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I Gattopardi e le Iene. Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi

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Un disarmante pamphlet sullo stato di salute del cinema in Italia: il sottobosco dei finanziamenti pubblici, il ruolo della televisione, la nascita (fasulla) di una star. Un racconto provocante opera di un regista e scrittore, Claver Salizzato, che non esita a cantare fuori dal coro

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FALSOPIANO CINEMA

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a mamma e papà, che dormono, dormono,

dormono sulla collina, ma che sognano nel

mio cuore

a Franco La Polla, che mi ha insegnato la via

e che lassù starà di certo parlando di cinema

con il suo amico Sydney

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EDIZIONI FALSOPIANO

Claver Salizzato

I GATTOPARDILE IENE

Splendori (pochi) Miserie (tante) del Cinema italiano oggi

&

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© Edizioni Falsopiano - 2012via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAwww.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini

Stampa: Atena - VicenzaPrima edizione - Dicembre 2012

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INDICE

Qu’est-ce que le cinéma? p. 9

C’era una volta... il cinema p. 35

Film & Cinema italiano 2001/11e oltre... p. 35

Hors-d’oeuvre p. 47

Atto I. Scena 1- Gli esordi p. 57

Atto II. Scena 2 - La politica degli autori: i Gattopardi p. 75

Atto III. Scena 3 - La politica dei soldi: le Iene p. 97

Atto IV. Scena 4 - La “scuola” Muccino p. 109

Atto V. Scena 5 - La “fattoria” Avati p. 117

Dessert p. 123

È nata una star? p. 127

Maschi-contro-femmine p. 141

Femmine-contro-maschi p. 150

Ipse Dixit ovvero il cinema italiano d’oggidì in poche parole p. 159

Ringraziamenti p. 184

Nota bibliografica p. 186

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QU’EST-CE QUE LE CINéMA?

Innanzitutto e per cominciare, appunto: che cosaè il cinema? Nel corso della sua più che centenariaed avventurosa storia, il termine con cui si è sempredenominato tale mezzo tecnico di riproduzione dellarealtà in movimento, messo a punto (benché noninventato) dai fratelli Lumière nella storica proiezio-ne parigina del 28 dicembre 1895, è sempre statoampiamente usato (ed abusato) da studiosi, storici,semiologi, critici, autori registi e maestranze varie e,non da ultimo, spettatori, in modo così onnicom-prensivo ed alquanto ambiguo (se pensiamo che con“cinema” si può intendere anche, nel linguaggio cor-rente, la sala dove vengono proiettati i film), da risul-tare poi, alla fine, quasi destituito di un proprio sensospecifico. Se tutto può essere cinema, in fondo, nien-te è davvero cinema. O anche, alla Godard, il cinemanon è altro che... il cinema. E con ciò torniamo alpunto di partenza.

Qualcuno lo ha raccontato come “L’occhio inter-minabile” che, incessantemente, e con modalitàsimili, ma ben superiori ed affatto diverse dalle artifigurative, vede, elabora e ricrea in uno spazio idea-le il mondo reale (Jacques Aumont, storico del cine-ma e studioso dei suoi stretti rapporti con la pittura,nell’omonimo libro Marsilio editori, Venezia, 1991).

Qualcun altro ha scritto: “Creato inizialmente perriprodurre la realtà, il cinema è diventato grande ognivolta che è riuscito a superare tale realtà pur appog-giandosi su di essa, ogni volta che ha potuto rendereplausibili avvenimenti strani o esseri bizzarri, stabi-lendo in tal modo gli elementi di una mitologia inimmagini” (François Truffaut, nel suo libro Il piace-

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re degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988).Altri ancora ne hanno dato una visione prevalen-

temente “meccanica”, stabilendo che: “Il cinema nonè che fotografia perfezionata. Il perfezionamentoconsiste nel fatto che con l’aiuto di un apparecchiocinematografico si possono fotografare gli oggettinon soltanto in stato di immobilità, ma anche dimovimento. Questo perfezionamento tecnico deter-mina tutte le possibilità ulteriori del cinema” (OsipBrik, ne I formalisti russi nel cinema, Garzanti,Milano, 1979).

Alcuni, infine, hanno dibattuto indifferentementedi “cinema” e “film” come se si trattasse dello stessoargomento e l’uno fosse sinonimo dell’altro, mentremolti hanno fatto confluire nella “pratica” quotidia-na, lasciando unicamente ad essa di testimoniare,questo, ormai divenuto negli anni, “grande segreto”.

Finché...André Bazin, critico, saggista, fondatore della

prestigiosa rivista Cahiers du Cinéma, padre nobiledella Nuovelle Vague francese, oltre che di uno deisuoi uomini e cineasti più rappresentativi (quellostesso Truffaut per il quale, abbiamo visto, il cinemaistituisce gli elementi di una mitologia in immagini),e cui si deve per primo la manifestazione del quesi-to (che difatti fornisce il titolo all’omonima raccoltadi suoi scritti, pubblicata in Italia dall’editoreGarzanti di Milano nell’agosto 1973), non provadavvero a rispondere, alla vigilia degli anni ’60, chetanto muteranno la concezione ed insieme la perce-zione del cinema in tutto il mondo, approfondendola riflessione sui temi dell’”Ontologia dell’immagi-ne fotografica” e, successivamente, e conseguente-mente, del “Linguaggio”. Ovvero, da una parte, del“discorso sull’essere” del cinema stesso, e, dall’al-

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tra, dei suoi modelli espressivi: la sua etica e la suaestetica.

Riferendosi ad un’asserzione di André Malraux(in un pezzo sulla rivista Verve, Esquisse d’un psy-chologie du cinéma, del 1939) secondo cui “il cine-ma non è che l’aspetto più evoluto del realismo pla-stico il cui principio è apparso verso il Rinascimentoe ha trovato l’espressione limite nella pittura baroc-ca”, Bazin giunge a dire, passando attraverso ildiscorso sulla pittura e la fotografia quali arti tecni-che per eccellenza di riproduzione della “natura”,che: “Il mito direttore dell’invenzione del cinema èdunque il compimento di quello che domina confu-samente tutte le tecniche di riproduzione meccanicadella realtà che nacquero nel XIX secolo, dalla foto-grafia al fonografo. È quello del realismo integrale,di una ricreazione del mondo a sua immagine,un’immagine sulla quale non pesasse l’ipoteca dellalibertà d’interpretazione dell’artista né l’irreversibi-lità del tempo” (op. cit.).

In virtù di tali argomentazioni (ma anche di tantealtre su cui non ci dilunghiamo ulteriormente sia perbrevità, sia perché costituiscono soltanto en passantl’oggetto della nostra indagine) sulla ontologia (ildiscorso sull’essere) dell’immagine cinematografica,e sul suo dispiegarsi in lingua, Bazin pone le basi perdare una risposta alla questione da cui siamo partiti.Per dirci, in definitiva, che “il Cinema è”...

Un sistema complesso e molteplice di segni esignificati, per mezzo del quale si tramette e si dupli-ca l’immagine in divenire di una determinata societàe umanità, stabilendone, come già in Truffaut, “glielementi di una mitologia”. Sistema che, nella suaprassi, diviene “cinematografia” - ovvero l’insiemedi un’industria cinematografica nazionale - e “film”

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- ovvero un racconto narrato mediante e all’internodi un determinato sistema cinemagrafico e dei suoimezzi e linguaggi.

Da ciò ne consegue che fra “Cinema” e “Film”intercorre lo stesso rapporto che i semiologi fannointercorrere fra “langue” e “parola”, ovvero fra l’in-sieme e la parte, il sistema e le sue individuali mani-festazioni. Mentre il significato di una“Cinematografia” dipende tutto dalla consistenza edallo spessore che possiede, in quel contesto, in quelmomento storico, in quella situazione culturale e/opuramente esistenziale, il “Cinema” cui essa fa capo.

Sarà utile, a questo punto, proprio perché ci ser-virà nella prosecuzione e nell’esposizione dei temiessenziali del presente saggio, chiarire e tenere benea mente che l’affermazione di poco fa secondo laquale il cinema è il sistema e i film ne sono gli attiindividuali (e personali), vuol significare soltantoche il cinema, cioè il sistema, vive nella realtà deifilm, ovvero negli atti posti in essere secondo la sto-ricità per la quale esso si determina; e che i film, cioègli atti, a loro volta sono possibili in quanto esiste ilcinema, ovvero il sistema definito nella sua storicità.Utile perché tale ragionamento porta alla conclusio-ne, abbastanza logica, benché teorica, che non si puòdare cinema senza film (e non si può dare cinemato-grafia senza cinema, sebbene i due termini venganospesso omologati al medesimo significato, non lohanno, come abbiamo dimostrato), e, d’altronde, e diconseguenza, non si può dare film senza cinema. O,per meglio dire, il film senza il cinema, pur possibi-le, diventa soltanto una testimonianza a sé stante, laparte di un tutto mancante che non può e non potràmai incidere se non su se stessa ed il cui lascito èdestinato ad esaurirsi al proprio interno e ad essere

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sterilmente autoreferenziale.Ebbene, se Bazin dice il vero e il significato del

“Cinema” che cercavamo è questo, con tutti i suoicorollari, come inquadrare in tutto ciò, a questopunto, la vicenda della cinematografia di casanostra? E come leggerla e classificarla complessiva-mente alla luce di tale assunto?

Bisogna dire intanto che, da questo punto di vista,nel rapporto “Cinema/Film”, il nostro Paese, nellasua storia filmografica, non è mai stato molto lonta-no da posizioni di eccellenza, anche rispetto a cine-matografie industrialmente e tecnologicamente, oltreche culturalmente, più composite, ricche e stratifica-te, come ad esempio quella americana. Che, anzi, inmolti periodi della storia del nostro cinema e findalle origini, spesso l’Italia è stata guardata con invi-dia, con cupidigia, con apprezzamento, come si guar-da ad una maestria da cui imparare, da seguire conattenzione, ammirare e, possibilmente, emulare o,addirittura, contrastare sul piano della qualità.

Valga, tanto per iniziare, il caso eclatante diCabiria (1914), Piero Fosco alias Giovanni Pastronealla regia (che allora si chiamava direzione artistica),ed il sommo poeta Gabriele D’Annunzio alla partitu-ra narrativa. Il film, intanto, esce da un momentomolto prolifico e, sia industrialmente, sia artistica-mente e di popolarità, tra i più felici del nostro pas-sato: c’era stato, qualche anno prima, nel 1912, ilvero e proprio exploit di Quo Vadis? di EnricoGuazzoni, prodotto da una major come la Cines, cheaveva portato a casa incassi da record, senza contarele incredibili vendite estere ammontanti a somme dacapogiro come i 150 mila dollari negli Stati Uniti (sì,avete capito bene, proprio nella patria del cinemacon la “C” maiuscola), le 8.000 sterline in Gran

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Bretagna, i 200 mila marchi in Germania, i 35 milafranchi in Belgio; ma, sotto la punta dell’iceberg,c’era un intero sistema Cinema che sbuffava e stan-tuffava su rotaie ben oliate a tutta velocità.

Cabiria, prodotto dalla Itala, quindi, trae dal“sistema” tutta la sua forza e gliela restituisce in ter-mini di innovazione, progresso tecnico, drammatur-gico, registico e poetico. È in questo film chePastrone utilizza per la prima volta nella storia delcinema mondiale un accorgimento tecnico e stilisti-co che finirà poi per farla la storia del cinema mon-diale: il carrello o travelling, che permette alla mac-china da presa lo spostamento nello spazio filmico equindi la ridefizione ed una nuova dimensionalità (laricerca della profondità di campo e della mitica terzadimensione) dello spazio filmico stesso.Un’invenzione brevettata poco tempo prima dal pre-vidente regista, che così la racconta testualmente:

La mia invenzione non si limitava a piazzare lamacchina da presa su un carrello mobile. Questo loaveva già fatto in studio Méliès col suo Homme à latete de caoutchouc. Ma lui avvicinava la macchinadiritto sull’attore, la cui testa pareva gonfiarsi esgonfiarsi come un pallone. Erano movimenti che tral’altro comportavano delicate operazioni di messa afuoco.

Col mio carrello questa messa a fuoco si facevaquasi automaticamente, dall’esterno, ma soprattutto,e questo era specificato nei miei brevetti, i movi-menti di macchina erano impiegati a creare effettistereoscopici (...)

Nel 1913 potei quindi far uso del carrello perCabiria con due scopi ben precisi: far capire aglispettatori che le mie scenografie erano vere, e non lesemplici tele dipinte di Méliès o Pathé; conservare

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l’effetto stereoscopico ottenuto muovendo la mac-china obliquamente rispetto agli attori. Riuscii così aisolare singoli personaggi nella folla, facendoli poirisaltare via via in primo piano. Ogni battere di pal-pebra, ogni minima contrazione del viso cominciò adavere il suo peso: cosa che non si era ancora vista inteatro, né in pittura, né in letteratura o qualsiasi altrogenere artistico.

(in Georges Sadoul, Storia generale del cinema,Einaudi, Torino, 1967)

Il carrello di Pastrone e del suo direttore dellafotografia, nonché datore luci e curatore delle ripre-se con i modellini, Segundo de Chomon, “sarà forsestato utilizzato agli stessi fini da qualche altro pio-niere che un giorno sarà scoperto dagli storici.” fanotare sempre Sadoul, avvertendo che “Un brevettonon costituisce sempre una prova di priorità”, ma,puntualizza, “Pastrone fu tuttavia il primo ad impie-garlo in un modo che ritroviamo nella tecnica moder-na, con traiettorie rettilinee o sinuose, parallele allascenografia, in avanti o all’indietro: movimenti, que-sti ultimi, usati appunto per disperdere o isolare iprotagonisti nella folla.” (op. cit.).

Il che combacia esattamente con ciò che diceva-mo più sopra parlando, con le parole di Bazin, di“Cinema” come ontologia e linguaggio, come“etica” ed “estetica” ed “etica” che crea un’”esteti-ca”. O, con le parole di Truffaut, di “Cinema” chestabilisce gli elementi di una “mitologia in immagi-ni”. Ovvero ancora, in sintesi, di un sistema cherende possibile il film e di un film che giustifica econsolida il sistema.

È necessario ricordare, poi, che la pellicola di

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Pastrone (certamente una delle vette produttive e sti-listiche dell’epoca, ma non isolata e non la sola,all’interno del contesto cinematografico nazionale),nel suo fortunato ed acclamato tour di proiezioninegli Stati Uniti, vive un episodio assai curioso equanto mai controverso: al termine di una di queste(cui, pare, fosse presente uno dei primi granditycoons della neonata Hollywood, destinato a scri-verne indelebilmente la Storia, David WarkGriffith), al momento di stivare il materiale, ci siaccorge che mancano al film due rulli (pare - è giàla seconda volta che usiamo questo termine, ma ildubbio è d’obbligo in una vicenda che assomigliapiù ad un gossip che ad un episodio storico - gli ulti-mi due, cioè proprio quelli relativi all’uso del car-rello), la cui ricerca risulta del tutto infruttuosa edella cui scomparsa, o smarrimento (non è poi tantofacile “smarrire” due belle pizze, grosse e pesanti, diun film), che dir si voglia data la mancanza di testi-monianze certe, nessuno saprà mai spiegarsi i moti-vi, le ragioni, il fine ultimo. Si può solo pensar male(che è certo un peccato, ma che spesso ci si azzecca)ragionando sul fatto che, proprio in quel periodo,guarda caso, il nostro Griffith stava lavorando alkolossal dei kolossal, Intolerance, che lo avrebbemesso in ginocchio, ma che avrebbe nel contempolasciato al cinema internazionale uno dei suoi piùlimpidi capolavori. E che Griffith era non poco inte-ressato alle tanto sbandierate innovazioni tecniche epoetiche introdotte dall’opera di Pastrone. Il registaamericano non verrà mai trovato con la pistolafumante in mano, ma l’ombra del sospetto nonscomparirà mai dalla sua fedina artistica.

La vicenda, sebbene, ripetiamo, sia qualcosa dipiù vicino alla maldicenza, poi trasformatasi tra i

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cinéphile in una sorta di leggenda metropolitana,però la dice lunga sulla potenza del nostro cinema,del nostro “modello produttivo”, della nostra indu-stria (bisogna sempre andarci molto cauti a parlard’industria cinematografica in Italia, dato che nelnostro Paese ha sempre, piuttosto, governato l’e-stemporaneità artistica degli “autori”, o la rapacitàdei faccendieri e dei mercanti, che, molto spesso,in tempi di vacche grasse, si è tuttavia rivelata unottimo succedaneo ad un sistema industriale conso-lidato) e, possiamo ben dirlo con orgoglio, dellanostra arte.

E possiamo anche dire, a mo’ di parziale scusantee risarcimento storico per ciò che sarebbe avvenutoin futuro, che la nostra delle origini, la nostra delperiodo muto, era una delle cinematografie più signi-ficative ed importanti, non solo d’Europa, ma delmondo e che era fondata su un italian movie systemdi tutto rispetto ancor prima che i sobborghi di LosAngeles diventassero il capolinea obbligato dellanascente settima arte e che sulla collina di BeverlyHills piantassero le fatidiche dodici gigantesche let-tere della scritta HOLLYWOOLAND. E che se abrevissimo, dopo Cabiria, le masse europee si fosse-ro dedicate allo sviluppo del loro reciproco benesse-re, piuttosto che gettarsi a capofitto nell’impresa,sempre matrigna di figli devoti e greve di emuli edentusiasti neofiti, di massacrarsi a vicenda usandotutte le armi di distruzione di massa a loro disposi-zione al momento, poi denominata dagli storici comePrima Guerra Mondiale o anche Grande Guerra,molto probabilmente i nostri “direttori” (come sichiamavano allora), i nostri tecnici, le nostre struttu-re e, di nuovo, il nostro sistema, con i suoi film,avrebbe certamente potuto insegnare a fare il cinema

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a più di qualcuno in giro per il globo terracqueo.Però, ed il grande imperatore Napoleone I

Bonaparte è lì a ricordarcelo ad imperitura memoriacon la sua quasi vittoria e di fatto sconfitta sui campidi Waterloo, dato che la Storia non si fa con i “se” ocon i “ma”, il 24 maggio del 1915 l’Italia decide, conuna delle solite giravolte che ne hanno sempre carat-terizzato e sempre ne caratterizzeranno la politicaestera, di sacrificare qualche milione di propri ama-tissimi figli sul tavolo del conflitto generalizzato edichiara guerra ai propri ex alleati. Per guadagnarci,dopo la bellezza di quasi quattro anni in trincea,qualche banale fazzoletto di terra, e perderci tutto ilresto. E, in mezzo a tutto il resto, una florida cine-matografia destinata probabilmente, in caso contra-rio, ad influenzare e permeare di sé la cultura di unintero secolo.

Basti dire che durante quei quattro anni di ordina-ria follia, il cinema americano (gli USA come sap-piamo vengono coinvolti nella carneficina soltantodi sguincio e, come al solito, per cavarci la patatabollente di mano) non solo si assesta e si consolida,ma diventa il primo del mondo. Nasce e si afferma la“mitologia in immagini” (ancora Truffaut) diHollywood, da cui, d’ora in poi, sarà alquanto diffi-cile prescindere.

Alla ricerca di un nuovo “Cinema”, di un nuovo“contenitore” di segni e di senso per i propri film, diuna nuova risposta al vecchio, immutabile ed inelu-dibile, rebus contenuto nel turandotiano quesito“Che cosa è il cinema?”, l’Italia approda, con l’av-vento, quasi contemporaneo alla pacificazione gene-rale, dello statalismo, dirigismo e centralismo fasci-sta (la cui indole, come in tutte le dittature che sirispettino, come stava succedendo nella Russia dei

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Soviet e come sarebbe successo nella Germania delReich millenario, sarà sempre e inevitabilmentequella di usare il cinema a fini propagandistici), allesponde dei finanziamenti e del controllo, politico-culturale, governativi.

Se da una parte nasce il Ministero della Culturapopolare (che, abbreviato per maggior praticità,suona comicamente, futuristicamente, Minculpop),dall’altra non ci mette tanto a farsi strada l’idea che,in mancanza di una televisione di Stato con i cuimessaggi poter indottrinare il popolo (cosa che suc-cederà a suo tempo), il “Cinema” sia l’arte più poten-te del momento, in questo senso. Così, appena possi-bile, viene istituita la famosa Direzione Generaledella cinematografia (istituzione che, valicando leere, anche politiche, oltre che storiche, sopravvivetuttora presso il nostro attuale Ministero dei Beniculturali con la denominazione, certo meno pompo-sa, ma fotocopiata, di Direzione Generale delCinema, che, come la sua antenata, ha il medesimoscopo di distribuire al cosiddetto mercato produttivointerno contributi ed “onori” - in termini di qualifi-che d’Interesse Culturale - e di indirizzare, con ciò,anche qui né più e né meno della sua antenata, inmaniera assai invasiva, l’intera produzione cinema-tografica italiana verso orizzonti ben prestabilitidalla politica e dal potere imperanti; ma questo èun’altra storia e la affronteremo a tempo debito). Ecosì, in men che non si dica, Luigi Freddi, il caposti-pite di un’intera genìa di Direttori Generali chefaranno il bello e il cattivo tempo del cinema nostra-no nei secoli dei secoli, di ritorno da un viaggio aHollywood che lo ha ammaliato, come Sherazade ilSultano, convince il Duce Mussolini a fondare, suquell’esempio vincente, la Fabbrica del Cinema de

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noantri sulle rive del Tevere: Cinecittà.Benché Oreste del Buono e Lietta Tornabuoni, nel

loro documentatissimo libro intitolato appunto EraCinecittà. Vita, morte e miracoli di una fabbrica difilm (Almanacco Bompiani, Milano, 1979), faccianonotare che: “Cinecittà è nata dai palazzinari”, dico-no: le due sole industrie di Roma, quella labile delcinema, quella torva dell’edilizia e della speculazio-ne sui terreni, s’intrecciano all’origine della fabbricadei film” (op. cit.), e benché, ancora, ribadiscano piùavanti che Cinecittà, più che a Hollywood, somigli“negli anni del fascismo al centro di produzionecinematografica statale d’un piccolo paese di dittatu-ra latino-americana o mediorientale o di monarchiaasiatica” (ibidem), non si può fare a meno di consi-derare che, con quest’opera, edilizia e culturale, ilcinema nazionale abbia trovato di nuovo un puntod’appoggio, abbia costituito di nuovo, dopo i fastimalamente rovinati del periodo anteguerra, una strut-tura, una “fabbrica”, appunto, dalla quale far sgorga-re, come acque sorgive, fresche e rigeneranti, i filmche la dovranno rendere sempre più ricca e autore-vole. Oltre a tutto, il Regime (come non riuscirà afare, molto dopo il ventennio, alcun governodell’Italia repubblicana, né di destra, né di centro e,meno che mai, di sinistra - quasi sempre per la cini-ca e calcolata scelta politica di non possedere unforte apparato cinematografico e quindi una fortecinematografia, in grado di elevare la coscienza cul-turale, immaginifica, del Paese), contemporanea-mente promulga una serie di leggi protezionistichecome quella che, nel 1938 (Cinecittà ha poco più diun paio d’anni), impegna le sale cinematografichealla proiezione obbligatoria di pellicole italiane, oquella che, circa tre anni dopo, sottopone a regime di

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monopolio statale l’importazione di film stranieri(tanto che, per protesta e ritorsione, majors prestigio-se come Metro Goldwyn, Twentieth, Paramount eWarner, tutto il meglio del cinema americano, si riti-rano dal mercato), permettendo così al cinema italia-no di crescere e moltiplicarsi.

Sì, è vero che questa è la strada obbrobriosa, unpo’ infame, dell’autarchia, la strada che porta fuoridal mercato e che isola dal consesso dei liberi e dellacircolazione delle idee, la strada, infine, che porteràil Paese alla rovina (e, ahinoi, ben più tremenda di unfilm in più o in meno in un cinema più o meno flori-do), ma va riconosciuto, da osservatori e storiciobiettivi e non partigiani di un’ideologia, da qualsia-si parte essa provenga, che il Ventennio fascista èstato uno dei più fulgidi periodi della macchina“Cinema” italiana. Uno dei pochi per i quali si possaparlare di industrializzazione cinematografica nellaStoria della nostra Nazione e uno dei pochi in cui losviluppo e l’importanza educativo-culturale del film,il suo valore artistico, vengono riconosciuti univer-salmente attraverso premi prestigiosi e festival dedi-cati tra i quali quello che diventerà, negli anni, ilsecondo, per importanza, nel mondo, secondo solo aCannes: la Mostra d’Arte Cinematografica diVenezia, per la cui direzione ancora oggi in molti,critici altrimenti seri e paludati, studiosi con una car-riera più che onorevole sulle spalle, cinefili d’altobordo e d’alto lignaggio e via dicendo, non si fannoproblemi di accapigliarsi con tutto lo stile che com-pete ai loro pedigree.

Nell’arco di quei vent’anni di dittatura, dura ediniqua come tutte le dittature, a Cinecittà si produco-no film come La Corona di Ferro (1940) diAlessandro Blasetti (sfido chiunque a trovare, nel

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corso della storia del cinema italiano futuro un’altra“impresa” come questa, ed allora di queste “impre-se” se ne mettevano in cantiere parecchie), cresconoe si affermano registi come Carmine Gallone, MarioCamerini, Renato Castellani, Raffaello Matarazzo,Mario Soldati, Roberto Rossellini, e l’elenco potreb-be essere ancora molto lungo e altrettanto “tonante”,si sviluppano quadri tecnici e manageriali che, nelsecondo dopoguerra, verranno apprezzati perfino daigrandi di Hollywood.

Come premettevamo, “Etica” ed “Estetica”.Come premettevamo, “mitologia in immagini”. Lasintesi del “Cinema” e del suo farsi “Film”.Basterebbe citare, su tutto, la vicenda artistica, pro-fessionale, intellettuale, del già nominato Blasetti,dimenticata o meglio, occultata, sottovalutata, nega-ta e talvolta denigrata per motivi prettamente politicida gran parte di una certa cricca di critici di sinistradalla morale pelosa, che, nel 1929, con il suo primofilm, Sole, immediatamente salutato dai suoi con-temporanei come l’opera che apre la strada non tantoad una rinascita (la guerra, ricordiamo, è finita soloda un decennio), ma addirittura al (parole di AlbertoCecchi su L’Italia Letteraria del 23 giugno 1929)“Rinascimento del cinema italiano”, prende permano la disastrata cinematografia nazionale e leinsegna “che cosa è...”. “Papà” Blasetti (mi piace rie-vocare questo sentito appellativo con il quale sirivolgeva a lui Gian Luigi Rondi, forse il solo che, intempi non sospetti, ne abbia studiato, conservato etramandato la memoria e l’eccellenza) insegna a fareil cinema storico-mitologico, d’impegno sociale, dicommedia (sofisticata e popolare), di cappa e spada,di melodramma, d’autore e d’intrattenimento, indu-striale ed artistico, così come si conviene ad un

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“sistema” adulto che funzioni e sia produttivo diidee, talenti, professionalità, diversità e, naturalmen-te, film (insegnerà perfino, superata Cinecittà, emantenendo il proprio magistero, a fare il cinema intelevisione o la televisione come se fosse il prose-guimento, il superamento, la nuova frontiera, delcinema - cosa che, di fatto, succederà e poi sarà len-tamente la fine - ma anche questa è un’altra storia).

Blasetti è l’incarnazione di Cinecittà (tanto è veroche quando in Una vita difficile, di Dino Risi, 1964,uno dei picchi più alti della commedia italian style,il personaggio di Alberto Sordi entra a Cinecittà allaricerca della famosa diva Silvana Mangano per pro-porle il proprio sudatissimo copione, capita propriosu un mastodontico set di...Blasetti; e tanto è veroche quando Luchino Visconti, nel 1951, conBellissima, deciderà di raccontare la storia un po’grottesca, molto cinica ed amara di una madre chespera, con un provino a Cinecittà, di aprire le portedel successo alla sua bambina, il regista scelto perinterpretare se stesso in quel ruolo, sarà sempreBlasetti). E Cinecittà, a propria volta, è, e lo resteràper molto tempo ancora, dopo il fascismo, l’incarna-zione del “Cinema” italiano.

Creatori entrambi, l’uno attraverso l’altra e vice-versa, l’uno per mezzo dell’altra e viceversa, di sensoe stile, di “Etica”, come essenza e natura della cosa insé, ed “Estetica”, ossia il suo modello espressivo.

In sintesi, la risposta vivente a quel nostro quesito.Ma anche qui, di nuovo, arriva una guerra ad

imbrogliare carte, uomini e destini progressivi, nongià e non tanto di una cinematografia, che sarebbe ilmeno, ma di una Nazione e di un popolo. La secon-da in vent’anni.

Di nuovo il “sistema” italiano, in un momento in

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cui sembra aver trovato una propria ragione ed unapropria collocazione, una propria “mitologia inimmagini”, necessariamente costretto a cedere ilpasso di fronte ad eventi più grandi di lui, barcolla es’inceppa. Non che, durante il conflitto lungo cinqueanni, costellati di massacri ancor più efferati dei pre-cedenti e chiosato da un genocidio, non si sia fattodel cinema (o meglio, dovremmo dire dei film) spar-so: dovremmo citare per lo meno il tentativo di spo-stare Cinecittà a Venezia, durante tutto l’ultimo attoprima della calata sanguinosa del sipario sul regime,dal ’43 al ’45, gli anni della Repubblica di Salò, pres-so una ex fabbrica di birra all’isola della Giudecca,che produce qualche sparuta pellicola di LuigiChiarini (La locandiera, 1943/45), di GiorgioPastina (Enrico IV, 1944) e soprattutto di FedericoDe Robertis (Uomini e cieli, 1943/45), con attoricome la coppia maudit Valenti-Ferida, o DorisDuranti, Gino Cervi, Germana Paolieri ed altri cheavevano aderito, in pochi e non tra i più famosi, altrasferimento da Roma. E di film sparsi, comunque,si tratta, non certo di una primavera, forse nemmenodi un volo di rondini.

Pur tuttavia il “sistema” che barcolla e s’inceppa,qualche radice nel passato, comunque, l’ha messa edha ancora, nella manica, qualche asso da far valere,qualche ingranaggio della vecchia “fabbrica” darimettere in circolo. Così getta sul tavolo la carta diRoma città aperta (1943/45) di Roberto Rossellini.

Il cinema è morto. Viva il cinema!E così trova il modo di inaugurare e di battezzare

una nuova stagione, un nuovo impianto artistico, unnuovo assetto industriale (è una bella favola quelladei film neorealisti a prezzi stracciati, con attori presidalla strada, mezzi insufficienti e rimediati, set all’a-

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ria aperta fuori dai teatri, ma rimane pur sempre unafavola se uno come Carlo Lizzani che, oltre ad esser-ne uno storico di indiscussa competenza ed affidabi-lità, ne è anche uno degli autori - perché d’ora in poiquesto termine sostituirà sempre più spesso quello di“regista”, fateci caso - di punta, può affermare aposteriori sul Contemporaneo del giugno 1961 “Nonc’è un solo film del movimento neorealista (...) chenon sia stato prodotto a prezzi industriali e secondoschemi produttivi normali, o addirittura di economiaallegra”, il corsivo è di Lizzani stesso; e se è vero,come è vero, che proprio Roma città aperta schierafra i suoi protagonisti attori del calibro di AnnaMagnani e Aldo Fabrizi). Una nuova “Etica” ed unanuova “Estetica”, insomma un nuovo modo di fare epensare il Cinema. Il cosiddetto “neorealismo”, ter-mine coniato dai critici stranieri dopo la vittoria diRossellini a Cannes nel 1946, non durerà poi molto(pochi anni, non più in là del 1950/51), ma costituiràl’ossatura, il dna della cinematografia nazionale avenire, almeno fino alla crisi, ai ponti bruciati allespalle e alla contestazione contro i “padri” degli anni’60. Rossellini, De Sica, Visconti che, a onor delvero, esordiscono e si affermano (De Sica solo comeattore) nel corso del cupio dissolvi fascista, divente-ranno comunque, con il loro insegnamento, i lorofilm, la loro influenza culturale, la base su cui si svi-lupperà tutto il prossimo edificio cinematograficonazionale, fuori e poi di nuovo dentro la “fabbricadei sogni” ed il modo di produzione di Cinecittà, chedi lì a poco tornerà, come dice quella famosa battutadi Petrolini, “più bella e più grande che prìa”. La lorotriade, con titoli come il già citato Roma città apertao Paisà, Ladri di biciclette o Miracolo a Milano, Laterra trema o Bellissima, sarà per il nostro “sistema”,

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inteso nel senso che abbiamo dato finora al termine,in quanto significato della domanda baziniana, lapietra miliare di tutte le strade.

Da qui si dirameranno generi, filoni, tendenze,esperimenti ed innovazioni che rendono forte edanno sostanza ad una cinematografia, sia dal puntodi vista artistico che commerciale e le permettono direalizzare opere e prodotti dell’ingegno che, a lorovolta, in una maniera o in un’altra, la arricchiscono,la maturano e la perpetuano.

Dalle costole del neorealismo, ad esempio, nasco-no la sua versione rosa e quella del feuilleton popo-lare (da una parte Castellani con film come Due soldidi speranza o Sotto il sole di Roma, dall’altra la vec-chia scuola di Matarazzo riveduta e corretta con tuttala serie di melò targati Amedeo Nazzari e YvonneSanson). E poi, come in una partenogenesi cellulare,compaiono le varianti della commedia (che proprionegli anni ’50 mette a fuoco tutte le sue potenzialitàartistiche, pronta a diventare, attraversando il comi-co, la farsa, la commedia di costume, la grande“commedia italiana” del prossimo decennio, e a dareai patrii schermi alcuni tra i più grandi capolavori delcinema internazionale, riconosciuti in festival epremi prestigiosi), dei “generi” (il cui avvento hareso imbattibile il cinema hollywoodiano fra gli anni’30 e ’40), dallo storico-mitologico di mai sopitamemoria, all’opera lirica...

E così via.Sono anni, quelli dallo stentato e disastroso

secondo dopoguerra con il Paese semidistrutto e inginocchio, a tutti i ’50, fino alle soglie dei ’60, nelcorso dei quali la macchina cinematografica italianafa ciò, ed è, come non mai, ciò che per sua “essenza”deve fare e deve essere: produce e ri-produce quegli

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“atti individuali” che si chiamano film, soggetti, sto-rie, movimenti artistici (pensiamo soltanto, per com-parazione, a cosa è la nostra letteratura in quei mede-simi anni - Pavese, Vittorini, Tomasi di Lampedusa,Pasolini, Flaiano, tanto per fare qualche nome allarinfusa - e quanti scrittori, poi, siano direttamentecoinvolti nella progettualità e nella pratica quotidia-na del far cinema, fino a passare addirittura, nel casodi Pasolini, dietro la macchina da presa per andarepoi a realizzare fra le più specchiate opere d’arte inmotion picture del secolo).

Non parliamo, naturalmente, di soldi, incassi,risultati al botteghino, tutt’altro, parliamo di pellico-le ed autori che, tutti insieme ed ognuno per la pro-pria parte e sensibilità, formazione culturale edimmaginario, ognuno per sé si potrebbe dire, concor-rono alla formazione e composizione di ciò cheFrancesco Pasinetti, indimenticato cineasta, criticocinematografico, fotografo e fine intellettuale vene-ziano (che la Mostra d’Arte cinematografica diVenezia ricorda perennemente con una sala ed unpremio a lui dedicati) ci insegnava, nei suoi scritti,essere il fine più nobile di una cinematografia, una“coscienza collettiva”.

Parliamo di un “sistema” Cinema che, ancoraoggi, è oggetto di studi, approfondimenti, analisi,scritti e conferenze, nei più prestigiosi ateneid’America, ad esempio, dove il Cinema lo conside-rano davvero una cosa seria (chi potrebbe mai pen-sare che oggi i film di Pieraccioni, Vanzina, Parenti,Zalone, AldoGiovanniGiacomo, FicarraPicone,Brizzi e compagnia cantante, campioni stabili d’in-casso di casa nostra con cifre da capogiro, possanoessere soggetti di studio, indagine, riflessione daparte di chicchessia se non dello storico che ne accer-

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ti e ne rubrichi la pura esistenza in vita?).E sono anni, infatti, quelli, di gente come

Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, PietroGermi, e poi, più in là, Sergio Leone, BernardoBertolucci, Paolo e Vittorio Taviani, oltre ai già cita-ti Rossellini, Visconti, De Sica eccetera. Di titolicome Luci del varietà, Il grido, L’uomo di paglia,Senso, Umberto D e ne dimentichiamo tantissimialtri di uguale, se non maggiore, rilevanza. Per nonparlare di quello che potremmo definire a prima vistaspettacolo d’intrattenimento, ovvero ciò che VittorioSpinazzola (nel suo Cinema e pubblico, Bompiani,Milano, 1974) denomina come “film per il popolo”:in verità ci accorgiamo, con l’aumentare della distan-za storica, che anche questi prodotti, come i lorocompagni di più alto valore estetico ed artistico,risultano alla fine essere parti ineludibili di un tutto(pensiamo innanzitutto a Totò, pensiamo aMatarazzo, a Sordi avviato a diventare, nel bene enel male - da Tutti a casa a La grande guerra -, la“maschera” comica, tragica e grottesca della nostraIliade e Odissea personale e pubblica, della nostracostituenda “mitologia in immagini”, dell’eticanazionale, della presente e futura italian way of life).

Ecco cosa succede dopo che la guerra, la secondain così pochi anni, la più devastante e totale a memo-ria d’uomo, si poteva pensare avrebbe azzerato il“Cinema” e i “Film” delle nostre parti, succede ciòche proprio Bazin nel suo libro (già citato) stigma-tizza con queste considerazioni: “Ritengo che giusta-mente si possa sostenere che l’originalità del cinemadel dopoguerra (...) sta nel promovimento di certeproduzioni nazionali e in particolare nel sorgere sfol-gorante del cinema italiano (...) e che si possa con-cludere da ciò che il fenomeno veramente importan-

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te (...) è l’introduzione nel cinema di un sanguenuovo, di una materia ancora inesplorata (...). Non èforse il “neorealismo” un umanesimo prima di esse-re uno stile di regia?”. Ecco il punto centrale: se il“Cinema” è una cattedrale ed i “Film” sono le particostitutive della sua architettura (dai semplici edumili materiali di costruzione che devono però esse-re di buona scelta e fattura per reggere i segni e leingiurie del tempo, alle belle colonne di marmo, aitransetti, alle ampie navate, all’abside, su su fino allacupola che la completa), il cinema italiano di que-st’epoca (che rappresenta poi la sua maturità emodernità) assomiglia molto ad una chiesaRomanica dove, secondo la filosofia umanistica, lospirito si fa carne e la carne incontra lo spirito. Dove,quindi, la scelta di un’inquadratura, di un’angolazio-ne, di un movimento della macchina da presa, ossiala scelta dei materiali per questa sua incarnazione-edificazione, ha a che vedere con l’etica, come poiavrebbero sentenziato e statuito (ancora Godard fratanti) i jeune turcs della Nouvelle Vague, prima checon l’estetica. Anche se bisogna ugualmente dire cheuna cinematografia, in quanto tale e per esser tale, ènon solo “senso”, ma anche “segno”, non solo, comerileva Bazin, “ciò che il film vorrebbe dirci”, maanche “come lo dice” (op. cit.). Il “Cinema” neces-sariamente crea il proprio stile. L’etica necessaria-mente crea la propria estetica.

Tutto questo per far notare come, dietro alla rivo-luzione dei soggetti che la corrente del “neoreali-smo” porta con sé (l’attenzione marcata alle piccole,spesso tragiche, cose della vita quotidiana, lo zavat-tiniano “pedinamento del personaggio”, lo sguardoal mondo dei figli di un dio minore, e così via), c’è,sia pure in maniera un po’ meno percettibile, anche

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un modello narrativo ed un impianto stilistico, che sistanno evolvendo, perfezionando e affinando.

Basterebbe pensare, banalmente, a cosa compor-ta, in termini di fotografia ed illuminazione (chevanno poi ad incidere sull’uso che si fa della mac-china da presa e dell’inquadratura), solo il passaggiodai teatri, dove tutto è sotto controllo, all’aria aperta,dove l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e dove sideve adattare la tecnica di ripresa agli scenari e nonviceversa.

Basterebbe pensare alle contaminazioni fra“documento” e “finzione” in opere come Roma cittàaperta, Paisà, Achtung, banditi!, Ladri di biciclette,Sciuscià, perfino Riso amaro, per non parlare delcaso limite di Umberto D dove l’ideologia zavatti-niana si dispiega in tutta la sua ampiezza e in tutta lasua eversione rispetto ai comuni canoni narrativi, e acome la regia riesca a conciliare questi elementi cosìcontrapposti in un discorso filmico omogeneo e addi-rittura innovatore, precursore di futuri, molto prossi-mi, sviluppi. E ci riferiamo ad epigoni qualiAntonioni, Fellini, poi, più tardi (ma non di molto,Accattone è del 1961), Pasolini, Rosi (SalvatoreGiuliano, stesso anno), Olmi, e fino agli inoltratianni ’60, da Bertolucci ai Taviani a Bellocchio, iquali, nella contestazione, anche brusca, senza alcuntimore reverenziale, dei “padri nobili”, non fannoaltro che trasfondere in un nuovo linguaggio, in unanuova “estetica” quella preziosa eredità cinemato-grafica. Quanto film come La commare secca, Primadella rivoluzione, I pugni in tasca, Un uomo da bru-ciare e fino alla completa maturità degli anni ‘70/’80(cito a caso Ultimo tango a Parigi, la saga diNovecento, San Michele aveva un gallo conAllonsanfan...) siano le estreme conseguenze del

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sistema cinematografico italiano uscito dal dopo-guerra, non è questione che si possa mettere in dub-bio (la si può forse discutere un po’ più approfondi-tamente di come possiamo discuterla qui, ma que-sto è un altro paio di maniche). E altrettanto indi-scutibile è quanto tale sistema abbia reso possibile,sulle rovine fumanti del cinema del Ventennio (suCinecittà, il suo modo di produzione, la sua poeticadei generi, il suo italian studio system), la meta-morfosi del linguaggio, l’affermazione di un codicepiù evoluto e adeguato ai tempi, oltre che univer-salmente riconosciuto ed apprezzato (se non bastas-sero i Truffaut ad incensare i Rossellini e la lorogenerazione, ci sarebbero i Coppola e gli Scorsese),di un modello estetico senza precedenti consegnatoalla posterità.

C’era già tutto prima, è vero e l’abbiamo anchesottolineato: il travelling-carrello-movimento dimacchina, il piano sequenza (di cui Blasetti è già unmaestro in tempi lontani), la poesia delle inquadratu-re, la composizione dei piani e dei campi, i tagli diluce eccetera eccetera. Ma tutto, poi, nel corso dellastoria, si scompone e si ricompone in un ordinenuovo: Rossellini con quella sua “rotaia” indietro,mentre Anna Magnani corre disperata verso ilcamion di prigionieri per essere abbattuta da una sca-rica di mitraglia, così “documentaristico” e quindiancora più drammatico; Antonioni che trasforma ilpiano-sequenza in funzione psicoanalitica e lo coniu-ga con le poetiche della incomunicabilità umana,dell’assurdità dei rapporti, intangibilità dellecoscienze (il tutto emblematizzato dalla impossibi-lità, nella scena finale de L’avventura, che la mano diMonica Vitti possa mai raggiungere la nuca diGabriele Ferzetti di spalle, benché, di fatto, gliela

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accarezzi per un attimo); Fellini e quella sua attitudi-ne di contaminare con la tecnica e l’uso del teatro, larealtà ed utilizzare l’obiettivo in senso grottesco;Bertolucci che considera un dolly su un piano mora-le; Leone (di cui non abbiamo molto parlato, ma chemolto ha contribuito e lavorato - sotto e sopra il con-cetto di “autore” -, secondo modalità soltanto sue equindi irripetibili, all’edificazione della “cattedrale”)con quella sua incredibile sensibilità per la contrap-posizione dei campi e dei piani, per il “panfocus”(che gli americani non riuscivano a fare con egualemaestrìa) e l’uso drammatico dei dettagli...

E potremmo andare avanti per molto così. Ma ildiscorso è un altro.

Il discorso è che, dopo questa lunga cavalcata (pernecessità, per sua natura e per scelta, non esaustiva,piuttosto esemplificativa e sintomatica) intrapresaper dimostrare “che cosa è il cinema” italiano e comesi è fatto e rifatto nel corso della sua più che cente-naria storia avventurosa, di come si è manifestato inuna miriade di film che, presi nella loro globalità, lohanno reso possibile, lo hanno stratificato e riempitodi significati in quanto cinematografia nazionale,credo sia giunto il momento di tirare le fila di tutte leargomentazioni fin qui esposte, e di asserire con unacerta attendibilità qualche “fondamentale”.

Primo fra tutti è che fare del cinema non basta afare “il Cinema” di una Nazione; che una quantità difilm messi insieme il più delle volte non è sufficien-te a fare una cinematografia solida, riconosciuta,affermata; che, piuttosto, è il “Cinema”, il sistema, arendere possibili i “Film” e che, in questa incessantee necessaria dialettica, se manca il primo fattore ilsecondo, concepito in se stesso, lascia il tempo chetrova, diventa preda della casualità, nella migliore

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delle ipotesi di un mercato senza veri punti di riferi-mento, alla ricerca frenetica di un pubblico e di unsenso.

Che, infine (ma non per finire, perché il discorsoproseguirà altrove), solo il “Cinema” può crearequella “mitologia” dei propri caratteri distintivi,immediatamente riconoscibile e riconosciuta sottotutte le latitudini (come autorialità, divismo, creazio-ne di linguaggi universali eccetera). I “Film”, i suoi“atti individuali”, da soli o presi singolarmente,estrapolati da una struttura o ad essa alieni, possonotutt’al più generare un po’ di “popolarità” e l’eserci-zio di un mestiere fine a se stesso ed al proprio man-tenimento.

Ecco, a quella domanda iniziale, “Che cosa è ilcinema?”, fino a quasi tutto il secolo passato, l’Italiaha sempre saputo dare una risposta, perché, fino aquasi tutto il secolo passato, il “Cinema” italiano èsempre stato una realtà, a volte solida, altre meno,ma comunque una realtà che, attraverso le sue mani-festazioni individuali, i “Film”, ha dato, anche alresto del mondo, un contributo importante, moltospesso eccellente, a questa strana forma d’arte (lastranezza sta nel fatto che i più non la consideranoaffatto arte).

Il “Cinema” è vivo! So long to prohibition!

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