque il modo in cui i ragazzi incassavano, e il suo tesoriere, Buderus, diventò segretamente socio della Wechselstube trasformatasi in vera e propria banca.

Ben presto Salomon era diventato una sorta di arredo fisso del castello di Wilhelmshòhe, un elemento costante dell'apparato finan-ziario della corte. Ben presto Amschel si occupava di alcuni prestiti del principe su ipoteca... e partecipava ai profitti. Presto Nathan, che aveva litigato con un mercante inglese di tessuti per una que-stione di prezzi, era a Manchester, e di lì a poco inviava cotone pa-gato con le lettere di cambio del langravio, attraverso la Francia rivo-luzionaria, fino al magazzino dei Rothschild, proprio mentre i prezzi cominciavano a salire alle stelle. Quasi per caso la Famiglia aveva fatto il primo passo verso la creazione di una rete internazionale.

Ben presto l'équipe dell'Insegna Verde era in marcia in tutte le direzioni. In tutte le diligenze sedeva un giovane Rothschild dalla faccia tonda, cartella sotto il braccio, occhi avidi ma impenetrabili. Dove erano passati loro, passava poi Io stesso Mayer, portando una parola gentile dove quelle dei figli erano state troppo dure, conci-liando, sorridendo con un'abilità così consumata come quella con cui i giovani avevano: discusso e argomentato.

Presto la comunità ebraica di Francoforte prese atto, stupita, del

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fenomeno avvenuto in mezzo ad essa. Per oltre vent'anni il capitale di Mayer Amschel era stato valutato, ai fini delle tasse, la cifra mo-desta di 2.000 gulden. D'improvviso, nel 1795, la cifra fu raddop-piata. L'anno successivo il suo patrimonio ufficiale toccò i 15.000 gulden, la massima categoria fiscale del ghetto.

Non fu un evento che scosse il mondo, come altri appena acca-duti o sul punto di accadere. Napoleone stava inventando la Francia imperiale; la furia del tuono corso agitava le spiagge d'Europa. Ma a Francoforte un altro potere appena nato cominciava a valicare le frontiere della nazione. Camminava in punta di piedi, invece di mar-ciare con stivali chiodati. Mayer Rothschild conduceva nel segreto più assoluto la prima operazione di credito con uno stato straniero.

I GUAI DELLA DANIMARCA

Qualcuno ha detto una volta che la fortuna dei Rothschild è stata fatta con le bancarotte delle nazioni. Naturalmente questa è solo una parte della verità, ma certo la famiglia fece il primo "colpo" inter-nazionale nel 1804, quando tutto il tesoro della Danimarca consi-steva in un deficit.

Mayer, tenuto al corrente da Buderus, lo sapeva benissimo. Sa-peva anche che il langravio Guglielmo era afflitto da una eccedenza quasi insostenibile. Sua altezza era quindi senza dubbio disposta ad aiu-tare la Danimarca, tanto più che un regno rappresenta una garanzia sicura. Ma c'era un ma: il re di Danimarca era zio del langravio e non è mai stata buona politica lasciar vedere ai parenti poveri la propria ricchezza. I prestiti in famiglia possono degenerare in doni.

L'unica cosa da fare era concedere il prestito in incognito. Non tramite i Fratelli Bethmann, naturalmente, né Rueppell & Harnier, né alcun'altra delle grandi banche comunemente identificate con sua altezza. Perché non ricorrere a una ditta oscura ma efficiente; una ditta che avrebbe fatto il lavoro in cambio di una piccola commis-sione garantendo però l'anonimo; una ditta, vediamo... come la Roth-schild, per esempio?

Mayer, parlando con Buderus, si limitò a lasciar cadere questo elaboratissimo suggerimento. Buderus, a sua volta, lo lasciò cadere nell'orecchio del principe. Il principe sorrise. Le diligenze che face-

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vano servizio tra Francoforte e Copenaghen cominciarono a riem-piersi di giovani Rothschild.

I Fratelli Bethmann e Rueppell & Harnier, i grandi banchieri di Francoforte, sulle prime non si accorsero di nulla; ma dopo un po' cominciarono a preoccuparsi. La banca Rothschild aveva sempre tanto^ da fare, quando volevano affidarle qualche lavoretto di mediazione; ed era passato parecchio tempo dall'ultima volta che il langravio aveva chiesto loro di occuparsi di crediti con l'estero.

Le domande rivolte al tesoriere di sua altezza, il molto onorevole Herr Buderus, ricevettero risposte educate e impenetrabili. Le inda-gini svolte a Copenaghen approdarono a una curiosa scoperta: tutti i prestiti danesi, spiegò il ministro delle finanze, erano stati trattati da persone che agivano per procura d'un milionario sconosciuto ma straordinariamente gentile.

« Che persone? » esclamarono i Fratelli Bethmann. « Mah, chi si ricorda? un nome che finisce in "schild". » Quella

gente andava così di furia che si faceva fatica a sentire come si chia-masse.

«...schild? » Rothschild? Rothschild! Fu un fuoco di fila di do-mande, e così furono scoperti tutti gli altarini. Quei merdaioli am-bulanti del ghetto! Osavano far le scarpe ai più potenti banchieri tedeschi, alle più antiche e solide banche di tutta la Germania!

Dalla Bethmann e dalla Rueppell & Harnier partirono alla volta del governo danese, del langravio, persino di Buderus appelli furi-bondi, frasi di fuoco dove si parlava di presunzione giudaica e di lealtà cristiana. La Francoforte patrizia insorse in armi, scaricando bordata su bordata contro gli intriganti della Judengasse: dopo tutto, la notte ce li chiudevano ancora dentro, con le catene!

La corte di Cassel lasciò dire e fare; e alla fine tutto quel coro di proteste ebbe il solo risultato di far diventare rauco chi aveva tanto gridato. Quella famiglia era diventata troppo utile a sua al-tezza; lo diceva Buderus, e il principe ci credeva. L'energia, la buffa parlata, l'ubiquità di quegli ebrei erano diventate indispensabili.

Decisiva, fra tutte, l'ultima di queste qualità. Quei sei erano dap-pertutto; un padre e cinque figli erano diventati una forza sovran-naturale che divorava distanze, cancellava precedenti, limiti e fron-tiere.

A questa forza nuova il vecchio Mayer diede forma legale nel 1800, quando fondò una società avendo per soci i due figli maggiori.

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Stabilì regole che sarebbero diventate i principi basilari d'una costi-tuzione dinastica. Tutti i posti chiave dell'azienda furono affidati ai membri della famiglia - fortunatamente numerosa - non a estranei stipendiati (ancor oggi solo i Rothschild sono soci o proprietari delle grandi banche Rothschild). Quando si sposò Schònche, la figlia mag-giore, a suo marito non venne dato un posto nell'azienda; ma quando Amschel si sposò, l'anno seguente, per sua moglie si trovò subito qualcosa da fare (e ancor oggi le femmine e la loro discendenza sono tenute rigorosamente fuori dalle società Rothschild, in cui lavorano solo i maschi e le loro famiglie). Mayer inaugurò anche un sistema di contabilità segreta in aggiunta all'ufficiale (e ancor oggi questo "segreto" è mantenuto in quanto, nonostante le proporzioni im mense del patrimonio, tutte le società Rothschild sono private e quindi non hanno l'obbligo di pubblicare bilanci né altre infor-mazioni).

Famiglia e azienda furono fuse in un'unica macchina formidabile. Il potere dei Rothschild cresceva di giorno in giorno. Abitavano an-cora nella Judengasse, ma avevano uffici e un magazzino fuori del ghetto; e nei passaggi sotterranei della casa dell'Insegna Verde l'oro saliva, e cresceva il numero e il volume dei pacchetti azionari.

Quel che più contava, la posizione dei Rothschild alla corte del langravio era solidissima. Mayer era stato nominato Oberhofagent (Agente Superiore di Corte), e i due figli maggiori potevano farsi chiamare Ufficiali Pagatori d'Assia. La loro influenza sulla corte, e sul suo reddito di un milione di talleri l'anno, continuava ad aumen-tare. Prestavano denaro al langravio, seguendo fedelmente l'esempio

ili quest'ultimo che prestava denaro ai duchi della casa reale in-glese; stavano per diventare i principali banchieri di Guglielmo, uno dei più ricchi monarchi del mondo.

Poi d'improvviso, nel 1806, quando il sogno di Mayer era sul punto di diventare realtà, Napoleone parve spazzarlo via, come stava spazzando via tutto ciò che incontrava sulla sua strada. Guglielmo, da quel prudente miliardario che era, cercò di tenere il piede in due scarpe, barcamenandosi fra Napoleone da una parte e l'alleanza austro-britannica dall'altra. Ma per l'imperatore dei francesi chi non era con lui era contro di lui, e la Grande Armée, quando invase la Prussia nell'ottobre del 1806, non si fermò alle frontiere di Assia.

Parve la rovina. Francoforte fu occupata, le linee del commercio internazionale interrotte; Nathan, sentinella avanzata dei Rothschild

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'.'. I lavolosi Rothschild

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all'estero, sembrava ridotto all'impotenza in Inghilterra, e nelle ore piccole del mattino del 1° novembre il principe Guglielmo montò ansimando in carrozza e ordinò di puntare a tutta velocità verso nord, in direzione dello Schleswig.

Il giorno successivo truppe francesi invasero Wilhelmshòhe. « Mio proposito, » annunciava l'ordine di Napoleone « è distruggere la casa di Assia-Cassel in quanto potere regnante, di cancellarla dal no-vero delle potenze. »

L'uomo più potente d'Europa ordinava così lo smantellamento della roccia su cui i Rothschild avevano fondato la loro nuova azien-da. Eppure, fatto curioso, l'attività continuò intensa come sempre alla casa dell'Insegna Verde. Ai polveroni immensi che le armate del grande imperatore sollevavano in tutt'Europa si aggiunsero nubi più piccole, ma foriere di conquiste non meno prodigiose: erano quelle che turbinavano nel vento dietro le ruote delle carrozze con cui i gio-vani Rothschild con le loro facce tonde, gli occhi avidi ma impene-trabili, le cartelle serrate sotto il braccio, continuavano il cammino.

Non vedevano né pace né guerra, né parole d'ordine, né mani-festi, né ordini del giorno, né morte, né gloria. Non vedevano nes-suna delle cose che avevano accecato il mondo. Vedevano solo dei trampolini di lancio: il principe Guglielmo era stato il primo, Na-poleone sarebbe stato il secondo.

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Rothschild contro Napoleone

l'RIMO ROUND: CONTRABBANDO

Il mattino del 1° novembre 1806, nell'oscurità che precede l'alba, un pallido bagliore di lanterne cieche andò a destare le ombre nella cantina segreta della casa dell'Insegna Verde. Mayer Rothschild vi era sceso a seppellire, quanto più rapidamente poteva, una carret-tata di documenti: i verbali del consiglio privato del principe Gu-glielmo. Non erano le sole cose su cui Guglielmo voleva che i sol-dati di Napoleone mettessero le mani: in quello stesso momento alcuni servitori fidati nascondevano un patrimonio di gioielli sotto le scale dei vari castelli del principe.

Diversamente dalle carte affidate a Mayer, i gioielli furono tro-vati. Allora Cari Buderus, rappresentante segreto del principe in Assia occupata, ordinò la carrozza e andò a prendere il tè dal gover-natore generale, il francese La Grange. In seguito a quell'incontro, circa un milione di franchi caddero nelle mani del La Grange. Que-sta brillante interpretazione della legge di gravità ebbe brillanti risul-tati. La maggior parte degli scintillanti tesori del principe potè esser tratta dai nascondigli, fatta uscire dalla portata dei moschetti francesi e tornare nelle mani del legittimo proprietario.

I gioielli erano però solo una frazione minima delle ricchezze di Guglielmo. Quel pescecane dal sangue blu aveva enormi crediti che stavano maturando in suo favore in tutto il continente. Inoltre c'erano gli investimenti in Gran Bretagna che gli fruttavano dividendi di circa 2.000 sterline (18.000 dollari) al mese1. E lui, poveretto, do-veva starsene in Danimarca, in esilio, senza potersi occupare del-l'amministrazione dei suoi beni. Per fortuna c'era Buderus; e per curare buona parte degli enormi e complicati interessi del principe, Buderus scelse Mayer Rothschild.

1 Questa traduzione in dollari correnti - come tutte le altre nel li-bro - è, per forza di cose, solo approssimativa; nella maggior parte dei casi è impossibile stabilire equivalenti esatti.

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Naturalmente, dal punto di vista degli affari Buderus era diven-tato quasi un Rothschild. Un contratto segreto firmato nel 1809 venne a confermare il vecchio accordo verbale che assicurava al te-soriere del principe una certa percentuale sui guadagni dell'azienda. Ma questo bastava a giustificare l'iniziativa di investire un mercante del ghetto di tali responsabilità? Buderus non correva un rischio troppo grande, non si fidava troppo della fortuna? Chi erano, dopo-tutto, questi Rothschild? Gente venuta su dal niente, che non poteva vantare una nobile discendenza né dei grandi finanzieri come ante-nati; ebrei, e come tali senza diritti civili; per di più privi d'ogni protezione, ora che sua serenità era stata costretta a rifugiarsi oltre frontiera. Non parevano diversi dalla massa di naufraghi che si agi-tava disperatamente nel tentativo di non lasciarsi sommergere dalla grande ondata delle conquiste napoleoniche.

Invece erano diversi, e Buderus lo sapeva. Possedevano le qua-lità che il momento richiedeva. Li spingeva un'energia eroica; ma siccome ad essa non si accompagnava un'altrettanto eroica imma-ginazione, non si sarebbero mai lasciati trascinare troppo lontano. Questo procurò loro una cosa a quel tempo più rara del trionfo: la possibilità di sopravvivere.

In quel primo, tumultuoso decennio del diciannovesimo secolo milioni di uomini furono disfatti dagli eventi storici che pochi co-lossi dirigevano. Per le vittime era il disastro; e quelli invece che del disastro erano responsabili camminavano sulle rovine pavoneggian-dosi in uniformi regali. Rothschild & Figli continuarono a far conti, a manipolare registri, silenziosamente, instancabilmente, in mezzo al caos e alle rovine. Le loro limitazioni erano così miracolosamente ap-propriate come le qualità positive, in una combinazione inimitabile di equilibrio borghese e di demoniaca energia.

Il ministero francese delle finanze non era in grado di tener testa alla Famiglia. Dichiarato da Napoleone successore legale del Tesoro di Guglielmo, esso setacciò tutti i principi e i potentati che dovevano del denaro a sua serenità; ricorse a tutti gli espedienti, dalle minacce alle offerte di più facili condizioni di pagamento e persino di scontare parte dei debiti, nel tentativo di far affluire il denaro nelle casse dell'imperatore. Le sue fatiche furono vane: le carrozze dei figli di Mayer volavano sulle strade d'Europa, e i dinamici giovanotti raccoglievano i crediti al volo. Negli anni passati al ser-vizio di sua altezza avevano fatto delle conoscenze, avevano acqui-

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stato sapere, capacità di persuasione, abilità di imporsi: tutto in grado irresistibile.

Era impossibile fermarli, impossibile mettergli le mani addosso. A Francoforte, è vero, c'era il padre, un bersaglio fermo. Ma quando la polizia francese fece irruzione nella casa dell'Insegna Verde vi trovò solo una vecchia coppia di ebrei, logorata dalle preoccupazioni, che cercava di mandare avanti un negozio; quasi tutti i figli erano via da casa, sparsi per il mondo, dalla guerra brutale. I libri contabili parevano in ordine. Attività pro-Guglielmo o anti-Napoleone? Nes-suna traccia.

Non appena il suono dei passi dei soldati si fu perso lungo la strada, il vecchio Mayer ridiscese nella cantina del cortile interno e si rimise a lavorare ai libri veri e alla vera corrispondenza.

Di lì a qualche tempo questa corrispondenza cominciò ad essere trasportata nella carrozza privata dei Rothschild. La carrozza aveva un doppio fondo, e le lettere erano scritte in un linguaggio segreto, un miscuglio di ebraico, yiddish e tedesco, con un codice segreto di pseudonimi. Gli investimenti in Gran Bretagna erano chiamati "stoc-cafisso"; il vecchio Rothschild era "Arnoldi", come l'eroe di qual-che romanzo dell'Ottocento italiano; sua altezza serenissima il prin-cipe Guglielmo fu ebraicizzato in un certo "Herr Goldstein".

Aver cura di Herr Goldstein, nutrirlo e mantenerlo diventò com-pito particolare di Mayer. E non era un compito facile, perché Herr Goldstein, furibondo, non si stancava di rinfacciargli che i suoi figli stavano mettendo insieme delle fortune con i soldi d'Assia, mentre a lui giungevano solo le briciole, e nessun preciso rendiconto.

Il vecchio Mayer, un genio in queste cose, spiegava, calmava, blan-diva. Buderus lo aiutava come meglio poteva, ma qualche volta papà Rothschild doveva adattarsi a svolgere di persona la sua funzione di pacificatore e intraprendere un viaggio di sette giorni, su strade pes-sime, per raggiungere Guglielmo nel suo esilio presso la frontiera danese. I francesi, diceva, tenevano d'occhio lui e i ragazzi, tanto da vicino che pareva di sentirsene il fiato sul collo; quante volte gli avevano perquisito la casa, lo avevano interrogato, messo alle strette, multato; e come diventava di giorno in giorno più difficile cercare di farla in barba a Napoleone! C'era da stupirsi, allora, se era diven-tato impossibile far giungere rapidamente a sua altezza le somme raccolte e i conti? Se sarebbe equivalso al suicidio, per lui e per i suoi ragazzi? Sua altezza serenissima si compiacesse di pazientare. Sicu-

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ramente sua altezza avrebbe ricevuto col tempo il suo denaro. Mayer aveva ragione: il principe ricevette il suo denaro fino al-

l'ultimo centesimo... col tempo. Frattanto... Frattanto accadde che, a Londra, Nathan si trovasse in possesso

di capitali molto ragguardevoli; e accadde che con questi comprasse non solo stoffe, come aveva fatto sin allora, ma generi alimentari, coloniali e tutte le merci di vario genere che Napoleone, nel porre il blocco, aveva voluto impedire giungessero in Europa; per farla breve merci di contrabbando.

Poi accadde che le balle e le casse di Nathan scomparissero, per ricomparire di lì a qualche tempo sulle banchine di Amburgo. Am-schel e Salomon, guarda caso, bighellonavano da quelle parti. E poi in Scandinavia, nei Paesi Bassi, nella Francia stessa, scaffali vuoti si riempirono come per miracolo di merci fresche: cotone, canapa, ta-bacco, caffè, zucchero, indaco, finalmente di nuovo a disposizione, a prezzi da mercato nero eppure lietamente accettati. Che importava se qualcuno, al mercato nero, ci si faceva una fortuna?

In realtà, a qualcuno importava: alla polizia di Napoleone. Dopo un po', la polizia cominciò ad essere ossessionata dall'idea che ci fosse un rapporto fra cose apparentemente così disparate come il con-trabbando, i crediti del principe Guglielmo e il vecchio Mayer della Judengasse.

Il 30 ottobre 1810 due reggimenti della fanteria francese setaccia-rono i magazzini di Francoforte, specialmente quello della casa del-l'Insegna Verde. Non ci trovarono nulla, per un motivo più chiaro del solito: i Rothschild avevano veramente le mani pulite. Verso la fine del 1810 avevano ormai cavato dal contrabbando quasi tutto quello che c'era da cavarne.

Il 27 settembre di quell'anno una lettera a stampa era stata in-viata a tutti gli amici della casa. Mayer (annunciava la lettera) cam-biava il nome dell'azienda, che d'ora in poi si sarebbe chiamata "Mayer Amschel Rothschild und Sohne". Le azioni della ditta erano adesso suddivise fra lui, Amschel, Salomon, Kalmann e Jacob, che pure aveva solo diciassette anni. Di Nathan non si faceva parola, e il nuovo atto costitutivo non gli assegnava neppure una azione. Tut-tavia, come sempre, la persona ufficialmente omessa era in realtà la più importante. Nathan, che viveva in Inghilterra e quindi in paese nemico, svolgeva un lavoro più preciso che mai. Era stato lui a or-

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ganizzare il contrabbando; e fu lui a organizzare il prossimo "colpo", in confronto al quale il contrabbando sarebbe parso una miseria, un perditempo sorpassato. Era stato solo un inizio.

SECONDO ROUND: UN'IDEA DA UN MILIONE DI STERLINE

Nel 1804 Nathan Mayer si era trasferito da Manchester, centro tessile, a Londra, fulcro del mondo. Qui il mercante di cotone s'era trasformato in banchiere-mercante; una designazione sotto la quale N. M. Rothschild & Sons sono registrati ancor oggi nella guida tele-fonica di Londra.

Tutti i primi banchieri-mercanti inglesi cominciarono come mer-canti con merci e crediti in tutte le parti del mondo, poi unirono alla prima attività quella bancaria, e divennero come i primi grandi della finanza internazionale dei tempi moderni. Fra questi condottieri, Nathan viene al primo posto. Grazie a lui i Rothschild smisero di comprare e vendere merci, anche redditizie come quelle di contrab-bando; grazie a lui passarono al commercio di quello che è il primo ed ultimo di tutti i beni di mercato, lo strumento base dell'attività economica. Dal 1810 sino a questo momento la Famiglia ha comprato e venduto solo valuta.

Nathan vide subito le occasioni nuove create da Bonaparte, quel turbolento ma utilissimo strumento di mercato, e in una lettera se-greta mise al corrente della sua idea i soci dell'Insegna Verde. Na-poleone aveva ormai ingoiato quasi tutti i paesi in cui un tempo il principe Guglielmo mandava al pascolo i suoi milioni oziosi: giu-sto? Rimaneva un solo paese a cui prestare soldi, l'Inghilterra : giusto? L'Inghilterra, quella roccia che ben difficilmente Napoleone sarebbe riuscito a scalzare, l'Inghilterra con i suoi consolidati (i titoli di stato inglesi), incrollabili come Gibilterra in mezzo a tutti i labili titoli di stato europei. In passato, sua altezza vi aveva investito dei denari : giusto? Non era il momento che ve li investisse ancora, che ve li investisse tutti, e valendosi dei buoni uffici di Nathan, quell'uomo ricco di amicizie, pieno di buona volontà e di energia?

Mayer e Buderus riferirono umilmente il suggerimento a sua altezza. Il principe provava una certa riluttanza a dire di sì. C'erano state tutte quelle seccature per la riscossione dei crediti. D'altra

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parte era vero che le somme riscosse affluivano gradualmente nelle sue casse, facendo aumentare un patrimonio già enorme.

Quegli innumerevoli talleri non ne potevano più di rimanere in ozio. Papà Mayer lusingava e blandiva, sotto la sua bella parrucca nuova e il cappello a tre punte. Il vecchio non aveva perso il suo buffo accento ebraico, e non aveva smesso di frequentare la sinagoga; ma il commerciante indaffarato aveva lasciato il posto a un perfetto cortigiano. Adesso, oltre a vendere antiche monete al langravio, gliene comprava per la propria collezione privata, metteva la sua carrozza (con i compartimenti segreti) a disposizione del principe e della sua corrispondenza, contribuiva a organizzare gli esilii del principe, nello Schleswig, in Danimarca, in Boemia.

Se sua altezza si fidava di lui fino a questo punto, perché non affidare a suo figlio Nathan l'incarico di acquistare consolidati? Tanto più che il caro ragazzo era pronto a rinunciare a ogni commissione, e chiedeva solo il modestissimo compenso di un ottavo per cento?

Finalmente Guglielmo diede il suo assenso. Tra il febbraio del 1809 e il dicembre del 1810 Nathan ricevette una somma di 550.000 sterline da investire nell'acquisto di consolidati per il principe. Era, ed è, una somma da levare il fiato, l'equivalente di circa cinque mi-lioni di dollari attuali, una somma da far impallidire tutti i prestiti e dividendi del langravio passati fino a quel giorno per le mani dei Rothschild.

Al momento in cui Nathan toccò quella somma, ogni farthing diventò uno scellino, ogni scellino una ghinea. Il caro ragazzo agì con tanto tempismo, efficacia, rapidità, e nello stesso tempo con tanta discrezione, che nessun documento è giunto fino a noi a dirci con precisione che cosa sia accaduto. Sappiamo però che l'accordo con Guglielmo affidava a Nathan il compito di comprare consolidati al prezzo medio di 72 sterline. Nathan non comprò a 72: investì il denaro per conto proprio, ne trasse un rapido guadagno, e tornò a guadagnare quando comprò i consolidati del principe che nel frat-tempo - come aveva previsto - erano scesi a quota 62; i quattrini risparmiati, naturalmente, finirono nelle sue tasche.

Contemporaneamente, egli mise alla prova la sua infallibilità in un'altra speculazione: con audacia, precisione, velocità stupefacenti speculò sull'aumento di prezzo dell'oro in lingotti. Ogni giorno Na-than faceva la sua comparsa in Borsa con decine di migliaia di sterline del principe e giocava senza mai perdere un colpo, facen-

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do ogni mossa al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi. Dopo qualche tempo, naturalmente, Guglielmo cominciò a dar

segni di nervosismo. Da Londra gli arrivavano così poche notizie, e neppure un certificato. Intervenne Mayer, illustrando al principe tutte le difficoltà di comunicazione con cui Bonaparte ostacolava i rap-porti fra la Londra del caro ragazzo e la Praga di sua serenità. Gu-glielmo si calmò, acconsentì addirittura a investire altre grosse somme.

Poi, nel 1811, il giovane Kalmann Rothschild raggiunse clandesti-namente l'Inghilterra e ne tornò portando al principe i primi certifi-cati per 189.500 sterline. Guglielmo si tranquillizzò; ma era stanco di patemi d'animo. « Ne ho fin sopra i capelli dei miei investimenti » scrisse a Buderus. « Dico la verità che preferisco lasciare in ozio i miei capitali. »

Nel 1811, i Rothschild potevano ormai accettare quella decisione a cuor leggero. Un'altra, un'ultima pietra miliare era stata superata.

Nathan, specialista in superamenti di pietre miliari, era stato il primo a oltrepassarla. Era giunto a Londra sette anni innanzi: uno straniero che parlava un inglese approssimativo. Adesso, a trentaquat-tr'anni appena compiuti, godeva di una reputazione immensa. Tutti gli acquisti che aveva fatto in nome del langravio erano stati regi-strati sotto il nome Rothschild, e pochi sospettavano che il denaro che gli fluiva a torrenti per le mani non era tutto suo. Del resto la sua ricchezza era cresciuta allo stesso ritmo esplosivo del suo credito, e aveva raggiunto proporzioni tali che persino Guglielmo, il più ricco principe del continente, non bastava più come principale clien-te dei Rothschild. Era stato solo un principio; ora bisognava trovare qualcuno più grosso di lui.

TERZO ROUND: IL CONTRABBANDO DELL'ORO

«La Compagnia delle Indie Orientali,» avrebbe ricordato Na-than a una cena, verso la fine della sua vita, « la Compagnia delle Indie Orientali aveva da vendere oro per un valore di 800.000 ster-line. Andai alla vendita e lo comprai tutto. [Quasi otto milioni di dollari!} Sapevo che il duca di Wellington ne aveva bisogno. II go-verno mi mandò a dire che dovevo darlo a loro. Glielo vendetti, ma loro non sapevano come farlo avere al duca in Portogallo. Me ne in-

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caricai io, e feci passare l'oro attraverso la Francia. Fu il miglior lavoro che abbia mai fatto in vita mia. »

In questo breve e sbrigativo resoconto Nathan compendiava quel-la che era stata un'operazione incredibilmente complessa e condotta con inverosimile astuzia. Alla base, sta il fatto che una volta di più Napoleone aveva involontariamente reso alla Famiglia uno squisito servigio.

Nel 1807 aveva creato un'ideale carenza di beni di consumo; nel 1810, il tipo perfetto di situazione in cui scarseggiavano le possibi-lità di investimento. Adesso il modo in cui era tracciata la linea del fronte delle sue armate fece di lui un benefattore della famiglia. I marescialli dell'imperatore stavano combattendo Wellington dietro i Pirenei, lontano dalle linee dei rifornimenti inglesi. Per dar da mangiare ai suoi soldati, il duca doveva emettere tratte sul tesoro inglese. Una folla di finanzieri siciliani e maltesi le scontavano a tassi vergognosi e le facevano giungere laboriosamente a Londra per il rimborso. I Rothschild avevano partecipato sporadicamente al traf-fico, ma sino al 1811 questa era stata solo un'attività secondaria.

Nel 1811, oro per 800.000 sterline aspettava Nathan in un sot-terraneo; quello che ventine di banchieri avevano fatto con "pa-gherò" e tratte contrabbandate a Londra, lui e i suoi fratelli decisero di farlo, da soli, con solido oro contrabbandato in Spagna. In base a un vantaggioso contratto con il governo di sua maestà britannica Na-than diventò il principale commissionario e ufficiale pagatore generale del più importante esercito d'Inghilterra.

C'era un solo modo per far giungere il denaro in Portogallo : farlo passare per quella stessa Francia contro la quale l'esercito inglese stava combattendo. Naturalmente, la macchina creata dai Rothschild per violare il blocco aveva già ingranaggi funzionanti in tutta la Germania, in Scandinavia, in Inghilterra, e persino in Spagna e nella Francia meridionale. Ora occorreva un'altra ruota, proprio nella capi-tale di Napoleone.

A questo punto entra in scena Jacob - che d'ora in poi si sarebbe fatto chiamare James - il più giovane tra i figli di Mayer. Il 24 marzo 1811 egli notificò alla polizia francese il suo arrivo a Parigi e il suo domicilio, al numero 5 di rue Napoléon. Fu senza dubbio aiutato dal granduca von Dalberg, un alto dignitario di Napoleone che aveva appena ottenuto dal vecchio Mayer un prestito a condizioni molto vantaggiose; e probabilmente James conosceva un poco Parigi per

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averla visitata altre volte. Ma aveva solo diciannove anni, aveva pas-sato nel ghetto la maggior parte della sua esistenza, parlava solo tede-sco e inglese. E tuttavia si mosse sul terreno scivoloso e pieno di trappole dell'alta finanza francese con una sicurezza, una velocità fol-gorante, un virtuosismo che non avevano nulla da invidiare a quelli che caratterizzavano le imprese di Nathan.

A due giorni dalla data ufficiale dell'arrivo, il minore tra i figli di Mayer era già l'eroe di un rapporto del ministro francese delle finanze a Napoleone. «Un cittadino di Francoforte di nome Roth-schild » scriveva il ministro « soggiorna in questo momento a Parigi e si occupa principalmente del trasporto di contante inglese dalla co-sta britannica a Dunkerque. È in contatto con banchieri parigini del più alto livello. Dichiara di aver appena ricevuto da Londra lettere... secondo le quali gli inglesi si proporrebbero di troncare questa espor-tazione di oro... »

In realtà, al ministro erano state fatte giungere alcune "voci" che rivelavano l'esistenza d'un traffico d'oro, ma lo lasciavano all'oscuro della destinazione di esso. Egli aveva bevuto la storia delle "lettere" di James e altre prove fatte su misura che dimostravano esattamente l'opposto della verità, e cioè che la Gran Bretagna temeva di essere indebolita dall'esportazione di denaro.

James aveva fatto bene i suoi calcoli. Quello che il nemico bri-tannico sembrava temere, Monsieur le Ministre automaticamente lo desiderava. Nello spazio di poche centinaia di ore l'ultimo dei cinque fratelli aveva non solo ottenuto che l'oro inglese fluisse attraverso la Francia, ma anche evocato un miraggio da cui Napoleone stesso s'era lasciato stregare. Un Rothschild di non ancora vent'anni aveva con-vinto il governo imperiale a sanzionare il processo che avrebbe con-tribuito alla sconfitta del regime. Ciò che era accaduto ai Fratelli Bethmann sarebbe accaduto ora ad un impero.

La macchina familiare si mise in moto. Nathan inviava attraverso la Manica navi cariche di ghinee inglesi, di once d'oro portoghesi, di napoléons d'or francesi appena battuti a Londra. Dalla costa James li scortava a Parigi e segretamente cambiava il metallo con lettere di cambio su certi banchieri spagnoli. A sud della capitale faceva la sua comparsa Kalmann, che prendeva le lettere di cambio e scompariva nelle gole più nascoste dei Pirenei per ricomparire di li a poco con in mano le ricevute del duca di Wellington. Salomon era dappertutto, ad appianare le difficoltà, a sorvegliare che i punti di transito fossero

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svariati e segreti quanto occorreva per non turbare la serenità con cui i francesi continuavano a vivere nell'inganno e per non far calare il valore della ghinea. Amschel a Francoforte aiutava papà a far fun-zionare il quartier generale.

I francesi ebbero qualche sentore della verità. Qualche volta quelli che avevano concepito dei sospetti poterono essere indotti, con molto loro profitto, a dimenticarli. Il capo della polizia di Calais, per esem-pio, si ritrovò da un giorno all'altro in grado di vivere in un lusso che tanto lo distraeva dai suoi doveri, da non lasciargli il tempo di far pattugliare da cima a fondo la linea di costa. D'altra parte il que-store di polizia di Parigi suggerì più d'una volta che il giovane James fosse arrestato, ma la protezione del ministro delle finanze si rivelò troppo potente per consentirgli di agire.

Mentre Napoleone logorava le sue forze in Russia, attraverso la Francia continuava a scorrere una vena d'oro da cui traeva vigore l'esercito che stava forzando la porta posteriore dell'impero.

Ben presto i Rothschild diventarono la linea di comunicazione vitale non solo fra l'Inghilterra e Wellington ma anche fra l'Inghil-terra e i suoi alleati. Negli ultimi anni delle guerre napoleoniche la Gran Bretagna stanziò enormi sussidi per l'Austria, la Prussia e la Russia. Ma non aveva mezzi convenienti per effettuare il versamento : l'invio di oro in lingotti comportava un rischio troppo alto, mentre l'emissione di grosse tratte singole sul tesoro inglese avrebbe rovinato il cambio della sterlina. John Herries, il funzionario dello Scacchiere incaricato dei finanziamenti all'estero, trovò un'unica soluzione sicu-ra: incaricare della faccenda Nathan.

Nathan e i suoi fratelli svolsero il compito loro affidato operando simultaneamente dalle loro varie basi di smistamento. Da soli, Mayer e i cinque figlioli crearono la prima grande stanza di compensazione del mondo. Fecero giungere a destinazione la maggior parte dei quin-dici milioni di sterline che la Gran Bretagna anticipava ai paesi amici; e queste transazioni in grande stile furono eseguite così silenziosamen-te, con mano così leggera, che il cambio della sterlina non subì un ribasso neanche minimo. Ancor oggi, le commissioni dei Rothschild sono sconosciute e incalcolabili.

Ma anche tutto questo era solo un principio.

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QUARTO ROUND: WATERLOO

La battaglia di Waterloo fece dell'Inghilterra la massima potenza europea. Per i Rothschild, principali agenti finanziari della Gran Bre-tagna, Waterloo significò un "colpo" di molti milioni di dollari. La storia di quell'impresa si è arricchita, nel corso degli anni, di elementi pittoreschi come piccioni viaggiatori e altri accessori leggendari; ma alla sua radice, come di quasi tutte le imprese della famiglia, stanno un lavoro molto duro e un'astuzia molto fredda.

Il lavoro era cominciato parecchio tempo prima. Non appena la-sciata Francoforte, i fratelli avevano cominciato a inviarsi l'un l'altro, industriosamente, instancabilmente, notizie di interesse commerciale o generale. In breve tempo avevano creato un servizio privato d'infor-mazioni (che presso la Casa londinese sopravvisse sino alla seconda guerra mondiale, sotto forma d'una dozzina di corrieri in divisa azzur-ra pronti a prendere il volo, nel giro d'un minuto, per Rio, Melbourne e Nairobi).

Le carrozze dei Rothschild sfrecciavano lungo le strade maestre; le imbarcazioni dei Rothschild veleggiavano attraverso la Manica; i mes-saggeri dei Rothschild guizzavano come ombre silenziose lungo le stra-de. Portavano contanti, titoli, lettere e notizie. Soprattutto notizie: notizie recentissime, in esclusiva, da cui trarre partito sul mercato e in Borsa.

E non ci fu notizia più preziosa di quella dell'esito della battaglia di Waterloo. Da giorni la Borsa di Londra stava con le orecchie tese. Se Napoleone vinceva, il prezzo dei consolidati inglesi sarebbe caduto; se perdeva, l'impero nemico sarebbe crollato, il prezzo dei consolidati salito alle stelle.

Per trenta ore le sorti dell'Europa rimasero in sospeso. Il 19 giu-gno 1815, nel tardo pomeriggio, un agente dei Rothschild di nome Rothworth saltò su un'imbarcazione a Ostenda; teneva in mano una gazzetta olandese ancora umida d'inchiostro. Il 20 giugno, alle prime luci dell'alba, Nathan Rothschild, in piedi sulla banchina del porto di Folkestone, scorreva con l'occhio i titoli del giornale. Un momento dopo viaggiava verso Londra (precedendo di parecchie ore i messag-geri di Wellington) per recare al governo la notizia che Napoleone era stato sconfitto. Poi si avviava alla Borsa.

Al posto suo, un altro avrebbe investito la sua fortuna in consoli-dati. Ma lui non era un altro, era Nathan Rothschild. Si appoggiò alla

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"sua" colonna. Non comprò; vendette. Vendette i consolidati sottocosto. Il suo nome godeva già di un'autorità tale che un solo gesto da par-

te sua bastava a far cadere o salire il prezzo di un titolo. Quello dei consolidati cadde. Nathan, fermo accanto alla sua colonna, continuò a vendere, e i consolidati a calare. « Rothschild la sa lunga » si sussurra-va alla Borsa. « Abbiamo perso. »

E Nathan continuava a vendere, con un'espressione severa sulla faccia tonda in cui non si moveva un muscolo, con le dita tozze che deprimevano il mercato di decine di migliaia di sterline ogni volta che facevano un gesto. I consolidati precipitavano sempre più vertiginosa-mente; finché, una frazione di secondo prima che fosse troppo tardi, Nathan d'improvviso ne comprò un pacchetto enorme per un boccon di pane. Qualche minuto dopo esplose la grande notizia, che mandò i consolidati alle stelle.

Non possiamo neppure tentar d'indovinare quante speranze, quanti risparmi furono distrutti e spazzati via da quel panico provocato ad arte. Né possiamo stabilire quanti servi in livrea, quanti Watteau e Rembrandt, quanti purosangue, l'uomo appoggiato alla colonna gua-dagnò quel giorno.

QUINTO ROUND: CONQUISTARE I CONQUISTATORI

Alla battaglia di Waterloo, in cui erano culminati tanti anni di lot-ta, seguì la pace; e con la pace, una triste sorpresa. Durante la guerra i Rothschild erano stati irresistibili; ora, d'improvviso, la vita gli diven-tò difficile, forse perché era scomparso qualcuno di indispensabile.

Il 16 settembre del 1812, Giorno dell'Espiazione, il vecchio Mayer pregò e digiunò fino a sera nella sinagoga di Francoforte. Il mattino seguente gli si riaprì la ferita di una vecchia operazione, ed egli ebbe appena il tempo di dettare un nuovo testamento con il quale lasciava l'azienda ai soli figli maschi.

... le mie figlie, i generi e i loro eredi non avranno parte alcuna nell'at-tuale società M. A. Rothschild und Sohne... né il diritto di esaminarne i libri, documenti, inventari ecc. ...Non perdonerei mai questi miei discendenti se dovessero, contro la mia paterna volontà, disturbare i miei figli nel pacifico possesso dell'azienda.

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Ogni violatore dell'armonia familiare non avrebbe ricevuto più della porzione minima legale di un patrimonio stimato un valore di gran lunga al di sotto di quello effettivo.

Dettate, firmate, fatte legalizzare da un notaio le sue ultime dispo-sizioni, alle 8.15 del 19 settembre 1812 l'ultimo vero patriarca biblico del nostro tempo spirò nelle braccia di sua moglie.

Quel che non aveva potuto trasmettere in retaggio ai figli era la sua personalità. Questi non sapevano sottomettersi con dignità, non posse-devano la grazia naturale, il savoir vivre con cui sedurre un principe, civettare in un salotto. La loro fortuna era il prodotto di un'energia ele-mentare, di un'abilità affaristica una delle cui componenti consisteva in un eccezionale tempismo. Queste qualità erano state preziose finché il mondo aveva dovuto lottare con le necessità della guerra; ma adesso valori più antichi riprendevano il sopravvento. Al Congresso di Vien-na non si faceva del contrabbando : si danzava. I Rothschild erano pes-simi ballerini; ergo, non potevano andar bene come banchieri.

Le attività economiche dell'Europa post-napoleonica furono in buona parte incentrate sugli sforzi dei vari paesi di sfruttare le risorse finanziarie interne; cioè, di lanciare prestiti nazionali. I Rothschild, nonostante l'immensità del patrimonio che avevano messo insieme, si trovarono ridotti all'inattività.

Solo la piccola Prussia permise loro di emettere un prestito. L'Au-stria, ch'era la torta grossa, preferì una più nobile compagnia. Alla sua antica corte dettavano legge il passato e le formalità. Nel 1800 c'erano stati dei dissapori con quegli invadenti cambiavalute di Francoforte, che avevano firmato una lettera "k k Hofagenten" (Imperiali Reali Agenti di Corte) mentre avevano diritto a un solo "k" (Imperiali). Nel 1816 i fratelli erano multimilionari, ma furono necessarie le più energiche pressioni di John Herries, loro sostenitore presso il tesoro inglese, per convincere Vienna ad accettare un sussidio inglese che do-veva giungere tramite gli usurpatori di un "k" in più del dovuto.

Nei loro disperati tentativi di fare buona impressione, i fratelli cercarono di procurarsi le cose che avrebbero potuto rendere più bril-lante la loro posizione sociale. Rinunciando a commissioni e interessi fecero risparmiare al tesoro austriaco parecchi milioni. Di conseguenza, nel 1817 Vienna si degnò di conceder loro un modesto "von" come si getta un osso a un cane.

I Rothschild non erano tipi da accontentarsi di una distinzione che

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non aveva nulla di eccezionale neppure per un ebreo. Nathan chiese il titolo onorario di console austriaco a Londra: gli risposero in modo evasivo. Insieme, i cinque fratelli elaborarono proposte di vasta portata e molto vantaggiose: non ricevettero risposta.

In Francia la situazione appariva anche peggiore. Là, Luigi XVIII aveva letteralmente preso a prestito da Nathan e James Rothschild gli splendori della Restaurazione; loro gli avevano anticipato tratte inglesi per finanziare la sua magnifica entrata in Parigi. Ma questo era accadu-to nel 1814, quando il ricordo delle cannonate era ancor fresco, i loro segni ancora visibili. Adesso, a tre anni di distanza, i vecchi banchieri erano tornati e dai loro salotti facevano il bello e il cattivo tempo. In confronto alla raffinatezza dei loro modi, ogni gesto dei Rothschild appariva irreparabilmente grossolano.

Il nuovo governo francese si preparò a emettere un grande prestito di 350 milioni di franchi e affidò l'operazione a Ouvrard, un finanziere francese di gran nome, e ai Fratelli Baring, banchieri inglesi à la mode. Per costoro, i fratelli Rothschild erano dei "semplici cambiavalute". Il prestito, senza i Rothschild, fu un grande successo.

Nel 1818 iniziarono i negoziati relativi a un'altra emissione di ti-toli per circa 270 milioni di franchi. Anche questa volta Ouvrard e i Baring erano in testa alla gara; anche questa volta i Rothschild si tro-varono ridotti alla condizione di sfortunati postulanti presso il ministe-ro delle finanze. Il prestito era tuttavia destinato alla liquidazione dei debiti di guerra francesi; la decisione ultima sarebbe stata presa a una conferenza con le potenze vincitrici, ad Aquisgrana.

Nella storia della Famiglia, il dimenticato Congresso di Aquisgrana segna una svolta assai più importante del pur famoso "colpo" di Wa-terloo. Questa città vide per la prima volta a confronto il gran mondo e i Rothschild divenuti "grandi" cosi di recente. Cominciò con una se-rie di banchetti e soirées tipo Congresso di Vienna, con i Rothschild intimiditi e affascinati come bambini poveri davanti a una vetrina di Natale. Culminò in un sensazionale colpo di scena che gettò la confu-sione fra i partecipanti; e quando la confusione si placò, i fratelli ave-vano avuto quello che volevano.

Nelle prime settimane nessuno avrebbe potuto prevedere che sareb-be finita così; forse neppure Salomon e Kalmann, che partecipavano al congresso come rappresentanti della famiglia. Tanto per cominciare, l'Inghilterra aveva mandato lord Castlereagh invece del loro vecchio amico John Herries. Salomon e Kalmann dovettero sentirsi come pe-

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sci fuor d'acqua, in quel mondo raffinato dove tutto obbediva a un antico protocollo. Il loro habitat naturale era la Borsa, non la sala da ballo.

Eppure i sarti di maggior grido avevano tagliato loro abiti delle stoffe più fini e costose; le loro carrozze splendevano; i loro cavalli lustravano. Perché fargli una colpa se avevano una grammatica un po' primitiva? Per di più Kalmann aveva appena sposato Adelheid Herz, della famiglia ebraica più soignée di tutta la Germania : una sposa de-stinata ad aumentare il bori fon della famiglia.

Ma tutto questo non serviva a nulla. Tutte le volte che i fratelli chiedevano di vedere il principe Metternich, il principe non c'era per-ché il duca di Richelieu era appena venuto a prenderlo. Lord e lady Castlereagh non si trovavano mai, perché passavano il tempo facendo gite in carrozza con il principe Hardenberg. I Rothschild erano esclusi da tutte queste illustri compagnie; Baring e Ouvrard, i loro rivali, ve-nivano invitati dappertutto.

Erano reperibili solo i segretari, e i segretari sorridevano freddi. Sì, le trattative con Ouvrard e Baring stavano per giungere in porto. Perché cambiare compagni a metà del valzer? Forse che Baring e Ou-vrard non avevano dato buona prova con il prestito del 1817? I titoli del prestito non stavano salendo, alla Borsa di Parigi, in quello stesso momento?

I Rothschild decisero di tentare un'altra volta. Perfezionarono l'ac-quisto del sofisticato Friedrich von Gentz, brillante pubblicista, amico di Metternich e molto addentro negli affari del Congresso. Ottennero una forte preferenza presso David Parish, un giovane banchiere dotato di molta classe e in ottimi rapporti con Baring. Comprarono tutte le "doti di società" che il denaro può acquistare; controllarono e ricon-trollarono l'impeccabilità delle loro giacche, dei pantaloni, delle livree della servitù. Tutto era a posto.

Nulla serviva. Nei saloni, la gente si divertiva allo sbigottimento che si leggeva sulla faccia di Kalmann, al cipiglio levantino di Salomon. Nella generale allegria, nessuno si accorse di una strana circostanza: della crescente frequenza con cui corrieri entravano nella residenza dei fratelli e ne uscivano.

Per tutto l'ottobre 1818 Aquisgrana danzò, si inchinò, passeggiò e ignorò quei due zoticoni dei Rothschild. Il 5 novembre accadde una cosa strana: i titoli del governo francese, quelli del famoso prestito del 1817, cominciarono a scendere dopo essere costantemente saliti per un

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anno intero. Di giorno in giorno il ritmo della caduta diventava più rapido; come se non bastasse, anche altre azioni cominciavano a dare segni di cedimento. Nubi tempestose avevano abbuiato un cielo fino a quel momento perfettamente azzurro; la minaccia di un crack pesava sull'orizzonte non solo di Parigi, ma di tutte le Borse del mondo.

Ad Aquisgrana la musica tacque, cessarono le danze, i gentiluomini presero ad aggirarsi con sguardo assente per le sale improvvisamente silenziose. Dopo tutto, anche loro avevano fatto i loro piccoli investi-menti.

Erano i principi, adesso, ad aggrottare la fronte mentre, fatto cu-rioso, Kalmann e Salomon sorridevano. Una domanda cominciò a cor-rere, sussurrata, per i salotti: che quei Rothschild avessero?...

Quei Rothschild avevano. Con le loro immense riserve avevano comprato, per settimane e settimane, i titoli emessi dai rivali, facen-done salire il prezzo e ammonticchiandoli nelle loro casseforti. Poi, d'un sol colpo, li avevano gettati sul mercato vendendoli sottocosto. In tutto il continente l'edificio della finanza scricchiolava, minacciava di crollare. Il gran mondo adesso sapeva che cosa volesse dire ignorare un Rothschild.

Metternich, il duca di Richelieu, il principe Hardenberg fecero quello che andava fatto. Ebbero una conversazione molto seria con Ouvrard e Baring, dei cui titoli (ancora non emessi) si erano già ri-servati dei pacchetti. Del prestito non si fece più nulla.

Poi Salomon e Kalmann furono introdotti alle auguste presenze ed ecco, i loro vestiti erano quel che di più elegante si potesse vedere, il loro denaro il prediletto dei più aristocratici debitori.

Quando la musica tornò a risonare, e due principesse accettarono obbedienti il braccio di due uomini tarchiati dalla faccia tonda, tutti seppero che, finalmente, era accaduto : l'Europa s'era arricchita di un altro grande nome, i figli di Mayer erano diventati "I Rothschild".

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"Mishpahà"

IL NOME

L'ultimo giorno del maggio 1838, a Bossenden Wood, vicino al vil-laggio di Dunkirk in Inghilterra, si svolse una strana battaglia; il 45° reggimento andò all'attacco contro una banda di mistici rivoluzionari e in un assalto alla baionetta uccise il loro capo, John Nicols Toms. Mez-zo visionario, mezzo ciarlatano Toms aveva sollevato le campagne con le sue tirate messianiche. Fino al momento in cui le baionette dell'eser-cito lo mandarono a ingrassare la terra, il popolo lo aveva venerato co-me re di Gerusalemme, principe d'Arabia, re degli zingari... e conte Moses S. Rothschild.

Quest'ultima vanteria ci sembra la più interessante. Il nome Roth-schild era diventato famoso solo da una ventina d'anni. I cinque fra-telli che lo portavano, figli di un rivendugliolo di antichità di secon-d'ordine, erano nati nella Judengasse di Francoforte, e i loro modi e il loro accento rivelavano inconfondibilmente quell'origine. Che cosa al-lettava la fantasia popolare, rendendo il nome "Rothschild" tanto pre-stigioso quanto il titolo di "principe d'Arabia?"

Il denaro è parte della risposta. Di denaro i fratelli avevano ora quantità inimmaginabili, o meglio quantità che possono diventare im-maginabili solo per via di confronto. Lytton Strachey, definendo la re-gina Vittoria "immensamente ricca" anche a giudicarla sulla scala dei grandi monarchi regnanti, valutava la sua fortuna a un massimo di cinque milioni di sterline. Poveria Vittoria. Una branca sola della Fa-miglia avrebbe potuto comprare in qualsiasi momento quasi tutto ciò che Vittoria possedeva. L'acquisto del Canale di Suez doveva dimo-strarlo.

La ricchezza totale del clan durante la maggior parte del dicianno-vesimo secolo è stata stimata oltre 400 milioni di sterline (6.000 mi-lioni di dollari). Nessun altro, fra i Fugger e i Rockefeller, si è neppure avvicinato a questa cifra vertiginosa.

Ma non basta il denaro per creare un mito come quello dei Roth-

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schild. Occorre, soprattutto, che la celebrità stessa sappia comportarsi con irresistibile autorevolezza. Dopo Aquisgrana i cinque fratelli pro-cedettero per la loro strada con la ferma, lucida, incrollabile convinzio-ne che il diritto divino dei re era stato cacciato di trono dal diritto di-vino del denaro e che Amschel, Nathan, Salomon, Kalmann e James erano il denaro. I dubbi e le esitazioni che angustiano altri nouveaux riches non turbarono i cinque fratelli. Un aneddoto vuole che il figlio-letto di Nathan gli chiedesse una volta quante diverse nazioni ci fosse-ro nel mondo. « Ce ne sono solo due di cui tu ti debba preoccupare, » si racconta che Nathan rispondesse « la mishpahà [la parola yiddish che significa famiglia] e le altre. »

Per quanto apocrifa questa conversazione, essa riflette un atteggia-mento reale, sopravvissuto sino ad oggi. Ancor oggi, quando usano le due semplici parole con cui indicano il loro clan, i Rothschild le scri-vono con la maiuscola : « La Famiglia » dicono; una famiglia che è tutt'altra cosa dalle famiglie degli altri. La nascita di quelle maiuscole si può rintracciare chiaramente sul loro albero genealogico.

Cominciando dal ramo più alto, vediamo che dei cinque figli del vecchio Mayer i primi due sposarono due semplici e floride ragazze ebree tedesche. Il matrimonio successivo ebbe luogo nel 1806, quando Rothschild era già un nome d'un certo lustro; quell'anno Nathan si portò a casa Hannah Cohen, figlia di Barnett Cohen, il più ricco ebreo d'Inghilterra. Poi venne la volta di Kalmann, nel 1818: a quella data, qualunque membro della Famiglia poteva scegliersi quel che c'era di meglio in fatto di ragazze da marito; Kalmann scelse Adelheid Herz, di una famiglia che rappresentava il fior fiore della più raffinata società ebraica in Germania.

Infine prese moglie James, il più giovane. L'imperatore d'Austria aveva già fatto baroni lui e i suoi fratelli, e loro avevano fatto di se stessi la famiglia più ricca del mondo. Al tempo del precedente matri-monio erano stati molto importanti; adesso si consideravano unici. L'11 luglio 1824 il mondo ebbe la prova tangibile di questa convinzio-ne quando James camminò sotto la chuppà (il baldacchino nuziale ebraico) con Betty, sua nipote, figlia di suo fratello Salomon.

Ben presto si impose il dogma dinastico che, come nel caso degli Absburgo, il più brillante partito possibile per un membro della Fami-glia è un altro suo membro. Sui dodici matrimoni dei figli dei primi cinque fratelli, non meno di nove furono celebrati con figlie dei loro

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zìi. Sui cinquantotto matrimoni celebrati dai discendenti del vecchio Mayer, la metà esatta è avvenuta fra cugini in primo grado.

Come si spiegano questi innamoramenti in famiglia? Tanto per co-minciare, c'era il fatto che solo un padre Rothschild poteva permettersi una dote degna d'un genero Rothschild. Poi c'era il desiderio di conso-lidare, anziché dissipare, i patrimoni; e, cosa forse più importante, di non dare il nome a degli estranei.

Il nome, ecco quel che soprattutto premeva e preme ai Rothschild. Il nascere e il crescere del mito ha in gran parte radice nella cura gelo-sa con cui è stata mantenuta la purezza del nome. Nel 1836 un episo-dio dimostrò quanto valore attribuissero a quelle due sillabe magiche gli uomini che le portavano. A quel tempo un'altra famiglia significava ancora, per il mondo ebraico, più di quanto non significassero i Roth-schild. I Montefiore, di antico e aristocratico ceppo ebraico, erano da lungo tempo grandi protettori della loro razza e portabandiera della loro fede in Inghilterra; sir Moses Montefiore era stato fatto knight molto prima del nipote di Nathan che ricevette per primo questa ono-rificenza. Tornando al 1836, quell'anno un giovane Montefiore, lui stes-so ricchissimo e strettamente imparentato con la Famiglia per via di matrimonio, chiese a sua zia, la moglie di Nathan, se non ci fosse per lui la possibilità di diventare socio della banca Rothschild.

Dopo un lungo, scandalizzato silenzio, dagli uffici Rothschild in New Court, St. Swithin's Lane, venne la risposta : normalmente, New Court non avrebbe neanche preso in considerazione la possibilità di accettare come socio un estraneo (nessuna società della famiglia, in effetti, l'ha più fatto sino ai nostri giorni). Tuttavia, avrebbero potuto accettare Montefiore come socio giovane, in vista della stretta parentela e dell'eccezionale lustro patrizio del suo nome... a patto, naturalmente, che cambiasse quel nome in Rothschild.

LO STEMMA DI FAMIGLIA

Montefiore (che decise di rimanere tale) sarebbe stato meno sor-preso della proposta se avesse potuto dare un'occhiata alle carte della consulta araldica dell'impero austriaco. Quest'ufficio, il cui compito era quello di preparare secondo tutte le regole patenti di nobiltà, fu il pri-mo a fare le spese della sicumera, quasi simpatica nella sua ingenuità,

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con cui i fratelli imposero al mondo le loro dieci lettere favorite, Roth-schild.

Al principio del 1817 la pazienza collettiva della consulta fu messa a dura prova da un messaggio della Famiglia. I fratelli avevano appena compiuto i loro consueti miracoli nel trasferimento a Vienna dei sus-sidi britannici, avevano fatto giungere nella capitale austriaca maggiori quantità di denaro in tempo più breve e a un prezzo più basso degli altri banchieri, e si erano affrettati a lasciar capire che sarebbero stati pronti a ricevere un'onorificenza o due. Il consigliere privato von Le-derer, capo dell'ufficio addetto al conferimento di onorificenze, pensò che una tabacchiera d'oro adorna del monogramma di sua maestà in diamanti avrebbe fatto al caso.

Il ministro delle finanze conte Stadion - come tutti i ministri delle finanze di tutte le parti del mondo - era più sensibile alle speranze dei Rothschild. La proposta del consigliere privato gli parve penosamente inadeguata. Oltretutto, fra i diamanti comunque sistemati e i cinque maghi della finanza in questione correva lo stesso rapporto che fra Sa-mo e i vasi.

Finalmente si giunse ad un compromesso fra le sue richieste e il glaciale accenno del consigliere alla « speciale considerazione che i fra-telli Rothschild sono ebrei ». L'Austria innalzò i fratelli al livello mi-nimo della piccola nobiltà, dando loro il diritto di far precedere il no-me da un semplice "von". Si pregò i Rothschild di escogitare uno stemma adatto al loro rango.

A questo punto entra in scena la lettera alla consulta araldica. Illu-strava entusiasticamente il modo in cui i fratelli avevano concepito il loro stemma gentilizio :

Primo quarto... un'aquila nera in campo rosso - (che si richiama allo Stemma Imperiale e Reale Austriaco); secondo quarto... un leopardo passante (che si richiama allo Stemma Reale Inglese); terzo quarto, un leone rampante (che si richiama allo Stemma del principe elettore d'Assia); ultimo quarto, azzurro, con un braccio che tiene cinque jrecce (sìmbolo dell'unità dei cinque fratelli)...

I membri della consulta araldica erano già senza fiato. Quella gen-te, quei nobilucci, quei "von", credevano di farsi riconoscere il diritto a un inventario di simboli onorifici addirittura ducale!

E le impertinenze non erano ancora finite:

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Al centro dello scudo, un campo gules. Sostegno destro, un levriero, simbolo di lealtà; sostegno sinistro, una cicogna, simbolo di pietà e del contentarsi {contentarsi!}. Il timbro è una corona sormontata dal Leo-ne d'Assia.

E questo da parte di persone che, anche con il loro "von", rigoro-samente parlando non erano veri nobili ma solo membri della piccola nobiltà! La consulta trasse un profondo sospiro e inviò un rapporto alla corte.

Chiedono una corona, uno scudo centrale, supporti, il Leopardo d'In-ghilterra, e il Leone d'Assia... Il loro suggerimento è assolutamente inaccettabile... la piccola nobiltà ha diritto solo a un elmo... altrimenti non resterebbe nulla a distinguere le classi più alte, giacché corone, supporti e scudi centrali sono propri solo dell'alta nobiltà. Inoltre, nes-sun governo può acconsentire che in un blasone siano inclusi gli em-blemi di altri governi, in quanto il grado nobiliare viene conferito in premio dei servigi resi al principe e al paese che lo conferiscono, non già di quelli resi ad altre nazioni. Il leone è simbolo unicamente di co-raggio, e non si vede che cosa abbia a fare con questi postulanti.

Poi la consulta tirò fuori i coltelli e tagliò tutto quello che era di troppo. La presuntuosa corona a sette punte - che sarebbe stata giustifi-cata solo da una dignità per lo meno baronale - diventò un povero el-mo disadorno. Quasi tutta la fauna araldica perì nella carneficina; non sopravvissero né la pia cicogna, né il leale levriere, né il leone né il leopardo.

Rimase solo una frazione d'uccello: metà dell'aquila austriaca. Fu risparmiato anche il braccio che reggeva le frecce, ma persino di que-ste la consulta ne strappò via una, sicché ne rimasero solo quattro (il quinto fratello, Nathan, non aveva avuto parte ufficiale nel trasferi-mento di denaro). Il 25 marzo 1817 questa versione riveduta, corretta e mutilata del progetto originario diventò il blasone Rothschild.

Non lo rimase per molto. Perché poco dopo vi fu il Congresso di Aquisgrana, e dopo di questo un prestito personale di 900.000 gulden fatto da Casa Rothschild al principe Metternich, l'onnipossente cancel-liere di sua maestà austriaca. Fu, da una parte, una transazione perfet-tamente chiara e legale; il debito venne completamente estinto sette

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anni innanzi la data ultima stabilita dai contraenti. D'altra parte, quel debito fu contratto il 23 settembre 1822. E sei giorni più tardi un de-creto imperiale innalzava i cinque fratelli e la loro legittima discenden-za dell'uno e dell'altro sesso alla dignità di baroni.

La consulta araldica dovette accontentarsi di digrignare i denti che non osavano più mordere. La sommità dello scudo si adornò proprio della corona a sette punte che i fratelli avevano progettato in origine, accompagnata per di più da tre splendidi elmi piumati. Lo scudo cen-trale venne rimesso al suo posto, gli animali sacrificati risorsero dalle ceneri in forma anche più magnifica e allusiva di quella prevista nella versione originaria. In luogo del levriere si impennava lo spavaldo leone d'Assia, mentre la pia cicogna s'era miracolosamente trasfigurata in nulla meno che in un unicorno; la mezza aquila campeggiava ora in tutta la sua integrità, e un secondo regale uccello schiudeva le ali al di sopra dell'elmo di centro. Concordia, integritas, industria, proclamava il cartiglio che faceva da piedestallo allo splendido insieme.

Ancor più gradito al cuore dei nuovi baroni doveva essere quello che si vedeva nei quarti in punta a sinistra e in capo a destra; ciascuno conteneva - completo - il simbolo della famiglia : una mano che bran-diva non quattro ma cinque frecce.

Oggi chi guardi contro luce la carta da lettere della N. M. Roth-schild & Sons di Londra vi potrà distinguere, sotto i caratteri battuti dalle più moderne macchine per scrivere elettriche, questo stesso anti-co blasone. In mezzo a tanta araldica opulenza spiccano ancora le cin-que frecce, simbolo dei cinque demoniaci fratelli che, conquistato il mondo, cominciarono a questo punto a regnare in cinque capitali di-verse come cinque grandi re senza corona.

I CINQUE CAPOSTIPITI

Primo: Mister Nathan

Sembra un paradosso che Nathan Rothschild, il quinto fratello, la quinta freccia che la Famiglia tanto aveva fatto per poter includere nello stemma non abbia mai fatto sfoggio del blasone, non abbia mai portato il titolo nobiliare né mai permesso che altri gli si rivolgessero col titolo di barone, né abbia mai sfoggiato una delle tante onorificenze conferitegli nel corso degli anni.

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In realtà, il suo comportamento si conformava esattamente alla lo-gica dinastica del clan. Ogni fratello prese dimora nel paese più adatto al suo temperamento, oppure adattò il suo temperamento al paese che aveva scelto come propria residenza. Nathan capì che l'Inghilterra li-berale non avrebbe fatto gran conto d'un barone fabbricato su misura dall'assolutista Vienna. Da buon cittadino britannico (naturalizzato), diffidava delle onorificenze straniere. Cosa anche più importante, odia-va tutto ciò che fosse esteriorità, pompa, esibizionismo. Il suo forte non erano i bei modi ma il potere. Come gli inglesi, grande razza di mercanti, era il tipo che si mette in tasca continenti brontolando per il tempo cattivo.

Naturalmente, brontolava con accento yiddish; ma ciò non gli im-pedì di diventare il più grande, il più flemmatico dei miliardari Whig. Sapeva, anche prima che Heinrich Heine lo dicesse, che « l'esercito principale dei nemici dei Rothschild è composto di gente a cui manca qualcosa; tutti costoro dicono a se stessi: "Quello che io non ho, i Rothschild lo hanno" ».

Nathan capiva che l'invidia suscitata dalla sua ricchezza non si po-teva combattere con i sorrisi, gli inchini, le cortesie. Perciò l'affrontava con la pistola carica che teneva sempre sotto il guanciale; l'affrontava con la sgarbatezza e la spavalderia. L'impero austriaco lo nominò con-sole generale a Londra per la sua enorme influenza, non per il tatto diplomatico.

I membri di varie società di beneficenza - specialmente quelli che agivano in nome degli ebrei poveri di Londra - che facevano appello alla sua generosità riferivano di aver ricevuto da Mr. Rothschild mi-gliaia e persino centinaia di migliaia di sterline, ma raramente una pa-rola e mai una cortesia. Altre persone ricche sanno godere delle loro carità. Dopotutto, è un onore dare molto. Ma non per Nathan Roth-schild; era tale la fama della sua ricchezza che ciò che dava, per tanto che fosse, non era mai abbastanza.

A modo suo, Nathan si prendeva il gusto di vendicarsi dei poveri che gli davano tanti grattacapi. « Qualche volta, » raccontò al suo buon amico sir Thomas Buxton, leader degli antischiavisti, « mi diverto a dare a un mendicante una ghinea. Lui pensa che mi sia sbagliato, e per paura che me ne accorga se la dà a gambe, veloce come il vento. Una volta o l'altra regali a un mendicante una ghinea; è molto divertente. »

Ma non regalava monete d'oro a quelli che sapevano chi fosse. Lo irritava l'espressione avida che gli occhi di facchini e inservienti assu-

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mevano non appena riconosciuta la sua pesante silhouette, il profilo dalle labbra spesse. A un lustrascarpe che gli chiedeva perché gli desse in mancia solo un penny mentre suo figlio dava sempre uno scellino, rispose : « Quello ha un padre milionario. Io non ce l'ho ». Il penny Rothschild è l'antenato del decimo di dollaro Rockefeller.

I mercanti d'arte, che prosperavano a spese di milionari con un decimo delle sue ricchezze, avevano poca fortuna con Mr. Rothschild. « Non posso buttar via soldi in pitture » diceva; e quando Nathan di-ceva qualcosa, nessun argomento, snobistico o estetico, poteva convin-cerlo del contrario. Il mondo della bellezza non presentava per lui inte-resse alcuno; e lo snobismo - eccellente imitazione della stima di sé, buona per chi non può permettersi la stima autentica - non significava evidentemente nulla per un uomo che non sapeva che farsene del titolo di barone. Una volta un mercante d'arte munito d'una lettera del Gran Rabbino d'Inghilterra riuscì a non farsi dire di no. « D'accordo » ac-consentì Nathan. « Mi dia un quadro da trenta sterline. Non importa quale. Arrivederla. »

Con le alte sfere non era molto più cortese. « Ieri » scriveva Wil-helm Humboldt al fratello Alexander, il famoso naturalista, « Roth-schild è stato a cena a casa mia. È rozzo e incolto, ma possiede una grande inteUigenza naturale. Ha detto quel che si meritava al maggiore Martins, che faceva del vuoto sentimentalismo a proposito degli orrori della guerra e del gran numero di caduti. "Bah," ha detto Rothschild "se non fossero tutti morti, maggiore, lei quasi di sicuro sarebbe anco-ra tenente!". »

II duca di Wellington era un visitatore abituale di casa Rothschild, e benché anche sua grazia sapesse essere qualche volta un villanzone della più bell'acqua, portava al suo seguito alcuni fra i più raffinati gentiluomini, e gentildonne, del regno. Nessuno riuscì a migliorare i modi di Nathan. Anche Talleyrand, ambasciatore di Francia alla corte di St. James, visitava spesso i Rothschild, deliziando la moglie di Na-than con la sua cortesia ancien regime, incantando i bambini con le sta-tuette che sapeva fare con la mollica di pane. Nulla valse a scalfire la dura crosta di Nathan.

A un ballo offerto dal duca di Wellington, il duca di Montmorency si vantava, non senza un'intenzione maligna, della sua lunga prosapia. « Dunque lei è il primo barone cristiano » commentò Nathan a voce abbastanza alta perché tutti sentissero. « Io sono il primo barone ebreo. È molto più interessante, ma io non la faccio tanto lunga. » Le dame

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impallidirono. L'orchestra intonò frettolosamente un minuetto. Il "du-ca di ferro" sorrise.

Quando Nathan "la faceva lunga", la Banca d'Inghilterra tremava. Una volta Nathan presentò a Threadneedle Street, per incassarla, una tratta che aveva ricevuto da suo fratello Amschel; la banca la respinse dichiarando che pagava solo i suoi effetti, non quelli di un privato.

« I Rothschild non sono dei privati! » tuonò il banchiere. La sua vendetta è leggendaria. La mattina seguente Nathan comparve in Threadneedle Street e chiese che gli cambiassero in valuta d'oro una banconota da dieci sterline. Uno stupito cassiere lo accontentò. Nathan ripetè la richiesta tutta la mattina e per tutto il seguito della giornata; lo stesso fecero nove suoi impiegati, con nove cartelle piene come quella del padrone ad altri nove sportelli. In un giorno Rothschild fece diminuire le riserve auree della banca di quasi 100.000 sterline.

Il giorno successivo, all'ora d'apertura, Nathan era là, implacabile, con i suoi impiegati carichi di banconote. Un funzionario si fece in-contro al banchiere e chiese, con una risata nervosa, quanto a lungo sarebbe durato lo scherzo.

« Rothschild continuerà a mettere in dubbio la validità degli effetti della Banca d'Inghilterra » rispose Nathan « fino a quando la Banca d'Inghilterra metterà in dubbio la validità degli effetti Rothschild.»

A Threadneedle Street venne frettolosamente convocata una riu-nione di direttori. Fu deciso che da quel momento in avanti per la banca sarebbe stato un piacere incassare qualsiasi assegno d'uno dei cinque fratelli.

A quel tempo Nathan aveva già trasferito la famiglia da New Court, St. Swithin Lane (ormai gli uffici avevano assorbito anche i lo-cali d'abitazione) al grande palazzo al n. 107 di Piccadilly. Informato che sua figlia Hannah possedeva doti musicali, le comprò un'arpa d'oro puro e chiamò Rossini e Mendelssohn a farle da maestri. Sua moglie riempì le sale di tesori, raccolse intorno alla sua tavola personalità del gran mondo. Venivano tutte a vedere il fenomeno, l'uomo che dal ghetto di Francoforte era salito fino alla sommità dell'impero britanni-co. Ammiravano lo strano prodigio. Alcuni lo adulavano, parecchi di-ventarono amici sinceri.

Com'era inevitabile, dietro certi sorrisi traspariva lo scherno. Era allora che Nathan avvertiva l'ambiguità del proprio prestigio. Una vol-ta un grande virtuoso del violino tenne un concerto privato al 107 di Piccadilly. Terminato il concerto, toccò al padrone di casa dire qualche

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parola di ringraziamento : « Lei fa della bella musica » disse Roth-schild, con il suo accento della Judengasse. Da qualche angolo venne il suono di una risata mal repressa. Rothschild s'interruppe. Fece tintin-nare delle monete che aveva in tasca. « Questa è la mia musica » con-tinuò. « La gente l'ascolta con la stessa attenzione; ma qualche volta la rispetta meno. »

Ma, in un senso molto pratico (quello che più gli importava) Na-than aveva torto. La forma più pratica del rispetto è il ricordo; e oggi noi ricordiamo il violinista solo come elemento di sfondo al bon mot di un Rothschild. E per ciò che riguarda Nathan in particolare, non solo le sue parole ma anche le sue opere sono sopravvissute sino ai giorni nostri. I prestiti nazionali inglesi che emise, per somme nell'or-dine dei dodici milioni di sterline, legarono la sua Casa al governo di sua maestà britannica per generazioni, sicché ancor oggi la banca di New Court è agente per l'oro della Banca d'Inghilterra. Fondò l'Allied Insurance Corporation, una società potentissima, ancora fiorente, e an-cora diretta dai Rothschild di Londra. E le ripercussioni del prestito di tre milioni di sterline con cui salvò le finanze del Brasile si fanno sen-tire ancor oggi; nel 1962 New Court stacca più cedole di titoli sud-americani di qualsiasi altra banca privata.

Una fredda sicurezza di sé, una scaltrezza accompagnata da un'in-comparabile rapidità di riflessi caratterizzarono tutte le imprese di Na-than. « Sono un uomo che decide subito » disse una volta a Buxton. « Non ho mai perso tempo. Sono sempre venuto preparato a tutto, e ho sempre concluso immediatamente i miei affari... Ho sempre detto a me stesso : quello che un altro può fare, lo posso fare anch'io. »

La verità era, naturalmente, che nessuno poteva fare quel che face-va lui. La Borsa non ha mai visto nessuno come lui, né prima né (con tutto il rispetto dovuto a Bernard Baruch) dopo. Le sue astuzie, le sue finte, le sue complicate ferocie sono così difficili a seguirsi come piste nella giungla. Sappiamo però che più volte ripetè a spese dei suoi av-versari il gioco di Waterloo, con un'inimitabile estrosità di varianti.

Poniamo, per esempio, che i corrieri dei fratelli gli recassero in anteprima assoluta una notizia che probabilmente avrebbe fatto salire la quotazione delle azioni X. Senza dare nell'occhio egli ne acquistava una certa quantità, e altre ne faceva acquistare da agenti che lavorava-no in segreto per lui. Poi, d'improvviso, vendeva tutte le azioni in suo possesso. La massa degli speculatori, sempre attenta alle sue mosse, co-

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minciava a considerare le X con una certa preoccupazione. Allora, a un segnale determinato in precedenza, tutti gli agenti Rothschild si libe-ravano di tutte le X in loro possesso. Gli speculatori erano presi dal panico, e l'improvvisa corsa alle vendite scuoteva dal loro scetticismo persino i professionisti: l'infallibilità di Nathan era dimostrata una volta di più. Tutti vendevano sottocosto le loro X. Nel frattempo un'al-tra équipe di agenti Rothschild comprava a bassissimo prezzo tutte le X su cui riusciva a mettere le mani... un attimo prima del diffondersi della notizia che ne faceva salire la quotazione più in alto che mai.

La volta successiva la concorrenza si preparava allo stesso trucco, solo per cadere nella trappola opposta. Nessuno poteva fermare Na-than Rothschild; e neppure comprenderlo, né lui né le ragioni per cui, avendo già tanto, voleva conquistare ancora di più. Quante stelle gialle appuntate sui caffettani dei suoi avi, quanti scherni e umiliazioni su-biti per le strade di Francoforte avrebbe vendicato oggi, dopo essere sceso dalla carrozza che lo portava da New Court alla Borsa?

Napoleone sul campo di battaglia non era avvolto di più cupo mi-stero che Nathan Rothschild al Royal 'Change. Come Napoleone, as-sumeva sempre la stessa posa : andava a mettersi con le spalle appog-giate alla "colonna Rothschild" (la prima a destra per chi entri dalla porta di Cornhill), affondava le mani tozze nelle tasche, e immobile, silenzioso, implacabile, cominciava il suo gioco quotidiano. L'ha de-scritto bene un anonimo contemporaneo :

In genere gli occhi sono considerati finestre dell'anima. Ma nel caso, di Rothschild si è costretti a concludere che le finestre sono finte, oppure che non esiste un'anima che possa affacciarvisi. Dall'interno non esce neppure il più sottile spiraglio di luce, né vi si vede il più pallido ba-gliore di quella esterna riflessa in qualche direzione. Il tutto fa pensare a una pelle vuota, e uno comincia a domandarsi come faccia a stare dritta, senza nulla dentro. Di tanto in tanto gli si avvicina un'altra figu-ra. Allora si sposta di due passi, e da quegli occhi immobili, color del piombo, viene sfoderato d'improvviso - come una spada vien sfoderata dalla guaina - lo sguardo più indagatore e acuto che abbiate mai visto, come forse nemmeno potreste immaginare. Il visitatore, che ha l'aria di passare da quelle parti per caso e non di proposito, si ferma un paio di secondi, nel corso dei quali vengono scambiati sguardi che - lo capite, anche se non potete tradurne il senso - devono significare qual-

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cosa di molto importante. Passati quei due secondi, gli occhi vengono rinfoderati, e la figura ridiventa immobile come di pietra. Nel corso della mattinata i visitatori sono parecchi; tutti ricevono l'identica accoglienza e svaniscono nell'identico modo. Ultima svanisce la figura stessa, lasciandovi nella più profonda perplessità...

Questa calma olimpica non abbandonava mai Nathan. Era la sua corazza contro il gran mondo su cui regnava signore senza esserne mai stato l'uguale. Si racconta che un giorno un augusto personaggio duca-le attraversò con la violenza d'un ciclone gli uffici di Nathan. Aveva un'espressione così furibonda che nessun impiegato osò affrontarlo. Il personaggio irruppe nell'ufficio privato del banchiere, e gli illustrò urlando i motivi della sua ira; Nathan, senza alzare la testa dai suoi registri, disse : « Prenda una sedia ».

Il personaggio s'imporporò, e sempre a gran voce ricordò all'ebreo la nobiltà delle proprie origini, le illustri parentele, e infine gli mise sotto il naso un biglietto da visita adorno di uno stemma. Nathan guar-dò il biglietto per una frazione di secondo.

« Prenda due sedie » disse, e continuò a fare i suoi conti.

Secondo: Beau James

Se il classico sfondo della vita inglese del diciannovesimo secolo è l'ufficio contabile, quello della vita francese è il salotto. Se Nathan Rothschild diventò il più formidabile mito dell'Inghilterra affaristica, suo fratello, il piccolo James dai capelli rossi, gettò l'ombra più lunga attraverso i migliori salotti francesi.

L'ultimo dei figli di Mayer s'era trasferito a Parigi abbastanza gio-vane per imparare alla perfezione la lingua del paese dove aveva eletto la sua dimora; ben presto la usava con disinvoltura in conversazioni brillanti. Prima che fosse passato molto tempo, era diventato una cu-riosa ma riuscitissima combinazione di damerino e di piovra dai mille tentacoli. Nel 1817, a ventisei anni neppure sonati, quando ancora non si era lavato via dalle mani la polvere d'oro del contrabbando di valuta, sapeva già organizzare un pranzo avendo ospiti come l'ambasciatore austriaco Paul von Wiirttemberg, uno dei più allegri principi del sangue. Quattro anni dopo, ventinoveune, fu preso in considerazione

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per la carica di console generale dell'impero austriaco a Parigi: un onore ambito da molti gran signori con pedigree in piena regola.

Fu decisivo un rapporto confidenziale all'imperatore austriaco:

È vero che nella decisione riguardante la nomina a Console del Roth-schild di Londra ... Vostra Maestà ha espressamente dichiarato che de-ve continuare a valer la regola che nessun israelita sia nominato Con-sole. Tuttavia, se l'eccezione fatta da Vostra Maestà in favore del Roth-schild di Londra ha avuto effetti estremamente benefici, è probabile che lo stesso accada nel caso del Rothschild di Parigi... È un giovane di grande talento, intimo amico di parecchi membri dell'Istituto Politec-nico parigino e del Conservatone d'Arts et Métiers, oltre che di molti fra i più raffinati industriali e uomini d'affari francesi... Non posso suggerire a Vostra Maestà persona più adatta...

L'11 agosto 1821 il nostro giovanotto di grande talento fu investi-to della carica. Avendo ora bisogno d'una casa consona alla sua dignità, comprò il magnifico Palais Fouché di rue Laffitte - abitato un tempo dal questore di Parigi, e proprio da quello che aveva cercato di arre-stare James - e ne schiuse i portali ai più squisiti e costosi quadri, scul-ture, mobili e... ospiti. Il giovane barone potè addirittura permettersi quello che Giorgio IV d'Inghilterra avrebbe lungamente, e invano, ten-tato di rapirgli a forza di lusinghe e promesse: l'ineffabile, lo storico, l'inaccessibile-ai-comuni-milionari, lo chef Carème.

Ma James non cominciò veramente a regnare fino a quando non ebbe trovato una moglie. Betty Rothschild, la figlia del fratello Salo-mon, diventò non solo la sua sposa, ma anche il suo più importante strumento sociale. Era una bellezza bruna, maestosa, che Ingres ha raf-figurata in un famoso ritratto. Destò sentimenti teneri in cuori diversi come quelli di Heinrich Heine - che l'immortalò in una poesia intito-lata L'Angelo - e del generale Changarnier, comandante in capo della

Guardia Nazionale, il cui sentiment de coeur per la baronessa forni ar-gomenti di chiacchiere ai pettegoli parigini.

A rue Laffitte, Belle Betty e Beau James tenevano continuamente ricevimenti regali. Heine e il generale non erano gli unici ospiti di classe. Rossini veniva in visita quasi ogni giorno e scriveva piccole

composizioni per i ricevimenti dei suoi anfitrioni, Meyerbeer era un amico intimo, Honoré de Balzac tracannava a litri il caffè di James. I.o scrittore aveva notato Rothschild a Aix-les-Bains, e aveva fatto la

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sua conoscenza e preso a prestito il suo denaro quasi simultaneamente. Pagò il debito con un divertente racconto di cui era eroe il creditore, Roueries d'un Créancier, dedicato a James; un altro, L'Enfant Maudit, 10 dedicò a Betty. Al funerale del grande romanziere, James fu tra co-loro che camminavano immediatamente dietro la bara.

I rapporti fra James e George Sand erano un poco più acidi. A una fiera di beneficenza egli girò accuratamente al largo dal banco dei pro-fumi, presidiato dalla scrittrice in pantaloni, finché George Sand lasciò 11 suo posto per passare all'offensiva diretta: il barone James doveva assolutamente comprare una bottiglia per 5.000 franchi.

« Che me ne faccio del profumo? » protestò James. « Mi dia un autografo : lo vendo e dividiamo i guadagni. »

George Sand scrisse qualche parola su un foglio di carta e lo tese a James. Diceva: «Ricevuta di diecimila franchi dati per soccorrere i poveri polacchi oppressi. George Sand ».

Heine, che in quel momento osservava la faccia dell'amico, gli mi-se un braccio intorno alle spalle e commentò con finta emozione: « Per un grande dolore è sempre difficile trovare parole adatte ».

Ma James non era molto addolorato. Il suo prestigio sociale ci gua-dagnava se lui perdeva somme interessanti in modi interessanti e a vantaggio di persone interessanti, e James non si lasciava sfuggire oc-casione di figurare in aneddoti gustosi che avessero a che fare con il mondo delle arti. Quando Eugène Delacroix gli chiese di posare in vesti da mendicante, accettò subito. La mattina successiva un poverac-cio coperto di cenci suonava alla porta dello studio di Delacroix: andò ad aprire un discepolo, che vedendo quel miserabile gli diede un fran-co e lo mandò via. Non ripensò più all'incidente fino a quando, venti-quattr'ore dopo, un servo in livrea gli porse questa lettera : « Caro si-gnore, Lei troverà qui accluso il capitale che mi ha dato alla porta del-lo studio di M. Delacroix, accresciuto dell'interesse e dell'interesse composto; in tutto diecimila franchi. Può incassare l'assegno alla mia banca quando le piaccia. James de Rothschild ».

L'aneddoto andò ad arricchire la sua elegante notorietà. Lo stesso si dica del fatto che acquistò i grandi vigneti Lafite (per quattro milioni di franchi, pari a 1.540.000 dollari) per la sola ragione che il loro nome somigliava a quello della via parigina in cui abitava.

Nonostante i suoi vezzi da bohémien, James non dimenticava mai di essere l'uomo più ricco di Francia. La sua banca, la de Rothschild Frères, faceva mordere la polvere a tutte le rivali. La fortuna di James

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era stimata ad oltre 600 milioni di franchi, cioè 150 milioni più di quelle di tutti gli altri banchieri francesi messe insieme. Prestò al re del Portogallo venticinque milioni di franchi; il re del Belgio gli aveva affidato in custodia cinque milioni di franchi, e lui li fece diven-tare venti. Divenne uno dei principali creditori del tesoro francese.

Scriveva Heine:

Non so dire quanto mi piaccia far visita al barone nel suo ufficio alla banca, dove, da filosofo, posso osservare come la gente... si inchini davanti a lui fino a toccar terra con la testa. È una contorsione della spina dorsale che i più bravi acrobati troverebbero difficile imitare. Ho visto uomini piegarsi in due, nell'accostarsi al barone, come se avessero toccato una pila voltaica. Molti sono sopraffatti da un reli-gioso terrore alla porta del suo ufficio, come lo fu Mose sul Monte Horeb, quando scoperse di calcare terreno sacro. Mosè si tolse le scar-pe, e sono sicuro che molti fra questi agenti finanziari farebbero al-trettanto se non temessero che la puzza dei loro piedi possa riuscire sgradevole al barone. Questo suo ufficio privato è un luogo singolare, che ispira pensieri solenni, come fa la vista del mare o del cielo stel-lato. Qui uno capisce quanto sia piccolo l'uomo, e quanto grande Dio.

Questo brano ci lascia indovinare le ambivalenti riflessioni di Heine sul suo amico. Si rendeva perfettamente conto di essere solo uno dei tanti oggetti rari della grande collezione Rothschild. Una volta che Ja-mes riunì intorno alla sua tavola, per un sontuoso banchetto, uno scelto gruppo di banchieri, il poeta fu invitato al dessert a intrattenere gli ospiti con la sua brillante conversazione. Arrivò il dessert, ma non Hei-ne. Un servo mandato a cercarlo a casa sua tornò con le scuse del poeta a James : « M. le Baron, di solito il caffè lo prendo dove ho cenato ».

Nella stessa vena scriveva : «... sono andato a far visita a M. de Rothschild, e ho visto passare lungo il corridoio un lacchè in livrea adorna di merletti dorati e con in mano il vaso da notte baronale. Uno speculatore della Borsa, che anche lui percorreva il corridoio, alla vista del sacro vaso, si tolse reverente il cappello... Mi sono scolpito nella memoria il nome di quell'uomo. Sono sicurissimo che con l'an-dare del tempo diventerà milionario ».

Altri commenti furono anche più acidi. A Parigi c'era, oltre a Heine, un altro importante scrittore tedesco, Ludwig Bòrne; come

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3.1 favolosi Rothschild

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James, Bórne era cresciuto nella Judengasse di Francoforte. Così egli scriveva, sardonico, di quei suoi concittadini che avevano fatto fortuna:

Non sarebbe un'immensa benedizione -per il mondo se tutti i re fossero detronizzati, e la famiglia Rothschild messa al loro posto? Pensate quanti vantaggi. La nuova dinastia non contrarrebbe mai un debito, sapendo meglio di chiunque altro quanto costano care queste cose; ciò basterebbe ad alleviare di parecchi milioni l'anno i gravami che pesano sui loro sudditi. La corruzione, sia attiva sia passiva, dei ministri do-vrebbe cessare per forza di cose: perché corromperli, infatti? E con che? Tutte queste cose diventerebbero storia passata, e molto ci gua-dagnerebbe la morale.

Come dato di fatto, tutti i re francesi dopo Napoleone (tranne solo Luigi XVIII, che morì in carica) furono detronizzati. Sotto tutti loro, James fu un personaggio di primo piano; ma i sovrani cadevano, e il barone emergeva dal polverone del crollo più potente che mai. Gli amici che lui e Betty intrattenevano nel loro salotto erano scelti così be-ne che Casa Rothschild era sempre sulla cresta, quale che fosse l'onda.

Il 31 luglio 1830, per esempio, crollò improvvisamente il regime di Carlo X. Sembrava semplicemente logico che il barone James lo ac-compagnasse nella caduta. Per molti versi egli era stato il braccio finan-ziario del regime. Il Borbone gli aveva affidato la conversione dal 5 al 3 per cento di una serie di prestiti di stato: una manovra gigantesca. James aveva inoltre finanziato la partecipazione francese alle lotte civili spagnole di quegli anni. Il distintivo della Legion d'Onore gli era stato appuntato sulla giacca da un Borbone. Era, a tutti gli effetti pratici, un elemento integrante del flagello borbonico.

Sembrava, per di più, che Rothschild non si fosse preparato in nes-sun modo al cambiamento che nel luglio 1830 appariva incombente. I rivali avevano preso le loro precauzioni, ma Beau James diede balli cui furono invitati il duca di Chartres e il duca di Brunswick. Non lo si vide - dormiva - in quel primo mattino d'estate in cui barricate creb-bero come funghi nelle strade, il re deposto fuggì e il popolo acclamò sovrano Luigi Filippo, figlio del famoso Philippe Egalité della rivolu-zione e lui stesso considerato un ardente fautore delle idee liberali. Un brutto risveglio, pensò la gente, attendeva James il conservatore.

Poi - sorpresa! - un mese dopo il mutamento di sovrano, il "citta-dino re" ricevette la visita di una delegazione che veniva a congratu-

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Iarsi per la sua ascesa al trono. E chi c'era fra i membri della delega-zione, se non il barone Rothschild? A chi fu fatto segno di rimanere dopo finita la cerimonia, a chi fu concesso l'onore di una lunga chiac-chierata amichevole? Saltò fuori che James, il cospiratore borbonico, era invece un vecchio amico, compagno di tavola e consulente finan-ziario di sua nuovissima maestà.

Luigi Filippo , era ancora più nuovo alla porpora regale di quanto James non lo fosse alla sua più che regale ricchezza. Di questo fatto James si valse per stringere, fra sé e l'altro self-made man, rapporti del più saldo cameratismo. Grazie alle sue adulazioni, il nuovo regno di-ventò un paradiso per la haute bourgeoisie. L'astro del barone era allo zenit. La de Rothschild Frères ebbe praticamente il monopolio di tutti i prestiti di stato, e inoltre l'amministrazione degli investimenti perso-nali di Luigi Filippo. James diventò uno degli artefici della politica estera francese; i ricevimenti di Betty furono spesso onorati dalla pre-senza del sovrano, Rothschild fu insignito della Gran Croce della Le-gion d'Onore.

Diciott'anni dopo le barricate bloccavano di nuovo le vie di Parigi. Di nuovo James, con l'aria più spensierata del mondo, andò incontro alla rivoluzione danzando. Il 23 febbraio 1848 partecipò a un ballo offerto dall'ambasciatore austriaco. Il 24 il "cittadino re" fuggì. La ple-be di Parigi saccheggiò Palais Royal, distrusse il castello reale a Neuil-ly, bruciò amene dimore di capitalisti come Villa Rothschild a Suresnes.

James mandò moglie e figlia al sicuro a Londra, e diede, "per fini patriottici", 250.000 franchi a Ledru-Rollin, ministro rivoluzionario degli interni. Inoltre scrisse al governo provvisorio (e la pubblicò) una lettera che oggi il barone Guy de Rothschild tiene appesa alla parete del suo ufficio; con essa, James offriva 50.000 franchi a beneficio di co-loro che erano rimasti feriti nei combattimenti per le strade. La lettera reca la data del 25 febbraio: il primissimo giorno dell'era post-Luigi Filippo. James era sempre il mago d'un tempo; non aveva perso nulla della rapidità di riflessi, della calma, dell'efficienza che lo avevano assi-stito ai tempi del contrabbando di valuta; una volta di più, si trovava in cima all'onda. Dopo poche settimane anche i repubblicani più fana-tici lo consideravano indispensabile.

Il direttore del radicale Tocsin des Travailleurs scriveva:

Lei è un prodigo, signore. Luigi Filippo è stato deposto, la monarchia costituzionale e i metodi parlamentari non esistono più... ma lei è so-

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pravvissuto. I principi della finanza fanno bancarotta, i loro uffici sono chiusi; i grandi capitani d'industria e le compagnie ferroviarie vacil-lano; azionisti, mercanti, fabbricanti, banchieri vanno in rovina en masse; uomini grandi e piccoli sono schiacciati: lei solo rimane in pie-di, fermo e sereno, fra le macerie... Ricchezze si dissolvono, glorie sono umiliate, poteri distrutti, ma... il monarca del nostro tempo è sempre sul suo trono; e questo non è tutto. Lei avrebbe potuto fuggire da que-sto paese dove, per usare il linguaggio della sua Bibbia, i monti saltano qua e là come arieti. Invece rimane, dimostrando che il suo potere non dipende dalle dinastie regnanti, e coraggiosamente tende la mano... Senza lasciarsi sbigottire, resta fedele alla Francia... Lei è più di uno statista, è un simbolo del credito. Non è tempo che la banca, questo possente strumento della borghesia, collabori all'adempimento del de-stino del popolo?... Dopo avere conquistato la corona del denaro, lei conseguirebbe l'apoteosi. L'idea non la attrae?

No, l'idea non l'attraeva; James era troppo accorto, vedeva troppo lontano. I ministri nel cui novero il barone era stato invitato ad entrare furono a loro volta esentati dalle cariche: Luigi Napoleone ne fece piazza pulita quando, nel dicembre 1848, fu eletto presidente di Fran-cia. Quattro anni dopo si proclamò Napoleone III, per grazia di Dio e volontà del popolo imperatore dei francesi.

Questa volta pareva che James fosse stato veramente messo al tap-peto. Non poteva vantare aderenze né benemerenze presso questo nuo-vo regime; al contrario, semmai: tutti sapevano che lui e i fratelli avevano messo insieme le prime grosse fortune a spese di Napoleone I, zio del Bonaparte ora imperante. Come se non bastasse, i banchieri che Luigi Napoleone prediligeva erano i peggiori avversari di James.

Il barone non perse la calma. « Ah, » si racconta che commentasse con un sorriso quando esplose la notizia che Achille Fould, il più acca-nito fra i suoi nemici, era stato nominato ministro delle finanze, « mi par di sentire l'odore di un'altra Waterloo. »

L'osservazione era prematura; la battaglia in cui Rothschild si im-pegnò fu così lunga, violenta e complessa che richiederà un capitolo a sé. Tuttavia il tempo gli avrebbe dato ragione. La storia dei Roth-schild è la storia delle Waterloo altrui.

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Terzo: Re Salomon

Nei primissimi anni del secolo diciannovesimo sua altezza il prin-cipe Metternich, cancelliere dell'impero austriaco, aveva dato pubblica espressione a certe sue idee sui banchieri che si intromettevano negli affari di stato. « Casa Rothschild » aveva detto « esercita in Francia un'influenza molto superiore a quella di qualsiasi governo straniero... Ci sono, naturalmente, ragioni per cui, a me, ciò non sembra né bello né lodevole: il denaro è la molla di tutto, in Francia, e la corruzione un elemento di cui si tiene apertamente conto... Qui da noi [in Au-stria] questa merce trova solo pochi amatori. »

Per la mishpahà non erano parole molto gentili. L'Austria mante-neva un atteggiamento di alterigia antisemitica. Diversamente da ciò che accadeva in Inghilterra e in Francia, in nessuna regione dei domini degli Absburgo era concesso agli ebrei di possedere terra; non poteva-no coprire cariche governative né prestar servizio nelle corti di giu-stizia, erano esclusi dalla professione legale, dall'insegnamento, da ogni funzione politica. I matrimoni, limitati nel numero, potevano essere celebrati solo dopo avere ottenuto uno speciale permesso. Ogni ebreo doveva pagare un testatico e presentarsi regolarmente a un "ufficio ebraico". Se si trattava di un ebreo straniero, gli veniva concesso un permesso di residenza valido solo per un breve periodo; anzi, la polizia austriaca perseguitava così coscienziosamente gli stranieri di religione diversa che il clan non s'avventurò a mandare un proprio rappresen-tante al Congresso di Vienna. Waterloo giunse e passò senza che un Rothschild s'arrischiasse entro la portata di voce d'un ministro au-striaco.

Ma dopo il colpo di scena di Aquisgrana, le rive del Danubio di-ventarono abitabili anche per la Famiglia. I Rothschild agirono con la consueta prudenza dinastica: la direzione del "settore Absburgo" fu affidata esattamente al più adatto dei cinque fratelli. Non a un burbero intrattabile come Nathan, non a un dandy sofisticato tipo James : quei due non avrebbero fatto gran prova, all'augusta ombra della Hofburg. A presidiare il nuovo avamposto fu mandato Salomon, cioè quello tra i figli di Mayer che più aveva preso dal padre. Cortigiano per tempera-mento, la sua specialità era ingraziarsi i potenti. Sapeva parlare ai no-bili austriaci di antichissima prosapia come se se ne stessero tutti ap-pollaiati sui rami d'una splendida foresta di alberi genealogici. Ultimo, ma non meno importante, era un diplomatico.

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Nessun ministro degli esteri avrebbe potuto concepire meglio di lui la sua prima mossa verso Vienna. Come per caso, parlando con un funzionario austriaco, Salomon accennò alla possibilità che tutta Casa Rothschild spostasse il centro delle sue operazioni su scala mondiale da Francoforte a qualche altro luogo più gradito. Ciò diede lo spunto a un rapporto confidenziale che di lì a poco arrivò su qualche scrivania ad altissimo livello. Il 26 settembre 1819 il ministro degli interni, a cui il ministro delle finanze aveva chiesto il suo parere sulla questione, rispondeva :

Vostra Eccellenza certo non ignora che gli ebrei stranieri possono risie-dere nel nostro paese solo dopo avere ottenuto lo speciale permesso "di tolleranza"... eccezioni speciali si possono fare solo previa approva-zione personale dell'Imperatore. Vostra Eccellenza può peraltro tenersi sicura che noi siamo troppo consapevoli dei molti vantaggi che lo Sta-to Imperiale Austriaco trarrebbe dall'insediamento entro i suoi confini d'una così eminente società, per non consigliare caldissimamente al-l'Imperatore di dare il suo consenso non appena ci sia giunta formale richiesta in materia.

La Casa in toto non si mosse, naturalmente. Salomon solo raggiunse Vienna, dove gli fu dato un permesso di residenza in attesa che anche l'azienda dei suoi fratelli si trasferisse nella capitale austriaca. E benché egli aprisse solo un'azienda per conto proprio, nessuno ebbe il tempo di sentirsi deluso; Salomon aveva un modo tutto suo di reagire ai sen-timenti negativi. Prima che il governo avesse potuto riprendere fiato, emise un prestito nazionale di cinquantacinque milioni di gulden; un prestito nazionale di tali proporzioni non era mai stato emesso in Austria prima d'allora.

Questo prese la forma inconsueta e attraente di una lotteria; ma fu solo la prima delle trovate di Salomon. Infatti mise sul mercato solo una parte dei titoli, senza far parola di quelli - molti di più - che tene-va in serbo. Voleva mettere appetito al pubblico degli investitori vien-nesi, non ingozzarlo; e gli rese ancor più gustosi gli hors d'oeuvre con arti persuasone che precorrevano quelle di Madison Avenue. Cominciò una campagna di public relation. Articoli di stampa inneggiarono al risparmio, largirono consigli agli investitori, volgarizzarono il signifi-cato e i meriti dell'alta finanza. Le quotazioni dei titoli salirono veloce-mente; quando Salomon annunciò l'emissione di altri, per un totale di

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trentacinque milioni, vi fu sorpresa, ira... poi la corsa agli acquisti. Tutti coloro che acquistarono titoli del prestito guadagnarono; più

di tutti guadagnò Salomon. L'operazione, avrebbe confessato anni do-po, gli rese sei milioni netti di gulden. Profitti simili, naturalmente, non potevano non provocare un tantino di indignazione; ma era diffi-cile portar rancore per molto tempo a quell'uomo che si comportava con tanta semplicità e modestia. Non essendogli concesso di. possedere una casa, Salomon aveva affittato una camera - una sola - al Ròmischer Kaiser, uno dei migliori alberghi della città.

È vero che poco dopo affittò un'altra camera, poi un'altra, poi un piano intero, e alla fine, senza dar nell'occhio, tutto l'albergo. I ricevi-menti che vi offriva riuscivano straordinariamente sympatisch ai suoi invitati, tutta gente di primissima scelta, fra cui ben presto Salomon potè contare lo stesso Metternich.

L'albergo di Salomon, il Semplice, divenne un luogo dove la gente non solo si divertiva, ma riceveva consigli e anche aiuto pratico. Il vec-chio rivale dei Rothschild, Moritz Bethmann, visitò Vienna poco dopo il '20 e se ne andò stupito. « Salomon si è conquistato l'affetto di tut-ti, » riferì « parte grazie alla sua generale modestia, parte perché è sem-pre così pronto a rendere un favore. Nessuno lascia la sua dimora sen-za essere stato confortato. »

Le persone che Salomon confortava diventavano sempre più im-portanti e redditizie. Nel 1825 egli fu chiamato a finanziare il più de-licato affaire d'amour d'Europa, di cui era parte interessata niente meno che l'arciduchessa Maria Luisa, figlia dell'imperatore d'Austria e vedova del povero Napoleone. Il Congresso di Vienna, considerandola una vit-tima di quel deportato errante di suo marito, le aveva assegnato a titolo di compenso i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla; per consolarla anche meglio, Metternich le mise in casa un giovane maggiordomo di virile bellezza, il generale Adam Albert von Neipperg. Il generale aveva un occhio coperto da una benda nera (conseguenza di una scia-bolata ricevuta in guerra), possedeva notevoli doti per ben figurare in società e consolò così bene l'arciduchessa che il 1° maggio 1817 e poi ancora l'8 agosto 1819 ebbero luogo due eventi, entrambi felici.

Entrambi, oltre che felici, clandestini, perché Napoleone si ostinò a non morire sino al maggio 1821. I frutti d'un così augusto grembo dovettero attendere parecchi mesi prima che si prendesse atto ufficiale della loro esistenza; le loro nascite non furono registrate, le nutrici li cullarono in sale dove nessun estraneo metteva mai piede. Fino al suo

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segreto matrimonio morganatico con il generale, avvenuto nel settem-bre 1821, Maria Luisa finse persino col padre che la piccola Albertina e il piccollo Guglielmo Alberto semplicemente non esistessero.

Se erano i rampolli bastardi di una relazione adulterina, i piccoli erano però anche i nipoti dell'imperatore d'Austria. Sua maestà li creò conti di Montenuovo, dando loro un nome che è l'equivalente italiano di Neipperg (Neu-berg, nuovo monte). Oltre a un nome, i piccoli ave-vano bisogno di un patrimonio da ereditare: il ducato della madre - una sorta di sussidio di povertà - non era ereditario. Bisognava fare qualcosa, e nel modo meno appariscente possibile.

Qualcosa fu fatto. Salomon entrò in punta di piedi sulla scena. A lui fu affidato il compito di provvedere i piccoli Montenuovo d'un patrimonio solido, al sicuro da ogni rischio, senza vendere nessuna delle terre della madre, senza provocare un impopolare aumento del debito pubblico di Parma, senza suscitare inopportuno scalpore.

L'inquilino del Ròmischer Kaiser si mise al lavoro con il suo eser-cito di impiegati; come al solito, trovò una soluzione comoda e inge-gnosa. Maria Luisa doveva dichiarare di aver speso buona parte del suo reddito privato per migliorie a un certo numero di edifici pubblici par-mensi - elencati in una lista accuratamente preparata - e informare i suoi sudditi che a titolo di rimborso si appropriava di circa dieci mi-lioni di franchi appartenenti ai fondi dello stato. Questa somma sareb-be stata immediatamente convertita da Rothschild in titoli, e i titoli venduti per conto di Maria Luisa a gran numero di persone diverse in diversi paesi. Quattro dei dieci milioni sarebbero stati reinvestiti in opere pubbliche affinché, come dichiarava Salomon, « qualunque even-tuale cattiva impressione... possa essere dissipata con l'argomento... che i guadagni sono stati impiegati in opere utili alla comunità... ». Il resto del denaro avrebbe costituito il patrimonio ereditario dei piccoli Mon-tenuovo, un patrimonio al sicuro da chiunque potesse sollevare que-stioni sul loro diritto ad esso o sul delicato argomento della loro genea-logia.

« È molto importante » scriveva Salomon a Metternich « ... che i di-ritti degli eredi legali dell'arciduchessa non possano essere messi in dubbio. La preparazione di titoli al portatore (emessi da un'azienda eminente come la Rothschild), i cui possessori cambieranno di conti-nuo, mi sembra il mezzo più idoneo di far fronte a ogni eventualità. » Nessuno avrebbe mai messo le mani su quei titoli o sul denaro che avrebbero fruttato; glielo avrebbe impedito un'arma più possente dei

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diecimila moschetti di un grande esercito, la diabolica arma dei Roth-schild : la perdita del credito internazionale.

« Tutti i governi » continuava Salomon « che hanno interesse al mantenimento di un sistema creditizio perfettamente solido useranno la loro influenza per evitare che avvenga una cosa simile... Sono lieto di poter dire che confido di risolvere il problema con piena soddisfa-zione di sua maestà l'arciduchessa e di sua maestà l'imperatore e re. »

Quando fu il momento di investire la somma così ottenuta, Metter-nich garantì all'arciduchessa che « la cosa migliore che vostra maestà possa fare è agire in accordo con il suggerimento di Rothschild».

Era lo stesso altero principe che aveva arricciato il naso alle inge-renze dei Rothschild in Francia?

Adesso il primo ministro del più potente impero del continente faceva del suo meglio per compiacere in tutti i modi l'uomo uscito dalla Judengasse. L'anno del "caso Maria Luisa", Salomon annunciò che gli avrebbe fatto piacere vedere insignito di una decorazione il suo correligionario e direttore esecutivo von Wertheimstein. La démarche di un grande regno non avrebbe indotto Metternich a un più circo-spetto gioco diplomatico.

Scrisse al marito di Maria Luisa:

Herr von Rothschild vuole una piccola croce di San Giorgio (dell'ordi-ne di Costantino) per il suo direttore... Non mi sembra cosa di molto buon gusto... conferire una decorazione come questa a un impiegato, e Le suggerisco di rispondere che l'ordine di Costantino è una confra-ternita genuinamente religiosa, e che, siccome la religione ebraica proi-bisce ai suoi fedeli di pronunciare il giuramento previsto dallo statuto dell'ordine, il cancelliere di questo si troverebbe nell'impossibilità di conferire la croce. Temperi il rifiuto con le appropriate espressioni del suo estremo rincrescimento, e tutto finirà in niente. Scriva a Herr Salo-mon in questo senso, ma senza fare il mìo nome, giacché nessuno può considerarsi offeso dalle regole di uno statuto, mentre una ,sola osserva-zione personale può recare danni incalcolabili, ed io ho già al mio pas-sivo la grande colpa di avere impedito che la famiglia Rothschild otte-nesse una decorazione austrìaca. Se sospettasse che sono implicato, fini-rebbe per considerarmi un vero e proprio cannibale.

L'alleanza Metternich-Rothschild sopravvisse anche a questo, e nel 1835 la resero più salda che mai gli intrighi tessuti accanto a un letto

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di morte nel palazzo imperiale. Nei primi giorni del marzo di quell'an-no il vecchio imperatore Francesco fu salassato tre volte, e tuttavia la sua pressione continuò a salire e l'infiammazione polmonare a farsi sempre più pericolosa. Nelle scure sale della Hofburg di Vienna non era sospesa solo la vita d'un uomo, ma anche il futuro d'Europa.

Il cancelliere Metternich era stato il braccio destro dell'imperatore morente. Morto lui, il trono sarebbe passato a Ferdinando, un erede che non brillava per eccessivo acume e che pareva destinato a diventare uno zimbello nelle mani degli zii, gli arciduchi Giuseppe, Carlo e Gio-vanni, tutte altezze di cui Metternich non godeva le simpatie. C'era da temere che oltre all'imperatore cambiasse anche il cancelliere e che Metternich dovesse lasciare il posto al suo avversario conte Kolowrat. Alla Borsa, quest'incertezza provocò un panico che scosse le fonda-menta economiche del governo Metternich.

Cancelliere e banchiere si misero all'opera. Metternich convocò il vescovo Wagner, confessore del sovrano, nel suo ufficio; qui venne re-datto un testamento contenente la clausola: «Indico qui come uomo che caldamente raccomando a mio figlio come un leale consi-gliere che merita tutta la sua fiducia ». Il vescovo portò il documento nella camera di Francesco, e il moribondo inserì di sua mano il nome giusto nel posto giusto. Di lì a poco, a mezzanotte del 2 marzo 1835, rendeva l'anima a Dio.

Non basta: nell'indicare i consiglieri che il nuovo imperatore avrebbe potuto trovare nell'ambito della famiglia, chi aveva redatto il testamento aveva preso anche la precauzione di passare sotto silenzio gli arciduchi Giuseppe, Carlo e Giovanni, raccomandando invece a Ferdinando di ricorrere allo zio più giovane, l'arciduca Ludwig, debole e malleabile quasi come l'ultramalleabile erede al trono.

Mentre Metternich sistemava le cose al palazzo, Salomon (che ve-niva tenuto al corrente degli sviluppi della situazione) correva alla Borsa, dove dichiarò di nutrire la più ferma fiducia nella continuità e prosperità del governo. Si spinse anche più in là : chiese l'appoggio di James, a Parigi, ed entrambi i fratelli fecero un'offerta radicale: se qualcuno voleva vendere titoli austriaci, li avrebbero comprati loro, alla quotazione più alta del giorno. Il mercato ascoltò, si calmò. Gli inve-stitori pro-Metternich vinsero la partita.

« Devo ammettere » riferiva da Parigi l'ambasciatore di Metternich « che l'enorme influenza di Casa Rothschild è riuscita a placare il pa-nico da cui le persone nervose cominciavano a lasciarsi prendere. »

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Qualcuno però continuava a sentirsi inquieto. « Tutti sanno » scri-veva nel suo diario un alto funzionario del governo « che la malattia del nuovo imperatore lo ha reso debole. È pronto a firmare qualunque cosa gli mettano davanti. Adesso abbiamo una monarchia assoluta senza un monarca. »

In mancanza d'altro, c'era un cancelliere assoluto, nella persona del principe Metternich. E c'era Rothschild, suo banchiere assoluto. Nulla e nessuno poteva resistere a Salomon. David Parish, l'elegantis-simo fra i banchieri dell'Europa centrale, l'uomo con cui la Famiglia s'era sentita onorata di concludere un'alleanza ad Aquisgrana, David Parish fece bancarotta e si gettò nel Danubio. Altre grandi banche viennesi, come quella dei Geymueller, chiusero gli sportelli. Salomon sopravvisse, a loro spese, e s'arricchì.

Con una complicata serie di transazioni ottenne in affitto le grandi miniere di mercurio che l'Austria possedeva a Idria. L'unico altro gia-cimento noto di mercurio si trovava in Spagna, con il cui governo, strana combinazione, Nathan stava conducendo negoziati proprio in quel momento. Corrieri facevano la spola fra gli uffici dei fratelli, e presto i Rothschild avevano il monopolio mondiale d'un metallo di vitale importanza, di cui fissavano il prezzo a piacer loro.

Salomon era anche il più grosso banchiere che finanziava la gran-de società di navigazione austriaca Lloyd; finanziò anche la prima im-portante strada ferrata dell'Europa centrale, ma questo fu un evento così curioso e importante che ne parleremo più diffusamente in un ca-pitolo a parte. Divenne un mito, come James o Nathan. Le iniziali dei suoi due nomi S. M., coincidevano con la sigla di Seine Majestàt (sua maestà), e un detto popolare parlava di due sovrani locali, l'imperatore Ferdinando e re Salomon. Non era soltanto uno scherzo. Fra le perso-ne che assediavano l'ufficio di Salomon ce n'erano alcune che gli chie-devano solo una regale "imposizione delle mani"; bastava che re Salo-mon posasse un attimo la palma su un titolo o su un'azione, e il pro-prietario se ne andava sicuro che la quotazione sarebbe salita.

Eppure Salomon non conosceva riposo. Era ancora un ebreo in un'Austria molto "gentile"; era ancora l'ospite di un albergo, anche se un ospite trattato con infiniti riguardi. I suoi fratelli vivevano sfarzo-samente in castelli, e lui, che era altrettanto incalcolabilmente ricco, doveva lasciare dietro di sé una dinastia che non possedeva neppure la più modesta delle case?

Con beneficenze enormi (che andarono dalla costruzione di ospe-

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dali interi al finanziamento del servizio idraulico municipale) e con enormi pressioni, costrinse Vienna a metterlo legalmente su piede di parità con il suo cameriere: diventò un cittadino in piena regola. Adesso poteva comprare l'albergo Ròmischer Kaiser. Ma era un Roth-schild; un edificio solo non bastava ad alloggiarlo con tutto il suo se-guito, ed inoltre poteva permettersi tenute pari a quelle dei più grandi principi dell'impero. Il passo successivo consistette nel prendere in affitto e poi, con un altro permesso speciale, nel comprare gli immensi impianti per la lavorazione del carbone e del ferro di Vitkovice nella Slesia. Sotto Hitler e anche ai nostri giorni questo acquisto era desti-nato ad avere ripercussioni drammatiche. Nel secondo quarto del di-ciannovesimo secolo, Vitkovice significò per Salomon il possesso di una tenuta industriale: era quasi come essere un grande proprietario terriero... ma non proprio la stessa cosa.

E Salomon voleva, più d'ogni altra cosa al mondo, essere un gran-de proprietario terriero. Di lì a poco giunse all'imperatore una sup-plica con cui Rothschild chiedeva di poter acquistare una proprietà in Moravia. Subito i nobili della provincia insorsero. Condividere i loro privilegi con un ebreo! Voleva dire declassarli.

Salomon sospirò. Avrebbe dovuto ricorrere ancora alla tecnica del-l' "una stanza per volta", la tecnica del Ròmischer Kaiser. Placò le sde-gnose proteste di nobili labbra mettendo qualcosa di piacevole in no-bili mani; dal principe Esterhazy (compreso) in giù, praticamente tutti i nobili austriaci cominciarono a valersi dei suoi prestiti. Si rese più utile che mai al vecchio amico Metternich. Nella briosa contessa Me-lanie Zichy-Ferraris il cancelliere sposò la sua terza moglie e una debi-trice di Rothschild. Adesso c'era un grande scambio di cortesie fra lo Schloss Johannisberg di Metternich e la casa di Salomon a Vienna: del "nostro Salomon", come Melanie non si peritava a chiamarlo nean-che in presenza dell'imperatore. A Parigi, la moglie di James comprava a Melanie deliziosi vestiti; da Napoli, la moglie di Kalmann le inviava sciarpe di tradizionale e squisita fattura locale; da Londra giungevano in dono pianticelle e fiori preziosi. C'erano tutte queste cose. C'erano le incomparabili opere filantropiche di Salomon (il governatore della Slesia riferiva che le istituzioni fondate da Salomon a Vitkovice erano "una benedizione e un modello per tutto il paese"). E c'erano allusioni discrete ma instancabili.

Nel 1843 Salomon ottenne quello che voleva, superò l'ultimo ba-stione del privilegio; ebbe il permesso di comprare una proprietà agri-

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cola ereditaria. Comprò dunque, quasi d'un sol colpo, quattro immense e splendide proprietà, in Moravia, in Prussia e in Slesia, tutte com-plete di castelli, fossati, cascate, laghi, cigni, pavoni, bestiame, grotte, ruscelli, stalle, scuderie e riserve di caccia. D'improvviso era diventato uno dei più grandi proprietari terrieri dell'impero.

Diventò anche qualcosa di più. Nell'ottobre 1845, al tempo del-l'improvvisa crisi della Borsa viennese, Salomon si trovava a Franco-forte per assistere a una conferenza della Famiglia. Con un messaggio urgente, recatogli tramite l'ambasciatore austriaco, lo si pregò di tor-nare immediatamente : il cancelliere dichiarava che era essenziale alle finanze dello stato che Salomon o un suo rappresentante - nella persona di un altro Rothschild - fosse sempre presente a Vienna. La presenza fisica di Salomon era diventata indispensabile all'Austria.

O, per meglio dire, all'Austria di Metternich. Ma che sarebbe ac-caduto quando fosse finita l'era del cancellierato assoluto? Che sarebbe stato allora del banchiere assoluto?

Nel febbraio 1848 Luigi Filippo fu cacciato dal trono di Francia, mettendo in temporanee difficoltà l'amico James di Parigi. Neanche Salomon aveva motivo di essere contento. Il clamore delle barricate di Parigi si levava così alto, con tale improvvisa furia democratica, che l'eco si udiva anche nei più chiusi salotti viennesi. Il primo ministro di sua maestà aveva ormai compiuto i sessantasei anni, ma aveva an-cora l'orecchio fino. « Se il diavolo porta via me, » disse al vecchio Salomon « porta via anche lei. »

Sua altezza fu portato via alle otto di sera del 13 marzo. Per tutto il giorno i viennesi avevano marciato in corteo per le strade, bruciando il cancelliere in effigie. Metternich diede le dimissioni. Venti ore dopo l'uomo che portava il nome più formidabile d'Europa fuggì a Franco-forte con mille ducati in contanti prestatigli da Salomon, più una let-tera di credito Rothschild.

Il turno del banchiere venne nel giro di pochi mesi. Il 6 ottobre un'altra folla di rivoluzionari fece irruzione del Ròmischer Kaiser per assediare il vicino arsenale. S. M. fuggì in Germania e non mise mai più piede a Vienna, neppure dopo il ritorno dell'ordine.

Ma il diavolo poteva portarlo via solo in quanto persona, non in quanto Rothschild. Prima di tutto e soprattutto Salomon incarnava il clan che mantenne la continuità della casa di Vienna nella splendida incarnazione del figlio di Salomon, Anselm. Le grandi famiglie sono più durature dei grandi uomini. Anche il cancelliere assoluto ebbe dei

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discendenti. Ogni anno l'attuale principe di Metternich manda una cassa del suo vino Schloss Johannisberg, il più squisito vino del Reno, al barone Elie de Rothschild di Parigi. Ogni anno Elie contraccambia con alcune sceltissime bottiglie del suo Chàteau Lafite, una delle grandi marche di Bordeaux. Ogni anno le due famiglie si fanno visita nei rispettivi palazzi.

Perlomeno in questa misura, i nobili sono sopravvissuti alle folle.

Quarto: Carl, il barone "mezzuzà"

« Rothschild ha baciato or ora la mano del papa » scriveva una penna maligna nel 1832 « e andandosene ha espresso nei termini più graziosi la sua soddisfazione per il comportamento del successore di san Pietro... gli altri devono chinarsi a baciare il piede del santo Padre, ma ad un Rothschild si porge la mano. »

L'elemento più interessante dell'evento di cui stiamo parlando sta non nel fatto che a un Rothschild si desse da baciare qualcosa di me-glio d'un piede, ma che il Rothschild così onorato si chiamasse Cari : un nome che fin allora non aveva auto grande spicco nelle cronache della Famiglia.

Cari (noto come Kalmann nelle fasi iniziali della sua carriera) im-piegò parecchio tempo ad acquistare l'influenza mondiale, l'incisività, la prontezza di riflessi di Nathan, James e Salomon. TranquiUo nei modi, quasi impacciato nel parlare, ancor più panciuto degli altri Rothschild, osservava rigorosamente le norme della sua religione. Pri-ma del bacio in Vaticano, il soprannome con cui Cari veniva chiamato in famiglia era mezzuzà: mezzuzà è il piccolo rotolo chiuso in un astuccio che si fissa allo stipite destro della porta nelle case ebraiche. Il pio ebreo la bacia all'inizio di un viaggio, e nelle sue prime fasi la vita di Cari fu tutta un viaggio: svolgeva le mansioni di principale corriere della Famiglia. Fino al marzo 1821 rimase senza Portafoglio; poi, quando la Famiglia ebbe troppe satrapie e troppo pochi satrapi, i fratelli ricorsero a lui.

Tutto cominciò con il Congresso di Lubiana, un festival politico caratteristico dell'epoca, cui parteciparono i più grandi sovrani d'Euro-pa. A Lubiana venne presa la decisione di restaurare la monarchia as-soluta, e quindi "legittima", dei Borboni a Napoli. Gli altri monarchi

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riuniti autorizzarono l'intervento di un esercito austriaco che avrebbe provveduto allo scopo. Naturalmente venne chiesto ai Rothschild di occuparsi del finanziamento della spedizione.

Ma quale Rothschild doveva incaricarsene? Nathan di Londra di-mostrava poca simpatia per un'avventura antiliberale, e inoltre era oc-cupatissimo a negoziare emissioni per parecchi milioni di sterline. James di Parigi era tutto preso a puntellare i Borboni con montagne di franchi. Amschel di Francoforte non poteva distrarsi neanche per un giorno dai suoi compiti attuali, che consistevano nel finanziare la ricostruzione postbellica nei paesi tedeschi. Quanto a Salomon di Vien-na, era immerso fino al collo nei suoi prestiti a lotteria, che gli davano tutto il lavoro e tutta la pubblicità di cui sentiva il bisogno, e magari un tantino in più.

« Considero mio dovere evitare tutto ciò che potrebbe richiamare l'attenzione su di me » scriveva implorante a Metternich. « Un viaggio a Lubiana in questo momento avrebbe appunto questo indesiderabile effetto. »

Rimaneva solo un fratello, del quale nessuno sapeva molto né mol-to si curava. Un petit frère Rothschild, lo definiva il ministro austriaco delle finanze, benché in realtà Cari avesse quattro anni più di James. Scegliendolo, la Famiglia si rese conto che avrebbe creato il sovrano finanziario della penisola italiana? Perché appunto questo egli divenne. Non appena gli venne offerta un'occasione degna di un Rothschild, mezzuzà si dimostrò all'altezza del nome. A Lubiana, sbozzò rapida-mente lo schema del sussidio nelle sue linee essenziali : Vienna avreb-be prestato una certa somma a Napoli, che avrebbe pagato il debito coprendo le spese dell'occupazione austriaca.

In breve, i Rothschild diedero mano a una delle operazioni per cui andavano famosi: convertire crisi in titoli. Ma questa volta sarebbe stato Cari a manovrare le leve di controllo. A Lubiana cominciò col posare le fondamenta, e a tempo perso fece anche un altro lavoretto : prima che il Congresso si sciogliesse, il re di Napoli prese a prestito dall'imperatore d'Austria qualche migliaio di gulden; Cari si occupò della piccola transazione. Come i suoi fratelli, era adesso un banchiere di monarchi.

Non meno sorprendente di quella dei fratelli si rivelò la sua agili-tà. Subito dopo Lubiana, in uno stato dell'Italia settentrionale scoppiò un'insurrezione semi-giacobina. Cari volò da sua maestà il re di Napo-li, che indugiava innervosito a Firenze. Cari era sempre stato svelto,

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per un uomo della sua mole, ma adesso l'animazione del nuovo lavoro cominciò a sciogliere una lingua sin allora torpida. Tutto eloquenza, predisse che presto i dragoni austriaci avrebbero schiacciato la sedizio-ne sotto i loro calcagni. Fu quello che accadde. Tutto fermezza, Cari spinse verso sud il suo dubitoso Borbone.

Era tutto forza quando arrivò a Napoli; e doveva esserlo. Una coa-lizione di finanzieri italiani proclamava di poter condurre in porto l'operazione prestito militare a un costo inferiore per il regno. Cari ricorse prontamente al generale austriaco comandante le forze d'occu-pazione, e il prestito rimase affidato solo a lui.

Entro il 1827 la banca appena fondata da Cari a Napoli era diven-tata una sorta d'istituzione pubblica che pagava i soldati che mantene-vano il re sul trono. Cari esercitava la sua influenza sulla corte, e agiva per conto di quella. Se prima era stato il "braccio finanziario" dell'Au-stria a Napoli, adesso diventò il massimo difensore degli interessi di Napoli presso Vienna; quando la posizione del re parve abbastanza sicura, furono le argomentazioni di Cari quelle che convinsero Metter-nich a ritirare le sue truppe.

Com'era inevitabile, la banca di Cari diventò la più grande del regno. Egli potè apporre le sue mezzuzà agli stipiti del più bel palazzo che sorgesse sulla costa del golfo, e intrattenere sontuosamente nei suoi saloni l'aristocrazia locale. Il duca di Lucca, Leopoldo di Sassonia-Co-burgo (divenuto poi il primo re del Belgio), ogni gran signore di pas-saggio bevvero e banchettarono con l'ultimo Rothschild, quello di Na-poli. Il suo denaro fluì attraverso le casse del tesoro di quasi tutti gli stati italiani : aiutò il granduca di Toscana a bonificare le sue paludi, riempì i forzieri del regno di Sardegna in una serie di tredici prestiti nazionali per un ammontare complessivo di oltre ventidue milioni di sterline, fertilizzò i domini del papa.

Naturalmente, Cari insistette per ottenere formale promessa che il Vaticano avrebbe modificato il proprio atteggiamento antisemitico. Si spinse persino a parlare di sua santità, in alcuni documenti contrattua-li, come dello "stato romano". I suoi ducati, anche se non battezzati, furono egualmente i benvenuti. Il 10 gennaio 1832 accadde l'evento da cui abbiamo preso le mosse : papa Gregorio XVI ricevette Cari von Rothschild, gli offrì di baciare un'estremità più nobile del solito piede, e appuntò l'Ordine di san Giorgio al risvolto del barone ebreo.

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Quinto: Amschel dei fiori

I quattro fratelli di cui abbiamo parlato sinora condividevano certe caratteristiche: un'insaziabile libido commerciale, un'energia da animale da preda sempre pronto al balzo. Fino alla morte possedet-tero una giovanilità che non conosceva stanchezze o meglio ne furo-no posseduti. Amschel era diverso da loro, e non soltanto perché era magro e sottile. La sua immagine giunge a noi avvolta in un vago sentore d'umido e di muffa, come d'una camera di vecchio prete.

Quando il patriarca Mayer morì, Amschel, il maggiore dei figli, ereditò la banca di Francoforte, la posizione di capofamiglia e il bizzarro carattere di suo padre. Rese giustizia a tutti questi legati.

Rimase nella città natale benché fosse ben presto messa in ombra dalle grandi capitali dei fratelli, e benché il grido immemorabile dei pogrom tedeschi - « Hepp! Hepp! » - continuasse a risuonare per le vie. Con uno schiocco delle dita Amschel avrebbe potuto far sor-gere palazzi in terre più ospitab; ma rimase, e pazientemente rac-colse le pietre lanciate contro le sue finestre.

Una volta una folla ostile si radunò davanti alla sua grande casa, adesso molto lontana dalla Judengasse. Amschel apparve su un bal-cone. « Miei cari amici, » disse « voi volete dei soldi dal ricco ebreo. Ci sono quaranta milioni di tedeschi. Io ho pressappoco altrettanti fiorini. Per cominciare, getterò un fiorino a ciascuno di voi. » La folla tese le mani congiunte a coppa, prese le monete e se ne andò.

Sotto certi punti di vista, Amschel passò il resto della vita a dire alle folle di andare a casa. Diventò il grande elemosiniere e il grande protettore degli ebrei tedeschi; contribuì ad eliminare le catene della Judengasse; esercitò - e alla fine con buon esito - la sua influenza per ottenere l'affrancamento degli ebrei, per farne dei liberi cittadi-ni di Francoforte.

Amschel era il maggiore dei Rothschild. Era quindi suo compito chiedere onori e cariche consolari per conto dei fratelli; condolersi o congratularsi con imperatori e re; fare da portaparola dei Cinque Grandi. V e una sorta di convenienza estetica nel fatto che il capo formale della Famiglia fosse, dei cinque figli di Mayer, il più attac-cato alle tradizioni. In Amschel (che non avrebbe mai tollerato il compromesso per cui Jacob diventò James e Kalmann Cari) la vena medievale del ghetto pulsava più forte.

Quando già da gran tempo aveva al suo comando una schiera

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di impiegati perfettamente in grado di tenergli la corrispondenza, egli si ostinava ancora a comporre lui stesso le sue lettere, fiorendole di troppi arcaici e di anomalie ortografiche yiddish. La sua abitudine di indirizzare all' "altissimo Herr Comishario" le sue missive al com-missario generale britannico divertiva i suoi fratelli e lo stesso "Co-mishario". Questo era, di là da tutte le formalità e cortesie, il suo modo di essere se stesso. Più tardi, quando i Rothschild comincia-rono ad avere corrispondenti di livello imperiale, Amschel dovette adattarsi a filtrare questo se stesso attraverso scribi e calligrafi. Tutta-via, congratulandosi col cancelliere Metternich per la guarigione del-l'imperatore Francesco, terminava : « ... e possa sempre la mia buona fortuna concedermi di chiamare me stesso il più umile e devoto ser-vitore di Vostra Altezza»; una frase che ci ricorda lo stile di suo padre e anche, forse, il segreto sogghigno del vecchio Mayer.

Amschel mantenne anche un'altra tradizione della famiglia: il legame con la Casa d'Assia. Un tempo tale legame era stato rappre-sentato dalla fortuna affidata dal langravio Guglielmo a Mayer; ades-so il denaro percorreva la strada opposta: il figlio di Mayer finanziava il figlio di Guglielmo. Capitava spesso che Amschel, dopo aver pas-seggiato per le strade della città in costume ebraico - era la sua for-ma preferita di esercizio fisico - all'ora di colazione capitasse d'im-provviso a palazzo. Sua altezza e la famiglia erano sempre pronti ad accoglierlo con speciali piatti khashèr. « Niente d'insolito » afferma uno stupito cronista cittadino « che a mezzogiorno pranzassero en famille col loro amico d'affari. »

Anche altri principi tedeschi tendevano ad Amschel la mano, pal-ma in su. Divenne tesoriere della Confederazione Germanica che te-neva le sue riunioni a Francoforte, e così in un certo senso il primo ministro delle finanze dell'impero prussiano nato poi dalla Confede-razione. In tutti gli investimenti (redditizi) ad est del Reno e a nord del Danubio, lui - un gigante fra i banchieri tedeschi - aveva lo zampino; centinaia di fabbriche, ferrovie e strade tedesche devono la loro nascita alle decisioni prese - fatti i debiti calcoli - negli uffici della Fahrgasse di Francoforte.

Come si conveniva alla sua ricchezza, Amschel aveva un tenore di vira principesco. Possedeva parecchi titoli e decorazioni, benché di regola portasse solo il nastro della Corte di Assia e si facesse chia-mare semplicemente "Herr Baron". Tutti gli stranieri in visita a Fran-coforte, compresi i diplomatici ivi accreditati, lo trattavano con molto

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rispetto; accorrevano a frotte ai suoi banchetti, e contraccambiavano gii inviti. Ma Amschel mangiava solo cibo khashèr, e poco gustava i piaceri della vita di società.

« Uno strano uomo, » lo definiva una delle sue conoscenze « dal-la fisionomia decisamente orientale, e con i modi e le abitudini di un ebreo d'altri tempi. Porta il cappello spinto indietro fin sulla nuca, il cappotto aperto che gli cade negligentemente dalle spalle... Come un capo derviscio, siede su una piattaforma sopraelevata in mezzo ai suoi impiegati, con i segretari ai piedi e gli agenti che vanno e vengono intorno a lui... Non permette a nessuno di parlargli in pri-vato di questioni d'affari; nell'ufficio ogni cosa viene discussa in pub-blico, come alle antiche corti del Reno. »

Le ore di lavoro di Amschel erano lunghe come quelle dei suoi dipendenti; le ore di riposo più brevi. Anche quando andava a tea-tro, spesso doveva abbandonare la sala per ascoltare il rapporto di un corriere appena arrivato in città. Di notte lo svegliavano perché leg-gesse dispacci da Vienna, Parigi, Londra, Napoli e vi rispondesse; a questo scopo teneva una scrivania accanto al letto. Da quel genio degli affari che era, sapeva decidere immediatamente se accettare o respingere una proposta, orale o scritta che fosse; esprimeva la sua opinione in poche parole, e una volta comunicata succintamente la sua decisione, nulla al mondo lo avrebbe indotto a riprendere in esame l'argomento.

Diversamente dai fratebi, Amschel portava la propria ricchezza e il proprio potere come un peso, in un suo modo senza gioia e quasi un poco monacale. «Non ho mai visto un uomo così angosciato» commentava un contemporaneo « battersi tanto il petto e implorare la misericordia del cielo, come il barone Rothschild nel lungo giorno [Il Giorno dell'Espiazione] alla sinagoga. Spesso sviene per la fatica dell'interminabile preghiera, e allora gli portano piante aromatiche del suo giardino e gliele fanno annusare perché riprenda i sensi. In passato si affliggeva gravi mortificazioni per ottenere dal cielo il dono d'un figlio; ma tutto si è rivelato vano. »

Questo era il punto dolente, la piaga segreta di Amschel; gravava su di lui il peso di un matrimonio senza amore, che nessun figlio aveva benedetto. Dei cinque rami della Famiglia, la casa di Franco-forte, quella da cui le altre avevano preso origine, sarebbe stata la sola a non continuare in linea diretta.

Amschel non sapeva rassegnarsi all'infecondità del suo matrimo-

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nio. Tentò la preghiera, tentò innumerevoli opere buone. Le sue be-neficenze ufficiali ammontavano a oltre 20.000 gulden l'anno: nove volte il reddito totale dell'agiatissima famiglia di Goethe. L'ospedale ebraico di Francoforte viveva dei suoi sussidi; della sua carità cam-pava la maggior parte delle famiglie più povere della Judengasse.

Oltre a tutto questo, egli donava un numero incalcolabile di pic-cole somme a tutte le ore del giorno, specialmente quando passeg-giava o cavalcava per la città, e persino mentre mangiava. Parecchi ospiti riferirono infatti come, durante i pasti, lettere di supplica en-trassero più d'una volta dalla finestra per atterrare sulla tavola; come il barone, quasi automaticamente, avvolgesse nel foglio una moneta d'oro e se la gettasse alle spalle in una curva che la pratica aveva reso perfetta; come un servo dovesse riferire se la missiva aveva rag-giunto il destinatario.

Nulla valeva a rendere fecondo il grembo di sua moglie. Per di-strarsi, Amscheld tentò di imparare le lingue straniere che i suoi fra-telli parlavano; ma nella sua memoria riuscivano a fissarsi solo cifre e preghiere. Tentò persino di diventare un cavallerizzo, ma gli parve di notare che la gente si portava la mano alla bocca quando lo vedeva passare, vestito d'un caffettano, a cavalcioni d'un purosangue. Rinun-ciò anche a questa velleità. Non aveva più che la sinagoga, e i giar-dini: la sua più grande gioia terrena. Li riempì dei fiori più rari e squisiti e di deliziosi animali; qui, finalmente, poteva veder cre-scere e far crescere giovani creature. E qui ricevette un giovane prus-siano che doveva diventare il leggendario Cancelliere di Ferro: Otto von Bismarck.

Nel 1851 la Prussia nominò Bismarck proprio rappresentante alle riunioni di Francoforte della Confederazione germanica. Il vec-chio Amschel, con la sua vista acuta, non tardò a notare il nuovo venuto. Il giovanotto aveva più o meno la stessa età che avrebbe po-tuto avere il suo figlio mai nato; e presto il nuovo rappresentante prussiano ricevette un biglietto in cui Io si pregava di una visita in Casa Rothschild. Come sempre, il barone aveva un'agenda piuttosto fitta, e quindi l'invito era per parecchio tempo dopo; Bismarck ri-spose che sarebbe andato certamente, se era ancora vivo. Una let-tera alla moglie rivela quanto il giovanotto fosse lusingato della reazione del famoso banchiere ebreo.

« Il barone Rothschild » scriveva « è rimasto così impressionato dalla mia risposta che ne ha parlato con tutti e va in giro dicendo:

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"Perché non dovrebbe essere vivo? Perché dovrebbe morire? È gio-vane e ha l'aria così robusta!"... Il barone a me piace, perché è un autentico vecchio merciaiolo ambulante ebreo e non finge di essere altro; è osservantissimo, e ai pranzi mangia solo cibo khashèr. "Porta del pane per il daino" ha detto al servitore mentre usciva di casa per mostrarmi il giardino dove tiene un daino addomesticato. "Que-sta pianta" mi ha detto "mi costa duemila gulden; sul mio onore, mi costa duemila gulden in contanti. Lei può averla per mille; o se la vuole come regalo, il servo gliela porterà a casa. Dio sa se lei mi è simpatico, lei è un bravo e bel giovanotto." E lui è un ometto così piccolo, magro, sottile... senza figli, un poveruomo nel suo pa-lazzo.»

Bismarck era molto orgoglioso della sua amicizia con il povero piccolo bizzarro ebreo; alla lettera accludeva due foglie prese nel giardino del barone Rothschild e pregava sua moglie di conservarle con cura.

C'erano altri giovani a cui Amschel dedicava ancora più atten-zione: i rampolli dei fratelli, a cui guardava con occhio invidioso ma pieno d'affetto. I giovani Rothschild lo interessavano più che mai quando giungevano al momento cruciale del processo dinastico: il matrimonio. Amschel esercitava un superiore controllo sulla politica matrimoniale deba Famiglia: i ragazzi dovevano scegliere delle mogli Rothschild o per lo meno ebree; alle ragazze si poteva permettere, qualche volta, un aristocratico cristiano. (Hannah, figlia di Nathan, accettò, dopo aver superato una certa resistenza della Famiglia, un figlio del barone di Southampton, l'Hon. Henry Fitzroy. Delle nipoti di Hannah, la sua omonima Hannah Rothschild sposò il conte di Rosebery, futuro primo ministro dell'impero; Annie Rothschild di-venne nuora di lord Hardwicke; Constance Rothschild andò in mo-glie a lord Battersea. Sul continente, una delle nipoti di Cari diventò duchessa di Gramont, mentre sua sorella sposò il principe di Wagram.)

Sino all'ultimo giorno della sua vita che durò ottantun anni, Amschel insistette perché tutti i matrimoni fossero celebrati a Fran-coforte. Non sempre riuscì nell'intento, ma se non altro seppe co-stringere tutte le sposine Rothschild - comprese le "gentili" di azzur-rissimo sangue - a sottomettersi a uno strano rituale. Anche se le nozze non venivano celebrate a Francoforte, la sposa doveva raggiun-gere immediatamente la città con corteo al completo, e fermarsi alla casa di Amschel. Nel suo migliore caffettano, Amschel ne usciva, si

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metteva alla testa del sontuoso corteo e lo guidava in direzione del ghetto. A un certo punto, si giungeva ad una strada troppo angusta per le splendide carrozze; bisognava scendere e proseguire a piedi, camminando sui ciottoli, sino a una casa lunga e stretta, con la fac-ciata scolorita dalle intemperie e una porta tanto piccola che le si-gnore in toilette di gala stentavano a passarci.

Nella casa del ghetto viveva ancora - per sempre, pareva1 - Gu-tele Rothschild, imperatrice madre della finanza mondiale. Nessun nuovo venuto, per quanto nobile, era veramente ammesso a far parte della Famiglia prima che Gutele lo avesse visto, giudicato, approvato. Qui, all'Insegna Verde, la gente veniva a renderle omaggio.

Qui, giovane moglie d'un venditore di monete antiche, Gutele aveva un tempo cotto minestre, spazzato pavimenti, lavato camicie, mentre il marito e i figli conquistavano ricchezza e potere; di qui non si sarebbe mossa. E siccome a ovest degli Urali a stento si sa-rebbe trovato un casato che non l'avesse voluta come ospite, ebbene, i casati andavano a lei. Qui, nell'ombra antica, le duchesse si inchi-navano, e i potenti dal petto carico di decorazioni si curvavano a ba-ciare la vecchia mano ruvida. Ammiravano obbedienti il serto nuziale di Gutele, che appassiva sotto vetro da molto più di mezzo secolo.

La vecchia, vestita di rigidi merletti, si moveva poco; sotto lo sheitel (la parrucca della moglie ebrea osservante) sorrideva di rado. Ma la lingua era svelta, tagliente, arguta. Quando un nobile visitatore osservò che Frau Rothschild sarebbe sopravvissuta a tutti i suoi ospiti, essa rispose imitando maliziosamente il gergo di Borsa dei figli: « Perché Dio dovrebbe prendermi a cento quando può avermi a no-vantaquattro? ». Quando un'altra altezza le offerse il suo medico per-sonale, un mago che godeva la fama di ringiovanire di vent'anni i suoi pazienti, Frau Rothschild ribatté: «La gente crede sempre che io voglia ringiovanire. Ma io voglio invecchiare ».

A un segnale di Amschel, gli illustri visitatori prendevano con-gedo. Più tardi, le parole di Gutele sarebbero state ripetute nei mi-gliori salotti. Ma la sua frase più famosa fu pronunciata un attimo dopo che una di quelle eleganti comitive era sparita dentro alle sue carrozze. Una vicina del ghetto corse in casa di Gutele; era preoccu-pata per i suoi figli, che avevano appena raggiunto l'età del servizio militare, e chiese a Frau Rothschild se avesse avuto dai grandi per-

1 Morì a novantasei anni, quando Amschel ne aveva settantacinque.

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sonaggi qualche notizia fresca: ci sarebbe stata pace oppure guerra? « Guerra? » rispose semplicemente Gutele. « Sciocchezze. I miei

ragazzi non permetteranno che facciano la guerra. » Come sempre aveva ragione. "I miei ragazzi non permetteranno"

era una frase che riassumeva buona parte della politica invisibile del diciannovesimo secolo.

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Al governo dell'Europa

VENDITORI DI PACE

I figli di Gutele avevano fatto fortuna durante le guerre napo-leoniche. Ma adesso che avevano con così superba abilità cavalcato una tigre, decisero di mettere al bando le tigri. I grandi sconvolgi-menti sociali tornano comodi ai giovanotti ambiziosi, non agli uomi-ni arrivati. I Rothschild erano adesso banchieri di imperi e conti-nenti: di tutti i principali paesi europei, della Russia eurasiatica, delle Americhe, delle Indie. Si è calcolato che la sola Banca di Londra trattò prestiti stranieri per un valore di 6.500 milioni di dollari du-rante i primi novantanni di esistenza. A Parigi, Vienna, Francoforte, Napoli, le potenti banche dei fratelli avevano in gioco interessi non meno vasti. Intorno alle casseforti dei Rothschild faceva perno il cre-dito del mondo occidentale.

Naturalmente, gli investimenti dei figli di Gutele dipendevano dalla stabilità delle nazioni. «Abbiamo un patrimonio di 900.000 rentes [per il valore nominale di 18 milioni di franchi] » scriveva James a Salomon nel 1830. «Con la pace, varranno il 75 per cento, in caso di guerra scenderanno al 45 per cento. »

Così i fratelli diventarono i più combattivi pacifisti che il mondo abbia mai conosciuto; e occorrono assai più potere, genialità, abilità diplomatica per mantenere la pace che per predicare la guerra. La Famiglia aveva bisogno di tutta la sua forza. Mentre le signore bril-lavano nei loro salotti e saloni, mentre i figli partecipavano alla cac-cia alla volpe in compagnia dei rampolli della più alta nobiltà, gli uomini lavoravano e faticavano come sempre, intercettando folgori lungo il tragitto da una cancelleria di stato all'altra.

Li aiutò nel compito la loro incomparabile, incrollabile solidarietà. Il codice yiddish-tedesco che avevano cominciato a usare quando, giovani avventizi, lavoravano sotto la guida di Mayer, serviva ora per i messaggi che le cinque grandi istituzioni nazionali si scambia-vano incessantemente (come il langravio Guglielmo di Assia era stato

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chiamato un tempo "Herr Goldstein", così il cancelliere principe Met-ternich era adesso lo "zio"). Il sistema comune di cui i fratelli si vale-vano per il trasporto della loro corrispondenza era diventato un'im-mensa rete continentale operante per via di terra, di mare e d'aria. Waterloo non era stato'l'ultimo bensì il primo dei grandi "colpi" che il sistema aveva reso possibili.

Il 13 febbraio 1820 il duca di Berry, erede presunto di Lui-gi XVIII, fu assassinato davanti all'Opera di Parigi. Immediatamente James spedì messaggeri a Londra, Vienna, Francoforte; le Case Roth-schild seppero così che la speranza dei Borboni era morta molto prima che i governi dei rispettivi paesi e i rivali di Borsa avessero sentore dell'accaduto. Nel 1830 i piccioni viaggiatori di James batterono sul tempo tutti gli altri nunzi che recavano notizia della rivoluzione di luglio; e pare che a Londra Nathan sia stato il primo a sapere del-l'ascesa al trono di Luigi Filippo.

Il vento, quando non portava i piccioni dei Rothschild, riempi-va le loro vele. « Il governo inglese » scriveva Talleyrand alla sorella di Luigi Filippo « è sempre informato di tutto dai Rothschild dieci o dodici ore prima che arrivino i dispacci dell'ambasciatore britannico, Non può essere diversamente, dato che le imbarcazioni usate dai cor-rieri Rothschild appartengono alla Casa; non prendono a bordo pas-seggeri e salpano con qualsiasi tempo. »

La Famiglia aveva creato un'organizzazione postale più sicura di queba di altre grandi potenze, e i governi di vari paesi presero a va-lersi dei suoi postiglioni internazionali. Venne così a crearsi una situa-zione curiosa. Nel diciannovesimo secolo - come del resto nel no-stro - i servizi postali erano uno strumento non solo per trasportare lettere, ma anche per vedere che cosa ci fosse scritto; e il servizio postale austriaco era uno dei più indiscreti. Uno zelante direttore di ufficio postale scriveva a Vienna : « Ho spesso notato che i cor-rieri Rothschild che vanno da Napoli a Parigi... portano con sé tutti i dispacci degli ambasciatori francesi, inglesi e spagnoli ac-creditati a Napoli, Roma e Firenze. Inoltre si occupano di tutta la corrispondenza fra le corti di Napoli e Roma e le loro legazioni in tutt'Europa... Questi corrieri Rothschild viaggiano via Piacenza. Dato che abbiamo là una guarnigione austriaca... sarebbe forse possibile "indurre" l'uno o l'altro di quei postiglioni a lasciarci dare un'occhia-ta ai loro dispacci... s>.

La questione parve abbastanza importante da essere proposta al-

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l'attenzione del cancelliere. Metternich venne a trovarsi in un delica-tissimo dilemma: da una parte, sarebbe stato delizioso poter leggere non solo la posta diplomatica straniera ma, soprattutto, i messaggi confidenziali di quei suoi cari, imperscrutabili amici, i Rothschild; dall'altra, lo stesso cancelliere approfittava spesso dei supermessaggeri con berretto giallo e blu della Famiglia, e correva quindi il rischio che un qualsiasi funzionario delle poste venisse a conoscenza dei suoi segreti di stato.

Metternich era una volpe vecchia. Ecco come suonò il suo ordine :

I corrieri di Casa Rothschild che viaggiando fra Napoli e Parigi passano per la Lombardia devono essere considerati e trattati come corrieri austrìaci quando recano dispacci con il sigillo imperiale e reale (austriaco}... Se però fossero trovati a trasportare messaggi che non recano nessun segno o sigillo indicante che sono di natura uf-ficiale {austriaca}, quei messaggi saranno soggetti ai normali rego-lamenti in vigore.

La Famiglia era una volpe più vecchia ancora. Capi che alcune delle sue lettere venivano aperte. Capì anche che Metternich avreb-be prestato fede a notizie poco credibili, se non avesse pensato che erano state scritte perché le leggesse lui. Ai fratelli premeva, come abbiamo detto, la pace; soprattutto fra l'Austria e la Francia. Fu così che dalla Casa di Parigi partì alla volta di quella di Vienna una lettera "riservatissima" in cui venivano accuratamente riferite le lusinghiere osservazioni pronunciate dal re di Francia a proposito del cancelliere austriaco; la Famiglia aveva messaggeri bravissimi a farsi intercettare.

La Famiglia aveva anche una forma prodigiosamente mutevole. I suoi corrieri la tenevano saldamente unita; ma quando riceveva una richiesta imbarazzante - di fondi per gli armamenti, supponiamo -si divideva in cinque lontanissimi e decentratissimi fratelli. «Vostra eccellenza » suonava in casi come questi la risposta del portaparola Amschel «... Vostra eccebenza certo non ignora che posso prendere una decisione solo dopo essermi consultato con i miei fratelli assenti... tenterò quindi di informarli della Vostra richiesta. » Disgraziatamen-te, saltava fuori che Salomon stava facendo una cura che lo teneva occupatissimo; che le comunicazioni con Cari erano state tagliate da

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un'insurrezione italiana; che James era in viaggio da qualche parte e Nahtan a letto con l'influenza.

Il fatto di essere in cinque costituiva per i fratelli uno strumento di cui si sapevano valere nei modi più impensati. A un certo punto, Bismarck scoprì che Amschel, amico suo e dei fiori, aveva la sfac-ciataggine di appoggiare finanziariamente l'Austria contro la Prussia. Protestò. Amschel si mise a letto malato, il che equivale a dire che diventò inaccessibile. Bismarck fece le sue rimostranze agli altri Roth-schild, e gli altri Rothschild si dichiararono stupiti, impensieriti, scan-dalizzati per il comportamento del vecchio Amschel, fuorviato da cattivi consigli, debilitato dall'età.

Poi ci fu il caso di Nathan, che finanziò il partito liberale e quindi anti-Metternich, nella guerra civile spagnola. Metternich fece fuoco e fiamme. Allora James si lagnò con Salomon in una lettera debitamente intercettata: Nathan era stato condotto fuori strada dal-la moglie e dal suocero radicali; bisognava impedire che deplorevoli episodi del genere tornassero a verificarsi in futuro. Metternich perdonò.

La Famiglia non indietreggiava davanti a nulla, quando si trat-tava di costringere il mondo alla pace. Nel periodo di tensione tra la Francia quasi liberale e l'Austria ultraconservatrice, organizzò con-giure pacifiste nei palazzi di governo di quasi tutti i paesi d'Europa. La sua longa manus arrivava dappertutto. A Londra, Nathan era molto vicino al duca di Wellington e ai più alti circoli britannici; Metter-nich vedeva con gli occhi, udiva con le orecchie e pagava con la borsa di Salomon; James vedeva il re di Francia quasi ogni giorno; Cari teneva d'occhio i sovrani d'Italia, da Napoli alla Sardegna. Accadeva molto spesso che il capo dell'esecutivo di qualche grande potenza volesse comunicare un'importantissima opinione a colleghi d'altri pae-si senza compromettersi ufficialmente; i cinque fratelli erano un ec-cellente mezzo di comunicazione, a patto solo che quei messaggi fossero tali da favorire il loro gioco. Dopo aver conversato con gli amici di Downing Street, Nathan diramava certe osservazioni che James ripeteva a St. Cloud, Salomon citava allo Hofburg di Vienna... Apparentemente, le missive che i Rothschild si scambiavano erano lettere di carattere familiare, chiacchiere tra fratelli; in realtà, aveva-no il peso di comunicazioni private fra governi.

A un certo momento, Nathan espresse il parere che « se la Fran-cia passa a vie di fatto contro gli austriaci, noi inglesi prenderemo

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le parti degli austriaci; se passano all'azione gli austriaci, noi saremo dalla parte della Francia ». Questo pettegolezzo in famiglia fece enor-me impressione così sulle rive della Senna come su quelle del Danu-bio e contribuì, per il momento almeno, a tenere al guinzaglio i due imperi.

I fratelli sapevano anche di dover ricorrere talvolta non all'arte diplomatica, ma a uno sfoggio brutale del loro potere. Nel 1831 Luigi Filippo, il semirivoluzionario sovrano di Francia, persisteva nel-l'istigare contro l'impero absburgico i semirivoluzionari stati italia-ni. L'Austria parlava di difendere i suoi diritti legittimi sino all'ultima goccia di sangue; la Francia giurava di morire per la libertà. A Parigi, James afferrò quella ch'era l'unica possibilità di avere la pace : Casimir Périer, un banchiere prudente come lo stesso James, doveva essere fatto primo ministro. « Ho informato Sua Maestà » scrisse James a Salomon « che se accoglie Périer nel suo consiglio dei ministri, il suo credito aumenterà. »

Périer ebbe la carica. Tuttavia truppe austriache entrarono in Bo-logna. Cedendo a forti pressioni popolari, il governo francese era sul punto di fare le proprie rimostranze in termini pericolosamente ener-gici. Il buon nome della Francia veniva così chiamato direttamente in causa. « Ieri » scrisse James a Salomon « è stato preparato l'abbozzo della nota che la Francia sta per spedire. Conteneva la frase: "évacuez immédiatement Bologne..." Provvederò a che venga omessa. »

Lo fu, infatti. La Francia si accontentò di esprimere un'indigna-zione platonica, e la minaccia di guerra fu sventata.

In altre occasioni i fratelli Rothschild si fecero anche più arditi. Nel 1839 Leopoldo, re d'un regno appena nato - il Belgio - voleva strappare a forza aU'Olanda le provincie di Lussemburgo e Limburgo. I figli di Gutele non glielo permisero.

«Il governo belga» dichiarò senza mezzi termini Salomon «non avrà da noi un quattrino, benché siano mesi che implora denaro. Per quanto difficile possa riuscirmi persistere nel rifiuto, mi sentirò com-pensato se il Belgio rinuncerà ai suoi disegni e tornerà la pace. »

II Belgio rinunciò; i Rothschild allargarono i cordoni della borsa. « È nella natura delle cose » spiegò Bismarck a un collaboratore

che cercava di ottenere un finanziamento per il riarmo prussiano « che la Casa faccia tutto il possibile per impedire lo scoppio della guerra. Questo fatto dimostra con quanta delicatezza uno debba agire nel trattare con i Rothschild. »

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A BREVE E A LUNGA SCADENZA

Bismarck, che in genere non si distingueva per eccessiva delica-tezza, col tempo riuscì a fare le sue brave guerre, contro l'Austria e la Francia. Alla fine, come mostrerà un altro capitolo, i Rothschild gli diedero la punizione che meritava.

Tuttavia, Bismarck ebbe ciò che voleva. Il potere internazionale di veto della Famiglia venne meno nella seconda metà del dicianno-vesimo secolo. La ragione, in parte, va cercata nel successo stesso della Famiglia; aveva contribuito a stimolare così energicamente l'eco-nomia dei vari paesi, che questi ben presto divennero indipendenti da qualunque gruppo di finanzieri, per quanto potente.

Il contributo ultimo dei cinque fratelli alla storia del mondo dimostrò ciò che sa ogni esperto di Borsa: le conseguenze a breve scadenza di un'iniziativa di Rothschild sono generalmente l'opposto esatto delle sue conseguenze a lunga scadenza. L'effetto immediato delle iniziative dei fratelli non fu dolce né lieto; meno che mai per i concorrenti. Quei cinque non erano tipi da preoccuparsi del bene della società. Furono chiamati ebrei dei Borboni, tesorieri della rea-zione, usurai di Metternich; e alcuni di questi epiteti sembrano fin troppo meritati. Eppure a lunga scadenza quell'astuzia e quell'im-placabilità senza precedenti ebbero risultati positivi.

L'efficienza dei figli di Mayer, l'energia da cui erano animati rin-novarono il mondo della finanza; vecchie e inutili strutture fiscali furono spazzate via; le strutture del credito furono rinnovate, e se ne inventarono di nuove; vennero creati - com'era implicito nell'esi-stenza stessa di cinque diverse banche Rothschild in cinque diverse parti del mondo - nuovi canali per cui il denaro scorreva tramite stanze di compensazione; venne introdotto un sistema mondiale di debiti e crediti grazie al quale la necessità di trasportare da un luogo all'altro ingombranti carichi di verghe d'oro diventò cosa del passato.

Uno dei più grandi contributi della Famiglia fu la nuova tecnica di Nathan per l'emissione di prestiti internazionali. Sin allora l'in-vestitore inglese - la più importante fonte d'investimenti del dician-novesimo secolo - aveva esitato ad acquistare titoli stranieri; non lo attirava per nulla l'idea di ricevere dividendi in ogni sorta di incomo-de valute estere. Nathan lo attrasse offrendo titoli stranieri pagabili in sterline.

L'opera e il nome dei Rothschild (i più splendidi esempi, insie-

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me con Napoleone, di self-made men) servirono a porre fine all'era del titolo e del pedigree e ad instaurare quella del denaro e dell'abilità personale. In un momento di trasporto, dopo una buona cena innaf-fiata da vini squisiti a rue Laffitte, Heine arrivava a considerare i cinque fratelli dei grandi rivoluzionari. Non avevano forse usurpato le ultime pretese del feudalesimo? Non avevano abolito il mondo fermo, stagnante in cui il potere era legato indissolubilmente al pos-sesso della terra, sostituendovi un mondo nuovo, il mondo dell'in-vestitore, il mondo del denaro, del capitale, dei titoli di stato di cui chiunque poteva entrare in possesso in qualunque momento? Non erano questi i più flessibili, equi, produttivi strumenti di governo? E non erano i Rothschild gli arcidemoni del progresso?

Non occorre essere favorevolmente prevenuti come Heine per ri-conoscere un fatto: i figli di Mayer contribuirono ad abolire quel-l'assolutismo che dapprima aveva fatto di loro il proprio strumento. Più d'ogni altro, e sia pure involontariamente, prepararono il terreno al fiorire della democrazia borghese.

Uno degli esempi più calzanti di ciò che affermiamo ci è offerto dalle ferrovie. La Famiglia contribuì più di qualsiasi altro gruppo a dare all'Europa la locomotiva. Come sempre, i Rothschild videro solo il guadagno che quelle lucenti rotaie promettevano; ma nello stesso tempo sarebbero diventate il più importante strumento di commer-cio. Sino a quel momento viaggiare era stato privilegio degli aristo-cratici e dei soldati; ora operai e contadini conquistarono una mo-bilità che non avevano mai posseduta per l'innanzi.

Eppure i Rothschild dovettero quasi imporre le ferrovie a un continente sospettoso. Fu l'avventura più combattuta nella storia del-la Famiglia.

LA FOLLIA DELLA STRADA FERRATA

Primo: Austria

Le strade ferrate nacquero in Inghilterra, sotto la forma degli steam-coaches di George Stephenson, proprio sotto il naso di Nathan. Ma quando Nathan cominciò a fiutare odor di sterline, non era più in tempo ad acquistare: altri banchieri erano arrivati prima, e Na-than non voleva toccare quello che non poteva possedere da solo o

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per lo meno controllare. Si accontentò quindi di mettere sull'avviso i fratelli.

A Vienna, Salomon fece propria l'idea. Ci voleva del coraggio per questo : l'Austria, l'impero più energicamente reazionario del tem-po, considerava le carrozze senza cavalli poco meno pericolose del socialismo. Per rendere più favorevole l'atmosfera, Salomon inviò in Inghilterra una commissione d'inchiesta composta da von Wertheim-stein, suo direttore generale, e dal professor Franz Riepel del Politec-nico viennese, uno dei primi fautori delle strade ferrate.

I due inviarono un rapporto pieno di entusiasmo tecnico e finan-ziario; tuttavia non poterono passare sotto silenzio l'ostilità diffusa persino nella liberale Inghilterra contro i mostri fumanti. In alcune contee inglesi un postiglione a cavallo doveva precedere di cin-quanta metri la locomotiva per avvertire la popolazione, con grida e suoni di tromba, dell'avvicinarsi dell'abominio. Per i nobili, inna-morati dei loro cavalli, i treni erano da tutti i punti di vista una spaventosa scocciatura. Uno dei migliori amici di Nathan, il duca di Wellington, osservava che le strade ferrate sarebbero servite solo a «incoraggiare le classi iriferiori ad andarsene in giro senza ne-cessità ».

Salomon lesse il rapporto e si fermò: era il 1830, e la rivoluzione parigina di luglio aveva provocato nel mondo degli affari turbamenti che richiedevano tutta la sua attenzione. Ma nella sua mente andava crescendo la certezza che si sarebbero potuti ricavare profitti enormi da una strada ferrata che attraversasse l'Austria settentrionale por-tando a Vienna il sale della Galizia e il carbone della Slesia.

Nel 1832, gli affari avevano ripreso il ritmo normale. A questo punto Salomon passò all'offensiva, con la formidabile e silenziosa ef-ficienza che gli era consueta. Cominciò con l'acquistare la rete di tramvie a cavalli (gestita, fra tutti, proprio dal padre di Emile Zola) nelle provincie austriache, e inoltre assunse alle proprie dipendenze un intero battaglione di abili ingegneri che studiarono metro a metro il tracciato della ferrovia progettata.

Di lì a poco (nell'aprile 1835) un eloquentissimo documento ispi-rato alla più lodevole sollecitudine per il bene della comunità, rag-giungeva la scrivania di Ferdinando II d'Austria. Prendendo l'avvio dai vocativi « Eccellentissimo e Potentissimo Imperatore! Graziosissi-mo Imperatore e Signore! », lo scritto inneggiava ai vantaggi che « lo stato e la prosperità pubblica » avrebbero tratto da una strada ferrata

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fra Vienna e la Galizia, implorava la benigna sanzione di Sua Maestà ed era firmato dal « fedelissimo e umilissimo servo di Vostra Mae-stà, S. M. v. Rothschild ».

Il principe Metternich appoggiava la richiesta; e siccome sua po-tentissima maestà era un dispositivo per firmare che il cancelliere manovrava a suo piacimento, alla richiesta non fu negata l'approva-zione sovrana. L'11 novembre 1835 Rothschild poteva mettersi in tasca la licenza per costruire la prima importante linea ferroviaria del continente europeo: poco meno di cento chilometri di rotaie, da Vienna a Bochnia in Galizia. (Il servizio delle poste imperiali impose al barone Rothschild una clausola con cui questi si impegnava al rim-borso dei danni se i suoi mostri di ferro avessero divorato una parte troppo cospicua delle poste dello stato).

Il preventivo era per una spesa di dodici milioni di gulden, e Salomon. provvide immediatamente a trovarli. Emise 12.000 azioni a 1.000 gulden luna: 8.000 ne tenne per sé, le altre le offerse a chi arrivava per primo a prendersele. Sedotto dal confluire di due miti, Rothschild e strada ferrata, il pubblico degli investitori accor-se a frotte.

Ma esisteva anche un pubblico più ottuso. Se le ferrovie avevano incontrato una certa resistenza in Inghilterra, in Austria provocarono un'autentica rivolta dell'opinione pubblica. Fu un coro di maledizioni contro l'uomo che voleva imporre la diabolica invenzione del dician-novesimo secolo a un tranquillo paese del diciottesimo. I giornali di Vienna si riempirono di terrificanti profezie e dei pareri di esperti che dimostravano la follia del progetto di Rothschild. Il sistema respira-torio umano, dicevano, non poteva resistere a una velocità superiore ai venticinque chilometri orari: i polmoni si sarebbero afflosciati, gli organi della circolazione sarebbero andati fuori di posto, il sangue sarebbe uscito dal naso, dagli occhi, dalle orecchie e dalla bocca dei viaggiatori. Ogni tunnel lungo più di sessanta metri avrebbe soffocato tutti i viaggiatori in tutte le carrozze: il treno sarebbe uscito dal-l'altra estremità della galleria senza conducente, una sorta di gigan-tesco carro funebre che con cieca furia avrebbe distrutto ogni cosa al suo passaggio. Nessun passeggero si arrischiasse a un viaggio senza portarsi dietro il medico personale, che avrebbe potuto intercedere presso il macchinista perché riducesse la velocità.

Dottori d'ogni genere si prodigarono per mettere in guardia il pubblico. Allarmatissimi erano i cosiddetti neurologi; secondo i loro

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I articoli, la psiche umana, già sovraffaticata dai troppi stimoli della vita moderna, non avrebbe retto allo sforzo dei viaggi in ferrovia. La velocità della macchina avrebbe potuto spingere gli uomini al sui-cidio, le donne si sarebbero abbandonate a orge sessuali; rapporti dal-l'Inghilterra riferivano che passanti inconsapevoli erano impazziti alla sola vista d'uno di quei rombanti e fumanti serpenti d'acciaio. E si doveva dare a Rothschild il permesso di finanziare questa diavoleria moderna che avrebbe rovinato l'esistenza della gaia Vienna?

Dall'Inghilterra giungevano anche rapporti d'altro genere: quelli finanziari, pubblicati dalle prime compagnie ferroviarie. Non ave-vano nulla di raccapricciante, anzi; i rivali di Salomon, specialmente la banca Sina, li trovavano decisamente allettanti. Sina lasciò che Rothschild facesse le spese dell'indignazione pubblica, come disturba-tore della quiete dell'Austria settentrionale, e nel frattempo, senza dar nell'occhio, chiese e ottenne licenza di costruire una linea meri-dionale, da Vienna all'Adriatico.

Così Salomon si vide attaccato su due fronti. Aveva le sue cono-scenze nella stampa viennese, naturalmente, e in genere ci poteva contare; ma questa volta i suoi amici giornalisti erano impotenti di fronte alla violenza della reazione popolare. Nel cancelliere Metternich aveva il più influente sostenitore possibile nel governo; ma anche Sina era una potenza, né v'era modo di invalidare una licenza rivale una volta passata attraverso gli ingranaggi dei meccanismi ammini-strativi. Anzi, quando Salomon chiese una concessione per aggiungere una diramazione nord-orientale alla sua strada ferrata, fu costretto a scendere sul campo della concorrenza, alla pari con Sina.

Tuttavia, un Rothschild aveva sempre non solo più denaro ma anche più idee di chiunque altro. Per superare l'impasse, Salomon fece approdare sulla scrivania di Ferdinando un altro patriottico poe-ma in prosa. Era un rapporto preliminare, ma redatto con notevole eloquenza, dei progressi della « grande opera nazionale, la strada ferrata Vienna-Bochnia ». Culminava in questo paragrafo magistrale :

Il più obbediente e leale servitore di Vostra Maestà sente di po-tersi, in tutta umiltà, avventurare a chiedere rispettosamente a Vo-stra Maestà una grazia: quella di permettere che alla strada ferrata Vienna-Bochnia sia imposto il nome bene augurante di "Kaiser Fer-dinand Nordbahn".

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4.1 favolosi Rothschild I

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Simultaneamente il principe Metternich riceveva una lettera in cui veniva avanzata la proposta che sua eccellenza il ministro delle finanze e sua eccellenza il presidente del consiglio « si ponessero alla testa di quest'impresa nazionale » diventandone patroni, come tali immortalati in tutte le lapidi, le iscrizioni, i documenti della ferro-via. A sua principesca altezza il cancelliere Metternich si chiedeva di accettare la carica di supremo patrono ufficiale della ferrovia.

Come sempre, Metternich abboccò. Lui e le altre eccellenze accet-tarono di nobilitare la strada ferrata Rothschild con il lustro dei loro nomi, e anzi il ministro delle finanze consigliò caldamente all'impe-ratore di fare lo stesso.

« Questa è un'impresa colossale, » scriveva « quale non s'è mai vista in Europa prima d'oggi... e rimarrà come eterno monumento al regno di Vostra Maestà. »

Il 9 aprile 1836 un decreto imperiale annunciava la decisione di sua maestà di permettere che la ferrovia Rothschild fosse chiamata da quel momento in poi "Kaiser Ferdinand Nordbahn" (Ferrovia nord imperatore Ferdinando). Con una sola fava Rothschild aveva preso due grossi piccioni: il governo austriaco si era identificato con la sorte e la riuscita della sua impresa, non di quella di Sina; e il nome della Casa d'Absburgo santificava il suo "diabolico" progetto. Di fronte a prove così schiaccianti dell'approvazione delle autorità, le proteste dell'opinione pubblica cessarono. Tutto sembrava finito, tranne la costruzione.

A questo compito si applicò ora Salomon. A due settimane dalla pubblicazione del decreto con cui l'imperatore concedeva il suo nome alla ferrovia, Salomon convocò la prima d'una serie di riunioni di azionisti; trasferì alla compagnia la licenza di costruzione, fin allora intestata a lui personalmente; provvide alla nomina di un consiglio d'amministrazione provvisorio, sottomise all'assemblea stime, pro-getti, proposte... e si sentì dire ch'era un cialtrone.

D'improvviso, all'interno della compagnia e fuori di essa, divam-pò un'opposizione di nuovo genere. Un memorandum, segretamente finanziato da Sina, veniva fatto passare di mano in mano. L'idea della ferrovia come tale non era attaccata (dopotutto, anche Sina ne aveva una in cantiere), ma era implicita l'accusa d'avere sfacciatamente abusato di augusti nomi. Tutti coloro che avevano lavorato al pro-getto della Nordbalhn erano accusati di enormi errori scientifici. Il memorandum formulava le accuse in un linguaggio così rigorosamen-

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te scientifico da mettere in soggezione il profano. Si dilungava in particolari sulle pendenze del terreno e sui rapporti fra curve e tra-zione a vapore, e sulla scandalosa incapacità dei Rothschild di affron-tare problemi di questo genere. Ultime, ma non meno importanti, erano citate cifre che facevano apparire disastroso il futuro finanzia-rio di una ferrovia settentrionale.

Il memorandum provocò tante chiacchiere che la corte cominciò ad aguzzare le orecchie. L'imperatore dimenticò per un momento di essere una macchina per firmare. « Caro principe Metternich, » pro-testò «... corrono molte spiacevoli voci sulla ferrovia che ho permesso venisse associata al mio nome... Mi riferirete se sono insorte difficoltà che ostacolano il progredire del lavoro alla ferrovia, e in caso posi-tivo, quali esse siano. »

Salomon era pur sempre Salomon. Anche questa volta la sua pa-rata andò a segno meglio dell'affondo nemico. Immediatamente egli commissionò all'autorevole professor Riepel del Politecnico un opusco-lo polemico che « respingesse l'insulto con il disprezzo che si merita » e demolisse punto per punto le argomentazioni tecniche del memo-randum dell'opposizione. Poi convocò gli azionisti a una drammatica seduta a carte scoperte che preannunciò le battaglie per procura dei nostri tempi. Si offerse di ricomprare tutte le azioni non in mano sua, rientrando così in possesso della licenza di costruzione trasferita alla compagnia. Avrebbe agito come unico proprietario del progetto e di-rettore deb'impresa se gli azionisti non gli concedevano piena fiducia e l'autorizzazione a iniziare immediatamente i lavori.

Ebbe l'autorizzazione. Ebbe la fiducia completa. Alla votazione, riportò una vittoria schiacciante che gli permise di allontanare gli op-positori dal consiglio d'amministrazione. Ancora non contento, Salo-mon trasformò la nota dell'imperatore a Metternich da una voce al passivo in una all'attivo, interpretandola pubblicamente come un se-gno della più calda sollecitudine. In una lettera ufficiale, Casa Roth-schild esprimeva gratitudine per questa « ulteriore prova del benevolo interesse di Sua Maestà per la prosperità della Kaiser Ferdinand Nord-bahn ».

Così S. M. trasformò radicalmente l'atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti della Nordbahn. I più abili ingegneri al servizio dello stato ebbero una temporanea licenza per poter lavorare alla co-struzione, finalmente cominciata. Salomon riuscì persino ad avere "in prestito" l'agrimensore della corona. Le rotaie si allungarono con rela-

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tiva rapidità, anche se il preventivo si rivelò, come tutti i preventivi, troppo basso. Il 7 luglio 1839 l'Austria inaugurava il primo tratto del-la prima importante linea ferroviaria del continente europeo, e il giorno seguente diventava la prima nazione continentale che potesse vantare qualcosa di così moderno come una collisione ferroviaria, for-tunatamente di proporzioni insignificanti.

I passeggeri non impazzirono; ma le quotazioni dei titoli, dopo qualche incertezza iniziale, salirono a pazza velocità.

Secondo: Francia

Il Rothschild austriaco aveva reso un grande servigio alla causa del progresso sociale e a se stesso. Quello francese non volle essere da me-no di lui; James Rothschild inaugurò la sua linea ferroviaria Parigi-Saint Germain nel 1837 e la linea Parigi-Versailles nel 1839- Dopo questi due riusciti esperimenti, passò alla creazione dello Chemin de Fer du Nord : un progetto per quel tempo gigantesco, destinato a sta-bilire una linea di comunicazione fra la capitale e le regioni industria-li del nord.

Ma neanche il suo cammino fu cosparso di fiori. Anche la Francia aveva esperti dei problemi dei trasporti che riempivano le prime pagi-ne dei giornali di titoli apocalittici. Vedevano incendi, appiccati dalle scintille uscite dai fumaioli, distruggere boschi e messi; contadini ab-bandonare le campagne, messi in fuga dai fischi e dai clangori; man-drie darsi a fuga precipitosa; erbe, fiori, cespugli appassire sotto la nera coltre di fuliggine. Chiazze desertiche avrebbero deturpato il ver-de suolo di Francia.

In Austria il governo, col suo atteggiamento, aveva posto freno a queste luttuose divagazioni della fantasia. Non qui. Nel 1835 era stato portato davanti al parlamento francese il progetto di una rete ferro-viaria di proprietà dello stato; l'idea era stata respinta come utopistica e ridicola. Adesso le pressioni di Rothschild per ottenere una licenza privata divennero irresistibili. Thiers, il primo ministro, si arrese; ma non era Metternich. « Dobbiamo dare ai parigini questa ferrovia come se fosse un giocattolo » disse. « Ma non trasporterà mai né un passeg-gero né un pacco. »

C'erano poi avversari meno altolocati ma non meno pericolosi:

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per esempio un certo Jules Mires, uomo, a modo suo, molto brillante. Mires aveva iniziato la sua carriera a Bordeaux, pubblicandovi un fo-glio poulevardier che riportava un'esauriente rubrica necrologica; per ognuno dei defunti, vi era indicato il nome del medico che non aveva saputo salvarlo. I medici di Bordeaux si dimostrarono persone ragione-voli. Mires cessò la pubblicazione del foglio e partì per la capitale con un gruzzolo più che discreto.

A Parigi fondò un giornale dello stesso modello, ma imperniato su un altro argomento : il Journal des Chemins de Fer descriveva a colori vivaci incidenti ferroviari, frodi, atrocità. La sua voce si faceva di gior-no in giorno più forte e Mires diventava di giorno in giorno più ricco vendendo silenzi oculatamente scelti.

Beau James tirò avanti per la sua strada, superando ostacoli piccoli e grandi con nonchalance da gran signore. Il primo passo verso la rea-lizzazione del suo Chemin de Fer du Nord fu un'emissione di azioni per il valore totale di 150 milioni di franchi. Azioni per sette milioni e mezzo furono distribuite gratis (e naturalmente sotto banco), a mini-stri, deputati e giornalisti. Improvvisamente, i custodi del benessere pubblico cominciarono a rendersi conto dei vantaggi che la comunità avrebbe tratto dalla ferrovia Rothschild. La costruzione progredì celer-mente, e il 5 giugno 1846 rappresentanti della corona, del parlamento e della stampa si riunirono ad applaudire il barone James all'inaugura-zione della sua ferrovia settentrionale.

Ma i guai non erano finiti. I macchinisti, nell'infanzia della loro professione, avevano ancora molto da imparare a proposito di curve; a tre settimane dall'inaugurazione, un treno abbordò una curva con troppo slancio e uccise trentasette persone. L'incidente gettò la Francia nella costernazione; contro il presidente della linea esplose una violen-ta campagna antisemitica; l'ira si sfogò soprattutto con la pubblica-zione di pamphlet fra i quali : « La storia di Rothschild I, re degli ebrei» diventò il più famoso. Di lì a poco comparve un contro-pamphlet: «Replica di Rothschild I, re degli ebrei, a Satana ultimo, re dei calunniatori ».

Il fatto più interessante, per ciò che riguarda il secondo libello, è che fu una speculazione, o meglio un tentativo di speculazione; in al-tre parole, James non lo aveva commissionato e l'autore, quando gli chiese un compenso per le sue fatiche, non ebbe neanche un soldo. Per ottenere ciò che desiderava James usava normalmente l'arma della cor-ruzione, ma su una scala grandiosa, conveniente al suo stato; la corru-

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zione meschina lo disgustava. Inoltre, il lavoro era finito, le ultime difficoltà appianate; il successo della ferrovia poteva essere affidato solo ai suoi meriti.

Fu un grande successo. I o Chemin de Fer du Nord diventò un be-ne nazionale come la Kaiser Ferdinand Nordbahn. Come il Rothschild austriaco, cosi quello francese s'era procurato un'altra grande fonte di guadagno e aveva dato un'energica spinta alla rivoluzione industriale.

Sull'orizzonte rimaneva però una nube, o forse più d'una. Dopo tutto, erano possibili linee ferroviarie anche non settentrionali : c'era-no tre altre direzioni. E c'erano altri uomini che credevano di poter opporre vittoriosamente il loro ingegno e la loro implacabile volontà di successo a quelli della Famiglia. La competizione ferroviaria diede origine a una coalizione che superò ogni frontiera nazionale e sfidò quasi ogni settore di tutte le banche della Famiglia. Questo nemico mise a dura prova l'invincibilità dei Rothschild. Un altro, capace di sferrare colpi di gran lunga più rapidi, le era già riuscito fatale : quan-do fu lanciata l'offensiva internazionale, il fratello più grande non era più là a farle fronte.

" i l e s t m o r t "

Alla metà del giugno 1836 la città di Francoforte vide adunarsi una assemblea senza confronti. La sua più grande famiglia celebrava i suoi sponsali più solenni : Lionel Rothschild, il figlio maggiore di Na-than, prendeva in moglie Charlotte Rothschild, la figlia maggiore di Cari.

Carrozze su carrozze entravano in città riempiendone di frastuono le strade, recando da Londra e Napoli non solo parenti ma anche doni di nozze e il corredo della sposa. Da Parigi, James giunse con pompa quasi imperiale, portando al suo seguito, fra gli altri, Rossini. Da Vienna giunse Salomon in una carrozza di straordinaria imponenza. Amschel presiedeva, e Gutele, la matriarca arrivata ormai all'ottanta-cinquesimo anno di età (ma ancora molto lontana dalla fine della sua esistenza terrena), lasciò la casa nel ghetto per coronare il tutto con la sua presenza. Forse neppure le nozze di un cancelliere né di un impe-ratore avrebbero visto una tale concentrazione di potere.

Eppure c'era una forza superiore, davanti alla quale anche la Fa-

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miglia doveva piegarsi. Essa sferrò il colpo nel pieno delle cerimonie, e si portò via il più gagliardo di tutti i Rothschild.

Tutto cominciò con un foruncolo sull'epidermide di Nathan. Il giorno delle nozze l'infiammazione diventò opprimente, ma esortazio-ni e preghiere non distolsero Nathan che volle assolutamente stare in piedi a fianco del figlio mentre il rabbino pronunciava la benedizione nuziale. A tavola, lo sposo vide il padre scosso dai brividi di una feb-bre altissima; lo portarono a letto. Il giorno successivo, il malato fu preso dal delirio. Furono consultati dottori tedeschi, mentre corrieri si affrettavano verso l'Inghilterra per andare a prendere il medico perso-nale di Nathan, il famoso Benjamin Travers. Finalmente Travers ar-rivò, ma troppo tardi; il veleno s'era diffuso in tutto l'organismo del malato.

Verso la fine, Nathan riacquistò la lucidità. Chiamò i figli intorno a sé e affrontò il problema della morte con l'accortezza dell'uomo d'af-fari e la tranquilla sicurezza di sé che gli era consueta. Salomon riferiva a Metternich:

Disse ai suoi figli che adesso il mondo avrebbe cercato di sottrarci il nostro denaro, e che dovevano quindi esser -più prudenti che mai. Os-servò che non gli importava nulla che uno dei suoi figli avesse 50.000 sterline più o meno di un altro: importava soltanto ch'essi restassero uniti... Nel ricevere gli ultimi conforti della nostra religione, disse: « Non è necessario ch'io preghi tanto, perché, credetemi, secondo le mie convinzioni non ho peccato ». A mia figlia Betty che prendeva congedo da lui disse, da vero inglese: « Buona notte per sempre ».

Nathan Rothschild morì il pomeriggio del 28 luglio 1836, a ses-santanni non ancora compiuti. A mezzanotte fu dato il volo a piccioni viaggiatori che raggiunsero gli uffici e gli agenti dei Rothschild su tut-ta la superficie del globo recando un breve messaggio: "Il est mort".

Quelle tre parole turbarono il mondo. Persino Times di Londra giudicò che l'occasione meritasse un superlativo almeno relativo. « La morte di Nathan Mayer Rothschild » dichiarava un editoriale « è uno degli eventi più importanti per la città e forse per l'Europa, da molto tempo a questa parte... Fino ad oggi nessuno in Europa aveva com-piuto operazioni di portata paragonabile alle sue... Come i suoi fratelli, Mr. Rothschild possedeva una patente di nobiltà che gli dava diritto al titolo di barone; ma non lo portò mai, e giustamente andò più orgo-

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glioso del nome con il quale aveva conquistato un prestigio che nessun titolo può dare... »

Londra lo onorò con un funerale degno d'un sovrano. La salma ri-salì il Tamigi con un'imbarcazione speciale; poi fu portata - fatto si-gnificativo - non in quella ch'era stata la sua casa ma ai suoi uffici di New Court, dove giacque nella camera ardente. Il corteo che l'accom-pagnò dalla sinagoga ortodossa al cimitero dell'East End gremì le stra-de; mai tante persone di così alto livello avevano seguito il funerale d'un privato. Un gruppo di orfani ebrei appartenenti a un istituto che il defunto aveva beneficato guidava il corteo cantando salmi; dietro la bara camminavano i figli e i fratelli (il rigoroso rituale ebraico impo-neva alle donne di rimanere a casa), le più illustri personalità della City, il Lord Mayor di Londra e gli sceriffi, una numerosa rappresen-tanza della nobiltà, gli ambasciatori d'Austria, di Prussia, di Russia, di Napoli, e praticamente i rappresentanti d'ogni altra potenza accre-ditata.

Tuttavia, la pietra tombale non fa parola della ricchezza, degli onori, dei titoli posseduti dall'uomo di cui copre le spoglie mortali. L'iscrizione dice : « Nathan Mayer Rothschild : nato a Francoforte sul Meno il 7 settembre 5537 [corrispondente, nel calendario ebraico, al 1777 d.C.], terzo figlio di Mayer Amschel Rothschild, un uomo noto e venerato in tutt'Europa, il cui virtuoso esempio egli seguì ».

In vita come in morte, il più grande dei Rothschild era stato solo un frammento della Famiglia. In vita come in morte, era stato solo uno strumento del principio dinastico stabilito da suo padre, il patriarca. Come il vecchio Mayer nel suo testamento, così Nathan nel proprio imponeva ai figli di rimanere soci e di mantenere a ogni costo e con ogni mezzo l'unità della casa. Come il testamento di Mayer, così que-sto nominava i figli maschi unici eredi dell'azienda; le figlie e i loro mariti non avrebbero avuto parte né voce negli affari dei fratelli (le quattro ragazze ricevettero, in aggiunta alle doti e alle grosse somme che Nathan aveva dato loro in vita, altre 100.000 sterline ciascuna, corrispondenti a oltre un milione di dollari).

Come il testamento di Mayer, così quello di Nathan evitava accu-ratamente ogni accenno concreto alle sconfinate ricchezze della Fami-glia: doveva essere mantenuta non solo la continuità ma anche la privacy del patrimonio.

« Chiedo » diceva l'ultimo documento di Nathan « che sia gli ese-cutori testamentari, sia congiunti che non nomino, di Francoforte e di

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Londra, limitino i loro sforzi semplicemente e unicamente all'esecuzio-ne di questo mio testamento e, dato che ciò non rientra assolutamente nei loro compiti, si astengano dal domandare ulteriori informazioni né pretendano di vedere registri o conti. »

In una lettera, Salomon riferiva come i figli di Nathan si fossero impegnati a seguire l'esempio di solidarietà e di affetto reciproco sta-bilito dal padre e dagli zii: «...non vi saranno mutamenti di nessun genere ».

Com'era inevitabile, qualche cambiamento ci fu. Il clan serrò ancor più compattamente le file nel muovere verso le sue mete; solo, le mete diventarono un poco diverse. Per i primi quattro decenni del dicianno-vesimo secolo, i Rothschild erano stati grandi conquistatori. Dopo, e fino ai nostri giorni, diventarono dei grandi signori. Tre dei fratelli di Nathan appartenevano alla prima scuola; erano molto più bravi a con-quistare che non a possedere e godere ciò che avevano conquistato. James, l'altro fratello, il più giovane - solo di dieci anni più anziano del maggiore fra i nipoti - riassumeva in sé entrambe le fasi. Tacitamente, ma non a caso, la Famiglia lo scelse ora suo capo.

Il caso volle che poco prima della morte di Nathan, James si fosse costruito un palazzo in tutto degno di un capo del clan. Il 1° marzo 1836 Heine scriveva:

Per il bel mondo dì Parigi, ieri è stato un gran giorno; abbiamo avuto la prima esecuzione dei tanto attesi Ugonotti di Mayerbeer all'Opera, seguita dal primo ballo offerto da Rothschild nella nuova casa. Sicco-me sono rimasto là fino alle quattro del mattino, e ancora non ho dor-mito, sono troppo stanco per darti un resoconto dello scenario di que-sta festa, e del magnifico palazzo, costruito interamente in stile Rina-scimento, in cui gli ospiti si aggirano esprimendo la loro ammirazione e il loro stupore. Il palazzo riunisce in sé tutto ciò che lo spirito del sedicesimo secolo seppe concepire e che il denaro del diciannovesimo può comprare. Per decorarlo sono occorsi due anni filati di lavoro. È la Versailles del monarca assoluto della finanza... Come a tutti i rice-vimenti Rothschild, gli ospiti erano scelti in base al criterio rigoroso del loro prestigio sociale: uomini di gran nome aristocratico o di altis-sima posizione, donne che si distinguono per bellezza ed eleganza...

Ma se fra tanti raffinati splendori il barone dimenticò mai le sue umili origini, la Judengasse in cui aveva mosso i primi passi, il mondo

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era pronto a ricordargliele. I bisogni elementari, violenti, che avevano informato gli inizi della sua carriera, rimanevano: in altri uomini. Dal mondo stesso di James emersero forze che dovevano dimostrare come anche per i Rothschild la vita non fosse un ballo ma una giungla.

UN FURTO COLOSSALE

Un detto afferma che i grandi campioni suscitano grandi avversa-ri. James, più saggio, non si limitò a suscitarli: li impiegò al proprio servizio. Il fondatore della Casa francese, come osservava Heine, aveva un'abilità particolare per trarre vantaggio dal talento altrui. Ma come altri grandi uomini del suo tipo, James non si rese conto che i mezzi umani da lui usati per i propri fini erano, agli occhi loro, fini in sé; che è più facile asservirsi l'abilità professionale di un uomo che non il suo ego\ che, anzi, l'ego può volgere l'abilità a scopi completamente diversi da quelli desiderati e imposti dal padrone, sicché questo si ri-trova improvvisamente davanti non un servo leale e pieno di talento ma un agguerritissimo ribelle. Nel giro di dieci anni, James cadde ben due volte nelle imboscate di due ammutinati d'alto livello.

Il primo rappresentò la minaccia meno grave, ma menò il colpo più basso. Fra i protégés di James, uno dei prediletti era un giovanotto snello, di nome Carpentier. Un genio dell'aritmetica, Carpentier, aveva modi simpatici, allegri e tuttavia efficienti che gli guadagnarono il po-sto di capocontabile dello Chemin de Fer du Nord. Ben presto riuscì a farsi accogliere nell'entourage personale del barone, per lo meno alla periferia estrema. James si portò appresso il brillante giovanotto in al-cuni dei suoi viaggi, e persino lo invitò a qualche ricevimento dei meno esclusivi a Palais Rothschild. Chino sui suoi registri o seduto a una tavola, durante un viaggio noioso, insomma in tutte le occasioni, Carpentier si comportava bene e conservava un'aria piacevolmente vi-vace. Sapeva compilare un bilancio o inventare una battuta con altret-tanta finezza.

Un pomeriggio del settembre 1856 chiese quattro giorni di licen-za, che James gli concesse senza farsi pregare. I due fecero una simpa-tica chiacchierata, il cui contenuto ci è stato tramandato perché assun-se presto - troppo presto - importanza storica.

James, ch'era di umore espansivo, osservò ch'era appena riuscito a

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acquistare i diritti per un altro tronco della sua linea ferroviaria: l'indomani, quando la notizia sarebbe stata resa pubblica, tutti avreb-bero pensato che Rothschild s'era arricchito di altri cento milioni.

« Monsieur le Baron, posso farle una proposta? » disse Carpentier, con quel suo modo di fare in cui il rispetto si mescolava alla sfaccia-taggine. « Di quei cento milioni mitici, ne dia a me solo trenta di reali. »

Il barone rise, e nell'impulso del momento regalò a Carpentier la sua pesante catena d'oro come ricordo di quel giorno. Il giovane si profuse in ringraziamenti e partì per la sua licenza.

Non tornò. Sulle prime nessuno si preoccupò della sua assenza. Poi venne il giorno della paga. I dipendenti si misero in coda per rice-vere lo stipendio, ma Carpentier aveva le chiavi della cassa. Un mes-saggero venne inviato alla casa dove alloggiava il capocontabile : tornò con la notizia che non c'era nessuno. Una rapida indagine presso il fra-tello di Carpentier rivelò che anche lui era impensierito per l'improv-visa sparizione, e anche per un altro fatto: aveva ricevuto per posta, come dono d'addio di Carpentier, una catena d'orologio - quella già appartenuta al barone.

A questo punto, si andò ad avvertire James; solo lui aveva il du-plicato delle chiavi. James arrivò, già sospettando quello che avrebbe trovato, e aperse le casseforti : tutto il contante era scomparso, per un importo di circa sei milioni di franchi.

Il barone, dissero poi i suoi aiutanti, diventò pallido, ma il suo san-gue freddo non lo abbandonò neanche per un minuto: si voltò, pro-nunciò una pubblica dichiarazione in due frasi, con cui annunciava semplicemente ch'era stato commesso un furto, e subito dopo proibì ogni ulteriore notizia alla stampa.

Le scoperte erano appena cominciate. James fece chiamare l'ap-pello, e constatò che mancavano altri cinque membri del personale contabile; oltre a loro, mancavano molti documenti. Il barone si rese conto che si trattava di una congiura troppo grossa anche per un furto di sei milioni. Ci vollero giorni di intense ricerche per arrivare a tutti i particolari - Carpentier era stato molto abile nel nascondere le tracce dei suoi furti - ma alla fine James scoperse che il suo protetto aveva fatto il colpo più grosso con le azioni, lo strumento preferito dello stesso James. Solo che il metodo di Carpentier era stato un po' diver-so : non aveva giocato al rialzo o al ribasso; aveva, più semplicemente, rubato.

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Le azioni della compagnia venivano tenute in pacchi di mille cia-scuno. Carpentier & complici avevano manomesso tutti i pacchi, sfi-lando due o trecento azioni dal mezzo, e lasciandoli intatti sopra e sot-to. Dopo aver così delicatamente alleggerito tutti i mazzi avevano ven-duto le azioni in piccole quantità per volta, distribuendo le vendite in un lungo periodo di tempo. Con questo metodo, fedele alle migliori tradizioni Rohtschild, erano riusciti a non dare nell'occhio e insieme ad evitare ogni fluttuazione nei prezzi.

In azioni, la banda aveva rubato circa venticinque milioni di fran-chi: se aggiungiamo i sei in contanti, arriviamo a qualcosa più dei trenta milioni che Carpentier aveva chiesto - non tanto per scherzo, dopotutto - a James. Il caro giovanotto poteva vantarsi d'aver battuto un record cui nessuno dei ladri più fortunati del suo tempo s'era nep-pure avvicinato : in totale la somma rubata superava i quindici milioni di dollari attuali.

James tentò di vendicarsi nell'unico modo che gli era consentito: aprendo un credito illimitato ai detectives privati che collaboravano con la polizia nelle ricerche. Ma Carpentier aveva predisposto la fuga con la stessa cura minuziosa con cui aveva preparato il furto; i suoi investimenti in questo campo - fatti, naturalmente, con denaro della società - erano già cominciati un anno prima del colpo finale. Per due milioni di franchi i ladri avevano comprato un vapore in grado di traversare l'oceano; poi, sotto nomi falsi, avevano acquistato una casa in qualche parte degli Stati Uniti. Quando venne il momento, nel set-tembre 1856, Carpentier chiese i famosi quattro giorni di licenza; si prese il contante e da Parigi raggiunse Liverpool. Là, lo attendeva la nave; i suoi complici tenevano accese le caldaie, la sua amante, una certa mademoiselle Georgette, lo attendeva sorridendo sulla passerella. Così Carpentier scompare alla nostra vista: adagiato in una poltrona nella sua lussuosa cabina, una coppa di champagne in mano, Georgette sulle ginocchia : non fu mai rintracciato.

James assunse personalmente tutta la perdita. Nessun altro finan-ziere francese avrebbe potuto sopravvivere all'improvvisa sparizione di trenta milioni di franchi senza neppure toccare le proprie riserve. Al barone, parve che la scelta del momento in cui il colpo era stato sferrato recasse più danno della stessa entità del furto: Casa Roth-schild era infatti impegnata in quel momento in una lotta all'ultimo sangue con il secondo ingrato. Per la prima volta da quando era di-ventata potente, la Famiglia doveva combattere per la propria vita.

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DUELLO DI GIGANTI

L'avversario numero due fu di gran lunga più ambizioso e più pe-ricoloso di Carpentier, ma, sulle prime, anche di gran lunga più utile di lui. Jacob Emile Pereire, un ebreo di origine portoghese, iniziò la sua carriera come giornalista collaborando con il fratello Isaac. Sul principio del decennio 1830-40, egli pubblicò un gran numero di ar-ticoli i cui temi erano progredite idee sociali, nuovi campi della tecnica come le strade ferrate, problemi finanziari. Il primo progetto ferrovia-rio di James aveva sollevato un uragano di proteste da parte del settore reazionario dell'opinione pubblica. James assoldò quindi al proprio servizio tutti gli elementi favorevoli alla costruzione di ferrovie su cui riuscisse a metter l'occhio, e tra gli altri anche Pereire - quella fonte inesauribile di idee progressiste - che dimostrò la sua eccezionale com-petenza durante la costruzione della linea ferroviaria Parigi-Saint-Germain.

Quando James volle costruire una linea Parigi-Versailles, affidò a Pereire la direzione dei lavori. Anche questa linea, che correva lungo la riva destra della Senna, fu un grande successo; ma, ahimè!, erano finiti i tempi in cui le locomotive Rothschild erano le sole che spaven-tavano il bestiame : Achille Fould, un altro pezzo grosso della finanza, aveva costruito la sua strada ferrata Parigi-Versailles sulla sinistra della Senna. Come risultato, Heine cominciò a parlare di Rothschild come del gran rabbino della Rive Droite e di Fould come del gran rabbino della Rive Gauche. La rivalità fra i due finanzieri fece nascere pensieri irriverenti anche in altri: Emile Pereire, che adesso fungeva da pro-console di James nella creazione del gigantesco Chemin de Fer du Nord, trovava sempre il tempo di gettare qualche occhiata di là dalla Senna.

C'erano buone ragioni di guardare da quella parte, specialmente se uno si preoccupava di tener d'occhio le buone occasioni. Gli anni successivi al 1830 erano passati, e quelli dopo il '40 stavano percorren-do la fase discendente della parabola. In fase discendente era anche l'astro di Luigi Filippo, il sovrano che i Rothschild "controllavano"; ascendeva invece quello di Luigi Napoleone, che nel 1848, dopo la fuga del re borghese, divenne presidente. I Rothschild non controlla-vano Luigi Napoleone: questo era monopolio di Achille Fould, che aveva prestato denaro al nuovo sovrano negli anni avventurosi della sua gioventù di play boy e che adesso era il suo più intimo consigliere

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finanziario. Il 31 ottobre 1849 il presidente nominò Fould ministro delle finanze della repubblica.

Di li a non molto, Luigi Napoleone, James Rothschild ed Emile Pereire sedevano insieme in una carrozza adorna di fiori; l'occasione che ve li aveva riuniti era l'inaugurazione del nuovo tronco dello Che-min de Fer du Nord, con capolinea a Saint-Quentin. «Vive l'Empe-reur! » gridava la folla, anticipando l'incoronazione del presidente, che in effetti non sarebbe molto tardata. « Vive Rothschild! » gridava, applaudendo l'allargamento dell'impero del banchiere. Tuttavia, come molti notarono, solo Napoleone e Pereire sorridevano, mentre l'espres-sione di James rimaneva grave. A quella data egli sapeva che il suo braccio destro, l'uomo che sorrideva cosi cordialmente al popolo accla-mante, lo aveva tradito; Pereire aveva disertato, passando al nemico.

Per essere più esatti, stava per diventare il nemico : il più perfido, il più risoluto, il più potente dei nemici che la Famiglia avrebbe dovu-to affrontare prima dell'avvento di Hitler. Pereire non era un ladro in guanti gialli come Carpentier. Né si limitò semplicemente ad abban-donare un padrone di nome Rothschild per passare al servizio d'un altro di nome Fould. Di Fould egli divenne socio, e in breve anche qualcosa di più; insieme i due fondarono una nuova grande società, il cui scopo specifico era distruggere il formidabile e fin allora invinci-bile rivale Rothschild.

Alla nuova società, Fould portò la sua ricchezza e il suo prestigio di ministro delle finanze; Pereire, assistito dal fratello, vi portò un'e-nergia instancabile, un'inventiva inesauribile. Era un vero vulcano di idee e di progetti in cui metteva a profitto conoscenze ed esperienze d'ogni genere, dall'esperienza pseudo-politica degli anni in cui faceva del giornalismo progressista ai trucchi magistrali appresi lavorando con James.

La sua idea più grande fu una miracolosa sintesi di sentimentali-smo socialista e di pirateria finanziaria. Perché, cominciò a chiedere a un certo punto la propaganda di Fould, il credito di una nazione do-veva essere terreno di caccia di pochi privilegiati? Perché non demo-cratizzarlo? Forse che un macellaio non aveva tanto diritto di prestare alla madrepatria mille franchi, quanto Rothschild di prestargliene mil-le milioni? Perché non creare una banca popolare, una sorta di grande bacino di riserva in cui sarebbero confluite le acque d'una miriade di rivoletti sottili; una banca che avrebbe usato il proprio potere negli

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interessi della comunità, non già d'un unico individuo arricchito oltre ogni misura?

Il 2 dicembre 1852 Luigi Napoleone diventò imperatore. Quasi simultaneamente, la creazione della banca popolare di Pereire elettriz-zò il paese. Battezzata Crédit Mobilier, essa emise 120.000 azioni da cinquecento franchi luna, permettendo non solo ai macellai ma anche ai loro garzoni più parsimoniosi di diventare dei finanzieri. Questo era l'aspetto democratico dell'impresa. Ma non le mancava un lustro ari-stocratico: i nomi della principessa von Leuchtenberg e del duca di Galliera ornavano di sé la lista dei fondatori. Data la sua posizione ufficiale, il ministro delle finanze, Fould non potè far comparire il pro-prio nome, ma appoggiò l'emissione con tutta la sua influenza. Pereire teneva le leve di controllo. Lui aveva creato l'istituto finanziario fran-cese politicamente più "indovinato".

Le azioni del Crédit Mobilier rimasero solo per mezz'ora a quota 500: alla fine del primo giorno erano già quotate 1.100, nel giro di una settimana salirono a 1.600. Il mondo finanziario parigino non ave-va visto nulla di così sensazionale dall'avvento di James Rothschild in poi. I francesi facevano a gara nell'investire i loro risparmi nella nuova banca, che Napoleone III onorava della sua protezione.

James il Bello diventò allora James lo Svelto. Comparve a Vienna, dove suo fratello Salomon gli ottenne in men che non si dica un'udien-za con Francesco Giuseppe. Il monarca austriaco affidò al suo console generale a Parigi un messaggio di cortesia per Napoleone III; il mes-saggio fu recato al destinatario col suggerimento che, a differenza di Pereire, i Rothschild erano una potenza internazionale di prima gran-dezza, una casa alla quale i più grandi sovrani "legittimi" affidavano la trasmissione dei loro benefici voleri : uno che voleva essere imperatore autentico avrebbe fatto bene a ricordarsene.

La manovra non ebbe effetto; una parte sempre più cospicua delle operazioni finanziarie dello stato veniva affidata al Crédit Mobilier. Ma frattanto il barone aveva iniziato una seconda manovra, che fece dei salotti parigini un teatro di guerra.

Una giovane donna andalusa, Eugenia de Montijo, cominciò ad es-sere un'ospite quasi abituale dei migliori ricevimenti offerti da James e Betty. Sulle prime, nessuno capì bene perché. Senza dubbio era mol-to bella, e nella buona società correva voce che Napoleone avesse ten-tato senza successo di entrare nel suo letto, ma non aveva precedenti

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limpidissimi. Sua madre, uscita perdente da un intrigo di palazzo a Madrid, era stata costretta a rinunciare alla posizione di dama d'onore della regina di Spagna. Eugenia era arrivata a Parigi solo nel 1850, senza importanti credenziali sociali. Perché dunque il barone si osti-nava a farne la regina dei suoi ricevimenti?

Il perché cominciò a diventare chiaro il 31 dicembre 1852, quando, in una riunione segreta del suo gabinetto, Napoleone III dichiarò la propria intenzione di sposare Eugenia de Montijo. Si lagnò di essere trattato come un imperatore parvenu : le grandi case "legittime" si ri-fiutavano di dargli in moglie una principessa degna del suo prestigio.

« Se non posso contrarre un matrimonio politico, » concluse « mi sia almeno concessa la consolazione di poter celebrare un mariage d'inclination. »

Parecchi ministri francesi considerarono questa dichiarazione solo una manovra contro i diplomatici stranieri che avevano frustrato i di-segni matrimoniali di Napoleone III. Imperatrice quella Eugenia Co-me Si Chiama? Quella nuova venuta neanche tanto raccomandabile? Ridicolo! Ed era tipico che fosse Rothschild, il parvenu dei parvenu, a proteggerla. No, il tout-Paris pensò che si trattasse d'una finta. Perché, altrimenti, sua maestà avrebbe evitato con tanta cura di manifestare in pubblico le sue supposte intenzioni?

Ai livelli massimi dell'aristocrazia più antica si formò un partito anti-Eugenia, che Pereire aizzava e sovvenzionava. James capeggiava le forze pro-Eugenia. Il fronte della guerra fra Rothschild e il Crédit Mobilier correva adesso fra i più squisiti mobili Impero e attraverso i più lussuosi tappeti di Francia. La battaglia ebbe luogo il 12 gennaio 1853, al ballo delle Tuileries.

Scena : la "sala del maresciallo", cui avevano accesso solo i più pri-vilegiati. Come sempre, il barone James scortava mademoiselle de Montijo, mentre uno dei suoi figli porgeva il braccio alla madre di lei. Il più giovane dei due Rothschild credette di poter trovare posto alle signore su certi divani; fu cosi che Eugenia e la moglie d'un ministro "nemico" si trovarono dirette verso una stessa meta.

Sullo sfondo melodico di un valzer, si svolse una breve ma intensa battaglia. Eugenia, un poco più svelta della rivale, stava raccogliendo le gonne per sedere quando Madame le Ministre annunciò, a voce alta e in tono reciso, che quei divani erano riservati esclusivamente alle famiglie dei ministri. La giovane dama spagnola rimase quindi peno-samente bloccata a metà del gesto mentre la matrona ministeriale pren-

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deva il suo posto. I Rothschild, pallidi, assistevano impotenti alla scena.

A questo punto accadde qualcosa di storico. La scaramuccia era sta-ta osservata dalla coda d'un occhio imperiale. Napoleone interruppe improvvisamente il piccolo ricevimento che si stava svolgendo in suo onore una ventina di metri più in là e, con una spettacolare violazione del protocollo, si affrettò verso il divano conteso, offerse il braccio a Eugenia e a sua madre e le guidò verso gli sgabelli riservati alla fami-glia del sovrano. Continuarono a risonare le note del valzer, ma nella sale cadde il silenzio. Quando le conversazioni ripresero, di lì a un mo-mento, tutti sapevano chi avesse vinto la guerra di palazzo.

Undici giorni dopo, in un messaggio al popolo di Francia, l'impe-ratore dichiarava di aver scelto Eugenia « la donna che amo e che onoro ».

Per una volta, la vittoria di James fu una vittoria di Pirro. James credeva di avere rintuzzato i successi del Crédit Mobilier alla Borsa con un attacco al boudoir dell'imperatore. Ma benché il 30 gennaio venisse celebrato il fidanzamento ufficiale tra l'imperatore e Eugenia, la ceri-monia portò al barone James un'umiliazione inattesa.

Dovette anche questa all'astuzia diabolica del suo nemico. Pereire non s'era limitato a tener d'occhio la Borsa; era anche diventato un esperto delle più sottili sfumature della haute volée parigina. Da qual-che tempo egli osservava - e aizzava - l'ostilità fra James Rothschild e il conte Hubner, il nuovo rappresentante diplomatico a Parigi. Hùb-ner non possedeva i mezzi del suo predecessore, mentre James, sempre console generale austriaco a Parigi, aveva un tenore di vita molto più splendido di quello di qualsiasi ambasciatore. Hùbner fece futili ten-tativi di trattare Rothschild come un subordinato; James osservò sprez-zantemente - e in maniera che lo si sentisse - che la carica di amba-sciatore era adatta ai gran signori, non a certi ometti buoni solo a darsi delle arie. A sentir questo Hùbner diventò una belva, e Pereire lo in-coraggiò a vendicarsi del rivale. Nel piano per la celebrazione del fi-danzamento imperiale in Notre-Dame, naturalmente il barone Roth-schild figurava nella lista degli invitati. Il suo invito fu affidato all'am-basciata austriaca perché lo facesse procedere a destinazione; l'amba-sciata austriaca se ne guardò bene. Tutti i dignitari francesi e tutto il corpo diplomatico assistettero alla cerimonia; solo il barone Rothschild brillò - e tutti lo notarono - per la sua assenza.

Pereire, rapido come la folgore, sfruttava un successo come un

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trampolino di lancio per il seguente. Era quasi diventato il sovrano finanziario di Francia; dal Reno ai Pirenei, aveva spazzato via tutto ciò che si parasse sul suo cammino. Tuttavia, capiva bene la differenza che correva fra sconfiggere episodicamente James e distruggerlo: Roth-schild era un titano la cui influenza si estendeva a cinque paesi. Se vo-leva annichilirlo, Pereire doveva farlo su scala internazionale.

Lo scacco subito da James a Notre-Dame ebbe una certa eco inter-nazionale. Gli ambasciatori, ministri e consoli riuniti nella cattedrale avevano potuto osservare una brutta falla nella corazza fin allora per-fettamente compatta della Casa, e Pereire pensò che l'atmosfera fosse favorevole a una prima mossa oltre confine.

Così, nel gennaio 1853, il Crédit Mobilier - che aveva appena due mesi di vita - avvolse una spira intorno al feudo italiano della Fami-glia. Il regno di Sardegna, la cui potenza era allora in ascesa, aveva contratto con James un prestito ed era sul punto di contrarne un se-condo. Pereire lasciò cadere qua e là alcuni accenni insidiosi al declino del clan (vedi lo scacco di Notre-Dame), e il suo Crédit Mobilier fece segretamente un'offerta. Forse sarebbe riuscito a concludere l'affare se Fould, in un incontro personale con James, non si fosse vantato di un grande "colpo" mediterraneo che stava per essere condotto in porto.

James capì immediatamente cosa bolliva in pentola e spedì in Ita-lia suo figlio Alphonse. La battaglia per il prestito continuò adesso alla luce del giorno. La vinse il giovane Alphonse Rothschild, ma a caro prezzo; in una lettera a un amico, Cavour gli faceva notare che la gara tra i due banchieri aveva significato, per il regno di Sardegna, un ri-sparmio di "alcuni milioni".

Ma la Sardegna era un trofeo di secondaria importanza; anzi, an-che presi tutti insieme gli stati italiani sarebbero stati solo briciole, in confronto alle grosse torte per cui Pereire e Rothschild stavano ora lottando. Il successivo attacco del Crédit Mobilier mirava a nulla meno che all'impero austriaco.

Anche questa volta, Pereire scelse con spietata oculatezza il suo momento. Con la caduta di Metternich nel 1848 la Famiglia aveva perso il più potente sostenitore. Salomon stava entrando nel settanta-novesimo anno d'età, e la sua presa diventava incerta; pochissimo di-sposto a far ritorno a Vienna, controllava la banca da lontano, da Fran-coforte e Parigi. Inoltre, a causa di un nuovo affronto, l'ambasciatore austriaco a Parigi nutriva nei confronti dei Rothschild sentimenti che potevano tornare più comodi ai loro avversari.

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James non godeva ancora di reale influenza a corte, ma in Eugenia aveva un'eloquentissima portavoce presso l'imperatore. Tramite suo, Rothschild potè far giungere al sovrano le espressioni del suo dolore per il tradimento di cui era rimasto vittima in occasione della ceri-monia di Notre-Dame. Nel corso del prossimo ballo di corte, che ebbe luogo il 3 marzo, sua maestà si avvicinò al barone, gli espresse il pro-prio rincrescimento per non averlo visto alla cerimonia e lo intrattenne in cordiale conversazione, ignorando invece per tutto il tempo, e così pubblicamente mortificando, sua eccellenza il conte Hiibner. Tutto ciò era farina per il mulino di Pereire. Pereire non ignorava che l'amba-sciatore, il quale possedeva più antenati che denaro, non aveva nessuna simpatia per virtuosi della finanza come lui; fino a quel momento la loro collaborazione si era limitata a isolate scorrerie anti-Rothschild. Ma dopo questo nuovo oltraggio l'ambasciatore era pronto per impre-se maggiori. Perché non formare un'alleanza veramente importante, volta a distruggere quegli arcibanchieri di tutti i tempi, quei Roth-schild?

Pereire e Hiibner ebbero una lunga conversazione, che si rivelò utile ad entrambi. Pereire seppe per certo quello che aveva solo sospet-tato vagamente : a Vienna stava maturando una grossa occasione. L'Au-stria possedeva adesso una vasta rete ferroviaria, tutta di proprietà sta-tale con le sole eccezioni della linea Salomon Rothschild nel nord e di quella Sina nel sud. Ma il governo si trovava una volta di più in diffi-coltà finanziarie, e uno dei modi d'uscirne poteva essere la vendita delle ferrovie statali. Chi le avesse comprate si sarebbe messo in con-dizioni di controllare tutti i trasporti e forse anche tutto il commercio dell'Europa centrale. Anche Hiibner seppe qualcosa di nuovo, e cioè che il Crédit Mobilier voleva aiutare il gruppo Sina ad acquistare le ferrovie austriache.

Fra Pereire a Parigi e Sina a Vienna iniziarono intense trattative segrete. Consapevoli del pericolo, i Rothschild cercarono di farsi avan-ti con proposte d'acquisto, protestando che dopo tutto erano stati loro a rendere possibile la costruzione della prima bnea ferroviaria austria-ca. Ma gridavano nel deserto. Il loro Metternich era tornato a Vienna ma non al potere: non gli era più permesso di manovrare l'augusta macchina per firmare. Il blocco Pereire-Hiibner-Sina continuava frat-tanto ad accumulare successi. Sotto la guida dell'ambasciatore Hiibner un altissimo rappresentante degli interessi Sina cominciò ad operare nella capitale francese, così silenziosamente che neppure James seppe

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della sua presenza, così efficientemente che persino la famiglia impe-riale fu presa nella rete Pereire-Sina. Il comitato direttivo dell'organiz-zazione avversa ai Rothschild contava adesso fra i suoi membri, oltre ai due Pereire, a Fould e a Sina, anche il duca di Morny, fratellastro di Napoleone III.

Pereire passò alla fase decisiva dell'attacco a capodanno del 1855 : quel giorno la sua organizzazione comprò buona parte delle ferrovie statali austriache, a un prezzo alto ma relativamente vantaggioso. Il Crédit Mobilier, che aveva fornito i fondi necessari all'operazione, ave-va conquistato una forte testa di ponte in Austria.

Senza perdere un secondo, Pereire tentò immediatamente l'accer-chiamento completo del nemico, avviando trattative per l'acquisto delle altre linee controllate dal governo: la strada ferrata meridionale Vienna-Trieste, e la linea lombardo-veneta. Alla Borsa, sferrò una serie di manovre micidiali contro la compagnia ferroviaria Rothschild; i suoi agenti acquistarono separatamente pacchetti delle azioni nemiche, poi le gettarono sul mercato tutte insieme, in un'azione concentrata volta a ribassarne il prezzo. Si trattava solo d'un vecchio trucco della Famiglia; ma adesso sembrava che tutta l'astuzia e la ferocia fossero dalla parte avversaria.

Il 1855 fu un anno nero e trovò i Rothschild fragili come i comuni esseri umani, e altrettanto mortali. In quei dodici mesi cruciali, tre dei quattro fratelli superstiti seguirono Nathan nella tomba. Morì Cari di Napoli; dopo di lui fu la volta di Salomon, capo della travagliata casa di Vienna, e infine quella di Amschel. I fratelli che avevano lavorato e lottato insieme, adesso morivano quasi come una persona sola. I can-tori celebrarono riti funebri, le donne velarono gli specchi, proprio nei mesi in cui il più formidabile nemico della mishpabà ne insidiava il potere nelle sale dei consigli e alla Borsa.

Rimase solo James, il Rothschild parigino; James, e una falange di eredi. Il 1855 è, nella storia della Famiglia, una data insieme luttuosa e fausta. Quell'anno ricordò al mondo ciò che il mondo aveva quasi di-menticato: che l'ingegno, per quanto brillante, era solo una parte, e non la maggiore, della forza dei Rothschild; che la loro qualità più formidabile era (e quindi è) la continuità; che l'arma micidiale usata dal patriarca Mayer sarebbe stata trasmessa anche ai cinque fratebi, per diventare più potente dopo la loro morte : i figli.

Pereire era un grande esperto e imitatore dell'arsenale Rothschild; ma s'era dimenticato i figli. In particolare, non aveva tenuto nel debito

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conto Anselm, figlio di Salomon. Quasi avesse voluto mimetizzarsi, Anselm non aveva mai rivelato una personalità fuor del comune. Pre-se in mano le redini della Casa di Vienna dopo la cinquantina, e dopo aver condotto per decenni, rispetto alla finanza, la vita d'un principe di Galles, con scappatelle da play boy a Vienna, Parigi, Copenaghen e Berlino; era poi finito a Francoforte, dove aveva trovato il vecchio zio Amschel a fargli da aio e la dignità di console austriaco a tenerlo lon-tano dalle strade la notte. Che pericolo poteva rappresentare per un lanciatissimo Pereire?

Il Crédit Mobilier di Pereire era ormai diventato il principale strumento finanziario dell'impero francese, massima potenza europea del decennio 1850-60. Pereire aveva messo in scacco James, aveva ot-tenuto la concessione per costruire le prime strade ferrate russe, era riu-scito a comprare buona parte di quelle austriache e probabilmente si sarebbe preso anche il resto. A coronare il tutto, stava per fondare a Vienna una banca ispirata agli stessi principi del Crédit Mobilier.

Ma a Vienna Pereire ebbe la prima sorpresa. Quando il progetto arrivò davanti ai ministri austriaci competenti, Pereire si sentì dire che esisteva già, ed era a buon punto, un progetto per una società austriaca dello stesso genere. Anche quella era una "banca popolare". Anche quella vantava tra i suoi fondatori gente dai nomi illustri come Fiir-stenberg, Schwarzenberg, Auersperg; aveva persino la sfacciataggine di ricalcare il nome del Crédit Mobilier: si chiamava Creditanstalt. E chi l'aveva organizzata, chi la dirigeva e ne era il principale finan-ziatore? Anselm von Rothschild.

Dalla sera alla mattina il principino viziato s'era trasformato in un animale da preda, astuto, rapido e crudele come i Rothschild che lo avevano preceduto. La sua compagnia emise non meno di 500.000 azioni (di contro alle 120.000 di Pereire). E se in Borsa la Creditan-stalt aveva un successo non inferiore a quello del Crédit Mobilier, era però diretta con più astuzia e insieme con maggiore circospezione; non sarebbe mai stata, come la rivale, alla mercé delle simpatie degli speculatori.

Per il momento, a Pereire le azioni interessavano meno delle fer-rovie; ma d'improvviso Rothschild lanciò una controffensiva anche in quel settore. E "Rothschild" non significava solo Anselm: a Londra Lionel era succeduto a Nathan; in Francia, cominciava a mettersi in luce Alphonse, il figlio maggiore di James. I cugini formavano un terzetto compatto e solidale quanto lo era stato un tempo il quintetto

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dei figli di Mayer; tutti e tre avevano lo zampino nella Creditanstalt. Al principio del 1856 fecero al governo austriaco una proposta così spettacolosa che il ministro delle finanze non potè respingerla; in cam-bio di cento milioni di lire (quasi cinquanta milioni di dollari) ebbero tutta la rete ferroviaria austriaca del Lombardo-Veneto.

Con un solo colpo avevano fatto impallidire tutte le conquiste di Pereire. Nello stesso tempo, i loro agenti attaccavano il Crédit Mobi-lier in tutte le principali Borse d'Europa, e mentre Pereire era impe-gnato a rintuzzare questi attacchi, i tre sferrarono un'altra gigantesca offensiva nel settore ferroviario: Anselm, Lionel e Alphonse acquista-rono la concessione per la ferrovia meridionale austriaca e l'unirono alle linee lombardo-venete in un unico formidabile sistema.

Pereire tuttavia non era all'estremo delle risorse, il Crédit Mobilier disponeva ancora di grandi riserve di fondi, e nelle operazioni inter-nazionali di credito continuava a scavare il terreno sotto i piedi della Famiglia. Nel 1859 i Rothschild stavano per condurre in porto i nego-ziati per un prestito al regno di Sardegna, ma il Crédit Mobilier fece fallire le trattative con le proprie offerte e campagne. Il primo mini-stro Cavour espresse in quel frangente la convinzione che, se la Sarde-gna avesse divorziato dai Rothschild per sposare i Pereire, il nuovo matrimonio sarebbe stato molto felice. Alla fine, il prestito fu emesso dagli stessi piemontesi; il Crédit Mobilier aveva dato lo scacco ai Rothschild in Italia.

Ma Pereire cominciava ad essere a corto di munizioni. Quei dan-nati Rothschild della nuova leva lo attaccavano da dodici parti per volta : continuavano a sparare i loro grossi pezzi d'artiglieria sui fronti finanziario e industriale, e intanto operavano penetrazioni in campo diplomatico. Anselm, per esempio, diventò abilissimo nel manovrare da dietro le quinte la politica austriaca, tanto che nel 1859 Hùbner fu sostituito nella carica di ambasciatore a Parigi dal principe Richard Metternich, figlio del grande amico della Famiglia.

Il Crédit Mobilier dovette rinunciare agli avamposti austriaci e italiani e raccogliere tutte le sue forze nella difesa della Francia; ma anche qui i Rothschild perseguitavano Pereire senza dargli il tempo di riprender fiato. Lo spinsero su un terreno sdrucciolevole con una tatti-ca diabolica: quando era in gioco un buon investimento, se lo aggiu-dicavano offrendo condizioni rovinosamente vantaggiose; quando in-vece si trattava di prestiti non troppo sicuri, la Famiglia, dopo aver aguzzato l'appetito del rivale con qualche finta, faceva sempre in modo

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di uscire sconfitta dalla gara. Il finanziamento dell'impresa imperiale - condannata in partenza - di Massimiliano nel Messico fu una delle polpette avvelenate che vennero gentilmente lasciate cadere nella bocca del nemico. Pereire tossì, bestemmiò, ma dovette ingoiarla.

Nel 1860 le azioni del Crédit Mobilier erano a quota 800: poco, in confronto ai tempi d'oro in cui erano a 1.600, ma sempre qualcosa più del valore nominale. Per conservare la fiducia del pubblico il Cré-dit pagava alti dividendi, ma non con i guadagni, bensì con denaro sottratto al capitale.

La morsa dei Rothschild continuava a stringersi. Nel 1861 cominciarono a manifestarsi i segni premonitori della

definitiva caduta di Pereire. Il primo ad essere eliminato fu Jules Mi-res, suo indiretto alleato. Questo ciarlatano di primissimo ordine (ne abbiamo già fatto conoscenza) aveva fatto molta strada dai tempi in cui ricattava medici e compagnie ferroviarie: adesso era membro dei consigli di Napoleone e, grazie all'accorto matrimonio di sua figlia, suocero del principe di Polignac. Mires aveva stretto un'alleanza d'af-fari con il duca di Morny, fratellastro dell'imperatore, e tramite suo con il Crédit Mobilier. I Rothschild lo scelsero a loro prima vittima. La stampa scandalistica parigina, per la quale aveva continuato a lavorare, non potè salvare i suoi pacchetti d'azioni quando nemici miliardari decisero di valersi di tutta la loro capacità di pressione per metterlo fuori gioco alla Borsa. Nel 1861 la polizia lo arrestò per frode.

Lo scandalo Mires danneggiò ulteriormente il credito dell'impero francese, la cui solidità vacillava da anni; da quando, si potrebbe quasi dire, il barone James era stato costretto ad abbandonare il centro della scena. Napoleone III squadrò freddamente i suoi banchieri. Quando ebbe finito di squadrarli, Achille Fould, ministro delle finanze e pietra angolare del Crédit Mobilier, diede le dimissioni.

Un anno dopo Fould tornò in carica. Pereire credette che il vento fosse cambiato un'altra volta, corse dall'amico e gli chiese il monopolio delle attività creditizie dello stato; ma dovette constatare che Fould non era più un amico. Monsieur le Ministre si mostrò molto freddo, evasivo, affaccendato. Nello stesso tempo i titoli di stato francesi, che in Borsa avevano fatto sin allora una figura lagrimevole, ripresero quota grazie a grossi acquisti anonimi. Ma in Francia esisteva una sola forza capace di riportare a galla titoli così svalutati : i Rothschild.

I Rothschild dunque aiutavano Fould, cioè cospiravano con lui?

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Possibile? Dodici anni innanzi Pereire aveva disertato la Famiglia per Fould: sarebbe stato Fould, ora, a disertare Pereire per la Famiglia? E possibile che anche l'imperatore, che da tanto tempo era dalla parte di Pereire sul fronte finanziario, passasse alla parte avversa?

Era tanto possibile che l'imperatore lo fece, con accompagnamento di fanfare, bandiere, e con sfarzoso seguito. Il 17 febbraio 1862 Napo-leone onorò di una visita ufficiale Rothschild I, re degli ebrei. Lo spet-tacolo si svolse a Ferrières, la stupenda tenuta che James aveva acqui-stato di recente.

Nel momento in cui l'imperatore fece il suo ingresso a Ferrières, le bandiere imperiali furono issate insieme a quelle della Famiglia su tutte le quattro torri del castello. Circondato da un esercito di servi in livrea, campeggiando su un folto tappeto verde ricamato ad api d'oro, il vecchio James de Rothschild diede il benvenuto al monarca; e lo guidò poi attraverso immense sale stile Rinascimento, piene di tesori raccolti in tutto il mondo, fra pareti adorne di Van Dyck, Velasquez, Giorgione, Rubens.

Un'usanza della Famiglia voleva che a tutte le teste coronate in visita si chiedesse di piantare un alberello di cedro nei giardini. Dopo aver fatto il suo dovere, Napoleone mangiò in porcellane di Sèvres dipinte da Boucher, ascoltò musiche composte per l'occasione dal mae-stro Rossini, poi usci a caccia nelle immense riserve della tenuta. Quando gli ospiti tornarono al castello - dopo avere ucciso, in un solo pomeriggio, 1.231 capi di selvaggina - il coro dell'Opera di Parigi in-tonò per loro una canzone di caccia mentre veniva servito un ricerca-tissimo buffet. E quando, a notte, il sovrano ripartì, la sua carrozza passò attraverso due siepi di torce che rischiaravano la via sino al confine estremo della tenuta.

Fra gli ospiti riuniti quel giorno a Ferrières c'erano gli ambascia-tori inglese e austriaco, i ministri francesi dell'interno e degli esteri e Achille Fould, ministro delle finanze.

Pereire, ben lungi dal sedere alla tavola imperiale, era comparso davanti a un giudice; ce l'avevano mandato i macellai per i quali ave-va fondato la sua banca. Il Crédit Mobilier cominciava a sentire in pieno le conseguenze del disastro messicano. Rimaneva un'ultima ri-sorsa! Pereire e il fratello rivolsero un appello disperato all'amico e protettore d'un tempo, Luigi Napoleone.

« Farò qualunque cosa » dichiarò l'imperatore « per aiutarli, per-ché l'impero ha con loro un gran debito; ma non posso permettermi

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di ostacolare il corso della giustizia, o di venire in conflitto con essa. » Era una magra consolazione. Nel dicembre 1866 le azioni del Cré-

dit Mobilier erano a quota 600. Nell'aprile 1867 la società dovette esporre una perdita di otto milioni di franchi; le azioni calarono a 350, e nell'ottobre caddero alla quota incredibilmente bassa di 140. Il Crédit Mobilier crollò.

Emile Pereire^ il grande astro delle finanze, scomparve dall'oriz-zonte. Implacabile come il clan, e altrettanto ben introdotto, non ne aveva posseduto né la solvenza illimitata né quell'istinto sicuro che permetteva ai suoi nemici di distinguere fra rischio sottilmente calco-lato e speculazione temeraria. Achille Fould, nonostante tutti i suoi voltafaccia, dovette dare di nuovo le dimissioni, questa volta irrevoca-bilmente.

Quanto a Napoleone III... Vi fu un altro ballo alle Tuileries, alla fine del 1860. « Entendez vous? » disse James, sullo sfondo sonoro d'un altro valzer. « Pas de paix, pas d'Empire. »

La frase doveva rivelarsi profetica e diventare famosa. James morì nel 1868 a settantasei anni, troppo presto per vedere avverata la sua predizione. Due anni dopo Napoleone iniziò la disastrosa guerra con-tro la Prussia. I tedeschi lo catturarono a Sedan; i francesi lo deposero a Parigi. Ironia della sorte, fu tenuto prigioniero al castello di Wil-helmshoe, quello stesso che per Mayer e i suoi figli aveva rappresen-tato la prima tappa sulla strada della ricchezza e di un durevole potere.

Attraverso crisi e sconvolgimenti, i pavoni, i Giorgione, i cedri piantati da mani regali continuarono a moltiplicarsi a Ferrières, il ca-stello dei Rothschild. Anche il secondo impero era stato solo una fase nel progresso della Famiglia.

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La "mishpahà" junior

LA SECONDA GENERAZIONE

Primo: Anselm

La laboriosa vendetta contro il Crédit Mobilier aveva lasciato in ombra un'altra importante evoluzione deba Famiglia. La maggior parte dei Rothschild cominciava a sentirsi veramente a casa nei palazzi. I fondatori erano stati, come spesso accade, dei pirati. I figli erano ca-paci, se provocati, di menare qualche ben diretto fendente; ma questa era un'abilità puramente occasionale, rispetto all'essenziale qualità di gentiluomini. Ogni generazione Rothschild seguì la sua vocazione senza indulgere a compromessi; la mishpahà junior e la mishpahà III andarono alla conquista della più aristocratica raffinatezza con quello stesso slancio con cui i capostipiti avevano conquistato immense ric-chezze.

In Austria, dove la società era più intollerante con gli ebrei, questa ascesa sociale fu tanto più significativa. Il figlio di Salomon, Anselm, aveva cominciato a regnare sulla branca austriaca della Famiglia nel 1855, non molto tempo dopo che Francesco Giuseppe aveva comin-ciato a regnare sull'impero degli Absburgo. Il giovane imperatore - una personalità forte, altera - non era una macchina per firmare, e neppure uomo da tollerare un cancelliere tipo Metternich né tanto meno un banchiere assoluto tipo Salomon Rothschild.

Anselm non ebbe dunque a disposizione nessuna delle leve che suo padre aveva manovrato così efficacemente. Seppe tuttavia crearsi i pro-pri strumenti di potere: meno diretti, più sottili, e in definitiva altret-tanto efficaci. Suo padre era stato un ebreo cortigiano'; lui fu un ebreo gentiluomo. Quando Francesco Giuseppe tornò da un lungo viaggio, Anselm volle celebrare l'evento con un gesto pieno di signorilità, quasi omaggio di grande aristocratico ad un suo pari.

« Mio caro ministro » scrisse al ministro degli interni « ... i nostri cuori corrono incontro al Padre del nostro paese per augurargli il ben-venuto. Come parziale soddisfazione ai miei sentimenti, vorrei dare un piccolo contributo per alleviare le sofferenze dei bisognosi di Vien-

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na, con la somma qui acclusa di cinquemila fiorini... di cui Lei farà l'uso che Le sembra più opportuno. »

Notiamo una significativa differenza di tono, tra le febbrili servi-lità del padre Salomon e questa elargizione fatta con una certa elegan-za. Il vecchio Salomon, nonostante la sua sconfinata ricchezza e il suo potere, aveva dovuto ricorrere agli intrighi per ottenere la cittadinanza viennese. Anselm,. ancora più ricco di lui, fu iscritto nel libro d'oro della capitale austriaca e nel 1861 divenne membro della Camera Alta. Usava aba perfezione la lingua del ghetto, ma il suo linguaggio naturale era il tedesco di Schònbrunner : la morbida, musicale parlata della nobiltà austriaca, che è di gran lunga la forma più dolce di tedesco parlato.

Le residenze di Anselm, come le sue beneficenze, erano imponenti; la sua vendicatività, almeno in un'occasione, temibile. Un club che aveva sede in un casino presso Vienna gli rifiutò l'iscrizione per i so-liti motivi antisemitici. Allora Anselm regalò al vicino villaggio una moderna concimaia e l'installò a portata di vista e d'olfatto del sin allora impeccabile casino. Immediatamente gli venne inviata una tes-sera d'iscrizione; ma i lavori continuarono, e la tessera tornò indietro a giro di posta in una busta fragrante di costosissimo profumo.

Secondo: Lionel e fratelli

Quello che più si distinse per lo splendore e la varietà delle sue conquiste sociali, in questa fiera delle vanità, fu il ramo inglese della Famiglia. Ci volle, naturalmente, il suo tempo. Nathan era morto così improvvisamente, e relativamente così presto nella storia del progresso totale del clan, che gli eredi dovettero riconfermare la loro egemonia sul mondo degli affari prima di andare alla scalata della società.

Lionel, il maggiore dei figli di Nathan, prese il posto del padre a New Court; ma la Borsa vedeva, invece del giovane Rothschild in carne ed ossa, solo i suoi agenti. Nessuno veniva più ad appostarsi vicino alla "colonna Rothschild". I rivali trassero motivi d'ottimismo da questo e dal fatto che, come molti inglesi di alto rango, Lionel in-dulgeva a qualche ambizione di cultura (frequentò l'università di Got-tinga), al patriottismo, al noblesse oblige\ il terribile Nathan non s'era lasciato distrarre da hobby e considerazioni di questo genere. Il ramo

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inglese del clan sembrava avviato a una raffinata decadenza. Si sarebbe lasciato superare dai suoi rivali?

La domanda ebbe presto risposte conclusive. Uno dei legati di Na-than era un incompleto prestito nazionale per venti milioni di sterli-ne, destinate al rimborso dei padroni di schiavi dopo l'abolizione della schiavitù nei dominion della corona inglese; il giovane erede condusse in porto l'affare con abilità consumata. Inoltre contribuì più d'ogni al-tro a mettere insieme gli otto milioni di sterline con cui il governo britannico soccorse nel 1847 le vittime della carestia irlandese, e nel 1854 emise il prestito per sedici milioni di sterline che permise alla Gran Bretagna di proseguire la guerra di Crimea.

Tutte queste operazioni avevano però una certa sfumatura politica, che l'erede di Nathan seppe magistralmente sottolineare. La prima mi-se in luce il "liberalismo ragionevole" e l'antischiavismo della Casa. L'operazione irlandese fu una specie di illuminata opera di beneficen-za, carattere messo in tanto maggior rilievo dal fatto che Lionel rinun-ciò alla sua commissione. Il prestito per la guerra di Crimea rappre-sentò una deliberata rottura con la politica di pacifismo ad oltranza della Casa: per combattere il governo antisemita dello zar, i Roth-schild misero a tacere i loro scrupoli contro la guerra.

Altre operazioni vennero compiute più esclusivamente a scopo di lucro. Molti dei diciotto prestiti statali emessi durante la carriera di Lionel (per la vertiginosa somma totale di 1.600 milioni di sterline, quasi 25.000 milioni di dollari) rientrano in questa categoria. New Court giocò una parte di primo piano nel dare alla mishpahà il con-trollo dei giacimenti europei di mercurio; allargò la sua influenza al Sud-Africa, dove Cecil Rhodes stava cominciando a costruire un im-pero di diamanti; finanziò oltremare imprese per lo sfruttamento di grandi giacimenti di nitrati e di rame.

La nuova generazione cominciò a perdere l'abitudine di scendere direttamente nell'arena politica in cerca della ricchezza; la nuova ten-denza era verso imprese più esclusivamente economiche e quindi me-no esposte. Nella buona società, uno non fa la storia col sudore della propria fonte: stipendia altri che facciano la storia per lui, e intanto va alle partite di caccia alla volpe.

Lionel lo sapeva bene. Temperò il potere con la dignità, una sfu-matura a cui per I'innanzi New Court non aveva dedicato molta atten-zione. Suo fratello Anthony era un cavallerizzo di prim'ordine e fu creato cavaliere della regina; Mayer, il più giovane, allevava purosan-

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gue, brillava al Jockey Club e fu il primo Rothschild che vinse il Derby. Alla Casa di Londra, che aveva già un banchiere gentiluomo, un baronetto, uno sportivo, mancava solo un'ultima eleganza per com-pletare la gamma delle attività aristocratiche; vi provvide Nathaniel, il quarto fratello, un esteta invalido che viveva a Parigi. Nonostante una paralisi parziale (conseguenza d'un incidente di caccia), egli face-va collezione di capolavori, teneva un brillante salotto e siccome desi-derava avere una. sua marca di vino comprò i famosi vigneti di Mou-ton vicino a Bordeaux.

I tre fratelli residenti in Inghilterra furono tre personaggi di pri-mo piano nella società vittoriana. Per cominciare da Lionel, dobbiamo cominciare da Gunnersbury Park. Nel 1835, poco prima di morire, Nathan aveva comprato la tenuta per potervi passare qualche giorno di riposo poco lontano da Londra. Un tempo vi aveva abitato la prin-cipessa Amelia, figlia di Giorgio II, ma per Gunnersbury l'epoca d'oro cominciò solo dopo che Lionel l'ebbe ereditato; nel corso degli anni avrebbe riempito quel luogo di splendori quali l'Inghilterra non aveva mai visto, fuorché nei possedimenti di sua maestà.

Oltre ai laghi e ai cigni di rito, Gunnersbury conteneva una lumi-nosa villa di stile italiano, splendidi viali, immense aiuole a forma di cesti orlate di eliotropi, rosai rampicanti, pergolati, panchine. V'era un grandissimo giardino giapponese, completo di bambù giganti, ruscel-letti, ponti di pietra, palme e templi. « Meraviglioso » disse l'amba-sciatore del mikado alla sua prima visita. « In Giappone non abbiamo nulla di simile. »

I ricevimenti offerti da Lionel erano degni di questa scenografia. « Il banchetto » scriveva d'uno fra tanti Disraeli « non potrebbe essere superato in splendore e ricercatezza neppure a Windsor o a Buckin-gham Palace. »

Una festa campestre che si svolse nel luglio 1845 in onore del duca •e della duchessa di Cambridge e della duchessa di Gloucester fu il massimo evento sociale della stagione londinese; duchi di sangue reale e non reale, principi, diplomatici, i pezzi grossi della City e altri cin-quecento sceltissimi ospiti pranzarono in tende montate nel grande parco, passeggiarono alla luce di migliaia di lampade multicolori, ascoltarono virtuosi e primedonne scelti fra i migliori musicisti di cin-que capitali.

Dopo la rivoluzione del 1848, rappresentanti della più rarefatta aristocrazia francese - come la duchessa di Orléans, il duca di Chartres,

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il conte di Parigi - addolcirono qui il loro esilio. (Tutto e nulla cambia. Cinque mesi prima della stesura di questa pagina, l'attuale contessa di Parigi è stata ospite di una grande festa in giardino offerta dalla vedo-va di Edouard de Rothschild.) Il cardinale Wiseman accettò pronta-mente un invito: a titolo di protesta - si disse - contro quella legge dello stato pontifìcio che ancora confinava gli ebrei nel ghetto. Senza sua colpa, il cardinale provocò l'unica grossolana manifestazione di pregiudizio religioso che si sia mai verificata in quel palazzo ebraico : un protestante rifiutò di sedere allo stesso tavolo di sua eminenza cat-tolica.

Nel 1857 Gunnersbury vide le nozze della figlia maggiore di Lio-nel, Leonora. Leonora aveva, per usare le parole di un commentatore, « meravigliosi... occhi, liquidi, a forma di mandorla, il carnato soave di una rosa tea», e apparteneva al novero delle classiche bellezze in-glesi d'ogni tempo, come la duchessa di Manchester, lady Constance Grosvenor e Mrs. Bulkeley. Il suo sposo era, nei termini della Fami-glia, l'unico giovane al mondo degno di sollevare il suo velo nuziale: Alphonse, suo cugino e futuro capo della casa francese. La mattina del-le nozze, a colazione la banda delle First Life Guards sonò sotto le fine-stre degli sposi. Tutto il gran mondo assistette alla cerimonia con cui, sotto la chuppà retta dai suoi fratelli, Leonora de Rothschild diventò la baronessa Alphonse de Rothschild. L'ambasciatore francese levò il bicchiere e pronunciò un brindisi in onore deba sposa. Seguirono i brindisi di un passato e di un futuro primo ministro dell'impero : lord John Russell e Benjamin Disraeli.

« Sotto questo tetto » proclamò Dizzy, con la sua solita simpatica magniloquenza, « sono riuniti i capi del nome e della famiglia Roth-schild - un nome famoso in tutte le capitali d'Europa, in tutte le regio-ni del globo - una famiglia non più rispettata per le sue ricchezze di quanto sia stimata per i suoi meriti, l'integrità, lo spirito pubblico. »

Otto anni dopo Lionel diede in moglie l'altra figlia, Evelina, al-l'unico giovane dell'universo degno di sollevare il suo velo nuziale: Ferdinand de Rothschild, suo cugino e figlio del capo della casa austriaca. Tra le damigelle d'onore c'erano fanciulle che portavano no-mi altisonanti come Montgomery, Lennox e Beauclerk. Il primo lord dell'ammiragliato brindò alla salute della famiglia e Dizzy, ancora con la solita simpatica magniloquenza, pronunciò un altro brindisi in ono-re di quest'altra sposa.

Una nota piccante distinse questo matrimonio dal primo. La ma-

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dre di Ferdinand, una Rothschild inglese (la figlia maggiore di Na-than) era tornata in Inghilterra per sempre: aveva lasciato Anselm perché il capo della Casa austriaca collezionava concessioni ferroviarie e amanti con pari zelo. Questa frattura coniugale non compromise la solidarietà dinastica, e lo dimostrarono la presenza dell'ambasciatore austriaco e di rappresentanti del ramo viennese della Famiglia.

Un altro esempio' della tolleranza tipica di Casa Rothschild fu of-ferto da un incidente che fece la delizia di tutti gli ebrei di Gran Bre-tagna. Benjamin Disraeli, futuro lord Beaconsfield, era un ebreo bat-tezzato. Quando il cantore fu sul punto di pronunciare le benedizioni, il padre della sposa non seppe resistere alla tentazione di punzecchiare l'amico.

« Ben, » lo interpellò a gran voce davanti a tutta la folla degli in-vitati « qui siete talmente tanti, voi cristiani, che il nostro chazzàn [yiddish per cantore] chiede se deve leggere semplicemente le pre-ghiere o cantarle come nella sinagoga. »

« Oh, che le cantino, per piacere » rispose Dizzy. « Mi piacciono tanto le vecchie arie. »

Ma ciò che soprattutto differenziò il secondo matrimonio dal pri-mo fu la scena in cui si svolse : non Gunnersbury Park, ma la nuova dimora cittadina di Lionel appena costruita al n. 148 di Piccadilly, accanto ad Apsley House - la residenza del duca di Wellington - con la quale presto rivaleggiò in fama. Alto sei piani, questo monstrum vittoriano aveva splendidi scaloni di marmo bianco, una sala da ballo grande come lo yacht della regina, tende di satin sfarzosamente rica-mate e larghe e lunghe come vele maestre, sfilate interminabili di sa-loni e salotti rilucenti di marmi e di ori. Gli arredi comprendevano, fra le tante innumerevoli meraviglie, un servizio da tavola in argento, opera di Garrard, pesante quasi trenta chilogrammi, e il famoso ser-vizio verde-mela di Sèvres dipinto parzialmente da Le Bel, un dupli-cato del quale la Famiglia regalò all'attuale regina Elisabetta come do-no di nozze. Dal sommo del palazzo si dominavano Hyde Park e Green Park, oltre al tetto della casa del duca di Wellington, con la seggiola di ferro su cui il duca sedeva per osservare senza esser visto le truppe che passavano marciando.

Nella casa di Lionel, Disraeli gustava quelli che riconosceva di buon grado "i migliori pranzi di Londra". E all'ospitalità di Lionel questo pittoresco genio dovette alcuni fra i più importanti momenti della sua vita privata e professionale.

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« Mister Disraeli, » gli disse una sera la padrona di casa « è ora di passare in sala da pranzo. Vuol dare il braccio a Mrs. Wyndham Lewis? »

« Ohimè, qualunque cosa ma non quella donna insopportabile! » borbottò Diz; ma diede il braccio a Mrs. Lewis, e ripetè il sacrificio altre serate in casa Rothschild, e la sposò quando fu libera, e trovò in lei Tindispensabile sostegno di un'alta carriera.

Anche uno fra gli eventi più memorabili di quella carriera si prean-nunciò durante un pasto in casa Rothschild; il pasto serale, per essere precisi, di domenica 14 novembre 1875. Disraeli, ormai primo mini-stro, cenava con Lionel al 148 di Piccadilly, come faceva ogni fine di settimana. Era stata appena servita la portata principale, quando il maggiordomo si avvicinò con il vassoio dei telegrammi. Nel momento in cui Lionel allungò la mano e prese quel foglio di carta, ebbe inizio un capitolo della storia della Famiglia che, per concentrata drammati-cità, ci ricorda quello di Waterloo.

Il messaggio veniva da uno degli informatori parigini del barone. Rothschild tacque un momento dopo averlo letto, poi ne riassunse ad alta voce il contenuto : il kedivè d'Egitto, carico di debiti, aveva offerto le sue azioni della compagnia del canale di Suez al governo francese, ma le condizioni poste dalla Francia non gli convenivano e aveva perso la pazienza.

Rothschild e Disraeli si guardarono dividendo lo stesso pensiero. Il canale di Suez aveva un'enorme importanza finanziaria e strategica; da molto tempo la Gran Bretagna cercava di assicurarsene il controllo, ma non era ancora riuscita a indurre il kedivè a negoziati. Evidente-mente questi si trovava adesso in tali difficoltà economiche che avreb-be vendute le sue 177.000 azioni a chiunque fosse stato in grado di pagare un prezzo abbastanza alto in un tempo abbastanza breve.

Alla fine, il primo ministro aprì bocca. Disse una parola sola: « Quanto? ».

Immediatamente Lionel inviò a Parigi un telegramma contenente questa domanda. Il cibo nei piatti era diventato freddo, ma né ospite né anfitrione avevano più molto appetito; il dessert fu portato in tavola e riportato via intatto, benché normalmente Lionel fosse golosissimo di frutta fresca. Prima che arrivasse il brandy, il vassoio dei telegram-mi aveva fatto un'altra apparizione. La risposta era: cento milioni di franchi, cioè quattro milioni di sterline, cioè quarantaquattro milioni di attuali dollari americani.

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« Le prendiamo » disse il primo ministro. « Ah... » disse Lionel. Per lui l'incertezza era finita, anche se per il

mondo stava appena per cominciare. Lunedì mattina, a Downing Street, la notizia che Rothschild aveva

avuta per primo fu confermata da altre fonti. Il primo ministro e i suoi collaboratori si trovarono d'accordo nel pensare che l'Inghilterra doveva battere il ferro finché era caldo, afferrare l'occasione prima an-cora che gli altri paesi ne conoscessero l'esistenza : la rapidità non era meno essenziale della segretezza. Ora il parlamento era in vacanza e non poteva quindi stanziare la somma, né Disraeli poteva fare appello alla Banca d'Inghilterra : una legge proibiva di prestare denaro al go-verno mentre la Camera dei comuni non era in sessione. In ogni caso la "Vecchia Signora" di Threadneedle Street non avrebbe potuto met-tere insieme in così poco tempo tanti milioni senza sconvolgere il mercato monetario. E le banche costituite sotto forma di società per azioni, i loro presidenti non avrebbero potuto disporre d'una somma così enorme se non dopo laboriose convocazioni dei consigli d'ammi-nistrazione.

« Non abbiamo neanche il tempo di tirare il fiato! » esclamava Disraeli in una nota alla regina Vittoria.

Tutto ciò, naturalmente, portava a una conclusione inevitabile, già implicita nell'«Ah... » del barone Lionel. Disraeli convocò i suoi mi-nistri, ottenne la loro autorizzazione, poi schiuse la porta della sala in cui era riunito il gabinetto e disse una sola parola prestabilita : « Sì ». Il suo segretario balzò in una carrozza già in attesa, per essere intro-dotto di lì a poco nella sala dei soci di New Court.

Là, alla stessa scrivania a cui siede ora Edmund de Rothschild, c'era suo nonno, comodamente appoggiato allo schienale della poltro-na, che mangiava uva moscata. Continuò a piluccare il suo grappolo mentre l'inviato di Disraeli gli diceva che il governo britannico avreb-be molto gradito quattro milioni di sterline per l'indomani, se il baro-ne voleva essere così gentile.

Per due secondi Lionel assaporò l'acino che aveva in bocca. «Ve li darò » disse, e sputò educatamente i semi.

Entro quarantott'ore il Times di Londra annunciava che la N. M. Rothschild & Sons aveva accreditato in conto al kedivè la somma di quattro milioni di sterline, e che tutte le azioni della Compagnia del canale già in possesso del kedivè appartenevano adesso al governo di sua maestà britannica. Quelle azioni, più un piccolo pacchetto posse-

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I 5.1 favolosi Rothschild

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eluto in precedenza dalla Gran Bretagna, davano a quest'ultima il dirit-to al voto di maggioranza. Ora il paese controllava la nuova linea di comunicazione vitale, la più importante del globo.

«È tutto sistemato» scriveva Disraeli il 24 novembre 1875, in una lettera giubilante alla regina. « È vostro, Signora. Il governo fran-cese è stato battuto... Quattro milioni di sterline! e quasi immediata-mente. C'era una sola ditta che lo poteva fare : la Rothschild. »

Nel 1935 il pacchetto azionario comprato a quel prezzo figurava all'attivo della nazione per un valore di oltre novantatré milioni di sterline, e i dividendi che l'Inghilterra ricevette fin quasi dall'inizio bastarono abbondantemente a coprire il tenue interesse del 3 per cento chiesto da Lionel: nel solo anno 1936-37 il canale rese all'Inghilterra 2.248.437 sterline, cioè il 56,5 per cento della somma investita nel-l'acquisto.

La cena offerta a Disraeli quella sera comprendeva dunque una portata straordinariamente sostanziosa. Anche prima di quell'occasio-ne Disraeli aveva però ringraziato i suoi amici per i piaceri di cui era loro debitore con eleganza e generosità da par suo. Fra i personaggi del suo più fortunato romanzo, Coningsby, figurano in primo piano i Sidonia, una ricca, potente, ammirevole, intelligente e facilmente iden-tificabile famiglia ebraica; anzi, supremo fra gli omaggi, la loro perso-nalità rivela alcuni tratti in comune con quella dell'autore.

Terzo: Signori di campagna

La casa di Lionel al 148 di Piccadilly non era l'unica in quei pa-raggi in cui un primo ministro potesse sedersi a cena. Al 143 della stessa strada, Ferdinand Rothschild aveva il suo palazzo Luigi XVI con una squisita sala da ballo bianca, sua sorella viveva con regale splendo-re al 142; al 107, la prima casa della famiglia nel West End, acqui-stata dal capostipite Nathan, abitava Mayer; poco lontano, a Grosvenor Place, c'era la magnifica dimora di Anthony, il figlio di mezzo di Na-than; a poco più d'un tiro di pietra (preziosa), a Seamore Place e Hamilton Place, i figli di Lionel cominciarono a costruire i loro grandi palazzi. Prima che passasse molto tempo la zona era stata battezzata "Rothschild Row": una sorta di ricostruzione, ma su un piano di splendore fiabesco, della Judengasse di Francoforte.

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Frattanto era nato, come un'isola nella regione più verde del Buckinghamshire, anche un "bosco Rothschild". Pioniera era stata la moglie di Nathan. Da brava madre ebrea, Mrs. Nathan pensava che i suoi ragazzi si logoravano la salute nell'aria fuligginosa della città; comprò quindi una tenuta di caccia nella valle di Aylesbury. Mayer, il più giovane, si lasciò presto contagiare dallo spirito bucolico e ricor-se ai servigi di quello stesso James Paxton che aveva costruito per il principe Alberto il Crystal Palace della fiera di Londra. Per Mayer, Paxton costruì una supervilla anglo-normanna battezzata Mentmore Towers, che il proprietario riempì di mobili intarsiati, arazzi, vasi, tap-peti e oggetti di squisito antiquariato, e circondò di giardini, parchi, pascoli, scuderie di cavalli da corsa. Il tutto fece esclamare a lady Eastlake che « i Medici non ebbero mai un alloggio simile neanche al colmo della loro gloria ».

Grazie all'affettuosa preoccupazione di una madre devota Mayer diventò così, invece d'un pallido abitante della City, il più abile cac-ciatore, il più preciso tiratore, il più spavaldo cavallerizzo, il più alle-gro barone che l'aristocrazia inglese potesse vantare. E anche il più ospitale. A Mentmore Towers, Delane, direttore del Times, mitragliava di brillanti battute la sopra citata lady Eastlake, una famosa lingua lunga che gli rispondeva per le rime. Il primo ministro Gladstone cercava di placare i bollenti spiriti, Matthew Arnold interveniva di tanto in tanto con qualche frase piena di misurata saggezza, e William Makepeace Thackeray sedeva compostamente e silenziosamente in di-sparte, com'è spesso costume degli scrittori, e di tanto in tanto buttava là un mot juste. Uno di questi fu così juste che diventò di pubblico dominio, ma attribuito a Talleyrand, cui fu fatto credito d'averlo pro-nunciato a un pranzo dei Rothschild "francesi". Ma la paternità spetta a Thackeray; e fu il suo commento a una delle tirate di lady Eastlake sulla moda.

« Gli abiti delle donne » disse Thackeray « somigliano spesso a una giornata d'inverno. Cominciano troppo tardi e finiscono troppo presto. »

Un'altra tenuta di campagna dei Rothschild era per Thackeray fonte di più tenera ispirazione. Il fratello maggiore di Mayer, il barone Anthony, s'era fatto a Aston Clinton (subito fuori Aylesbury) una casa fastosa come quella di Mayer ma più di buon gusto. Vi soggior-navano volentieri Robert Browning, lord Tennyson, Gladstone e Di-sraeli (i due primi ministri che continuavano a succedersi l'un l'altro),

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Matthew Arnold e Thackeray. l e figliolette del barone Anthony po-tevano fare un corso accelerato di storia politica e letteraria inglese del diciannovesimo secolo solo passeggiando nel salotto del padre.

Ma torniamo alla tenera ispirazione. L'infatuazione di Heine per la moglie di James di Parigi non fu più forte di quella di Thackeray per la moglie di Anthony di Aston Clinton. In Pendennis lo scrittore schizzò di lei questo toccante ritratto :

Ho visto solo ieri una signora ebrea con un bimbo alle ginocchia, una signora nella cui faccia volta verso il bimbo splendeva una dolcezza co-sì angelica che sembrava avvolgere entrambi d'una aureola di luce: Giuro che avrei potuto inginocchiarmi anche davanti a lei, e adorarla nella sua divina beneficenza.

Essere immortale è certo piacevole, ma per una ragazza molto gio-vane ricevere regali è anche meglio. E che regali si possono fare alla figlia d'un Rothschild? Constance, la maggiore di sir Anthony, aveva la passione dell'insegnamento : con la massima naturalezza, papà le re-galò... una scuola. Constance si avvicinava ai dolci sedici anni quando scrisse nel suo diario : «... mio padre mi ha chiesto che cosa gradirei in regalo per il mio compleanno. Prendendo il coraggio a due mani, ho risposto: "una scuola per bambini". La mia richiesta è stata accolta e ho potuto posare la prima pietra del nuovo edificio ».

Alla fine, la tenuta del barone Lionel fece impallidire tutti questi splendori. Possedendo già il palazzo in Piccadilly e Gunnersbury Park nelle immediate vicinanze di Londra, Lionel non pensò ad una tenuta in campagna fino ad un'età piuttosto avanzata; ma quando ne volle una, essa fu degna del figlio maggiore e principale erede di Nathan. Per cominciare, acquistò Tring Estate nello Hertfordshire, vicino alle proprietà dei suoi parenti nel Buckinghamshire; esclusi mobili e qua-dri, gli costò 250.000 sterline (tre milioni e mezzo di dollari), e per buone ragioni. Oltre quattordici chilometri quadrati di terreno circon-davano Tring Manor, una deliziosa dimora del Seicento che sir Chri-stopher Wren, architetto della cattedrale di San Paolo, aveva costruito e che Carlo II aveva donato a Neil Gwynn. A Tring l'ex fruttaiola di Drury Lane, salita al rango di una madame de Pompadour inglese, aveva abitato, danzato e bevuto negli anni della sua gloria.

Là, ora, Lionel Rothschild teneva le sue feste campestri, con le ini-ziali N. G. ancora ben visibili su cornicioni e soffitti. Si dice che il

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nuovo proprietario fosse un po' infastidito da quelle tracce di un pas-sato non molto rispettabile. Estremamente sollecito della rispettabilità e del prestigio sociale della Famiglia, Lionel aveva assunto - e fatto assumere ai fratelli - il titolo di barone che Nathan aveva così burbe-ramente ignorato. Aveva anche convertito il teutonico von Rothschild nel più raffinato francese de Rothschild. Come s'è visto, il vecchio Na-rhan non aveva voluto titoli nobiliari sulla sua tomba; il figlio trovò modo di nobilitarlo dopo morto, facendo incidere nella pietra tomba-le della moglie del capostipite l'iscrizione : « Baronessa Hannah de Rothschild, vedova del defunto barone Nathan Mayer de Rothschild ».

È naturale che un uomo di questo tipo preferisse radunare intorno al suo caminetto, anziché gli artisti e gli altri originali personaggi ch'erano di casa dai fratelli, Gladstone e Disraeli in veste ufficiale, e i più grandi magnati, finanzieri e uomini politici del tempo. Ma pareva a volte che uno spiritello maligno - che lo evocassero le iniziali di Neil Gwynn? - si divertisse a turbare l'impettita dignità vittoriana. Un aneddoto, per esempio, racconta di un certo pranzo per soli uomini in cui si ritrovarono seduti accanto due ministri in carica, l'uno calvo, l'altro con una bella testa di capelli, purtroppo per lui, artificiali. Nel porgere un piatto, un cameriere si impigliò nella parrucca col bottone della manica; la parrucca cadde a terra. Con più rapidità che buon senso, il cameriere la raccolse e la mise sulla prima testa pelata che si trovò sottomano, e che era quella sbagliata. L'eccellenza capelluta era diventata improvvisamente calva, la calva capelluta, e tutta la compa-gnia molto più allegra di quanto non fosse prima.

Oltre a Tring, il barone acquistò altre grandi tenute a Halton e Ascott Wing. Tutte queste colonie Rothschild fecero del Buckingham-shire una delle regioni inglesi con una più ricca letteratura aneddotica. Sotto il tocco della Famiglia, il bestiame della regione prosperò come mai prima d'allora. Per contro, prosperò anche la caccia : le partite alla pernice di Anthony e le principesche cacce al cervo di Mentmore di-vennero proverbiali.

Una cosa turbò sulle prime la nobiltà locale. Quei Rothschild non avrebbero scristianizzato il Buckinghamshire? I nostri ricchi infedeli dissiparono subito questi timori restaurando chiese, instabando organi, facendo ai vari vicariati donazioni più generose dei proprietari venuti prima di loro. Quando il vescovo di Oxford visitava le campagne vi-cine per celebrare cresime, trovava alloggio con tutto il seguito nella tenuta di Aston Clinton.

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Tuttavia, ciò che alla fine perfezionò e confermò la supremazia dei Rothschild non furono i loro gesti di omaggio alla fede della maggio-ranza: questo fine fu raggiunto con il metodo opposto. Una famiglia israelita conquistò supremo prestigio in un mondo cristiano professan-do la sua fede con più rigore di quanto non facesse e non faccia la maggior parte degli ebrei.

RE DEGLI EBREI

Lo stesso Lionel che s'era preoccupato di rispolverare il titolo baro-nale della famiglia dimenticava ogni alterigia quando si trattava della sua religione. Alla Festa dei Tabernacoli, era lui personalmente a ornare di rami di palma gli uffici del palazzo - costruito in uno stile architettonico molto "gentile" - di New Court. Qualunque rabbino si sposasse a Londra vedeva immancabilmente arrivare (in genere con un autocarro) un dono di nozze dei Rothschild. Al capodanno ebraico grandi ceste di fiori e frutti venivano consegnate alle sinagoghe « Con gli auguri di N. M. Rothschild & Sons ». New Court, naturalmente, rimaneva chiusa il sabato; e nei telegrammi usava spesso il dialetto yiddish come una sorta di codice (una volta uno degli agenti di Lionel, avendo avuto notizia d'un armistizio imminente in una guerra sudame-ricana, inviò un telegramma che diceva: «Mr. Sholem è atteso fra breve » : sholem è la parola yiddish per pace). La moglie di Lionel raccolse e curò un volume di preghiere e meditazioni.

Il barone fece molto di più. Lo vedremo fra poco combattere una battaglia ostinata e che sulle prime parve disperata per ottenere agli ebrei il diritto di sedere in parlamento. Dopo avere strappato ai Co-muni una concessione di valore decisivo per la causa dell'emancipazio-ne ebraica, nel 1869 salì zoppicando - già mezzo infermo per la gotta -sulla tribuna della nuova sinagoga, esclamando : « Ci siamo emancipa-ti, ma se la nostra emancipazione dovesse riuscir di danno alla nostra fede sarebbe non un dono di Dio ma una maledizione! ».

Lionel stava semplicemente seguendo un precedente dinastico. Suo zio Salomon, per esempio, era un esperto di intrighi politici che sapeva esattamente quanta pressione esercitare, e a quale livello dell'apparato governativo esercitarla. Ma quando si trattava di aiutare i suoi correli-

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gionari, la sollecitudine gli faceva quasi perdere il lume della ragione. Una volta un ebreo di nome Roquirol, che aveva portato a Vienna un

gregge di bellissime pecore merinos, chiese a Rothschild che lo aiu-tasse a venderle. A Salomon la questione parve troppo importante per-

ché bastasse rivolgersi a dei semplici mercanti di bestiame, sicché spedì immediatamente una lettera al cancelliere dell'impero.

« Chiedo umilmente a vostra altezza » così suonava la sua lettera al principe Metternich « di mettere una buona parola per Herr Moses Roquirol quando se ne presentasse l'occasione; e questa non potrà cer-io mancare di presentarsi nei saloni di vostra altezza, che sono il luogo d'incontro delle personalità più brillanti e raffinate. »

Non è molto facile evocare l'immagine di un principe Metternich che raccomanda le virtù di un gregge di pecore in un salotto pieno di personalità brillanti e raffinate. Ma non è facile neanche immaginare uno speculatore come Nathan che sospende la conquista dei mercati stranieri per dichiarare che non onorerà effetti tratti su città tedesche che negano agli ebrei i diritti garantiti loro per trattato; eppure è esat-tamente ciò che N. M. fece nel 1820. Ventanni dopo James era impe-gnato nel duello con Achille Fould; ma interruppe questa battaglia per condurre una campagna contro le persecuzioni antisemite improvvisa-mente cominciate in Siria.

« Monsieur Fould, il gran rabbino della Rive Gauche, » scriveva Heine « ha pronunciato con la calma del saggio un eccellente discorso alla Camera dei deputati mentre i suoi correligionari vengono torturati in Siria. Onore al merito, dobbiamo riconoscere che il gran rabbino della Rive Droite [Rothschild] ha dimostrato maggior nobiltà nelle sue simpatie per Israele... »

Cari von Rothschild, nel 1850, non volle concludere un prestito con il papa senza intavolare discussioni sull'argomento dell'abolizione del ghetto romano. Nel 1853 l'Austria impose agli ebrei una nuova restrizione che impediva loro di comprare beni immobili. La legge non toccava eccezioni privilegiate come i Rothschild, ma la Famiglia for-mò immediatamente una coalizione sulle Borse di Parigi e di Londra (con la tacita connivenza della branca di Vienna) per vendicarsi a spe-se del credito austriaco. James in persona trattò con mano così pesante l'ambasciata austriaca che l'ambasciatore (ed era allora il conte Hùb-ner, non eccessivamente tenero per gli ebrei) consigliò a Vienna di « placare i figli di Israele ».

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« È, in una parola, completamente fuori di sé » riferiva di James l'ambasciatore.

Lo stesso anno Bismarck, ch'era ancora un diplomatico di carriera a Francoforte, riferiva a Berlino sullo stesso argomento. « Gli sforzi-che l'Austria ha fatto... per ottenere l'emancipazione degli ebrei, sem-bra vadano attribuiti ai Rothschild... L'atteggiamento che un governo assume nei confronti del problema ebraico... è un fattore di cui la casa tiene gran conto... Vi sono occasioni in cui la politica di questa fami-glia è determinata da considerazioni diverse da quelle puramente eco-nomiche... »

Bismarck non sapeva fino a che punto avesse ragione. Poco dopo l'invio del suo memorandum, Berlino decise di conferire una decora-zione a Mayer Cari Rothschild, nipote di Amschel e suo successore de-signato a capo del ramo di Francoforte. Il re di Prussia nominò Mayer banchiere di corte e lo decorò con l'Ordine dell'Aquila rossa, terza classe. Era però un'Aquila rossa ebraica : la medaglia, la cui forma nor-male era una croce, era stata ridisegnata apposta per il barone Mayer e trasformata in un distintivo ovale. Evidentemente la Prussia non con-siderava un ebreo degno di portare un emblema cruciforme, anche se il suo significato era onorifico e non religioso.

Il barone lasciò capire a Bismarck quali fossero i suoi sentimenti : non era strano conferire un'onorificenza e nello stesso tempo fare og-getto di discriminazione chi la riceveva? Berlino fece orecchio da mer-cante. Nel 1857 il governo prussiano impose a Mayer un'altra Aquila rossa tipo segregazione razziale, questa volta di seconda classe, sempre nella forma d'una medaglia ovale. Era pressappoco come venire insi-gnito dell'Ordine della Stella gialla; evidentemente Berlino considera-va Rothschild una persona molto importante, ma non esattamente un eguale.

Questa volta il barone non nascose i suoi sentimenti nei confronti delle famigerate medaglie ovali. Si comportò deliberatamente come se non le possedesse, inventò scuse volutamente deboli per evitare le oc-casioni in cui avrebbe dovuto portarle, e non fece mistero della sua irritazione.

Finalmente Berlino si svegliò. Il principe di Prussia ordinò a Bi-smarck, che aveva altro da fare, di preparare un particolareggiato rap-porto sul comportamento del barone Rothschild nei confronti delle famose medaglie.

Bismarck, obbediente, riferì :

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In conformità con l'Ordine sovrano del 21 ultimo scorso, ho l'onore di informarvi com'è mio dovere che non ho mai visto il banchiere di cor-te Mayer Cari von Rothschild portare questa decorazione, giacché egli non si reca alle grandi funzioni, e quando porta qualche decorazione preferisce l'Ordine greco del Redentore o quello spagnolo di Isabella la Cattolica. In occasione del ricevimento ufficiale da me stesso offerto... a cui avrebbe dovuto partecipare in uniforme, si è scusato adducendo il pretesto della cattiva salute, perché gli torna penoso portare la deco-razione dell'Aquila rossa per non cristiani, come avrebbe dovuto fare in quell'occasione. Traggo questa conclusione dal fatto che ogni volta che viene a cena da me porta solo il nastro dell'Ordine all'occhiello...

La Prussia non abrogò le leggi di segregazione contro le Aquile rosse, e i Rothschild non glielo perdonarono mai; può darsi che questo fatto abbia avuto parte nel determinare i rifiuti che la Famiglia oppose più tardi al kaiser, quando questi la pregò invano di stabilire una bran-ca a Berlino. Il clan continuò a professare e difendere la sua fede in modi che gli ebrei non conoscevano dal Libro dei Re in poi.

Ferrières, il grande palazzo di campagna della Casa francese, aveva una sinagoga privata. La principale dimora cittadina dei Rothschild di Londra - la casa di Lionel al 148 di Piccadilly - aveva un cornicione non finito per commemorare la distruzione di Gerusalemme. Neil Au-stria imperiale, uno degli eventi mondani più importanti dell'autunno erano le cacce al cervo dei Rothschild, che però un dato pomeriggio venivano bruscamente interrotte; gli altolocati ospiti cristiani erano ridotti a passare il tempo giocando a scacchi, mentre i padroni di casa partivano per la sinagoga di Vienna, dove pregavano e digiunavano per tutto il Giorno dell'Espiazione prima di tornare alla caccia.

In tutt'Europa i grandi chef impararono a cucinare, se non proprio dei perfetti piatti khashèr, per lo meno menù da cui era esclusa la carne di maiale. E una curiosa nuova usanza, imparata ai pranzi della Famiglia, cominciò a caratterizzare le serate importanti d'una dozzina di paesi : dopo cena, i signori non lasciavano il fumoir per raggiungere le signore in salotto; erano le signore a raggiungere gli uomini. Le usanze dei Rothschild erano spesso imitate prima d'esser capite, e po-chi si resero conto che questo era il prodotto mondano d'una filosofia patriarcale incentrata sul maschio.

Naturalmente, il clan si preoccupava di installare la fede avita nei

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giovani, spesso attraverso precettori religiosi alloggiati in casa. Il ri-sultato fu assai più che un formalistico rispetto per la tradizione ebrai-ca. Il diario di un'adolescente - scritto in un inglese molto ricercato -rivela uno spontaneo miscuglio di superbia, di profonda devozione re-ligiosa, di talmudica delizia nello scandagliare le profondità della pro-pria anima; il diario appartiene a una giovinetta Rothschild, Annie, la figlia più giovane di sir Anthony:

Come mi piacerebbe dipingere come un genio... Avere un genio inna-to, non aver bisogno degli insegnamenti di nessuno, vedere disegni magistrali uscire di sotto la mia matita. Sì, mi piacerebbe, ma è bene ch'io non sia stata così privilegiata, che abbia solo un piccolo talento naturale, giacché questo non dà origine all'amore della superiorità. Mi piace mostrare la mia superiorità nel dire qualche battuta brillante, la mia superiorità nella mia piccola conoscenza dell'ebraico, la mia su-periorità di facoltà di ragionamento in geometria. È un difetto, lo so, molto difficile da eliminare, tanto difficile trovo non esultare del poco che so... Ma con tutti i miei difetti ho un rispetto innato per l'amore per la religione e un'entusiastica adorazione per il sacro credo giudaico. Possa Dio perdonarmi, ma anche in questo non voglio essere inferiore a nessuno. Ho sentito con invidia dell'improvviso zelo {religioso} di Clemmie {sua cugina, figlia di Mayer Cari Rothschild}. È questo il modo di dimostrare la mia reverenza a colui che ha detto Ama il Tuo Prossimo Come Te Stesso? 0 Dio Onnipossente, ascolta la mia pre-ghiera, rendi il mio cuore dolce e caritatevole verso tutti coloro che mi circondano, così ch'io possa meritare di essere una degli eletti, perché Tu hai detto per bocca del tuo profeta Mosè che dobbiamo amare i nostri simili...

Una volta cresciuta, la piccola entusiasta scrisse, insieme alla sorel-la Constance, un'opera voluminosa intitolata The History and Litera-ture of Israelites. A ventinove anni diventò la moglie dell'onorevole Eliot Yorke, M. P., figlio di lord Hardwicke e influente membro della chiesa anglicana. Una generazione innanzi anche sua zia Hannah ave-va sposato un anglicano di gran sangue; ma mentre l'unione di Han-nah aveva addolorato gli ebrei, quella di Annie scandalizzò i cristiani. Per la prima volta un aristocratico inglese prendeva in moglie una ra-gazza che dopo il matrimonio rimase esattamente quella ch'era stata prima: un'ebrea devota e osservante. Contrariamente a quanto accade

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ili consueto, la fede dei Rothschild diventava di generazione in gene-razione più salda.

Ancora Lionel offrì un esempio per tutti i membri vecchi e nuovi della Famiglia con l'avventura più drammatica della sua vita.

ALL'ASSALTO DEL PARLAMENTO

Alla metà del diciannovesimo secolo la maggior parte delle restri-zioni imposte un tempo agli ebrei di Gran Bretagna erano state ormai abolite. Ne rimaneva però una: essi potevano obbedire alla legge ed esercitare la professione legale, ma non fare le leggi; non avevano, cioè, il diritto di sedere in parlamento. Il gruppo d'avanguardia degli ebrei inglesi, Rothschild compresi, protestava da tempo contro questa restrizione. Erano state presentate petizioni, conquistata alla causa la simpatia dei giornali più influenti, si erano condotte campagne di stampa, pubblicati opuscoli; ma il parlamento non s'era lasciato smuo-vere.

Il capo della Famiglia inglese decise allora di prendere il pregiu-dizio per le corna; e non dovette essere una decisione facile per un uomo delle sue inclinazioni riservate e sedentarie. Non possedendo i requisiti legali per essere ammesso in parlamento, Lionel de Rothschild iniziò una campagna per entrarvi di forza, e nell'agosto 1847 partecipò alla battaglia elettorale come candidato liberale della City. Come di-stretto finanziario della capitale, la City si batteva da lungo tempo per la libertà di commercio; a questo principio Rothschild aggiunse accor-tamente quello della libertà di religione.

« I miei avversari sostengono che non posso prender possesso del mio seggio » disse agli eiettori. « Questo è affar mio e non loro; queste cose le so meglio di loro. Sono certo che come vostro rappresentante, come rappresentante del più ricco, importante, intelligente collegio elettorale del mondo, non mi vedrò rifiutata l'ammissione al parlamen-to a causa d'una qualsiasi formula verbale. »

La "formula verbale" sarebbe diventata un punto dolente prima che passasse molto tempo. Lionel fu eletto. Di fronte al fatto compiu-to, i Comuni approvarono una legge che permetteva a un ebreo di se-dere in parlamento. Ma la Camera dei pari insorse; molti dei suoi membri solitamente assenti si precipitarono a Londra; dai più remoti

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castelli della Cornovaglia e del Galles conti e visconti accorsero a umi-liare l'insolenza ebraica. Accompagnato dal fratello Anthony, Lionel fece la sua apparizione nell'augusta sala, ascoltò con aria cupa i discorsi irosi degli avversari, non volle ritirarsi nemmeno mentre si prendeva-no i voti, e fu sconfitto.

Ma il nonno, il patriarca Mayer, non era stato più ostinato nel suo assedio alla corte d'Assia di quanto lo fu il nipote nei suoi reiterati at-tacchi alla Madre dei parlamenti. Rinunciò ufficialmente al seggio, rendendo così necessarie nuove elezioni nel suo collegio. Nel 1849, volantini e affissi annunciarono il rinnovo della sua candidatura.

« Non esito a sollecitare un'altra volta il vostro suffragio » disse Rothschild agli elettori «perché nella mia persona un principio può essere rivendicato e perché vi credo pronti a combattere la grande lotta costituzionale che vi attende con lo stesso vigore e la stessa serietà che avete dimostrato per l'innanzi... »

Fu eletto anche questa volta; anche questa volta la Camera Alta votò contro di lui. Lionel giudicò che fosse venuto il momento d'un attacco diretto e personale: avrebbe materialmente preso possesso del seggio per il quale gli elettori lo avevano scelto, e al quale aveva mo-ralmente diritto.

Il 26 luglio 1850 sua moglie, affacciata alla galleria del pubblico, vide la Camera ribollire di eccitazione. Il Sergeantat-Arms annunciò che un nuovo membro desiderava pronunciare il giuramento. Lionel avanzò verso il tavolo della Camera. L'impiegato si alzò per fargli pro-nunciare il Giuramento d'ammissione nella forma consueta e sul con-sueto libro, la sacra Bibbia.

« Desidero giurare sull'Antico Testamento » dichiarò il barone Lionel a voce alta e chiara.

La Camera esplose. «Signore,» tuonò Robert Inglis, leader della fazione avversaria, « da quando questa è una nazione cristiana, da quando questa Camera è un parlamento cristiano, nessun uomo - se possiamo usare la parola senza offesa - ha mai avuto la presunzione di credere di poter prendere possesso del suo seggio se non con la solenne sanzione d'un giuramento pronunciato nel nome del nostro comune Redentore. Io - per parlare solo di me - non darò mai il mio consenso a questa ammissione. »

Dopo un lungo e violento dibattito, un aggiornamento e tre vota-zioni, i Comuni finalmente permisero a Lionel di giurare sull'Antico Testamento. Il giorno seguente il barone era di nuovo in piedi davanti

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al tavolo. E adesso cominciò la battaglia per la "formula verbale". Il ri-tuale d'ammissione comprendeva il cosiddetto Giuramento d'abiura, con cui il nuovo membro del parlamento doveva ripudiare ogni fedeltà alla dinastia, da lungo tempo estinta, degli Stuart. Questo relitto storico era l'arma più potente nelle mani della fazione antiebraica, in quanto si concludeva con le parole «... in nome della vera fede d'un cristiano ».

Un silenzio profondissimo scese sulla Camera mentre Lionel ripe-teva la formula dopo l'impiegato; tutti attendevano l'ultima frase. Quando vi arrivò, Lionel disse : « Ometto queste parole in quanto non vincolanti per la mia coscienza» e concluse il giuramento secondo l'uso del suo popolo, usando la formula ebraica e coprendosi il capo. Stava per vergare il suo nome sull'albo dei membri quando, penna in mano, fu arrestato a metà del gesto da una voce proveniente dalla pedana.

« Barone Lionel de Rothschild, » disse l'annunciatore « lei può riti-rarsi. » Un momento dopo Lionel dovette abbandonare la Camera in mezzo a un uragano di proteste.

Ma il barone aveva appena cominciato a scaldarsi. Alle prossime elezioni generali, nel 1853, la City of London tornò a presentarlo come proprio deputato. La Camera dei comuni, dopo un violento dibattito, votò una legge per rimuovere la difficoltà del giuramento; la Camera dei lord votò contro. Tutta la nazione partecipò alla polemica.

« Se distruggete le basi cristiane su cui è fondato questo parlamen-to, » ammoniva il vescovo di Londra « solo per dare una soddisfazione a un pugno d'ambiziosi, distruggerete l'Inghilterra cristiana. »

Per contro un parlamentare anglicano dichiarava che si sarebbe « vergognato d'avere una così povera opinione della nostra fede, da credere che l'ammissione al parlamento di un ebreo possa indebolire i principi del cristianesimo o minarne la validità ».

Henry Drummond, un famoso leader settario, inveiva contro l'ele-zione di un ebreo « da parte della feccia di Londra, che agisce così in parte per amore del male, in parte per disprezzo contro la Camera dei comuni, in parte per il desiderio di dare uno schiaffo alla cristianità ».

Si sussurrava che Rothschild avesse pagato in moneta sonante l'ele-zione di lord John Russell, il primo ministro, per averselo amico. Il ve-scovo di Oxford e altri ecclesiastici convalidavano queste chiacchiere con l'autorità dei loro nomi; ma in seno alla Chiesa altre voci si levaro-no a difendere con nobile eloquenza la causa della fazione Rothschild.

« Non è difficile indovinare » diceva una « ... quanti ecclesiastici

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passeranno il natale... a pregare contro gli ebrei. Due portate saranno servite prima dell'ammorsellato: l'eretico arrostito e l'ebreo senza di-ritti civili. Chi ci parlerà degli angeli che cantano pace sulla terra sarà 10 stesso che vorrebbe prolungare il regno della discordia e della perse-cuzione. Di chi la Chiesa commemora la nascita? Non forse di un ebreo? »

E il Times dichiareva in un articolo di fondo: « Se le qualità d'ogni singolo candidato devono essere per forza associate con il valore del principio ch'egli rappresenta, pensiamo che quelle del barone Roth-schild possano reggere al paragone con tutto ciò che viene presentato in questo momento al giudizio del pubblico... ».

I pari del regno la pensavano diversamente. Lionel fu eletto ben sei volte dal suo fedelissimo collegio elettorale. Sei volte egli si accostò al tavolo chiedendo di giurare secondo formule consone ai dogmi della sua religione. Dieci volte i liberali presentarono un progetto di revi-sione del Giuramento d'abiura. Dieci volte Disraeli mandò su tutte le furie i conservatori, il suo partito, battendosi con tutta la sua eloquen-za in favore della revisione. Dieci volte il disegno di legge fu approva-to dalla Camera dei comuni e respinto dalla Camera dei pari.

L'undicesima volta i pari dovettero cedere un po' di terreno; nel 1858 approvarono una legge che permetteva a ognuna delle due Came-re di modificare la formula del giuramento per i rispettivi membri. 11 26 luglio 1858 Lionel ripetè per l'ennesima volta una scena ormai famosa, ma questa volta con una conclusione nuova. In piedi davanti al tavolo giurò con il capo coperto come voleva la tradizione ebraica, vergò il suo nome sull'albo e tornò indisturbato al suo seggio.

Per undici anni questo nababbo viziato aveva rinunciato al princi-pesco riserbo cui era avvezzo sin dalla nascita; per undici anni era stato al centro di polemiche e discussioni, bersaglio di caricature, in-sulti, ingiurie grossolane. Eppure non aveva nessuna propensione al martirio, bensi piuttosto il temperamento iroso e bizzoso d'un multi-miliardario. « Per undici anni » si riferisce che la baronessa dicesse « in tutti gli angoli della casa si è parlato solo della questione del parlamento. »

Per undici anni Lionel aveva combattuto per la buona causa, re-presso i propri sentimenti, battuto sulla spaba ai suoi maggiordomi, speso patrimoni in campagne elettorali, messo in subbuglio l'Inghilter-ra fin negli angoli più remoti. E dopo che finalmente, faticosamente ebbe smosso le montagne che gli sbarravano la via del parlamento,

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che fece del suo privilegio? Nulla. Tenne il seggio per quindici anni, e in tutto quel tempo non pronunciò un solo discorso, non prese una sola iniziativa. Ma, nel suo caso, la cosa non è paradossale come sem-bra. Lionel non era un semplice uomo politico più di quanto fosse un semplice capitalista. Era un Rothschild, ergo l'incarnazione vivente d'un principio. Il principio doveva essere rivendicato come lo stesso Lionel aveva detto nei suoi primi appelli agli elettori. Ebbene, era stato rivendicato : tanto bastava. Ciò che più contava, era il fatto che Roth-schild aveva aperto a forza la strada ad altri della sua fede.

Naturalmente, la Camera dei comuni era solo un primo passo ver-so quella dei pari : se un ebreo era degno di sedere alla Camera Bassa, perché non a quella Alta? Questo il pensiero di Gladstone, nel 1869; e l'ebreo che Gladstone aveva in mente era ancora il barone Lionel, M. P. Ma a questo punto la decisione spettava a una persona sola, la regina; e in quest'occasione, come del resto in molte altre, la regina decise di essere più vittoriana deU'epoca che da lei prendeva il nome. A lord Granville, suo gentiluomo di corte, Vittoria scrisse una lettera piena di corsivi.

« Fare di un ebreo un pari » diceva « è un passo a cui non è possi-bile acconsentire. Sarebbe male interpretato e danneggerebbe grave-mente il governo. »

Obbedendo a un suggerimento del primo ministro, lord Granville scrisse un'altra lettera. « L'idea di un ebreo Pari d'Inghilterra » am-metteva « non è facile ad accettarsi... ma egli rappresenta una classe molto influente per la ricchezza, per l'intelligenza, per i rapporti con il mondo della cultura. » Passava poi ad illustrare la ragione vera che aveva suggerito la proposta: il governo pensava che la nomina di Rothschild alla Camera Alta sarebbe valsa di freno alle tendenze re-pubblicane che sembravano svilupparsi in certi alti circoli finanziari.

Ma sua maestà credeva che la monarchia avrebbe potuto soprav-vivere senza l'aiuto del nipote d'un merciaiolo ambulante della Juden-gasse. A questo punto, Gladstone si decise a un tentativo personale di far cambiare idea alla regina.

Downing Street, 10. 28 ottobre 1869 ... Come capo della grande casa europea dei Rothschild, più ancora che per le sue grandi ricchezze e per la sua importante posizione politica... il barone L. de Rothschild gode proprio dell'eccezionale posizione che disarma la gelosia, e che è tanto difficile trovare ... Da questo punto di vista, non sarebbe possibile trovargli un sostituto. E se la religione

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dovesse operare costantemente come un ostacolo, ciò, salvo errore, significherebbe rimettere in vigore per prerogativa {sottinteso regale} la restrizione che per l'innanzi esisteva per statuto e che la corona e il parlamento hanno trovato opportuno abolire. Mr. Gladstone ha disturbato vostra maestà nella misura in cui era ob-bligato a farlo, e non si propone di forzare vostra maestà a gesti che vadano al di là di ciò che l'imparziale giudizio di vostra maestà consi-dera giusto.

Vittoria tenne duro. Solo dopo che il canale di Suez diventò inglese grazie a denaro ebreo; dopo che Disraeli, cristiano per battesimo ma ancor vicino alla sua gente nelle simpatie e nelle passioni, ebbe con-quistato il suo cuore; dopo che Lionel morì nel 1879; solo dopo tutto questo si arrese davanti all'arma di Lionel, la vecchia arma di tutti i Rothschild : un figlio.

Il 9 luglio 1885 l'erede di Lionel, Nathaniel Mayer de Rothschild, varcò la soglia del parlamento e fece alla Camera Alta ciò che essa un tempo aveva impedito al padre di fare anche nella Bassa; il nuovo lord portava il copricapo cerimoniale ebraico - il cappello a tricorno - e su una Bibbia ebraica pronunciò il suo ebraico giuramento.

« Era la prima volta » osservava sbigottito uno storico « che i pari del regno vedevano, e tolleravano di vedere, uno di loro pronunciare il giuramento col capo coperto, o su un libro diverso da quello pre-scritto dalla pratica cristiana e dalla tradizione inglese. »

Ma c'era un altro elemento singolare a contraddistinguere il rito; un elemento che appartiene alla singolarità della nuova generazione Rothschild, la generazione dei lord.

TRE SOLI A MEZZOGIORNO

Di Nathaniel, il figlio maggiore di Lionel, si racconta che un gior-no alla Borsa incontrò un collega banchiere gonfio di superbia per ave-re appena ottenuto una patente di nobiltà dal re d'Italia, in cambio d'un favore di natura presumibilmente finanziaria. Natty stette a sen-tirlo mentre quello menava vanto della sua nuova distinzione, diede un'occhiata al cambio ufficiale della lira - che quella settimana era sta-to particolarmente favorevole alla sterlina - e alla fine come al solito,

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parlò senza peli sulla lingua: « Congratulazioni, barone, » disse « sape-vo che lei non si sarebbe lasciato sfuggire un buon affare ».

È interessante notare che nella seconda metà del diciannovesimo secolo un Rothschild poteva già canzonare gli altri nuovi arricchiti. Ancor più significativo il fatto che i tre figli di Lionel ignorarono il loro titolo baronale e preferirono ridiventare semplici "misters". Il ti-tolo di cui il nònno non aveva avuto tanta cura, loro lo lasciarono ca-dere per pura indifferenza; aveva ormai perso valore, di fronte al loro prestigio.

I tre illustravano brillantemente un'antica verità : ricchezze ed ono-ri si possono conquistare nello spazio d'una vita, ma, a causa d'una qualche perversa particolarità deHa natura umana, la posizione sociale non può essere conquistata da un uomo; dev'essere ereditata parecchie volte, prima che cominci ad esistere veramente. Il prestigio sociale, co-me la verginità, si può perdere in qualsiasi momento, ma si acquista solo alla nascita.

Natty, Alfred e Leo nascevano bene. Nel caso d'un'altra famiglia si sarebbe potuto chiedere: abbastanza bene? Dopo tutto, distavano dal ghetto solo due generazioni. Ma nel loro caso il dubbio non sorse mai, grazie non solo all'immensità della loro ricchezza, ma anche alla loro superba indifferenza. Fu quest'ultima dote che risparmiò alla Famiglia la goffaggine dell'arrivé.

L'arrivò è una maldestra imitazione dell'arrivato da molto tempo. Non v'è nulla di più volgare del tentare di non esserlo. Ma i Roth-schild, che inframmezzavano conversazioni nell'inglese delle classi alte con facezie yiddish, che nei parchi del Buckinghamshire rispettavano il riposo del sabato ebraico, che coprivano le pareti delle loro grandi dimore con ritratti di antenati ebrei, i Rothschild furono sempre, or-gogliosamente, solo se stessi. Non imitavano nessun conte, duca o mar-chese. Sfoggiavano quell'eccentricità sicura di sé, quell'indulgenza ai propri estri, queHa fedeltà al proprio fondamentale temperamento che altre famiglie imparano solo dopo cinque generazioni di ricchezza, ammesso che, dopo che cinque generazioni si sono dedicate al com-pito di raffinarlo, esista ancora un "temperamento" a cui poter essere fedeli.

Nel caso dei Rothschild, il loro temperamento era (ed è) notevol-mente robusto. Ma alcuni fattori speciali contraddistinguono i tre rampolli della terza generazione inglese. Dei fratebi di Lionel, solo Nathaniel, l'invalido di Parigi, ebbe dei figli, e questi preferirono di-

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ventare Rothschild francesi, appartenenti a una tribù regale un poco diversa; i tre maschi di Lionel rimasero quindi unici padroni non solo della banca di Londra ma di tutti i vasti possedimenti inglesi della Famiglia.

In termini di tempo, occuparono un doppio zenit: nessuno prima di loro era stato così ricco; nessuno che fu così ricco dopo di loro potè sfuggire al fervore egualitario o agli effetti livellatori delle tasse del ventesimo secolo (nel quale, a vero dire, i tre vissero i loro ultimi anni). In termini di luogo, furono fra i più brillanti personaggi della nobiltà inglese, un'elite che sopravvive nell'età spaziale più intatta del-le aristocrazie continentali. Il mondo di Natty, Leo e Alfred è giunto sino a noi, privo in buona parte del suo sfarzo d'un tempo, ma con-servando molti dei suoi più o meno autentici valori.

PRIMO SOLE: NATTY

Quando, nel 1885, la buona regina Vittoria innalzò il figlio mag-giore di Lionel alla dignità di barone del Regno Unito e quindi di pari d'Inghilterra, le fu riserbata una sorpresa. Era usanza quasi invariabile che tutti gli uomini così onorati abbandonassero il loro nome per un altro, di suono più nobile e naturalmente di stile più anglosassone: Disraeli diventò lord Beaconsfield, Marcus Samuel diventò lord Beard-sted. Ma Nathaniel Mayer Rothschild scelse di essere Nathaniel Mayer lord Rothschild, nel modo più semplice e superbo che si potesse dare.

Questa scelta è una chiave per intendere tutta la sua vita. Natty aveva ereditato non solo una ricchezza senza limiti, ma anche il presti-gio accumulato in tre generazioni. La sua alterigia da gran signore d'altri tempi gli tornava così naturale che oggi ci riesce quasi simpati-ca, come la nobile ferocia nell'Ultimo dei moicani. Lord Nathaniel Mayer Rothschild portava il cilindro e il fiore all'occhiello con la stes-sa sicurezza con cui Chingachgook portava la sua acconciatura di piu-me e il tomahawk.

La carriera politica di Natty era cominciata vent'anni prima del-l'ammissione alla Camera Alta, nel 1865 cioè, quando aveva presentato la sua candidatura al parlamento, scegliendo però a proprio collegio elettorale non il distretto degli affari, come aveva fatto il padre, bensì la campagna, predilezione d'ogni vero gentiluomo, e più precisamente

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Aylesbury nel Buckinghamshire, la cui importanza era dimostrata dal fatto che la Famiglia ne possedeva la più gran parte.

Inutile dire che ottenne la maggioranza dei voti. Inutile aggiunge-re che riuscì vittorioso in una campagna elettorale dopo l'altra, con gli elettori che gli offrivano i loro voti come i vassalli avevano offerto un tempo fedeltà al sovrano. Più tardi lasciò la Camera Bassa per quella Alta; ma nell'una come nell'altra si rivelò il più qualificato, il più elo-quente, il più ornamentale portavoce deba reazione. Parlò con dispre-gio debe previdenze sociali, del voto abe donne, debe pensioni di vec-chiaia, di tutto ciò che sapesse di progresso; su questi argomenti pro-nunciò discorsi non solo di stile impeccabile, ma anche benissimo ra-gionati e illustrati con numerosi esempi, dimostrando che sotto il ci-lindro c'era una quantità superiore alla media di materia grigia.

« Tutte le volte che mi occorre un dato storico, lo chiedo a Natty » confessava Disraeli, che pure aveva una memoria eccezionale.

Ma Natty non si limitava a parlare; organizzò un'opposizione for-midabile a una legislazione politicamente progressista.

« Vi chiedo, » tuonava Lloyd George nel 1909 « vi chiedo se dob-biamo vedere tutte le strade della riforma, finanziaria e sociale, blocca-te dal cartebo : "Vietato il transito. Ordine di Nathaniel Rothschild". »

Il nonno, Nathan, aveva appoggiato l'ala liberale del partito libera-le. Lord Rothschild, pur appartenendo nominalmente allo stesso parti-to, in realtà fu il portavoce e spesso il più attivo sostenitore della de-stra. La stessa evoluzione si verificò aba banca Rothschild. Ai tempi del fondatore, New Court era stata l'organizzazione più audace della City; con Natty essa divenne - e poteva permetterselo - la più conser-vatrice, esclusiva, selettiva. L'unica innovazione di Natty fu di caratte-re aristocratico: egli introdusse l'usanza di far accomodare i visitatori in varie anticamere. Entrava nella prima, orologio in mano, e annun-ciava il numero dei minuti di cui l'interlocutore poteva disporre. Ascoltava e rispondeva abbastanza cortesemente per il tempo stabilito, ma non un secondo di più, e scaduto il tempo si avviava alla successiva udienza nell'anticamera adiacente. Nel suo ufficio personale avevano accesso solo i più alti personaggi del globo, sicché ancor oggi chi met-te piede neba Sala dei soci di New Court crede di avvertirvi l'atmosfe-ra densa d'incenso d'un sancta sanctomm.

Natty fu veramente un re degli ebrei. Ne fa fede l'aneddoto del-l'emigrante polacco che, da poco arrivato a Londra, passò tutto il Gior-no dell'Espiazione nella sinagoga dell'East End. D'improvviso udì in-

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terrompersi tutte le preghiere, e un silenzio sovrumano scendere sui fedeli. « Il Signore è venuto! » sussurrò un vicino al polacco, che si prostrò di slancio davanti al Messia. Ma alzando gli occhi vide un fa-moso cappello a cilindro e si rese conto che si trattava d'una divinità umana, nella persona di lord Rothschild, la cui apparizione aveva riem-pito di religioso timore il gregge dei fedeli.

Il 23 giugno 1897, quando la regina Vittoria celebrò il sessantesi-mo anniversario di regno, il cardinale Vaughan si congratulò con lei in nome di tutti i cattolici dell'impero; fu Natty, naturalmente, a fare lo stesso in nome degli ebrei. E quando, in uno dei suoi viaggi, passò da Bagdad, gli ebrei della città lo ricevettero con gli stessi onori che Ì loro antenati avevano accordato agli esilarchi, gli antichi sovrani che avevano regnato su tutti gli israeliti della Diaspora.

Natty, bisogna dirlo, vegliava sul suo popolo in qualunque parte del mondo. Non si verificava persecuzione o pogrom senza che New Court lanciasse fuoco e fiamme contro l'oppressore, senza che inviasse soccorsi alle vittime. Per citare solo l'esempio più sensazionale: tutte le richieste di denaro da parte della Russia venivano invariabilmente respinte a causa dell'atteggiamento crudele di quel paese nei confronti dei suoi ebrei. Nel 1891 una speciale missione finanziaria giunta da Pietroburgo riuscì ad avviare importanti negoziati con una delegazio-ne di New Court. Ma a una nuova esplosione di antisemitismo da par-te del governo russo, Natty inviò un messo, e i suoi dipendenti - che già avevano messo in guardia gli interlocutori contro una simile even-tualità - abbandonarono la stanza senza dire una parola.

La virtù è spesso compensata: nel 1917, quando la Russia zarista fece bancarotta a causa della rivoluzione, i Rothschild non furono col-piti come altre banche. Qualche volta, la virtù non è compensata: quando l'effimero governo democratico emise a San Pietroburgo un "prestito per la libertà", New Court si sottoscrisse telegraficamente per un milione di rubli, e naturalmente, dopo che al governo democratico ebbe tenuto dietro quello di Lenin, non vide più nemmeno un copeco.

A quel tempo, Natty riposava ormai nella tomba; ma se fosse stato vivo avrebbe trasferito quel milione sotto un'altra voce del suo bilan-cio: beneficenza. Le sue donazioni caritatevoli furono di dimensioni imperiali, tanto che per amministrarle dovette creare nella banca uno speciale ufficio con numeroso personale. Era presidente di tre ospedali londinesi, tesoriere d'un quarto e, per buona misura, presidente della Croce Rossa inglese. Le beneficenze destinate agli ebrei non si contava-

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no; una sola, il mantenimento della Pubblica Scuola Ebraica, si calcola-va gli costasse l'equivalente di 62.500.000 lire l'anno.

Ma anche nell'atto di elargire carità, i suoi modi erano sempre burberi. Nathan, come abbiamo visto, si divertiva a far correre i men-dicanti dando loro una ghinea. Natty, come il nonno, non rifiutava mai una moneta a un mendicante; ma qualche volta fu visto correre lui, per paura di dover ascoltare i ringraziamenti del beneficato o di dover sforzare le labbra a un sorriso.

Quando si trattava di somme più grosse, poteva comportarsi con asprezza proporzionalmente maggiore. Allo scorcio del secolo molte migliaia di ebrei russi si rifugiarono in Inghilterra, dove i correligio-nari facilitarono la loro ulteriore emigrazione negli Stati Uniti. Natty e altri ricchi benefattori avevano cura di queste masse di profughi. Ma un giorno dalle calate del porto si riversò nelle vie di Londra una tal folla, che tutte le risorse della comunità nell'East End parvero esau-rite. Hermann Landau, un filantropo che si stava specializzando in que-sto problema, trovò le strade piene di famiglie senza tetto; avevano bisogno di aiuto immediato, su una scala di gran lunga superiore ai mezzi a sua disposizione. Landau corse a New Court, dove le porte della Sala dei soci, tabù per tanti uomini d'affari, gli furono subito spalancate, come lo erano quasi sempre davanti ai visitatori in missio-ni caritatevoli. Landau spiegò che occorrevano subito 25.000 sterline per la costruzione di rifugi temporanei. Prima che potesse terminare la perorazione, Natty gli aveva messo davanti un ordine appena scrit-to, che gli accreditava 30.000 sterline.

« Lei non mi capisce » protestò Landau. « Me ne occorrono solo 25.000. »

« Sentilo, Leo » sbottò irosamente lord Rothschild, rivolto al fra-tebo più giovane. « Laudau ha rachmones di noi! » (Rachmones è la parola yiddish per "pietà", qualcosa che lord Rothschild era abituato a dare, non a ricevere.)

Ma il trattamento riservato a Landau fu migliore di quello che toc-cò a persone dello stesso livello sociale di Natty. C'era, per esempio, una duchessa che il barone odiava con tutto il cuore e che perseguitava invitando ai migliori ricevimenti tutte le sue amiche e lasciando a ca-sa lei. Non essendo riuscito a ridurre la nemica aba disperazione, con-cepì uno stratagemma così diabolico che il suo diabolico nonno non avrebbe saputo inventarne uno peggiore. In occasione d'un gran pran-zo al 148 di Piccadilly, invitò sua grazia e finse di renderle onore fa-

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cendola sedere alla destra di Gladstone e alla propria sinistra... cioè dalla parte da cui rispettivamente lui e il primo ministro erano sordi. La signora dovette passare ore seduta fra due compagni di tavola che non rispondevano una parola a ciò che lei diceva.

Raramente Natty si dava la pena di escogitare simili sottigliezze. A Tring Park, la tenuta di campagna, un'altra signora del gran mondo, lady Fingali, osò cogliere una delle famose rose muschiate del suo anfi-trione senza avergliene chiesto il permesso, e lord Rothschild la mandò all'inferno davanti a tutta la comitiva. Poi le chiese tacitamente perdo-no facendole trovare in carrozza un enorme bouquet; tuttavia, rimase opinione comune che lord Churchill e lord Rothschild erano i due uomini più maleducati di tutta l'Inghilterra.

SECONDO SOLE: IL DOLCE LEO

Il fratello più giovane controbilanciava perfettamente il più anzia-no : Natty era un lord pieno d'alterigia, Leo allegro, spiritoso, pieno di gentilezza. Non che dimenticasse il valore del suo nome; tanto per co-minciare, manteneva non meno di quattro grandi residenze. AI n. 5 di Hamilton Place - alle spalle della "Rothschild Row" a Hyde Park Cor-ner - si costruì una casa di città con i seguenti comfort : un ascensore idraulico così costoso a manovrarsi che andare dal primo al secondo piano costava di più che andarsene in giro per tutta Londra con una carrozza pubblica; per quelli ch'erano in vena di risparmiare, una scala elicoidale intagliata completamente a mano, nel suo genere forse la più bella di tutta l'Inghilterra; un'immensa libreria, anch'essa tutta in-tagliata a mano, in acero e mogano, alla quale quaranta artigiani im-portati dall'Italia lavorarono per due anni; una cucina sul cui spiedo si poteva arrostire un bue intero; tubi sotto tutti i davanzali interni debe finestre e sotto la superficie delle tavole per tener caldo il cibo; e un gran numero di quasi inverosimili eccetera. La casa sopravvive, intatta, come sede del più elegante club privato di Londra.

Un'altra delle dimore di Leo era il favoloso Gunnersbury Park, ere-ditato dal padre. In aggiunta, Leo comprò Palace House, vicino al ter-reno di corse di Newmarket, dove il re d'Inghilterra e personaggi dello stesso livello erano lieti d'essere suoi ospiti. Infine possedeva una tenu-ta a Ascott Wing, una deliziosa residenza di campagna circondata da

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chilometri quadrati di giardini e da bellissimi panorami. Ascott Wing, che è di gran lunga la tenuta più di buon gusto fra tutte quelle posse-dute dai Rothschild nel Buckinghamshire, è l'unica dove la Famiglia abiti ancor oggi.

Ascott confinava con South Court, dove Leo, che aveva ereditato dabo zio Mayer l'amore per i cavabi da corsa e per l'equitazione, pos-sedeva le scuderie ch'erano la sua più grande passione. Allevava cavabi con intebigenza e senza badare a spese, e li applaudiva e incitava senza riguardo alla riservatezza britannica. Qualche volta era difficile decide-re quale preferire fra i due spettacoli : Mr. Leo che lanciava i purosan-gue sulla pista, o la sua orientale esuberanza in tribuna. Zio Mayer ave-va vinto il Derby una volta, Leo lo vinse due volte, nel 1879 e nel 1904. Fra luna e l'altra vittoria fece correre, letteralmente, centinaia di cam-pioni.

Il fatto che non vincesse il Derby tre volte può essere addebitato a un tipo molto speciale di rachmones. Il principe di Gabes, buon amico di Leo, partecipava al Derby del 1896 con un animale praticamente sconosciuto, di nome Persimmon. I colori giallo-blu dei Rothschild erano affidati a St. Frusquin, forse la più grande celebrità a quattro gambe deba fin de siècle-, una volta a Leo erano state offerte sessanta-mila sterline per quel cavallo, che aveva partecipato a quasi tutti i più importanti eventi ippici inglesi. Ma nel 1896 sua altezza reale era im-pelagata più del consueto in avventure galanti, e aveva bisogno urgen-te di liquido.

Non si sa bene come, accadde che Persimmon arrivò primo. La compassione di Leo - ammesso che avesse qualcosa a che fare

con questa vittoria - si estendeva anche ai cittadini più umili. Le sue vincite abe corse gli costavano care; per celebrarle, regalava via non il premio, ma i suoi multipli. Spesso lui guadagnava una coppa, e qual-che ospedale un'ala intera.

Fuori degli ippodromi, la sua benevolenza non era meno attiva. I postulanti che non osavano accostare Natty o erano intimiditi dalle stranezze di Alfred ricorrevano senza esitazione a Mr. Leo. Diventò co-sì il ministro della pubblica assistenza di New Court. Per qualche mo-tivo, la sua prodigalità toccava le punte massime nei giorni freddi; ed era particolarmente tenero coi bambini. Una domenica d'inverno che, con la mente persa dietro a chissà quali pensieri, passeggiava nel parco di Natty a Tring, Leo notò davanti a sé una figurina di bimbo. Imme-diatamente, automaticamente, s'infilò una mano in tasca, e solo il fre-

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netico intervento di un maggiordomo lo salvò da una gaffe madornale: stava per cacciare mezza corona in mano a uno dei duchi di casa reale.

Mr. Leo diventò sinonimo di spontaneità e di bontà. In un clan che, con tutte le sue notevolissime doti, non è mai stato famoso per la dolcezza, fa spicco come un'amabilissima mutazione.

Of men like you Earth holds but few: An angel - with A revenue1

TERZO SOLE: L'INCOMP ARABILE ALFRED

La residenza padronale della grande tenuta che Edmund de Roth-schild possiede oggi a Exbury contiene centinaia di cimeli di famiglia. I membri del clan in visita a Exbury, benché più che avvezzi a questo genere di cose, non si stancano mai di chiedere che sia loro mostrato un oggetto famoso : "La bacchetta di Alfred". Si tratta d'un bastoncino d'avorio bianco, adorno d'un cerchietto di diamanti. Lo strumento ave-va un uso molto pratico : Alfred se ne serviva per dirigere l'orchestra sinfonica, come uno dei suoi hobby privati.

Quel bastone è il simbolo di un sistema di vita unico anche fra i Rothschild. Alfred, per età il secondo del triumvirato, non si sposò mai; e già questo rappresentava una rottura con le tradizioni del clan (Natty aveva sposato Emma Louisa, una Rothschild di Francoforte; Leo una bellezza italo-ebraica di nome Marie Perugia). L'aspetto fisi-co di Alfred era ancor più radicalmente diverso. Nella mishpahà in-glese, gli accurati incroci di geni ebraici avevano prodotto una gene-razione dopo l'altra di uomini corpulenti, nasuti, di tipo semitico-francofortese. Alfred invece era un ariano biondo e sottile, dal viso delicato cui facevano elegantemente cornice due lunghe basette.

Il tenore di vita dei fratelli era lussuoso; il suo sibaritico. Spesso c'era un treno personale ad attenderlo. Manteneva l'orchestra privata cui abbiamo accennato, e il cui maestro concertatore sottometteva ogni mattina alla sua approvazione i pezzi da suonare la sera all'ora di cena.

1 Di uomini come te \\ La terra ne possiede pochi: || XJn angelo... con || una rendita. Dalla storia dei tre fratelli scritta da Cecil Roth.

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Oltre all'orchestra, Alfred aveva un circo privato di cui - giacca blu a code, frusta, guanti di capretto color lavanda - giocava a fare il diret-tore, con grande divertimento degli amici. E adorava guidare il suo tiro a quattro di zebre.

Non v'è da smpirsi che la sua casa di campagna fosse degna non d'un nobile del contado, ma d'un imperatore. Halton House era un ammasso debe ornamentazioni più costose che centinaia di migliaia di sterline potessero comprare; stonando orrendamente con la sem-plice bellezza del paesaggio che la circondava, il Buckinghamshire, offendeva l'estetica - e non è escluso che eccitasse l'invidia - di quanti la vedevano. Uno la definiva « un debrio opprimente di fastosità e di insensata e male applicata magnificenza ». « Una combinazione di castebo francese e di casa da gioco! » esclamava un altro.

Nonostante questi eccessi, Alfred aveva molto gusto. In campa-gna, dove un raffinato si sarebbe sentito in ogni caso come un pesce fuori d'acqua, poco si preoccupava di armonie estetiche, e lasciava brucare le zebre. La città era il suo elemento naturale, quello in cui poteva dare libero gioco alla sua perizia nel giudicare d'arte. Al nu-mero 1 di Seamore Place, un famoso indirizzo londinese (ma la casa oggi non esiste più), si costruì una dimora degna di lui. Anche que-sta diventò una specie di enorme museo straripante di tesori - una sola mensola di camino reggeva oggetti per 300.000 dollari - eppure in tutto v'era ritmo ed armonia, se vogliamo credere a parecchi atto-niti testimoni. Seamore Place confermava il giudizio di lady Dorothy Neville, secondo la quale Alfred era « fra gli amatori inglesi, il più fine intenditore deb'arte francese del diciottesimo secolo ».

Dello stesso tenore il giudizio di lord Beaconsfield che - ex pre-mier e vedovo - nel 1880 lasciò Downing Street per Seamore Place. La casa di Alfred era, secondo Dizzy, la più bella di Londra, con una « magnificenza di decorazione e di mobilio degna del loro buon gusto ».

Il gusto di Alfred si rivelava però soprattutto nei doni e nebe squisite attenzioni che usava ai suoi ospiti. Impareggiabili, per esem-pio, per l'estro e la raffinatezza deba scelta, i due regali che ricevette da lui il suo ottimo amico lord Kitchener di Khartoum, il primo era una copia deba Lady Bampfylde di Reynolds (prediletto fra i quadri che Alfred possedeva) eseguita con tanta bravura che a malapena si distingueva dall'originale; il secondo, le parti decorate d'una seba da parata, appartenuta a Filippo III di Spagna.

Alfred non era solo un donatore generoso, ma anche un abibssi-

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mo organizzatore di ricevimenti. Gli amici si chiedevano spesso per-ché mai affittasse il palco al Covent Garden, quando tutte le celebrità che si producevano in quel teatro si ritrovavano poi ai suoi tratteni-menti serali. Le sue sale di musica udirono le voci e gli strumenti di Rubinstein, Liszt, Melba (a cui Alfred fece da consulente finanziario) e Mischa Elman (che fu lui a scoprire). Nel momento in cui entra-vano in casa di Alfred, non erano più artisti di professione ma amici pieni di talento: un'impressione conviviale ch'egli sapeva creare con grande maestria. E non aveva mai l'aria di rendersi conto che il gioiello con cui ringraziava gli artisti suoi amici per la loro cortesia valeva molto più della cifra più alta che un concertista potesse chie-dere.

Il suo forte, ciò che fece di lui il più perfetto anfitrione del suo tempo, era questo: l'attenzione, incredibilmente sollecita, che dedica-va alle cure per gli ospiti. Cecil Roth ha descritto il rito della prima colazione, che cominciava con l'introduzione nella camera da letto del-l'ospite di un capacissimo carrello, e con l'ingresso di un cameriere che annunciava il menu : « Tè, caffè o una pesca appena colta, signore? ».

Supponiamo che l'ospite, impreparato a tanta abbondanza di scelta, optasse per il tè.

« Quale preferisce, signore: cinese, indiano o di Ceylon? » « Cinese, grazie » decide il signore. Il tè viene versato, e la litania riprende : « Limone, latte o crema,

signore? » Il signore sceglie latte. Ma l'interrogatorio non è ancora finito : « Quale, signore? Jersey,

Hereford o Shorthorn? ». Tutto il giorno passava in questo modo. Quando verso sera gli

ospiti salivano nelle loro camere per cambiarsi d'abito, trovavano ce-stelli pieni di fiori di tutte le tinte dell'arcobaleno fra cui scegliere l'ornamento più adatto per l'occhiello della giacca o la scollatura della toilette. Se la fatica della scelta provocava qualche emicrania, era pron-to un delizioso rimedio: cocchieri rimanevano desti tutta la notte, pronti a calmare gli insonni con una scarrozzata al chiar di luna. Se il freddo dell'alba procurava a qualcuno un raffreddore, si poteva far ri-corso a un armadietto farmaceutico fornito con la stessa opulenza della cantina. E quando infine gli ospiti partivano, nelle loro valige veniva-no nascosti piccoli souvenir di quel già memorabile soggiorno. Apren-dole, gli uomini trovavano scatole di famosi sigari dell'anfitrione (si-

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gari spuntati da quindici dollari l'uno, divenuti col tempo così famosi fra gli intenditori che un fabbricante cercò di sfruttarne la rinomanza dando ad una marca il nome di Alfred de Rothschild). Le signore rice-vevano alla partenza doni più deperibili come cioccolatini, frutti eso-tici, fiori di serra.

Una specialità di Alfred era il "pranzo d'adorazione" : un banchet-to in miniatura, cui partecipavano una sola donna - la signora in cui onore veniva dato - e tre o quattro uomini che "poteva farle piacere d'incontrare". Una bella attrice della Londra fin de siècle - per esempio Lily Langtry - poteva così essere "adorata" nella più elegante delle cor-nici da, poniamo, un primo ministro in carica, dal più rinomato tenore del mondo e da un generale di fama leggendaria come lord Kitchener. Anche questa cerimonia culminava in un "piccolo" dono che i tre o quattro gentlemen si univano nel mettere ai piedi della signora (la co-reografia doveva essere interessante); gli ospiti maschi venivano con-sultati sulla scelta dell'oggetto, ma l'acquisto era privilegio esclusivo dell'anfitrione.

Alfred, che fra la gente del suo mondo era il più urbano, il più de-lizioso degli uomini, perdeva la disinvoltura quando si trovava fra gente delle classi inferiori; perciò evitava di trovarsi a tu per tu con i suoi beneficati (come piaceva a Leo) o con la massa - chiamiamola co-sì - dei comuni milionari (come faceva Natty). Questo riserbo, questo tenersi in disparte contribuirono a creare la sua leggenda. Com'era inevitabile, egli diventò anche uno dei soggetti preferiti per le carica-ture di Max Beerbohm. Eppure, con tutte le sue pose, il suo dandismo, i suoi snobistici hobby, Alfred rimaneva un Rothschild. Non trascorre-va tutte le sue giornate neb'ozio; fra l'uno e l'altro raffinatissimo diver-timento, trovava il tempo per le tre vocazioni della Famiglia : gli affa-ri, la protezione degli ebrei, la beneficenza.

Naturalmente, le interpretava tutte e tre a suo modo. Neppure Natty, il despota della City, riuscì mai ad ottenere che arrivasse a New Court in orario. Veniva tardi e si fermava fino ad ora avanzata, tanto che istituì uno speciale turno di servizio per il suo personale. A venti-sei anni venne eletto - e fu il primo ebreo a coprire queba carica - di-rettore della Banca d'Inghilterra. Non era una sinecura; anche a un Rothschild occorrevano abilità ed applicazione, per essere rieletto ven-tun anni di seguito. Quando diede le dimissioni, un po' troppo preci-pitosamente, nel 1889, non fu la mancanza di capacità finanziarie bensì la curiosità eccessiva a costargli il posto. Aveva pagato una somma al-

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tissima per un quadro che desiderava da molto tempo. Il caso volle che il mercante da cui lo aveva acquistato fosse un cliente di Threadneedle Street; quanto avesse guadagnato nell'affare, si poteva capire dal suo conto in banca. Alfred capì, si indignò, protestò in modo un po' trop-po vibrato. Il mercante perse un cliente, e Alfred la carica di direttore, ma Londra ci guadagnò un altro aneddoto di prim'ordine.

Nessun incidente del genere capitò ad Alfred nell'espletamento dei suoi doveri di ebreo osservante. Frequentava la sinagoga non meno scrupolosamente dei fratelli, benché Natty dovesse spesso controllare che il fiore all'occhiello della sua giacca non fosse troppo sgargiante. E nonostante la forte inclinazione per le splendide pitture rinascimen-tali, si costrinse a non comprare quadri di quel genere a causa del loro contenuto religioso (altra prova di quanto sia severa la sorte dell'ebreo).

In ambiente giudaico, Alfred è anche associato con il mistero della morte di Disraeli. Il grande statista era stato battezzato all'età di dodici anni, ma non aveva mai fatto mistero del suo orgoglio razziale, e si proclamava discendente dai "marrani", gli israeliti segreti di Spagna, che il terrore del quindicesimo secolo aveva costretto a un'artificiosa conversione al cristianesimo, ma che nell'ora ultima avevano dichiarato la loro vera fede. Le ultime parole di Disraeli morente somigliavano, secondo alcuni biografi, alla frase « Shema' Israel », che è la professione di fede dell'ebreo sul letto di morte; e Alfred de Rothschild era fra le persone incaricate degli ultimi riti sulla salma. Anche questo fatto con-tribuì a far correre voci che non sono mai state confermate né smenti-te in modo definitivo.

Il pubblico conosceva Alfred soprattutto come un brillante e infa-ticabile impresario di feste di beneficenza. Nessun altro avrebbe potuto organizzare in modo così magistrale la serata di gala che si svolse al Covent Garden, a beneficio debe vittime della guerra boera. Solo per amor suo, la grande Patti venne meno alla regola ferrea per cui non accettava mai di cantare a feste di beneficenza, e insieme ad Alvarez - fatto venire per l'occasione da New York - si produsse nel grande duetto del Romeo e Giulietta di Gounod. Nessuno tranne Alfred avrebbe potuto assicurarsi la partecipazione di due bande come quelle della Queen's Household Cavalry e della Brigade of the Guards. Nes-suno tranne lui avrebbe potuto convincere il gran mondo londinese a pagare prezzi così esorbitanti: 250 sterline (quattromila dollari) per un palco, 15 sterline (duecentotrenta dollari) per una poltrona. A par-te quest'occasione particolare, è probabUe che soprattutto lui - il più

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magnifico dei magnifici tre - tenesse desta l'augusta amicizia su cui il triumvirato fondava in gran parte il suo prestigio, e della quale dob-biamo ora parlare.

MARLBOROUGH HOUSE

Il più grande trionfo sociale della Famiglia fu dovuto al suo osti-nato attaccamento alla fede avita. Per buona parte del diciannovesimo secolo le due maggiori università britanniche non vollero saperne dei seguaci di religioni straniere; il loro statuto imponeva che tutti i can-didati a un titolo accademico si dichiarassero fedeli seguaci della Chie-sa d'Inghilterra. Però, mentre a Oxford questo andava fatto prima del-l'immatricolazione, a Cambridge la dichiarazione era necessaria solo prima di ottenere la laurea; quindi Natty, Leo e Alfred frequentarono il Trinity College di Cambridge, con l'intenzione di seguirne i corsi senza laurearsi (come risultato, ancor oggi, molto tempo dopo il venir meno di tutte le restrizioni religiose, i Rothschild studiano al Trinity). Nel 1850 questa circostanza fece di loro i compagni d'università d'un ragazzo allegro e paffuto chiamato Bertie, e conosciuto anche col no-me di principe di Galles.

Tra il futuro re d'Inghilterra e Natty, Leo e Alf - e di lì a poco an-che Ferdy, cioè Ferdinand, il Rothschild austriaco - nacque subito un'a-micizia destinata a durare immutata negli anni, e divenuta presto così fervida da far parlare di sé i giornali, da sconvolgere i ciambellani di corte, da provocare infinite violazioni dell'etichetta. Alcuni ministri di sua maestà temevano che l'erede designato passasse segreti di stato a una società commerciale; in realtà, saltò fuori che sua altezza, benefi-ciando del sistema d'informazione dei Rothschild, spesso sapeva molte più cose che non i crucciati ministri. Ma, in linea generale, quest'ami-cizia diede argomento di conversazione a tutto il paese a qualunque li-vello sociale, e rallegrò gli ebrei di tutte le parti del mondo.

Un giorno dopo l'altro, le circolari di corte annunciavano che il principe di Galles aveva alloggiato presso lord Rothschild a Tring Ma-nor, o aveva cacciato con Mr. Leo nella riserva di Leighton Buzzard, o aveva partecipato con Mr. Ferdinand alle gare veliche di Ramsgate. Erano i Rothschild quelli che più di frequente - e più spesso degli an-tichi clan ducali - potevano diramare inviti con la magica frase « ... per

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avere l'onore di incontrare le Loro Altezze Reali, il Principe e la Prin-cipessa di Galles ». E in un'occasione più triste, dopo che Bertie era comparso sul banco dei testimoni di una corte di divorzi, fu il piano-forte di Alf a tener compagnia al principe durante una notte insonne all'Amphytrion Club.

Più spesso gli amici soggiornavano a Marlborough House, dove il principe aveva la sua corte non vittoriana; dove si brindava, si ballava, si scommetteva, di tanto in tanto ci si prestava denaro a vicenda, si fa-cevano le più eleganti baldorie dell'impero. I "Marlborough Boys", di cui i Rothschild erano tanta parte, diventarono il gruppo che dettava legge, in fatto di mondanità, a tutt'Europa. Piuttosto variegato ed ete-rogeneo, esso ebbe una certa importanza storica. Da Carlo II in poi, aveva lamentato Lytton Strachey, la casa reale inglese non sapeva cosa fosse eleganza. Gli Hannover avevano portato nella regalità una vena di grossolanità teutonica; e la stessa Vittoria, per quanto rispetto e ve-nerazione meritasse, non poteva certo essere ammirata come la quin-tessenza della raffinatezza. Ma molto prima di diventare Edoardo VII, suo figlio amministrò persino la propria bruttezza con gusto edoardia-no. A Marlborough House, Bertie regnava con eleganza e praticava uno snobismo molto democratico; grazie a lui, la società londinese si rinnovò in maniera molto più radicale di quanto si verificò in altre società d'Europa e persino d'America.

Si scandalizzassero pure i ciambellani di corte; a Londra la gaiezza cominciò ad avere la meglio sulla genealogia, Io spirito a contare più dell'etichetta, il divertente e il pittoresco più dell'esteriormente decoro-so. Da tutti questi punti di vista, i Rothschild non erano secondi a nes-suno. Inoltre, erano sempre pronti a prestare a un amico quelle poche migliaia di sterline che bastavano a tirarlo fuori dai guai, anche se sua madre si chiamava Vittoria. Natty, Leo e Alfred ebbero la loro parte nel ridare vitalità all'élite - a tutto vantaggio della vitalità complessiva del paese - e nel donare fascino alla corona.

La regina stessa finì per riconoscerlo, nonostante i suoi pregiudizi d'un tempo circa il posto degli ebrei nella società. Tuttavia, il prestigio dei tre fratelli non sarebbe forse bastato a conquistare sua maestà: fu un quarto personaggio della Famiglia a indurla al primo gesto pub-blico.

Questo quarto personaggio fu Ferdy, l'austriaco; e a questo punto dovremo parlare un po' di lui e della sua storia. Nel 1865 - con la ce-rimonia che abbiamo descritto qualche pagina innanzi - Ferdy aveva

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sposato Evelina, la sorella di Natty, Leo e Alf. A diciotto mesi dal ma-trimonio, Evelina era morta di parto. Il vedovo decise di rimanere in Inghilterra. Diventò un Rothschild inglese: inglese per residenza, al-loggiava nella casa di città con la famosa sala da ballo bianca; inglese politicamente, giacché divenne un suddito della regina e, quando Natty lasciò i Comuni per la Camera Alta, ne prese il posto facendosi eleg-gere deputato di Aylesbury; inglese nelle beneficenze, fondando a Lon-dra l'ospedale pediatrico "Evelina de Rothschild" (alla moglie scom-parsa intitolò anche una scuola fondata a Gerusalemme). A Natale in-viava una coppia di fagiani a tutti i conducenti londinesi di autobus a cavalli; a titolo di ringraziamento, loro adornavano le fruste di nastri giabi e blu. E Ferdy era inglese anche neb'eccentricità di certi suoi ca-pricci. Aveva l'abitudine di dare balli quasi da un giorno all'altro, di modo che le invitate non avevano il tempo di prepararsi dei vestiti; e di questa colpa faceva ammenda ordinando a sue spese nuove toilette di qualche grande firma, perché le signore le indossassero alla prossi-ma occasione.

A un suo tipico capriccio si deve uno dei più bei panorami del-l'Inghilterra meridionale. Nel 1874 cose mai viste cominciarono a suc-cedere a Lodge Hill, fin abora il luogo più desolato e deserto che si potesse trovare nel Buckinghamshire. Per circa 200.000 sterline Ferdy aveva comprato dal duca di Marlborough la cobina e quasi undici chi-lometri quadrati di terreno tutt'attorno : gli piaceva la vista. Per ren-dere abitabile il punto migliore da cui si poteva contemplare il pano-rama, fu tagliata via tutta la vetta deba collina. L'acqua dovette essere portata da ventidue chilometri di distanza; bisognò costruire una spe-cile tramvia a vapore, con rotaie lunghe ventidue chilometri, per tra-sportare materiali daba più vicina stazione ferroviaria. Nei fianchi del-la cobina furono tagliate numerose strade carrozzabili; tiri di cavalle appositamente importate daba Normandia faticavano su per la salita, trascinando materiali da costruzione.

Quello ch'era stato un luogo deserto, mai toccato dalla mano del-l'uomo, fu trasformato in un parco grazie ad operazioni di chirurgia topografica, drenaggi, irrigazioni, trapianto di alberi di piccolo fusto. Migliaia di metri quadrati furono seminati a fiori. Siccome Ferdinand sistemava i boschi a suo gusto, come altri possono fare con i portacene-re, centinaia di alberi furono sradicati qui e ripiantati più in là; sicco-me gli piacevano i grossi castagni, grossi castagni furono portati fin là impiegando per ciascuno sedici cavalli e abbassando i fili del telegrafo

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al loro passaggio. La spianata in cui doveva sorgere la casa fu circon-data di terrazzi, uccelliere, fontane, gruppi d'alberi, gruppi di statue del Seicento uscite dallo scalpello di Girardon, un importante scultore di Versailles.

Che tipo di casa poteva andare bene per una tale tenuta? Ferdy volle un'antologia scelta dei suoi prediletti castelli francesi: volle le due torri del Chàteau de Maintenon, il lucernario di Anet, i comignoli di Chambord, due versioni della scala di Blois (un tantino più in pic-colo, e protette con vetri contro i rigori del clima inglese); il tutto "op-portunamente combinato, riveduto e corretto", a quanto giudicava un esperto.

Per ciò che riguardava la decorazione interna, in qualche caso, do-vendo inquadrare dipinti di proporzioni superiori al normale - come due grandi vedute di Venezia di mano del Guardi - Ferdinando fece intagliare pannelli su misura, ma nella maggior parte dei casi si ac-contentò di roba già fatta : cioè di squisite boiseries tolte ai più fastosi palazzi francesi d'epoca Luigi XV e Luigi XVI, trasportate oltre Mani-ca e abilmente integrate nei vari appartamenti. Questi furono arredati principalmente con mobili di gran lusso fatti per la famiglia reale francese; sui pavimenti venne stesa la più grande collezione del mondo di Savonneries, i tappeti così chiamati dal nome della fabbrica da cui uscivano, e che lavorava esclusivamente per i Borboni. I soffitti, gli arazzi di Beauvais, le porcellane di Sèvres, i vari objets (fra cui un grande elefante musicale) erano degni del resto; completava il tutto una legione di Reynolds, Gainsborough, Cuyp, Pater, Van der Heyden, per non parlare dei Watteau e Rubens aggiunti in seguito dagli eredi.

Dopo più di dieci anni di lavoro, Ferdy si dichiarò soddisfatto; nel cuore della campagna inglese sorgeva, come un gigantesco miraggio, un castello del Rinascimento francese, splendido di marmi bianchi, ricco di 222 stanze. Il suo proprietario lo battezzò Waddesdon Manor: un esempio stupefacente di come si possano mascherare tutte le co-modità.

Tutto il mondo venne a vedere e ad ammirare. Alle feste dal saba-to al lunedì (alla fine del secolo il week-end era praticato ma non era stato ancora inventato) Ferdinand intrattenne di volta in volta lo scià di Persia, l'imperatore di Germania, Henry James, Robert Browning, Guy de Maupassant (e l'albo degli ospiti conserva anche i nomi del-l'Agha Khan - quello più famoso - e di una serie di primi ministri da Balfour a Winston Churchill). Il principe di Galles fece a una delle

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scale di Blois l'onore di fratturarsi sui suoi gradini una regale caviglia. Notizie del prodigio giunsero fino all'orecchio di Vittoria, e il 4

maggio 1890 sua maestà si decise a un gesto quasi senza precedenti: fece visita a un privato. Voleva vedere coi suoi occhi che cosa Roth-schild avesse saputo cavare da una collina spoglia. Un piccolo incidente turbò il ricevimento, quando lord Hartington, più tardi duca di Devon-shire, commise la gaffe inesplicabile di stringere la mano della regina, anziché baciarla; di conseguenza, per tutto il resto delle presentazioni la sovrana non porse più la mano a nessuno. Ma dopo che ebbe girato tutto il parco su una carrozza tirata da un pony, dopo che ebbe visitato gallerie, vestiboli, salotti, non potè non dichiararsi d'accordo con gli altri visitatori. « L'ospite era delizioso » dichiarò « e il posto molto bello. »

Quella visita conquistò ai Rothschild il suo affetto. Durante i sog-giorni sul continente, Vittoria prese l'abitudine di recarsi senza nessun apparato a fare visita ad Alice, la sorella di Ferdy, nella sua tenuta francese. Cominciò persino ad usare i corrieri Rothschild per alcune lettere private, trovando più discrezione qui che non presso i suoi di-plomatici. (A che punto giungesse la sua discrezione, la Famiglia lo dimostrò dopo la morte della sovrana quando Natty, nominato cura-tore dei beni di Disraeli, scoperse un certo numero di lettere "privatis-sime" della regina al prediletto fra i suoi primi ministri. Natty vi diede solo un'occhiata e le mandò a re Edoardo, che per una volta, invece di essere censurato da sua madre, la censurò, e in modo radicale: fece bruciare tutte le lettere.)

Neanche quest'altissima amicizia compromise la fedeltà dei Roth-schild aba religione e alle tradizioni deba loro gente; al contrario, par-ve qualche volta che fosse la Chiesa d'Inghilterra a correre dei rischi. Il 19 gennaio 1881 il principe di Gabes, sfidando un tempo pessimo, fece la sua comparsa aba sinagoga centrale di Great Portland Street per assistere alle nozze di Leo. Trovò delizioso il cibo khashèr servito al ricevimento, rise di cuore alle storielle ebraiche. Col tempo, queste di-vennero la sua passione; e siccome Natty condivideva con lui questa debolezza, Casa Rothschild divenne un grande centro internazionale non solo deba finanza ma anche dell'umorismo ebraico.

« Almeno un diplomatico straniero, il barone von Eckardstein » riferisce un biografo « aveva da parte dei Rothschbd ordine perma-nente di raccogliere e riferire tutte le buone storielle ebraiche che sen-tiva all'estero, specialmente freddure berlinesi suba Borsa. Più d'una

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6 . 1 favolosi Rothschild

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volta... arrivò al punto di telegrafare bori mots a New Court, da dove entro breve tempo arrivavano a Marlborough House. »

Oggi, gli archivisti deba banca londinese, che custodiscono tanti segreti, custodiscono anche un tesoro di storiebe ebraiche trasmesse in linguaggio telegrafico da un nobile prussiano.

Più tardi il tema ebraico sarebbe emerso in forma più seria e su un livello più augusto. Nel 1908 Bertie era ormai diventato sua mae-stà britannica. I Rothschild combattevano da molto tempo per mi-gliorare le condizioni dei loro correligionari in Russia; e ora che il re stava per incontrarsi con lo zar a Reval, fra i membri del gruppo di Marlborough si ebbe uno scambio di corrispondenza sull'argomento dei possibili rimedi all'intoberanza russa.

Qualcosa fu fatto. Il tema debe persecuzioni contro gli ebrei diven-tò una debe voci importanti del programma di Reval. « Dal mio rap-porto » scriveva poco dopo a Natty l'ambasciatore inglese a Pietrogra-do « lei vedrà che il primo ministro russo sta studiando la possibilità di migliorare la sorte degli ebrei in Russia. »

Più o meno intorno a questa data, pare che un rabbino di Londra dicesse che gli ebrei, diversamente dai cristiani, non conoscevano an-cora un Messia, ma avevano anche loro una sacra famiglia.

In realtà, se vogliamo far nostra la similitudine, ne avevano più d'una. Nel mondo c'erano altri Rothschild degni del loro nome non meno di quelli inglesi. La Famiglia era, ed è, l'unico clan di ricchi sen-za parenti poveri. Per passare in rassegna gli splendori della mishpahà alla fm de siècle, dovremo spostarci in Francia e poi in Austria.

IL PERFIDO BISMARCK

La Francia fu forse il paese in cui al clan riuscì più facbe afferma-re il suo prestigio sociale. Ottant'anni di rivoluzione intermittente ave-vano demolito i Borboni, detronizzato gli Orléans, screditato i Bona-parte. Solo i Rothschild avevano sempre in mano il loro scettro. Nel 1871, quando si diradò il fumo deba Comune di Parigi, il barone Al-phonse ne emerse come il capo deba Famiglia con il più lungo e inin-terrotto periodo di governo al suo attivo.

Dal punto di vista genealogico, il ramo francese era il più vicino di tutti al ghetto : ne distava solo d'una generazione. James, il capostipi-

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te, era stato il più giovane fra i cinque fratelli fondatori e non ebbe prole fino a un'età relativamente tarda: i suoi figli erano coetanei dei nipoti dei fratelli. Quei quattro rampolli - Alphonse, Gustave, Salomon e Edmond - lasciarono nella storia sociale del loro paese tracce lumi-nose come quelle dei loro cugini in secondo grado oltre Manica. Ma del quartetto di Parigi, il membro più giovane e il più vecchio furono i due che stamparono l'impronta più profonda.

Alphonse, piccolo, tarchiato, astuto e instancabile come pere James, era ancor più soave e corame il faut. Si diceva che avesse il più bel paio di baffi d'Europa. Tutto sommato, il nome aveva in lui un rappre-sentante di bell'aspetto, e non secondo a nessuno dei suoi congiunti nell'imporsi al timore reverenziale della gente.

La storia di un certo viaggio in treno e di un favoloso contrattem-po può darci un'idea del prestigio di cui godeva quel nome in Francia. Uno dei clienti di Alphonse, il re del Belgio, lo aveva invitato nella capitale belga per una cena privatissima; per evitare pubblicità Al-phonse prese un semplice biglietto di prima classe per Bruxelles. Ma a poche miglia dal confine l'espresso si arrestò e si spostò su un binario laterale; una rapida indagine rivelò che il binario principale doveva essere lasciato sgombro per il passaggio d'un treno privato.

Il barone non era abituato a vedersi messo in disparte per lasciare il passo a un altro : inoltre sarebbe arrivato a Bruxelles troppo tardi per l'appuntamento con il regale ospite. I fili telegrafici tra Francia e Belgio cominciarono a vibrare alla sua collera. Infine rivelarono il fatto che aveva provocato il contrattempo : il cameriere di Alphonse, avendo dimenticato di mettere in valigia l'abito da sera del padrone, s'era valso del nome di lui per mandarglielo dietro con un treno privato. I suoi vestiti avevano fatto deviare il barone su un binario laterale.

In occasioni più importanti Alphonse seppe trovarsi al posto giu-sto nel momento giusto. La sua carriera si intrecciò a un grande cata-clisma francese: la fine di Napoleone III e la nascita violenta della Terza Repubblica. Attraverso questo succedersi di eventi, Alphonse oc-cupò quella ch'era la posizione tradizionale dei Rothschild : subito die-tro le quinte.

Il 5 luglio 1870 un aiutante dell'imperatore annunciò al barone che Napoleone voleva vederlo subito, e Io portò al palazzo di Saint-Cloud. Napoleone era profondamente turbato. La Prussia, disse, aveva ormai superato tutti i limiti; aveva fatto del confine franco-tedesco una lunga piaga, e adesso stava cercando di mettere sul trono di Spagna uno

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Hohenzollern per prendere la Francia anche alle spalle. Quest'ostina-zione doveva significare la guerra. Solo l'Inghilterra avrebbe potuto in-durre Bismarck a una maggiore moderazione, e bisognava chiederle di intervenire immediatamente; ma siccome al momento essa non aveva un ministro degli Esteri - lord Clarendon, che aveva coperto la carica sino ad allora, era appena morto, e non era stato ancora nominato un successore (che doveva essere poi lord Granville) - Napoleone chiede-va di valersi dell'apparato Rothschild.

Alphonse lesse fra le parole di sua maestà: chiedendo ufficialmen-te la mediazione inglese, la Francia avrebbe rivelato la propria debo-lezza; in questo caso, un'allusione discreta lasciata cadere dai Rothschild sarebbe stata più "diplomatica" di qualunque mossa diplomatica uf-ficiale.

Come sappiamo, la Famiglia aveva dietro di sé una lunga espe-rienza in questo genere di cose. Quello stesso pomeriggio un telegram-ma cifrato venne spedito da rue Laffitte a New Court; la sera Natty decifrava il messaggio di Alphonse, e la mattina successiva giungeva alla casa del primo ministro proprio mentre questi stava per partire alla volta di Windsor Castle e di un'udienza con la regina. I due fecero insieme il tragitto in carrozza sino alla stazione, e Natty trasmise il messaggio di Napoleone; Gladstone stette a sentire, rifletté, e infine di-chiarò di non credere che il governo inglese potesse influenzare la Prussia.

Questa breve conversazione segnò il principio della fine per l'im-pero del terzo Napoleone. I fili telegrafici tornarono a ronzare recando un altro messaggio Rothschild, questa volta da New Court a rue Laf-fitte; di lì a qualche ora l'imperatore seppe che il suo tentativo di sal-vare insieme la faccia e la pace era fallito. Bismarck ebbe ciò che vole-va. Dodici giorni dopo, il 19 luglio, la Francia sferrava contro la Prus-sia il suo debole assalto. Il 1° settembre Napoleone capitolava a Sedan.

Entro una settimana il regime monarchico era rovesciato, le armate tedesche accerchiavano Parigi, e Casa Rothschild si preparava al pros-simo round con la storia. Se la sarebbe cavata quanto mai brillante-mente; era fallita nel suo tentativo di intervento in favore della vitti-ma, ma avrebbe vinto - e i particolari del suo trionfo dovevano essere piuttosto divertenti - il vincitore.

A metà settembre l'assedio di Parigi cominciò sul serio. Il 19 set-tembre Guglielmo I, il generale Moltke e il potente Bismarck stabili-rono il Joro quartier generale supremo a Ferrières, principale residenza

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• li campagna della mishpahà francese. Il monarca prussiano passeggiò per gli immensi saloni e gallerie Rinascimento del castello, ammirò i purosangue che scalpitavano nelle scuderie, annusò il profumo d'un mare d'orchidee nelle serre, assaggiò frutti degni degli dèi del suo Va-ilialla, contemplò un immenso panorama di parchi e giardini; e fu tan-to sincero da ammettere di essere impressionato.

« I re non potrebbero permettersi niente di simile » disse al suo stato maggiore. « Poteva appartenere solo a un Rothschild. »

Bismarck si sentiva meno esilarato; per lui era una sfortuna che re Guglielmo considerasse il padrone di Ferrières qualcosa come un po-tente collega. Sua maestà si astenne infatti dal pretendere per sé la lussuosa camera da letto del barone, accontentandosi invece di una stanza modesta. Inoltre emise un ordine severissimo che imponeva ai membri dello stato maggiore generale, alloggiati con lui, un contegno estremamente riguardoso; anche toccare i tesori d'arte di Ferrières era verhoten. E persino Bismarck - Bismarck! - ebbe l'ordine di non indul-gere alla sua passione per la caccia nella ricchissima riserva baronale.

Il capo-cameriere di Alphonse, incaricato di far rispettare questi intollerabili divieti, fu la spina nel fianco del Cancelliere di Ferro, nel-l'ora stessa del suo trionfo. Oggi, nel salotto azzurro del castello, il ba-rone Guy conserva ancora copia del rapporto del capo-cameriere. Ligio alla consegna, questi si rifiutò di servire a Bismarck - che avrebbe vo-luto consolare la sua noia con qualche buon bicchiere - anche una sola bottiglia delle famose cantine Rothschild. Quando il Cancelliere, furi-bondo, lo costrinse a vendergliene una cassa in cambio di denaro so-nante, l'altro fece rapporto al padrone, che si trovava a Parigi.

Il barone Alphonse si divertì molto all'idea dell'orco prussiano che a Ferrières doveva litigare col cameriere per un po' di vino, mentre tutto il resto d'Europa tremava davanti a lui. Nell'assediata Parigi Bismarck cominciò a far le spese dei pettegolezzi del gran mondo. In dicembre i prussiani abbatterono un pallone che trasportava una lettera alla contessa di Moustier; la lettera conteneva il seguente mes-saggio : « Rothschild mi ha detto ieri che Bismarck non è stato soddi-sfatto dei suoi fagiani a Ferrières, e ha minacciato di picchiare il ca-meriere perché non volavano in giro pieni di tartufi ».

Queste righe, trasmesse al quartier generale prussiano, sconvolsero oltre ogni dire il Cancelliere di Ferro. Vi sentì la velata accusa di aver disobbedito ai divieti del re; perché poi, a voler essere proprio cattivi, qualche pallino contro i fagiani di Rothschild lo aveva sparato davvero.

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L'edizione delle sue opere ci rivela i suoi patemi d'animo. « Che cosa mi faranno? » si chiedeva preoccupato. « Non mi arresteranno, perché allora non avrebbero nessuno per definire i negoziati di pace. »

Non lo arrestarono, e così l'ebbero per i negoziati di pace; ed eb-bero anche, dalla parte francese, il maggiore dei fratelli Rothschild, che non fece nulla per risparmiare i nervi del Cancelliere. Tanto per cominciare, Alphonse batté in rapidità tutti i servizi d'informazione prussiani, inviando a New Court la notizia dell'armistizio per mezzo di piccioni viaggiatori; così il sistema Rothschild ebbe ragione anche dell'interruzione delle linee telegrafiche. Quando si passò ai negoziati, trattare non fu più facile. Senza mai perdere la calma, il piccolo ebreo tenne testa impavido al grosso prussiano; si ostinò persino a parlare francese, benché Bismarck gli ricordasse rabbiosamente le origini te-desche della Famiglia e invocasse la propria amicizia col vecchio Am-schel di Francoforte.

Alphonse, saldo come una roccia, tenne fermo alle sue richieste, al suo linguaggio, alla sua indispensabilità. Nessuno tranne un Roth-schild poteva garantire rifornimenti di cibo a Parigi malridotta e affa-mata (a Londra Alfred, Leo e Natty dirigevano le attività per i soccorsi alla Francia). Nessuno tranne un Rothschild poteva farsi garante dei cinque miliardi di franchi d'indennizzo alla Prussia. Nessuno tranne un Rothschild, aiutato dai cugini d'altri paesi e dai banchieri del suo gruppo, avrebbe potuto pagare questa somma enorme con conseguenze assai meno rovinose di quanto Bismarck s'aspettasse, e con due anni d'anticipo sulle date stabilite.

Fu soprattutto grazie a quest'ultimo tour de force che la Casa fran-cese conservò una posizione di primo piano anche nella nuova repub-blica. Bismarck esercitò il suo potere con grande accompagnamento di fanfare; e poi retrocesse nell'ombra e se ne andò. I Rothschild esercita-rono il loro quasi nel silenzio; e rimasero. Ferrières esiste ancor oggi, come il più grandioso chàteau della Famiglia.

IL PIÙ FASTOSO PELLEGRINO DI TERRA SANTA

I figli cadetti di grandi famiglie europee spesso si volgono alla car-riera militare, accontentandosi di un grado di colonnello, o alla carriera ecclesiastica abbracciata senza vocazione, o scelgono la vita dell'espa-

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Lriato, il più delle volte senza saper uscire dal limbo della mediocrità. I Rothschild non contano in famiglia nessun caso del genere. I loro ca-detti partono di gran lunga più avvantaggiati e, come dimostra l'esem-pio di Edmond, sanno far fruttare molto meglio ciò che ricevono in partenza.

Edmond, l'ultimo fratello di Alphonse (morì nel 1934, a novan-tanni), si dedicò alle attività consuete della Famiglia. Sedette dietro una scrivania negli uffici di rue Laffitte (la sua specialità era dividere il monopolio mondiale del petrolio con la Shell e la Standard Oil); si co-struì una grande casa di città; sposò un'altra Rothschild, Adelheid del-la branca tedesca, con una serie di cerimonie che furono rigorosamente ortodosse senza nulla perdere in splendore. Aveva inoltre interessi cul-turali che coltivava con notevole talento e grande abbondanza di mez-zi. Se suo fratello Alphonse raccoglieva rare opere d'oreficeria rinasci-mentale, se il cugino Willy di Francoforte diventò un famoso biblio-filo e il cugino Nathaniel di Vienna si specializzò in gioielli della fine del diciottesimo secolo, Edmond mise insieme una ricchissima raccolta di incisioni, e morendo ne lasciò non meno di ventimila al museo del Louvre.

Ma egli intraprese anche un'altra attività, che finì per assorbire buona parte della sua lunga vita e delle sue energie, vigorose quanto si conveniva a un Rothschild; cominciò come beneficenza e terminò, nel tempo nostro, come storia. La possiamo riassumere in una parola sola : Palestina.

La storia ebbe inizio il 28 settembre 1882 con una curiosa scena nell'ufficio di Edmond. Dietro la scrivania il barone, con pizzo curatis-simo, cravatta di velluto, un fiore ah'occhiello; di fronte a lui una stra-na apparizione, con la faccia incorniciata da folte e arruffate basette che davano al loro proprietario un'aria da profeta. Il gran rabbino di Francia, che fungeva da segretario del barone in questo ramo debe sue attività, aveva presentato il visitatore come reb (rabbino) Samuel Mohilever e convalidato le sue richieste con l'autorità del proprio no-me; reb Mohilever stava cercando di raccogliere fondi per il finanzia-mento di nuove colonie ebraiche in Palestina. Non sembrava, però, uno che si dedicasse aba missione di trovare finanziamenti; né si com-portava nel modo più consueto alle persone impegnate in compiti del genere.

La conversazione cominciò con una domanda : si sarebbe dispiaciu-to il barone se lui, reb Mohilever, non discorreva al modo moderno ma

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parlava col tono di voce usato dal rabbino davanti alla congregazione dei fedeli? No, il barone non se ne sarebbe dispiaciuto. Si poteva quin di passare al primo punto. Perché proprio Mosè, che aveva la parola difficile e balbettava, perché proprio lui era stato scelto per essere la guida degli ebrei, per condurli dall'Egitto aba terra d'Israele?

Dopo aver esaminato i prò e i contro alla maniera talmudica, il rabbino rivelò al suo stupito interlocutore la ragione vera deba scelta : Dio aveva deliberatamente scartato la possibbità di affidare a un uomo daba parola facile la rivelazione del Verbo. Aveva scelto il balbuziente Mosè per dimostrare che ciò che nella sua bocca riusciva così convin-cente, così irresistibile, non era una lingua sciolta e abile, ma la Voce del Signore.

Una serie di argomentazioni debo stesso genere condusse reb Mohilever aba conclusione che anche lui era un cattivo oratore, ma che forse la sua piccolezza era stata scelta per dimostrare la grandezza del-la causa; per dimostrare che il suolo di Sion era l'unico luogo in cui potessero trovar rifugio i fratebi perseguitati dell'Europa orientale. Era venuto a Parigi nella speranza di conquistare aba Palestina "la più inti-ma fibra" dell'anima del barone Rothschild.

Edmond rispose che era pronto a versare la somma necessaria (a cui il visitatore non aveva neanche accennato), ma la dialettica talmu-dica di reb Mohilever riportò il discorso sull'anima. Il barone, per nul-la preparato a una discussione d'ordine spirituale, continuò a insistere suba propria buona disposizione ad allargare i cordoni deba borsa; il rabbino continuava a battere sulla "fibra più intima". Aba fine i pro-fondi occhi neri del vecchio l'ebbero vinta; Edmond promise di «... consultare me stesso, e di fare un esame per vedere che cosa ne risulta ».

Il gran rabbino Kahn, che fungeva da interprete quando lo yiddish di Edmond non bastava a superare le difficoltà deba conversazione, ci ha conservato la frase. I fatti rivelarono che non s'era trattato di sem-plice cortesia; Edmond avrebbe dedicato a queb'esame di coscienza i rimanenti cinquantanni di vita.

Diventò b massimo promotore deba colonizzazione ebraica prima del sionismo. Cominciò col finanziare la sistemazione di esattamente centouno ebrei russi non lontano da Giaffa, e gradualmente passò al-l'erogazione di sussidi ad altre colonie ebraiche bisognose e aba crea-zione di colonie nuove. Il suo denaro servì a prosciugare paludi, a sca-vare pozzi, ad arare terre incolte, a costruire case. Debe sette nuove

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comunità agricole ebraiche esistenti in Palestina verso la metà del decennio 1880-90, tre evitarono la bancarotta solo grazie a Rothschild, una quarta fu creata interamente da lui, le altre tre beneficiarono in misura vitale, anche se in modo meno diretto, del suo aiuto. Al primo gruppo di emigranti trasferito in Palestina grazie al suo intervento tennero presto dietro centinaia e poi migliaia di coloni.

Tutto ciò rimaneva per Edmond un impegno esteriore, che non s'armonizzava veramente con un carattere un tantino snob e incline al riserbo. Ben volentieri Edmond avrebbe lasciato che i suoi assegni par-lassero per lui; anzi, b suo primo versamento fu firmato "Nodèv ha-yedua' ", che in ebraico significa "un certo benefattore".

In lui si creò una contraddizione, che Chai'm Weizmann notò al primo incontro. « Tutto ciò che lo circondava era di gusto squisito » ricordava Weizmann più tardi «... i suoi abiti, la sua casa - o meglio le sue case - i mobili, i quadri... » Ma lui - quel dandy altero, impecca-bile - era immerso fino al cobo nei problemi dell'irrigazione, deba con-cimazione, deba riattivazione del suolo.

Gli occhi di reb Mohilever rimanevano fissi su di lui, continuavano a chiedere la "fibra più intima" della sua anima. Una forza misteriosa spingeva sempre Edmond a lasciare i salotti, a gettarsi nel pieno deba battaglia. II suo principesco riserbo, favorito da segretari e aiutanti, aveva sempre la peggio di fronte ab'energia tipica deba sua Famiglia, a quell'impulso a conquistare definitivamente ciò che si è appena, per caso, toccato.

Prima che passasse molto tempo Edmond si trovò a intervenire presso il governo turco, che allora controllava la Palestina, in favore dei coloni ebrei; si impegnò in segreti maneggi diplomatici, e alla fine venne coinvolto nelle lotte intestine fra coloni. Il donatore che avrebbe voluto mantenere le distanze si trasformò in un padre querulo e affet-tuoso e infine in un devoto tiranno familiare.

Quando una deputazione di sionisti russi si recò da lui per parlar-gli deba necessità di riforme in alcune sue colonie, egli si imporporò come Davide mortificato dal tradimento di Assalonne : « Queste sono le mie colonie, e ne faccio quel che mi pare! ». I suoi amici del Jockey Club non avrebbero riconosciuto Monsieur le Baron.

Era uno spettacolo da incutere timore, questo miscuglio d'ira pa-terna e di prepotenza Rothschild. Spesso Edmond minacciava di riti-rare i suoi immensi sussidi e così di far appassire in un sol colpo tutta la Palestina ebraica. Quanto sul serio prendesse le sue minacce, si vide

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più tardi, quando altri Rothschild cominciarono a dimostrare un certo interesse per la Palestina.

« Come! » disse furibondo a Weizmann. « Dopo che ho speso nel progetto decine di milioni, arrivano loro e con qualche misero centi-naio di migliaia di franchi vorrebbero condividere la gloria! Quando avete bisogno di denaro, dovete venire da me\ »

L'intensità del suo interesse toccò le vette insieme del commovente e del tragicomico nel 1889, un cosiddetto Anno Sabbatico. La legge or-todossa ebraica, basata su certi passaggi del Levitico e del Deuterono-mio, proibisce la coltivazione delle terre ebraiche un anno su sette. Edmond pensava che un così lungo periodo d'inattività avrebbe rovi-nato la maggior parte delle giovani colonie; fece le sue rimostranze ai rabbini di Gerusalemme, che in risposta gli fecero, con non meno vi-gore, le loro. Edmond si lasciò andare a uno scoppio d'ira paterna ebraica, la peggior ira paterna che si possa dare. Trascurò le corse, le attività bancarie, la raccolta d'arte, tutti i suoi svaghi da gran signore; per combattere un fanatismo, dovette darsi corpo morto a un altro.

Per mesi si dedicò a rabbiose manovre diplomatiche, convocando una serie di conferenze segrete cui parteciparono rabbini che condivi-devano la sua posizione. Venne deciso che le terre dovevano essere la-vorate per tutto l'Anno Sabbatico, ma senza violare la tradizione orto-dossa. I consulenti di Edmond escogitarono un metodo per avere botte piena e moglie ubriaca: tutte le terre ebraiche in Palestina sarebbero state vendute, per un anno soltanto, a gente d'altra fede. Agli occhi di Dio i coloni avrebbero così lavorato per non ebrei - il che era permes-so - e non per se stessi.

I rabbini di Gerusalemme insorsero contro quella che pareva loro una frode blasfema a danno dell'Eterno : minacciarono di scomunicare chiunque fosse stato sorpreso intento al lavoro; promisero di raccoglie-re denaro per mantenere tutti coloro che si fossero astenuti dall'attività.

Ma avevano a che fare con un Rothschild. Con un'epistola elo-quente, Edmond interpellò sub'argomento il rabbino Isaac Elchanan di Kovno, in Lituania, famoso in tutto il mondo come la massima autorità su questioni teologiche ebraiche. Dopo molte blandizie da parte del barone, e profonde meditazioni da parte del grande teolo-go, reb Elchanan emise il verdetto: sì, con le garanzie proposte dai rabbini di Edmond la terra di Sion poteva essere coltivata durante l'Anno Sabbatico.

Così Edmond aveva riportato un'altra vittoria; ma 1' "intima fibra"

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della sua anima era tutt'un dolore. L'uomo che per primo l'aveva resa sensibile, reb Mohilever, non era intervenuto neba polemica a favore del partito Rothschild.

Di questo periodo, è giunto fino a noi un documento molto in-teressante. È una lettera scritta da Edmond al gran rabbino di Fran-cia, ma destinata ad essere letta da reb Mohilever. Il barone, troppo offeso per rivolgersi direttamente a quest'ultimo, chiedeva al gran rabbino di comunicare il contenuto deba lettera a colui ch'era il vero oggetto dei suoi sentimenti. L'indignazione di Edmond era tanto grande ch'egli si astenne addirittura dall'usare il francese: volle rim-proverare Mohilever nel suo stesso idioma. Così quest'esplosione di furore è sfuggita abe cure dei segretari che normalmente si occupa-vano della corrispondenza del barone. Vergata da Edmond in persona, è scritta in un gergo da Judengasse, una sorta di maldestro yiddish che riesce assai più patetico del primitivo tedesco usato una volta dal nonno di Edmond; col suo cattivo tedesco il vecchio Mayer Amschel, l'abitante del ghetto, perseguiva un successo che raggiunse poi in pieno, mentre col suo yiddish da principiante il nipote cercava di giungere a un'identificazione con la sua gente che gli sarebbe sempre sfuggita. La missiva, faticosamente scarabocchiata in caratteri ebraici, è un'esplosione d'amore deluso e di furore, e si conclude con una querula minaccia: «...Herr Oberrabiner, sa che cosa penso? Le dirò la verità... Questi coloni vogliono avere da me le terre e le case, e poi farsi beffe di me... Dica al rabbino Mohilever che gli rimanderò indietro i coloni... e le loro famiglie, e vedremo abora che ne farà. E oltre abe spese di viaggio non darò loro un centesimo ».

Inutile dire che la minaccia non fu mai attuata. Reb Mohilever potè dimostrare in modo conclusivo di aver lavorato sott'acqua per Edmond contro i rabbini ostili; anzi, proprio lui aveva convinto il superteologo ad emettere un verdetto favorevole. Edmond e Mohile-ver tornarono alla bizzarra amicizia d'un tempo. I coloni lavorarono per tutto l'Anno Sabbatico e, nonostante qualche salturaria ribellione, finirono per considerare Edmond il loro protettore-re. Il suo nome si fuse con la designazione "Nodèv ha-yedua' " con cui la prima volta aveva dato denaro per la causa: alla fine del diciannovesimo secolo la Palestina ebraica lo conosceva col nome di barone Rothschild « un certo benefattore».

Questa particolare ferita risanò. Ma c'era un altro problema pale-stinese a cui Edmond non riuscì mai a trovare una soluzione defini-

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tiva. I Rothschild, in tutte le loro ramificazioni, non vollero mai dare la loro adesione al sionismo; secondo la politica ufficiale della Fami-glia, loro e i loro correligionari erano cittadini europei di fede ebrai-ca, e dovevano astenersi da tutto ciò che avrebbe potuto compromet-tere la causa dell'emancipazione. La maggior parte dei membri della mishpahà guardavano alla mania palestinese di Edmond, nel migliore dei casi, con stupore.

Theodor Herzl, fondatore politico del movimento sionista, credet-te di vedere uno spiraglio. Considerava la Famiglia « la forza più effi-cace che il nostro popolo abbia posseduto dalla dispersione in poi » ; se solo quella forza avesse voluto mettersi al servigio dei suoi fini! Albert von Rothschild, capo della casa di Vienna, la città dove Herzl aveva avuto i natali, non s'era neppur degnato di rispondere alla ri-chiesta di un incontro; ma forse quel Rothschild di Parigi, quel ba-rone che stravedeva per la Palestina...

Herzl ricorse a ogni mezzo per ottenere un appuntamento, ma Edmond si rifiutò di riceverlo; le sue attività in Palestina erano pura-mente filantropiche, non avevano nulla a che fare con una politica nazionalistica. Allora Herzl, in una lettera al gran rabbino di Francia, dichiarò che avrebbe rinunciato al suo posto di capo del sionismo in favore del barone nel momento in cui questi avesse aderito al movi-mento. Edmond acconsenti a un incontro, che si svolse il 18 luglio 1896 e non approdò a nulla; agli occhi del barone la Palestina era un rifugio per i confratelli oppressi, punto e basta.

Un successivo incontro fra Herzl, lord Rothschild e i suoi fratelli non ebbe esito più felice. Natty, Leo e Alfred concepirono una gran-de simpatia per Herzl come uomo (contribuirono anche a mantenere la famiglia dopo la sua morte) ma erano sordi alla maggior parte delle sue idee. « Come si fa a negoziare con una simile collezione di idioti! » esclamava Herzl nel suo diario.

Anzi, New Court varò la League of British Jews, violentemente antisionista. Nulla può dunque apparire più strano della lettera se-guente, firmata dal ministro degli esteri britannico e divenuta famosa come la Balfour Declaration.

Foreign Office, 2 novembre 1917 Caro Lord Rothschild, ho il grande piacere di comunicarle, in nome del governo di Sua Maestà, il testo della seguente dichiarazione di simpatia per le aspi-

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inBLi.-aMn.-iia

razioni del sionismo mondiale, che è stata sottoposta al giudizio del Gabinetto e da esso approvata: « Il governo di Sua Maestà guarda con favore alla creazione in Pale-stina di una patria per il popolo ebraico e farà del suo meglio per fa-cilitare il raggiungimento di questo scopo; rimane chiaramente inteso che non si farà nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, né i diritti e la posizione politica di cui godono gli ebrei negli altri stati del mondo ». Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della Federazione Sionista.

Sinceramente Suo ARTHUR JAMES BALFOUR

La lettera sembrerà meno strana quando sia detto che il lord Roth-schild destinatario della missiva non era più Natty ma il suo erede Lionel Walter, che la Famiglia giudicava un pericoloso individualista a causa del suo indulgere al sogno nazionalista di Herzl. Tuttavia, egli non può vantare al suo attivo neppure un decimo di quanto fece, per la realizzazione di Israele, Edmond che ufficialmente aveva sempre negato la sua adesione al sionismo. Chiari dunque la stranezza storica della Balfour Declaration e il paradosso della posizione di Edmond.

Nelle sue memorie Cha'xm Weizmann, primo presidente d'Israele, riporta un'osservazione fatta una volta da Nodèv ha-yedua' : « Senza di me il sionismo sarebbe fallito, ma senza il sionismo la mia opera sa-rebbe stata distrutta ». In questa frase pregnante sono implicite sia la distinzione fra 1' "opera" di Edmond e il sionismo, sia il cruciale rap-porto fra Edmond e una causa che egli non seppe mai indursi ad ab-bracciare ufficialmente. (A Edmond si attribuisce la battuta che defini-sce un sionista come un ebreo americano che dà del denaro ebraico-inglese per portare in Palestina un ebreo polacco.) Egli considerava la Palestina ebraica non come uno stato ma come la sua Famiglia, turbo-lenta e tuttavia appassionatamente amata, che aveva il dovere di con-traccambiare l'amore di lui, suo padre. Ma il sionismo? Le mete nazio-nali, la propaganda, l'apparato ufficiale di un'organizzazione politica, tutte queste cose lo sgomentavano. Non c'era lui, Edmond de Roth-schild, a prendersi cura di tutto, privatamente e benignamente?

« Che bisogno c'è che voialtri andiate in giro a far discorsi e ri-chiamare l'attenzione? » chiese una volta a Menacem Ussiskin, un lea-der sionista russo.

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« Barone Edmond, » rispose l'altro « ci dia le chiavi delle sue cas-seforti, e promettiamo di non far più neanche un discorso. »

In realtà i sionisti ebbero tutt'e due le cose: continuarono a fare discorsi, e ottennero le chiavi delle casseforti del barone, o per lo meno d'una delle più grosse. Per tutta la sua lunga vita egli continuò a pro-fondere denaro.

Nel 1931, in piena depressione, il sionismo si trovò senza fondi. Weizmann venne mandato in missione presso il barone, ma aveva appena raggiunto Parigi che l'influenza lo costrinse a letto. Il più osti-nato oratore sionista era disteso sul dorso quando, in mezzo a una con-fusione di fattorini e concierges che avevano perso la testa, l'ottanta-seienne barone entrò nella stanza. Aveva in mano un assegno per qua-rantamila sterline.

« Questo dovrebbe aiutare a mandarle giù la temperatura » bronto-lò; mise il pezzo di carta in mano a Weizmann e usci.

Mai un obiettore ideologico fu più generoso nei confronti della causa a cui rifiutava la sua adesione. Sotto il tocco della mano di Ed-mond, la Palestina fiorì in centinaia di luoghi. Il suo denaro contribuì ad avviare in Terra Santa nuove colture : dei mandorli, delle more, del gelsomino, della menta, del tabacco. Non solo egli insistette perché ve-nisse introdotta la viticoltura, ma ne garantì la sopravvivenza com-prando tutto il raccolto d'uva di tutte le colonie ebraiche un anno dopo l'altro, e a un prezzo molto più alto di quello di mercato.

Diede anche il primo avvio allo sviluppo industriale di Israele fu-tura; i suoi sussidi facilitarono la formazione della Palestine Electric Corporation Ltd., della Portland Cement Company "Nesher Ltd.", del-la Palestine Salt Company e della Samarita Water Company.

E ancora non basta. Egli si preoccupò della posizione strategica del-le colonie che comprava, ed ebbe cura che formassero un gruppo com-patto attraverso la Giudea, la Samaria e la Galilea, affinché nel momen-to del bisogno si potessero trasformare in una linea difensiva. Il mo-mento del bisogno sarebbe venuto di lì a quarantanni.

A un certo punto, Weizmann si domandò come mai Edmond spen-desse così enormi somme di denaro per scavare ed esplorare il monte Sion. Il barone dichiarò che gli interessava trovare l'Arca del Patto.

« Gli chiesi in tutta serietà » riferisce Weizmann « che cosa spe-rasse di farne. "Les jouilles," rispose "je m'en fiche: dest la poss ession." Degli scavi non gliene importava niente; quel che gli interessava era il possesso. »

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Gli arabi possono considerarsi fortunati che ci siano stati pochi non-sionisti come lui.

Dopo il denaro di Edmond, venne Edmond in persona : il barone e la baronessa - forse i più ricchi ed eleganti pellegrini che la Terra San-ta abbia mai visto - cominciarono a visitare periodicamente la Palesti-na, viaggiando sul loro yacht privato che levava l'ancora a Marsiglia e attraccava a Giaffa.

Nodèv ha-yedua' calcò per la prima volta il suolo di Sion il 5 mag-gio 1887; quel giorno segnò, per usare la frase d'un osservatore, « lo storico incontro fra un principe e il suo popolo ». Seguito da una folla immensa, Edmond pregò al Muro del Pianto e - dopo tutto era un Rothschild - quasi subito avviò negoziati per farselo vendere dagli arabi. Non solo; avrebbe voluto acquistare anche i terreni vicini, per costruirvi un grande tempio ebraico. Per far tacere le obiezioni dei musulmani, avanzò un'altra proposta : avrebbe acquistato un altro trat-to di terra di proporzioni equivalenti, e vi avrebbe costruito alloggi molto più confortevoli di quelli posseduti ora dagli arabi che abitava-no vicino al Muro, e che si sarebbero dovuti espropriare.

Edmond stanziò per questo tre quarti di milione di franchi; il pa-scià di Gerusalemme aveva già dato la sua approvazione, ma poi il progetto morì misteriosamente per l'opposizione del gran rabbino di Gerusalemme.

Tuttavia questa ed altre successive visite del barone furono indi-menticabili. La sua cravatta di velluto fu vista dappertutto: in ospedali, scuole, fattorie, installazioni industriali, officine. Naturalmente Edmond mostrò un interesse da conoscitore per le cose che gli erano familiari: le cantine, per esempio, o le fabbriche di profumi, o l'abilità dei giovani coloni che si dedicavano all'equitazione. (Oggi suo nipote, l'attuale ba-rone Edmond, e l'attuale lord Rothschild del ramo inglese, continuano ad amministrare i grandi interessi della Famiglia in Israele. E conti-nuano anche la tradizione di coltivare hobby da gran signore: il loro, è la trasformazione di Cesarea in un elegante luogo di ritrovo per gio-catori di golf.)

Per quanto occupato, Edmond non dimenticava 1' "intima fibra" della sua anima. Una volta, a Tel Aviv, affermò pubblicamente, e ama-ramente : « Non ho mai rimpianto come ora di non saper parlare ebraico ».

Un'altra volta - pareva che gli occhi di reb Mohilever, ormai mor-to, non volessero staccarglisi di dosso - affermò la sua convinzione che

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« se voi abbandonate il giudaismo, tutto il nostro popolo andrà incon-tro al naufragio... perché voi siete l'orgoglio e la speranza del popolo ebreo ». 1

Due giorni dopo questo discorso i dirigenti della colonia furono invitati a cena sullo yacht dei Rothschild. Vi trovarono grandi mera-viglie : la nave aveva una cucina fornita di tutto il necessario per cuci-nare khashèr, e un Escoffier khashèr che creava piatti certo non infe-riori a quelli che Salomone dovette servire a Sheba; la cabina tappez-zata di satin che veniva usata come stanza da preghiera si trovava nella parte più stabile della nave, e a tutte le porte di tutti i sontuosi saloni erano appese mezzuzà.

Si racconta che uno degli anziani della colonia, affascinato da tutto ciò che vedeva, continuò a girare per i ponti e rischiò di perdere la lancia che doveva riportarlo a terra insieme ai compagni.

« Non vuoi tornare a Sion? » lo punzecchiò uno di loro. « Tu torna alla Terra Promessa, » rispose « io rimango sullo Yacht

Promesso. »

I ROTHSCHILD ALLA CORTE DEGLI ABSBURGO

In Austria i nipoti di Salomon, entrati ormai nella maggiore età, contribuirono a rischiarare le ombre di quella che era la sera dell'im-pero absburgico. Di questa generazione fin de siècle conosciamo già Ferdinand, l'austriaco anglicizzato, signore del maniero di Waddesdon e membro del gruppo di Marlborough House. I due fratelli di Ferdy amministravano le fortune della Famiglia sulle rive del Danubio. En-trambi riempirono Vienna delle loro filantropie, fondando, tra l'altro, un ospedale, un orfanotrofio, un istituto per ciechi, uno per sordomuti, una clinica e ospedale neurologici, un orto botanico.

Entrambi costruirono palazzi degni del loro nome. Albert, il più giovane (scelto dal padre a succedergli nella banca), fece sorgere sulla Prinz Eugenstrasse un'enorme dimora Luigi XVI. L"'Albert Memorial" (come lo battezzarono alcuni membri della famiglia inglese) trabocca-va di splendori; ricorderemo solo la sala da pranzo d'argento e la sala da ballo d'oro, con i loro epici candelieri capaci di reggere più di cin-quecento candele ciascuno.

Quanto al palazzo di Nathaniel nella Theresianumgasse, racchiude-

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va tesori che andavano dai dipinti di Van Loo commissionati da Mada-me de Pompadour a una tavola di porfido appartenuta a Maria Anto-nietta, e conteneva una collezione di pezzi rari Luigi XIV, XV e XVI ancora più ricca di quelle possedute dal clan in altre parti del mondo. Quando l'edificio fu demolito, dopo la seconda guerra mondiale, i due principali musei d'arte viennesi dovettero cambiare da capo a fondo la sistemazione delle loro raccolte per poter assorbire le massicce dona-zioni della baronessa Clarice.

La cura di tanti e così preziosi beni richiedeva reggimenti di servi. In mezzo al personale innumerevole delle varie case Rothschild c'erano i detentori delle cariche ereditarie di lustratore d'argento e lustratore del marmo; questi funzionari spendevano la vita a carezzare le posate-rie e strofinare le statue di casa, e gelosamente trasmettevano il privi-legio ai figli.

Il barone Albert amava anche l'esercizio fisico, e di tipo piuttosto faticoso : fanatico della montagna, fu il settimo a dare la scalata al Cer-vino. Né lui né suo fratello trascurarono i piaceri bucolici dell'aristo-cratico; a Schloss Langau, a Enzesfeld, e particolarmente ai castelli di Schillersdorf e Beneschau, si svolgevano le grandi cacce Rothschild. Qui, i membri più poveri dell'alta nobiltà arrivavano a volte con vali-gie piene di biancheria sporca. Due buoni motivi spiegano la strana abitudine: primo, la biancheria sporca accresceva il volume e il peso del bagaglio, portandolo in linea con quello degli altri ospiti; secondo, i panni sudici, tolti dalle valigie, potevano essere lasciati in giro con noncuranza per la camera, come se fossero stati appena usati. Le ca-meriere li raccoglievano automaticamente e li portavano alla lavande-ria, forte di 130 uomini che lavavano migliaia di indumenti senza fare una sola domanda. Col tempo, purtroppo, il barone Albert pose fine all'usanza e ne inaugurò un'altra: quella di far mettere, alla partenza, scatole di sapone scuro nelle valigie degli amici che ripartivano con i panni non lavati.

A Vienna, il maggiore evento mondano della primavera erano le gare ippiche della prima domenica di giugno (qui, come al Derby d'Inghilterra, la mishpahà vinse tre volte) e il punto culminante della giornata il tè offerto dai Rothschild dopo le corse. Ma il più bello spet-tacolo cui ai viennesi fosse dato di assistere era la processione della Famiglia lungo la Hauptallee, il lungo viale fiancheggiato d'alberi che congiunge la città all'ippodromo. Nel corteo figurava un prodigio mec-canico: l'automobile elettrica dei Rothschild, verniciata dei colori della

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Famiglia, che scivolava silenziosamente lungo il viale. In tutto l'impe-ro austro-ungarico non esisteva l'eguale. Ma sulla Hauptallee doveva regolarmente subire un sanguinoso insulto : Frank, uno dei più famosi fiaccherai della città, la superava, e giovani Rothschild si sporgevano dalla carrozza che filava al galoppo, lanciando grida di beffa contro il lento mostro galvanico.

Frank merita qualche parola di presentazione. Era il segno vivente della ricchezza senza fondo, il tocco finale a un tenore di vita da na-babbi. L'altro immortale fiaccheraio deba vecchia Vienna, Bratfisch, lavorava al servizio del principe deba corona, Rudolf. Sia gli Absburgo sia i Rothschbd possedevano flotte di veicoli di loro proprietà, ma in aggiunta a quelle prendevano al loro servizio una carrozza pubblica, per loro uso esclusivo e per tutta la stagione. Il principe della corona teneva al suo servizio Bratfisch per avere un cocchiere sempre pronto a portarlo ad appuntamenti galanti ch'era meglio nascondere al per-sonale di casa1. La mishpahà, con una vita sentimentale meno avven-turosa ma altrettanto denaro a disposizione per le spese minute, assu-meva Frank per la velocità a cui sapeva lanciare la carrozza.

Per ciò che riguardava i fiaccherai, e anche sotto altri aspetti, le strade dei Rothschild e degli Absburgo correvano parallele, ma a molti sembrava escluso che si potessero mai incontrare. Che i Rothschild fa-cessero degli affari con un ministro in carica, o anche che invitassero in casa loro un duca, erano cose ancora tollerabili, o quanto meno ine-vitabili. Ma che spezzassero il pane con gli Absburgo, con la più gran-de dinastia imperiale d'Europa... Himmel!

Eppure proprio questo accadde, nel 1887. Queb'anno, con "specia-le atto di grazia", l'imperatore Francesco Giuseppe perdonò ai Roth-schild di non discendere da quattro linee della più alta nobbtà e di non essere battezzati. Essi furono dichiarati Hoffàhig, cioè degni di compa-rire a corte, e ammessi quindi a udienze mattutine, ricevimenti e riu-nioni private, offerti daba famiglia imperiale o onorati daba sua pre-senza. La mishpahà venne così accolta in una cerchia che vantava una continuità e una inaccessibilità neppur paragonabili a quelle debe corti deba regina Vittoria o del kaiser prussiano.

Francesco Giuseppe trattò sempre con educata cortesia - nulla più, nulla meno - le persone che aveva nominate suoi amici. La Famiglia non celebrò un funerale né uno sposalizio senza che sua maestà invias-

1 Fu Bratfisch a scoprire i cadaveri di Rudolf e della sua amante, suicidi a Mayerling.

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se un telegramma personale di condoglianze o di auguri. A un ricevi-mento Rothschild l'imperatore prestò il suo balletto dell'Opera di corte, a cui permise di danzare nei giardini illuminati a torce della Theresia-numgasse; non era un favore da poco. Ma le conversazioni private tra il sovrano e i Rothschild raramente si spinsero più in là di qualche os-servazione sul tempo o su comuni problemi di salute.

Una storia, forse apocrifa, suggerisce una spiegazione di questo at-teggiamento. Una volta che sua maestà s'era trattenuta a conversare col barone Albert più a lungo del solito, nel gran mondo si diffuse im-mediatamente la voce che la casa reale aveva bisogno d'un nuovo pre-stito. Forse sua maestà pensava che intimità del genere riuscivano troppo dannose al credito degli Absburgo.

Sua moglie Elisabetta, la più strana, più deliziosa, più intellettuale imperatrice che l'Austria abbia mai posseduto, non doveva tener conto di considerazioni del genere. Aveva molta simpatia per le donne della Famiglia, con i loro svariati interessi estetici, e un'intima amicizia nac-que fra lei e la sorella di Albert, Julie, un personaggio tipico della mishpahà fin de siècle. Nata nella famiglia austriaca, sposata in quella di Napoli (era moglie di Adolph von Rothschild), residente a Parigi e spesso ospite del fratello Ferdy in Inghilterra, Julie aveva la sua resi-denza favorita in Svizzera, in una fiabesca villa a Pregny, sulle rive del Lago di Ginevra. Julie e la sua villa sono legati al ricordo di uno degli eventi più tristi nella storia di Casa d'Absburgo.

Il 9 settembre 1898 l'imperatrice d'Austria si recò in visita al-l'amica. Non giunse né con l'imbarcazione di stato austriaca, né con lo yacht Rothschild che Julie le aveva offerto, ma con un comune bat-tello a vapore. Arrivò, come le era consueto, in stretto incognito (viag-giava sotto il nome di contessa Hohenembs), abbigliata con discrezio-ne, fittamente velata, accompagnata da una sola dama di compagnia.

Come aveva fatto tante altre volte, Julie riuscì a rallegrare la sua nobile ospite. Il pranzo venne preparato con i più delicati riguardi ai principi dietetici delle due signore: Julie mangiava khashèr, mentre Elisabetta era la prima imperatrice che seguiva una dieta scarsa di ca-lorie; aveva infatti zigomi rilevati degni di una modella di Vogue e, nonostante i sessantanni, una circonferenza di vita infinitesimale. L'or-chestra nascosta suonava un'aria italiana. Julie portò la conversazione su Heine, il poeta prediletto dell'ospite, e di lì a poco l'imperatrice propose un brindisi con champagne: una frivolezza rara nei suoi ulti-mi malinconici anni.

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Più tardi le signore passarono nei giardini e nelle serre di Julie, le più belle serre private di tutta la Svizzera, con le piante sistemate a seconda dei vari climi e paesi. In mezzo ai fiori, l'imperatrice diventò anche più gaia, e fu tutta sorrisi sino al momento della partenza. Ma prima di partire firmò l'albo degli ospiti e, ancora allegra, girò qualche pagina all'indietro. D'improvviso s'arrestò, pallida. Aveva visto la fir-ma del principe della corona, Rudolf; anche suo figlio era stato ospite a Pregny, poco prima di uccidersi a Mayerling.

Quando l'imperatrice la lasciò, Julie vide delle lacrime nei suoi oc-chi. E più tardi la dama di compagnia ricordò che durante la traversata di ritorno - anche questa volta su un battello comune - Elisabetta aveva parlato solo della morte. L'argomento era adatto : meno di quindici ore dopo, davanti al suo albergo di Ginevra, l'imperatrice cadde sotto il pugnale d'un anarchico. Aveva trascorso l'ultimo giorno della sua vita in casa di Julie von Rothschild.

Fortunatamente, i rapporti fra la casa regnante e la mishpahà austriaca sono in genere legati a ricordi meno funerei. Altre sorelle di Albert e Ferdy ebbero amici scettrati : Mathilde, per esempio, che ave-va sposato Wilhelm von Rothschild di Napoli. Un giorno l'omonimo di suo marito, Guglielmo II (nipote dell'ammiratore di Ferrières e fu-turo kaiser della seconda guerra mondiale), invitò Mathilde a pranzo. Ciò che accadde in quel pranzo rischiò di far venire l'apoplessia ai ciambellani di corte di Potsdam e inflisse una storica Schrecklichkeit al protocollo prussiano: perché Mathilde non volle toccare neanche un boccone alla tavola di sua maestà. Il kaiser aveva dimenticato di ordi-nare un menù khashèr.

Ultima, ma non meno importante, c'era Alice, la più giovane fra le sorelle di Albert, che sarebbe vissuta fino al 1922. Lei e lord Natty fu-rono, senza dubbio, le più formidabili personalità di Casa Rothschild. Alice non si sposò mai (fenomeno anche più raro tra le femmine che tra i maschi deba Famiglia), forse perché una signora con tanta indi-pendenza di spirito e di mezzi non era adatta al ruolo di moglie; chi poteva essere abbastanza uomo per la donna che diede una risciacquata a Vittoria, regina di Gran Bretagna?

Per introdurre il lettore al racconto di questa memorabile gesta, bi-sognerà dire che Alice aveva ereditato vari beni deba famiglia austria-ca, e tra gli altri Waddesdon Hall che era appartenuto a Ferdy. Ma la pupilla degli occhi suoi era la grande tenuta di Grasse nel sud della Francia. Qui anche lei coltivava fiori rarissimi; ma, in contrasto con

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Alice, passò alla storia della floricoltura come una delle più arcigne proprietarie di giardini che il mondo ricordi.

Dopo avere gustato per la prima volta l'ospitalità dei Rothschild a Waddesdon, Vittoria era diventata un'ospite abituale, spesso addirittu-ra quotidiana di Grasse durante ogni suo soggiorno nel sud della Fran-cia. Queste visite destavano tutte le energie della proprietaria della te-nuta. Le memorie di lady Battersea (nata Rothschild) descrivono a vi-vaci colori la cugina Alice che percorreva « ... miglia, salendo e scen-dendo la collina, dando ordini all'ispettore di polizia, ai cocchieri reali, a capisquadra e operai, con il piglio di Napoleone sul campo di batta-glia. Per fare una sorpresa alla regina ordinò che una strada di monta-gna fosse spianata e allargata in tre giorni; e questo significava costrui-re muretti, togliere di mezzo blocchi di pietra enormi, coprirne di più piccoli con macadam, deviare un torrente... ».

Alice non mancava mai di dare il benvenuto a Vittoria con gentili sorprese come nuovi scorci di giardino. Indusse persino l'augusta ami-ca a gettare fiori sui passanti da una finestra nascosta, e quasi trasformò la venerabile sovrana nella monella ch'era stata tre quarti di secolo in-nanzi. Ma quando il tallone Hannover calpestò un petalo Rothschild, ogni cortesia fu dimenticata. Un atroce momento vide il piede di Vit-toria posarsi su un'aiuola appena seminata.

« Fuori di lì, immediatamente! » gridò la baronessa Rothschild al-la regina d'Inghilterra e imperatrice d'India.

La regina obbedì. Dopo d'allora parlò sempre di Alice, forse metà per scherzo, come dell' "Onnipossente". La loro amicizia sopravvisse a questo, ma sopravvisse anche l'epiteto; 1'"Onnipossente" diventò il nomignolo familiare di Alice.

Ma non era onnipossente tutta la Famiglia? Non era tutta immor-tale? I suoi colori sventolavano sulle torri dei più bei castelli d'Europa. Sembrava impossibile che un giorno dovessero essere ammainati.

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Non più cappelli piumati

LA FINE DI DUE REGNI

Il lettore con il bernoccolo dell'aritmetica avrà forse notato che ne-gli ultimi capitoli abbiamo parlato solo di tre banche Rothschild: quelle di Londra, di Parigi e di Vienna. Ma i cinque capostipiti ave-vano fondato cinque case, il che ci lascia, al principio del ventesimo secolo, con un deficit di due.

La sparizione non fu accompagnata da grandi sommovimenti; anzi, le due branche estinte erano scomparse dalla scena con lo stesso signo-rile savoi faire con cui le altre prosperavano. Nel 1861 le Camicie ros-se di Garibaldi avevano conquistato l'Italia meridionale, e quello ch'era stato il regno delle Due Sicilie divenne parte dell'Italia una. La banca Rothschild a Napoli chiuse gli sportelli perché non c'era più un re na-poletano a cui prestare denaro; Adolph, figlio del fondatore Cari, non se la sentiva di fare affari con personaggi di minor conto, e seguì la famiglia reale in Francia. Fra i due espatriati c'era una netta differenza. A Parigi il re diventò un ex re, ma Rothschild non diventò un ex Rothschild; il suo esilio non fu meno splendido del soggiorno nella città che gli aveva dato i natali. L'imperatrice d'Austria (divenuta ami-ca così intima di sua moglie Julie) fu solo una fra i molti ospiti illustri delle sue varie residenze.

Ma Adolph non aveva figli; suo fratello Wilhelm ne aveva tre, il fratello Mayer sette... e tutte dieci erano - suprema delusione - femmi-ne. In questa successione ininterrotta di figlie sta il motivo per cui alla fine si estinsero il ramo italiano e quello tedesco.

Rigorosamente parlando, la casa di Francoforte era finita con Am-schel, morto senza prole. Dopo la sua scomparsa, i maschi in eccedenza del ramo di Napoli, Wilhelm e Mayer, avevano preso le redini della casa di Francoforte. Ma il fiume Meno, sulle cui rive il patriarca capo-stipite aveva procreato cinque titanici rampolli, portava sfortuna ai nuovi Rothschild: a loro nascevano figlie, solo e sempre figlie! La mancanza di figli maschi era un peso che opprimeva Mayer e Wilhelm

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come aveva oppresso un tempo zio Amschel. Come Amschel, cercaro-no conforto nella rigorosa osservanza della religione ebraica (Wilhelm non stringeva la mano a nessuno senza essersi prima assicurato che quel giorno non avesse toccato carne di porco) e nelle raccolte d'arte (la collezione d'argenti di Mayer e la biblioteca di Willy rappresenta-vano le due più grandi raccolte private di Francoforte). Agli affari, i due prestavano solo un'attenzione meccanica. Perché preoccuparsene più di tanto, quando non c'erano figli maschi che ne continuavano l'attività?

A Berlino, il governo cercò di offrire incentivi; il Reich appena costituito avrebbe voluto beneficiare, come altre grandi potenze euro-pee, di una Casa Rothschild piena d'energia e d'iniziative. Mayer fu nominato membro della Camera Alta tedesca. Bismarck dimenticò i bocconi amari che il capocameriere di Ferrières gli aveva fatto ingoia-re e cercò a parecchie riprese di attirare da altre capitali i figli Roth-schild in sovrabbondanza. Ma la mishpahà era una famiglia difficile da "attirare"; non si può promettere la luna a chi la possiede già. I Roth-schild di Francoforte continuarono a non avere figli maschi; i Roth-schild stranieri continuarono a tenere i loro figli dov'erano, o quanto meno a non mandarli in Germania. Avvenne così l'inevitabile.

Nel 1886 Mayer fu trovato morto, la testa su una colonna di cifre. Nel gennaio 1901 fu seppellito Wilhelm. Tre mesi dopo Edmond (genero di Wilhelm) e Natty (genero di Mayer) diramavano uno sto-rico annuncio a tutti gli amici e conoscenti d'affari della Casa di Francoforte:

È nostro mesto dovere informarvi che, in conseguenza del decesso del barone Wilhelm Karl von Rothschild, la Banca M. A. von Rothschild und Sohne andrà in liquidazione. 1 liquidatori sono: 1 ) il molto On. Nathan Mayer, lord Rothschild, di Londra; 2) il barone Edmond de Rothschild, di Parigi.

A questo epilogo possiamo aggiungere due poscritti. Fino all'av-vento di Hitler, il nome della Famiglia sopravvisse a Francoforte unito ad un altro: Minna, la figlia minore di Wilhelm, sposò il banchiere Maximilian von Goldschmidt e in dote gli portò non solo una fortuna ma anche le dieci magiche lettere : dalle nozze alla morte suo marito fu comunemente noto col nome di Maximilian von Rothschild-Gold-schmidt.

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Il secondo poscritto riguarda un'interessante scenetta nautica. Il diario dell'ambasciatore francese a Berlino attesta che essa accadde sul-l'azzurro Mediterraneo nell'aprile 1908. Due lussuosi panfìli si trovaro-no ancorati insieme nel porto di Palermo; uno era lo Hohenzollern del kaiser, l'altro lo yacht di "un giovane Rothschild francese" (forse Edouard, figlio di Alphonse). La nave imperiale segnalò un invito, e di lì a poco il giovane barone saliva sul ponte dell'imperatore. Sua maestà fece all'ospite un'accoglienza calorosa e quasi immediatamente abbor-dò l'argomento del ritorno dei Rothschild al Vaterland. Lodò la gran-dezza e fecondità della Famiglia; assicurò di non avere pregiudizi raz-ziali né religiosi, dichiarò che non ne avrebbe tollerati alla sua corte, garantì che una rinata casa tedesca avrebbe goduto di una posizione superiore a quelle esistenti in Londra, Parigi o Vienna.

Benché l'incontro fosse piacevole, la cordialità del kaiser non ebbe più effetto di queba di Bismarck. Le Case di Parigi, Londra e Vienna erano troppo occupate ad essere radiosamente se stesse, a godere e ir-radiare gli splendori estremi di un'età che sarebbe morta nel 1914 d'un colpo di pistola.

LA FINE DELL'ETÀ DELL'ORO

Tutti i balli e le soirées non bastarono ad estinguere un fondamen-tale istinto dei Rothschild, quello che Bismarck aveva definito « l'assur-do desiderio di lasciare a ciascuno dei figli (spesso numerosi) ricchezze equivalenti a quebe che loro stessi hanno ricevuto in eredità ».

Gli affari erano affari; e le tre case superstiti continuarono a dedi-carvisi. In Inghilterra, la N. M. Rothschild & Sons investì somme enor-mi nebe miniere indiane; finanziò il dominion diamantifero di Cecil Rhodes nel Sud-Africa (un grosso diamante grezzo fa ancora mostra di sé suba mensola del camino neba Sala dei soci di New Court, e la Casa ha ancora rapporti con la de Beers); le sue operazioni bancarie e creditizie abbracciarono buona parte deb'America meridionale. In Francia, la de Rothschild Frères investì denaro nelle industrie elettri-che, sviluppò la Strada Ferrata Mediterranea, si creò interessi nel Nord-Africa ed esercitò un tale controllo sui campi petroliferi di Baku in Russia che la Famiglia francese fu per parecchi anni una temibile con-corrente del trust Rockefeber. In Austria, la Rothschild und Sohne al-

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largò il raggio delle sue operazioni all'Ungheria con il famoso prestito al 6 per cento del 1881; la Creditanstalt, nata come arma nella lotta contro il Crédit Mobilier, si trasformò in una specie di gigantesca sus-sidiaria della banca della Famiglia e diventò una potenza finanziaria il cui dominio si estendeva fino agli angoli più remoti dell'impero ab-sburgico.

Così la mishpahà mantenne in buona parte le sue tradizioni di car-tello finanziario internazionale. Continuò anche, e con scrupolo assai maggiore, un'altra fondamentale tradizione. Prendiamo per esempio il testamento di Anselm, scritto nel 1874 da un gran signore viennese, raffinato e cosmopolita : le sue istruzioni, i sentimenti che lo ispirano, sono ancora l'eco fedele del testamento del primo patriarca, composto in una casa del ghetto quasi tre quarti di secolo innanzi. Scriveva An-selm:

Chiedo ai miei cari figli di vivere sempre in perfetta armonia, di non lasciare che i legami familiari si allentino, di evitare tutte le dispute, le liti, le azioni legali; di esercitare pazienza e tolleranza reciproca, di non lasciarsi trascinare dalla passione e dall'ira;... seguano l'esempio dei loro splendidi antenati; perché queste qualità hanno sempre assi-curato felicità e prosperità a tutta la famiglia Rothschild, e possano i miei cari figli non diventare mai insensibili a questo spirito della Fa-miglia. In accordo con le esortazioni di mio padre, il nonno che tanto sinceramente li ha amati... possano, loro e i loro discendenti, rimanere sempre fedeli alla... religione ebraica.

Segue poi quello che è il ritornello di tanti testamenti Rothschild, dal primo, vergato nella Judengasse di Francoforte, in poi :

Proibisco esplicitamente ai miei figli, in qualsiasi circostanza, di far compilare dai tribunali o da qualunque altra autorità un inventario dei miei beni... Proibisco inoltre ogni altra azione legale, è ogni comunica-zione pubblica del valore dell'eredità... Disobbedire a queste prescrizio-ni o intentare azioni incompatibili con esse equivarrà a impugnare il mio testamento; chi lo faccia dovrà subire le penalità previste.

A Londra, Natty resuscitò una tradizione che suo padre aveva la-sciato cadere: tornò come il nonno ad appostarsi presso la "colonna Rothschild" al palazzo della Borsa. Ma era solo un rito familiare.

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Non che i Rothschild avessero cessato di essere lo spettro delle Borse d'Europa. Adesso, la Famiglia giocava al rialzo o al ribasso per mezzo di messaggeri o telegrammi; ma il suo nome non aveva perso nulla dell'autorevolezza d'un tempo. Nel 1873 titoli emessi a imitazio-ne della Creditanstalt gettarono lo scompiglio nella Borsa di Vienna; la loro quotazione sulle prime salì vertiginosamente, poi cadde con preoccupante rapidità. Finalmente comparve nella sala delle contrat-tazioni un agente dei Rothschild. Un agente di cambio, ansioso di ven-dere, puntò immediatamente su di lui e gli chiese se voleva comprare titoli bancari per un totale di mezzo milione.

« Mezzo milione! » esclamò l'emissario dei Rothschild a voce piut-tosto alta. « Oggi tutte le vostre banche insieme non valgono tanto! »

Questa sola frase, convalidata dall'autorità della Famiglia per cui lavorava, fece crollare i prezzi e fallire una dozzina di pseudo-banche, e contribuì a far precipitare la crisi del 1873.

Ma il nome sapeva incantare non meno che terrorizzare. Nel 1889 la Banca di Londra offerse per pubblica sottoscrizione titoli relativi alle sue operazioni per lo sfruttamento di miniere di rubini in Birmania. Il giorno successivo a quello dell'annuncio la carrozza di lord Natty non potè entrare in St. Swithin's Lane: la strada, piuttosto stretta, che conduce a New Court, era gremita di gente da muro a muro e da un'estremità all'altra. Era la prima volta che la banca offriva azioni di un'impresa mineraria, e i londinesi erano accorsi da tutti i punti della città a investire i loro risparmi in questo progetto Rothschild.

Il cocchiere e il servitore di Natty fecero da prua attraverso questa marea; sua signoria li seguiva imprecando fra i denti. Quando i tre ar-rivarono davanti all'edificio della banca, la situazione diventò anche peggiore: la ressa bloccava tutte le entrate. Finalmente una scala a pioli venne abbassata dal primo piano, e lord Rothschild - con cilin-dro, barba, catena, giacca a coda, garofano all'occhiello e tutto il resto -si arrampicò su per il muro ed entrò dalla finestra come un ladro not-turno.

La poca simpatia di Natty per le scale a pioli lo trattenne da altre pubbliche offerte di azioni. I Rothschild erano (e sono ancora) grandi operatori individualisti, che preferiscono, semmai, fare affari con gente del loro livello. Di regola i re non bloccano St. Swithin's Lane, e la mishpahà ha sempre preferito un solo monarca a mille droghieri. (Il più simpatico cliente nella storia della Famiglia rimane Leopoldo I del Belgio. Nel 1848 egli affidò alla Casa francese un gruzzolo di cinque

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milioni di franchi; quando mori, nel 1865, i Rothschild, grazie ad av-veduti investimenti, glielo avevano quadruplicato.)

Ahimè, il diciannovesimo secolo si scolori, ingrigì, e diventò il ventesimo. Il numero dei re diminuì, e quello dei droghieri si molti-plicò. Su questa clientela sempre più importante prosperarono le ban-che per azioni. La Famiglia controllava almeno un'istituzione buona per questo nuovo tipo di pubblico, la Creditanstalt; ma i bottegai con-tinuavano ad essere una clientela troppo poco stimolante.

Così, gradualmente, e nel pieno delle forze, la Famiglia si ritirò dal gioco. Dopotutto, i Rothschild potevano ormai permettersi tutto quel-lo che un Rothschild può volere; le loro ricchezze crescevano automa-ticamente, anche mentre loro dormivano o ballavano o si lasciavano sfuggire debe occasioni. Erano stanchi di correre rischi. Poco dopo l'ascensione a New Court, Natty confessava la sua "filosofia" degli affa-ri di qualsiasi genere : « Quando dico di no a tutti i progetti e le pro-poste che mi sottopongono, la sera torno a casa contento e senza pen-sieri ».

In un'altra occasione un duca di casa reale gli chiese se c'era un si-stema per fare quattrini in Borsa. « Certo » rispose Natty. « Vendere troppo presto. »

A Vienna, Albert amava ripetere il detto del nonno, il capostipite Salomon : « Uno deve andare in Borsa come sotto una doccia fredda : dentro alla svelta e aba svelta fuori ».

Evidentemente le docce, ultimamente, erano diventate molto più fredde d'un tempo. La generazione successiva diede segno di non vo-lersi bagnare neanche i piedi; i suoi membri avevano altri interessi, per esempio gli animali. Il figlio maggiore di lord Natty, Lionel Wal-ter, fondò il grande museo zoologico di Tring neba tenuta che porta lo stesso nome. Col tempo il museo finì per contenere - imbalsamati, esposti ed etichettati in modo esemplare - più di duecentocinquanta-mila uccelli e oltre due milioni di insetti, compresi esemplari che non si trovano in altre collezioni. Walter, studioso di storia naturale di pri-m'ordine, laureato a Cambridge, finanziò numerose spedizioni e pub-blicò parecchi saggi scientifici e un autorevole periodico, Novitates

'Zoologicae. Particolarmente famosa la cobezione di pulci, che incuriosì non so-

lo gli scienziati. Un buontempone affermava che gli esemplari più pre-ziosi erano costati al proprietario diecimila sterline, ma un'indagine più attenta aveva rivelato ch'erano fuggiti daba banca deba Famiglia.

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Un altro episodio, di più sicura autenticità, dimostrò con increscio-sa chiarezza l'incompatibilità esistente fra l'entomologia e gli affari. Walter, naturalmente, aveva degli obblighi di lavoro; ma b museo co-minciò ad assorbire in misura crescente le sue energie, il suo tempo, e infine il suo denaro. L'assegno che il padre gli passava era generoso co-me si conveniva a un Rothschild, ma non bastava a coprire le spese per l'imbalsamazione di centinaia di migliaia di animali. Walter si provò a speculare in Borsa, ma non sapeva vendere troppo presto, e il denaro si volatbizzò. A questo punto riuscì a escogitare un solo mezzo per uscire dai guai : prendere a prestito una grossa somma e garantirla con polizza d'assicurazione sulla vita di 200.000 sterline e segretamen-te emessa, è naturale, su suo padre. Disgraziatamente per lui, il fervo-re scientifico gli fece dimenticare la circospezione commerciale. Non pensò che le compagnie d'assicurazione spesso dividono i rischi più grossi con altre società. In questo caso, disgrazia volle che l'altra socie-tà fosse l'Abiance Insurance Corporation, fondata da N. M. Rothschild, con lord Rothschild aba presidenza del consiglio di amministrazione.

Un giorno milord guardò gli ultimi rapporti deba società, e sco-perse la munifica assicurazione sulla sua vita contratta da suo figlio. Da quel momento in poi Walter fu esentato da ogni ulteriore appari-zione a New Court. Tuttavia la Famiglia ebbe col tempo motivo di andare orgogliosa deba riuscita di Walter; infatti fu il primo fra i nu-merosi Rothschild che si distinsero in campo culturale.

Altri membri deba sua generazione fecero invece una fine tragica. Il fratello di Walter, Nathaniel Charles, morì suicida, come il cugino viennese Oscar; il fratello di questi, Georg Anselm, passò gli ultimi anni deba sua vita in un manicomio. I rivali deba Famiglia si chiede-vano se la fibra deba mishpahà si stesse indebolendo. Alcuni pensavano che Rothschild, il leone d'un tempo, si fosse trasformato in un sonnac-chioso decadente; cominciarono a prendersi debe libertà... e rincularo-no, feriti. Il vecchio leone sapeva ancora spiccare il balzo dai suoi cuscini, e menare zampate micidiali con la competenza di sempre.

In Francia un ex deputato di destra, di nome Bontoux, fu il primo a riscoprire gli unghioni deba Famiglia. Nel 1876 fondava l'Union Générale, un'abile combinazione di banca e di crociata antisemitica. L'atto di fondazione annunciava il proposito di « trasformare in un'im-portante leva il capitale dei Cattolici... ». Non era tempo di porre fine al sistema finanziario repubblicano che aveva arricchito solo gli ebrei? Tutti i facoltosi cristiani che detestavano la ricchissima colonia ebraica

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furono attratti dall'idea; tutti gli elementi reazionari diedero a Bon-toux ciò che chiedeva. Ben presto i suoi appelli al pregiudizio gli ave-vano reso quattro milioni: un capitale iniziale sufficiente. L'Union Générale si alleò alla potente Banque de Lyons et de la Loire, emise azioni che presto salirono da quota 500 a quota 2000 e poi ancora più su, e senza perdere tempo allargò all'Austria il teatro della guerra san-ta contro i Rothschild.

Qui Bontoux strinse alleanza con la Lànderbank, rivale della Cre-ditanstalt. E qui lo attendeva una sorte non meno infausta di quella d'un suo predecessore, Pereire. Come con Pereire, la Famiglia non reagì, lasciò fare per mesi, addirittura per anni; con sguardo truce, os-servò Bontoux allargare il fronte più di quanto le forze gli consen-tissero.

Poi, nel 1881, tutte le banche Rothschild passarono alla controf-fensiva con il sistema consueto, di immancabile efficacia: comprarono senza dar nell'occhio, a grandi intervalli di tempo e di spazio, pacchet-ti d'azioni nemiche, poi le gettarono sul mercato tutte in una volta. La prima zampata fece crollare la Banque de Lyons. Bontoux gridò, chiese mercé, invocò l'aiuto e il denaro di tutti i cattolici contro l'ebreo; invano. Dal 5 al 20 gennaio 1882 le azioni dell'Union Générale cadde-ro da quota 3-050 a 950. Nella cosiddetta domenica nera della Borsa di Vienna, Bontoux e la maggior parte delle banche sue alleate furono spazzati via.

Al panico che seguì, e che si diffuse in tutte le Borse d'Europa, po-teva porre fine solo la stessa potenza che l'aveva provocato: Roth-schild. E Rothschild fu il primo a ricomprare. Bontoux perì, ma la Famiglia e la Cristianità sopravvissero insieme.

Otto anni dopo lo spettacolo si ripetè, con qualche modifica, nelle isole britanniche. Questa volta il nemico non era un qualsiasi Bontoux, ma la House of Baring, la più antica e - subito dopo queba deba Fami-glia - più potente banca di Londra. Da molto tempo lord Revelstoke, capo deba ditta, desiderava dare il fatto loro a quei nuovi arricchiti.

Il grande boom argentino del 1886 gli sembrò l'occasione buona. Escluse i Rothschild daba cuccagna gettando in campo tutte le riserve deba House of Baring; o piuttosto, gettandole allo sbaraglio : ci fu per esempio, un progetto per la costruzione d'un porto, preventivato dieci milioni di sterline, che la Baring sottoscrisse ma in cui, nonostante tutti gli sforzi, i clienti rifiutarono di investire il loro denaro.

Questa volta la Famiglia non dovette neppure colpire; si limitò ad

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aspettare che venisse il suo momento. Nell'autunno del 1890 la Banca d'Inghilterra venne informata che la Baring aveva accumulato passivi per l'ammontare di ventun milioni di sterline, e non vedeva modo di coprirli.

L'importanza della ditta era tale che il suo fallimento sarebbe stato un duro colpo per tutto il credito di Londra. Bisognava fare qualcosa. I mercanti e i finanzieri della City cominciarono a raccogliere un fon-do di garanzia per i creditori, e nientemeno che la Banca d'Inghilterra prese il progetto sotto i suoi auspici; tuttavia, esso sarebbe stato con-dannato in partenza se fosse mancata la partecipazione della più gran-de potenza finanziaria privata dell'Impero.

Tutti gli occhi erano fissi sulla Sala dei soci di New Court. La Fa-miglia avrebbe soccorso il suo peggior concorrente?

La Famiglia lo fece, e non solo su uno ma su due livelli d'impor-tanza vitale. Aggiunse il proprio nome alla lista dei raccoglitori del fondo di garanzia, e contribuì a questo con una somma degna del no-me (l'ammontare esatto dei vari contributi privati non è mai stato reso di pubblica ragione). In favore del rivale in pericolo fece inoltre ricor-so alle sue aderenze all'estero. Grazie all'intervento di Natty, si inte-ressò della faccenda Alphonse di Parigi; e grazie all'intervento di Al-phonse, la Banca di Francia contribuì al fondo con tre milioni di ster-line oro.

Il credito di Londra non subì la benché minima scossa. Il 15 no-vembre 1890, il governatore della Banca d'Inghilterra poteva annun-ciare che presto la Baring sarebbe stata in grado di liquidare tutti i suoi impegni.

« Quando ringraziate la Banca d'Inghilterra, » disse « è molto im-portante non dimenticare l'aiuto volonteroso e cordiale che abbiamo ricevuto da altri, e in primo luogo da lord Rothschild, la cui influenza sulla Banca di Francia è stata di tanto aiuto che senza di essa... non avremmo potuto prestare l'assistenza che siamo stati in grado di dare. »

In breve, il clan continuava ad essere una formidabile presenza non solo nei salotti, ma anche sui mercati finanziari del mondo. Fino a Sarajevo rimase quasi maestosamente immutato.

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LA GRANDE CASA E LA GRANDE GUERRA

Primo: Di nuovo venditori di pace

C'è una notevole differenza fra l'aristocratica fedeltà a vecchie tra-dizioni e la fossilizzazione completa. La Famiglia fece del suo meglio per rimanere se stessa, ma non era insensibile a ciò che avveniva nel mondo. Dal 1850 in poi aveva avvertito il sorgere di nuove identità nazionali, e aveva fatto sforzi graduali, probabilmente inconsapevoli, per adeguarsi. Un tempo, in Inghilterra, in Austria, in Francia, erano di stanza ai membri della mishpahà; dopo qualche decennio s'erano trasformati in Rothschild molto inglesi, molto austriaci, molto francesi.

In Francia il barone Edouard (figlio di Alphonse) si costruì una casa in tutto degna dei sogni ad occhi aperti d'un francese. Come pendant alla sua Versailles di Ferrières, pensò che gli sarebbe piaciuto un Petit Trianon, un piccolo e leggiadro palazzo di campagna. Il suo Manoir Sans Souci a Chantilly (ancor oggi una delle residenze della vedova) contiene quindi solo dieci camere per gli ospiti e i suoi giar-dini richiedono le cure di tre sole persone. Non vi possono essere dub-bi sul carattere squisitamente francese della dimora e dei suoi arredi, dalle chaises percées delle sale di decenza ai disegni di Picasso sulle pareti dei corridoi, agli objets de frivolités, come struzzi di porcellana d'una leggerezza veramente piumosa e scrittoi-gioiello in tartaruga, con le maniglie dei cassetti fatte di rubini. La piscina quadrata, in ce-mento armato, che Gòring fece costruire durante l'occupazione, sotto-linea per contrasto l'eleganza tutta francese del palazzetto.

Quanto alla Casa viennese, la musica era il suo debole, a cui indul-geva con la prodigalità che contraddistingue l'Austria ancor oggi (la fetta di bilancio che altri paesi spendono in missili, l'Austria la spende per Mozart). I trattenimenti più lussuosi offerti dal ramo austriaco della Famiglia erano le serate musicali, a cui servi in brache al ginoc-chio e parrucche incipriate presiedettero fino a buona parte del secon-do decennio del ventesimo secolo; e, come abbiamo ricordato, nei giardini Rothschild danzò il balletto dell'Opera di Vienna.

E in Inghilterra? Constance Rothschild aveva al suo servizio un impeccabile campione di flemma anglosassone, un maggiordomo che durante i bombardamenti della prima guerra mondiale entrava in sa-lotto dopo le prime detonazioni e diceva con aria annoiata, come se annunciasse la visita d'una tediosa coppia di duchi :

« Gli Zeppelin, milady ».

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Molto prima del 1900 i Rothschild s'erano divisi in tre gruppi se-parati, che non dimenticavano neppure per un momento i vincoli co-muni ma la cui fedeltà andava innanzi tutto al paese che aveva dato loro i natali. Presto questa fedeltà sarebbe stata messa aba prova; men-tre le varie famiglie Rothschbd vivevano in modo sempre più confor-me ai caratteri nazionali dei paesi in cui risiedevano, l'Europa ribolli-va di rancori nazionalistici.

Naturalmente la Famiglia si sforzò con l'impegno di sempre di salvaguardare o almeno di finanziare la pace; ma di anno in anno il compito diventava più difficbe. I grandi stati non dipendevano più da pochi grossi finanzieri: bastava imporre una tassa aba popolazione per dare al ministro deba guerra l'esercito che chiedeva. Quando, nel 1866, Prussia e Austria scesero in guerra, la mishpahà ricorse a pres-sioni d'ogni genere. Una volta, la Casa di Parigi si abbassò fino al punto di respingere un assegno di soli cinquemila franchi dell'amba-sciatore austriaco, col pretesto che l'ambasciatore non aveva fondi suffi-cienti a suo credito. Il gran mondo rimase senza fiato. Non era un Metternich, l'ambasciatore, e dunque un vecchio amico deba Fami-glia? Questo schiaffo dei Rothschild all'apparato diplomatico degli Absburgo diventò argomento di conversazione di tutta l'Europa cen-trale. Naturalmente la guerra scoppiò lo stesso.

Fu uno conflitto relativamente breve e di proporzioni limitate; ma la mishpahà, che aveva succhiato l'odio per la guerra insieme al latte materno, fiutava già - molto tempo prima che b fumo dei cannoni disturbasse le narici altrui - una conflagrazione più vasta, ancora lon-tana nel futuro.

Questo stesso anno, il 12 settembre 1866, Anthony de Roth-schild (fratebo di Lionel) esprimeva un cupo presentimento. La po-litica di ingrandimenti coloniali in cui le potenze occidentali erano impegnate gli appariva carica di pericoli. «Più presto ci liberiamo debe nostre colonie,» disse (ed era una dichiarazione notevole, in bocca a un uomo con tanti interessi oltremare) « tanto meglio per l'Inghilterra. Vogliamo la pace a qualsiasi prezzo... Che ci importa deba Germania o deb'Austria o del Belgio? »

La parola chiave, qui, è Germania. Dopo il trionfo su Napoleo-ne III, il paese divenne il potente e prepotente impero prussiano. Di anno in anno, il tintinnio debe sciabole e degli speroni prussiani riecheggiava più forte nebe altre capitali europee.

Nel 1911 - erano passati quattro decenni e mezzo da quando An-

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thony aveva pronunziato quella frase - le sue figlie Constance (lady Battersea) e Annie (Mrs. Yorke) si trovavano insieme in crociera sullo yacht di quest'ultima, The Garland. Veleggiando attraverso il Baltico, chi incontrarono se non - il mondo è straordinariamente pic-colo per un Rothschild - il kaiser sul suo yacht, lo Hohenzollernl Come nel porto di Palermo, Guglielmo fece grande sfoggio di ospi-talità. Il diario di Constance descrive la colazione - vista con occhio diffidente e profetico - che sua maestà offerse a lei e alla sorella.

« Siede su una seggiola sopraelevata, nella mensa degli ufficiali » osserva. «Abbiamo ascoltato la sua banda, forte di quaranta musi-canti che ha con sé sullo yacht... Ha parlato con rispetto della Non-na1... Ha detto: "Dobbiamo restare amici, ma noi non vogliamo che ci pestino i piedi"... Spero di vederlo ancora, ma non in veste di nostro conquistatore. »

La minaccia era chiara; e la Famiglia non apparteneva a quella categoria di persone che aspetta sospirando di vedere che cosa suc-cederà. Gli occasionali incontri in crociera non avrebbero impedito 10 scoppio di un conflitto mondiale né si poteva ricorrere alla pres-sione diretta come ai vecchi tempi; ma forse era possibile svolgere la funzione di catalizzatori, ottenere negoziati preliminari?

Era semplicemente logico che la Casa inglese, naturalizzata in un paese specializzato da secoli nelle funzioni di intermediario, si mo-strasse la più sensibile alla minaccia. La sorpresa sta nell'identità del membro della Famiglia che si batté con più energia ed ingegno per 11 mantenimento della pace. Solo quando tutto fu finito e le me-morie, spesso i segreti, di statisti e uomini politici furono stampati, solo allora il pubblico scoprì chi era il Rothschild che aveva com-piuto tanti e così notevoli sforzi di conciliazione fra le potenze.

Chi avrebbe sospettato che Alfred, il più eccentrico dei sibariti, l'uomo che andava in giro guidando un tiro di zebre e manteneva un circo equestre privato... che proprio lui, il fiore di serra, il prin-cipino viziato, si sarebbe rivelato un diplomatico astuto ed efficien-tissimo?

Era, ricordiamolo, console generale dell'impero austro-ungarico a Londra. (La carica, come tante altre di cui si fregiava la mishpahà, rappresentava un appannaggio ereditario, tramandato da tre genera-zioni. Nathan Mayer ne era stato insignito per primo, e l'aveva poi trasmessa al figlio Lionel; da Lionel, dopo la sua ascesa al parla-

1 Di sua nonna, la regina Vittoria.

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7.1 favolosi Rothschild

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mento, era passata ad Anthony; da Anthony, che non aveva figli, al nipote Alfred.) Ma la dignità di console era per Alfred quasi tanto onoraria quanto quella di cavaliere della Legion d'onore francese, e servì solo come vaghissima cornice agli sforzi a cui si sottopose nel decennio 1890-1900; forse si valse della sua carica austriaca soprat-tutto come contrappeso al fatto che la sua lealtà andava, prima di tutto e soprattutto, alla corona inglese. Perché Alfred fu un vero virtuoso nell'essere imparziale e tuttavia rapidissimo a intervenire nel punto e al livello giusto, nell'essere un individuo privato con risorse e aderenze degne d'un primo ministro.

La sua base d'operazioni fu la grande casa di Seamore Place. Là, a pranzi dove la scelta degli invitati era abilmente calcolata, digni-tari tedeschi e statisti inglesi si incontravano senza l'ingombro del protocollo, senza doversi preoccupare delle implicazioni ufficiali di tutto ciò che facevano e dicevano. Qui, sotto l'influsso dei vini più rari, dei sigari più scelti, dei cibi più raffinati, potevano comportarsi come normali uomini di mondo, ridere alle battute altrui, ammirare le altrui mogli, e chissà, lasciarsi convertire agli altrui punti di vista.

Fu in uno dei sontuosi salotti di Alfred che venne risolta una delle prime crisi anglo-tedesche. Nel 1898 Berlino e Londra erano ai ferri corti per il possesso delle Samoa nel Pacifico meridionale. Alfred, buon amico dell'ambasciatore tedesco conte Hatzfeld, fu av-vertito che il kaiser voleva inviare a Whitehall una nota eccessiva-mente energica. L'effetto pubblico di questa arroganza era incalco-labile. Rothschild provvide a far sì che lo scambio di vedute si svol-gesse in modo più civile: di lì a poco l'ambasciatore Hatzfeld e Jo-seph Chamberlain, segretario britannico alle colonie, sedevano l'uno accanto all'altro nelle morbide poltrone di pelle di Seamore Place. Bevvero insieme il caffè, gustarono insieme un cognac di gran marca in bicchieri di cristallo. Poi l'ambasciatore tedesco comunicò al suo compagno, in termini eleganti e simpatici come l'ambiente in cui avveniva l'incontro, il contenuto della nota di protesta; lord Chamber-lain lo riferì successivamente, in forma egualmente cortese, a lord Salisbury, segretario agli esteri. Salisbury potè allora, senza il minimo danno per la dignità britannica, dare al kaiser una risposta di sua piena soddisfazione.

Alfred interveniva con altrettanta sobecitudine quando si trat-tava di addolcire l'atteggiamento di Londra nei confronti di Berlino. Nel 1900, dopo lo scoppio della guerra boera, il vapore tedesco ftuw-

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desrat fu intercettato da navi inglesi e perquisito da cima a fondo. Il fatto provocò violente proteste tedesche, che a loro volta provoca-rono la reazione violenta della stampa inglese e specialmente del Times; Berlino insorse. La situazione rimase critica fino a quando Seamore Place non riprese la sua opera di arbitrato. Sopra qualche bottiglia a cinque stelle Alfred trovò modo di far capire ai tede-schi, in tutta discrezione, che il primo ministro non condivideva né tanto meno approvava l'atteggiamento della stampa londinese. Il go-verno di sua maestà non poteva mettere le briglie alla libera stampa, ma comunicava la sua posizione attraverso i buoni uffici di Alfred.

«Il barone Rothschild» riferiva il rappresentante dell'ambascia-sciatore tedesco « mi ha informato confidenzialmente che gli attacchi della stampa sono tornati sgraditi al Foreign Office... Un ministro del gabinetto lo ha pregato di cercare con ogni mezzo di far valere la sua influenza sul Times. Il barone Rothschild doveva incontrarsi di lì a poco con Mr. Buckle, redattore capo del Times, e mi ha detto che gli parlerà con molta energia di questa faccenda. »

Vittoria morì poco tempo dopo, e ciò rese un po' più facile il compito delicato di Alfred. Adesso poteva contare, fra gli strumenti a sua disposizione, l'amicizia d'antica data con il nuovo re. Poteva indurre Edoardo VII a dichiararsi d'accordo con lui nel desiderare una stampa meno irascibile, poi invitare a cena i signori del Times ed illustrare loro il punto di vista d'una « augusta persona ».

In quel periodo scoppiò in Cina la rivolta dei Boxer contro le colonie europee di Shanghai; per reprimerla, venne inviato in Cina un corpo di spedizione internazionale. Alfred, che conosceva bene l'orgoglio militaresco del kaiser, mosse tutte le pedine a sua dispo-sizione per ottenere che alla Germania fosse concesso l'onore del comando supremo.

Sembra strano che il Rothschild la cui vita appariva più lontana dalle preoccupazioni quotidiane del mondo fosse anche il Rothschild che più si preoccupava della guerra, la preoccupazione quotidiana più grave di tutte. Una delle sue lettere riassume la costanza, il tatto, l'ostinazione con cui condusse la sua opera di conciliatore: è una lettera scritta al diplomatico tedesco von Eckardstein per essere tra-smessa al conte Biilow, cancelliere del kaiser. Eccone i passi salienti

I suoi amici (mio caro Eckardstein) sanno per esperienza che ho a cuore gli interessi dei due paesi da molti, molti anni; benche in que-

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sto periodo siano insorti molti motivi dì discussione fra i due gover-ni... i circoli più alti, il ministero e il paese stesso hanno sempre dato prova di buona volontà nei confronti della Germania... Lo posso dimostrare personalmente, perché più o meno sono sempre stato dietro le scene, e ho sempre fatto del mio meglio per produrre risul-tati soddisfacenti. Quando il principe Bismarck era cancelliere, volle avere rappresentanti presso la Caisse de la Dette egiziana, e subito l'Inghilterra acconsentì al suo desiderio; più tardi intraprese una po-litica coloniale che anch'essa ebbe l'approvazione del governo bri-tannico (sulla questione delle Samoa venne raggiunto un accordo con-forme ai desideri tedeschi, e di recente... le truppe britanniche in Cina sono state poste sotto il supremo comando del conte Walder-see). In una parola, per quanto mi è dato ricordare, il governo in-glese ha sempre fatto tutto il possibile per venire incontro ai desi-deri di quello tedesco. Come stanno le cose ora? Da qualche mese, anzi si potrebbe dire da qualche anno, la stampa tedesca ha assunto nei confronti del-l'Inghilterra un atteggiamento ostile; a tal punto che i circoli più autorevoli cominciano a chiedersi quale sia il proposito di questa po-litica aggressiva, e se il conte Bùlow o il governo tedesco non pos-sono fare qualcosa per porvi rimedio. So benissimo che in Germania la stampa è libera come in Inghilterra, e che non accetterebbe di la-sciarsi prescrivere la politica da seguire... ma quando la stampa d'un paese sparge voci assolutamente false a proposito di una potenza amica, il governo avrebbe ben potuto cogliere la prima occasione adatta per dire quanto deplora che queste voci false abbiano avuto tanta diffusione. ... Queste asserzioni non hanno solo indignato i tedeschi residenti nel nostro paese... La gente qui sarebbe stata lieta di sentire che le carica-ture della nostra Famiglia reale, vendute per le strade di Germania, era-no state confiscate dalla polizia. In una parola, negli ultimi anni la politica tedesca nei confronti dell'Inghilterra è stata una politica di punture di spillo; e benché uno spillo sia uno strumento di proporzioni assai poco imponenti, punture ripetute possono alla fine provocare una ferita. Siccome spero e prego con tutto il cuore che non si pro-duca nessuna ferita grave, mi avventuro a inviarle queste righe, nella speranza che lei voglia spiegare al conte Bulow quanto sia diventata difficile la mia posizione nei confronti del governo britannico, dopo aver fatto ogni cosa in mio potere per un così lungo periodo di anni;

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e gli dica che ora mi sembra che non apprezziate al giusto valore i vantaggi di una, sincera intesa con la Gran Bretagna. Forse il conte Buloiv non sa che parecchi ambasciatori tedeschi si sono spesso in-contrati in casa mia con famosi statisti inglesi; non è passato molto tempo da quando il compianto conte Hatzfeld ebbe in casa mia fre-quenti incontri con Mr. Chamberlain, ed essi avevano punti di vista assolutamente identici sulla politica generale dei due paesi, la più rispondente ai reciproci interessi. Se riferisco in via privatissima questi particolari, caro Eckardstein, lo faccio solo per dimostrare che non parlo sans connaissance de cause; e sarei dispiaciuto oltre ogni dire se il piccolo refroidissement che si nota oggi, e che non ha assolutamente nessuna raison d'ètre, dovesse prolungarsi e magari peggiorare... Forse lei potrà convincere sua eccellenza a inviarmi qualche riga di risposta alle mie osservazioni; le mostrerei, naturalmente, solo in al-tissimi circoli, e ne farei l'uso più discreto; sono convinto che un amichevole éclaircissement darebbe risultati estremamente soddisfa-centi, e immediati. Se ne avrà l'occasione, caro Eckardstein, assicuri l'imperatore della mia completa devozione; lei sa quanto io stimi sua maestà. SUQ

ALFRED VON ROTHSCHILD

Questo rimprovero espresso con tanta accorata delicatezza fu rin-calzato con più aperte manifestazioni di scontento dal fratello di Al-fred, lord Natty. Quanto importanti fossero i sentimenti dei Roth-schild per la Wilhelmstrasse, quanto poco sia mancato - almeno in una fase della crisi - al successo dei loro tentativi di scongiurare la catastrofe, si può vedere da una successiva comunicazione del can-celliere von Biilow al kaiser.

« Oso proporre molto rispettosamente alla considerazione di vo-stra maestà » scriveva von Biilow a Guglielmo « la domanda se l'am-basciatore di vostra maestà a Londra debba essere espressamente in-terrogato sulla possibilità di fare qualcosa per dissipare i sentimenti ostili che i Rothschild possano nutrire, o su altre questioni emerse dal rapporto Eckardstein. »

Eppure, in definitiva, tutto questo non servi a nulla. Le arti del-l'anfitrione di Seamore Place, le sue raffinate espressioni diplomati-che francesi, le sue esperte blandizie - persino il piccolo stratagemma

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di sostituire la particella nobiliare "de" con "von" nel firmare la lettera a von Eckardstein - tutto fu inutile; tutto fu reso inutile dai colpi esplosi a Sarajevo nel luglio 1914. Il kaiser trasbordò dallo yacht a una nave da guerra. Sarebbe stato meglio per lui, per i Rothschild, per il mondo intero, se la più nobile battaglia di Alfred non fosse stata combattuta per una causa persa.

Secondo: La guerra

Dal confine austro-serbo il conflitto si estese a tutto il globo, dalle campagne napoleoniche in poi il mondo non s'era trovato coinvolto in una guerra di così vaste proporzioni. Questa volta i Rothschild ne uscirono sconfitti, non vincitori.

Tanto per cominciare, la linea del fronte divise il ramo austriaco dab'inglese e dal francese; teoricamente, un Rothschild di Vienna in uniforme si trovò nella necessità di sparare sui suoi cugini fioilus o Tommies.

Questa possibilità, per quanto raccapricciante, era piuttosto re-mota. Un altro fattore assunse maggiore importanza. Un secolo pri-ma, nel periodo in cui avevano forgiato la loro grandezza, i Roth-schild erano stati un gruppo di uomini duri, dal pugno di ferro, rotti a tutto, capaci di affrontare le imprese più spericolate e di uscirne vittoriosi. Adesso il successo li aveva ammorbiditi. Da molti de-cenni ormai l'arena preferita deba Famiglia erano le sale dei consigli d'amministrazione, i saloni delle conferenze; là, i loro mezzi, il loro ingegno, le loro energie trovavano pochi eguali. Ma in un tempo in cui le nazioni si colpivano a vicenda e si affamavano a morte, era la mitragliatrice nella trincea il più efficace strumento di persuasione. Poco tempo innanzi - e in un altro mondo - Alfred stava ancora vergando le sue soavi lettere di pace a Eckardstein. La differenza fra queba missiva e una sua lettera di due anni dopo dimostra l'inca-pacità del clan ad adattarsi abe nuove, dure realtà.

La mancanza di materiale per le impalcature di sostegno dei rifugi antiaerei era diventata acuta. Alfred, ora settantacinquenne, passava le sue giornate accanto al caminetto di Seamore Place, pensava agli stupendi faggi deba sua tenuta di campagna e, un po' confusamente, tentava di rendersi utile. La lettera di cui stiamo parlando avrebbe

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dovuto avere per destinazione la scrivania di qualche funzionario subalterno del ministero della guerra; ma Alfred non aveva cono-scenze a quel livello, e quindi dovette indirizzarla al primo ministro.

« Non sono un esperto in materia » scriveva a Asquith il 28 feb-braio 1917 « e non so quale tipo di legno possa essere adatto per le impalcature di sostegno, ma non posso fare a meno di pensare che, fra tutti i begli alberi dei miei boschi di Halton, ve ne sia almeno qualcuno adatto allo scopo. Vorrei dunque pregarla di mandare un esperto che potrà riferire sull'argomento; sarei sinceramente orgo-glioso se la mia offerta potesse avere risultati pratici. »

La Famiglia di cent'anni prima aveva approfittato delle guerre per le sue personali scorrerie di conquista. Adesso non poteva fare nulla del genere: i suoi movimenti erano appesantiti dal fardello non solo della ricchezza, ma anche degli scrupoli. La guerra non era più un'occasione di accumulare guadagni, bensì di rendere servigi; ogni Rothschild diede al suo paese tutto ciò che il suo paese chiedeva.

Alfred donò tutti i suoi alberi più belli; Natty sacrificò risenti-menti covati e coltivati per anni. Un vecchio avversario politico, Da-vid Lloyd George, era cancelliere dello scacchiere al principio della guerra. Fra i suoi compiti essenziali c'era quello di prevenire un pos-sibile panico finanziario, e senza l'aiuto e il consiglio di lord Roth-schild vi sarebbe difficilmente riuscito; di conseguenza, pregò Natty di recarsi da lui. Lloyd George guardava all'incontro con qualche ti-more; dopo tutto, una volta aveva pubblicamente incluso Natty nella categoria dei « Filistei, che in qualche caso possono essere anche cir-concisi ». Nei suoi riguardi aveva anzi fatto ricorso anche ad altri epiteti che, come lui stesso ammise in seguito, « non erano del tipo cui era stato avvezzo sin allora il capo della grande Casa Rothschild ». Quel pari ebreo sarebbe stato un visitatore difficile.

« Lord Rothschild, » disse il cancelliere dello scacchiere nello strin-gergli la mano « noi abbiamo avuto qualche screzio politico... »

L'altro tagliò corto con la parsimonia di parole per cui andava famoso. « Non è il momento di rispolverare queste storie. Che cosa posso fare per aiutare? »

« Glielo spiegai » ricorda lo statista. « Si impegnò a farlo subito, e lo fece.»

Natty fece anche di più; dimenticò molti dei suoi pregiudizi. A settantacinque anni, lui ch'era stato il più accanito oppositore dei servizi d'assistenza sociale, del voto alle donne, d'ogni misura pro-

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gressista, lui ch'era stato l'incarnazione stessa della reazione, represse tutti quei suoi impulsi che avrebbero potuto riuscir d'ostacolo alla vittoria. Qual era il metodo migliore per raccogliere i fondi necessari allo sforzo bellico? « Tassare i ricchi! » sbottò milord. « E che siano tasse pesanti! »

Sino alla fine, Leo fu il più generoso dei tre fratelli: al paese in guerra, diede suo figlio. Il 17 novembre 1917 il maggiore Evelyn Achille de Rothschild cadde in Palestina, combattendo contro i tur-chi. Leo morì lo stesso anno, e prima che la guerra finisse Natty e Alfred giacevano nel cimitero ebraico di Willesden.

In Francia, la devozione del clan alla causa ebbe una conseguenza imprevista. Dopo aver passato qualche mese a curare feriti in un ospedale intitolato al suo nome, la moglie di Maurice de Rothschild si prese qualche giorno di vacanza, e decise di passarlo in uno dei suoi alberghi favoriti, il Palace di Saint Moritz. Prima di recarvisi, telefonò per chiedere se non ci fossero tedeschi. Il direttore giurò che i suoi occhi non sarebbero stati offesi dalla vista di nessun ospite teutonico; ma la baronessa era appena arrivata che si trovò faccia a faccia con un famoso fabbricante tedesco di spumante. La signora girò sui tacchi.

Quando un Rothschild si disgusta d'un luogo di soggiorno, non si accontenta di frequentarne un altro; se ne crea uno in proprio. La baronessa si gettò nell'impresa con uno slancio e vi si dedicò con un entusiasmo paragonabile a quelli del suocero Edmond in Palestina. Da sola, fece del villaggio di Megève il più elegante soggiorno fran-cese (oggi in gran parte posseduto e controllato dal figlio, Edmond de Rothschild, che vi ammette fabbricanti di spumante di tutte le nazionalità).

Nonostante Megève, la grande guerra fu una pagina nera anche nel libro dei Rothschild. Dovunque, essi misero al servizio dei rispet-tivi paesi le loro fortune e i loro giovani. Se il maggiore Evelyn de Rothschild trovò la morte sul campo di battaglia, suo cugino Eu-gene, del lato austriaco del fronte, ebbe una gamba spezzata da una pallottola russa. Quando gli ultimi colpi di cannone tacquero nel 1918 nulla era più quello che era stato prima; nemmeno i Rothschild.

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DOPO

Si racconta che, nei tristi giorni dell'autunno 1917, una Rothschild inglese si avvicinò al suo capo giardiniere, il cui personale era stato decimato dai richiami alle armi, e gli chiese, con candore tanto su-blime quanto sincero, come fosse riuscito anche quell'anno a spargere sui viali tante foglie di così squisiti colori.

Negli autunni del dopoguerra i viali di molti giardini della Fa-miglia tornarono a coprirsi di foglie, e nessuno le spazzò via. Il bi-lancio dei Rothschild, adesso, non consentiva di dare molti aiuti ai capi giardinieri; qua e là, i giardini stessi cominciarono ad essere intaccati. Improvvisamente il mondo era diventato un luogo molto meno allegro d'un tempo. Com'era stato semplice essere ricchi! Ades-so tutto era complicato, tutto costava un occhio della testa; le tasse aumentavano sempre più vertiginosamente; i funzionari del fisco sfer-ravano un attacco dopo l'altro alle casseforti della Famiglia, con suc-cesso assai maggiore che non i più formidabili nemici d'un tempo. Era sempre più difficile vivere da Rothschild.

« Bisogna che continui a respirare » si racconta che Natty dicesse negli ultimi anni della sua vita. «Se smetto, in affari, sarà il più grave errore della mia vita. » Era una battuta tipica di lord Roth-schild : tipica per la ruvidezza, e tipica per la sua verità. Essendo pro-prietà esclusiva della Famiglia, le banche Rothschild si reggevano non sul denaro di centinaia di migliaia di azionisti, ma sulle fortune private dei soci. Questi si trovarono a dover pagare enormi tasse di successione: Natty commise l'errore di morire, e, come abbiamo detto, entro due anni i suoi fratelli seguirono il cattivo esempio. Lo stato incamerò così, una dopo l'altra, tre grossissime porzioni del patri-monio del clan.

Il testamento di Alfred diede un altro colpo alle fortune di casa. Morendo scapolo, senza moglie né figli, egli lasciava un patrimonio anche più cospicuo di quello dei fratelli. Tolte le tasse, rimaneva an-cora una fortuna più che ragguardevole, ma la maggior parte - per-sino nel testamento Alfred volle fare diversamente dagli altri - non andò ai parenti, bensì ad Almina, contessa di Carnavaron. Con parte del denaro l'erede finanziò una grande spedizione archeologica nella valle del Nilo, che scoperse a Tebe la tomba e i tesori di Tutanka-men. Così, il testamento di Alfred gettò lo scompiglio in due dina-

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stie: turbò l'eterno riposo dei faraoni e, soprattutto, impoverì le riserve della banca di New Court.

In ultima analisi, tuttavia, non furono queste tristi peripezie ester-ne a fare degli anni venti e dei trenta la fase più opaca della storia della Famiglia. Il male stava più a fondo. I Rothschild avevano gio-cato una parte così splendida nel mondo idilliaco della fin de siècle, che trovavano difficile adattarsi al mondo nuovo sorto sulle rovine dell'antico. Alcuni fra i loro migliori amici avevano perso corone, corti e regni; alcuni fra i più fedeli servi d'un tempo sembravano covare idee socialiste; alcuni dei loro balli più eleganti cominciarono ad essere funestati dall'orrida cacofonia chiamata jazz. E, natural-mente, buona parte delle loro rendite finiva nelle casse del governo.

Per un poco, si guardarono in giro, incerti in mezzo ai relitti di una società che avevano contribuito a creare. Alcuni di loro si rifiu-tarono di contemplare più oltre lo spettacolo; specialmente in Inghil-terra, cercarono rifugio nei loro hobby. Qui due coppie di fratelli avevano preso il posto dei magnifici tre della generazione precedente, e con una sola eccezione non possedevano né l'energia né il gusto per gli affari dei loro antenati. Lord Lionel Walter, figlio primogenito ed erede di Natty, si buttò anima e corpo nel museo zoologico di Tring e, al prezzo di mezzo milione di sterline, ne fece il migliore del mondo. Anche il fratello di Walter era uno studioso di storia naturale molto dotato; coscienziosamente ma senza fortuna, adempì i suoi doveri alla banca fino al suicidio, avvenuto nel 1923.

Il figlio maggiore di Leo, Lionel - "giardiniere di professione, banchiere a tempo perso" - si circondò di rododendri e orchidee a Exbury. Suo fratello minore Anthony, benché molto portato agli studi (prese due lauree al Trinity di Cambridge) si distinse come il più energico ed abile uomo d'affari della generazione. Per lui, recarsi a New Court non significava né fare un semplice atto di presenza né compiere un penoso dovere; ma era il più giovane, e per molto tempo non riuscì a far sentire la sua voce.

L'aggressività degli agenti delle tasse e la passività dei tassati provocò la scomparsa di molti palazzi. La dimora del capostipite Nathan al 107 di Piccadilly fu demolita, la grande tenuta di Gunner-sbury diventò un parco pubblico, la famosa dimora di Alfred a Sea-more Place fu sacrificata alla necessità di sveltire il traffico in Mayfair : venne abbattuta affinché Curzon Street potesse avere accesso diretto a Hyde Park.

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La morte più sontuosa fu quella del palazzo al 148 di Piccadilly, dove una sera, a cena, il barone Lionel e Disraeli avevano deciso l'ac-quisto del canale di Suez. La fine della grande casa avvenne nel 1937, e fu celebrata con un sontuoso libro d'arte, un catalogo d'asta di 250 pagine con sessantaquattro tavole a colori. Un solo mobile - uno scrittoio di legno di magnolia con pannelli in porcellana di Sèvres, fatto appositamente per Luigi XIV - fece cinquantamila dollari.

Poi fu la volta delle tenute del Buckinghamshire. Nel 1932 il se-condo lord Rothschild dovette vendere la collezione di oltre duecen-tocinquantamila uccelli al museo di storia naturale di New York; alla sua morte Tring Park si vuotò e il museo diventò proprietà pubblica. Aston Clinton decadde ad albergo. Nella sfarzosa residenza di Alfred a Halton venne installato un grande centro d'addestra-mento della Royal Air Force.

I più importanti Rothschild francesi ebbero il buon senso di non morire nell'immediato dopoguerra; così ritardarono il momento di pagare le tasse di successione. Ma se non persero le loro sostanze, persero buona parte della vivacità del loro temperamento. Dalla morte di Alphonse, avvenuta nel 1905, il capo della Casa francese era suo figlio Edouard. Sotto la guida di quest'ultimo, le fortune della famiglia furono flemmaticamente amministrate più che attivamente accresciute.

La medesima stasi si potè notare nella vita sociale del clan. Era l'età del jazz, gli anni in cui la nuova frenesia musicale invadeva i salotti di tutto il mondo, in cui la jeunesse dorée cominciava a ballare lo shimmy e a liberarsi dalle inibizioni; l'età in cui l'alta borghesia abbandonava la carrozza per la vettura sportiva. « I molto ricchi sono molto diversi da voi e me » scriveva Scott Fitzgerald. Ma per un certo tempo i Rothschild parvero molto diversi dai molto ricchi. Era-no diventati "vecchi capitalisti" in un momento in cui il mondo non voleva sapere di nulla che fosse vecchio. Sbigottiti, straniti, in-capaci di unirsi agli svaghi della loro classe, apparivano bizzarri, ri-gidi, venerabili.

Poi alcuni di loro si ricordarono che essere moderni era una tra-dizione della Famiglia; d'improvviso alcuni fra i Rothschild delle ultimo leve decisero di dimostrare che anche in stravaganza un Roth-schild non è secondo a nessuno. Henry (nipote dell'invalido Natha-niel) cominciò a girare i mari con il suo yacht Eros, i cui passeggeri facevano spesso onore al nome dell'imbarcazione; scrisse commedie

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brillanti con lo pseudonimo André Pascal; costruì il teatro Pigalle; diede alcune fra le più splendide e "ardite" feste della Costa Azzurra.

Un altro personaggio della Famiglia che fece parlare le cronache mondane fu James Armand, in cilindro e monocolo, bizzarro incrocio di Fred Astaire e Charlie Chaplin. Figlio del barone Edmond, "Jim-my" era francese per nascita; come principale erede della zia di Vienna, Alice, austriaco per patrimonio (e per il monocolo); inglese, infine, per cittadinanza e per l'appartenenza alla Camera dei comuni Era un uomo fragile: aveva perso l'occhio sinistro in seguito a un incidente di golf, responsabile il duca di Gramont, e subito tante operazioni addominali che la Famiglia finì per credere che la cisti-fellea gli ricrescesse appena tolta. E siccome non era un cavallerizzo molto abile, i suoi amici dicevano che « non appena Jimmy trova il tempo fra un'operazione e l'altra, eccolo col sedere in terra ». Tuttavia praticò gli sport, la politica, la filantropia e si dedicò alle sue colle-zioni d'arte fino all'età di sessantott'anni e con molto vigore.

Anche le sue attività furono all'insegna della contraddizione. La giacca a code, il colletto duro, le basette, le inflessioni tipo tout-Paris combinate con la più affettata pronuncia oxoniense facevano di lui l'epitome quasi clownesca dell'eleganza anglo-francese. Tuttavia se-deva ai Comuni come uno dei più in vista fra i deputati liberali, si faceva spesso vedere con leader laburisti come Aneurin Bevan, par-lava disinvoltamente ebraico con gli operai in Palestina, dove mandò avanti i progetti di colonizzazione del padre.

Alle corse sembrava una caricatura di Damon Runyon, in ghette e monocolo. E nelle puntate aveva un fiuto strepitoso. Una delle sue più incredibili e tipiche bravate ebbe luogo all'Handicap della contea di Cambridge del 1921. Parecchi minuti prima che i cavalli fossero alla partenza Jimmy cominciò a correre da un allibratore all'altro, piazzando puntate su un brocco dato 100 a 7, Milenko, fino a quan-do gli allibratori non accettarono più giocate. Le tribune ridevano. Milenko vinse di una lunghezza e mezzo, e Jimmy tornò a casa con circa 200.000 sterline in tasca.

Anche con le donne Jimmy aveva sistemi bizzarri ma che da-vano buon esito. A trentacinque anni decise improvvisamente di sposarsi e per trovare una moglie adatta si rivolse - dove, se no? -alla segreteria di uno dei suoi club per il gioco del golf. Il segretario esaminò le schede di vari membri. Che ne diceva Jimmy d'una certa Miss Dorothy Pinto, che negli ultimi tempi aveva fatto ottimi pro-

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gressi? Di lì a poco tempo un rabbino celebrava un'unione desti-nata a durare felicemente quarantatré anni, attraverso tutte le diver-sissime fasi della carriera di Jimmy e fino alla sua morte nel 1957. Oggi la vedova amministra abilmente le opere filantropiche di suo marito in Israele.

Il fratello di Jimmy, Maurice, era eccentrico come lui, ma in mo-do diverso. Evidentemente si rese conto che la Famiglia, per grande che fosse, non aveva ancora prodotto una sola pecora nera decente; al compito di colmare questa lacuna Maurice dedicò le sue abbon-danti energie e una notevole genialità. Nel tempo libero faceva il banchiere, e si compiacque anche di sedere al parlamento francese in qualità di senatore; ma eccelleva soprattutto nell'essere una pecora nera. Si aggiunga che oltre a belare sapeva mordere; alcuni arriva-vano al punto di affermare che, per essere qualcuno nello haut monde degli anni venti e trenta, bisognava essere state sedotte o almeno pizzicate dal barone, se si era donne, o aver subito un affronto se si era uomini. Nessuno lo superò nel fornire materiale ai più piccanti pettegolezzi del suo tempo.

Fra i molti episodi degni di nota della sua carriera possiamo ri-cordare l'interludio con l'Hotel de Paris di Montecarlo. L'albergo con-sidera a ragione la sua cucina una delle migliori del mondo; ma venne un triste giorno in cui un piatto ebbe la sfortuna di non pia-cere al barone. Immediatamente egli affittò un appartamento con una grandissima cucina, fece venire da Parigi il suo chef e ve lo installò, tenne l'appartamento all'albergo, ma alle ore dei pasti ripa-rava con ostentazione all'altra casa, quella "da pranzo".

Sapeva comportarsi anche peggio, quando era molto irritato. A Cannes un negoziante d'articoli di abbigliamento maschile gli ven-dette un paio di pantaloncini da bagno che, alla prima immersione, si rivelarono insopportabilmente ruvidi. Monsieur le Baron inter-ruppe la nuotata e abbandonò l'indumento ai pesci; dopodiché tornò sulla spiaggia in costume adamitico. Nell'immenso scompiglio che seguì, comunicò alla stampa, alla polizia, a chiunque volesse sentirlo il nome e l'indirizzo del colpevole e descrisse per filo e per segno la qualità del costume che lo aveva indotto a manifestare in modo tanto naturale il suo affanno.

Naturalmente era meglio (o peggio) noto come Don Juan de Rothschild. I suoi favoriti campi d'operazione, oltre i camerini dei teatri parigini, erano Deauville e Biarritz durante le rispettive "sta-

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gioni" di agosto e di settembre. Appunto Biarritz fu il teatro d'un episodio particolarmente illustrativo.

Verso la metà degli anni venti, cominciò a tenervi corte una del-le più famose femmes fatales del tempo, con alle spalle un'ecatombe di mariti accompagnati alla tomba o abbandonati e di amanti alleg-geriti della maggior parte dei loro beni mondani. Gli amici di Mau-rice pensarono che quella era la donna fatta per lui, e combinarono una presentazione. La signora era irresistibilmente bella, irresistibil-mente abbigliata. Il barone ne parve affascinato, vinto, incatenato. Perse la proverbiale ruvidezza, danzò con lei tutta la sera all'Hotel du Palace, la coprì di rose; più e più volte dichiarò in presenza di tutta la comitiva che avrebbe unito il più bel collo di Francia - e così dicendo si inchinava al decolleté della maliarda - e la più bella col-lana di Biarritz. Tutti, anche la proprietaria del collo, la giudicarono una promessa fatta con adorabile galanteria.

Contravvenendo alla regola consueta del pagamento alla conse-gna, la signora passò la notte con Maurice. L'indomani il barone la fece salire sulla più lussuosa delle sue automobili e puntò immediata-mente in direzione del miglior gioielliere del posto. In vetrina c'era una collana del valore di 300.000 dollari. Maurice condusse la bel-lissima davanti allo specchio, le agganciò la collana.

« Voilà, ma chère » disse. Le baciò la mano e, avendo ormai unito collo e collana, girò sui tacchi e se ne andò, solo.

Mentre le banche della Famiglia recedevano nello sfondo, Henry, Jimmy e Maurice continuarono a far sentire alla società la presenza del clan. I tre dimostrarono che l'antico dinamismo, per quanto fos-sero strani i modi in cui trovava espressione al momento, esisteva ancora; forse preannunciavano che il clan sarebbe sopravvissuto an-che a ciò che doveva venire. Perché la storia di Casa Rothschild, co-minciata come epopea, continuata all'insegna della stravaganza, stava avvicinandosi alla tragedia.

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Hitler contro Rothschild

LA DEPRESSIONE E IL BARONE LOUIS

Poco dopo l'inizio del nuovo secolo, racconta un aneddoto, due vagabondi passeggiavano nello Stadpark di Vienna. Si udì uno scal-pitar di zoccoli, e uno dei due chiese all'altro chi fosse il ragazzino che veniva scarrozzato in quell'enorme vettura tutta per lui.

« Guarda la livrea " rispose il suo compagno. « È il piccolo ba-rone Louis che va a prendere aria. »

« Così giovane! » esclamò il primo, ammirato. « Così giovane... e già un Rothschild! »

Né lui né alcun altro lo sapeva, ma quella carrozza dorata galop-pava verso la depressione, verso l'Anschluss, verso una prigione della Gestapo e la seconda guerra mondiale.

Il piccolo barone Louis crebbe. Aveva ventinove anni quando suo padre morì, poco innanzi la prima guerra mondiale. Una delle pecu-liarità della Casa austriaca consisteva nell'investire della direzione de-gli affari una persona sola, invece di suddividere la responsabilità fra tutti i soci (come usava a New Court e rue Lafìtte). Alphonse e Eu-gene, fratelli di Louis, poterono dedicarsi solo ai loro svaghi; Louis as-sunse il controllo di tutti gli affari dei Rothschild nell'Europa cen-trale. E anche qui possiamo vedere quella sorta di rispondenza di cui la storia della Famiglia contiene tanti esempi. Perché il ramo au-striaco fu quello che più dovette soffrire nelle vicissitudini del nuovo secolo; e Louis fu - più di quanto potesse esserlo qualsiasi altro membro della mishpahà - il tipo classico del gran signore la cui raf-finatezza tanto più risalta a contrasto con la brutalità di un mondo nuovo.

Il suo temperamento fu rivelato assai presto da un incidente che ebbe per sfondo, curiosamente, Manhattan. Pare che gli agenti new-yorkesi della Famiglia avessero partecipato al finanziamento della New York Interborough Rapid Transit Company. Il giovane Louis ch'eia staio mandato .1 fiimiliarizzarsi con l'Amcrioi, aveva qualcosa

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a che fare col progetto e contribuì a inaugurare il nuovo servizio sa-lendo su uno dei primi convogli sotterranei; il caso volle che il treno su cui viaggiava subisse un guasto al motore e ai sistemi di ventila-zione. Quando i passeggeri grondanti di sudore e quasi soffocati fu-rono finalmente fatti uscire all'aria fresca, c'era fra loro una sola per-sona che aveva tenuto addosso non solo la giacca ma persino il so-prabito; anzi, i soccorritori giurarono di non aver visto sulla sua fronte neanche una goccia di sudore. Era il barone.

Altri fecero esperienza dell'imperturbabile compostezza di Louis, e spesso non seppero come giudicarlo: glaciale noncuranza, o sem-plice assenza di sangue nelle vene? Il giovane capo della Casa di Vienna diventò, questo è certo, il più raffinato, il più stoico, il più im-peccabile gran signore della Famiglia. Non c'era mai stato, prima, un Rothschild come lui; e le circostanze provvidero a che non ce ne fosse un altro dopo. Non prese moglie se non in età avanzata, e i suoi fratelli sposati non ebbero figli sopravvissuti. Fu l'ultimo capo della Casa austriaca.

Questo fatto contribuisce a gettare una luce di patetica poesia su una vita tanto più romantica per la reticenza dell'uomo che la visse. L'incidente di Manhattan - strano confronto tra un ultimo Roth-schild e un primo incidente ferroviario in una ferrovia sotterranea -conteneva un elemento profetico. Il futuro aveva in serbo ben altre prove, ben altri confronti tra lui e la modernità; e lui li avrebbe superati con la stessa mirabile calma.

La natura lo aveva fornito delle qualità più adatte al suo perso-naggio. Sottile, biondo, bello, il tipo perfetto dell'aristocratico an-glosassone - nonostante la frequenza con cui visitava la sinagoga -Louis sapeva dare alla sua taciturnità una nota di semplicità disar-mante o di inaccessibile alterigia. Nonostante un piccolo disturbo cardiaco (si può essere un vero gran signore, di purissima razza, senza un piccolo, acre disturbo?) aveva un'energia eccezionale, splen-dida anche se amministrata con parsimonia. Ottimo giocatore di polo, formidabile cacciatore, cavallerizzo di prim'ordine (cavalcava i famosi Lipizzaner bianchi della scuola statale d'equitazione "spagnola", pri-vilegio concesso, anche sotto la repubblica, solo ai migliori cavalle-rizzi delle classi più privilegiate), era anche un acuto studioso di ana-tomia, botanica e arti grafiche.

Era infine un famoso conquistatore di donne, un amante perfetto e di gusto difficile. Il suo grande palazzo di scapolo nella Prinz Eu-

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genstrasse e il suo ufficio nella Remigasse, tappezzato di seta rosso scuro, furono visitati dalle più leggiadre signore di Vienna. Fu forse la discrezione del gentiluomo a volere nel suo ufficio privato tre porte, una delle quali così ben mascherata che solo lui, il segretario e pochi visitatori (o visitatrici) ne conoscevano l'esistenza.

Ma dal barone Louis non venivano solo deliziose signore; spesso venivano messaggeri di tristi nuove. I tempi erano cattivi, e non fa-cevano che peggiorare. Prima del 1914 la Banca di Vienna era stata il principale strumento finanziario d'un grande impero, il cervello fi-nanziario dell'Europa sud-orientale. Dopo il 1918, l'Austria scon-fitta s'era ridotta a una frazione impoverita di quella ch'era prima. Inevitabilmente, anche l'azienda austriaca dei Rothschild subì un declino.

Come principale, quasi "ufficiale" istituto bancario privato, la S. M. Rothschild und Sòhne era legata alle fortune della piccola, ormai povera patria. Lealmente aveva comperato titoli di stato a milioni, e vedeva l'inflazione divorare i suoi investimenti. Sulla metà degli anni venti non poteva, come Castiglione, il grande rivale viennese, mi-nare il terreno sotto i piedi al governo speculando sulla caduta della corona austriaca. La corona cadde, com'era prevedibile, e Castiglione trionfò, minacciò di mettere in ombra i Rothschild.

Castiglione passò a speculare sulla caduta del franco. I suoi al-leati aiutando, il cambio internazionale della valuta francese prese a scendere sempre più in basso, mentre sempre più in alto saliva quello della sterlina e del dollaro. E Rothschild? Gli esperti davano già per perduta l'egemonia finanziaria della Famiglia sull'Europa cen-trale. Lo studio tappezzato di seta della Renngasse era diventato molto silenzioso, molto tranquillo. Poi, d'improvviso, il franco cominciò a risalire, dapprima a sbalzi, poi con un impeto irresistibile che mise in gioco Castiglione. Il mondo della finanza era stupefatto. Il barone Louis, con un freddo sorriso, si recò in Italia per qualche partita di polo.

Cos'era accaduto? Semplicemente nel 1925 s'era ripetuto una vec-chia, vecchissima storia della Famiglia. Le banche della mishpahà in Inghilterra, in Francia, in Austria avevano segretamente riallineato i loro tentacoli, e con la Casa francese alla testa (il barone Edouard era uno dei direttori della banca di Francia) avevano silenziosamente organizzato una coalizione internazionale che andava da J. P. Morgan negli Stati Uniti alla Creditanstalt, controllata dal barone Louis, in

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Austria. Dappertutto, a un segnale prestabilito, gli alleati dei Roth-schild avevano iniziato le operazioni per far ribassare il cambio della sterlina e rialzare quello del franco. Come in passato, nessuno poteva resistere a un avversario che possedeva riserve quasi illimitate e le gettava in campo con una così abile scelta del momento. Il barone Louis tornò dall'Italia, abbronzato, con il solito, gelido sorriso sulle labbra.

Lo attendevano altre prove. Se gli anni venti erano stati difficili, i trenta furono rovinosi, prima di diventare tragici. Nel 1929 venne la depressione, e la giovane fragile repubblica austriaca era fra i paesi meno preparati ad affrontarla. Entrarono in crisi gli affari, le banche, e presto furono minacciati anche i palazzi della Famiglia.

Nel 1930 fa Bodenkreditanstalt - il più importante istituto di cre-dito agricolo del paese - venne a trovarsi in una situazione dispe-rata. Louis, imperturbabile come sempre, dimostrò la propria calma recandosi a cacciare il cervo in una delle sue riserve. Il governo era molto più eccitabile, e il cancelliere federale in persona raggiunse in treno la tenuta Rothschild. Per usare le parole con cui il cancelliere stesso raccontò più tardi l'accaduto : « Puntai una pistola contro il petto del barone e gli ingiunsi di salvare la banca sull'orlo del fal-limento ». « Lo farò, » disse Louis « ma ve ne pentirete. »

La Creditanstalt, la più grande banca pubblica austriaca (presi-dente, Louis von Rothschild), assunse su di sé le passività dell'istituto di credito agricolo. L'Austria dovette pentirsene. Essendosi sobbar-cata a un peso eccessivo, anche la Creditanstalt fu costretta, un anno dopo, a sospendere i pagamenti. Adesso la struttura finanziaria di tutta la nazione pericolava; il governo stesso dovette venire in soc-corso con fondi attinti al tesoro dello stato. Casa Rothschild diede trenta milioni di scellini d'oro per contribuire a rimettere in piedi la Creditanstalt.

Nonostante il segreto intervento dei Rothschild francesi, questo fu un durissimo colpo alle fortune della Famiglia austriaca. Il barone vendette alcune tenute di campagna e lasciò il grande palazzo di Prinz Eugenstrasse per una residenza leggermente più piccola nelle vicinanze.

Tuttavia, era ancora l'uomo più ricco di tutta l'Austria. La sua banca, la S. M. Rothschild und Sòhne, rimaneva in piedi, intatta: un gigante, a misurarla sulla scala austriaca. Louis restava uno dei più grossi proprietari terrieri dell'Europa centrale e conservava il

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controllo di enormi investimenti nelle industrie tessili, minerarie e chimiche.

Più a nord già imperversavano le SA; il barone continuava a re-gnare nel suo ufficio tappezzato di seta.

WINDSOR A ENZESFELD

Così vennero per Louis von Rothschild i suoi ultimi anni di ulti-mo grande gentiluomo dell'Europa centrale. Fra il 1931 e il 1938 la sua vita si svolse come il secondo atto di un dramma ricco di emozioni, con un allestimento scenico sontuoso; il protagonista s'era ripreso dal primo colpo del destino, ignorava ancora la cupa conclu-sione del dramma e godeva - su uno sfondo di aristocratica ricchezza - un breve periodo di calma, rallegrato da un prestigioso intermezzo.

Nel 1936 Edoardo VIII abdicò per amore di Mrs. Simpson. Il giorno precedente il gran gesto il re comunicò telefonicamente con la più famosa divorziata del mondo. Il governo inglese aveva già preparato per lui un rifugio in un albergo di Zurigo, ma Mrs. Simp-son si oppose energicamente alla scelta: un albergo era un riparo troppo fragile contro le incursioni della stampa (alla cui curiosità non sarebbe, del resto, sfuggita nemmeno quella comunicazione telefonica tra Londra, dove si trovava lui, e Cannes, dove stava lei).

«David,» disse Mrs. Simpson, ben consapevole che anche altre orecchie stavano ascoltandola, « perché non vai nel posto dove hai avuto quel raffreddore l'anno scorso? »

Quel "posto" era Schloss Enzesfeld, presso Vienna, un castello appartenente a Eugene von Rohtschild, fratello di Louis e buon amico di entrambe le parti in causa. Qui David avrebbe potuto godere del ritiro più perfetto, giocare su campi da golf del barone, parlare il tedesco austriaco, il suo preferito dialetto straniero; qui, dove l'anno innanzi era guarito d'un raffreddore, avrebbe meglio superato la crisi più grave della sua vita.

« Farò proprio così » disse il re. Il giorno successivo, 11 dicembre, questo titolo non gli apparte-

neva più. Meno di quarantottore dopo i cancelli della tenuta Roth-schild si aprivano davanti a una limousine nera: vi si trovava l'uo-mo che aveva appena rinunciato alla corona della più grande monar-

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chia del mondo per la più romantica ragione possibile. La curiosità di cinque continenti converse su Enzesfeld; il nome della tenuta di Eugene diventò famoso come quello di Mayerling.

Presto vi si intrecciò intorno una ghirlanda di favole, o magari di fole; alcune del resto divertenti. Si disse, per esempio, che dietro le mura del castello si svolgevano ricevimenti incredibilmente fa-stosi, ma che tutti i conti per queste feste venivano recapitati al duca di Windsor; che i baroni Eugene e Louis, stufi di vedere le facce lunghe dei loro amministratori, erano ricorsi a un trucco tipica-mente ingegnoso, tipicamente Rothschild: dal consiglio del villaggio avevano fatto eleggere il duca "signore di Enzesfeld", e poi avevano dato istruzione a tutti i fornitori di mandare i conti al personaggio onorato con quel titolo.

In realtà, nella tenuta il duca visse - e giocò a golf - in perfetta tranquillità. Le sue giornate facevano perno intorno alla grande ora - le sei e trenta del pomeriggio - in cui la stanza del telefono e tutte le linee telefoniche locali erano lasciate libere affinché il duca po-tesse mettersi in comunicazione con Wallis, a Cannes.

Il soggiorno di un così mitico personaggio non mancò tuttavia di aver qualche effetto sui costumi dell'Europa centrale. Si notò, per esempio, che quando raggiungeva i Rothschild e i loro ospiti a cena il duca portava la cravatta nera su un colletto morbido, non inami-dato; la scoperta provocò una piccola rivoluzione nelle camicerie austriache. David fu responsabile anche di un'altra innovazione; per dirla con il barone Eugene, "inventò il brunch" cioè, al duca pia-ceva fare, ad ora avanzata, una prima colazione piuttosto abbondante, il che spesso portava all'omissione del pasto di mezzogiorno. Anche il brunch entrò nel repertorio dei raffinatissimi.

Per l'ultima volta l'Austria godette almeno d'un riflesso dello splendore imperiale che aveva irradiato un tempo. E per l'ultima volta un Rothschild austriaco ebbe un ospite degno del suo nome.

LE IDI DI MARZO

L'interludio di Enzesfeld accrebbe ancora, se ce n'era bisogno, lo splendore sociale della Famiglia. Frattanto Louis continuava la sua vita di gran signore. Ma nel 1937, non molto tempo dopo la par-

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tenza del duca da Enzesfeld, il barone partecipò ad un pranzo in casa d'amici. D'improvviso fuori della finestra s'udì un miagolio, e prima che qualcuno potesse fermarlo il barone aveva aperto i vetri, era salito sul davanzale, e stava costeggiando una crepa del muro esterno da cui tolse il gattino. Poi, con un salto, tornò nella sala.

Cose di questo genere erano già accadute. Louis aveva sempre avuto un fisico notevole e uno straordinario senso dell'equilibrio; come il padre Albert (il pioniere del Cervino) aveva scalato molte vette o, in mancanza di queste, persino edifici. Ma nel 1937 aveva cinquantacinque anni; e la notte era buia, e l'appartamento al quinto piano.

« Ma barone! » disse uno degli invitati. « Queste imprese vanno lasciate ai pompieri! Perché rischiare la vita? »

« Temo che sia diventata un'abitudine » replicò il barone con uno dei suoi freddi sorrisi.

Tutti capirono cosa intendesse dire. Gli eserciti tedeschi si sta-vano ammassando presso il confine. Molte persone nelle sue condi-zioni sentivano improvvisamente il desiderio di visitare paesi stra-nieri; suo fratello Eugene s'era trasferito nella residenza parigina, l'altro, Alphonse, faceva la spola tra Vienna e la Svizzera. Louis non si moveva dalla capitale austriaca.

Con calma, con un'eleganza quasi ostentata, rimase fermo ad at-tendere il destino. I suoi segretari continuavano a lavorare come sem-pre negli uffici tappezzati in seta della Renngasse; anzi, inesplicabil-mente, nella banca si notava un'attività più intensa del consueto. Ogni mercoledì l'intendente del Kunsthistorisches Museum di Vienna faceva la prima colazione in casa del barone, e teneva con lui una sorta di seminario d'arte a due; ogni venerdì mattina un professore del Giardino botanico veniva a portare interessanti esemplari e a di-scuterne; ogni domenica il direttore dell'Istituto anatomico faceva la sua comparsa con carte e libri; due volte la settimana il barone ca-valcava i grandi Lipizzaner. La vita, insomma, continuava identica a quella di sempre, benché al Jockey Club gli amici scuotessero la te-sta. Come capo del ramo austriaco della Famiglia, come incarnazione tipica del capitalista ebreo, Rothschild era uno degli oggetti favoriti dell'odio di Hitler. Perché non se ne andava? Perché rimaneva ad offrire un bersaglio così invitante in una zona così pericolosa?

Due buoni motivi spiegano questa ostinazione. Entrambi erano dinastici. Uno, che aveva molto a che fare con le misteriose attività

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negli uffici di Louis, rimase segreto fino a parecchi mesi dopo; l'altro era pubblico ed evidente. Come capo della Famiglia austriaca, Louis si moveva nella luce della ribalta; ogni gesto che sapesse di fuga avrebbe aperto un'altra falla nella nave già pericolante dello stato. Il capo di una casa Rothschild (lo abbiamo già visto in altre occa-sioni) è solo secondariamente un uomo; in primo luogo è un prin-cipio.

Nel freddo perfezionismo del barone, il principio si congelò in dogma. Non si avvicinò neppure alla frontiera. Quando il cancel-liere austriaco fu convocato da Hitler a Berchtesgaden, Louis lasciò Vienna... per andare a sciare sulle Alpi austriache. E quando il 1° marzo 1938 un corriere dei Rothschild francesi bussò alla sua porta in Kitzbùhel con un avvertimento urgente, non si precipitò a Zu-rigo: ripose gli sci, e tornò a Vienna.

Martedì 10 marzo giunse dalla Svizzera un altro telegramma d'al-larme. La mattina seguente le truppe tedesche varcarono la frontiera. La nave dello stato era affondata; la presenza dei princìpi non poteva più salvarla. Sabato pomeriggio Louis si fece condurre all'aeroporto di Vienna insieme al cameriere Edouard; loro destinazione ufficiale, l'Italia, dove Louis era atteso dalla sua squadra di polo. Al cancello, a breve distanza dall'aereo, un ufficiale delle SS riconobbe il barone e gli confiscò il passaporto.

« Dopodiché, » ricorda il cameriere « andammo a casa e aspet-tammo. »

Non dovettero aspettare a lungo. La sera comparvero davanti a palazzo Rothschild, come davanti a centinaia d'altre case d'ebrei, due uomini con la svastica al braccio.

Il maggiordomo, però, non potè tollerare l'inciviltà di un arresto; prima doveva vedere se Herr Baron era in casa. No, disse due mi-nuti dopo ai visitatori, Herr Baron era fuori. I due, presi in contro-piede, farfugliarono qualcosa e scomparvero nella notte.

Ma la domenica erano di ritorno con sei bravacci con l'elmetto d'acciaio, tutti con le pistole spianate per il caso che dovessero tro-varsi di fronte a qualche altra imboscata di plutocrati. Questa volta il barone ricevette il capo del gruppo, e accettò l'invito a seguirlo, naturalmente dopo la colazione, che stava per essere servita. Gli el-metti d'acciaio si accostarono in una confusa consultazione il cui esito fu: stava bene, mangiasse pure.

Il barone mangiò, per l'ultima volta con lo splendore cui era

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avvezzo. Mentre i soldati tedeschi dondolavano le pistole a due metri dal tavolo, i camerieri si inchinavano e i piatti riempivano la stanza d'un profumo d'intingoli. Il barone finì senza darsi fretta; come sem-pre, dopo la frutta immerse la punta delle dita nella vaschetta per l'acqua e se le asciugò nella salviettina di damasco che gli veniva porta; gustò la solita sigaretta del dopopranzo; approvò il menù del-l'indomani; poi accennò col capo agli uomini in attesa, e se ne andò.

A tarda sera, fu chiaro che non sarebbe tornato. Nelle ore pic-cole del mattino il bravo cameriere Edouard prese le speciali len-zuola del padrone, il suo servizio da toletta, una selezione accurata di abiti da portare dentro casa e fuori, qualche libro di storia del-l'arte e di botanica - in breve, l'assortimento d'oggetti che il signore si portava quando era invitato a qualche noioso week-end -, mise il tutto in una valigia di cinghiale completa di corona nobiliare, e lo portò al quartier generale della polizia. Lo mandarono via in mezzo a uno scroscio di risate.

Ma l'interesse del commissario di polizia nazista per il suo pri-gioniero fu stuzzicato dall'iniziativa del fedele Edouard. I primi in-terrogatorii furono intesi a soddisfare curiosità perfettamente com-prensibili.

« Dunque, lei è Rothschild. Quanti soldi possiede esattamente? » Louis rispose che se tutto il suo personale contabile fosse stato

convocato e fornito di rapporti aggiornati sulla situazione mondiale del mercato e delle Borse, pochi giorni di lavoro gli avrebbero per-messo di dare una risposta abbastanza esatta.

« Va bene, va bene. Quanto vale il suo palazzo? » Rothschild lanciò al commissario un'occhiata leggermente diver-

tita. « Quanto vale la cattedrale di Vienna? » fu la sua precisa risposta. « Impertinente! » tuonò il commissario. Dal suo punto di vista,

forse aveva ragione anche lui. Guardie spinsero il barone in cantina. Laggiù, Louis dovette spo-

stare sacchi di sabbia in compagnia dei dirigenti del partito comu-nista, suoi compagni di prigionia. « Simpatici » avrebbe detto più tardi Louis. « Ci trovammo d'accordo nel pensare che quella era la cantina più priva di classe del mondo intero. »

Accaddero altre cose insolite. Strane lettere giunsero a un agente dei Rothschild in Svizzera. Le avevano scritte tre famosissime pro-stitute dell'Europa centrale, che vantavano ottimi rapporti con la po-lizia nazista di Vienna e si offrivano come mediatrici per trattative

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di riscatto. La Famiglia - il cui passato era così ricco di negoziati fuori del comune - avrebbe potuto mettersi d'accordo anche con que-ste signore, non fosse stato per un'improvvisa, ma del resto inevi-tabile, piega degli eventi.

ENTRA IN SCENA HERMANN GÒRING

Verso la fine d'aprile Berlino cominciò a prestare la debita atten-zione all'importanza del prigioniero. Una notte Louis fu separato dai compagni comunisti e dai sacchi di sabbia, e di lì a non molto si ritrovò al quartier generale della Gestapo a Vienna, in una cella ac-canto a quella in cui era chiuso l'ex cancelliere austriaco. Il suo caso era stato trasferito dal livello della polizia locale ai più alti circoli, ai più stretti collaboratori delle cospirazioni del Reich. Adesso aveva ventiquattro guardie in stivali e cinturone - "i miei granatieri" - ai cui tentativi di prendersi delle libertà con lui reagiva, abbastanza efficacemente, insegnando loro geologia e botanica con l'aria di un professore annoiato.

Come successore delle famosissime prostitute, apparve in Sviz-zera un altro emissario; disse di chiamarsi Otto Weber, e si definì "socio" del dottor Gritzbach, a sua volta consigliere personale di Hermann Goring. Pian piano diventò evidente chi aveva adesso in mano le redini della faccenda; pian piano, con infinite cautele, ven-nero rivelate le condizioni. Herr Baron sarebbe stato rimesso in li-bertà se il maresciallo Gòring avesse ricevuto l'equivalente di 200.000 dollari per il suo disturbo e il Reich tedesco fosse entrato in possesso di tutto il restante patrimonio della Casa austriaca, in particolare di Vitkovice in Cecoslovacchia, il più grande centro della lavora-zione del carbone e del ferro dell'Europa centrale.

Non erano belle notizie. Chiedere questo, significava chiedere il riscatto più alto nella storia del mondo. Ma Eugene e Alphonse, che conducevano i negoziati a Zurigo e Parigi, avevano uno splendido asso nella manica: per strana magìa Vitkovice, benché posseduta da Rothschild austriaci, era diventata proprietà inglese. Nel 1938, prima della guerra, ciò significava ch'essa era fuori portata delle grinfie di Goring.

Tutta la misteriosa, silenziosa attività che s'era svolta negli uffici

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di Louis durante il 1936 e il 1937 - poco prima che fosse troppo tardi - aveva avuto come scopo principale appunto questa trasforma-zione. Insieme a un vecchio e abilissimo funzionario di banca di nome Léonard Keesing, Louis aveva issato l'Union Jack su circa ventun milioni di dollari, con un complesso di manovre degno della migliore tradizione Rothschild.

Come aveva fatto? Il lavoro sotterraneo di Louis aveva preso le mosse da un fatto fondamentale: impianti industriali di simili pro-porzioni non potevano cambiare nazionalità senza l'approvazione dei supremi organi governativi. Nel 1936, con molta discrezione, si prov-vide quindi a persuadere il primo ministro ceco del fatto che Vitkovice, se fosse rimasta sotto il controllo austriaco, avrebbe potuto costituire un pericolo per la Cecoslovacchia nel caso che Vienna fosse caduta sotto il dominio tedesco. Simultaneamente, altrettanto segretamente, e ben inteso a insaputa dei cecoslovacchi, il cancelliere austriaco fu avvertito del pericolo che le inclinazioni anti-austriache e anti-tede-sche delle autorità ceche potessero determinare il sequestro di Vitko-vice, fintanto che questa fosse rimasta austriaca. Così, sia Vienna sia Praga acconsentirono, per ragioni opposte, al trapasso di proprietà.

Poi venne il trapasso stesso, vero gioco d'abilità fiscale e legale. Louis e collaboratori sfruttarono abilmente il fatto che i Rothschild non erano gli unici azionisti di Vitkovice, ma solo i possessori del pacchetto di maggioranza. Proprietari del pacchetto di minoranza erano i Gutmann, un'altra grande famiglia di ebrei austriaci, che la depressione aveva rovinato. Per pagare i debiti, i Gutmann dove-vano vendere le azioni; e per far questo era necessario rivedere la struttura sociale di Vitkovice. Dietro lo schermo di questa riorganiz-zazione la nazionalità dell'impresa venne, come per caso, cambiata.

Tutto questo gioco di mano sarebbe stato però inutile senza un'altra precauzione. Se Louis avesse semplicemente consegnato le azioni Rothschild a una società finanziaria inglese, in caso di guerra le leggi inglesi che proibivano i rapporti economici con il nemico avrebbero potuto consentire il sequestro di quella proprietà in quan-to infetta di tedeschi. Louis, prevedendo questa possibilità già negli anni trenta, in piena pace, aveva prima operato qualche smistamento su terreno finanziario svizzero e olandese. Da questi paesi - che nella seconda guerra mondiale dovevano rimanere neutrali o essere occupati dagli Alleati - venne effettuato il trapasso finale.

Vitkovice diventò una società sussidiaria dell'Alliance Insurance.

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Ma l'Alliance era, ed è, una grande società per azioni londinese, regi-strata sotto la legge inglese, protetta dal governo di sua maestà bri-tannica, però in gran parte di proprietà - e qui, naturalmente, sta il bello - di quegli stessi Rothschild che avevano venduto Vitkovice.

Napoleone e Bismarck avevano dovuto cedere le armi davanti alla Famiglia. Goring, se non il più grande certo il più grosso fra gli avversari del clan, non se la cavò meglio. Il Reichsmarschall do-vette ritirarsi non solo davanti all'astuzia ebraica, ma anche davanti a un camerata ariano. Heinrich Himmler si stava facendo largo a forza di gomiti.

ENTRA IN SCENA HEINRICH HIMMLER

Sul principio del 1939 Otto Weber, l'emissario di Goring, fu arrestato. Evidentemente fra i nazisti si stava risolvendo un conflitto intestino per decidere chi dovesse dirigere l'operazione Rothschild; Berlino doveva aver tolto la direzione a Goring per darla a Him-mler. Indifferente al mutamento di giurisdizione, la Famiglia tenne fermo ai termini già posti : tutti i normali beni Rothschild in Austria sarebbero stati consegnati in cambio della salvezza personale di Louis; il controllo di Vitkovice sarebbe stato ceduto solo dopo la scarcera-zione del prigioniero... e per tre milioni di sterline.

Berlino protestò, minacciò; dopo l'invasione della Cecoslovacchia, truppe tedesche occuparono addirittura Vitkovice. Ma i giuristi te-deschi sapevano che la bandiera britannica e la legge internazionale stavano ancora fra loro e il possesso legale.

Venne così tentata un'altra via. Mentre la stampa tedesca lan-ciava fuoco e fiamme contro Rothschild, flagello dell'umanità, nella cella di Louis avvenne un fatto curioso. La porta si aperse, per la-sciar entrare Heinrich Himmler. Himmler augurò il buon giorno a Herr Baron, offerse a Herr Baron una sigaretta, gli chiese se avesse da esprimere desideri o lagnanze; e, da celebrità a celebrità, cercò di risolvere quegli insignificanti problemi che potevano frapporsi alla loro buona armonia.

Però Herr Baron, da sempre fumatore accanito, quella mattina non aveva nessun desiderio d'una sigaretta. La sua parsimoniosità di

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parole diventò particolarmente acuta. Studiò con freddezza la faccia bieca dell'interlocutore. « L'amico » avrebbe detto più tardi « aveva un orzaiolo e cercava di nasconderlo. » Quando Herr Himmler si congedò con un inchino, la posizione di Rothschild nei riguardi di Vitkovice non era cambiata neppure d'un'ombra.

Nuove blandizie vennero a rallegrare la piccola, nuda cella del barone. Un'ora dopo che il capo se n'era andato, un piccolo distac-camento di "granatieri" entrò curvo sotto il peso di un enorme e malridotto orologio Luigi XIV; tornò poi con un grosso vaso Lui-gi XV che con l'orologio ci faceva a pugni; coperse poi il lettuccio della prigione con una spessa coltre di velluto arancione, sulla quale sparse cuscini multicolori. Ultima venne una radio, intorno alla cui base era stata cucita una sorta di gonna di seta.

Questi furono i frutti degli onesti sforzi di Himmler intesi a far si che Rothschild si sentisse come in casa propria. Quegli sforzi eb-bero un risultato: per molte settimane Louis aveva sopportato stoi-camente le sue traversie; adesso esplose. « La stanza pareva un bor-dello di Cracovia! » La frase, spesso ripetuta negli anni venturi, por-tava uno dei rarissimi punti esclamativi cui Louis si lasciò andare nella sua lunga vita.

Tutto (tranne la radio, che il barone svestì di sua mano) fu por-tato via su insistenza del prigioniero. Forse fu anche quel fiasco a convincere le SS alla resa. Poche sere dopo, verso le undici, il capo delle guardie di Louis annunciò che le condizioni poste dai Roth-schild erano state accettate e che il barone era libero di andarsene.

Come ringraziamento, Louis gettò i suoi carcerieri nella confu-sione. Era troppo tardi, disse, per pretendere che uno dei suoi amici lo ospitasse; dopo tutto, a quell'ora la servitù era già a letto. Avreb-be dunque preferito andarsene la mattina dopo. Siccome nelle car-telle della Gestapo non c'era nessun precedente d'una richiesta d'al-loggio per una notte bisognò telefonare a Berlino. Louis trascorse la sua ultima notte al quartier generale come ospite non pagante.

Di lì a pochi giorni un aereo lo deponeva sul suolo svizzero; e due mesi dopo, nel luglio 1939, il Reich iniziava le operazioni per acquistare Vitkovice al prezzo di 2.900.000 sterline.

Siccome la guerra scoppiò quasi immediatamente, il contratto non diventò mai effettivo; ma tecnicamente il trapasso di Vitkovice sotto proprietà inglese conserva la sua validità ancor oggi. Dopo aver

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assunto il potere, i comunisti cecoslovacchi nazionalizzarono il com-plesso industriale; ma nel 1953 Londra firmò con Praga un trat-tato commerciale e una delle clausole stabiliva che dovevano essere soddisfatte le rivendicazioni dei proprietari inglesi di beni confiscati, fra i quali Vitkovice veniva per importanza al primo posto. Praga fu d'accordo. Il parlamento inglese votò quindi una legge che auto-rizzava un agente inglese (come l'Alliance Insurance) a raccogliere indennizzi in nome dei proprietari non inglesi (come i Rothschild ex austriaci, ora naturalizzati americani). Oggi la Famiglia, che rimane uno dei più grossi "nomi" del capitalismo mondiale, riceve da un governo comunista indennizzi che, tutto finito, ammonteranno a un milione di sterline.

Scarcerato, Louis visse l'esistenza d'un principe da libro di fiabe dopo che ha ucciso il drago. Si stabilì in America, dove il barone viennese diventò un yankee bene (non più corse con la sotterranea), lo scapolo viziato dalle donne, un marito non giovanissimo ma molto felice; nel 1946 sposò infatti la contessa Hilda von Auersperg, una delle donne più attraenti dell'aristocrazia austriaca.

La coppia visitò l'Austria negli anni di fame seguiti al crollo del nazismo. La notizia del ritorno del barone si sparse rapidamente, e una folla si raccolse davanti all'albergo, chiedendo pane. Con un gesto generosissimo, Louis glielo diede: donò al governo austriaco tutte le sue proprietà nel paese. Accettando la condizione che ac-compagnava il dono, il governo varò una legge speciale con cui tutti i beni Rothschild venivano convertiti in un gigantesco fondo pen-sioni amministrato dallo stato; esso assicura agli ex domestici e im-piegati di Louis le stesse sicure entrate di cui godono i pensionati statali.

Poi Louis tornò alla sua fattoria di Fast Barnard, nel Vermont. I monti del New England gli ricordavano le Alpi, il riserbo degli abitanti ne faceva compagni adatti al suo temperamento; professori d'arte e di botanica venivano in visita da Dartmouth, e il fratello barone Eugene (ancora vivo, e marito di una "stella" del palcoscenico inglese, Jeanne Stuart) veniva spesso a trovarlo dalla tenuta di Long Island. La baronessa Hilda aveva creato un delizioso giardino e qual-cosa che un tempo Louis dubitava di poter mai trovare di suo gusto : una casa, una casa vera, per una famiglia. Questa invece gli piaceva. Negli ultimi anni della sua vita, i Rothschild diedero persino feste sull'aia, e il barone ballò al suono di rustiche arie con la stessa

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grazia composta con cui un tempo aveva danzato il valzer sui par-quet viennesi. Morì, più che settantenne, come dovrebbe morire ogni gran signore: nuotando nella Montego Bay, sotto l'azzurro perfetto dei Caraibi.

DINASTIA IN ARMI

Naturalmente la guerra sconvolse l'esistenza della Famiglia anche in Francia e in Inghilterra. Nel 1940, quando i carri armati tedeschi entrarono in Parigi, i Rothschild francesi si trovarono in grave peri-colo. I più anziani, Edouard, Robert e Maurice (tutti nipoti del fon-datore James), riuscirono a fuggire, e per mille strade, con mille tappe, finirono negli Stati Uniti o in Inghilterra.

Maurice si rivelò, come uomo d'affari, non meno efficiente di quanto era stato brillante come play boy. Fuggendo in Gran Bretagna aveva portato con sé un sacchetto contenente gioielli per un valore, a quanto si dice, di circa un milione di dollari. Ne vendette buona parte; e per alcuni anni fece continue telefonate al suo agente. Quan-do tornò in Francia dopo la guerra, aveva trasformato quei gioielli in una nuova fortuna, di proporzioni imponenti anche a misurarle con il metro Rothschild.

I vecchi membri del clan cavarono dalla guerra il meglio che se ne poteva cavare. I giovani, che aiutarono a combatterla, ne videro il lato peggiore, come i soldati di tutte le parti del mondo. I figli di Robert, Elie e Alain, facevano parte delle truppe che guarnivano la Linea Maginot, ed entrambi furono prigionieri di guerra in Germania. I tedeschi - forse memori della prova che Louis aveva dato di sé nella sua carriera di ostaggio - non esercitarono su di loro particolari pres-sioni. Il figlio di Edouard, Guy, fu preso nella trappola di Dunker-que. Fuggì; nel 1941 riuscì a raggiungere New York; quando si formò il Movimento francese libero partì per l'Inghilterra con una nave che fu silurata durante la traversata dell'Atlantico; nuotò per tre ore, finché fu raccolto da un cacciatorpediniere inglese; eseguì molte missioni di fiducia per conto di De Gaulle (e ha mantenuto stretti legami con il generale); combatté per due mesi in prima linea dopo lo sbarco alleato in Normandia; finì la guerra come aiutante del governatore militare di De Gaulle a Parigi.

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Non meno movimentate, ma più indicative del temperamento della Famiglia, furono le avventure di guerra di altri Rothschild. « Noi siamo soprattutto degli organizzatori» dice il barone Philippe1 di Mouton Rothschild quando la conversazione cade su quest'argomento. «Non facciamo altro tutta la vita. E prendiamo scorciatoie anticon-venzionali - bum! - che scombussolano i burocrati militari. »

Il barone Philippe parla per esperienza. Quando, nel 1940, guarì da una grave ferita riportata in un incidente sciistico, Parigi bruli-cava di tedeschi. Fuggì in Marocco, dove il governo di Vichy lo arrestò su richiesta della commissione d'armistizio tedesca. In pri-gione cominciò a dar prova delle sue abilità organizzando corsi di lingue e di ginnastica; fra i compagni di prigionia che aiutò a far passare il tempo ce n'era uno chiamato Pierre Mendès-France. Fu riportato in Francia e rilasciato; si rifugiò in Spagna dopo una cam-minata di quarantadue ore attraverso i Pirenei in compagnia di con-trabbandieri (ai quali, incidentalmente, suggerì alcuni miglioramenti da apportare alla tecnica del contrabbando); sopravvisse, e collaborò alla direzione di parecchie prigioni spagnole; fuggì in Portogallo, e da lì raggiunse con una nave l'Inghilterra. In Inghilterra si unì a De Gaulle e venne acquartierato al Free French Officers' Club, al numero 107 di Piccadilly; che era, manco a dirlo, una casa della Famiglia, e nella fattispecie della prozia Hannah. Conoscendo a me-nadito la casa fin negli angoli più remoti - bum! - Philippe si ac-cinse immediatamente al compito di cambiare tutta la sistemazione, senza preoccuparsi di informarne l'ufficiale comandante. Gli alti pa-paveri francesi non apprezzarono molto questa intraprendenza cro-nica, e il giorno dello sbarco alleato in Normandia trovò Philippe confinato in qualche noioso servizio di retrovia. Gli inglesi, però, più sensibili alle sue doti di organizzatore, lo levarono subito di là per affidargli la direzione degli affari civili nella difficile zona di Le Havre durante i primi mesi dell'invasione. Oggi il barone porta la Croce di guerra ed è officier della Legion d'onore.

Fra i Rothschild inglesi, Edmund (nipote del dolce Leo) e lord Victor (nipote di Natty) erano in età di portare le armi; entrambi avevano ereditato una discreta porzione della prepotenza di famiglia. Edmund, oggi capo della banca inglese, partecipò alle campagne

1 Philippe è pronipote di quel Nathaniel inglese che si trasferì in Francia, e i cui discendenti sono quindi inglesi per genealogia, francesi per cittadinanza.

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d'Italia e del Nord-Africa con il grado di maggiore d'artiglieria. La più caratteristica descrizione di un Rothschild alle prese con la ge-rarchia militare riguarda lui. « Eddy » ricorda un compagno d'armi « era uno dei nostri migliori ufficiali. Ma "procedere per via gerar-chica", questa fu una cosa che non imparò mai. Ogni volta che uno dei nostri uomini si trovava in un caso d'emergenza - gli era morta la madre, mettiamo, e aveva bisogno d'una licenza e di soldi - mica che andasse per vie normali. No, andava dritto filato da Eddy, anche se era di un'altra unità. Sapeva che avrebbe tirato fuori di tasca il suo famoso libretto degli assegni o si sarebbe attaccato al telefono -appena volava una mosca, ci si attaccava - e avrebbe chiamato Buckin-gham Palace. "Ma Eddy," gli dicevo sempre "non puoi fare così. Dobbiamo riempire un modulo, e mandarlo con la tua raccomanda-zione all'ufficiale comandante." "Che c'entra l'ufficiale comandante?" rispondeva lui. Nel momento in cui faceva qualcosa di "civile", non riusciva assolutamente più a capire cosa sia un superiore. »

« Se posti a comandare sono uomini stupendi, » giudicò un altro osservatore dei guerrieri della Famiglia « sottoposti, possono invece essere dei tremendi lavativi. Sono nati e allevati come feldmarescialli, e per loro essere solo maggiori è un problema. Ci saremmo rispar-miati un sacco di guai, se quel nome avesse comportato automatica-mente un grado abbastanza alto. »

A un certo punto, gli stessi Rothschild dovettero conoscere l'osti-nazione propria del loro clan. Scena dell'episodio, lo splendido pa-lazzo parigino di Robert de Rothschild al 23 di avenue de Marigny, oggi residenza del figlio maggiore Alain. In contrasto con tutti gli altri palazzi Rothschild sulle rive della Senna, questo sopravvisse al-l'occupazione quasi intatto. Goring, sempre felice quando poteva mandare i suoi ragazzi a seminar rovine nelle proprietà Rothschild, ci aveva alloggiato il comandante della Luftwaffe in Francia; fatto sorprendente, il comandante lasciò il palazzo più o meno come l'aveva trovato. Lo stesso Goring, che di regola faceva man bassa di quello che trovava nei palazzi Rothschild, non portò via mai niente - no-nostante le frequenti visite - dalla casa di avenue de Marigny, che fu poi risparmiata anche durante le scaramucce che accompagnarono la liberazione.

I guai cominciarono dopo. Nel palazzo fu alloggiato un giovane tenente colonnello inglese, che portò con sé un pericoloso labora-torio; nelle immediate vicinanze di mobili preziosi e di quadri di va-

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lore inestimabile, egli iniziò esperimenti con potenti esplosivi. Il ba-rone Robert non era ancora tornato, e il personale di casa svolgeva i suoi compiti tremando ai bagliori e agli scoppi che uscivano dal laboratorio del colonnello. Il giovanotto era uno di quei tipi che quando fanno una cosa la fanno sul serio; e non era facile sloggiarlo. Si trattava d'uno dei più abili e audaci artificieri; i suoi successi gli avevano guadagnato la George Medal (un'alta decorazione inglese) e le decorazioni statunitensi della Bronze Star e della Legion of Me-rit. Ma ciò che più intimidiva il personale del barone Robert era il fatto che il colonnello si chiamava... lord Victor Rothschild.

Le autorità d'alloggio avevano creduto di dar prova di squisita sollecitudine sistemando il colonnello in casa di suo cugino; non avevano tenuto conto dell'ostinazione con cui i membri della Fami-glia perseguono i loro obiettivi. Ci vollero gli sforzi riuniti del co-mando supremo britannico e della sezione per la manutenzione di monumenti, opere d'arte, archivi per trasferire colonnello e labora-torio in un ambiente più adatto.

IL PALAZZO COME SOUVENIR

Il movimentato soggiorno di lord Rothschild in avenue de Ma-rigny fu il postludio a una situazione senza precedenti nel mondo dell'arte. Come molti ebrei in fuga dopo la caduta della Francia, i Rothschild dovettero lasciarsi dietro la maggior parte dei loro beni; fra questi, occupavano un posto di primo piano le collezioni d'arte, del valore di molti milioni di dollari. Come difenderle dai saccheggi nazisti?

In realtà, con tipica preveggenza, la Famiglia aveva cominciato, parecchie generazioni innanzi, a pensare alla difesa dei suoi tesori d'arte. Fin dal 1873, dopo la Comune di Parigi, il barone Alphonse s'era convinto che le sue immense raccolte avevano bisogno d'una protezione adeguata; così, per ogni quadro, scultura o objet era stata fatta una cassa su misura, imbottita in modo speciale e facilmente trasportabile. Siccome per ogni nuovo acquisto veniva immediata-mente preparata la relativa cassa, i vari musei Rothschild si volati-lizzarono completamente durante la prima guerra mondiale e le crisi del Front Populaire negli anni trenta.

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Ma questi primi allarmi erano stati rose e fiori; quando i carri armati tedeschi fecero il loro ingresso a Parigi, nell'estate del 1940, un nemico particolarmente rapace cominciò ad allungare le mani sul-le tele e i marmi dei Rothschild.

In qualche caso fu lasciato a bocca asciutta. Parecchi quadri ven-nero rapidamente trasferiti in ambasciate straniere, come la spagnola e l'argentina, dove furono gelosamente custoditi sino alla fine della guerra. Alcuni pezzi preziosissimi trascorsero quegli anni in una stanza segreta del palazzo di avenue de Marigny. I servitori che conoscevano l'esistenza del locale non si lasciarono mai sfuggire una parola, e Goring stesso passò più volte davanti alla libreria che 10 separava dai ritratti per i quali i suoi agenti stavano setacciando tutta l'Europa.

Ma per la maggioranza dei tesori Rothschild tutte le precauzioni furono inutili. Un numero notevole di pezzi importanti, per esem-pio, fu trasferito al Louvre per essere protetto come proprietà na-zionale francese, ma lo stratagemma non servì: i capolavori di pro-prietà della Famiglia erano così famosi, e il dittatore tedesco così amante dell'arte, che Hitler emanò una direttiva speciale riguardante i beni "nazionalizzati" dei Rothschild. In un documento poi caduto in mani alleate, il capo del comando supremo tedesco, Keitel, dava al governo militare nazista della Francia occupata le istruzioni se-guenti :

In supplemento all'ordine del Fiihrer di frugare... i territori occupati in cerca di materiale prezioso per la Germania (e di salvaguardarlo attraverso la Gestapo), il Fiihrer ha deciso: I trasferimenti di proprietà allo stato francese o trasferimenti consi-mili perfezionati dopo il 1° settembre 1939 non sono validi1. Le ri-serve mosse, sulla base del motivo sopraddetto, alla ricerca, al seque-stro e al trasporto in Germania non saranno riconosciute. 11 Reichleiter Rosenberg ha ricevuto dal Fiihrer in persona chiare istruzioni concernenti il diritto di sequestro; è autorizzato a traspor-tare in Germania beni culturali che gli sembrino di valore, e a cu-stodirli là. Il Fiihrer si riserva di deciderne l'uso.

Alfred Rosenberg, saccheggiatore capo per nomina speciale di Hitler, fece bene il suo lavoro. Il barone Edouard aveva nascosto la

1 E questo età appunto il caso dei beni del palazzo R-Othschild.

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maggior parte delle opere d'arte in suo possesso negli annessi della sua scuderia di Haras de Meautry in Normandia; il barone Robert aveva celato molti tesori, specialmente tolti da Chàteau Laversine vicino a Chantilly, a Marmande nel sud-ovest della Francia. Rosen-berg scoperse tutt'e due i nascondigli, oltre a molti altri, e presto treni interi pieni di oggetti preziosi correvano verso la Germania.

Dopo la liberazione della Francia, si vide che i castelli e le di-more di città dei Rothschild, con la sola eccezione di quella in ave-nue de Marigny, erano stati letteralmente vuotati. Il processo di re-cupero, iniziato immediatamente e durato molti anni, potrebbe for-nire il materiale per una lunghissima storia poliziesca.

Lo Sherlock Holmes dell'operazione fu James J. Rorimer, allora Fine Aris Officer addetto alla VII Armata americana, adesso direttore del Metropolitan Museum of Art di New York. Rorimer arrivò a Parigi poco dopo la liberazione e subito si mise al lavoro per sco-prire dove si trovassero le opere d'arte prese dai tedeschi. Interrogò gran numero di persone, e fra una folla di sedicenti bene informati, ciascuno dei quali assicurava di poterlo mettere sulle tracce di qual-che centinaio di Goya, scelse una ragazza, Rose Valland : giovane stu-diosa di storia dell'arte, che aveva aiutato i tedeschi a stabilire il valore del loro bottino; ma, appartenendo alle organizzazioni clande-stine, Rose aveva anche allungato le orecchie e aguzzato gli occhi per cercar di sapere dove quel bottino sarebbe stato portato. Pensava che il castello di Neuschwanstein, vicino a Fiissen in Baviera, fosse il principale punto di raccolta dei capolavori arianizzati.

Circa nove mesi dopo la Baviera cadde, e Rorimer raggiunse il castello con una jeep. Neuschwanstein, costruito da Ludovico il Paz-zo di Baviera in stile pseudogotico, e appollaiato come un maligno fantasma in cima a un picco, rappresentava un pittoresco sfondo a ciò che Rorimer stava per scoprire. Dopo avere traversato due cortili messi in comunicazione da un'intricata fuga di scale e salito una scala a chiocciola ch'era l'ideale per far ruzzolare cospiratori masche-rati, Rorimer raggiunse finalmente la stanza che cercava: qui era il centro nervoso del piano di saccheggio di Hitler.

Fedeli alla loro reputazione di metodicità, i tedeschi avevano riempito la stanza di file su file di schedari. Avevano conservato con atra ed usato i cataloghi di tutte le 203 collezioni private portate in Germania. Rorimer, uno dei massimi esperti in questo campo, im-

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piegò un giorno intero a dare una prima occhiata d'insieme a ciò ch'era conservato in questi archivi: 8.000 negative e schede indivi-duali per quasi 22.000 pezzi confiscati. I Rothschild, con quasi 4.000 pezzi importanti, battevano di parecchie lunghezze tutte le altre vittime del fervore nazista per le belle arti.

Nella stessa stanza venne fatta un'altra importantissima scoperta. Frugando nella cenere di una stufa a carbone, Rorimer ne trasse al-cuni oggetti: i resti di un'uniforme nazista, un documento mezzo bruciato con la firma di Hitler e alcuni timbri di gomma. Que-sti timbri semicarbonizzati si rivelarono la chiave del più grande furto d'arte organizzato della storia; Rorimer osservò infatti che reca-vano segni convenzionali indicanti il sito di altri nascondigli. Una piccola stanza in un castello di montagna conteneva i segreti che avrebbero messo sulla strada di innumerevoli e incalcolabili tesori. Per impedire l'accesso a persone non autorizzate, Rorimer sigillò la porta con un antico sigillo Rothschild, col motto "Semper fidelis".

Vennero iniziate le ricerche. Dietro la stufa della cucina del ca-stello Rorimer trovò Le tre Grazie di Rubens, della collezione di Maurice de Rothschild, e altri capolavori. Ma non tutti i pezzi della Famiglia erano nascosti in luoghi così strani. In una sala del castello c'erano file di rarissimi parafuoco ricamati, portati via da varie case Rothschild. Altrove mobili Rothschild, soprattutto Luigi XV e Lui-gi XVI, erano accatastati sino al soffitto in incastellature apposita-mente costruite. C'erano scatole su scatole di gioielli Rinascimento e di tabacchiere del Settecento tutti appartenenti alla collezione di Maurice.

Altri tesori erano conservati altrove. Nel monastero certosino di Buxheim, la cappella era piena di tappeti, arazzi e tessuti in gran parte di provenienza Rothschild. In una miniera di sale vicino ad Alt Aussee in Austria i ricercatori trovarono enormi depositi custoditi in nome del Fiihrer e contenenti, fra altre cose, sculture, libri e dipinti di pro-prietà Rothschild.

Naturalmente, il contenuto di alcuni nascondigli era stato trasfe-rito altrove poco prima della sconfitta, e spesso le ricerche furono lun-ghe, difficoltose, in qualche caso inutili. Ma la massima parte dei beni della Famiglia cominciarono a far ritorno in Francia da tutti gli an-goli della Germania, convergendo a Parigi e qui a uno speciale luogo di raccolta per le opere d'arte recuperate. Un comitato coordinatore

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di maggiordomi di varie case Rothschild vi lavorò per settimane a identificare questo Watteau come proprietà del barone Guy, quel Picasso come del barone Elie... e quel Tiepolo era del barone Phi-lippe o del barone Alain?

E su questa nota rassicurante chiudiamo la storia dei Rothschild nella seconda guerra mondiale.

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Una dinastia "si adegua"

DECADENZA E RIPRESA

Nel 1945 le cose stavano tornando alla normalità. Ma che cosa si doveva intendere per normalità, nei termini della Famiglia? Forse la grandiosa decadenza iniziata negli anni venti e nei trenta? Forse i Rothschild, come gli Absburgo, avrebbero vissuto d'ora innanzi solo nel passato e del passato?

Per qualche tempo parve che dovesse essere appunto così. I mem-bri del ramo austriaco, emigrati, vivevano senza figli nelle tenute di Long Island (il barone Eugene e la moglie) e del Vermont (la vedova del barone Louis); il ramo di Gran Bretagna era alle prese col pro-gramma di austerity, la Casa francese, in parte liquidata dall'occupa-zione nazista, era sulla via d'una difficile convalescenza. Le tasse di-ventavano più feroci che mai, e altri grandi dimore Rothschild dovet-tero essere sacrificate.

La casa di Hamilton Place, costruita da Leo, diventò uno dei più lussuosi club londinesi (eminenti personaggi àél'Expense Account si appoggiano adesso alla balaustra intagliata a mano lungo la quale era solito scivolare Edoardo VII. Un'altra residenza già Rothschild, ai Kensington Gardens, è oggi - 0 tempora! o mores! - sede dell'am-basciata sovietica. Nel Buckinghamshire, Waddesdon Hall, ereditata dal pittoresco Jimmy, era diventata più splendida che mai grazie ai nuovi capolavori dell'arte francese ch'egli vi aveva profuso; ma quan-do Jimmy morì senza figli nel 1957, le tasse di successione fecero diminuire l'entità del suo patrimonio di oltre venti milioni di dol-lari. Nessun privato, né dentro né fuori la Famiglia, poteva per-mettersi di mantenere una dimora simile; Jimmy la lasciò dunque al National Trust, insieme a 750.000 sterline (due milioni di dol-lari) destinate a coprirne in parte le spese di mantenimento. Oggi i turisti puntano gli obiettivi delle macchine fotografiche sulla scala su cui Edoardo VII si ruppe la caviglia. La vedova di Anthony de Rothschild vive ancora a Ascott Wing, acquistata dal suocero Leo;

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ma anche questa casa, con la sua eccezionale raccolta di maestri olan-desi e la più grande collezione del mondo di porcellane orientali (e un pappagallo che annuncia con grande maestà: "I-am-Jack-O'Roth-schild!") è stata ceduta al National Trust.

E in Francia? L'immenso palazzo al numero 2 di rue Florentin, vicino a Place de la Concorde, ha subito la sorte di tutti i palazzi di quelle proporzioni. Prima che Edouard de Rothschild ne facesse la sua residenza di città, vi aveva vissuto Talleyrand. Quando Edouard la mise in vendita, solo un compratore potè permettersi di pagare la cifra richiesta : lo zio Sam. Il palazzo è diventato il quartier gene-rale europeo del Piano Marshall; oggi è la sede della Missione Sta-tunitense presso la NATO e le organizzazioni regionali europee. La grande casa di Henry de Rothschild al 33 di rue du Faubourg St.-Ho-noré ospita oggi il Cercle Interallié, un fastoso club diplomatico in-ternazionale. Nella stessa strada, l'ambasciata statunitense ha sede al numero 41, in una casa costruita dal primo barone Edmond. I mono-grammi Rothschild ornano ancora i grandi portali di entrambe le case.

E Ferrières, la più stupenda fra le dimore dei Rothschild? Nes-suno era tanto ricco da comprarla, né d'altra parte il ramo francese era disposto a separarsi da un bene di tale valore simbolico. Le cin-quantanove casse di libri rari che i tedeschi avevano portato via erano tornate alla base, insieme alle enormi raccolte di maioliche italiane e di quadri, anch'esse saccheggiate dai tedeschi. Tutte que-ste meraviglie rimasero nelle casse, e il castello restò chiuso, ridotto a poco più d'un magazzino. Nel 1949 un visitatore americano ne percorse le sale disabitate. Sulle prime si trovò in mezzo a un tic-chettio di meccanismi; credette di essere finito in un museo d'orologi, finché il custode gli spiegò che si trovava semplicemente nella sala dov'erano immagazzinati tutti gli orologi del castello. Poi fu la volta d'una sfilata interminabile di sedie Luigi XIV e Luigi XV; un'al-tra sala ancora era gremita di tavoli. Infine il visitatore vide parecchie decine di oggetti di leggiadrissima fattura, in bois de rose e in an-tica porcellana cinese. Sussultò, tornò a guardare... e capì il sorriso del custode: era in mezzo a una collezione dei più raffinati bidet del mondo.

Per anni, Ferrières significò lusso in naftalina. L'età esistenzialista non incoraggiava, a quel che pareva, a mantenere in funzione castelli da libro di fiabe; pareva anzi avviata a coinvolgere anche la Famiglia

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nel generale processo di livellamento, a ridurla ad una raccolta di mediocri sopravvissuti.

Invece i Rothschild si ripresero una volta di più; nello stupore generale, ancora una volta ridivennero se stessi. Tornò ad affermarsi l'antica, l'irresistibile astuzia della Famiglia; e nel 1949 si manifestò tronfalmente, nei modi tradizionali e nel luogo tradizionale: la Bor-sa valori.

Il 30 giugno 1949, alla Borsa di Parigi accaddero strane cose. Non appena la campana segnalò l'inizio delle contrattazioni, i titoli della Royal Dutch, la compagnia petrolifera mondiale, cominciarono a scendere; altrettanto fecero quelli del grande combine metallurgico Rio Tinto. Non c'era assolutamente nessun motivo per questo ribasso; entrambe le società godevano ottima salute. Tuttavia le azioni conti-nuarono a scendere. Ordini di vendita fecero ribassare il prezzo an-che di altri titoli: Le Nickel, gigantesca società mineraria, perdeva quota a ritmo ininterrotto, e lo stesso si dica per il trust diamanti-fero de Beers. La sorpresa lasciò rapidamente posto al nervosismo, poi al panico generale. La maggior parte degli investitori si unì alla corsa alle vendite; le quotazioni raggiunsero il livello più basso che avessero toccato da parecchi mesi.

Pochi seppero isolare il fattore comune a tutt'e quattro le società le cui azioni stavano precipitando: il fatto cioè che la Famiglia era, di tutt'e quattro, uno dei principali azionisti. Solo i proprietari di grossi pacchetti di quelle stesse azioni erano al corrente della morte di Edouard de Rothschild, avvenuta - a ottantun anni d'età - proprio quel giorno; loro sapevano che le tasse di successione avrebbero in-taccato il patrimonio del barone e quindi il potenziale delle società da lui finanziate. Ridurre al minimo la perdita era il compito all'or-dine del giorno.

La mattina seguente tutti lessero in prima pagina la notizia della morte del barone; nel parlare della tassa di successione che gli eredi avrebbero dovuto pagare, le rubriche finanziarie osservavano che l'im-porto della tassa sui pacchetti azionari del defunto sarebbe stato cal-colato in base al prezzo di chiusura delle azioni il giorno del decesso. E mentre venivano date le ultime disposizioni per le esequie, gli agenti di cambio ricevettero ordini d'acquisto dalle stesse fonti che ventiquatt'ore innanzi avevano dato ordine di vendere. Le quotazioni dei cosiddetti titoli Rothschild salirono con la stessa puntualità con cui erano calate.

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Di punto in bianco - e senza preavviso, benché con molti prece-denti nella storia della Famiglia - ebbe inizio una di quelle spetta-colose riprese che già altre volte avevano riportato il clan, da una posizione di coda, a quella di testa cui era ormai avvezzo. Nel 1855 s'era levato a schiacciare il suo tormentatore, il Crédit Mobilier. Un centinaio d'anni dopo si destò alla vendetta contro un altro nemico: il mondo del ventesimo secolo. Fu il nemico stesso a mettere a di-sposizione i mezzi di quella vendetta; e il primo di cui un Rothschild si valse fu il più grigio, il più squallido strumento della vita quoti-diana di una grande città. Un giorno di quello stesso 1949, il capo della banca londinese mandò il maggiordomo a comprargli una pianta della sotterranea di Londra; quest'oggetto plebeo diventò parte inte-grante dell'equipaggiamento quotidiano di Anthony de Rohtschild, non meno del libretto degli assegni. Per gli spostamenti in città, non si servì più della limousine e dello chaffeur; evitò così i ritardi do-vuti al traffico, e riuscì in parecchi casi ad arrivare a destinazione prima dei concorrenti che s'erano fatti portare in macchina.

Fu questa rinnovata capacità di muoversi in fretta, di vedere ed afferrare per primo nuove possibilità, che valse ad Anthony la con-cessione per lo sfruttamento di 130.000 chilometri quadrati in Ca-nada. Attravèrso una catena di società finanziarie, New Court poteva adesso attingere a risorse immense di legname, d'energia, di mine-rali (specialmente uranio). Smallwood, il primo ministro di Terra-nova, definì la transazione « il più grosso affare in beni immobili avvenuto su questo continente nel giro d'un secolo » ; Winston Chur-chill, riferendosi alle proporzioni dell'impresa, parlò di «grandiosa concezione imperiale ».

Dopo la morte di Anthony la direzione degli affari della Fami-glia inglese passò al figlio Evelyn e ai nipoti Edmund e Leopold. Sotto i giovani triunviri, le attività della Famiglia prosperarono me-glio di prima; il loro nuovo impero canadese (più grande dell'In-ghilterra e del Galles insieme) è in via di rapido sviluppo. Edmund, il socio dirigente, ha inoltre intrapreso attività nuove; di recente, per esempio, si è assicurato una partecipazione al futuro sviluppo della televisione commerciale inglese. Nello stesso tempo bada a con-solidare più che mai la posizione di New Court come principale banca mediatrice per l'oro grezzo del Commonwealth, come proprie-tario e operatore della Royal Mint Refinery, come agente per l'oro della Banca d'Inghilterra e come banchiere-mercante.

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Ma i Rothschild francesi sono ancora più ricchi, e la loro ric-chezza ha cominciato ad aumentare a ritmo più rapido da quando il barone Guy ha preso le redini degli affari, alla morte del padre Edouard. Anche Guy è un campione d'energia, come gli altri membri del clan; e lo ha dimostrato anche nei riguardi dei suoi cavalli, po-nendo fine a un'umiliazione - e relativa diminuzione di prezzo - di cui essi soffrivano da anni. Durante la guerra, i tedeschi avevano ac-coppiato le fattrici Rothschild con gli stalloni di Marcel Boussac, il più grosso industriale tessile francese e il più temibile rivale dei Rothschild a Longchamps. Dopo, Monsieur Boussac decretò che quel-le unioni erano state irregolari. Il vecchio barone Edouard non riuscì a far registrare i suoi puledri nel libro genealogico dei purosangue, l'Almanacco di Gotha del mondo equino. Quando le scuderie passa-rono a Guy, questi esercitò pressioni così forti che l'albo degli alle-vatori francesi fece una cosa molto rara: cambiò idea. Oggi tutti i cavalli Rothschild sono stati pienamente legittimati.

Con altrettanta aggressività, Guy ha consolidato la posizione della de Rothschild Frères come massima banca privata francese. Suo prin-cipale strumento in Francia è la Compagnie du Nord, la rete fer-roviaria divenuta proprietà della Famiglia dopo che il capostipite James ne aveva finanziato la nascita. Come tutte le linee ferroviarie dei Rothschild, la Compagnie du Nord fu nazionalizzata (nel 1938); in cambio, i Rothschild ebbero 270.000 azioni delle Ferrovie dello stato francesi e un seggio al consiglio d'amministrazione. Ma il governo prese possesso solo di cose tangibili come le rotaie o il materiale rotabile; le società sussidiarie affiliate della Compagnie du Nord, e l'apparato organizzativo rimasero nelle mani della Famiglia, che attraverso questo apparato continuò a controllare - ha ripreso a farlo dopo la fine dell'incubo nazista - grandi interessi nell'industria me-tallurgica, mineraria e chimica.

La potenza di questi strumenti si è tuttavia rivelata in pieno solo dopo che Guy ne ha assunto il controllo. Dal 1950 il ramo di Parigi è alla testa del boom europeo.

«Ha introdotto una nuova concezione» dice Guy un alto fun-zionario della banca. « Un tempo, quando veniva fondata una so-cietà nuova, i Rothschild ne erano sempre i soli finanziatori, la svi-luppavano da soli; solo allora, pur mantenendone il controllo, ven-devano qualche azione. Oggi siamo una banca più importante che mai; ma è cresciuta, e anche più, anche l'entità dei fondi necessari

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per creare nuove società, sicché nessuna impresa privata è in grado di provvedere da sola al finanziamento. Questa è la ragione per cui dopo la prima guerra mondiale, i Rothschild non vollero partecipare al finanziamento di nuovi progetti. Adesso tutto è cambiato, Guy ha fatto proprio il concetto di partecipazione. Accetta il denaro al-trui fin dall'inizio; e svolge la funzione di promotore, di organizza-tore e di garante. Oltre al suo denaro, investe il capitale morale del suo nome. E naturalmente mantiene un rigoroso controllo. »

C'è poi il cugino di Guy, Edmond. Suo padre Maurice, pecora nera par excellence, gli ha lasciato in eredità il suo denaro, lo spi-rito d'iniziativa, l'anticonformismo, ma neanche un briciolo della sua cattiveria. Edmond ha fatto tesoro dell'eredità paterna. Non affi-liato alla banca Rothschild, è così fedele agli esempi di discrezione della Famiglia che sui portali di rue du Faubourg St.-Honoré, 45, non v e nessuna targa, nessun nome. Qui, nel suo "principale covo d'affari", il giovane barone in maniche di camicia dirige un perso-nale di 150 funzionari e aiutanti. Da questo quartier generale egli dirige la Compagnie Financière, un'organizzazione di portata mon-diale che costruisce ville, alberghi, oleodotti in Israele e case a Pa-rigi (per un totale, fino ad oggi, di oltre mille appartamenti), e fi-nanzia Continent, il periodico di diffusione europea, e banche e fab-briche automobilistiche brasiliane.

Fu Edmond a guidare la Famiglia in campi d'attività finora ra-ramente associati al suo nome. Se i Rothschild avevano superato con successo il confronto con tanti aspetti della vita alla metà del secolo -le tasse, il traffico, la televisione - perché non affrontarne anche un altro aspetto, la mania dei viaggi? Il lettore ricorderà che lo hobby della moglie di Maurice era stato la trasformazione di Megève nel più elegante luogo di soggiorno montano di tutta la Francia. Fra l'altro, la baronessa possedeva a Megève il Mont d'Arbois, un albergo di sontuosità veramente rothschildiana. Poco dopo il 1950 suo figlio Edmond decise di trasformare lo hobby in industria. Allargò i pos-sessi della Famiglia sui declivi del Monte Bianco e sta ora creando un nuovo luogo di soggiorno ultra chic, con skilift, piscine, campi di tennis e night. Inoltre investe denaro nel finanziamento e nello svi-luppo non di alberghi ma di intere regioni turistiche in Martinica e in Guadalupa, due isole delle Antille francesi. Con lord Rothschild per socio, ha creato a Cesarea, in Palestina, un lussuoso soggiorno marino.

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A voler essere sbrigativi, possiamo dire che Edmond è il più ricco dei Rothschild, e probabilmente l'uomo più ricco d'Europa. Questo simpatico pel-di-carota (ricordate il bisnonno dai capelli rossi, James il Bello?), che può godersi i piaceri della campagna nell'uno o nell'altro, a piacer suo, di due fiabeschi castelli - uno in Svizzera e uno in Francia - e che conta fra le residenze di città quella che fu la casa di Rubirosa a Parigi, si sta costruendo un'altra splendida di-mora in rue Elysée.

Altri fatti dimostrano che oggi la mishfiahà non vende bensì com-pra case. In rue de Courcelles il cugino di Edmond, Guy, ha appena finito di trasformare una casa del diciottesimo secolo in un nuovo palazzo Rothschild. Presto lord Rothschild si trasferirà in una nuova casa a Cambridge. La N. M. Rothschild & Sons di Londra è diven-tata troppo grossa per il vecchio e pur grande edificio di New Court; or non è molto ha preso un piano intero in un nuovo palazzo d'uffici per sistemarvi il settore dividendi.

E i bidet di bois de rose e di porcellana cinese hanno di nuovo una sistemazione degna di loro. Guy ha fatto però molto di più che rimettere in ordine i servizi igienici; con sei anni di lavoro, ha resti-tuito a Ferrières, perla fra le dimore del clan, tutto il suo anacroni-stico splendore. Le dimensioni della tenuta sono imponenti come sempre sono state; essa copre ancora quasi 36 chilometri quadrati di terreno suburbano, con una popolazione agricola di 600 persone. Do-dici giardinieri motorizzati esercitano la loro supervisione su una distesa a perdita d'occhio di parchi e laghetti, e cinque guardacaccia sorvegliano da mattina a sera le riserve. Lo zoo privato non c'è più, perché durante la guerra i tedeschi si portarono via tutti gli animali. Non c'è più neanche il treno che portava il cibo dall'edificio delle cucine al castello attraverso un tunnel sotterraneo: nel nostro secolo che elimina le occasioni di esercizio fisico, i cuochi sono stati trasfe-riti nell'edificio padronale.

Tolte queste modifiche, Ferrières è tornata quella d'un tempo. An-che il guardaroba presso l'entrata ha ritrovato la sua frivolezza: ca-ricature dei membri attuali della Famiglia ne tappezzano le pareti. Altre caricature, per la maggior parte di appartenenti alla Famiglia (ma con notevoli eccezioni, come il ritratto spietatamente fedele di Elsa Maxwell), decorano il vicino gabinetto di decenza tappezzato di seta, dove, per dirla con uno dei Rothschild, « possono essere osser-vate con tutto l'agio e la comodità ».

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Chi mette piede nel castello, potrebbe credere di essere tornato di colpo al tempo di Watteau. La successione di sale degne d'una di-mora imperiale; i lampadari, foreste sospese d'oro cesellato e di cri-stallo; le serie panoramiche di meravigliose camere per gli ospiti; la profusione di tessuti preziosi, di Gobelin, di oggetti intarsiati d'oro, d'avorio, di tartaruga; la lussuosa decorazione delle pareti alternata alle scene idilliche di là dalle finestre, con i cigni che turbano di lievi onde la superficie di limpidi laghi, e i rubinetti delle stanze da bagno in argento massiccio... Robespierre, chi era costui? È proprio vero che un giorno la Bastiglia è stata presa d'assalto?

LA "MISHPAHÀ" DEGLI ANNI '60

Nel giugno 1959, come primo evento della prima settimana della stagione mondana estiva - quella che i francesi chiamano la grande semaine - Guy de Rothschild riaperse il principale palazzo di cam-pagna della Famiglia. Alla festa d'inaugurazione di Ferrières assistet-tero tutti i membri parigini della Famiglia. Un osservatore avrebbe notato che non solo il castello ma anche il proprietario possedeva in grado leggermente superiore alla media le qualità proprie del ramo francese. Lo chef de famille è - giusto un'ombra più dei cugini Elie, Alain e Edmond - snello e rapido nei movimenti; il suo bel profilo ha nel naso ardito il segno dei pronipoti di James. Il membro più anziano della famiglia francese - ha cinquantadue anni - è anche gen-tile, urbano, inscrutabile, impeccabile e baronale; benché un tantino freddo, come lo fu il cugino viennese Louis, dà l'impressione di un uomo dalla vita galante piuttosto intensa; e ancor più interessante lo ha reso di recente uno scandalo.

È stato, naturalmente, uno scandalo da gente bene. Guy ha divor-ziato dalla prima moglie Alix per sposare una divorziata, la contessa Marie-Hélène van Zuylen Nicolai, lei stessa discendente da una con-troversa unione Rothschild di alcune generazioni innanzi. In en-trambi i casi la controversia si imperniò sulla religione cattolica delle spose Rothschild. Guy ha dovuto dimettersi dalla presidenza della comunità ebraica in Francia, e alla contessa Nicolai è stata neces-saria una dispensa papale - privilegio sempre riservato alle malmari-tate o ai maleammogliati di gran nome - per annullare il vincolo che

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ostacolava la sua unione con un ebreo. Per la prima volta nella storia dei Rothschild francesi, un capo di famiglia sposava una donna di fede diversa. Dal punto di vista dell'ortodossia religiosa, vi sono tut-tavia alcuni fattori che diminuiscono la gravità del fatto. Il figlio del secondo matrimonio, Edouard, viene educato nella fede ebraica, e Guy non ha mai tradito nessuno dei suoi doveri di pietà religiosa; tra l'altro detiene ancora cariche come la presidenza del Fonds So-cial Juif Unifié.

Lui e i cugini si dividono le fatiche e i piaceri della loro esistenza da aristocratici. Guy, un raffinatissimo delegato della Famiglia a tutte le occasioni "di stato", mantiene la tradizione di allevare cavalli da corsa con le scuderie di Normandia e di Chantilly. Come capo della Casa francese, è in naturale rapporto con il capo dello stato; il gene-rale De Gaulle si è servito di Georges Pompidou, braccio destro di Guy, come di uno dei principali consulenti finanziari della repubblica, e ci sono forti legami personali fra il più grande generale e il più influente banchiere di Francia. Nell'album di fotografie di Guy, un'istantanea ricorda che non molto tempo fa il barone Rothschild abbatté quarantanove fagiani a Marly de Roi, riserva personale di De Gaulle.

Il socio e cugino di Guy, Elie, è probabilmente il più scorbutico, il più imperioso membro della mishpahà dal primo lord Rothschild in poi. « Oh, è un berbero! » disse in tono ammirativo una delle gen-tili compagne dei suoi anni di scapolo; e l'epiteto gli sta a pennello, non foss'altro perché ha diretto abilmente le avventure petrolifere della banca nel Sahara. Negli affari privati rappresenta la vie sportive, con le sue spedizioni quasi settimanali in Inghilterra e Spagna per le partite di polo e le partite di caccia in Francia, Austria e Africa.

Suo fratello Alain attualmente è l'uomo dello yacht. Tranquillo, molto distinto, Alain è contemporaneamente presidente della comu-nità ebraica a Parigi e très Saint-Germain\ una frase che indica il settore più impenetrabile, più conservatore, più esclusivo della so-cietà francese. Solo un Rothschild può combinare nella sua persona funzioni e qualità così diverse.

La Famiglia inglese, essendo inglese, si fa un punto d'onore di non dare nell'occhio. Se i Rothschild parigini personificano lo haut monde dello sport e del fascino, i Rothschild di Londra hanno l'aria di pensare che forse quel genere di vita non farebbe per loro. Per-sino i loro cromosomi sembrano di gran lunga più attaccati alle tra-

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dizioni. I Rothschild di Parigi sono snelli e raffinatamente eleganti come il più bel marchese da palcoscenico; quelli di Londra sono la versione un tantino atticciata, che si veste nei negozi di Savile Row, e con l'inglese di Cambridge come lingua madre, del rabbino tedesco che il vecchio Mayer avrebbe voluto diventare.

Anche loro amano gli sport, si capisce. Dei tre Rothschild a capo della banca di Londra, Edmund (il socio dirigente) ha pescato nelle migliori acque di quattro continenti; suo fratello Leopold pratica lo sport della vela; il cugino Evelyn ha una squadra di polo, "The Cen-taurs", la cui potenza è ben nota alle squadre sia del principe Filippo sia del cugino Elie.

Ma le loro attività sportive e mondane sono contraddistinte da una nota di straordinario riserbo. Per un uomo della sua posizione, per un capo di famiglia Rothschild, Edmund è iscritto a pochissimi club (White's e St. Jame's) ed è, di entrambi, uno di quei membri che meno attirano l'attenzione. Sia lui sia il fratello e il cugino hanno tanto diritto al titolo baronale quanto ne hanno i Rothschild fran-cesi, ma preferiscono essere semplici mister. Le loro automobili sono sempre accuratamente scelte fra quelle di prezzo medio, e guidate senza estri dai migliori autisti di Londra. Tutti i Rothschild inglesi "con vocazione bancaria" sono altrettanti maestri in questa partico-lare maniera di svalutare in apparenza se stessi. Conoscono, magari, il presidente del consiglio d'amministrazione del più grande roto-calco britannico, ma sembrano ignorare che a un rotocalco lavorano anche dei cronisti. Il risultato di tutto ciò è una consapevolezza del proprio potere tanto più sentita in quanto quel potere è segreto, invisibile e inudibile. E rimane il fatto che sul pianoforte di mister Edmund a Exbury stanno, fra le istantanee di altri visitatori, quelle di Elisabetta e di Filippo.

Nello stesso tempo il ramo inglese vanta un numero non indiffe-rente di membri la cui eccentricità è tanto spiccata quanto il riserbo introverso degli altri. Dalla casa di Londra escono infatti i cosiddetti "Rothschild senza vocazione bancaria", con la loro straordinaria va-rietà di vocazioni.

Al primo posto fra loro viene l'attuale lord Rothschild (Victor), il primo possessore del titolo che abbia abbandonato completamente l'attività finanziaria. Pari laburista, discepolo del pianista jazz Teddy Wilson e biologo, ha scoperto aspetti ancora ignoti della vita ses-

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suale della cimice, della tecnica amorosa del ragno e della procrea-zione fra le sanguisughe. Sua sorella maggiore Miriam è coautrice di Fleas, Flukes and Cuckoos (Pulci, passerini e cuculi), un importante libro di parassitologia. E il figlio dodicenne di Miriam poco tempo fa è arrivato in casa d'amici, in Austria, con un complicatissimo appa-rato sormontato da una lampada azzurra, tutto di sua invenzione: lo strumento più efficace, secondo lui, che sia stato escogitato sino ad oggi per la cattura di giovani tarme femmine.

Sua zia, Kathleen Nica Rothschild de Konigswarter - la sorella più giovane di lord Rothschild - ha interessi diversi ma non meno anticonformistici. Abita a Weehawken, New Jersey, ha dato il suo nome al Nica Blues (grazie alla riconoscenza d'un compositore), e di recente ha subito una condanna per essere stata trovata in possesso d'una decina di dollari di marijuana.

Al ramo inglese appartiene, anche se nato e domiciliato in Fran-cia, Philippe de Rothschild1. Per i suoi vini di Mouton, Picasso, Braque e Dalì hanno creato alcune delle più stravaganti etichette che si siano mai viste. Egli possiede, per così dire, persino un pia-neta chiamato Philippa, vendutogli dall'astronomo morto di fame che

lo ha scoperto. Il suo cane bastardo risponde al nome di Bicouille, il cui significato non si potrebbe spiegare a una signorina, ma mangia

in un piatto d'argento servito da un cameriere in guanti bianchi. Tuttavia, forse con la sola eccezione del compianto Maurice, il

temperamento della Famiglia non le ha ancora consentito di dare i natali a un autentico play boy. Anche i personaggi outré sopra men-zionati hanno dato notevoli prove di fermezza di volontà e coerenza di propositi. Lord Rothschild, per esempio, ha al suo attivo un passa-to d'eroe di guerra (vedi pp. 221-24). Attualmente è vicedirettore delle ricerche della facoltà di zoologia a Cambridge e uno dei più eminenti scienziati inglesi. Quando poi si tratta del problema ebraico, questo individualista dimentica la sua indipendenza di spirito per la più or-todossa fedeltà alle tradizioni del clan. Nel 1938 compose una let-tera in latino al papa, esortandolo energicamente a protestare contro le persecuzioni naziste agli ebrei; ebbe una risposta, anch'essa in la-tino, e la soddisfazione di ottenere ciò che chiedeva. Da qualche anno amministra, insieme alla vedova di Jimmy de Rothschild e al giovane barone Edmond, la Fondazione dall'impronunciabile sigla

1 Vedi la nota a pag. 222.

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EJRMG (Edmond James Rothschild Memorial Group). La EJRMG ha sovvenzionato con un milione di dollari l'istituto scientifico Weiz-mann a Tel Aviv; ha dato tre milioni di dollari per la costruzione della nuova sede del parlamento israelita e si addossa le spese di molte spedizioni archeologiche in Israele.

La sorella di lord Rothschild, la baronessa espatriata nel New Jersey, ha dato il suo appoggio morale e finanziario a molti buoni musicisti in cattive acque; è una sorta di Fondazione Rothschild per jazzisti bisognosi. Fra quelli che hanno beneficiato della sua gene-rosità figura Thelonius Monk; Charlie "Bird" Parker, forse il massimo genio del New Sound, è morto in casa sua.

Quanto al barone Philippe, il suo piccolo Bicouille è stato testi-mone di importantissime riunioni. Il barone è un'eminenza grigia di eccezionale abilità. A tarda sera, quando la servitù è stata congedata e teste gravi di pensieri e di responsabilità si chinano sui bicchieri di vecchio brandy, la sala da pranzo di Philippe in avenue d'Ièna diventa uno dei luoghi in cui si decidono le sorti politiche della na-zione. Qui un ministro degli esteri francese fece cambiare idea a Henry Luce a proposito dell'Algeria; qui un capo del partito socialista compose una controversia con un importante commentatore politico. A Mouton, Philippe produce i suoi famosi vini, in gara con il cugino barone Elie, proprietario dei vigneti adiacenti e altrettanto famosi di Lafite. E a Mouton lui e la moglie americana Pauline hanno creato il più grande museo enologico francese.

Philippe possiede tre immensi letti, fabbricati apposta per lui: uno nella casa di Parigi, uno nel castello che affitta ogni estate a Hesselager in Danimarca, uno nel castello in mezzo ai vigneti. Il suo straordinario dinamismo si esercita infatti soprattutto in posizione orizzontale. Philippe non solo dorme, ma anche mangia, presiede, dà ordini, telefona, telegrafa, e soprattutto scrive standosene a letto, con una pila di guanciali dietro la schiena.

Anni fa Cristopher Fry gli chiese di tradurre in francese i suoi drammi, di enorme difficoltà stilistica. Con tipica chutzpab il barone si mise all'opera, e nel I960, dopo cinque anni di lavoro, potè dare alle stampe il primo volume, accolto dalla critica con straordinario favore; è adesso in preparazione un secondo volume. Questo non è l'unico rapporto del barone col teatro. Pochi anni fa egli ha pubbli-cato una lunga fiaba dal titolo Aile d'Argent, dedicata alla figlia Phi-lippine che è adesso una delle giovani attrici più in vista della Co-

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mèdie Frangaise e ha sposato il suo direttore con la cerimonia da cui ha preso le mosse questo libro.

E con ciò, siamo giunti a parlare della discendenza femminile della Famiglia.

LE SIGNORE

Le ricche energie e gli svariati interessi del Rothschild medio im-pongono a sua moglie una gamma d'attività altrettanto svariata; una signora Rothschild che voglia mostrarsi all'altezza del compito deve spesso mandare avanti una mezza dozzina di case e sapersi muovere a suo agio in una decina di campi diversi.

« Philippe dice sempre che le donne e la prigione [nell'epoca na-zista} sono state le grandi maestre della sua vita. Be', io sono la donna. Ma so di essere anche la prigione. È mio compito rendere comoda la cella.» Questa è una delle recenti riflessioni' della moglie di Phi-lippe. A dir vero, quasi tutti i Rothschild trovano piuttosto confor-tevoli le loro "celle"; in genere gli appartenenti al clan hanno fatto matrimoni felici, benché il matrimonio felice non sia stato necessa-riamente il primo.

Lo stesso Philippe offre un esempio di ciò che diciamo. La sua prima unione, non particolarmente riuscita, terminò con la morte della moglie durante la guerra. Il secondo matrimonio è stato un grande successo. Prima di diventare la baronessa Rothschild, Pauline Potter era la migliore designer di Hattie Carnege e una delle più per-fette padrone di casa della società nuovayorkese. Il talento di Pau-line ha ora modo di manifestarsi in tutta la sua eccezionalità. Quando la coppia risiede a Parigi, la baronessa deve controllare il funziona-mento di due ménage : il proprio appartamento-giardino a rue Mé-chain e quello immenso di lui in avenue d'Ièna (che a Philippe non sembra abbastanza grande per dare alloggio a entrambi). Durante la villeggiatura estiva in Danimarca, bisogna rendere abitabile un gran-dissimo castello del sedicesimo secolo (nella concezione di Philippe come esempio di minima abitabilità si può citare il giardino dell'Eden). Durante il soggiorno a Chàteau Mouton, che occupa la maggior parte dell'anno, Pauline dirige le due residenze di campagna di Petit Mou-ton e di Grand Mouton.

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Naturalmente, questo non è tutto. C'è anche il museo enologico, creazione congiunta di Philippe e sua, che sta raggiungendo le pro-porzioni di un Louvre. C'è la traduzione in francese di lirici elisabet-tiani, impresa d'una difficoltà senza precedenti che li impegna en-trambi da due anni. C'è l'enorme quantità di lavoro preparatorio con cui Pauline facilita al marito la traduzione dei drammi di Fry e incoraggia questa sua "mania". Ci sono i doveri connessi con le opere di beneficenza, e particolarmente quelli relativi alla direzione dell'ospedale Mathilde e Henry de Rothschild (così battezzato dal nome dei genitori di Philippe, che lo fondarono). Infine ci sono i doveri sociali, il che in questo contesto può significare provvedere al benessere di una ventina di viziatissimi ospiti.

Nel corso di un solo giorno la baronessa può essere chiamata a decidere la sistemazione d'un nuovo Picasso nel museo; faticare sulia traduzione d'un sonetto di John Donne; decidere insieme ai suoi due chef il menù dei prossimi dieci pranzi di cinque portate; richiamare all'ordine il personale, che comprende quattro maggiordomi; sfogliare due album - uno contenente campioni delle sue sessanta tovaglie, l'altro fotografie dei circa settanta servizi di piatti che possiede - per scegliere l'accostamento perfetto fra tovaglia, servizio di piatti e cen-trotavola; stabilire la distribuzione dei posti in modo da alternare uomini e donne, arte e politica; dare gli ultimi ritocchi alla sua sem-plicemente spettacolosa e spettacolosamente semplice toilette di Dior o Balenciaga; e infine scendere le scale con la grazia riposata di una donna che ha passato tutta la giornata su un sofà... una deliziosa com-binazione di Madame de Pompadour e Madame de Staèl.

I vigneti di Mouton Rothschild confinano con quelli di Lafite Rothschild; Chàteau Lafite è proprietà comune di tutto il ramo fran-cese, ma la sua amministrazione è parrocchia del barone Elie. In uno dei salotti fa bella mostra di sé, in mezzo ad altri pezzi da museo, il tavolo di mogano con incrostazioni di rame che assistette, a Fer-rières, alle diatribe fra Bismarck e il nonno di Elie, Alphonse. La-fite è un tipico castello Rothschild, completo degli inevitabili splen-dori barocchi e soprammobili fin de siècle; eppure è abitato solo una settimana all'anno, quando Elie e i tre figli vi trascorrono le feste pasquali.

Mantenere "vivo" questo castello senza incorrere in spese assurde anche per i Rothschild è uno dei compiti di Libane, la moglie di Elie. Libane è anche capo dell'esecutivo di altre due case: quella

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parigina al numero 11 di rue Masseran, già residenza del conte di Beaumont, con una stupenda sala da ballo, mobilio sontuoso, intere gallerie di Rembrandt, Watteau, Ingres, Fragonard, Picasso, e la resi-denza di campagna a Royaumont vicino a Parigi.

Libane svolge anche un altro compito: quello di indispensabile collaboratrice di Elie nella sua attività di mecenate dell'arte contem-poranea. A uno dei piani superiori della casa di rue Masseran c'è la grande "stanza moderna", piena di Klee ed Ernst, con bizzarri e bel-lissimi "mobili astratti", tavoli, sedie e persino alari creati su com-missione da scultori contemporanei di gran nome. Elie copre il ruolo dei Medici per i moderni Cellini di sufficiente talento, e Libane tem-pera e armonizza le loro ispirazioni; il che è un compito delicato. La baronessa fa da equilibrato contrappeso al marito talvolta un po' troppo impulsivo. Furgoni arrivano in continuazione davanti alla casa di rue Masseran, recando i frutti delle incursioni di Elie in studi e sale d'asta; a questo punto iniziano i doveri di Libane. È compito suo assorbire i nuovi acquisti in una delie più belle collezioni pari-gine d'arte contemporanea; e alcuni pezzi vengono assorbiti tanto bene che, corre voce, nessuno più li rivede.

La moglie di Elie è anche uno dei membri della Famiglia dotati di maggior tatto, e uno dei geni protettori della solidarietà fami-liare. Il clan, dopo tutto, vanta parecchie decine di assolutisti supre-mamente ricchi e superbamente volitivi. Se ancor oggi formano un gruppo compatto, questa compattezza è dovuta a un istinto che trova la sua espressione più evidente nella baronessa Libane che ne ha dato un'ennesima prova anche alcuni mesi or sono.

Il Lafite di Elie e il Mouton di Philippe, due chiaretti di Bordeaux egualmente famosi, per forza di cose si fanno concorrenza. Li riva-lità è accentuata dalia classifica ufficiale dei vini di Bordeaux, che risale a un centinaio d'anni fa e che classifica il Lafite come premier

cru, cioè di prima categoria, e il Mouton solo come seconda. Oggi però sia l'opinione degli esperti sia i prezzi dei mercanti mettono il Mouton Rothschild in una categoria tanto eccezionale quanto quella del Lafite. Il barone Philippe ha lanciato una complessa e tipica-mente vulcanica campagna per ottenere che la vecchia classifica sia ufficialmente cambiata; questo revisionismo non può tornare gradito a produttori di vini di premier cru come il barone Elie. Inevitabil-mente, i problemi commerciali avranno ripercussioni private. Ma quando Philippine ha preso marito, la baronessa Liliane ha fatto un

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gesto veramente Rothschild: ha organizzato il più importante ban-chetto di nozze di Philippine - la ragazza di Mouton - nelle cantine a volta di Lafite; qui tutti hanno brindato alla sposa, allo sposo, a entrambe le vigne Rothschild, e a Libane, che ha riportato la pace in famiglia.

Libane condivide due caratteristiche con Elizabeth, moglie di Ed-mund de Rothschild, socio dirigente della banca londinese : entrambe sono nate a Vienna, da grandi famiglie ebraiche (da nubile Libane era una baronessina Fould-Springer, nome che comporta un pedigree secondo solo a quello dei Rothschild); entrambe hanno molto gusto per le arti grafiche.

Elizabeth, prima del matrimonio disegnatrice di stoffe, di tanto in tanto sfrutta le sue abilità per usi semi-ufficiali. La principale resi-denza di Edmund a Exbury, presso Southampton, non è più solo un luogo di piacevole soggiorno, ma soprattutto una redditizia tenuta agricola. Neppure un metro quadrato di terreno è affittato, il che ne fa un'eccezione fra le grandi tenute inglesi dei nostri giorni. Mr. Edmund tiene sotto il suo controllo diretto gli oltre dieci chilometri quadrati di terreno della proprietà; cioè, non solo la distesa di serre, le aiuole innumerevoli con oltre un milione di fiori, i terreni coltivati a cereali, ma anche la locanda, l'emporio, la scuola, e fino all'ultimo mattone del villaggio di Exbury. Essere Mrs. Edmund a Exbury si-gnifica essere sovrana d'un piccolo regno. Il curato, il maestro, il lo-candiere vengono alla casa padronale con i loro problemi, e si aspet-tano di tornarsene via con una soluzione. Alla grande festa annua con cui si celebra il raccolto, vassalli e signore banchettano insieme sul prato alla più allegra maniera medievale; di moderno c'è solo la proiezione di pellicole girate durante i viaggi della famiglia padro-nale compiuti quell'anno. Mr. Edmund eccelle sempre nel chiamare per nome di battesimo centinaia di abitanti del villaggio; sua moglie svolge altrettanto bene un compito non meno difficile: provvedere alla decorazione e studiare il menu del banchetto.

Come ogni moglie che porta il Nome, Elizabeth amministra gli aspetti domestici ed estetici dell'esistenza d'una famiglia principesca. Questo significa, in qualche caso, riportare a proporzioni umane ciò che tocca i limiti del disumano. Su iniziativa di Elizabeth, per esem-pio, a Exbury i Rothschild non abitano in Exbury House, con le sue cinquanta camere da letto, ma in Inchmery, l'edificio più piccolo, dove i Cuyp, i Romney, i Reynolds, i Cellini si possono godere in un

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ambiente più caldo e intimo. Ha persino ottenuto che un bel calco in bronzo di St. Amant, il cavallo vincitore del Derby appartenuto al suocero Leo, trovasse posto nell'augusta sala d'attesa dei soci a New Court. Per mesi i vecchi dipendenti di New Court hanno tremato davanti all'audacia del gesto; è stato qualcosa come piantare un albero nel bel mezzo dell'abbazia di Westminster.

Il dovere più grande d'ogni moglie Rothschild è semplicemente essere, prima di tutto e soprattutto, una Rothschild, reagire con sen-sibilità immediata a ogni bisogno o impulso dinastico. Prendiamo come esempio un piccolo incidente avvenuto l'anno scorso a Mouton. Alla dogana di Bordeaux era arrivato un pesantissimo pacco conte-nente un grosso blocco di cemento, inviato dalla banca di Londra al barone Philippe. I funzionari della dogana non sapevano che pen-sare di un così strano traffico fra i Rothschild; il barone non c'era, e i suoi segretari non riuscivano a ricordare nessuno scambio di let-tere con Londra a proposito di cemento. Il pacco stava per essere respinto al mittente quando la baronessa Pauline fu messa per caso al corrente della faccenda; e Pauline fu abbastanza Rothschild da ricordare. Due mesi innanzi Edmund, in visita a Mouton, aveva am-mirato i molti candidi colombi che rallegrano il parco. Ma Pauline s'era lamentata che, per mancanza della graniglia necessaria ai loro ventrigli, i colombi scavassero piccoli fori nelle mura del castello. Edmund aveva accennato a una speciale graniglia fabbricata indu-strialmente; proprio questo materiale simile a cemento - in una quantità sufficiente a un castello intero - conteneva lo strano pacco fermo in dogana. Pauline faceva parte del clan da meno di sei anni; ma quel tempo le era bastato per imparare che il più forte istinto Rothschild è quello di preservare e difendere i beni della Famiglia in tutti i modi, e persino contro i minuscoli becchi d'uccelli.

IL SILENZIO DI NEW COURT

L'invio d'un pacco di cemento da New Court a Mouton non e privo di significati simbolici; è giusto che il più sofisticato fu i » .1 stelli della Famiglia riceva incidentalmente la protezione dell.i più vecchia banca del clan.

Questa protezione, in forma morale, si allarga a luna la ninh

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fiahà. La vena di solido pragmatismo della Wechselstube pulsa ancora in ogni Rothschild, lo tiene coi piedi ben piantati a terra e, quale che sia la sua vocazione, lo costringe a dedicare ad essa tutte le sue forze. Questo dà alla Famiglia un particolare mordente, un'energia instancabile: doti rare fra i multimiliardari che possono trascorrere tutta la vita a passare da un amorazzo all'altro, da un luogo di sog-giorno all'altro, e ancora lasciare ai figli e ai figli dei figli denaro sufficiente per fare lo stesso.

Nei Rothschild "con vocazione bancaria" l'amore del lavoro può raggiungere il grado dell'ossessione. I week-end e le vacanze sono dedicate a divertimenti squisiti, a svaghi che pochi si possono per-mettere. Il problema domenicale del barone Guy, per esempio, è un dilemma molto chic: Ferrières è ad est di Parigi, mentre Longchamps si trova ad ovest della città. La soluzione può essere rappresentata da un elicottero privato, purché si ottenga il permesso di atterrare sulla pista. Ci può essere un'efficienza anche nella frivolezza. Tut-tavia...

« Siamo banchieri di mestiere » diceva or non è molto Guy. « E al nostro lavoro dedichiamo sessanta ore la settimana. Qualche tempo fa ho voluto veder correre uno dei miei cavalli al giovedì. Non ci riproverò; in giorni feriali non mi diverto. »

La cronica laboriosità dei Rothschild deriva in parte dalla pecu-liare struttura dell'azienda. Attraverso il suo trust finanziario, la Casa francese controlla società minerarie, impianti metallurgici, compagnie petrolifere, industrie chimiche; e la lista potrebbe continuare. Alla riunione del personale che si tiene ogni mattina, alle 10,20 in punto, alla sede centrale della de Rothschild Frères convergono migliaia di dati che devono essere compresi, assimilati, sottoposti a un processo che sfocia nelle decisioni prese alle scrivanie dei baroni Guy, Ebe e Alain.

« Il "devono" va inteso in senso letterale. Nelle aziende Roth-schild la concentrazione dei poteri è assoluta. Nella segreteria di rue Laffitte 21 ronzano macchine IBM e frusciano macchine da scrivere elettriche. Ma l'ufficio direttoriale, con le pareti tappezzate di austeri ritratti di vecchi Rothschild, parla di una venerabile autocrazia. La gerarchia di uscieri e le sequenze di tappeti culminante nelle serie di poltrone di cuoio stile impero degli uffici del barone Guy non sono pure esteriorità; l'apparato anacronistico è espressione tangibile e vi-sibile di un anacronistico potere. Molte altre imprese gigantesche

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sono guidate, per conto di padroni che non vi mettono mai piede, da dirigenti stipendiati. Ma qui il boss non è un presidente per gra-zia del consiglio d'amministrazione o per procura degli azionisti, né un dipendente obbligato a pubblicare un bilancio annuo. I tre cu-gini possiedono direttamente e direttamente controllano una fra le più potenti banche del mondo.

La loro responsabilità, come soci privati, non è meno grande del loro potere. « Se adesso facessi una telefonata, » dice uno dei loro funzionari « e ordinassi a Detroit di fabbricarci mezzo milione di Cadillac a cinque ruote, il massimo che potrebbero fare sarebbe licen-ziarmi. Ma i soci risponderebbero di un'idea così stupida - e anche di idee d'una stupidità assai meno evidente - con le loro fortune private. »

Questo tipo di organizzazione richiede da parte degli impiegati una lealtà di tipo feudale; al datore di lavoro impone una solleci-tudine patriarcale che va oltre la concessione di salari massimi e mi-sure d'assistenza sociale. Intere famiglie sono sul libro paga dei Rothschild da oltre un secolo. Subito dopo la guerra un nuovo im-piegato venne accolto dai compagni con la domanda : « Chi è suo padre? ». Si dava per scontato che il giovanotto, come tutti i col-leghi, fosse figlio di qualche vecchio dipendente.

« I giovanotti del giorno d'oggi... » rifletteva un amministratore dei Rothschild. « Sulle prime non riescono a capire l'atmosfera che c'è qui; ma dopo qualche mese si rendono conto di essere dai Roth-schild, e si accomodano.»

Una distinzione anch'essa trasmissibile per via ereditaria, ma dif-ficilmente accessibile per altre vie, è quella di essere un cliente dei Rothschild. Ogni anno centinaia di persone bussano alle porte delle banche di Parigi e Londra, portando centinaia di migliaia di franchi, dollari e sterline; vorrebbero che i Rothschild provvedessero a inve-stire il loro denaro, o semplicemente procurarsi quello strumento di prestigio che è un conto corrente in una banca Rothschild. A molti viene chiesto, con grande gentilezza, di riportarsi via il loro denaro. Ufficialmente, qualsiasi uomo d'affari di sicura reputazione può aprire un conto alla de Rothschild Frères con un deposito minimo ili i in quemila franchi; ufficiosamente, si aggiunge una piccola frase ...se si tratta di un amico». Tipici clienti-amici delle due banche sono stati e in qualche caso sono sir Winston Churchill, parenhie <av reali, e i più stabili governi sud-americani.

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«Be', forse,» ammette il barone Guy, quando l'interlocutore in-siste nell'argomento, « siamo un po' schizzinosi nello scegliere chi dovrà mettere la sua firma sui nostri assegni. »

Quanto agli assegni emessi dall'istituto stesso, a volte non sono nemmeno presentati per il pagamento: chi li riceve preferisce te-nerli come souvenir. Sono i diretti dividendi della leggenda.

Il rispetto per il Nome, tanto vivo nello stesso padrone Roth-schild, diventa nei dipendenti venerazione quasi religiosa. «Voi non vi limitate a lavorare per i soci otto ore al giorno; e i soci non si limitano a darvi un assegno alla fine del mese » disse ai suoi dipen-denti un Rothschild della terza generazione londinese. « Voi strin-gete con loro un patto di lealtà che impegna sin d'ora i vostri e i loro figli. »

Una dichiarazione romantica. Ma la casa di Londra è ancora più romanticamente attaccata alle tradizioni di quella francese. I telefoni di New Court possono squillare per chiamate intercontinentali e in-terurbane che recano notizia dei più recenti investimenti in imprese tipiche dell'era atomica; ma ciò non impedisce all'usciere in bombetta di St. Swithin's Lane di salutare nel più perfetto stile ottocentesco. Già nel cortile si avverte un silenzio da luogo sacro. Il silenzio cresce nell'anticamera della Sala dei soci, dove solo raramente vengono a romperlo il fruscio della giacca a coda di rondine d'un maggiordomo, il rapido scalpiccio d'un messaggero, il ticchettio di tre telescriventi (una per le quotazioni di Borsa, una per le notizie, una per le corse) tutte in cofani edoardiani. Questa potrebbe essere l'anticamera d'un vecchio principe.

E lo è. Perché la stanza successiva è la Sala dei soci, un'istitu-zione sopravvissuta ai tempi eroici dei primi banchieri-mercanti, una istituzione così antica che persino la banca francese della Famiglia l'ha abbandonata. Qui lavorano solo i "signori" Rothschild: Edmund, Leo-pold e Evelyn. La loro privacy non è turbata dalla presenza d'un solo aiutante, d'un solo segretario; l'atmosfera è favorevole alle consulta-zioni privatissime, alle decisioni segrete. Questo massiccio salotto vit-toriano è la sala del trono della finanza londinese, e soprattutto un santuario di famiglia. Ritratti di antenati gremiscono le pareti, tavoli e mensole di caminetti sono carichi di souvenir, di oggetti legati e qualche evento decisivo nella storia della Famiglia: una ricevuta per due milioni di sterline che servirono a pagare i soldati del duca di Wellington; un diamante sud-africano grosso come un pugno, vicino

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a un blocco di minerale nord-americano contenente uranio; il cam-pionario di tessuti in cotone con cui il capostipite della Casa inglese iniziò la sua carriera d'uomo d'affari in Gran Bretagna; alcuni coleot-teri che si infilarono in un sacco pieno di verghe d'oro e adesso, tra-mutati in oro anch'essi, posano su un vassoio.

Nessuno sa chi ce li ha messi; non esiste più nessuno capace di spiegare perché un piccolo ufficio nell'ala est si chiami stanza di lord Beaconsfield; nessuno conosce di preciso le origini e l'evoluzione del rituale seguito in una stanza del secondo piano, dove i Rothschild, agenti della Banca d'Inghilterra, si incontrano ogni giorno con altri quattro principali agenti per l'oro, e ogni giorno fissano il prezzo dell'oro nel Regno Unito raddrizzando o mettendo distese minuscole bandiere inglesi.

Tutti sanno perché i funzionari del livello più alto non devono mai far colazione fuori, ma fermarsi a mangiare nella loro sala da pranzo a pannelli di quercia: devono tenersi sempre a disposizione dei soci, che vengono serviti al piano superiore, fra mogani e cuoio russo. Ma perché il pasto deve cominciare all'una del pomeriggio, un tantino più tardi di quanto usi in tutta l'Inghilterra?

A New Court la gente si stringe nelle spalle; è un mistero che dura da generazioni. Non molto tempo fa uno studioso di documenti d'archivio ha affermato di avere scoperto un parallelo nelle abitudini prevalenti un tempo in alcuni ghetti tedeschi. Il rapporto, se esiste davvero, non ci sorprende. Una presenza non dimenticata guida i finanzieri che investono il loro denaro nello sfruttamento dell'uranio, i presidenti di consigli d'amministrazione, i lord e baroni e vincitori del Derby di cui è oggi composta la mishpahà Rothschild. È un pa-triarca che su una terrazza del ghetto spiega alle figliole come colti-vare le piante. In certo modo, la sua voce è ancora ascoltata dai grandi bramini che coltivano orchidee rare nelle serre di Exbury, producono preziosi vini nei vigneti del Médoc, allevano purosangue in Nor-mandia. Quella stessa voce, risonante fra le anguste pareti di una WechselsUibe del ghetto, riesce ancora a farsi sentire dai monarchi di New Court e rue Laffitte. Essa sembra ricordare loro che ogni grandezza comincia con un sogno; e che il loro sogno cominciò due secoli fa, con il vecchio Mayer che sorrideva alle sue monete, nella Judengasse di Francoforte.

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Indice

CI SONO ANCORA? Processione a Pauillac 7 "Chutzpah" e orchidee 10 Un silenzio d'oro 12

IL GHETTO Mayer l'orfanello 16 Il sognatore del ghetto 18 Il principe Guglielmo 21 Nascita di una dinastia 23

CINQUE TAPPETI VOLANTI Entrano in scena i ragazzi 27 I guai della Danimarca 31

ROTHSCHILD CONTRO NAPOLEONE Primo round: contrabbando 35 Secondo round: un'idea da un milione di sterline . . . . 39 Terzo round: il contrabbando dell'oro . . . 41 Quarto round: Waterloo 45 Quinto round: conquistare i conquistatori 46

"MISHPAHÀ" II nome 11

.ni

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Lo stemma di famiglia 53 I CINQUE CAPOSTIPITI

Primo: Mister Nathan 56 Secondo: Beau James 62 Terzo: Re Salomon 69 Quarto: Cari, il barone "mezzuzà!' 78 Quinto: Amschel dei fiori . . 81

AL GOVERNO DELL'EUROPA Venditori di pace 88 A breve e a lunga scadenza 93 LA FOLLIA DELLA STRADA FERRATA

Primo: Austria 94 Secondo: Trancia 100 "Il est mort" 102 Un furto colossale 106 Duello di giganti 109

LA "MISHPAHÀ" JUNIOR LA SECONDA GENERAZIONE

Primo: Anselm 122 Secondo: Lionel e fratelli 123 Terzo: Signori di campagna 130 Re degli Ebrei 134 All'assalto del parlamento 139 Tre soli a mezzogiorno 144 Primo sole: Natty 146 Secondo sole: il dolce Leo 150 Terzo sole: l'incomparabile Alfred 152 Marlborough House 157 II perfido Bismarck 162 Il più fastoso pellegrino di Terra Santa . . . . . . . . 166 I Rothschild alla corte degli Absburgo 176

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NON PIÙ' CAPPELLI PIUMATI La fine di due regni 182 La fine dell'età dell'oro 184 LA GRANDE CASA E LA GRANDE GUERRA

Primo: Di nuovo venditori di pace 191 Secondo: La guerra 198 Dopo 201

HITLER CONTRO ROTHSCHILD La depressione e il barone Louis 207 Windsor a Enzesfeld 211 Le idi di marzo 212 Entra in scena Hermann Gòring 216 Entra in scena Heinrich Himmler 218 Dinastia in armi 221 Il palazzo come souvenir 224

UNA DINASTIA "SI ADEGUA" Decadenza e ripresa 229 La "mishpahà" degli anni '60 236 Le signore 241 Il silenzio di New Court 245

Albero genealogico fra le pagine 248 e 249

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F I N I T O DI STAMPARE

N E L MESE DI GIUGNO 1 9 6 6

NELLO STABILIMENTO

DI RIZZOLI EDITORE I N MILANO •

PRINTED I N ITALY

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Seguire l'evoluzione di questa favo-losa compatta, organizzata Fami-

glia, uscita dal ghetto di Francofor-te alla conquista delle capitali euro-pee, significa percorrere lo storico Cammino sconosciuto, sotterraneo,

clandesiino della nuova Europa, e incontrarvi personaggi d'eccezione:

Napoleone, il duca di Wellington, la regina Vittoria, Napoleone III, il ferreo Bismarck, e Himmler e

Goring. Nell'avvincente narrazione si tro-

vano decine di episodi che illustra-no il grande lavoro dei Rothschild i quali, dominando le Borse di Lon-

dra, Parigi, Vienna e Francoforte -quasi per due secoli - hanno con-

trollato, limitato o favorito i dise-gni di illustri regnanti e decisi uo-mini di stato.

Basterebbe dire che hanno quasi regalato alla corona britannica il canale di Suez e che hanno addirit-

tura « cominciato » -lo stato d'Israe-le E sono stati ancora i Rothschild a iniziare una campagna d'investi-

menti rivoluzionari : finanziarono la costruzione delle strade ferrate: aprirono la via al mostro d'acciaio

che rendeva sterili le mandrie», che rovinava i raccolti».

Infinite volte, contrastando il pas-sato, « Rothschild hanno finanziato il futuro. Ma il passato lo hanno

anche saputo conservare, nelle loro incedibili dimore dove hanno rac-colto e protetto collezioni d'arte, di

mobili e quadri, di statue e tabac-chiere e tàppeti, al di là di ogni immaginazione, anche la più sfre-natamente fastosa, anche la più am-biziosamente selettiva.

In queste «reggie» la voce di Mayer Amschel, già in tempo or-mai remoto, sonante fra le anguste pareti di una botteguccia di robi-vecchi, riesce ancora a farsi udire. Sembra ricordare ai suoi discen-denti che ogni grandezza comincia con un sogno e che il loro comin-ciò due secoli fa nella Jugendasse di Francoforte.

Qui è la storia, la realtà umana, il mito noto al mondo come « Roth-schild ».

Freder ic M o r t o n

nato a Vienna nel 1925 e trasferi-tosi negli Stati Uniti nel 1938, ha parzialmente raccolto una quantità di materiale, dall'aneddoto al fatto di cronaca, e ci ha dato in queste pagine un'immagine inedita della bicentenaria Famiglia « f a t a l e » . Ha già pubblicato quattro romanzi e numerosi articoli su T H E NATION,

T H E REPORTER, E S Q U I R E e altre pregiate riviste americane.

libro digitalizzato e reso ricercabile da http://rodomonte21.blogspot.com/

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