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I miei ricordi - Biblioteca della Letteratura · PDF fileLetteratura italiana Einaudi 1 ORIGINE E SCOPO DELL’OPERA Da parecchi anni mi si viene affacciando il progetto di scrivere

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Letteratura italiana Einaudi

I miei ricordi

di Massimo Taparelli D’Azeglio

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Edizione di riferimento:Barbera, Firenze 1891

Letteratura italiana Einaudi

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Letteratura italiana Einaudi

Origine e scopo dell’opera 1

Capo primo 9Capo secondo 23Capo terzo 40Capo quarto 51Capo quinto 60Capo sesto 73Capo settimo 86Capo ottavo 97Capo nono 112Capo decimo 125Capo decimoprimo 137Capo decimosecondo 148Capo decimoterzo 160Capo decimoquarto 173Capo decimoquinto 190Capo decimosesto 201Capo decimosettimo 224Capo decimottavo 240Capo decimonono 258Capo ventesimo 271Capo ventesimoprimo 288Capo ventesimosecondo 297Capo ventesimoterzo 327Capo ventesimoquarto 354Capo ventesimoquinto 368Capo ventesimosesto 386Capo ventesimosettimo 400Capo ventesimottavo 429

Sommario

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Capo ventesimonono 448Capo trentesimo 472Capo trentesimoprimo 493Capo trentesimosecondo 504Capo trentesimoterzo 514Capo trentesimoquarto 538

Sommario

ivLetteratura italiana Einaudi

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1Letteratura italiana Einaudi

ORIGINE E SCOPO DELL’OPERA

Da parecchi anni mi si viene affacciando il progettodi scrivere l’istoria della mia vita. Ma ogni qualvoltaquest’idea, anzi questo desiderio mi si presenta allamente, rimane tosto avviluppato e reso inerte da milledubbi. Merita la mia vita d’esser narrata? Perchè sentoio il desiderio di narrarla? Mi muove un sentimento lo-devole, od è questo un laccio che mi vien teso da un vol-gare e malaccorto amor proprio?

A far tacere questi dubbi ognuno ha sempre in pron-to le persuasioni degli amici. Ma, per esser giusto, nondebbo accusarli d’essersi mostrati troppo insistenti suquesto particolare; poi credo che in questo caso si ande-rebbe più sul sicuro a poter sapere quel che ne pensino inemici. Onde lascio stare quest’argomento.

Ecco, invece, i motivi che mi mossero a scrivere.Io son arrivato, si può dire, tutto d’un fiato sino alla

mia età di sessantaquattr’anni, senza mai aver avutotempo, sto per dire, di voltarmi indietro. Giova oramaigettare uno sguardo sulla via corsa. È esercizio moral-mente salubre usare il freddo e tranquillo criteriodell’età matura a giudicare gli atti della giovinezza e del-la virilità. E se il farsi da sè in certo modo il processo èutile a noi stessi, perchè non potrebbe esserlo ad altriegualmente, purchè il giudice sia giusto, illuminato esincero? Resta a vedersi se saprò io poi esser tale. Senzapronunziare un sì troppo risoluto mi contento di direche lo spero, e vi porrò ogni studio.

Tuttavia non è male che, per prima prova di sinceritàe di giustizia dia al lettore questo consiglio. Quandodirò male di me, creda pur troppo ad occhi chiusi;quando ne dirò bene, gli tenga aperti. Ora dunque, on-de rendere utile altrui, e più di tutto alla nuova genera-

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

zione, l’opera mia, ecco in qual modo ho pensato ordi-narla e dividerla.

Intendo non tanto narrare le mie vicende, quanto faredi me uno studio morale e psicologico, cercando di co-noscermi e di descrivere a fondo la natura mia, il mio ca-rattere nelle sue successive modificazioni; rintracciandoal tempo stesso le cause obiettive o subiettive che lo mi-gliorarono talvolta, e tal altra lo resero peggiore. S’ionon prendo errore, questa specie di autopsia morale riu-scirà tutt’altro che inutile, sia a chi educa gli altri, sia acoloro che comprendono dovere ogni uomo sino all’ul-timo suo giorno attendere ad educare sè stesso.

Ma non mi basta studiare me ed ingegnarmi di cavareda questo studio utili ammaestramenti. Io spero poteroffrire a chi vorrà leggermi assai miglior derrata che nonsono io.

Ebbi alla vita mia ad incontrarmi con grandissimo nu-mero di persone. Volle la mia fortuna che fra questes’annoverassero uomini di primordine, bellissimi inge-gni, alti cuori e rari caratteri. Io spero riuscire a formarede’ loro ritratti una galleria, ricca di nobili modelli. Vo-lesse Iddio ch’essa ne producesse un’altra ricca egual-mente, quella de’ loro imitatori!

Nella mia lunga carriera io mi sono imbattuto in ani-me di veri eroi. Ma intendiamoci. Io chiamo eroi quelliche sacrificano sè agli altri: non già quelli che sacrificanogli altri a sè. Non avrò dunque a porre innanzi nessunmodello che rassomigli neppure alla lontana a queigrandi tormentatori della nostra specie, che essa adoraed ammira in ragione diretta del male che le fanno. No.I miei eroi la più parte ignorati, tutti vittime e nessunocarnefice, appartennero ad ogni classe; chè la Dio gra-zia, se l’umanità non è quale dovrebb’essere, non è nep-pur composta solo d’inetti o di scellerati, come credonogli Eracliti di tutte le epoche.

Qui poi ho una fortuna tutta mia.

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Per trovare anime elette, degne d’essere poste in lucequali modelli di nobile sagrificio ed intemerata vita, nonho da andar fuori di casa mia; nè saprei meglio princi-piare questo studio critico di molte vite fra le quali lamia è posta soltanto onde serva d’orditura a più degnotessuto, non saprei, dico, meglio principiarlo che da miopadre e mia madre.

Io vorrei poter porre i loro nomi sopra monumentoben più durevole ed illustre che non sono queste poverepagine, ch’io dedico alla loro cara ed onorata memoria;ma il far di più non è in poter mio.

Conosco benissimo che non potrà il lettore dividereinteramente i miei sentimenti, ma non per questo vogliopunto indebolirne l’espressione. Mentirei, così facendo,al mio cuore ed alla coscienza mia; violerei quella leggedi dire intera la verità che mi sono imposta. Mi parrebbequasi rinnegare il culto che professo per chi mi diede lavita, e mi diede, che è ben altra cosa, tutto quel poco chepuò essere di buono in me. Nè mi fece mai vedere atto,mai udir parola che non dovesse riuscirmi di virtuosoesempio.

Qual uomo di cuore potrebbe sapermi malgrado diquesto mio sentire?

Altra avvertenza.Io non vorrei che questo fosse un libro politico o di

circostanza; e se riesco nel mio intento e nel mio lavoro,certo non lo sarà. So bene quanto sia difficile ad unoscrittore non esser più o meno tinto del colore della suaepoca. Si può anzi dire che a lavarsene affatto sia impos-sibile, e forse nemmeno è desiderabile. Ma io ho sempretanto cercato nella mia vita politica di conoscere e segui-re esclusivamente il vero ed il giusto, senza passione diparte e senza occuparmi se ciò piacesse o dispiacesse; hotanto inveterata in me l’abitudine di chiamare uom dab-bene o ribaldo chi credo tale realmente, e non chi ap-partiene ad un partito o ad un altro (e per questo son

Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

riuscito a venire in uggia a tutti); ho tanto cercato di sco-prire ed applicare, quando fui al potere, le leggi elemen-tari che servono a fondare, mantenere e far prosperarele nazioni, senza occuparmi d’interessi, di passioncelle,di miserie volgari, che quasi ho speranza ottenere il miodesiderio e lasciare a chi vien dopo qualche pagina chepossa esser letta senza troppo fastidio, e non del tuttoinutilmente, anche in circostanze ed in epoche ben di-verse dalle presenti.

Io vorrei però che queste pagine servissero, in un sen-so, anche all’età nostra: e mi spiego.

L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia perdivenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato ilsuo territorio in gran parte. La lotta collo straniero èportata a buon porto, ma non e questa la difficoltà mag-giore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto in-certo, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosinemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani.

E perchè?Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Ita-

lia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima,colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab an-tico il loro retaggio; perchè pensano a riformare l’Italia,e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, chesi riformino loro, perchè l’Italia, come tutti popoli, nonpotrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben am-ministrata, forte così contro lo straniero, come contro isettari dell’interno, libera e di propria ragione, finchègrandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera nonfaccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno ilmeglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più dellevolte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di vo-lontà e persuasione che il dovere si deve adempiere nonperchè diverte o frutta, ma perchè è dovere; e questaforza di volontà, questa persuasione, è quella preziosadote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde,

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

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per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia èche si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. Epur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto:pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani.

Ora, se le materie, i racconti, gli esempi contenuti inquesto libro, potessero avere per effetto di contribuire aformare un solo alto carattere, io crederei aver reso ungran servizio al mio paese; poichè se è vero, come dice ilproverbio, che un pazzo ne fa cento (e grandi esempi nevediamo tuttodì), è vero altrettanto che anche un alto eforte carattere può farne cento e mille, e dare vita, calo-re, e, per dir così, intonazione più degna e più generosaper anni ed anni ad un intero paese.

Mi rimane ora a manifestare l’ultimo de’ motivi diquesto scritto; e, certamente, il meno importante, poi-chè mi è interamente personale. Debbo quindi invocarein suo favore tutta la cortesia del lettore.

La mia famiglia, secondo ogni probabilità, sta perestinguersi, e sono ben lungi dal metter questo fatto frale sciagure di Stato. Anzi, a dirla nell’interesse nostroprivato, preferisco vederla finire adesso con onore, poi-chè le tre ultime generazioni (posso affermarlo franca-mente) non contarono se non uomini onesti ed onorati,preferisco questo al pericolo di terminare più in là conqualche marchesino imbecille, come può accadere be-nissimo, e forse con peggio.

Anco Dante dice nel Purgatorio:«O Ugolin de’ Fantolin, sicuro È il nome tuo, da che

più non s’aspetta Chi far lo possa, tralignando, oscuro.»Onde questo mio sentire sta in buona compagnia.Ma, a ogni modo, è nella nostra natura la ripugnanza

alla distruzione, e più ancora all’oblio. Io non potrei so-stenere l’idea che in un paese da me tanto amato, e tantoamato e servito dai miei, fra pochi anni nessuno neppurpiù sapesse che siamo stati di questo mondo.

Ora, dunque, è mio disegno che questo scritto serva

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

tutt’insieme a descrivere la mia vita, a narrare i fatti del-le persone degne, che o m’appartennero ovvero incon-trai; e, finalmente, che gli si unisca una breve monogra-fia di casa nostra onde non se ne spenga così subito lamemoria nel cuore dei miei concittadini.

Sento purtroppo non essere io fra quei cigni chel’Ariosto dipinge soli capaci di salvare i nomi che lo me-ritarono, dall’onde dell’Obblio. Ma quello che io nonpotrei fare da me solo, perchè non lo otterrei colla bene-volenza che trovai in tanti coetanei, e che può divenireretaggio (e lo spero) dei loro figli e dei loro nepoti?

Detto così dello spirito del mio lavoro, mi si permet-tano due parole sulla forma.

Scrivendo di me debbo mostrarmi quale sono. Debboesser io, proprio io, e non un altro. Debbo, dunque, aquesto fine non solo narrare i fatti esattamente, edesporre senza velo i miei pensieri e le mie opinioni; ma èaltresì necessario che io usi i modi, le frasi, le parole, iconcetti miei soliti, quelli che emergono dalla mia indi-vidualità, dal carattere, dalle abitudini mie.

Io credo che per scrivere bene, bisogna in ogni casoscrivere come si parlerebbe ad una compagnia amica,ben educata, composta d’uomini rispettabili e di donneoneste.

Basta astenersi dalle sconvenienze e da certe trivialità,che un po’ di tatto serve ad indicare, tutto il resto si de-ve dire francamente, col medesimo stile e le medesimeparole che s’usano nel discorrere.

Se in Italia si adottasse questa regola; se una quantitàdi scrittori non si credessero obbligati di cambiar linguaquando hanno la penna in mano; se invece (mi sia per-messa l’ardita immagine) se la mettessero in bocca, nonsarebbe la lettura dei libri italiani quella fatica improba,per non dire quell’impossibilità d’andar innanzi, chepurtroppo è, per noi e più pei forestieri.

E veda se è vero! L’Italia è uno dei paesi ove più ab-

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bondano i facili, i bei parlatori, e dove più abbondanoaltresì gli scrittori illeggibili. Scrivano in nome d’Iddiocome parlano in buona compagnia, e saranno letti comesono ascoltati con piacere. Veniamo ad un po’ d’analisionde meglio intenderci.

Supponiamo che in quella compagnia accennatadianzi avessero tempo e pazienza d’udirmi raccontareciò che ora presento tampato; mi verrebbe egli in mentedi principiare col dire: – Ecco, cari signori e gentili si-gnore, RICORDI PER MASSIMO D’AZEGLIO. – Co-me? (interromperebbe qualcuno), come? per lei? Mi pa-re che ora sono per noi che ascoltiamo, e se sistamperanno saranno per il pubblico. – E non, avrebberagione?

Dunque sul mio frontispizio ho scritto di e non perMassimo d’Azeglio.

Ora, supponiamo altresì che la mia storia non an-noiasse troppo quel crocchio, e qualcuno volesse direche sarebbe bene metterla in carta, mi direbbe forse: –Perchè non detta questi suoi ricordi? – Mi direbbe: Per-chè non li scrive? Altrimenti gli potrei rispondere: Ionon ho mal d’occhi, nè reumi alle dita, e posso scriveresenza dettare. Pare impossibile che ci siano cervelli chevedano un’eleganza nell’equivoco, nel falso e nell’affet-tato! Se così fosse, ci vorrebbe poco a scriver elegante!

Principiando, dunque, il mio libro, ho pensato direche da un pezzo avevo in mente non di dettare ma discrivere i miei ricordi.

Terzo ed ultimo esempio. Nella detta società, se vo-lessi dirigere la parola a chi non è di mia confidenza,non gli darei di tu nè di voi; e perchè? Perchè non s’usa.Dunque, perchè dovrei dare di tu al mio lettore? Gli dodi lei secondo il costume italiano. Il giorno che in so-cietà si darà di tu a tutti, lo darò anche al lettore.

Questi esempi bastano certamente a spiegarle la miaidea, la quale, in sostanza è questa: servirsi delle parole

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

comuni secondo il loro senso naturale, evitare ogni pa-rolone, ogni equivoco benchè minimo, evitare le traspo-sizioni, far in modo insomma che il lettore capisca com-pletamente, subito, ed anzi gli sia impossibile, anche perun attimo, esitare sul vero senso di quello che legge.

Ora un’ultima avvertenza.Dopo che in Francia s’è inventato l’homme sérieux,

dopo che i bambini fumano, dopo che i giovani a 18 an-ni non ballano più, dopo che gli uomini di 30 sposano ladote, e le ragazze di 15 il milionario di 50 anni; dopo in-fine che i tre più antipatici fra i sette peccati mortali, su-perbia, invidia ed avarizia, hanno messo il piede sul col-lo agli altri quattro, s’è formato in ogni lingua più omeno un tono magistrale, didascalico, pesante, malinco-nico, tuono falso, affettato e noioso, e che quindi inten-do evitare.

Ad ogni questione che si presenta, è nella natura miadi correre col pensiero immediatamente a considerarnetutti gli aspetti, come tutte le conseguenze. Delle coseserie mi vien fatto assai sovente di vedere il lato ridicolo,come delle cose ridicole mi si presenta tosto il lato serio.

Tale sono, tale mi mostrerò nel mio scritto. La vita,grazie a Dio, non è sempre nè trista nè tragica; è talvoltalieta, talvolta d’una serietà buffa, che è il non plus ultradel genere ridicolo. Narrando una o più vite, perchè do-vrei riprodurne un solo aspetto, e non tutti quelli che innatura essa veste a vicenda?

Penso dunque di lasciarmi portare a seconda dei sog-getti che mi verranno successivamente fra le mani; e sepoi da essi scaturiscono riflessioni od insegnamenti, per-chè li tacerei? E volendo imprimerli nella mente de’ gio-vani, è forse modo migliore farne un trattato ex profes-so, ovvero spargerli in una narrazione ove l’autore nonsempre si mantiene serio, ma ride pure talvolta se c’èmateria di ridere?

M. D’AZEGLIO

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CAPO PRIMO

Quaesivi justitiam et odiviiniquitatem, propterea...

Sommario. – Ignoranza de’ fatti domestici – Savia risposta dimio padre – Antipatia al casato – Occasione di saperne la sto-ria – Origine Brettona – I Brenier Capel – Passano nel Delfina-to – Uno di loro si fissa in Savigliano – Altra versione di monsi-gnor della Chiesa – La regina Giovanna investe casa Taparelladel feudo di Genola – Compra di Lagnasco – Brenier uomod’arme ci riconosce (secolo XVI) – Il conte di Lagnasco miononno – Suo ritratto – Fama dei cervelli della famiglia – Rime-dio del nonno contro i dispiaceri cortigianeschi – Sua morte –Cesare mio padre – Cristina mia madre – Incertezza s’io debbascrivere di lei – Ritratto di mio padre – Sua nascita ed entrataal servizio – Vita di guarnigione. Usi dei superiori d’allora – Vi-ta da giovane – Entra alla Corte – Società d’allora – Nobiltà –Suoi difetti – Buone qualità – Conseguenze – Conversione –Stato degli affanni – Cause della sua mutazione – Riflessioni.

Ho passata tutt’intera la mia vita sino a tre mesi fa,senza saper altro della mia famiglia se non poche notizieudite da un vecchio agente di casa. Non uscì mai paroladalla bocca di mio padre e mia madre su questo argo-mento. Mi ricordo anzi che nella mia fanciullezza (pote-vo aver dodici anni al più) essendo un giorno riuniti infamiglia, presente qualche amico di casa, il discorso cad-de sulla nobiltà. Io così alla buona, e senza malizia dissi:«Noi, signor padre, siamo nobili?» M’accorsi che dove-vo aver fatta una domanda sciocca, vedendo che tutti ri-devano verso di me. Mio padre, sorridendo anch’esso,rispose: «Sarai nobile se sarai virtuoso.» Ed io non cer-cai più in là.

Non cercai più in là, come dico, per un pezzo: ed anzinon so perchè m’era sempre stato antipatico quel nostronome di Taparelli, e sempre mi son fatto chiamare e fir-mato Azeglio.

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

Ora, tre mesi sono, in una triste occasione per la fami-glia (la morte del mio fratello maggiore Roberto) ebbiad esaminare carte e documenti nostri, e così la mia eru-dizione archeologica sulla storia di casa mia ha potutospingersi nel passato più indietro di mio nonno, puntoche finora non avevo potuto mai superare. Ecco quelche ho imparato.

La gente nostra venne di Bretagna. Forse per questosino ad oggi tutti di casa siamo di testa un po’ dura.

Le vecchie memorie parlano d’una famiglia e d’un ca-stello posto in quella provincia, che ambedue avean no-me Brenier Chapel o Capel. Sul quale era scolpita la me-desima impresa che sempre s’è avuta in casa sino alpresente.

Questo castello venne distrutto, e sparì parimenti lafamiglia, che si trova però trapiantata in tempi posterio-ri nel Delfinato, e molte carte esistono nell’archivio diGrenoble che provano la sua esistenza colà.

Quando Carlo d’Anjou calò alla conquista del Regno,o forse prima, venne in Italia un membro di detta fami-glia, e senza che se ne conosca nè il come nè il perchè,troviamo ch’egli aveva fermata la sua dimora in Saviglia-no, e vi aveva preso moglie. Di sua discendenza vienfuori un Giorgio, che di Chapel, Capel, era, Dio sa co-me, diventato Taparel; e costui co’ suoi figli è la primapersona veramente storica e conosciuta per documentidella famiglia. Per la storia anteriore, l’ho accennata co-me la trovo scritta. È il caso di dire: – Chi non crede, va-da a vedere – Monsignor Agostino della Chiesa nellasua descrizione del Piemonte narra un’istoria diversa, edice (per brevità cito il senso, non le parole): la famigliaTaparella e antichissima di Savigliano e delle principalidi parte guelfa. Guglielmo e Oddone sono nominati si-no innanzi il 1240, coi loro figli, nel libro di cartapecoracontenente gli statuti del popolo di Savigliano come si-

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gnori de’ mulini ed altri ingegni mossi dall’acqua, dellapesca dei fossi, della terra e dei borghi di detto comune.

Qui ricompare quel medesimo Giorgio dell’altra ver-sione. Aggiunge monsignor della Chiesa che trovandosiin Cuneo Ruberto di Leonardo siniscalco e capitano ge-nerale della regina Giovanna, in ricompensa dei moltiobblighi che aveva quella regina alla casa Taparella diSavigliano, investì (1344) del feudo di Genola i figli diGiorgio, Gioffredo, Leone e Petrino di quella casa, confacoltà di fabbricarvi un castello a danno dei nemici del-la casa d’Anjou.

Pochi anni prima (1341) la famiglia era venuta in pos-sesso del feudo di Lagnasco, venduto pel prezzo di 25mila fiorini d’oro a Gioffredo Taparelli e Petrino Fallet-ti d’Alba, da Tommaso marchese di Saluzzo, onde aiu-tarsene a pagare la taglia di ottanta mila fiorini postaglidai suoi zii; costoro, aiutati da Bertrando del Balzo sini-scalco di Carlo II d’Anjou e da altri collegati, gli avevantolto lo Stato e fattolo prigione.

Di detto castello di Lagnasco, come di quello di Ge-nola, la famiglia fu sempre in possesso, ed ancora è.

Siccome la casa nostra, se è antica, non e illustrata nèda grandi fatti nè da quei nomi storici che possono ren-derne importante ed utile la minuta notizia, penso di ri-sparmiare al lettore la noia di leggerla, come a me quelladi scriverla. Dirò soltanto che le due versioni circa la no-stra origine credo possano conciliarsi, e forse la gentenostra prima d’essere guelfa in Savigliano, era venuta diFrancia in una di quelle pur troppo tante calate di uomi-ni del nord.

Abbiamo certa memoria d’un Brenier, uomo d’armenella compagnia di M. de Thermes, venuto a Saviglianonel tempo delle guerre tra Francia ed Impero (M. deMonluc parla della sua guarnigione in allora in Saviglia-no); e trovo che detto gentiluomo, vedendo in casa no-stra l’arma sua medesima, volle sapere di chi noi si veni-

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

va e saputolo, ci riconobbe come affini. Per meglio assi-curarsi, interrogò qual fosse il Santo più in favore nellafamiglia, e venendogli risposto santa Maria Maddalena,affermò che anche nella sua era onorata più d’ogni altro.Parrebbe difficile che queste due circostanze s’incon-trassero per caso. Se veramente l’uomo d’arme aveva in-dovinato, mi troverei, dopo aver tanto gridato Fuori ilbarbaro!, d’essere un barbaro anch’io! Mondo curioso!

Invece dunque di scrivere l’istoria d’una serie di oscu-ri signorotti, che a saperne autenticamente i fatti, Dio sache roba da chiodi si troverebbe, dirò quel che, scarta-bellando, ho scoperto di genere aneddotico; sempre piúo meno interessante, poichè appartiene non tanto allacasa Taparella quanto alla più antica d’Adamo, la cui di-scendenza non si studia mai abbastanza.

Mio nonno fu il conte Roberto di Lagnasco, e ebbeper moglie Cristina contessa di Genola, ambedue uscitidi due rami della nostra medesima famiglia. Ebbero duemaschi: l’uno marchese di Montenera, morto giovaneper una caduta; l’altro per nome Cesare, che fu mio pa-dre.

Pochi giorni dopo averlo messo al mondo, sua madremorì. Parecchi anni dipoi, il conte Roberto sposò Matil-de Caissotti di Casal Grasso, dalla quale ebbe una solafiglia sposata poi al conte Prospero Balbo, padre di Ce-sare lo scrittore, mio fratello cugino per conseguenza, eduno de’ miei piú cari, stimabili e rispettati amici.

Di questo mio nonno io so quel poco soltanto chen’udii da mio padre.

Fu uomo di svegliato ingegno, non senza qualche sin-golarità nel carattere, come si dice che tutti di casa neabbiamo. Anzi nel vecchio Piemonte, non posso nascon-derlo, la razza Taparella avea nome di non avere precisa-mente il cervello ove tutti l’hanno.

Senza voler discutere il fatto, è però bene di riflettereche in questo vecchio Piemonte, pieno d’ottime e sode

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qualità, era molto frequente quel carattere d’immutabi-lità, quell’amore per le tradizioni, quella diffidenza con-tro le novità, che è il distintivo di tutte le razze forti eche si sanno mantenere lungamente tali. Quindi ogni co-sa insolita, anche indifferente, andava poco a sangue aipiù, e si rigettava, chiamandola, senza tanti discorsi,pazzia.

Così mio nonno, per esempio, era gran cultore dellalingua e letteratura inglese. I suoi conoscenti, mi par disentirli, avranno detto: – Curioso il conte di Lagnascocol suo inglese! – E da ciò a concludere: – Già tutti i Ta-parelli n’hanno un ramo, – la via è breve.

Lo so io (come narrerò in appresso) che per aver vo-luto far altro da quel che facevano tutt’i contini del tem-po di mia prima gioventù, fui dichiarato pazzo a pienivoti!

Comunque sia, mio nonno corse, com’era costume dicasa, la carriera militare, e poi di Corte, e fu l’amico (perquanto si può esserlo d’un re) del re Vittorio d’allora.Ebbe fama d’uomo dabbene, quantunque stesse in Cor-te; e siccome in questa professione nessuno può trovarsicosì forte in sella, nè tanto sapersi maneggiare che nongli tocchi spesso rischiare il capitombolo, od almeno in-ghiottire molti bocconi amari, il detto mio nonno s’eravoluto premunire, ed aveva posto nel suo gabinetto mol-to in vista un’iscrizione piemontese che portava questeparole: Ai fa pa nen, cioè Non importa nulla; che però,ha un significato più frizzante in piemontese che in ita-liano, ed equivale al me ne infischio, per parlare conconvenienza. Così, quand’egli tornava di Corte, forsecoll’amaro in bocca per qualche tiro fattogli, vedendo ladetta iscrizione, si dava una sgrullata di spalle, e pranza-va col solito appetito. Queste cose mi raccontava CesareBalbo.

Mio nonno morì di 57 anni, mentre stava per dar mo-

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glie al solo figliuolo che gli rimaneva, e già erano fatte lepromesse.

Venendo ora a parlar di Cesare mio padre, mi trovoaver la piú sicura, la più preziosa delle guide. Hosott’occhio un manoscritto di mia madre che ne narra lavita.

Non nascondo al lettore che, giunto al momento didover parlare anco di lei, di dover dire dei suoi casi, cita-re le sue parole, squarciare quel velo nel quale essa cercòsempre tanto studiosamente celarsi e celare i suoi atti, lesue virtù, mi sento ondeggiare nell’incertezza; provo unsentimento che neppur io so chiaramente definire....Non sarebbe mai questa per parte mia una profanazio-ne? Per quanto io non abbia a palesare se non tutta ladivina bellezza che può splendere in un’anima umana,non v’è egli, però, in ogni cuor gentile un istinto che di-ce la vita della madre di famiglia, e persino la memoria el’elogio delle sue virtù, doversi tenere gelosamente rac-chiusi fra le mura domestiche? Doversi imprimere neicuori dei figli e dei nepoti, rimanervi come un nascostotesoro di famiglia, e non gettarli nella gran corrente del-la pubblicità ad estranei e indifferenti? Io sento che e inme questo istinto, eppure mi risolvo a disubbidirlo. Mivince il desiderio di disegnare i cari lineamenti di quellanobile figura che ebbe grazia, candore, bellezza mulie-bre, ed insieme (come vedremo) fortezza virile. Da ven-ticinque anni essa riposa accanto a mio padre nella po-vera chiesa dei Cappuccini di Genova; oramai essaappartiene all’età passata; non potrà questa circostanzarendere giusto e ragionevole il modificare la severità dicerti principi? Potrebbe egli esser vero, esser bene, chemai non dovessero venire offerti all’imitazione de’ po-steri i nobili modelli della virtù femminile? Chi, se nonla madre, ebbe da Dio l’incarico d’imprimere i primi epiù indelebili lineamenti del carattere dell’uomo? Equella che tanto mirabilmente seppe quest’arte creatrice

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delle forti generazioni, quindi delle grandi epoche, do-vrebbe rimanere ignorata, mentre primo bisogno d’Ita-lia e appunto trovare uomini e chi sappia educarli e ren-derne forte e generoso il carattere?

E di più, ho il diritto di spogliare chi nasce da me,della più, preziosa delle eredità, quella di nobili o vir-tuosi esempi?

Queste riflessioni mi decidono, e tiro innanzi. Ma pri-ma, due parole per dipingere mio padre. Cito il mano-scritto: «Giovane di bellissimo aspetto e di cortesi ma-niere, pieno di talenti, di vivacità (sostenuta però), coltonon poco, bravo nella musica, nel canto, ec. ec.». Cosìmia madre. Mi sia permesso di compiere il ritratto edaggiungere ch’egli fu tenuto uno dei migliori soldati delnostro esercito, uomo d’inesorabile severità di principi eal tempo stesso d’indicibile bontà di cuore, che avrebbedato il suo sangue per risparmiare un dolore alla fami-glia, come l’avrebbe lasciata sagrificare tutta sotto i suoiocchi, piuttosto che tradire il dovere o l’onore. Vera na-tura da morire, secondo le epoche, nella botte di Rego-lo, ovvero nel Circo, sbranato da’ leoni, confessando lafede di Cristo. Non piegò mai in vita sua a fronte del do-vere, e di questo fu martire secondo lo comportarono icasi ed i tempi.

La coesistenza in lui di due sensi, che quasi sempre sicombattono e soventi volte s’escludono a vicenda, il do-vere e l’affetto, fecero della sua vita una lotta incessante.In continuo sospetto del proprio cuore, sempre all’ertaper tenerlo in freno onde non lo conducesse ad atti didebolezza, gli avveniva talvolta gettarsi dal lato opposto,e parere burbero e rigido. In famiglia noi giovani n’ave-vamo una soggezione incredibile, ed il timore pur trop-po, non lascia limpido il giudizio. Fra i miei rammarichipiù acuti vi è quello d’averlo conosciuto e apprezzatoquanto lo meritava soltanto ora, quando non e più diquesto mondo.

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Quanto bene non si perde per siffatti errori, e quantoimporta evitarne ogni occasione!

Egli nacque il 10 febbraio 1763. All’età di undici an-ni suo padre lo presentò al magistrato detto allora uffi-zio del soldo, il quale regolava quel brutto arruolamentovolontario che ha reso celebre il tipo del così detto re-cruteur, e che, la Dio grazia (quantunque Inglesi edAmericani la pensino altrimenti), venne abolito colla co-scrizione.

Malgrado i privilegi della nobilta, era in essa tantospirito militare, per essere l’armi e l’esercito la base dellamonarchia, di Savoia, che non s’avea punto a vile l’ideadi essere semplice soldato. Tutti per comune sentireconcordavano essere nella gerarchia militare, tanto ine-gualmente graduata, perfettamente allo stesso livellol’onore del semplice soldato e quello del primo generalee dello stesso re.

Perciò non poteva esistere fra noi il curioso fenomenodi vedere un bambino, condotto a spasso da una sua ba-lia, portare l’insegne di maggiore o di colonnello.

È vero però che se i nostri signori entravano nell’eser-cito per la porta comune, trovavano poi in seguito trat-tamento diverso. Presto eran cadetti, poi ufficiali; ed inciò consisteva la differenza sostanziale.

Mio padre soldato, poi cadetto ed ufficiale nel reggi-mento della Regina, seguì le guarnigioni, l’ultima dellequali fu Cagliari. Egli era raccomandato particolarmenteal colonnello ed ai superiori; «i quali (copio il mano-scritto) in que’ tempi facevano veramente da padre aigiovani allievi; ispirando loro i sensi del vero onore, fon-dato sulla fedeltà a Dio ed al sovrano, e nella probità edelevatezza d’animo. Questo era il senso generale dellanobiltà piemontese quasi tutta arruolata sotto il patriovessillo. L’onorario dei militari era limitatissimo; lo eraassai più quello dei cortigiani, a segno che si spendeatutto per le mance e le strenne di Corte. L’onore era il

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gran motto nostro!... » Ed a ciò contribuivano i principi,rispettando quello dei loro gentiluomini e contentandosidel sangue loro quando occorreva.

Dagli undici ai diciassette anni s’esercitò e divenneesperto nel maneggio dell’arme e nelle cose militari, escrive mia madre « ...l’epoca fu questa del suo viveve lapiù infelice (dicea egli stesso!).... » e ciò perchè in queglianni, giovane vivace, di calde passioni, visse da giovane!

A diciassett’anni nominato scudiere del duca d’Aostadal re Vittorio Emanuele padre suo e di Carlo Felice, furichiamato a Torino per tale servizio.

Ecco in quali termini il manoscritto parla di quel gio-vane, il quale giudicava tanto severamente se stesso inquell’epoca della sua vita: «.... Non tardò a farsi cono-scere nelle più scelte società e dalle dame brillanti diquel tempo: era amatissimo in famiglia, più che fratello,amico sviscerato del suo maggiore, tenerissimo per la so-rella e per la matrigna, di nome, ma più che madre per latenerezza verso i figli del marito.»

Come si vede, la sua condotta non sembrava poi tantoscioperata nè alla famiglia, nè alla buona società d’allo-ra. Curiosa società! della quale s’è ora perduta ogn’ideaed ogni tradizione, che non vorrei certamente vedere nelsuo complesso ripristinata, ma che a noi tanto mutati,tanto alieni dalle idee di quei tempi, puó pure dar mate-ria a riflessioni interessanti, come ad impreviste conclu-sioni.

La nobiltà in Piemonte nel secolo scorso ed al princi-pio di questo, più che tirannica, era fastidiosa. Sono cer-to che piú d’una volta le sarà accaduto, signor lettore,d’aver da fare con persona che non mancasse in nulla,trattando con lei, al più stretto dovere di cortesia, chenon le dicesse cosa della quale trovasse modo a potersilagnare, senza parere ridicolo per esagerato puntiglio;ma che al tempo stesso emanasse talmente da tutta lapersona un fatti in là così chiaro, un io son io e tu non

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conti nulla così patente, che non essendovi modo nèd’adirarsene nè di tollerarlo, non le paresse vero d’an-darsene fuori di tiro, e non lasciarvisi mai piú cogliere,se la cosa era possibile.

Tale effetto produceva la nobiltà in Piemonte. Di qui,quella divisione delle classi che appena ora comincia asparire.

Ma se aveva difetti, ebbe pure doti, e si serbò operosaedenergica, mentre in Italia le altre eran fedelmente ri-tratte nei Florindi e nelle Rosaure del Goldoni. E percheciò? Perchè era di continuo in guerra (solamente nel se-colo passato ne furori tre cui partecipò il Piemonte) eperchè la guerra è moralmente più salutare ai popoli chele lunghe paci. La fedeltà ad un dovere difficile e perico-loso tempra gli animi e li rende atti a far bene e forte-mente anche fuori dell’armi. Esempio: Alfieri, il qualenarra aver preso d’assalto la grammatica greca, comeavrebbe vinto una breccia quand’era soldato.

Da tutto questo ne verrebbe però una conseguenzacuriosa: che un popolo, cioè, per serbare le virtù che losalvino dalla decadenza, deve per necessità uccidereogni tanto un dato numero dei suoi vicini.

Studi il lettore questa questione; la studierò anch’io.Intanto, andiamo avanti.

A ventiquattr’anni mio padre subì una di quelle inter-ne rivoluzioni, che mutano e rinnovano l’uomo e chesoltanto sono possibili nelle nature rette, forti ed appas-sionate.

Ardeva in quell’epoca generalmente, ma più in Fran-cia, la febbre di distruzione contro il mondo antico, perla quale a molti pareva avesse il creato a ritornare nelCaos; mentre invece ci condusse, fra orrendi mali, è ve-ro, a vedere noi apparire, secondo l’espressione biblicacoelum novum et terram novam.

L’Italia è l’antica terra del dubbio. Poco vi potè laRiforma, non tanto perchè la frenasse l’Inquisizione ro-

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mana, quanto perchè poco l’Italia si curava di Roma emeno di Wittemberga.

È nella nostra indole di non voler essere più credentidei preti, e i preti di Roma mostrarono sempre di crederpoco. Per conseguenza, gl’ltaliani non presero mai lequestioni di dogma molto sul serio; ed il chi sa se e vero!(dolorosa parola all’umanità!) fin da’ tempi di GuidoCavalcanti dominò sempre fra noi . Perciò fu l’Italiaspettatrice piuttosto indigerente della lotta fra Wittem-berga e Roma, poco curandosi d’ambedue. Ma il dub-bio, le derisioni, i sarcasmi di Voltaire erano più di suogenio; quindi volgeva un sorriso allo scetticismo france-se come a conosciuto e vecchio amico. Se ciò accadevanel resto d’Italia, in Piemonte però era altra cosa.

A fronte di pochi novatori, l’antica fede popolare sta-va salda sull’antiche sue basi. Oggi, dopo tante buferepassate su questo sbattuto paese, poco o nulla vediamomutato al suo carattere tradizionale; figuriamoci qualdovesse essere allora, uscito appena dall’ambiente delmedio evo!

Il senso religioso era vero e profondo generalmente,ed il culto cattolico contava fra i suoi stessi oppositoriassai più empi certamente che non miscredenti.

Predicò nella quaresima del 1784, in San Giovanni,un frate che il manoscritto dice essere stato l’uno de’due, o padre Denobili o Casati. Mio padre l’udì, e siconvinse essere suo stretto dovere il mutare vita. Comesappiamo, per lui scoprire un dovere ed adempierlo acosto di qualunque sacrifizio, era una stessa cosa.Dall’oggi al domani, senza curarsi di critiche, di derisio-ni e forse di rimproveri e di trafitture di cuore, si diedealla professione assidua del principio cattolico, della suamorale e del suo culto, spinto alle più minute applica-zioni; e tale dipoi sempre si mantenne fermo e costantesino all’ultimo del viver suo.

In un animo così risoluto, così schivo dal tentennare

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in ogni cosa, la fede divenne tosto assoluta e profondacertezza. Egli così si provvide, per le traversie amarissi-me che l’aspettavano, il più valido de’ conforti; quello dicredere che pel vero cristiano il male del Mondo presen-te e la moneta che paga il bene infinito del mondo avve-nire.

Beato chi si sente proprio sicuro d’un cosìricco patto!Ma purtroppo in fatto di credere, le aspirazioni, i desi-deri non bastano!

L’uomo crede quello che può, e non quello che vuo-le! E Dio che lo sa, non vorrà l’impossibile come voglio-no gli uomini, nè sarà crudele come son loro.

La parola conversione suona oggi all’orecchio quasicome un vocabolo di antiche leggende di santi. Dovemai oggidì fra noi si vide o s’udì parlar di una di quellepatenti e rumorose conversioni che ricordano san Fran-cesco, san Benedetto, san Girolamo, ec. ec.? Invece,l’esaltazione religiosa è frequente nelle razze anglosasso-ne e tedesca. Fra loro è fatto comune una conversione.Ogni veggente, sia furbo o convinto, vi trova tosto gentedevota, che pel suo dogma accetta sagrifici e privazioni.

Venga invece in Italia un di costoro. Predichi in piaz-za; avrà quell’uditorio medesimo che hanno i saltimban-chi e che, finito il sermone, si scioglierà, alzando le spal-le e dicendo in piemontese: A l’a bon temp. In italiano:È matto!

A prima vista, dovremmo dunque dire: Si vale assaipiù noi che non ci lasciam corbellare; ma ad andare infondo alla cosa che si trova?

Si trova che la razza più forte, più morale, più domi-nante non è la latina con tutto il suo talento, ma è l’an-glosassone!

Ciò prova che non è l’ingegno sottile (l’esprit) quelloche forma le nazioni, bensì sono gli austeri e fermi carat-teri; che con gente capace di morire per una fede anchestorta e stramba, c’e qualche cosa da fare; con gente, in-

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vece, non persuasa di nulla, in nome di che o di chi riu-scirete a farla muovere, a farla operare, a farla morire? Ildubbio è un gran scappafatica; lo direi quasi il vero pa-dre del dolce far niente italiano.

Qui però la nave rompe allo scoglio che dianzi accen-navo! Può una nazione, come un individuo, dire: io vo-glio aver fede? E, se non lo può, a che i rimproveri?

Io non vorrei imitare coloro che ad ogni malanno, adogni guaio che li offenda, se la prendono coi preti e conRoma. Siamo indulgenti con tutti, anco coi preti! Il cle-ricato nel medio evo fu esposto ad una tentazione cosìpotente, che resistervi era forse una virtù superiore alleforze umane. Aver in mano la croce, poter con una pa-rola mutarla nello scettro del mondo, e non pronunziarequesta parola! Chi si sentisse da tanto, scagli primo lapietra.

Ma l’indulgenza s’ha da applicare agli uomini, non al-la logica nè alla verità storica. E questa ci dice e ci ripetequello che, or sono tre secoli, ci diceva Machiavelli. Lospettacolo della Roma papale ha spenta in Italia la reli-gione; e se è vero, come io credo innegabile, che una na-zione che ne è priva non può essere nè ordinata nè forte(prova gli antichi Romani, i moderni Anglosassoni epurtroppo noi!), convien concludere che l’Italia nonsarà veramente nazione, finchè non sia ferma in un prin-cipio religioso; che questo, se non si comanda nè s’ottie-ne con un decreto o un atto di volontà, si vede però sor-gere quando detto principio si palesa, non come unistrumento di dominio (e brutto dominio) materiale,bensì come una benefica emanazione della divinità. Laconclusione naturale e finale è dunque che, se Roma, seil cattolicismo non si riforma, se il prete non riesce aconvincere che egli crede quello che insegna; ch’egli cre-de che non è terribile troppo la povertà, nè troppo desi-derabile la ricchezza; che è un bene essere mite ed umi-le, ed un male essere crudele e superbo; che la carità ed

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il perdono sono un bene, ed un male l’odio e la vendet-ta; finchè egli non persuade coi fatti ch’egli crede tuttociò, non c’e da sperare si diffonda negli animi italianiquel vero e sincero principio religioso, senza il quale sa-remo sempre, come ora, un popolo di poco nervo, dimeno carattere, e di nessuna facoltà assimilativa tra ipropri elementi.

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CAPO SECONDO

SOMMARIO. – Dissesti di salute – Zelo del medico per la raz-za – Parentado colla casa Marozzo – Scrupolosa lealtà di miopadre – Stabilimento della famiglia – Numero dei figliuoli –decadenza dei cavalier serventi – Scherzo sull’unione coniugaleper moda – Malattia di mio padre – Lascia la corte – Isolamen-to del Piemonte – Rottura della guerra – Mio padre aiutante dicampo del Generalissimo – Vergognosa ignoranza mia – Aned-doto – Proverbio piemontese – È fatto prigioniero – Onored’un tamburino – Nuovo Pilade – Sua origine – Si fa prenderecon mio padre – Sono condotti a Montbrison – Domandanol’elemosina – Generosità d’una contadina – Morte di Robe-spierre. Miglior condizione – Atroce reazione – La moglie e lafamiglia credono mio padre morto – Mirabile testamento dimio padre – Rifiuta la libertà a patto di non combattere controla Repubblica – Il governo francese gli rende omaggio – Rifles-sioni – Ritorno di mio padre – Ritorno di Pilade – Muore – Pi-lade ed Alessandro Magno.

La conversione di mio padre fece chiasso alla Corte enel mondo. Ma quel giovane così vivace e simpatico, co-sì pieno di salute e di forza, a poco a poco sembrava sivenisse spegnendo. Una volontà di ferro aveva in lui, sipuò dire, preso pel crine un corpo di carne e d’ossa, chenella lotta s’accasciava e cadeva.

Non s’esce illesi mai dalle battaglie tra il cuore e la vo-lontà; dopo alcuni mesi, la famiglia concepì gravissimitimori, vedendo sempre maggiori le apparenze di sfini-mento sul viso del figlio superstite. Dovette intraprende-re una lunga cura, che, però, aiutando la gioventù, sortìottimo effetto. Ma l’organismo era colpito, e se vennevinta la malattia del momento, non valsero le cure a ri-produrre il vigore e la salute di prima. Mio padre non fumai più veramente robusto.

L’estinzione di una razza non si prendeva in queltempo colla filosofia colla quale vedo io, per esempio,

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avvicinarsi per la nostra questo fatto, senza perdere per-ciò nè l’appetito nè il sonno.

I medici, interrogati dal nonno, gli risposero pocopoeticamente che, essendo divenuto il marchese Cesarefiglio unico, era bene di cavarne tosto la razza.

Mio padre mi raccontava dipoi questo aneddoto, e sidivertiva molto dell’idea d’essere stato messo da quelbuon medico sulla stessa linea d’un King’s Charles, od’un cavallo arabo.

Il fatto sta che si pensò tosto a dargli moglie; e la figliadel marchese Morozzo di Bianze, Cristina, parve partitoa proposito: fu chiesta ed accordata la sua mano e con-cluso il parentado.

Mia madre, che in appresso non mai si saziava di par-lare del delicato sentire del marito, mi raccontava che,nella prima visita di sposo, mio padre, invece di fare co-me tutti usano di vestirsi, cioè e mettersi in assetto il me-glio che sia possibile, volle, per l’ottimo principio di nonprodurre nessun’illusione ed apparire come ogni maritosi mostra in seguito nella famigliarità coniugale, vollepresentarsi in un vestire talmente negletto (e alloraognun sa che razza di tolette s’usassero) che la sposa e lastessa famiglia rimasero meravigliate e perplesse, non sa-pendo spiegarsi tal cosa.

Ma, soggiunggeva mia madre, «questo non era che ilprincipio.» Dopo poche e cortesi parole, mio padre ca-vatosi di tasca un foglio e voltosi alla sua promessa: «Ec-co, signorina, in questo foglio il mio ritratto morale,ch’ella non può come l’aspetto materiale giudicare a col-po d’occhio «. E datole il foglio, cortesemente si con-gedò, dicendo nell’uscire che, se dopo ben conosciutoquale egli veramente fosse, non mutava pensiero, egli sisarebbe tenuto felice di dedicarsi a lei per la vita e dive-nirle marito.

Mia madre mi diceva che, coll’inesperienza de’ di-ciott’anni, col candore, l’ignoranza del mondo, prove-

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nienti da un’educazione riservata quale era stata la sua,visto in quel foglio una lunga lista di difetti che si attri-buiva il suo pretendente, fu quasi sul punto di non farnealtro, tanto li aveva presi sul serio. Ma i suoi parenti chesapevano quel che ne dovessero pensare, si burlaronodel foglio e di lei; il reo confesso fu richiamato, festevol-mente accolto, e, dopo avergli detto che « si aveva interafiducia sulla sua futura conversione», il matrimonio sifece.

Ecco in qual modo s’esprime a questo punto mia ma-dre nel suo manoscritto: « Questo fu il primo d’una ca-tena d’oro di ben 42 anni di fedeltà e d’amore coniugale,che strinse l’avventurata Cristina in modo indissolubile,sino al 26 novembre 1830, che morte lo sciolse, o per dirmeglio lo rese in parte immortale in Cielo «.

Gia s’annunziavano in Francia le agitazioni che pre-cedettero la rivoluzione, ma lo scoppio doveva accaderepiù tardi; e per tre anni ebbero i miei parenti pace e feli-cità. Furono i soli anni felici, credo io, del viver loro!

Nacquero di loro due maschi successivamente: il pri-mo morì in fasce. Il secondo fu Roberto vissuto poi 73anni. Altri quattro maschi e due femmine vennero dipoi.Queste, moglie l’una (Metilde) del conte Rinco, bellaproprio come un angelo ed altrettanto buona, morì aventidue anni di mal sottile: zitella l’altra (Melania),morì essa pure giovanissima. Enrico, capitano d’artiglie-ria, mancò nel 1824, a 29 anni; onde soltanto Roberto,Prospero il gesuita, ed io, siamo sopravissuti; ed essi milasciarono, solo ed ultimo dei fratelli, soltanto nelloscorso anno 1862.

Era l’anno 1788-89. La società si veniva rinnovando.Tendeva al suo termine l’epoca dei cavalier serventi le-gali, stipulati persino talvolta per contratto matrimonia-le! Che erano stati uno dei mille indizi della necessità diposare la società su nuove fondamenta.

Lascio pensare al lettore se mio padre, moda o non

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moda, sarebbe stato tal uomo da adattarsi a questasciocca e ridicola usanza. Vi si fosse anche potuto adat-tare esso, non l’avrebbe certo accettata mia madre.

Trovo nel suo manoscritto due pennellate su quest’ar-gomento, che dipingono l’epoca, e più la grazia del di leispirito e la maturità del suo giudizio.

«Era questa, dice essa, l’epoca felice nella quale eratornata la moda che i mariti fossero sempre i cavalieridella propria moglie. Quanti sbadigli, quanti musi lun-ghi si osservavano alle volte di certi coniugi, che all’ido-lo della moda sagrificavano la loro libertà e le loro incli-nazioni!

Non pare di vederli?Ma questa felice tranquillità non fu di lunga durata.

Mio padre, trovandosi alla caccia del cervo col ducad’Aosta del quale era scudiero, dove, per chiamare cac-ciatori lontani, dare un grandissimo grido. Questo sfor-zo gli fece sfiancare nel petto una vena; diede per boccagran copia di sangue, onde, messo in pericolo di vita, ri-mase in cura un pezzo, e venne costretto quindi a rinun-ziare al servizio di Corte.

Anche questa cura ebbe felice fine, e mio padre guarì.A tempo appunto per entrare a parte delle lunghe guer-re, come delle varie vicende dello Stato, che soltanto nel1814 dovevano aver breve tregua, per ricominciare poinel ventuno e via via seguitare, finchè piacerà a Dio didarci stabile ordinamento.

Non essendo mio proposito scrivere storie, tanto me-no queste già scritte e note generalmente, non narrerò leguerre che sostenne allora il Piemonte contro l’invasio-ne francese.

Pur troppo mi tocca dire il Piemonte; e non posso ag-giungere: coi rimanenti Stati d’Italia; i quali pure aveva-no con lui comuni i timori, le speranze e i pericoli. Matutti, invitati ad una lega, la respinsero. Napoli solo ac-cennò a qualche velleità d’accostarvisi, che poi terminò

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in nulla. Quei governi però che non avevano spontanea-mente voluto unirsi contro il pericolo, vennero poi, co-me accade, uniti per forza nella comune rovina.

Quante volte nella mia infanzia udii mio padre narra-re di quest’abbandono del Piemonte alle sole sue forze!Nessuno più di lui detestava l’invasione straniera; nessu-no più di lui perciò detestava la secolare discordia italia-na.

Rotta la guerra nella contea di Nizza, il conte diSant’André, di famiglia nizzarda, ebbe il comando in ca-po di quel corpo d’armata e nominò mio padre suo aiu-tante di campo. Egli fece seco due campagne. Poi vennemandato nella valle d’Aosta, ove ebbe il grado di tenen-te colonnello del reggimento Vercelli.

Qui son costretto con mio rossore a confessare chepoco conosco i fatti militari di mio padre, salvo l’ultimoche narrerò or ora; soltanto so in complesso ch’egli eratenuto, come già dissi, eccellente soldato. Egli non par-lava mai di se per lodarsi; e rarissime volte ci ha narratoqualche episodio delle sue vicende d’allora. Avrei potu-to informarmene dai suoi coetanei e compagni ancoravivi; ma per isventatezza giovanile non lo feci. Che cosanon pagherei ora per potere evocare ed interrogare i lo-ro spiriti!

Ciò serva d’avviso a chi è a tempo di risparmiarsi, sevuole, siffatti inutili rammarichi.

D’un aneddoto mi ricordo, narrato da uno degli ami-ci di casa.

L’esercito nostro quando incominciò la guerra dellarivoluzione, era in pace sin dall’epoca della guerra dellasuccessione di Polonia. Per i soldati, quarantasei o qua-rantasette anni di pace significano mancanza assolutadella istruzione pratica di campagna, cominciando dalgenerale sino all’ultimo tamburino. Oltre a ciò, l’ordina-mento provinciale, secondo il quale il soldato non passa-va che poco tempo sotto le bandiere, era tale da non

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correggere punto questo difetto d’esperienza. Uno de’doveri, come una delle difficoltà dei superiori, era dun-que l’avvezzare i soldati a quel severo, minuto e conti-nuo sacrificio di sè, che si chiama disciplina; senza laquale si puó avere una moltitudine d’uomini valorosi,ma non s’ha, non dico un esercito, ma neppure un reggi-mento.

Mio padre, nella val d’Aosta, ebbe un giorno da con-durre il suo battaglione a traverso un piano assai lungo,in faccia al nemico, e sotto una batteria che percuotevain pieno quel tratto di terreno; ottima occasione d’ag-guerrire i suoi provinciali. Egli era di quei tali che usanofare i bravi sulla pelle propria e non sull’altrui. Avrebbepotuto, per smargiassata, formarsi in colonna per ploto-ni; il qual ordine, presentando il fianco al nemico conquindici o venti file di profondità, accresceva il pericolodel soldato senz’accrescere il suo proprio. Egli invece,comandato per fianco dritto, si pose su due file, tamburiin testa, si mosse, e postosi innanzi a tutti, mantenne lasua gente a un passo lentissimo. Qui non poteva dirsi:chi ha fretta, corra; e in questa forma giunsero ove il ter-reno metteva il battaglione al coperto. Cosa singolare!Un solo colpo del nemico colse; ma colse il ferro di lan-cia della bandiera! Tanto e giusto quel gran proverbiodi Gianduja: La paura l’è faita d’ nen: proverbio, che, senon è sempre scrupolosamente veridico (per esempio,quando s’è sotto la mitraglia), è però la fedele immaginedel carattere del nostro popolo, che non ama vedere pe-ricolo dove non è, neppur talvolta dove è.

Non intendo dare a questo fatto maggior importanzache non ebbe, e che certamente non gli attribuiva miopadre. Senza alcun dubbio, la sua vita militare potè pre-sentare circostanze assai più degne di memoria, ma purtroppo, come già dissi, le ignoro.

Vengo al fatto d’arme nel quale fu fatto prigione.Accadde sul Piccolo San Bernardo fra la Thuille e

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l’Ospizio, essendo il combattere per molto tempo ridot-to per quelle vette. Egli occupava col suo corpo il luogodetto le Terre rosse. Fu pei nostri giorno disgraziato; edil reggimento che comandava mio padre, tagliato a pezzio disperso, si potè chiamare distrutto. Egli, naturalmen-te, non volse mai le spalle, e circondato da ogni parte, fupreso, bistrattato, spogliato d’ogni cosa di valore, comes’usava altre volte più assai che non ora, grazie a Dio.

Al momento di cadere nelle mani del nemico, gli ven-ne fatto di guardarsi alle spalle, se mai rimanesse qualcu-no de’ suoi. Mi raccontò egli stesso l’aneddoto in questitermini: «Mi voltai, e non vidi nessuno, salvo un tambu-rino, ragazzo di quattordici anni. Gli dissi con un gestod’impazienza, pensando che tanto valeva non si lasciasseprendere: – Eh, cosa fai costì? – Il fanciullo mi rispose: –Finchè ci sta il colonnello, ci sto anch’io.-»

Peccato non poter sapere che cosa diventasse quelbravo ragazzo! Mio padre non ne seppe più nulla.

Ma un altro compagno gli era rimasto al fianco, e diquesto, grazie a Dio, ne so tutta l’istoria.

Dissi poche pagine addietro che avrei a mettere in lu-ce anime di veri eroi, prese in tutte le classi sociali. Ecco-ne una, e delle migliori; poichè si tratta d’un poverocontadino della valle di Lanzo, ignorante, zotico, chenon sapeva nè leggere nè scrivere, che non aveva la mi-nima idea che esistessero eroi, nè moderni nè antichi,che perciò non conosceva la famiglia degli Atridi nèAgamennone, non aveva mai sentito parlare del suo fi-gliuolo Oreste; e non potè per conseguenza mai rendersiragione dei motivi pei quali da mio padre gli fosse in ap-presso posto nome Pilade: molto meno poi capire qualtitolo di gloria e d’onore fosse per lui questo classico esemimitologico battesimo.

La valle di Lanzo ha per uso tradizionale delle sue po-polazioni la missione di provvedere Torino di servitori edi quei sensali portatori di vino, che in piemontese si

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chiamano brindour ed hanno una blouse turchina, didata, credo io, molto più antica delle blouses rivali deicarrettieri e degli operai.

Dal Colle San Giovanni, paesello della detta valle, eravenuto a servire in casa nostra Giovanni Drovetti giovi-ne montanaro, proprio sgrossato coll’ascia, che mio pa-dre, vedendolo però assai robusto, condusse al campoper servitore. Egli non perdeva mai d’occhio il padrone,ed in questo pericolo, mio padre se lo trovò, come il so-lito, ai talloni. Anche a questo egli disse: «Eh, va’! non tilasciar prendere!» ma il montanaro lo guardò in visocon occhi così trasecolati che una simile proposizione glisi potesse dirigere, a lui, Giovanni Drovetti, che mio pa-dre senz’aggiunger parola accettò il sacrificio del suo fe-dele.

Lo sguardo che quei due uomini si gettarono in quelmomento li legò l’uno all’altro per sempre.

Condotti ambedue dietro la linea francese di combat-timento, mio padre fu creduto un emigrato, e circonda-to da parecchi che schiamazzavano e gli dicevano villa-nie, sino colla sciabola a misurargli sul capo unfendente, gridandogli: «B... d’émigré!» alle quali paroleil prigione rispondeva senz’alterarsi: «Non, jè ne suispas un émigré»; finchè alla fine comparve un ufficialeche si mise di mezzo e terminò questa scena indegna disoldati regolari, liberandolo dalle mani di costoro.

Di qui, per Moutier e Vienna, venne condotto aMontbrison, poi a Feurs nel Forez. Ancora regnava Ro-bespierre coi terroristi, i quali, in quella piccola città,più pazza o feroce delle altre, durarono ancora per certotempo dopo il 9 Thermidor, che ne vide la fine a Parigi.

Ai prigionieri, per mantenersi, erano dati dieci soldial giorno in assignats; i quali perdendo l’ottanta per cen-to, non rimaneva d’effettivo che un paio di soldi. Suquesti dovevano vivere padrone e servitore! Convennedunque ad ambedue campare di elemosina; ma sotto il

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regime dei terroristi l’aiutare i regi era veduto di mal oc-chio, ed esser veduto di mal occhio da coloro si sa checosa in quel tempo significasse. Onde i poveri derelitticercavano di non compromettere all’aperta i loro bene-fattori: il montanaro chiamato sin allora Giovanni, do-mandava e riceveva di nascosto la carità: «Trovò grancompensi (dice il manoscritto) nella carità de’ buoni dicui abbondò mai sempre la Francia, specialmente inquei tempi, e tanto piú nelle persone del sesso gentile.Queste pie signore nelle ore della notte aspettavanoGiovanni, e gli davano pane, ova, burro pel padrone. Vifu una contadina che volle avanzare a Cesare seicentofranchi senza esser sicura del rimborso!...»

Eccone un’altra delle anime eletta, della quale giam-mai saprò neppur il nome, come giammai potrò ringra-ziarne i figli o i nepoti!

Udii da mio padre piú d’una volta qualche particolaredi quella sua vita di mendico: «Un giorno (mi raccontòfra le altre) eravamo condotti in una grossa barca sul Ro-dano, ov’erano a prora cavalli e muli, e noi con loro. Lafame ci costrinse a domandare l’elemosina agli altri pas-seggeri. Ci buttarono cipolle che caddero nella brutturadi quei muli, e che dopo una sciacquata nel fiume, ciservirono da pranzo.» Fortuna per mio padre d’averavuto tal cuore da sentire che il dover dividere quelle ci-polle imbrattate col povero montanaro, non era un’umi-liazione, bensì un onore. Qual onore più alto che il me-ritare che altri s’offra in sacrificio per noi?

Altre volte veniva avvisato che nel tal luogo, alla talora, di notte, si sarebbe in qualche ripostiglio ignoratodetta una messa. Per nevi, per ghiacci, fra le tenebre ed ipericoli (chè ad essere scoperti n’andava la vita, graziealla libertà di coscienza d’allora), egli v’andava, comene’ primi secoli della Chiesa facevano i nuovi cristiani.

Finalmente, dopo la morte di Robespierre, dopo fini-to il terrore, anche nel terrorista Montbrison, accadde la

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reazione, poco meno crudele del regime caduto. Miopadre non era più odiato e respinto generalmente comeprima; un regio si poteva tollerare, se non altro perchèsotto Robespierre era venuto in deliberazione di scanna-re i prigioni, onde risparmiare i due soldi attribuiti al lo-ro mantenimento.

Ma i parenti, i figli delle vittime dei Giacobini, presida una febbre di selvaggia vendetta, cercavano a mortegli antichi carnefici. Mi narrava mio padre d’un giovaneche avea conosciuto per uom religioso e dabbene, e cheun giorno gli si presenta coi capelli ritti, lo sguardo er-rante e furioso, e gli grida: «Monsieur, je viens de tuercelui qui a fait guillotiner mon père!» – «Monsieur, vousn’êtes pas chrétien!», rispose a quel forsennato mio pa-dre.

Ma, mentre egli trovavasi in queste strette di miseria,mia madre in Torino stava in ben più tristi condizioni epiangeva il marito per morto.

Nel fatto d’arme ov’egli era stato preso, i nostri aveva-no, come dissi, ceduto il campo di battaglia, che i Fran-cesi occuparono portandosi avanti. Non vi fu dunqueverificazione possibile di morti e di feriti. Fu creduto aldetto di chi si era trovato al combattimento, o vi s’eradovuto trovare; e pur troppo (mi duole doverlo dired’un ufficiale piemontese) vi fu un tale che per mostrared’essersi messo nella battaglia avanti quanto mio padre,narrò ed affermò essere questi stato colpito da una pallanel petto, e che, mentre egli cercava sostenerlo, n’aveatoccata un’altra nella fronte per la quale era caduto aterra morto.

Non potendosi creder possibile tanta ribalderia in unufficiale, gli venne prestata piena fede: il rapporto portòfra i morti il tenente colonnello Cesare d’Azeglio, e miamadre ricevette l’avviso che suo marito combattendo frai primi, era onoratamente rimasto sul campo.

(Quando noi tre suoi figliuoli, Roberto, Enrico ed io

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si prese servizio, nostro padre ci costrinse a dargli la no-stra parola d’onore che giammai avremmo fatto ricercadi quello sciagurato nè del suo nome, che non volle sve-larci mai).

Mia madre era in quel tempo gravida di mio fratelloEnrico e l’impressione che ricevette da quest’annunziofu una delle cagioni che dissestarono la sua salute e la re-sero in seguito sempre infermiccia.

S’aprì il testamento lasciato da mio padre al partireper la guerra, e vi si trovò uno splendido trattamento la-sciato alla vedova e da doverlesi continuare anche nelcaso di seconde nozze. Vera poi un articolo che diceva:«Nel caso che la mia morte avvenisse mentre sonocoll’armi alla mano, prego mia moglie a non vestire il so-lito lutto, ma a mettersi invece in abito di gala, poichè,dato sfogo all’affetto che mi porta, ella deve tenere agrandissima fortuna per essa e per me ch’io abbia potu-to dar la vita pel Re e pel mio paese.»

Così passarono circa due mesi senza che a lei giunges-se notizia del marito. Finalmente seppe ch’egli era vivo,illeso, e prigione in Francia; e la gioia dell’inaspettatafortuna fu una nuova percossa pel suo organismo già in-debolito. Per mezzo del ministro del Re in Isvizzera levenne fatto d’ottenere che il prigioniero venisse riman-dato su parola. Gia essa ed i suoi speravano poterlo pre-sto abbracciare; ma alla sua liberazione era posta la con-dizione di non più servire contro la Repubblica fino acambio reciproco, e mio padre rispose che mai in eternoavrebbe firmata la promessa di non battersi pel suo pae-se e contro i suoi nemici. Preferì rimanere in quella tri-ste ed amara prigionia, stentando la vita, lontano dallamoglie e dai figli, che erano e furono sempre il suo soloamore, e sofferse questi tormenti per altri sei mesi piut-tosto che mancare a ciò ch’egli giudicava suo dovere.

Ma ebbe una soddisfazione che non era comune inquel tempo. Dopo l’armistizio di Cherasco (21 aprile

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1796) e dopo la trista pace del 15 maggio, gli giunse fi-nalmente il permesso di rimpatriare, e gli uomini stessiche allora governavano la Francia, sui quali pesa ormai ildefinitivo giudicio della storia, non vollero lasciare sen-za una parola d’onore la nobile condotta del colonnellod’Azeglio. Nella nuova permissione era fatta menzionedella «louable délicatesse du citoyen d’Azeglio, en refu-sant sa liberté sous la condition de ne plus porter les ar-mes contre les ennemis de son souverain, etc. etc.»

Prego il lettore di venirsi ricordando degli uomini chein vita sua ha conosciuti, e vedere quanti n’ha trovati disimil tempra. Se n’avra trovati pochi o forse nessuno,potrà comprendere qual cuore sia il mio, mentre scrivoqueste pagine!

E qui viene a proposito ridire e ripetere e ribatterequanto sia potente l’influenza degli alti e forti caratterisulla loro gente, sul loro paese, sul loro tempo.

Non parlerò che di noi suoi figliuoli, e dirò che perquanto siamo tutti rimasti addietro le mille miglia da no-stro padre, quanto a virtù di sagrificio e ad altezza disentire, pure se in vita nostra ci venne mai fatto d’opera-re cosa che fosse buona ed onorata, tutto lo dobbiamo aisuoi belli ed onorati esempi.

Io la provo in me, la forza indestruttibile delle primeidee, delle prime impressioni. Di fatti, quando aprendogli occhi alla luce e le labbra al primo respiro vi trovatecollocato in un ambiente d’onestà, di lealtà, d’onore eche venite crescendo in esso, e trapassando così via viadall’infanzia all’adolescenza e da questa alla gioventù ealla virilità, ne rimanete talmente penetrati ed imbevuti,che malgrado errori, scappate e colpe, pure il fondo delcarattere serba sempre per istinto il senso del dovere edell’onore. E venendo l’occasione, è quasi impossibileche si faccia vergogna a sè ed ai suoi; è probabile inveceil contrario; e così il paese si trova ben servito, ben dife-so, così diventa forte e rispettato.

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Per questo Washington, che io tengo il primo fra queirari uomini, veri padri delle nazioni, che diedero loro lavita morale più che l’essere materiale, per questo egli, ri-tirato a Mont Vernon, scriveva ai governanti d’allora:«per ufficiali scegliete dei gentlemen «. Egli non avevane alterigie aristocratiche, nè invidie democratiche. Ave-va la testa quadra ed amava il suo paese, nè voleva certointendere esclusivamente dei gentiluomini della gerar-chia nobiliare; bensì intendeva parlare di tutti coloroche ebbero educazione ingenua e si trovavano in posi-zione possibilmente indipendente.

Non era certo sua intenzione, come non è punto lamia, il porre in poca stima quegl’individui ai quali fossetoccata più umile fortuna; ma nella società la bisognadev’essere divisa secondo vuole l’utile suo; come a bor-do d’una nave è tenuto conto delle qualità d’ognuno, alsuo miglior governo; Chi sa, regga, e chi non sa, ubbidi-sca: e se le navi vanno generalmente meglio degli Stati,ciò accade per la sola ragione, che in esse ognuno accet-ta la parte che gli compete, mentre negli Stati general-mente, meno se ne sa, e più s’ha la smania di comanda-re.

E non basta dire: «Chi sa, regga» se non s’aggiunge:«e regga chi ha più fermezza di sacrificarsi al dovere»vale a dire di sagrificare il proprio interesse all’interessedi tutti. Ora domando io quale dei due potrà sentirsi piùpronto a tale sacrificio, quello che sin dall’infanzia avràudito esser cosa onorevole e liberale acquistare virtuosa-mente e donar gratis, o quell’altro che da quanto vide eudì bambino, dovè pensare essere missione dell’uomosu questa terra comprare a buon mercato e vender caro?

Ma la democrazia di Washington era il trionfo del di-ritto comune sul privilegio. Ora, quella che vediamo, èinvece il trionfo d’un altro privilegio sul diritto comune.La scuola realista non fiorisce soltanto nella letteratura enella pittura, può anzi dirsi che la sua vera culla fu il

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campo politico. (Chi volesse andare pel sottile in cercadì origini remote, dovrebbe por mano ad Hegel e Schel-ling, ai panteisti, ec.; ma lasciamo ai Tedeschi le nuvole).Questa scuola non conoscendo di reale al mondo se nonil brutto ed il sudicio, come l’ha messo avanti nell’arte eci ha date nei libri per eroine le mantenute e per eroi igaleotti; come ci ha dato in pittura quelle tali tele, cheviste passando a cavallo di galoppo potrebbero parerepitture, ma viste altrimenti, no, perdio; questa scuola,dunque, nel campo politico che cosa ci poteva dare? Di-fatti l’abuso dei vocaboli e arrivato al punto che d’unabito lacero e sudicio si dice: Eh!... abito democratico!d’una casa male spazzata e piena di immondizie: Eh!...casa democratica! e gran quantità di persone hanno fini-to col persuadersi sul serio che la democrazia sia il cultoed il trionfo del brutto, dell’ignobile e dell’imbratto ingenere, tanto materiale che morale!

Venga ora Washington coi suoi gentlemen, e farà fu-rore con questa democrazia!

Ora io, che sono aristocratico per nascita, sono demo-cratico per scelta; (ma, badiamo, della vera e santa e cri-stiana democrazia che tiene gli uomini eguali avanti allalegge politica, sociale, civile, ec., come avanti alla leggereligiosa) io chiederò il permesso di fare una profezia, edire che l’Italia e l’Europa ed il mondo giammai avrannoriposo (neppure quel tal riposo relativo che e conciliabi-le colla vita terrena e colle passioni umane) finchè la ve-ra democrazia non regnerà incontrastata sulle rovine deidue privilegi, dell’antico e del nuovo; finchè essa nonavrà spenti i due enti parasiti, che di sopra o di sotto ro-dono le radici o le cime della gran pianta dell’umana as-sociazione; finchè non sarà assimilata, trasfusa nel san-gue dell’universale la persuasione non esservi nègoverno, nè indipendenza, nè libertà possibile senza laresponsabilità legale d’ogni potere, d’ogni partito,d’ogni associazione come d’ogni individuo, ridotta in

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fatto vero, reale, e rarissimamente, meno che si può, fal-sato da qualche eccezione.

Ma finchè la società ondeggierà, quasi pendolo spintoda mano inconsiderata, fra i due estremi, il despotismodall’alto della Russia e il despotismo dal basso degli Sta-ti Uniti (ora Disuniti), il povero seme d’Adamo cercheràinutilmente il suo assetto.

E son costretto per giustizia a domandare perdono aldespotismo russo d’averlo posto sulla bilancia medesi-ma del despotismo americano. Poichè mentre Alessan-dro Romanoff spezza le catene dei suoi schiavi, AbramoLincoln spezza soltanto quelle degli schiavi appartenen-ti ai suoi nemici! La conseguenza quale sarebbe? Quales’avrebbe a tener peggiore delle due tirannie?... Ma nonla finirei più, e già troppo mi son scostato dal mio cam-mino.

Il lettore anzi avrà già detto: – A costui non mancacerto il coraggio delle digressioni! – Verissimo. Ma iodal canto mio lo pregherò a non volere in questo scrittobadare troppo attentamente alle sue qualità letterarie: iogliel’offro semplicemente come un portafogli nel qualeho gettate le idee a misura che mi sono venute, col solopensiero che possano esser utili alla nuova generazione.

Se poi mi ci illudo, non saprei che farci. Sarà colpad’intelletto e non di volontà.

E riprendo il mio racconto.Venne finalmente pei miei parenti il giorno benedetto

di rivedersi. L’incontro fu all’Ospizio del Mont Cenis,dove mia madre corse fra le braccia di mio padre.

Siccome io non scrivo romanzi ma fatti veri, non puòentrare nel mio disegno il dipingere scene d’affetto; la-scio dunque alla fantasia del lettore il rappresentarsil’incontro e la festa di questi due giovani che tanto ar-dentemente s’amavano; che s’eran creduti separati persempre, e che così si trovavano riuniti dopo tante ansie,tanti dolori sofferti, dei quali non rimaneva altra traccia

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che un’aureola d’onore aggiunta alla fronte di mio padreper la fermezza e la generosità dei suoi portamenti.

La Provvidenza tiene in serbo eccezionali compensiper quelle anime che sacrificano continuamente sè all’al-trui bene.

E certo vi sono momenti nella vita che basterebbero apagare, compensare i tormenti d’un’eternità.

Ma mio padre non tornava solo dalla prigionia. Tor-nava seco il povero montanaro, prigione volontario e vo-lontario mendico per lui. Egli piangeva di tenerezza ve-dendo il padrone e la padrona riuniti. Mio padre lopresentò alla moglie non più Giovanni Drovetti, ma Pi-lade. Lo presentò come amico. E Pilade ed amico vissepoi sempre in casa fino all’ultimo, ed ancora ho il piace-re di pagare la sua pensione agli eredi che Dio manten-ga, moltiplichi e benedica.

Soltanto, quel nome classico e poetico non potè maifar bene la sua nicchia nei cervelli degli altri servitori, edinvece di Pilade si mutò talvolta pur troppo in Pilato.Ma quello che sempre rimase, fu la stima e l’affettod’ognuno pel generoso ed onorato e fedele contadino, ilquale ebbe tanto felice natura che, senza l’educazioneingenua che dicevamo dianzi, ebbe cuore e sentire percento gentlemen.

Ma l’eccezione non distrugge, anzi conferma la rego-la.

La sua immagine è una delle prime impressioni dellamia infanzia. Ma quando lo conobbi, nè sapevo, nè eroin grado di comprendere quanto valesse quel vecchioservo, massiccio, tozzo, sempre in calzoni corti, i qualimettevano in mostra due gambe corte ed erculee comequelle delle Cariatidi cui venne affidato l’ufficio di por-tare in ispalla terrazzini e cornicioni.

Egli morì in casa assai vecchio avendo sempre conti-nuato nel suo umile servizio, senza tenersi punto di quelche aveva saputo fare; e senz’accorgersi mai d’esser altro

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che il povero contadino servitore in casa Azeglio cometanti altri.

Povero Pilade! Io vorrei che in queste pagine fossetanta virtù da poter vivere un pezzo. Almeno non acca-drebbe a te come a tanti altri uomini poveri, oscuri, chetrovano nel proprio cuore, senz’aiuto di libri o d’esempii germi dell’eroismo, e compiono grandissimi sagrifici;che nessuno li sa nè si sogna neppure che siano nati almondo. Tu almeno sfuggiresti ad un totale oblio!

Basta, la Provvidenza saprà dargli compenso miglio-re. Quel che è certo si è, che avendo fede nella sua giu-stizia, non crederò mai e poi mai che in quell’arcano emisterioso luogo che aspetta le anime nostre per pre-miarne i meriti; se colà vi saranno, per usare il vocabola-rio umano, classi, gerarchie, corone, seggi più o menosuperbi, non crederò mai, dico, che, se Dio mi farà tantagrazia d’aprirmene la porta, mi tocchi la mortificazionedi trovare Pilade seduto più basso, verbigrazia, cheAlessandro Magno. Io sento la certezza assoluta cheavrò invece a trovare Pilade collocato molto più in alto;la qual cosa non sarà se non pretta giustizia per l’uno co-me per l’altro.

Sarebbe bella che quello, il quale sparse tante desola-zioni e disperazioni in tante anime umane, non per altroche per usurpare esso solo il bene destinato dalla Prov-videnza a farle tutte più o meno felici; quello che ub-briaco, uccise il suo piú caro amico; quello che morì pertroppo bere, lasciando tante nazioni a sbranare ai suoimasnadieri; sarebbe bella, dico, che Alessandro Magnoavesse da esser preferito dall’eterna giustizia a GiovanniDrovetti!

Vorrei veder questa! – No.

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CAPO TERZO

SOMMARIO. – Sciagure italiane – Mio fratello Enrico – Mianascita – Vita domestica di mio padre – Perchè i signori sonopoveri in Piemonte – Errori dei nostri Governanti – Vita do-mestica dei miei – Tristezza per le pubbliche sventure – Sulprincipiare del secolo – Studio di mio padre onde rendersi uti-le – Si stabilisce a Firenze colla famiglia – Fuit – Firenze è unesilio? – Mio padre odiatore del giogo straniero – Emigrati aFirenze.

La felicità domestica dei miei parenti fu presto voltain tristezza dalle pubbliche sventure.

Il Piemonte e l’Italia divennero per parecchi anni, co-me ognuno sa, il campo di battaglia di due potenti na-zioni; e ci toccava dare sostanze e sangue ad ambedue,colla sola conseguenza possibile di divenir servi odell’una o dell’altra.

Delle grandi verità proclamate dalla rivoluzione, diquei principii così eternamente veri e benefici, detti iprincipii dell’89, chi se ne occupava? Fiorivano invecequelli del 99, che si possono tutti riassumere sotto l’uni-ca formula empirsi le tasche. Allora non se n’era ancoraviste tante, e l’esperienza non aveva ancora insegnatoquello che oggi sanno anche i bimbi a balia, cioè, quantomirabilmente i paroloni eroici servano per giungere aquella tanto vagheggiata e gioconda operazione.

Allora da molti si credeva ancora che la libertà si po-tesse ricevere dall’estero come gli altri Articles nou-veautés che ci venivano da Parigi; si credeva che fare ilmestiere d’uomo libero, ed esserlo e mantenervisi, fossecosa che ogni corbello sa fare senza qualità personali ovirtù nessuna. Quindi tanti, stanchi o seccati, (e non atorto) delle anticaglie de’ governi di prima, che la rivolu-zione francese veniva a rinnovare, accoglievano chi se nefaceva l’apostolo, con grandissima allegrezza. Tutte le

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loro promesse furono dipoi attenute con quella fedeltàche narrano gli storici e che ognuno oramai conosce.

Ma ciò esce dal mio argomento, e passo avanti.Dissi che al tempo della prigionia di mio padre, era

mia madre gravida.Essa aveva poi partorito un maschio, che fu il mio fra-

tello Enrico. Le terribili agitazioni provate dalla madredurante la gestazione esercitarono una fatale influenzasul carattere e sul naturale del figliuolo. Egli ebbe capa-cità per le scienze esatte in ispecie. Ma fu d’ingegno unpo’ tardo; ed amando lo studio, desiderando distinguer-visi, nè trovandosi pronta la mente come avrebbe volu-to, visse melanconico, sfiduciato di sè, ebbe insomma vi-ta breve, amara e tribolata, che per consunzione sispense prima di toccare i trent’anni.

Parlerò di lui più innanzi; poichè la natura sua schiet-ta, affettuosa, infelice, si può studiare ed analizzare conprofitto. Può offrire utili esempi, ai giovani, e a questoio miro sempre.

Enrico non fu l’ultimo dei nati; l’ultimo fui io; ed ec-co giunto il momento in cui mi conviene pure parlare dime, ed accingermi a ripetere continuamente quell’io fa-stidioso, che in conclusione è poi sempre per tutti il per-sonaggio più difficile a maneggiare.

Ma s’io pur voglio mandare il mio disegno ad effetto,questa difficoltà bisogna incontrarla. Incontriamoladunque senza tanti discorsi.

Io nacqui il 24 d’ottobre 1798 nella nostra casa di To-rino in via del teatro d’Angennes, nella camera gialla delprimo piano, dove son nate parecchie generazioni deimiei. Fu mio padrino il cardinale Giuseppe Morozzo, al-lora monsignore, e mi venne posta questa filza di nomi:Giuseppe, Maria, Crisostomo o Gerolamo, Raffaelle,Massimo, dei quali l’ultimo m’è rimasto.

Mia madre mi servì da balia; e di qui cominciò quella

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catena di benefizi dei quali, finchè visse, venni, con in-stancabile sollecitudine, costantemente colmato da lei.

Dopo il trattato di Parigi del maggio 96, mio padres’era ritirato dalle cose pubbliche, dedicandosi alla fami-glia ed alle cure delle sue faccende domestiche, le quali,nelle vicende e nelle guerre degli anni scorsi avevano dimolto scapitato. La casa nostra, già assai ricca, era venu-ta ora in qualche strettezza. Nell’altre parti d’Italia hopiù volte udito deridere noi Piemontesi, perchè, i signo-ri in ispecie, siam poveri. Ma bisogna pensare che: 1° suchi non ha, non cade, se non altro, il sospetto del maleacquistato; 2° che ad ogni guerra (e ve n’era soventi, e aquasi tutte il Piemonte ci aveva la parte sua), la primacosa pei signori, il re dando l’esempio, era il fare un re-pulisti di quanto v’era di valsente in casa, onde supplirealle spese. Come si può arricchire con questa specie disacco dato periodicamente ad ogni casa di signori, alme-no un paio di volte per secolo?

E non si creda mica che loro soli facessero sagrifici. Lifaceva il governo, il tesoro pubblico, quindi tutti. Anco-ra si spendono oggi monete da otto, da quattro soldi,d’un soldo, le quali allora avevano il corso di venti, didieci, di cinque soldi (valore che ancora si vede indicatosulla moneta medesima col millesimo 1796), e questa eranientemeno che moneta falsa, conosciuta e tenuta pertale da tutti, ma che tutti accettavano; e perche? Perchèil Piemontese è duro a sè stesso, sopporta ogni malanno(malo assuetus Ligur, lo dicevano già al tempo dei Ro-mani), non teme la vita travagliata nè il pericolo, quandoè pel suo paese, la sua Casa di Savoia ed il suo onore. Eper questo s’è sempre mantenuto padrone di sè, perquesto non s’è mai rassegnato ad essere paese di conqui-sta; e quando lo divenne sotto l’eccessiva potenza diCarlo V, Francesco I e Napoleone I, tanto fece, tanto sidivincolò e dimenò, che riuscì a liberarsi di chi lo oppri-meva, e ridiventare lui padrone in casa sua come prima.

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E qui vien bene di dire che i Piemontesi erano e sonoben lontani dall’aver più ingegno o più doti degli altriItaliani, ma soltanto hanno carattere un po’ più fermo, edi qui venne loro la bella sorte di poter farsi iniziatoridella totale (speriamolo) emancipazione della Penisola:come pure la ricompensa d’esser venuti in tasca a tuttigl’ltaliani! Ma siccome dell’amor patrio non ne facem-mo mai una speculazione; siccome la liberazione dellapatria comune non mai la credemmo una società anoni-ma per azioni, coi suoi interessi e dividendi; siccome sia-mo pur sempre l’istessa razza e sempre malo assueti co-me i nostri padri; sopporteremo questo malanno,com’essi ne sopportarono già tanti negli scorsi secoli; e,quando gl’Italiani saranno diventati uomini e nazioneforte e compatta, un sagrificio di più o di meno incon-trato per un così glorioso ed utile fine non avrà impor-tanza nessuna.

Piano però, e giustizia per tutti. Se il Piemonte è ve-nuto in uggia agl’Italiani, in parte, hanno torto essi, main parte, bisogna dirlo, ebbero anche torto i Piemontesi;o per dir meglio (chè i poveri Piemontesi non c’entrava-no per niente) quelli che li governavano, per le mirabiliscioccherie che fecero. Di queste dovrò purtroppo par-lare andando innanzi, chè non ho peli sulla lingua, comeognun sa, nè li avrò mai. Ma non è qui ancora nè il luogonè il tempo d’occuparcene.

Mio padre dunque ritornato in famiglia, badava adessa ed a rimettere in sesto i suoi interessi. Tutti queitrambusti gli avean costato in complesso 400 mila fran-chi in denaro vivo; senza contare le perdite nelle sue ter-re per mancanza d’assistenza, resa dalle circostanze im-possibile. E senza parlare poi dell’argenteria, gioie, ec.,che tutto anch’esso pai avea donato al rompersi dellaguerra, come avevano fatto la Corte e tutta la nobiltà.

Oltre le cure di buon massaio, egli ebbe la costanteabitudine di dare allo studio tutto il tempo disponibile.

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Mia madre avea ricevuto un’ottima educazione per l’es-senziale, tale essendo, il costume delle famiglie agiate;ma era altrettanto nell’uso generale di pochissimo occu-parsi della coltura e dell’istruzione delle giovani, le qualisapevano bene il francese, poco l’italiano, per non dirnulla, aveano letto Rollin e Télémaque, nè altro si richie-deva per la loro laurea.

Prese mio padre a coltivare lo spirito della sua giova-ne sposa, che dalla natura l’avea ricevuto acuto, vivace,limpido e facile nel concepire le idee quanto nell’espri-merle; tanto che il suo stile fu scorrevole, naturale e pie-no di sempre sottili riflessioni e di sentimenti gentili. Ec-co in qual modo ella narra la sua vita intima nelmanoscritto:

«Le delizie di Cesare in genere erano la vita domesti-ca, in famiglia, con pochi e provati amici ch’egli godevariunire alla sua mensa...

La sua giornata era piena. Dopo le cose della religio-ne, consacrava molte ore a sua moglie, della quale perfe-zionò l’educazione con buone letture, traduzioni ed altriesercizi adattati. Ripete essa il poco che sa all’amorevoleindustria e communicativa d’un tanto maestro. Quattroore al giorno furono consacrate per lo più a questi studipel corso di quattro o cinque anni; e così si preparavanopure materiali per l’educazione dei figliuoli, onde mette-re la madre in grado di supplire, quando il marito fossechiamato altrove da doveri civili o militari. Il tempo cherimaneva, egli lo impiegava negli studi di belle lettere,storia profana ed ecclesiastica, ec. ec...»

Ma questi conforti di famiglia, questi giorni di studio-so riposo, erano in apparenza tranquilli, in realtà agitatida neri presentimenti.

Per chi ama veramente la patria sua, vederla a poco apoco decadere e sconnettersi, sul pendìo fatale che laconduce alla rovina o almeno a lunghe e terribili sventu-re, assistere a questo precipizio senza aver forze o modo

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d’arrestarne il corso; vedere tutto ciò e sperare poterlodimenticare, poter consolarsi colle lettere e colle arti!Chi lo crede possibile non ne fece la dolorosa esperien-za.

Pur troppo la faceva mio padre, lunga ed amara.Un monte di riflessioni mi si presentano qui. Il Letto-

re me ne lasci dire qualcuna.Da secoli l’umanità si volge come l’infermo sul suo

letto di dolore. Cerca refrigerio anch’essa col mutar latoe non s’avvede ancora che il male non viene dalla positu-ra, ma che l’ha in sè e che a quello bisogna pensare e tro-var rimedio. E qual e questo male? Il male sta, non nellaforma di governo, nelle leggi, ne’ codici; esso sta negliuomini, sta nel loro cuore, nella loro coscienza. Il malesta nelle tenebre che occuparono sino ad oggi l’umanaragione; sta nella imperfetta notizia alla quale è soltantopotuta arrivare sin qui la conoscenza del bene e del ma-le, del giusto, dell’ingiusto; sta, in una parola, nella suaignoranza di quella, per dir così, igiene morale che solapuò mantenere vive e sane e fiorenti le società. Essa co-minciò dal governo dei molti. Alfieri lo chiama dei trop-pi; stanca di questi cercò il governo d’un solo. Stanca dinuovo, provò quello de’ pochi, e poi, più travagliata delprimo giorno, ricominciò da capo le sue prove, semprepersuasa d’aver errato nello scegliere la forma. Ognunadi queste serie ebbe i suoi uomini che la rappresentaro-no, ed ai quali importò sempre ch’essa prolungasse lasua durata. Ma per una legge fatale essi furono invecequelli che sempre piú s’adoperarono per precipitarne lafine.

I Tarquini fecero desiderar la repubblica; Mario, Sil-la, Bruto, Cassio, Cesare, Pompeo fecero desiderar l’im-pero. I patrizi Ezio, Stilicone, Ricimero, Oreste, gli im-peratori di Ravenna fecero parer sopportabili Odoacre eTeodorico, capi di repubbliche (salvo in guerra) più diquel che generalmente si crede. Dal caos del secolo deci-

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mo non poteva uscirsi che colle repubbliche; dopo tresecoli caddero per proprio sfinimento più che per forzaesterna; si ritornò al principato: e Genova, Lucca, Vene-zia, che si mantennero repubbliche, qual trista vita con-dussero?

L’ultimo doge, nel giorno estremo dell’antica Reginadell’Adriatico, si sgomentava in Consiglio, perchè nonabbastanza affrettasse il voto della propria distruzione!«Pensiamo signori, che non siamo certi di dormire nelnostro letto stasera!» Questo era il maggior pensiero deldoge Luigi Manin il 12 maggio 1797.

E perchè tante cadute, perchè tante rovine? Forseperchè non s’era saputa trovare la forma che rende ungoverno civile e potente? No! Ma perchè non s’era sa-puto formare cuori, coscienze, caratteri; perchè nons’erano, in una parola, creati uomini.

Dove invece se ne trovarono, la rovina non accaddecosì rapida.

Il Piemonte, la Dio grazia, cadde due volte soltanto edue volte risorse. Esso aveva sostenuti quattro anni diguerra contro i migliori soldati d’Europa e solo ceduto ilcampo in fine a quel guerriero, che impiegò per andarepoi a Vienna, a Berlino, a Madrid, meno mesi o settima-ne talvolta che non aveva messi anni, o lui, o i generalirepubblicani per entrare in Torino. Non era questo ce-dere vilmente.

Bisogna però concedere che i due ultimi re non ebbe-ro la risolutezza nè i talenti di molti altri della loro casa.

Sul principiare del secolo, l’indomabile Vittorio Ame-deo II, spogliato di tutto, correva il Piemonte non piùsuo con una banda di cavalli. Senza un soldo, senza altrobene che la sua spada e le sue pistole, spezzava il suocollare dell’ordine per donarlo a poveri contadini svali-giati e cacciati fuori dalle loro capanne incendiate. Ma lesue ossa ormai dormivano nelle tombe di Superga e; e suun trono destinato a rovinare, la Provvidenza avea collo-

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cato Carlo Emanuele e Vittorio Emanuele, onesti, comein genere i principi di quella Casa, ma incapaci di fortirisoluzioni come di rapide ed audaci esecuzioni.

Essi, al paro di molti altri principi loro contempora-nei, furon fra quelli, che abbiamo dianzi accennato, di-struttori del proprio sistema. La monarchia di Savoia erabattuta dalle forze, e più dalle perfidie del governo fran-cese, scossa al tempo stesso dai suoi fondamenti dal par-tito repubblicano piemontese, che se non era numeroso,suppliva coll’attività e coll’audacia; e quasi non bastasse,i suoi principi ed i suoi naturali sostegni le toglieano ri-putazione e ne affrettavano la caduta, per quella ciecaostinazione a volere l’impossibile, che abbrevia l’agoniadei sistemi destinati a perire.

Queste irreparabili sventure le vedeva mio padre,spettatore impotente della distruzione, e, peggio millevolte, dell’onta di quanto aveva di più caro e venerato suquesta terra. Ad ogni occasione che gli paresse aprirgliuna via qualunque a farsi vivo pel suo paese, si spingevainnanzi. S’offrì due volte ostaggio pel Re; e quando Na-poleone navigando in Egitto, aveva seco condotta la for-tuna dell’armi francesi; quand’esse dovettero cedere aSuvarow ed all’esercito alleato, venne mandato dal con-te di Sant’André in Sardegna ad invitare il Re perchètornasse a Torino.

Finalmente ricondotta la vittoria alle bandiere france-si sulle pianure di Marengo, riunito definitivamente ilPiemonte alla Francia, perduta ormai ogni speranza,mio padre prese il solo partito che gli potesse riuscir tol-lerabile: si tolse dai luoghi che gli ricordavano tante mi-serie e decise stabilirsi colla famiglia a Firenze. Nel suoscrittoio, dirimpetto al tavolino da lavoro collocò unaveduta di Torino a guazzo chiusa in una cornice di legnointagliato, sulla quale, da piede, era scolpito Fuit. Io lavedevo nella mia prima infanzia e compitavo quel mot-to, nè sapevo allora quante glorie, quante sventure, qua-

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li lunghe ed accanite lotte, quali angoscie, quali ansie,quali ardenti desiderii ed immortali speranze riassumes-se in sè quel Fuit per il nobile cuore che se l’era postodinanzi agli occhi nella terra d’esilio!...

Terra d’esilio Firenze per un Torinese? Così si devedire oggi, e si dice bene; si dice la pura verità.

Ma il giudicare l’uomo d’un’età secondo le ideed’un’altra, e il più fallace ed ingiusto dei sistemi. Tantopei meriti quanto per le colpe e gli errori, assai importainvece distinguer fra quelli che dipendono dall’uomo equegli altri che dipendono dal tempo in cui vive.

L’idea della nazione, destinata ora, se le apparenzenon ingannano, a mutar faccia al mondo civile, o per lomeno a modificarla d’assai, è un portato del nostro seco-lo. Essa e una logica deduzione dall’idea cristiana, che,accordando ad ogni individuo dritti naturali in quantoegli è uomo, dovea per propria tendenza condurre a ri-conoscere i medesimi diritti alle nazioni, che sono la piùgiusta ed ordinata forma delle associazioni umane; dirit-ti anteriori alla legge scritta e la meno incerta fra le basidel dritto politico.

Questo nuovo aspetto preso dalla società, ed afferma-to ora da tutti, è un progresso, un passo di più. Ma èprogresso recente, e sarebbe ingiusto il pretendere che inostri padri informassero da esso i loro pensieri. Sonoinvece da lodare e da tenere quali precursori dell’età no-stra quelli che in quel tempo già sentivano in generel’obbrobrio ed il danno del dominio straniero. E tale erala passione che struggeva mio padre, quando ridotto avita inoperosa ed inerte, vedeva la sua città, le istituzio-ni, l’indipendenza del Piemonte abbattute a’ piedi d’unpotere, il quale sin d’allora minacciava prodigi di violen-za, che la realtà spinse dappoi sino all’inverosimile.

Se mio padre pensava allora al Piemonte e non all’Ita-lia (ed ogni suo Stato, come vedemmo, pensò, o almenocredette pensare a sè quando si trattò d’unirsi per la di-

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fesa comune) l’errore era del tempo e non suo. Ma benfu sua la lode d’aver combattuto con quanti mezzi avevain mano contro lo straniero; fu sua la lode di non mai es-sersi piegato a servirlo; fu sua la lode d’aver mantenutoper tutto il corso della vita quella fede politica e religiosache la coscienza gli presentava per vera, senza mai innessun caso lasciarsi nè da timori nè da speranze torceredal retto sentiero; fu sua la lode di morire senza avertentennato mai, neppure un attimo, ove conoscesse undovere. Ed ebbe quindi l’onore d’esser detto talvoltaesagerato o fanatico dalla generazione scettica e snerva-ta, fra la quale gli toccò consumare la vita sua.

Ma le rivoluzioni, anche le più macchiate da delitti eviolenze d’ogni genere, non solo alla fine producono pu-re talvolta un bene politico; ma producono anche, peruna strana antitesi, un risanamento morale fra gli uomi-ni. Li scuotono, li svegliano, li costringono a cercare inloro stessi un aiuto, una forza propria, a mostrare qua-lità, doti, virtù, delle quali non si supponevan capaci. E,dopo certe bufere politiche, sembra che gli uomini, co-me dopo le bufere del cielo, respirino meglio, ed accol-gano un potente anelito a più aperti polmoni.

Non per questo vorrei essere io a sprigionare cotalibufere. Io non amo le rivoluzioni, ma talvolta sembraamarle la Provvidenza, ed io mi limito a cercar di spie-garmene gli effetti. Quante anime effeminate non venne-ro ritemprate in ogni tempo dalla persecuzione e dalmartirio?

Quante vittime durante i giorni terribili del 93 nonvinsero colla loro fortezza la ferocia dei giudici e dei car-nefici?

Fra un clero di corte e di boudoir, che neppur più sa-peva in che od in chi credesse, quante potenti fedi,quanti indomati caratteri non sorsero inaspettati sotto ilfulminare di quei nuovi despoti che facevano di Cristoun proscritto, e d’una cortigiana la Dea Ragione!

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L’Europa era piena allora di quelli fra i perseguitatiche aveano potuto sottrarsi alla mannaia. L’emigrazionesi trovava, come in ogni altra contrada, anche a Firenze;e gli uomini che avevano tutto sagrificato al dovere era-no, come può credersi, gli amici nati di mio padre e lasua naturale società.

Essa contava un vescovo d’Alby, un vescovo di Bé-ziers (che ricordo come ombre), una coppia Sessolles giàinnanzi cogli anni. Era pure in Firenze, rifugiato comenoi, il conte Prospero Balbo colla famiglia; v’era un ba-ron di Perrone, v’era la casa Delborgo, la marchesa diPrié coi figliuoli, uno Scarampi, tutti torinesi.

V’era poi l’illustre e volontario esule, il conte VittorioAlfieri, che ebbe in grande stima mio padre, non tantopei suoi modi e la sua coltura, quanto per la fermezzamostrata nell’opporsi e non mai piegarsi ai rivoluzionarifrancesi.

Con questa onorata compagnia viveva la mia famiglia,abitando una meschina casa in Mercato Nuovo, dellaquale non posso aver memoria essendone usciti che qua-si ancora ero a balia. Si tornò poscia al Casin de’ Nerlioltr’Arno. Di questo ho già qualche idea, e qui posso co-minciare a rammentare le mie prime impressioni.

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CAPO QUARTO

SOMMARIO – La mia apoteosi – Vittorio Alfieri e Fabre –Sono perseguitato da due ragazze – Aneddoti – Chiavistello diAlfieri – La marchesa di Prié – Fine delle mie relazioni collaContessa e con Fabre – Catastrofe – Occupazioni di mio padre– Sonetto ad Alfieri – Legge Alceste e Mirra ai miei – Ultimitempi di Alfieri – Alfieri prende la Pasqua – Clementina di Prié– Incontri – Ultima malattia d’Alfieri – Sua morte.

«Ehi, Mammolino, stai fermo!»Queste parole, pronunziate con voce profonda da un

uomo lungo, tutto vestito di nero, di viso pallido, conocchi chiari, ciglia aggrottate, capelli tendenti al rosso egettati in dietro dalle tempie e dalla fronte; erano direttead un bambino di quattro anni, tenuto nudo affatto sul-le ginocchia di sua madre. Il bimbo, sbigottito e volonte-roso d’ubbidire quel terribile uomo tutto nero, cessavadi sgambettare, diventava a un tratto una statua; con cheun pittore seduto ad una gran tela con suvvi una SacraFamiglia, il quale prima s’impazientava, poteva ora co-modamente ritrarlo pel suo Bambin Gesù.

La scena era lo studio del Fabre, l’uomo nero VittorioAlfieri, ed il putto ero io: detto allora Mammolino.

Il quadro destinato a Montpellier è tuttora, da quantoso, in una delle sue chiese ove altresì, per conseguenza,si trova il mio ritratto. Sarei curioso sapere se vi si trovianco appeso qualche ex voto.

Questa scena è uno dei primi fatti dei quali abbia me-moria un po’ chiara.

Ricordo altresì che frequentavo la casa d’Albany. Mici conducevano la domenica mattina e la Contessa ascol-tava alcuni versi da me imparati fra settimana, la di cuirecita era immediatamente seguìta dalla sua ricompensa.Ancora vedo l’ampia circonferenza di quella celebrità,tutta in bianco, col gran fichu di linon, alla Maria Anto-

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nietta, salire su una sedia onde por mano alla scatola ditorroni posta sul piano più alto della sua libreria.

Dopo il torrone veniva un pezzo di lapis ed un fogliodi carta per scarabocchi, e mi ricordo (memoria felice!)d’un disegno col quale volli rappresentare la flotta grecain partenza per Troia! Pezzo allora molto applaudito. Senon son diventato gran poeta o gran pittore, non è dun-que per difetto di mecenati nè d’incoraggiamenti preco-ci.

In seguito poi la Contessa istituì una società di ragazziogni sabato a sera; e vi ci radunavamo noi, i Balbo, i Ri-casoli da Ponte alla Carraia, gli Antinori e la ragazza An-tinori, che era un sole, maritata dipoi al Rinuccini e ma-dre delle marchese Laiatico e Triulzio, ora viventi. Civenivano le Torrigiani, le Santini, i Prié, le DelBorgo. Sechiudo gli occhi, vedo, come fosse ora, il camino in fac-cia alle finestre, ed accanto, su un seggiolone, la contes-sa d’Albany col solito suo abito alla Maria Antonietta.Vedo alle pareti due quadri di Fabre: l’uno, l’ombra diSamuele colla Pitonessa e Saulle; l’altro, un soggettopreso dagli scavi di Pompei. Vedo le finestre ad arcotondo di Lung’Arno con tre scalini, sui quali seduto, mibeccavo un gelato e due cialdoni, razione fissata a noibimbi dalla Contessa. Vedo mio padre in crocchio poli-tico con M. Lagensverd, ministro di Svezia, col Carletti,col Libri; vedo due gran canapè dai due lati sotto i qua-dri, col fusto bianco e oro, coperti di marrocchino rosso:li vedo, e quasi potrei dire li sento, perchè le due ultimeragazze DelBorgo, solite a perseguitarmi, si divertivanoa mettermici seduto; e mentre l’una mi teneva per legambe, l’altra mi tirava indietro di sotto il canape, ondenon cadevo in piedi. Queste signorine in seguito diven-nero la marchesa Passalacqua e la marchesa Pamparà.Siano giudici i posteri fra esse e me.

La casa ove viveva la contessa d’Albany col conte Al-fieri è per noi quale l’avrebbe voluta quell’antico filo-

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sofo, tutta di cristallo. Grazie alla Vita ove Alfieri si di-pinse, grazie alle erudite ricerche dei cacciatori d’aned-doti poco edificanti, e, diciamolo, grazie alla poca im-portanza che si dava allora a celare le fragilità umane emuliebri, conosciamo perfettamente quelle due figureoramai storiche, alle quali si connette necessariamentequella del pittor Fabre; erede d’un cuore che, secondol’uso del tempo e più dell’alta società, sembra provasseun invincibile bisogno di tenersi in continuo esercizio.

Non è dunque violazione d’alcun mistero domesticoil narrare qualche circostanza di più di quel già tanto ce-lebre pettegolezzo.

Il conte Alfieri ogni sera alle nove usciva ed andava atrovare una signora di nome francese ma che non ram-mento. Fu questa una rivale della Contessa? Fu un ecci-tamento o una scusa alle sue relazioni con Fabre? Dio losa!

La sera poi quando tornava a casa, guai se i servitorichiudevano il portone e mettevano il chiavistello quan-do ancora potesse udirne lo strepito! «Io son già schiavoabbastanza, gridava, e non voglio sentirmi mettere an-che prigione!»

La marchesa di Prié, mia zia, donna piacente, di spiri-to, d’attività, di gran giro nelle cose di società e di politi-ca, odiatrice ardente delle novità francesi al punto cheNapoleone stimò che gl’importasse frenarla, e la mandòpoi a Fenestrelle; questa mia zia divertente quanto mainel suo discorso e ne’ suoi racconti, mi diceva,quand’ero già giovane fatto: «Io me n’ero accorta da unpezzo dell’intrigo della Contessa con Fabre. Glielo dice-vo alla Santini, e mi dava della matta. Allora in casa delConte sì recitavano le sue tragedie, e recitava anche lui.A una di queste recite mi trovavo alla prima fila di sedie,accanto alla Santini: alla mia sinistra, tra la folla degliuomini, era Fabre appoggiato allo stipite della porta. Mipareva che sempre mi guardasse, ed ogni tanto portava

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alle labbra il rovescio della sua mano. Cosa diavolo vuolda me costui? dicevo. Poi mi venne in mente;… dòun’occhiata alla mia destra nella medesima direzione;vedo la Contessa! Ah, ah! ho capito! Dico alla Santini:guardate un po’ là se son matta! E vide anch’essa Fabreche faceva gli occhi teneri alla Contessa e baciava unanello che aveva in dito.

«Quando poi morì il povero Vittorio, la Contessa erain tutte le disperazioni, ma Fabre non perdè la bussola,prese tutte le chiavi del defunto e gliele portò, ec. ec.»

Difatti la relazione di questi due esseri non finì checolla vita.

Per terminare la storia loro per quanto m’appartiene,dirò che la grata memoria del primitivo torrone mi con-dusse anche in seguito a vedere la Contessa, quandom’accadeva passar di Firenze. Andavo anche a trovarFabre in benemerenza della mia apoteosi; e lo trovai tal-volta ammalato di gotta colla Contessa al capezzale chel’assisteva. Ma erano a poco poco diventati, lei in ispe-cie, molto agri; fosse la politica o la vecchiaia, o l’uggiadi vedere che non ero vecchio io. Perciò diradai. Un’ul-tima catastrofe mi separò definitivamente da loro, e fuquesta.

Le società in casa d’Albany duravano ogni sabato, senon erro, col concorso di quanto si trovava di distintotra forestieri, corpo diplomatico e Fiorentini. Erano ar-rivati in Firenze i fratelli Robilant, miei amici. Si pensòd’andarvi insieme, e li dovevo presentare. Ma quella se-ra ci tentava anche la Pergola! Anderemo dalla Contessadopo il teatro, diss’io, colla mia smania di facilitare, ecosì fu fatto. Ma quando s’entrò da lei, cominciava a di-radare la gente. Mi fo avanti con un po’ di batticuore, epresento bravamente i miei. La Contessa ci fa appena uncenno col capo e, voltandosi al principe Borghese, che leera accanto, dice più che a mezza voce: «À quelle heureviennent ces Messieurs!»

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Noi ci tirammo addietro inceneriti da quel fulmine,cercando rifugio fra le file dei rimasti. Per fortuna mi vi-di poco lontano il conte Castellalfero, ministro sardo inToscana, vecchio, cortese, rotto alla diplomazia ed almondo, e che non aveva punto rabbia coi giovani per-ch’egli non lo era più.

M’accosto a lui che, essendo sera di gala, portava ilgrand’uniforme di Ministro, tutto ricamato, con grancordoni e croci e patacche di brillanti. M’accoglie, al so-lito, benissimo. Tutto ristorato dalla sua benevolenza,mi viene l’infelice idea di prendere da un vassoio unamattonella. Questa voleva rappresentare una pesca edera per conseguenza tonda e durissima. Io mi trovavoproprio a petto al Conte, e mentre cerco col cucchiainod’intaccare la mia pesca, ecco che mi schizza di sotto co-me un nocciolo di ciliegia pizzicato, la vedo balzare sulgran cordone del Ministro e dal cordone rimbalzare sultappeto e rotolare fin davanti la contessa d’Albany!...

Mi pare di correre ancora! e fu quella la mia ultimavisita!

Mio padre che aveva la preziosa dote dell’operosità el’odio al dolce far niente (Dio guardi se anche bambinici coglieva colle mani in mano!), impiegava allo studio isuoi forzati riposi. Istituì un giornaletto l’Ape, che trat-tava materie letterarie e morali, ed ebbe vita e favore.Pubblicò un opuscolo, I trattenimenti all’Elceto. Scrisseparecchi componimenti letterari, politici, di controver-sie: sempre collo scopo fisso di non essere inutile e nonisdegnare il poco, quando gli era tolto il far molto.

Pei giovani, nei nostri tempi di zuffa continua e pa-tente fra il buono ed il cattivo principio, e esempio dafarne tesoro e cercar di metterlo in opera all’occasione.Gli venne anco fatto un giorno di scrivere un sonetto di-retto all’Alfieri, per ringraziarlo di non so qual cortesia.Alfieri lo gradì e glielo corresse. Altissimo favore, e checoncedeva soltanto ai suoi più cari. Un altro componi-

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mento poetico gli fu riveduto anche questo dall’Alfieri.Mi diceva mio padre che il detto componimento finivacon un’arietta a uso Metastasio. Quando il conte Vitto-rio vi giunse, buttò il foglio sul tavolino dicendo: robaMetastasiana!

Difatti uno dei meriti di quell’alto cuore, fu di avertrovata metastasiana l’Italia, e d’averla lasciata Alfieria-na.

Ed anzi il primo e maggior suo merito fu, a parer mio,d’aver egli, si può dire, scoperta l’Italia come Colombol’America, ed iniziata l’idea d’Italia-nazione. Io mettoinnanzi d’assai questo merito a quello dei suoi versi edelle sue tragedie. Per lo stile, la proprietà, l’esattezza, lafelicità d’espressione rimase cento miglia indietro daquel suo sprezzato poeta cesareo. Se poi questi fu molle,non fu Alfieri forse troppo duro? Mi viene in mente, aquesto proposito, un sonetto in dialetto piemontese colquale intese ribattere una simile accusa, e, per imparzia-lità, cito il senso coll’ultimo verso che solo m’è rimastonella memoria. Dopo aver esposta l’accusa di durezzadirettagli dai suoi pari, i signori di Torino, finiva col di-re: «Resta ancora a vedersi,

»Se m’i sonn dur, o s’i se voui d’ polenta!»E siccome io ho rinnovata qui l’accusa, sarà bene che

mi raccolga e faccia il mio esame di coscienza: se anche ame non mi si adattasse la risposta.

D’un altro aneddoto mi ricordo. Trattandosi d’un taluomo, penso riesca caro l’udirlo ad ogni lettore.

Alfieri lesse egli stesso ai miei parenti la sua Alceste ela sua Mirra. La prima cavò molte lacrime dagli occhi dimia madre; ma colla seconda ebbe l’autore un trionfomaggiore, e del quale seppe valutare la sincerità e l’im-portanza. Mia madre, la cui coltura era stata sempre ve-gliata dal marito in modo da scevrarne ogni immaginemeno che pura, ignorava l’istoria di Mirra (e confessoessermi sempre sembrato strano che, col pretesto della

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vendetta di Venere, abbiano i classici voluto farci in-ghiottire quel vituperio, mentre ad una sola vendetta diVenere crediamo ora, e questo non è soggetto tragedia-bile). Perciò, mentre Alfieri leggeva, passa il prim’atto,passa il secondo, il terzo e via via, e mia madre guardavain viso ora il marito, ora Alfieri, e le uscivan di bocca vo-ci di meraviglia, come a dire: «Ma che cos’è? Ma che haquesta donna? « E se non all’ultimo quando essa dice, seben mi ricordo, parlando della madre:

«Felice lei che può morirti accanto!»Quando tutti capiscono perche così vuole l’autore, al-

lora e non prima, capì anche mia madre. Alfieri ne fu alterzo cielo; e certo era una soddisfazione d’amor pro-prio, ed un elogio non punto sospetto.

L’amicizia che correva fra il conte Alfieri e mio padre,su un punto solo li lasciava divisi: sulla questione religio-sa. Tutti conoscono le idee d’Alfieri, e chi m’ha usata lacortesia d’accompagnarmi sin qui, conosce ora anchequelle di mio padre. Eran due caratteri che poco s’inten-devano di concessioni; ed evitavano quindi inutili dispu-te su questa materia, che ha tanto posto in discordia etanto reso inesorabili e crudeli gli uomini, da Cristo sinoa noi.

Ma ogni fede sincera ed ardente porta al proselitismo.Altrimenti sarebbe illogica. Mio padre nel segreto dellafamiglia si doleva dello stato morale del suo amico, etanto più si doleva, sospirava, quanto meno gli era datooperare onde mutasse pensieri. Non solo i miei parentine provavano amarezza; la provava egualmente la colo-nia emigrata, e più le sue donne, come più pie e più pie-tose.

Una gran notizia cadde un giorno in mezzo a quelmondo devoto e l’empì di sorpresa e d’allegrezza. Lamarchesa di Prié aveva una figlia, Clementina, che poisposò il marchese Incontri ed è madre del vivente mar-chese Attilio. Nel tempo pasquale una mattina ritorna a

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casa dalla chiesa dove aveva presa la Pasqua, entra nelsalotto della madre e la trova facendo colazione coi figliCurzio e Demetrio (quello, morto presto; questo impli-cato nel moto del 21, e celebre in ultimo pel suo strata-gemma delle quindici parrucche, onde simulare il cre-scere dei capelli), e con qualche amico di fuori. Non sonsicuro se vi fosse anche mio padre, ma mi pare di sì. Si-curamente però egli mi raccontò il fatto, onde è certissi-mo.

«Signora madre, disse la Clementina, levandosi il ve-lo, indovini un po’ con chi ho preso Pasqua questa mat-tina?... Col conte Alfieri, che m’era accanto al balau-stro!»

Si può immaginare la gioia, la consolazione, lo stupo-re di tutta quella brava gente; e a dirla, mi stupisco an-ch’io. Al punto che non potendo metter dubbio sull’af-fermazione di mio padre, quasi temerei che laClementina avesse preso un altro in iscambio... Del re-sto, poi, non v’è nulla d’impossibile. Quel che è certo, èche se Alfieri avesse creduto bene di prender Pasqua,era muso da prenderla alla barba di tutta l’Enciclopediacon Voltaire in testa. E per questo serve aver carattere.

Nella sua breve ed ultima malattia fu chiamato il pa-dre Canovai delle Scuole Pie. Egli si credette minacciatodi grave responsabilità, ebbe Dio sa quali paure, e volleandar prima dal Vescovo per sentire come s’avesse a re-golare. Ma tardò troppo; e quando finalmente il Cano-vai entrò in camera dell’infermo, lo vide abbassare il ca-po; credette fosse un saluto, ed invece era la morte diVittorio Alfieri. Così mi narrava mio padre.

Trovo nel manoscritto a questo proposito le seguentiparole: «Gravissimo cordoglio fu per il medesimo (miopadre) il trovarsi nelle camere di Vittorio Alfieri, e nonpotergli provare ne’ suoi ultimi giorni l’amicizia cristia-na che gli portava, e che sarebbe certo stata argomento

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d’eterna riconoscenza per l’Alfieri. Ma… i giudizi diDio sono profondi ed inscrutabili!»

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CAPO QUINTO

SOMMARIO. – Particolari d’educazione – Metilde ed io – Po-ca salute di nostra madre – Massime de’ miei sull’educazioneprima – Non ci adulavano – Ci avvezzano a soffrire – diritti de’bambini – La libertà sta nell’obbedienza – Rispettose osserva-zioni – Aneddoti – Nevica sulla zuppa – Galateo – Riforma deldialogo in Italia – Io in ginocchio davanti a Giacolin – Avvez-zarsi al dolore – Mi rompo un braccio – Avvertenze – Modo disvegliarmi – L’abate Lena – Caccia alle serpi – Ovazione im-meritata – Ne’ boschi la notte – Atto meritorio – Metto carroz-za – Generoso dono – La Rochefoucauld ed il Vangelo – Ma-gra civiltà cristiana.

L’educazione di noi figliuoli era divenuta per mio pa-dre il primo ed il più grave dei pensieri, ora che gli veni-va assolutamente tolto il poter servire il Re ed il paese. Ilcollegio Tolomei di Siena avea nome di buon collegio, evi vennero collocati i miei tre maggiori, Roberto, Pro-spero, Enrico. Io, come troppo piccino, rimasi in casa.La sorella Melania era a Torino colla nonna, Metilde en-trò a Ripoli, di dove uscì dopo non molto e ritornò connoi. Venne a vivere in famiglia, onde esserle maestra ecompagna, la figlia d’un antico impiegato nizzardo, ilcavalier Biscarra. Avea nome Teresina, e maritata poine’ Rimediotti, è tuttora vivente, e la più antica delle mieamiche, poichè ebbe per me bambino affettuose premu-re.

Le cure dei nostri genitori eran dunque tutte rivoltealla mia sorella e a me. Essa avea un carattere docile,tranquillo e dolcissimo. Il mio era vivace assai ma altret-tanto buono. Nè allora nè in seguito per anni ed anniebbi in cuore fiele contro persona al mondo. Nè, credo,l’avrei avuto mai, se non era la maledetta politica! Possoperò dire francamente che se per essa provai tal volta in-degnazione o malanimo, grazie a coloro che prendonol’Italia come una coperta onde aver sotto libere le mani

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a procacciare per le loro avarizie, cupidigie, ambizioni evanità; gli è altrettanto vero, e lo posso asserire sul mioonore, che il senso dell’odio non l’ho provato mai con-tro anima viva; e sì, che non e mancato chi me l’ha tiratee me n’avrebbe dato motivo.

In questo però non ho il minimo merito: la Provvi-denza ha voluto farmi così.

I nostri due caratteri non erano, come si vede, dei piùdifficili a condursi: le cose in casa andavano senza scos-se, e fra Metilde e me, benchè essa avesse cinque o seianni di più, passava buonissima armonia.

Una sola circostanza turbava la felicità della famiglia;ed era lo stato già fin d’allora poco felice della salute dimia madre. Erano stati troppo tremendi, per un cosìgentile e delicato organismo, i colpi della fortuna. I suoinervi, indeboliti, ne rimasero infermi per sempre; e, co-me sempre, producevano fenomeni strani ed inesplicati.Ora erano convulsioni e smanie, ora granchi e stiraturemuscolari, ora un’impossibilità per mesi e mesi di pro-nunciare una parola; onde le conveniva parlare a gesti,coll’alfabeto de’ sordo-muti: talvolta ogni strepito le ca-gionava un acuto dolore nel petto, tal’altra, la minimaoscillazione della camera le dava trafitture eguali.

Essa poteva poco occuparsi di noi, e poco contribuirealla nostra istruzione; ma per fortuna nostra potè una talmadre, allora come sempre, procurarci, sia col precetto,sia coll’esempio, un tesoro più importante della istruzio-ne: l’educazione del cuore, la buona direzione degli af-fetti e dei sentimenti.

Essa non meno del marito avea troppo retto giudizioper cadere nell’errore così comune ai parenti educatori;di pensare non al meglio dei figliuoli, ma al proprio co-modo ed alla propria vanità. Io non subii mai nessuna diquelle domestiche torture alle quali l’amor proprio dellemamme in ispecie, condanna così spesso i poveri bambi-ni destinati alla laboriosa carriera d’enfant prodige. Sal-

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vo quei pochi versi, d’Ossian per lo più, che imparavovolentieri in vista del torrone domenicale, non mi ricor-do mai d’essere stato costretto a declamare nulla alle vi-site che venivano a trovare i miei parenti. Di più, nonebbi mai nessuna di quelle incomode toalette di High-lander, di Zuavo, e simili; non portai mai cappellini digusto, nè stivaletti eleganti. Oltre a ciò, mai da mio pa-dre o mia madre, mi vidi ammirato, nè mi sentii dire:quanto sei beffino! quanto sei carino! e però (ora colmuso che ho posso dirlo) credo che lo ero; e difatti miricordo (tanto i ragazzi badano alle parole più di quelche pare) che gli estranei mi dicevano cento belle cose emi mangiavano dai baci e dalle carezze; ed io me ne te-nevo.

Ma i miei volevano per prima cosa far di me un uo-mo, e sapevano che l’educazione deve cominciar collavita; essere, per dir così piccina quando siam piccini, egrande quando siamo grandi; sapevano che i veri germidell’uomo futuro stanno nelle prime impressioni dell’in-fanzia; sapevano finalmente che le adulazioni e gli ecci-tamenti all’orgoglio, alla vanità possono pe’ parenti esse-re un malaccorto sfogo di tenerezza, ma pe’ figliuolidivengono una pessima lezione ed un pessimo regalo.Nè ignoravano che tutti siamo d’una stoffa nella quale laprima piega non scompare mai più.

Essi perció non m’ammiravano nè m’adulavano, ondenon rendermi vano e presuntuoso; non mi mettevano at-torno tante gale, onde non dar esca alla più sciocca dellepretensioni, per un uomo in ispecie, il pretendere in bel-lezza. Neppure m’ammollivano o m’intimorivano controppi: Bada! sta’ attento! puoi cadere, puoi farti male!e, se cadevo e davo qualche capata, non si mostravanturbati, nè si mettevano in tante compassioni; mi diceva-no, non però duramente, ma sorridendo affettuosi: via,via, non sarà nulla. Un giorno che mi feci una scalfitturae che piangevo mi ricordo benissimo, mia madre mi dis-

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se: Bada! se se n’accorgono le budella vorranno scappardi lì! Io, a vedermi burlato, presi cappello e finì il pian-to, vinto dal dispetto.

In una parola, lo scopo de’ miei era d’avvezzarmi allavita quale veramente si presenta poi nel corso degli annisuccessivi. E quest’avvezzarsi consiste tutto nell’acqui-stare la forza del sagrificio, nell’imparare a soffrire.

E, in verità, se le colpe della tenerezza non fosseropur care e simpatiche colpe, si dovrebbe muovere terri-bili rimproveri a quei parenti che pensano bensì ad av-vezzare i loro figliuoli al caldo, al freddo, all’intemperie,ec., perchè sanno che inevitabilmente dovranno esporsiin appresso a soli ardenti, a nevi, a piogge, ec.; e poi,non potendo ignorare che i figli saranno esposti egual-mente a delusioni, a sventure, alle inesorabili esigenzedell’onore e del dovere, non pensano ad avvezzarli a sof-frire!

E si dovrebbe pur riflettere che il diritto naturale esi-ste anche pei bambini; e che è loro diritto di non esserenè corrotti, nè ingannati, nè fuorviati.

Essi hanno diritto di non essere sagrificati ad inop-portune e dannose tenerezze. Hanno diritto d’essere av-viati nel modo piú breve e più certo verso quel benesse-re morale e materiale che, per dir così, è il loro capitale,il loro avere su questa terra, e che tengono direttamentedalla bontà della Provvidenza.

E non v’è bene possibile se l’uomo non è avvezzo asoffrire come ad ubbidire, quando il dovere o la neces-sità lo impongono.

Ora, quali sono i primi, i maggiori dei beni? Essereuomo onesto, ed uomo libero. Pel primo, conviene ub-bidire alla legge morale; pel secondo, ubbidire alla leggepolitica e civile. Può egli farsi ció senza sagrificio, senzapiù o meno soffrire?

So bene che pur troppo in Italia ora, non tutti accet-tano in pratica la mia definizione: la libertà stare nell’ub-

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bidienza. C’è invece nell’aria l’idea opposta, che la li-bertà sta nel disubbidire a tutte le leggi.

Fino ad un certo punto sono da compatire. Ai lunghied odiosi despotismi passati, doveva succedere una vio-lenta reazione. Ma il cadere d’un arbitrio in un altro nonrisolve il problema, e non si sarà nè liberi, nè forti, nè in-dipendenti, finchè invece dell’arbitrio d’uno o di molti,non regni la legge.

Le basi di questa virile ubbidienza debbono però es-sere posate nella prima educazione. I bambini per leggedi natura, debbon formarsi per autorità e non per liberoesame. Sfido un padre, e più una madre a poter rispon-dere a tutti i perchè dei figliuoli altrimenti che colla fra-se: perchè lo dico io!

Inoltre quest’autorità dev’essere appoggiata nel cer-vellino del bimbo ad una stima ed un rispetto profondope’ parenti.

È quindi una ragazzata quanto un’idea falsa messa incapo ai fanciulli, quel trattamento alla pari, quel darsi ditu, fra padri e figliuoli; quel lasciarli metter bocca a tut-to, e di tutto lasciarsi domandar ragione.

Tra l’uomo ed il bambino, tra il padre e il figliuolonon esiste parità e se le relazioni tra loro la rappresenti-no, esse sono una bugia.

Ma anche qui, l’antico despotismo e la nuova licenzain materia d’educazione, furono causa ed effetto comein politica. Si verrà, coll’esperienza, ad una via ragione-vole? Speriamolo.

Questa via, i miei l’avevano quasi trovata, a parermio. Ora spiegherò questo quasi.

Malgrado la venerazione profonda che io professoper mio padre, credo però mi sia permesso di esporre ri-spettosamente i miei dubbi su alcuni suoi atti e alcunesue opinioni. Penso altresì che s’io tacessi ogni critica,non mi si presterebbe gran fede quando io lodo.

Dirò dunque che nel seguire con noi l’ottimo sistema

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dell’autorità, talvolta la sua natura subitanea ed impe-tuosa lo trasportava; ciò unito a quella continua diffi-denza che provava, come dicemmo, del proprio cuore,lo faceva traboccare nell’estremo opposto, e forse era, amomenti, duro oltre misura. Ma anche questo suo difet-to lo benedico. Meglio cento volte quella passeggera du-rezza, che il suo contrario.

In ogni genere ed in ogni caso il governo debole è ilpeggiore di tutti.

Questi erano i principii che guidavano i miei parentinell’educarci. Alcuni aneddoti li mostreranno all’atto.Com’è naturale, narro inezie da fanciulli. Ma non èun’inezia, anzi la più importante come la più difficiledelle imprese l’avviarli bene sin dal principio; e se que-sto scritto potesse non essere inutile affatto ad un talescopo per chi ci segue, il mio desiderio più caldo sareb-be appagato.

La distribuzione delle occupazioni nella giornata eraregolata per Metilde e per me da un ordine del giornoscritto che non si violava impunemente. Così ci avvezza-vamo all’ordine, al non far aspettar nessuno per nostrocomodo; difetto dei più fastidiosi nei più piccoli comenei grandi.

Mi ricordo un giorno che Metilde, uscita in compa-gnia della signora Teresina, si fece aspettare ed arrivò apranzo già bene inoltrato. Era d’inverno e nevicava. Ledue delinquenti sedettero un po’ confuse, e venne loroportata la minestra in due scodelle tenute in caldo, indo-vini dove? Sul terrazzino! non solo erano a zero Réau-mur; ma avevano inoltre per coperta un dito di neve!

A tavola, ben inteso, sì lei che io, non s’apriva bocca,aspettando la grazia di Dio senza diritto nè di petizionenè di osservazione. Quanto allo star con convenienza,pulizia, non far strepito colla bocca nè farsi altrimentisentire, sapevamo che ogni contravvenzione ci conduce-va prestissimo al bando per lo meno. Ogni nostro studio

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era dunque dissimulare la nostra presenza; e le promettoche con questo metodo non ci veniva davvero in capo dicrederci noi il centro, ed il resto del mondo la circonfe-renza; idea che a forza di scioccherie, di smorfie e d’adu-lazioni, vien da tanti fitta, direi, per forza in que’ povericervellini, che lasciati alla semplicità loro naturale, si sa-rebbero mantenuti ragionevoli.

Le lezioni di Galateo non erano soltanto pel tempodel pranzo. Era proibito per noi, anche fuori l’alzar lavoce, l’interrompere; e proibitissimo metterci addosso lemani scambievolmente sotto verun pretesto. Se poi tal-volta nell’andare a tavola io mi cacciavo innanzi a Metil-de, mio padre, presomi per un braccio, mi rimetteva allacoda del corteggio dicendomi: Non c’e ragione d’essereincivile perchè è tua sorella.

La vecchia generazione in molte province d’Italia hal’abito d’urlare come se l’interlocutore fosse sordo, d’in-terromperlo come se non avesse anch’esso la parola e dipicchiarlo in vari luoghi e forme come se non vi fosse al-tro modo di maneggiarlo, salvo le pene corporali. Nonmi si dica dunque che il regolamento di casa mia era unasofisticheria superflua, ed Utinam potesse diventare leg-ge universale del regno.

In un’altra occasione l’ottima mia madre mi diedeuna lezione relativamente al credermi qualche gran cosa,che non iscordo, come non dimentico il luogo dove ac-cadde. Nel gran prato delle Cascine, che ha nel mezzo ilquercione e dove si facevano le corse, entrando a dirittadal parterre del piazzone, c’è un sentiero lungo il bosco.Ero nell’angolo appena entrati, con mia madre, seguitida un altro vecchio servitore concittadino di Pilade,benchè meno eroe di lui, pure buonissimo uomo. Nonmi ricordo il motivo, bensì alzai una piccola canna cheavevo in mano e credo (Dio mel perdoni) che lo percos-si.

Mia madre, alla vista dei passeggianti che c iattornia-

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vano, mi costrinse a mettermi in ginocchio ai suoi piedie domandargli perdono. Ho ancora presente il levarsi ilcappello e la fisionomia costernata del povero Giacolin,che non si poteva capacitare di vedersi davanti inginoc-chiato il cavalier Massimo Taparelli d’Azeglio.

Non temere il dolore era un’altra delle lezioni che piùassiduamente ci dava nostro padre, ed al precetto sem-pre, venendo l’occasione, aggiunse l’esempio. Se ci acca-deva lagnarci di qualche dolore, diceva un po’ in ischer-zo, ma in fondo anco seriamente quanto al senso: «UnPiemontese dopo che ha gambe e braccia rotte e duestoccate a traverso al corpo, allora, e non prima, può di-re: – Veramente.… sì….non mi pare di sentirmi propriobene».

Tanta era poi l’autorità morale che aveva saputo ac-quistare sull’animo mio, che non vi sarebbe stato mai ca-so ch’io non l’ubbidissi in tutto, mi avesse pur detto disaltar da una finestra.

Mi ricordo del primo dente che mi fece cavare; chenel– l’andar dal Campani in piazza del Granduca, didentro mi sentivo morire e di fuori facevo il bravo e misforzavo di mostrarmi indifferente.

Si presentò poi un’occasione più grave di mettere allaprova la mia fermezzina da bambino ed altrettanto, co-me si vedrà, quella di mio padre. Egli aveva preso a pi-gione una villetta ad un tiro di schioppo da San Dome-nico di Fiesole, sulla diritta volgendosi al monte, dettaVilla Billi.

Due anni sono v’andai ed ancora vi trovai la stessa fa-miglia di contadini e i due ragazzi miei compagni e coe-tanei d’allora, Nando e Sandro, barbogi più di me, e cifacemmo festa proprio di cuore.

Stando in questa villa, era costume di nostro padre difarci far lunghe passeggiate che venivano regolate dauna speciale legislazione. Severamente proibito di do-mandare: quante miglia abbiamo ancora? che ora è? di

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dire: ho sete, ho fame, sono stanco, e, del resto, libertàpiena d’atti e di parole.

S’era un giorno sul tornare da una di queste gite, e citrovavamo sotto Castel di Poggio, venendo verso Vinci-gliata per sassi e scoscendimenti.

Io m’era colto un gran mazzo di ginestre ed altri fiori,avevo in mano un bastone, m’avviluppai non so come ecaddi malamente. Corse mio padre, mi rialzò, cercomminella persona e, visto che mi dolevo d’un braccio, lo mi-se a nudo e trovò che un poco deviava dalla linea diritta;e difatti m’ero rotto l’ulna, una delle due ossa dell’anti-braccio.

Io che lo fissavo in viso, lo vidi come trasmutarsi eprendere un’espressione di così viva e tenera sollecitudi-ne, che proprio non mi parve più lo stess’uomo. M’ac-conciò il meglio che potette il braccio al collo, e poi si ri-prese la via di casa. Passati alcuni minuti, durante i qualiera potuto tornare nella natura sua solita, mi disse:«Senti, Mammolino, tua madre sta poco bene. A vedereche ti sei fatto male, si potrebbe rimescolare. Bisogna, fi-gliuol mio, che ti faccia forza. Domattina anderemo a Fi-renze, e ti si farà quel che occorre; ma per stasera nonbisogna che mostri d’aver male. Hai inteso?»

Tutto questo me lo disse con la solita fermezza, macon grandissimo affetto, ed a me non parve vero d’averun incarico importante e difficile da condurre a buon fi-ne; e difatti me ne stetti tutta la sera rincantucciato, te-nendomi il mio braccino rotto il meglio che potevo, emia madre mi credette stanco della lunga passeggiata enon s’accorse di nulla.

L’indomani condotto a Firenze, fu messo in ordine ilbraccio. Ma per guarir bene dovetti andar poi ai fanghidi Vinadio pochi anni dopo.

Forse ora dirà qualcuno che mio padre era un barba-ro?

Io mi ricordo di quel fatto come se fosse ora, e mi ri-

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cordo che nemmeno per ombra mi venne in capo di tro-varlo tale. Ero stato invece così felice dell’indicibile te-nerezza che gli avevo veduta dipinta in viso, e d’altraparte trovavo così ragionevole che non s’avesse a sgo-mentare mia madre, che presi il difficile comando comeuna bella occasione di farmi onore.

E tutto ciò perchè non ero guastato, e mi s’era giàmesso in cuore qualche poco di buon fondamento. Edora che son vecchio e che ho veduto il mondo, benedicola severa fermezza di mio padre: e vorrei i bimbi italianid’ora ne avessero ognuno un simile e ne profittasseropiù di me; fra trenta anni l’Italia sarebbe la prima dellenazioni.

E poi, se ne persuadano, i bimbi sanno ben distingue-re più che non sembra, e nella severità giusta ma affet-tuosa non vedon mai nulla d’ostile. Li ho sempre trovatiinvece disposti a preferire chi li tiene in riga, a quelli chele dan loro tutte vinte; e i soldati hanno lo stesso umore.

Di più; ecco una prova se mio padre meritasse d’essertenuto barbaro.

Egli credeva che non fosse bene svegliare a un tratto ifanciulli, rompendo i loro sonni in modo brusco. Quan-do s’aveva ad alzarsi presto per qualche partenza, egliveniva accanto al mio lettuccio e cominciava a cantareuna canzoncina, ancora l’ho negli orecchi, che diceva:

«Chi vuol veder l’aurora lasci le molli piume.»E così a poco a poco, alzando sempre più la voce, mi

trovavo sveglio senza il minimo sussulto.E difatti, malgrado la sua severità, io gli volevo un be-

ne che lo sa Iddio.All’occasione non mancava poi di mostrarmi che era

contento de’ fatti miei, anco talvolta più di quello che iolo meritassi.

Ai Bagni di Lucca, ove la mia famiglia andò due volte,si abitava in casa dell’abate Lena. Curioso originale, lun-go lungo, con una spolverina a fiorami; uomo che per

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nessuna difficoltà si perdeva. Molti anni dopo, gli vennein capo un giorno d’andare a Parigi. Aveva un calessinosenza mantice a un cavallo, salì su e partì. Ci chiese, pas-sando, l’ospitalità a Torino onde riposar sè e l’animale, epoi via di nuovo, sempre solo, e non so quanti mesi do-po lo vedemmo ricomparire, ed allo stesso modo ritornòa casa sua.

Ai Bagni di Lucca è gran quantità di serpi; innocueperò, ma noiose poichè si mettono persino per le came-re. Una sera trovandomi in un piccol orto accanto allacasa, vidi di queste serpi e, presa una bacchetta, mi ven-ne fatto d’ammazzarne parecchie.

Io non avevo nessun merito per quest’uccisione, poi-chè Allora, potevo aver sei o sette anni, ignoravo affattoche il serpe potesse esser velenoso ed ammazzare colmorso; e quanto al ribrezzo che ispira a molti, io non neprovavo nessuno, come mai in vita mia non l’ho prova-to, onde non ci fu idea di coraggio a sbacchettare quellepovere bestiole.

Fui quindi molto piacevolmente meravigliato quan-do, prese le serpi, le portai a mio padre, allora in compa-gnia di certi nostri zii Osasco, antichi ufficiali, e che mividi accolto da loro con vive acclamazioni celebrando lamia vittoria. Anche mio padre, con più ritegno, mi dissepure bravo, e la mia riputazione di valoroso si trovò sta-bilita con poca spesa come molte volte accade, e nonsoltanto nei bambini.

Era fra i principali pensieri di nostro padre l’impri-mere nella mente non solo mia, ma altresì di Metilde,che è brutta cosa il timore e più brutta il mostrarlo e la-sciarsene vincere. Talvolta ci metteva a qualche provaadattata alle nostre forze; fra le altre, quella di condurci,lui solo con noi due, pei boschi la notte. Come ognun sa,nell’oscurità si presentano gli oggetti, i sassi, i tronchi,sotto forme strane, ed egli quando ne scorgeva qualcu-na, ci fermava, ce la faceva considerare da lontano e ci

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diceva: «Guardate se non pare un animale, un diavolocolle corna!» e simili. Per lo più ripeteva allora il nostrogià citato proverbio: « la paura l’e faita d’nen;» e poipresici per la mano, ci conduceva vicino all’oggetto e sitrovava non esser nulla di strano.

Ma se la mia vittoria sulle serpi fu senza merito, seppiin un’altra occasione vincere me stesso, e qui ebbi meri-to.

Nelle famiglie, ai primi nati, generalmente si regalanobalocchi in quantità, che l’esperienza mostra inutili di-poi; onde chi vien dopo, per solito, non ne vede la stam-pa. Io che ero l’ottavo, non ebbi mai un giocarello, e midivertivo colle sedie, colle granate, in una parola, comepotevo. La sola eccezione a questa regola venne fatta aiBagni di Lucca. Scendendo a spasso un giorno al borgosi videro in mostra a una bottega parecchie carrozzette auno, a due o quattro cavalli, e, non so veramente in onordi che santo, divenni possessore d’una delle più mode-ste. Non avevo mai avuto tanto di bello ed ero in estasi.

Veniva talvolta a far il chiasso con me un altro bambi-no, figlio del conte Cinzano, e siccome neppur lui eraguastato in genere balocchi (bisogna anche riflettere chetutte le nostre famiglie allora erano al verde), la mia car-rozzetta gli faceva venir l’acqua alla bocca e vedevo cheproprio se ne struggeva.

Mi fece una tal pietà, udendo da lui che non avevanulla per divertirsi, che subito gliela regalai; e luisenz’aspettar la seconda parola, via colla carrozzetta,tutto contento. Io rimasi grullo che quasi me ne penti-vo; se non che, quando lo seppero i miei, scoprii tostoche dovevo aver fatta qualche gran bella cosa, tante fu-rono le carezze che ricevetti; e non basta: il giorno dopomi vidi arrivare la più magnifica fra le carrozze di queltal mercante ov’era stata presa la prima!...

Quel mio atto di sagrificio prodotto da un senso affet-tuoso, mi sembra anche oggi fosse lodevole; e non ho

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mai potuto capacitarmi dell’idee di M. de la Rochefou-cault che dichiara non fare nessuna stima del sentimen-to della pietà. È vero ch’egli viveva ad un’epoca nellaquale ad un mal di capo di un gentiluomo ci si badava;ma a due tratti di fune dati ad un manant, che lo manda-van a casa storpiato per la vita, chi ci badava? Allorausava la pieta relativa.

Del resto il Vangelo dice: Beati rnisericordes, ed ilVangelo c’era pure in quel tempo!

Ciò mostra quanto lungamente i Cristiani di nomesiano rimasti pagani, e peggio, di fatto; e se si volesseesaminare anche il mondo presente partendo daquest’idea, si troverebbe forse che la civiltà cristiana hadelle miglia da camminare prima di meritare il suo tito-lo. Esempio.

Supponiamo uno di quei gran casamenti come si ve-dono a Genova, a otto o dieci piani, divisi in quartierioccupati, da altrettante famiglie. Se vedessimo quest’in-quilini non finir mai d’inventare chiavistelli, serrami, fo-dere di ferro alle loro porte, e non andassero mai fuordell’uscio nè sui pianerottoli delle scale senz’avere allamano e coltelli e stocchi e pistole; quand’anche s’invitas-sero a vicenda talvolta, quand’anche, incontrandosi, sisprofondassero in proteste e riverenze, vorremmo dirche in questa casa la civiltà cristiana fosse giunta al suoculmine?

E l’Europa d’oggi non sta forse precisamente nellostato di questa casa?

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CAPO SESTO

SOMMARIO. – Istruzione e educazione – Nuovo ministero –Vo a scuola dal portinaio degli Scolopi – Tirannie napoleoni-che – Rimpatrio sforzato – Lettera del Re – Mio padre fa ade-sione temporaria al governo francese – Ritorno a Torino dellafamiglia – Dolci sorprese – Sono nominato cavaliere – La non-na e il suo castello – La bisnonna da Camino – Madre di cento-sette individui – Don Andreis, secondo prete – Mi secca trop-po! – Altro prete seccatore – Va sempre peggio – La madonnanera d’Oropa – Sant’Ignazio e gli esercizi – Altro prete – Mirendo reo d’un sonetto.

Poichè mi trovo còlto da una digressione, vediamonela fine.

E se gl’inquilini suddetti, quelli che abitano, divisi infamiglie, i vari appartamenti del grand’edifizio chiamatoEuropa, avessero avuto quand’eran bambini chi s’occu-passe non solo d’istruirli ma anche d’educarli; non solodi sviluppare la loro intelligenza ma altrettanto di aprirloro il cuore al senso del vero, del buono e del giusto,vogliamo dire che ciò non avrebbe condotto a nessunaeconomia, nè di corazze, nè di cannoni rigati e, meglioancora, di carceri penitenziarie e di patiboli?

Io non son quacchero, non credo al regno de’ santi,non appartengo alla società della pace perpetua; accettogli uomini, non potendo fare altrimenti, coi loro settepeccati mortali, e credo che vi saranno sempre, più omeno, fra loro, delitti, quistioni e picchiate.

Ma è appunto sul più o meno che s’aggira la discus-sione.

È un sogno la pace assoluta, e un sogno il ritornoall’età dell’oro. Lo concedo. Ma per questo s’avrà da dardel matto a chi si preoccupa del modo onde diminuire leoccasioni di tutti quei malanni che si scatenano sugli uo-mini pel grave squilibrio che esiste fra l’istruzione delleintelligenze e l’educazione dei cuori?

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Uno dei modi sarebbe forse che oltre quel ministerod’Istruzione pubblica che figura ora nell’inventariod’ogni governo costituzionale, si potesse aggiungere unaltro dell’Educazione pubblica. Il primo, per fabbricarescienziati, il secondo, per fabbricare galantuomini.

Ma i galantuomini li fa la morale, lei risponde! Lamorale è parte della teologia, la teologia è la scienza deipreti, volete ora fare un ministero di preti?

La difficoltà è seria, lo capisco. Ma vediamo un po’meglio.

Ministero di preti dunque, no. Tanto piú che pressotutte le nazioni cristiane è ormai istituito da un pezzo.Dappertutto, insegnar la morale, è ministero del clero edei parrochi.

Da un’altra parte, è ormai dimostrato che non basta.Poco gli danno retta gli uomini. È perciò indispensabiletrovar di meglio o almeno di più.

Non si potrebbe fare una prova? Al precetto aggiun-ger l’esempio?

E non parlo solamente ai preti: anzi non li voglionemmen nominare, per la ragione che ho gridato controi preti di Roma quando e dove nessuno osava; ora che apicchiar sul prete ci si diventa cavaliere, mi vien vogliadi lasciarli vivere.

Lasciamoli dunque vivere e parliamo dei governi, e ditutti senza eccezione; monarchie e repubbliche d’ogniforma e d’ogni colore; ed anzi d’ogni potere, compresi ipartiti e le sètte.

Parliamoci un po’ chiaro, una volta!C’e oggi un governo, c’è un potere che si istituisca es-

so ministero dell’Educazione pubblica (e questa sarebbela vera missione d’ogni autorità) e promuova questaeducazione coll’unico e col più efficace dei mezzi, colmezzo dell’esempio? È forse la medesima, la morale deidiscorsi ufficiali e la morale degli atti?

Qual è il governo, qual è il partito, qual è la setta, qual

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è il corpo morale, qual è l’autorità qualsiasi, che adem-pia quel grandissimo, quel primissimo dei doveri di chista in alto, il dar buon esempio a chi sta in basso? Mon-tesquieu dice: «Il y a des mauvais exemples qui sont pi-res que des crimes, et plus d’états ont péri parce qu’on aviolé les moeurs que parce qu’on a violé les lois!»

E senza fare una requisitoria contro le autorità, citeròun fatto solo. Dalla Riforma in qua s’è veduto parecchievolte un principe rinunziare alla propria religione peradottar quella d’un paese che gli offriva la corona a que-sto patto.

Che cosa deve dire il pubblico? O credete nella vo-stra religione, e allora vendete la vostra coscienza per untrono; o non credete in nessuna, e allora siete un ignobi-le ipocrita che simula pel motivo stesso una fede chenon ha! Voi, principe, con ciò insegnate a quanti sonosotto di voi che l’importante è far bene i fatti suoi e cheParis vaut bien une Messe.

E poi vi lagnate di chi, trovando suo conto a tradirvi,vi tradisce? Vi lagnate di chi fa i fatti suoi come può, edè anche alle spalle vostre?...

Istituiamo dunque un ministero di pubblica Educa-zione, un ministero che si potrà anco intitolare del buonesempio, ed il portafoglio l’assuma il governo intero,l’assumano tutte quelle autorità cui s’inchinano gli uo-mini e che hanno la pretensione di guidarli. Allora, pre-sto si potrà discorrere della civiltà cristiana. Prima, no.

Ecco a quali conclusioni mi ha condotto la mia car-rozzetta dei Bagni di Lucca!

Ora torniamo al nostro proposito.La mia infanzia passava dunque assai felice e tranquil-

la, in quella bella e simpatica Firenze che perció semprem’ha fatto il senso d’essere la mia città nativa più di To-rino.

Quando mi si cominciò ad insegnare a leggere e scri-vere, io non ne volevo sapere in nessun modo. Venni

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presto mandato a scuola presso gli Scolopi di San Gio-vannino, in principio di Via Larga: ed il mio primo pro-fessore, molto modesto, e perfettamente in armoniacoll’alunno, era il portinaio.

Il signor Piacenti aveva tre allievi, fra i quali occupavoun posto, e passavo la giornata a far, più o meno, le vi-ste di studiare. Rammento quei frati: un padre Mauro,un padre Bertinelli, che mi davano chicche, mi facevanocarezze, e di loro non posso dir che bene.

Ma la miglior istruzione era quella orale che trovava-mo in casa; così venni mobiliandomi la mente di molteidee di storia, geografia, mitologia, di lingua francese;avendo per ripetitrice l’ottima signora Teresina Biscarrae per compagna mia sorella.

Mentre la mia famiglia viveva in Firenze in una oscurae felice tranquillità; mentre mio padre, dopo aver vistocadere ciò che più amava al mondo, l’indipendenza e ladignità del Piemonte, sperava rimanere ignorato nel suorifugio toscano, la mano di Napoleone, che aveva calca-to le più superbe fronti d’Europa, seppe rintracciare an-co l’umile suo capo e fargli sentire quanto essa pesasse.

Napoleone I, come ognun sa, aveva pochissima incli-nazione al suffragio universale, e non vedeva nessun mo-tivo per lasciare agl’individui la scelta del loro padrone.

Venne perciò proibito ai Piemontesi (Francesi di To-rino) d’aver figliuoli in educazione all’estero. – L’esteroera Siena. Mio padre dovette dunque ritirare dal Colle-gio Tolomei i miei tre fratelli, Roberto, Prospero, Enri-co, e riprenderseli in casa.

Essi seguitarono i loro studi dai frati delle Scuole Pie;io dal mio solito portinaio, e la vita interna di famiglia nedivenne piú animata e più allegra. La disciplina e l’ordi-ne però non ne furono punto scossi, soltanto s’applica-rono a maggior numero d’individui.

Intanto si venivano svolgendo nel nord dell’Europa igrandi fatti delle guerre napoleoniche, alle quali tenevan

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dietro strani rinnovamenti di Stati e bizzarre annessionidi genti costrette a piegarsi a consorzi contrari alle lorotradizioni, che alle inclinazioni ed interessi loro.

Napoleone I non ebbe mente politica; e difatti,dell’opera sua politica, non ne rimase nulla.

Venne decretata la definitiva annessione del Piemon-te alla Francia; ed a quel primo decreto che proibivamandar figli all’estero in collegio, tenne dietro l’altro,ben più doloroso, che costringeva i nuovi sudditi a pre-star giuramento di fedeltà al nuovo padrone e ritornarein patria. Mio padre, che già un altro giuramento egualeaveva prestato al suo re Vittorio Emanuele, allora in Sar-degna, gli scrisse: (cito le parole del manoscritto) «perofferirsi per sempre al suo servizio e compagno di scia-gure, pronto ad abbandonare patria, sposa e figli per lavita.»

Si mosse intanto solo da Firenze ed andò sino a Par-ma ove si fermò per quaranta giorni, chè tanto penò adarrivare la lettera di Sardegna.

Vittorio Emanuele «rispose nella più affabile manierae con sensi di tenera gratitudine, non voler egli assoluta-mente accrescere il numero delle vittime della sua sven-tura. Che prestasse il giuramento richiesto, non volendoegli separarlo giammai dalla sposa e da’ teneri figli, biso-gnosi più che mai di così buon padre; tanto più non es-sendo sicuro d’aver pane per se e per i suoi fedeli.»

Questa risposta, piena di tanto senso e di tanto affet-to, afflisse mio padre, ma gl’indicò la via da seguirsi. Alre, al suo giuramento, al paese avea soddisfatto larga-mente, e s’era spinto sulla via del sacrificio, finchè l’aveatrovata chiusa da un muro di bronzo.

Pensò alla famiglia; andò a Torino e fece adesionetemporanea al governo francese. Napoleone I cinqueanni dopo, doveva avvedersi quanto valgano i giuramen-ti strappati dalla violenza e non ispirati dalla volontà.

Ma non fu mio padre tra coloro che dovevano farlo di

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ciò avveduto. Comunque egli avesse data la sua fede,egli l’aveva data; e basta.

V’era un termine stabilito dal decreto pel rimpatriodegli emigrati. Il tempo stringeva, e nostra madre rice-vette dal marito un avviso che conveniva ritornare con lafamiglia a Torino.

Era la fin di decembre, e la nostra carovana, lasciandocasa Pitti-Gaddi, ultima dimora della famiglia, usciva diporta San Gallo, e su pel Pellegrino s’avviava per l’ertadel monte. Due carrozze contenevano, l’una nostra ma-dre e Metilde, l’altra, più grande, tutti noi sotto la guidad’un tal abate Moni lucchese, che sugli ultimi mio padreaveva preso, secondo l’uso del tempo. Allora, nelle fami-glie nobili e pie, ci voleva il prete di casa.

Oggidì il viaggiare in diligenza è un vecchiume. Allo-ra non s’era ancora arrivati ad immaginar tanto sfarzo; echi non aveva quattrini per pagarsi cavalli di posta, viag-giava coi vetturini del Pollastri, il quale empiva in queltempo l’Europa del suo nome e dei suoi muli.

Per dare idea della loro velocità, ricordo che una vol-ta si partì di Pisa la mattina e s’andò a dormire all’Oste-ria Bianca presso Empoli; ed il giorno dipoi, prima di se-ra, s’entrò in Firenze.

Viaggiando dunque del passo col quale ora viaggiano,ove non è ferrovia, i sacchi di riso, granturco e simili; epieni gli orecchi del continuo scampanellìo dei muli, perBologna, Piacenza e Milano, dopo quindici o venti gior-ni, finalmente, quando Dio volle, i nostri legni entraro-no nel cortile di casa Azeglio, via d’Angennes N°19, inTorino.

La cattiva stagione, il freddo, le nebbie lombarde epiù di tutto il dolore di dover andare dove non si vor-rebbe, a porsi cioè direttamente sotto l’artiglio di unostraniero padrone in casa vostra, tutto ciò aveva reso an-goscioso il viaggio alla nostra povera madre, che in ulti-mo se ne trovava sfinita.

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Ma per me e per noi ragazzi, quest’ignoto Torino,questa casa paterna vista soltanto in nube nelle elegantidescrizioni di Giacolin, ci eccitavano la fantasia empien-doci d’un’aspettazione smaniosa ed impaziente.

Ma quando nello scendere dal legno mi trovai sottoun bell’atrio, che mi vidi venir incontro servitori ed il se-gretario di casa, l’avvocato Cappello, quando poi, var-cando ogni limite del meraviglioso mi sentii dire: «Hafatto buon viaggio, signor cavaliere? « Lascio pensareche razza di rimescolìo s’operasse in me; io che nonm’ero mai accorto d’essere cavaliere, trovarmi promossocosì inaspettatamente ad un tanto grado!

Per fortuna, oggidì tanti e tanti, ad un tratto si trova-no anch’essi diventati cavalieri, che certo non se l’aspet-tavano più di me. Dico per fortuna, perchè se non fosse-ro loro, non vi sarebbe forse nessuno che ora potessefarsi una giusta idea della mia gioia in quel solenne mo-mento.

L’estasi andò sempre crescendo, quando entrai in unabella sala a parati di seta, con balconi su un giardino,parquet lustrato, ec. ec.

Questo fu uno dei pochi moti d’ambizione soddisfat-ta che abbia provato in vita mia. Non ch’io sia stato sen-za ambizione; ma come si vedrà, se Dio mi dà vita a po-tere scrivere, la mia non ebbe mai che far nulla contitoli, palazzi, impieghi e simili gingilli.

Trovammo la vecchia nonna, contessa di Casal Gras-so, mal ridotta dalla malattia cronica della quale prestomorì. Condotti accanto al suo letto, ci accolse, ci fece ca-rezze, e si vedeva chiaro che quell’ottimo cuore si strug-geva nel rivederci.

Era tale la sua tenerezza, che verso primavera, facen-do noi una gita nei contorni di Stupinigi, volle che sipassasse dal castello di Millefiori, sulle rive di Sangone,che era suo, e ce lo voleva regalare a ogni modo. La sto-ria di questo castello sarebbe curiosa più di quella di

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Woodstock, ma non è mio scopo scrivere d’antiquaria,onde passo.

Qui comincia un’epoca nuova nella mia esistenza.Dalla vita di lesina degli emigrati mi trovai trasportato inun ambiente più largo e più agiato.

Ebbi una camera conveniente; un pezzo di terra a mioarbitrio in giardino; venni a poco a poco presentato aimiei parenti d’ogni età e d’ogni sesso, principiando dauna vecchia bisnonna, contessa da Camino, che mi colpìcon un gran scuffione bianco sul quale, nel mezzo, unarosa di diamanti scintillava come una stella.

Questa signora, passando di Torino Napoleone (cre-do ritornasse dall’incoronazione di Milano), andò(sponte o spinte) al circolo di corte. L’eroe dell’epoca,come ognun sa, non vedeva il bisogno d’essere amabile,e nessuno certo poteva allora in Europa dargli lezionid’amabilità. Passando, al suo solito, da una signoraall’altra distribuendo bruscamente una frase per testa,giunto alla bisnonna le domandò tronco:

«Combien d’enfants avez-vous?»«Centosette, Sire...»Napoleone diede un passo indietro fissandola con le

sue aquiline pupille, e la vecchia Contessa, senza sgo-mentarsi gli spiegava allora che aveva avute nove figlie,tutte già madri e nonne, e credo alcune bisnonne, tanto-chè il numero dei viventi venuti da lei era di 107 perso-ne, avendo veduta la sua quinta generazione!

Napoleone (lo seppe madama de Staël) amava si pro-creasse generosamente, – e ci aveva il suo perchè – sirasserenò tutto e le disse:

«C’est bien, madame, je vous en félicite», e passò ol-tre.

Mio padre, poco soddisfatto di quel prete luccheseche doveva badare a noi bambini e che ci aveva accom-pagnati nel nostro viaggio, lo rimandò a Lucca. Ma, se-condo le idee d’allora, senza prete non si poteva stare.

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Bisognò dunque cercarne un altro; e siccome il primoera stato fissato senza che si conoscessero abbastanza lesue capacità, si durò più fatica e furono impiegate mag-giori diligenze per trovare il secondo.

Finalmente, anche il secondo prete fu trovato, sulquale tutti i riscontri erano favorevoli. Difatti, don An-dreis di Dronero era l’anima più candida, più virtuosache si potesse desiderare; ma altrettanto corto. Proprionon capiva se era vivo.

Questo prete dabbene me l’ebbi da godere per cin-que anni. In fatto d’educazione, di tatto, d’opportunità,di maniera di prendermi, ec., non ne indovinava una; iom’avvedevo delle sue scioccherie, e gliene facevo direogni dì più con cento malizie e cento raggiri. Si puòquindi immaginare quale stima avessi di lui e quale auto-rità morale potesse esercitare sull’animo mio.

Come prete, egli era di setta gesuitica, e mi oppressedi pratiche divote. Ecco la mia giornata religiosa d’allo-ra. La mattina (l’inverno innanzi giorno), egli diceva lamessa ed io gliela servivo. A mezza mattina, lettura spiri-tuale; prima di pranzo, esame di coscienza; dopo pran-zo, visita ad una chiesa e benedizione; la sera raramentemancava di qualche triduo o novena: poi, le orazioni e aletto. Fino all’indomani, se Dio vuole, mi lasciava in pa-ce. In uno stadio di maggior fervore (me n’ero scordato)bisognava fra giorno trovare il tempo per una mezz’oret-ta di meditazione. E lo scopo di tutto questo sistema eradi farmi prender gusto alla divozione!

Ai cavalli per avvezzarli allo strepito dell’armi da fuo-co, c’è chi usa sparar loro dappresso una pistola al mo-mento che compare la biada. Ma il mio prete seguiva al-tre teorie; e per farmi trovar saporita la messa, mi facevaalzar dal letto col lume, e infreddito, insonnolito, andar-gliela a servire in una cappella scura e malinconica. Sipuò immaginare come mi diventasse simpatica!

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Per un certo tempo mi s’aggiunse poi una maggiortribolazione.

Era in Torino un prete, che credo in fondo non fossecattivo, ma di quei tali che ogni giorno inventano unadivozione nuova per radunar ragazzi e farsi capi e guided’esercizi di pietà, e forse dai bambini procurarsi poi en-tratura coi padri e le madri, ec. ec.; ma questa è una sup-posizione mia, forse infondata, relativamente al

padre Polan, ex frate, uno appunto di questi. Avevaun oratorio dove radunava una trentina di bambini fra iquali ero compreso anch’io, grazie al mio prete. Ci face-va fare ogni sorta di funzioncine con prediche e medita-zioni allo scuro; e poi di tempo in tempo pranzetti o me-rendine in villa. Debbo però dire che non m’accorsi maidi nulla di sconveniente o peggio, nei modi di questo exfrate. Ma era, se non altro, inopportuno ed indiscretol’opprimere un bambino vivace e abbastanza svegliatodi mente, sotto questa cappa fratesca che sarebbe statatroppa ad un uomo fatto.

Per terminare l’istoria religiosa della mia infanzia, ag-giungerò che il mio santo prete si disperava, avvedendo-si che il suo sistema invece di rendermi pio, secondosperava, produceva in me l’effetto precisamente contra-rio: come doveva essere.

Non sono mai riuscito in vita mia, e neppur ora ci rie-sco, a dissimulare la seccatura. Chi mi secca, se mi guar-da in viso, se n’accorge subito.

E questo mio viso diceva allora, chiaro al prete comemi sentissi divertito dalle sue santità. Poi talvolta miscappava il riso a certe sue storie, che andava a pescarenon so dove, d’apparizioni d’anime dannate, di visioni,di miracoli. Un’altra volta, e questo fu affare serio,s’andò a modo quasi di pellegrini alla Madonna d’Oro-pa, ove è venerato in una nicchia uno di quegli antichisimulacri di legno nero, forse Bizantini, nei quali, sottouna testa di donna sta una specie di campana che deve

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rappresentare la persona. Il bambino, ben inteso, ha lamedesima forma, ed ambedue quasi scompaiono sottoun carico di corone, gemme, collane e tutto quanto v’èstato lasciato di valsente dai divoti di tante generazioni.Io arrivai, come a Dio piacque, a questa meraviglia, checi era costata tante miglia di viaggio in gran parte a pie-di, ed invece d’intenerirmi, dissi, che la Madonna che èin cielo la rispettavo, ma quella brutta Madonna neranon la stimavo un fico, e non credevo che potesse farminè ben nè male.

Lascio pensare che razza di vespaio andai a svegliarecon queste mie idee! Fui trattato d’eretico, di miscre-dente, e che già ero incorreggibile, e che avrei fatto lamala fine, ec. ec.

Quante volte, invece di frustare gli educati, bisogne-rebbe frustare gli educatori!

Per ultima prova, si pensò di farmi fare ció che allorasi chiamava gli Esercizi. Ora non se ne sente piú a di-scorrere. Credo fosse un’invenzione dei Gesuiti. Certoerano dati da uomini della loro setta, ed in un conventoo santuario anticamente di loro proprietà.

A poche miglia da Lanzo, su per la valle della Stura,v’è un cocuzzolo d’un monte, sul quale, certi pecorai, alsolito, avevan visto un giorno comparire Sant’Ignazio.

La punta di questo monte era un masso nudo ed acu-to, che presto, in grazia dell’apparizione, venne chiusodentro una bella chiesa della quale rimase il centro; edintorno alla chiesa venne fabbricato un convento. Unandito correva anch’esso all’intorno e dava accesso allecamere poste di qua e di là. Le camere, da una partemettevano sull’aperto con vista magnifica di que’ monti;dall’altra, mettevano soltanto in chiesa colla vista menomagnifica del Sdnt’Ignazio di gesso colorito, che stavaritto sulla punta di quel sasso.

In una appunto di queste camere, onde mi divagassimeno, fui stabilito dal mio prete in un bel giorno d’esta-

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te del 1813, e lascio pensare che bell’allegria mi paressela mia villeggiatura.

Questa casa d’esercizi dove s’era in quaranta o cin-quanta persone (c’erano altresì i miei due fratelli Pro-spero ed Enrico, ma essi erano stati fatti degni d’una ca-mera sulla campagna) era tenuta da un tal abate Guala,e ci si viveva a convitto come in un collegio.

L’abate Guala fu già una celebrita in Torino. Si sondette di gran cose di lui in fatto d’intrighi preteschi. Sidiceva che dell’arte d’ereditare d’Orazio avesse fattouno studio particolare ed anzi superato il maestro. Diquesto non ho nessuna prova, ed è mia massima non af-fermare se non quello che so di certo. Ma perciò appun-to posso dire di certo che era un fanatico, senza ingegno,senz’ombra di giudizio per ottenere quel bene che, vo-glio crederlo, aveva per iscopo; quello che è più certoancora, è che mi fece passare otto giorni de’ quali nonmi scordo più, vivessi mill’anni.

Salvo le ore di pranzo e cena, li passai, o in chiesa asentir prediche, o in camera, dove dopo mi mettevanoonde ci pensassi su, e persin la notte se mi svegliavo, ve-devo sempre a farmi la guardia quel Sant’Ignazio nero,immobile e che, nelle semitenebre che manteneva il de-bole lumicino della lampada dell’altare, pareva tutt’altroche un abitante del paradiso.

La conclusione fu, che non sapendo proprio comepassare le tante ore della giornata, ed anche per sfogarela stizza, feci un sonetto che davvero si potè dire di cir-costanza; e lo scrissi su uno sportello, col lapis. Mi ricor-do della prima quartina, e diceva:

«Volendo far veder la SeccaturaQuanto tremenda sia sua potestà,Fece dar gli Esercizi di pietàDa un prete seccator senza misura.»Ma il mio prete, non so come, scoprì il sonetto. Lo

seppi molto tempo dopo, chè allora non mi disse nulla.

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Certo, a vedere il bel frutto prodotto dalla sua ultima fa-tica, gli dovette cadere il cuore in terra!

Mio padre fu informato del fatto, ma neppur da luiebbi rimproveri. Probabilmente avrà detto al prete: Lesta bene. Il fatto si è che dopo allora scemarono le pieseccature, e fui lasciato respirare.

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CAPO SETTIMO

SOMMARIO. – Insegnamento religioso – Riflessioni sulle sueapplicazioni nell’educazione – Cogli atei non discorro – L’edu-catore deve produrre galantuomini – Ragioni extra-dommati-che per condurre l’allievo ad esserlo – La morale dipende daun domma – Difetti dell’insegnamento religioso che mi venneapplicato – Importanza del sentimento del rispetto – Esempiodei Romani – Terzo elemento di buona educazione – Studi allagesuitica – Storia – Sono esterno al Liceo – Esami vergognosi –Buon sentimento – Premio rubato – Mi vengo guastando il ca-rattere – Entro nell’Università – Comincio a scrivere – Passeg-giate e loro codice – Mi prendono per un malvivente – Eserciziginnastici.

L’insegnamento religioso e uno dei maggiori proble-mi dell’educazione. Esso apre il campo alle più sottiliquestioni metafisiche; ma mi guarderò bene dall’entrarein questo laberinto pel quale nessun’Arianna s’è presen-tata ancora con un filo, che non vi resti in mano appenave ne volete servire.

Dal principio dei secoli ogni generazione interrogacosì sè stessa:

Di dove vengo?Che fo ?Dove vo?E la ragione umana non essendosi finora saputa risol-

vere a dire quello che è realmente, cioè: Non lo so, hatrovate, secondo i tempi, centinaia di risposte una piùbella dell’altra; e ne seguiterà a trovare, suppongo, fin-chè Iddio la manterrà usufruttuaria di questo pianeta.

Ma se uno può guardarsi dalla metafisica, nessunopuò togliersi d’intorno la vita pratica e reale con tutte lesue inevitabili necessità.

A guidar l’uomo fra queste, senza porre la sua ragionealle torture metafisiche, può provvedere e provvide di-

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fatti la Fede. Essa risponde risoluta ai tre quesiti e dà latraccia da seguire a chi vuole essere ad essa conseguente.

Ma, come già ho detto molte pagine addietro, l’uomocrede quello che può e non quello che vuole; e nell’etàpresente, a voler esaminare e discutere con frutto le que-stioni pratiche della società, fra le quali tengo per fonda-mentale l’educazione, conviene necessariamente, a voleressere udito, prender un punto di partenza che possa es-ser accettato da tutti, o da quasi tutti.

Soltanto dichiaro che cogli atei, panteisti, materialisti,non voglio aver che fare. L’ateismo, se è logico, riduce laquestione della vita a questa formola semplicissima: Farbene a sè, come e quando si può, colla sola riserva d’evi-tare la forca. E siccome non si può concepire l’esistenzadella società umana senza il sagrificio reciproco, volon-tario e continuo, così coll’ateismo non v’è accordo pos-sibile.

Non per questo però il problema in un senso è sem-plificato di molto. Dal metodo del mio povero prete, difare dell’educazione un noviziato di cappuccini, a quellodi Rousseau, d’aspettare i trent’anni per porre in campola questione della religione, rimane un grande spazio li-bero.

Mi limiterò ad alcune brevi osservazioni che mi sem-brano accettabili da tutti.

Ogni educatore, sia qualsivoglia la sua opinione reli-giosa, deve necessariamente prefiggersi per iscopo, difar del suo allievo un galantuomo. Per esser tale, bisognaper prima cosa imparare a far spesso quel che non piace.Sarei curioso di sapere perchè farei quello che non mipiace, fuor dell’idea d’un premio o d’una pena nella vitafutura.

Fuori di tale idea tutto si riduce ad una questione at-tuale d’impunità: cioè, imparare a far quel che mi piacein modo che non mi procuri in altro modo dispiaceri.Che cosa potrei dunque dire, qual ragione addurre

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all’allievo, onde non faccia sempre quello che gli piace-rebbe e diventi galantuomo? Gli avrò a dire che bisognaesserlo se si vuol far fortuna? Mi riderebbe in viso, fossepure a balia! Gli avrò ad esporre le tesi socratiche, nonesservi altro bene se non il giusto, ne altro male fuorchèl’ingiusto; quindi, se io commisi ingiustizia, essere unbene, anche per me, che mi taglino il collo onde il giustotrionfi? Ridera più di prima!

Bisognerà dunque che raccomandi la morale ad undogma.

Ciò posto, suppongo che ogni educatore, fra noi, an-corchè scettico, sceglierà il dogma evangelico, e nonl’islamico nè il braminico. In generale, mi par di vederetutti d’accordo nel considerare i dieci comandamenticome una base della morale, da non disprezzarsi.

Dirà l’educatore scettico: Io non posso insegnare edaffermare quello che non conosco indubitatamente cer-to. Ed io rispondo, e domando s’egli è assolutamentecerto del contrario. E se coll’assumere la responsabilitàdi scegliere per l’allievo fra i due, non corre il rischiod’affermare la propria infallibilità, della quale, suppon-go, non sarà neppur certissimo.

A parer mio, il dubbio stesso deve condurre a metterin sicuro prima di tutto la moralità dell’allievo; ad impri-mergli quindi nel cuore per mezzo del dogma quel sensocristiano del bene e del male che e pur sempre la basedella società moderna, e la sola guarentigia di quel be-nessere ripartito abbastanza egualmente, che è la piú ra-gionata e la più vasta applicazione del primo dei precettievangelici, la carità.

Verrà anche troppo l’età del dubbio, non ne affrettia-mo l’arrivo. Iddio ne volle immune l’infanzia e l’adole-scenza, non alteriamo le disposizioni della sua bontà.

I miei argomenti, lo so, non appagheranno il teologoe neppur il filosofo. Ma forse non saranno del tutto sen-za effetto su quelle intelligenze sincere, e che son ridotte

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a doversi così spesso contentare d’un probabilismo mo-rale.

Nella vita, gran numero di questioni esigono soluzio-ni pronte, e non s’ha tempo d’aspettare il comodo dellametafisica, o dell’intelligenza che se ne convinca: fraqueste e l’insegnamento religioso nell’infanzia enell’adolescenza.

Uno dei maggiori danni di quello che mi venne appli-cato, consisteva nel togliere rispetto alle cose rispettabi-li, quali sono la vera e sincera persuasione circa il so-prannaturale e la morale.

Come potevo io sentir rispetto pel culto della Madon-na nera d’Oropa e pel mio prete che ne vedevo fanati-co?

Egli operò sull’animo mio, in piccolo, ciò che ha ope-rato in grande Roma sull’animo delle generazioni. Ren-dere impossibile il rispetto a forza di farne abuso.

L’autorità religiosa e l’autorità politica dominanti inEuropa nell’età moderna, col rendere impossibile agliuomini il rispettarle, vennero ad operare quel rinnova-mento d’idee e di cose generale, profondo, irrefrenabile,nel quale la rivoluzione propriamente detta figura la lo-comotiva, ed il buon senso universale figura il freno checi salva dal romperci il collo.

Ma in questo grati ribollimento di tutti gli elementisociali, il senso del rispetto, preso in astratto, se ne andòin fumo. Le nuove generazioni provano smanie, amori,furori di moda, per uomini o per cose, ma rispetto, nonlo provano, si può dire, per nessuno e per nulla; e a con-siderare il passato ed in parte il presente, la cosa si capi-sce.

Ora tocca all’educazione (se si vuol pure ricondurre ilmondo a condizioni ordinate e normali) il riporre al suoluogo questo fecondo e nobile sentimento del cuoreumano, il rispetto per ciò che è rispettabile, senza il qua-le diviene inutile uno dei maggiori istrumenti del bene:

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l’esempio; nè vi può esistere verun ordine legale forte-mente stabilito.

Si citano volentieri i Romani, i Greci. Quando s’ha daportar in cielo qualche assassino o qualche ambizioso,sempre si mettono avanti i Gracchi, e i Bruti, e Cassio, etanti altri. Mettiamo un po’ avanti anche quelle leggi equelle consuetudini che servono di documento all’im-portanza che attribuivano i Romani al rispetto di ciò cheè rispettabile. L’accordo che finì la guerra tra i Romani ei Sabini portava che nessun Romano potesse mostrarsiad una donna sabina interamente spogliato. Ad ognidonna gravida era dovuto un saluto da chi l’incontrava.Il rispetto alla religione, alla città ed alla legge, all’auto-rità paterna, ai fasci consolari, ai magistrati, ai tribuni, civien confermato da centinaia d’esempi: Nasica consolocoi littori incontra per via il padre a cavallo e gl’imponedi scendere per rispetto del primo magistrato.

E quando invece il console Duilio, presi gli auguriiprima di combattere e dettogli che i polli non beccava-no, rispose: «Vediamo se volessero bere,» e li fece gettarin mare, non si mostrò uomo di testa nè di Stato.

Ed i Romani, dai Gracchi in poi, perduto a mano amano il rispetto alle suddette cose, si trovarono poi, ca-dendo di grado in grado, venuti così bassi da dover poirispettare Tiberio, Nerone e i loro simili; ed a chi se nefosse scordato, la lex majestatis serviva a rinfrescar lamemoria.

Ora, riassumendo i fatti e le riflessioni sovra esposte,mi sembra si possa concluderne, che il senso del rispettoa ciò che è rispettabile sia il terzo elemento d’una buonaeducazione da aggiungersi agli altri due che già accen-nammo; vale a dire: all’ubbidienza all’autorità legale ealla fortezza della volontà.

Grazie a mio padre, non ero, all’età circa di dodici an-ni sprovvisto del tutto di questa fortezza, e m’ero altresìpiegato all’ubbidienza; ma il mio prete, col suo corto in-

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gegno e discreto zelo, aveva soffocato in me il senso delrispetto; ciò che equivaleva all’avermi dotato d’una grandose di presunzione.

L’educazione scolastica che da lui ricevevo non vale-va gran cosa meglio della religiosa. Quando penso cheho passati cinque o sei anni a studiare il latino inquell’età che è la più atta a ricevere con frutto l’insegna-mento delle lingue! e che invece di saper poco e male la-tino e greco, che, si può dire, non mi servono, potrei sa-per bene tedesco ed inglese che tanto mi servirebbero!

Ma il principio gesuitico dominava la mia educazione;ed il problema ch’esso ha risolto sempre benissimo, èquesto: portare ai 20 anni un giovane facendolo studiarsempre, e sempre cose che gli servono poco o nulla performarsi carattere, intelligenza, e giudizio da uomo. Di-fatti, la mia educazione e quel poco che ho potuto met-tere insieme in fatto d’istruzione, ho dovuto darmelopoi, faticando il doppio, da me, in quell’età in cui inveced’imparare si dovrebbe poter applicare l’imparato.

Articolo storia, che, al paro delle lingue, e lo studioprincipale, più fecondo d’utili applicazioni per ogniclasse d’uomini, mi fu messa in mano la storia antica, esapevo abbastanza bene quel che era accaduto a Roma,Atene, Menfi, Babilonia prima dell’era cristiana; ma diquello che era accaduto in Italia nel medio evo, non nesapevo una parola. E perchè? Perchè non dovevo sapernulla nè di Teodora e Marozia, nè d’Alessandro VI, nèdi tutte le ambizioni, le cupidigie, le violenze, le frodidei papi!

Ma neppur di quel benedetto latino non cavavo granfrutto; onde fui mandato come esterno al liceo, dove oraè l’Accademia militare, alla scuola del signor Bertoneche v’insegnava rettorica.

Si vede che a Napoleone non premeva molto formaredei retori. Eravamo numero tre scolari! Un Perrier,francese, un Fascini, piemontese, ed io. Non incontrai

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mai più dopo allora quel miei condiscepoli, dei qualiserbo cara memoria. Se mai leggessero queste pagine,accettino una buona stretta di mano dal loro vecchio ca-merata.

In questo corso mi mantenni sempre il più ciuco deitre. Sarà effetto di cattivo carattere o spirito di contrad-dizione, ma il fatto si e che non ebbi mai voglia di farnulla fin che mi stettero addosso per farmi studiare; edappena fui lasciato in pace, mi misi a sgobbare e non hosmesso, più o meno, mai sino ad oggi.

Ma venne l’epoca degli esami e una bella mattina mitrovai in scuola coi miei due compagni, a tre tavolini se-parati, onde scrivere i nostri componimenti per l’esame.M’era toccato, nientemeno, un componimento in greco!e col Lexicon Schrevelii e la grammatica, faticavo comeun asino e lentamente spremevo fuori goccia a gocciaquesta ellenica produzione. Il maître d’études ogni tantoci faceva una visita. Dava un’occhiata a Perrier e a Fasci-ni, ed io, che non lo perdevo d’occhio, gli vedevo far lafaccia allegra. Poi veniva al mio tavolino, dava un’oc-chiata al mio greco e tosto gli si oscurava il bel sembian-te. Dio sa che greco scismatico stavo partorendo!

Il lettore capirà subito i palpiti del maître d’étudesper me. Ero nipote del conte Prospero Balbo, rettoredell’Universitá ed è chiaro come il sole che il nipote diquello che teneva in mano le sorti di tanti maître d’étu-des, non doveva assolutamente essere un asino.

Il nostro Mentore scomparì per mezz’ora, poi ricom-parve. Avea presa una di quelle risoluzioni che salvano inipoti ed anche talvolta persone più alte di loro. Fare luiquello che non sapevo far io, e lasciarmene l’onore.

Con una sveltezza degna di Bosco, mi levò d’innanziil mio lavoro senza che i compagni se n’avvedessero e vilasciò in cambio un foglio sul quale stava il componi-mento greco bello e fatto e che soltanto avevo a ricopia-re!

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A mia lode debbo dire che, capito subito il tiro ed an-che ad un barlume il suo motivo, sentii un’umiliazioneamara ed una gran ripugnanza a prestarmi a questa fro-de. Ma debbo aggiungere a mia vergogna che non ebbicoraggio di dar corpo e vita al mio lodevole sentimento.

M’avevano molto piegato all’obbedienza, ed i mieigiudicii sul fas et nefas non erano ancora abbastanzafondati e chiari da permettermi d’agire per virtù di libe-ro esame.

Accettai dunque l’autorità, e copiai impudentementeil tema greco, che fu trovato, com’era naturale, una me-raviglia. E lo zio Balbo, parlando con mio padre, l’udiiaffermare che gli pareva impossibile ch’io avessi tantadisposizione per le lingue morte. Si figuri se pareva pos-sibile a me!

Venne il giorno della distribuzione dei premi, e rice-vetti in seduta pubblica, dalle mani del conte Balbo, unbell’in folio, Homeri opera omnia, ben legato, con uncomplimentosulla mia erudizione. Questo volume anco-ra e fra i miei libri; e penso lasciarlo ad una bibliotecapubblica come restituzione (è un po’ dura a pronunziarela parola, ma ci vuol pazienza) di roba rubata.

Io certo ebbi torto, ma ebbe più torto di me quel maî-tre d’études, Dio glielo perdoni, e mi diede un gran cat-tivo Esempio; i cattivi esempi dati dagli adulti ai bambi-ni, sono, a parer mio, un vero delitto.

Il divino candore dell’infanzia parrebbe veramenteindizio che l’anima umana lasci il grembo degli angioliper scendere a vestire la nostra forma. Chi le imprime laprima macchia, chi l’avvilisce colla prima frode, è ungran colpevole.

Debbo confessarlo; questo fatto, unito a parecchi al-tri, e più ancora per avventura la troppo severa com-pressione esercitata sulla mia intelligenza in materia reli-giosa specialmente, dettero in quel tempo al miocarattere una cattiva piega. Tutte le oppressioni, grandi

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o piccole, sono la rovina dei caratteri. A poco a pocom’entrò’ nell’animo la dissimulazione, poi la simulazio-ne che è peggio; e dicevo bugie con discreta disinvoltu-ra. Di questo difetto me ne corressi in appresso ed ora,da una quarantina d’anni in qua, credo d’esser stato unodegli uomini d’Europa che ha dette meno bugie; com-presi gli anni nei quali fui ministro e diplomatico: me-stieri nei quali è importante più che negli altri il non dir-ne, benchè si creda precisamente l’opposto dal volgo.Ma se ne persuaderanno finalmente gli uomini, quandoavranno capito che la più irresistibile delle forze è quellache vi procura la fiducia che sapeste ispirare.

Finita tanto gloriosamente rettorica, la progressionescolastica abituale mi portò a fare la così detta filosofia,che cominciai all’età di circa tredici anni, all’Universitàdi Torino.

La logica l’insegnava Don Baruc, e la fisica VassalliEandi, supplente Carena.

A quell’epoca la mia mente cominciava a mobiliarsied aprirsi discretamente bene. Mentre il prete insegnavaa noi fratelli il latino (sola cosa che sapesse), nostro pa-dre s’occupava di noi onde variare la nostra istruzionenei molti rami della coltura. Si facevano con lui lettureseguitate d’opere letterarie, di poeti, di romanzieri. Dan-te, il Tasso, il Pulci, l’Ariosto, ec. ec., furono passati inrivista. Ben inteso che non, ci venivano concessi per in-tero; ma le parti leggibili anche ai giovani bastavano adarci idea e gusto di stile ed a servir di tema ai commen-ti che ci faceva nostro padre, uomo di ferrea memoria ed’immense letture.

Io preferivo Dante ed Ariosto a tutti, e ancora oggi lipreferisco.

Così mi si venne formando il gusto e soprattutto l’abi-tudine all’occupazione ed alla lettura, che m’e semprerimasta. Guai se nostro padre ci coglieva un momento

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nell’italico dolce far niente! Per fortuna questa dolcezzafu sempre poco gustata dai Piemontesi.

Ad un altro esercizio venivamo tratto tratto occupati:quello di scrivere a modo nostro racconti, descrizionid’invenzione o dal vero. Più volte, dopo una passeggiataod una visita a qualche posizione pittoresca, a qualchevilla o castello, uno di noi veniva incaricato di descriverequello che s’era veduto. Quest’esercizio è ottimo peigiovani, e l’ho voluto mentovare perchè se ne tenga con-to dagli educatori.

Affinchè poi ai giovani abbondi materia per simili re-lazioni, conviene durante le escursioni invitarli ad osser-vare le cose ed i luoghi sotto vari aspetti. Così nostro pa-dre trovava occasione, secondo le posizioni e gli oggetti,di parlarci d’un po’ di tutto ed in ispecie d’opportunitàe applicazioni militari. Ci avvezzava a trovar facilmentela strada, a indovinarne la direzione, a riconoscere luo-ghi già traversati, a vedere la probabilità di trovar acque,la vicinanza dell’abitato, la prossimità delle vette nel sa-lire i monti, la misura ad occhio delle distanze, la figuradei terreni, ec. ec.; tutte cose che in mille occasioni, intempo di guerra ed anche in circostanze comuni, servemoltissimo avere alla mano.

Del resto queste erano vere passeggiate militari d’ot-to, dieci, dodici miglia piemontesi; e mi ricordo d’unache fu la più lunga, che durò dalla sera sino alle due delgiorno dopo, e fu di 25 miglia nostre, vale a dire circatrentasei italiane; è vero che alla fine non ne potevo più,avendo meno di quattordici anni, e dormii vent’ore d’unfiato. Siccome queste gite, contando nostro padre, ilprete, noi, ed un servitore, si formava una banda discre-ta, e che noi ragazzi eravamo tutti d’alta statura, e s’an-dava per boschi e monti, un po’ sulle strade, un po’ atraverso, come veniva, ci è succeduto più d’una volta discura notte d’esser presi per malviventi. Mi ricordo be-nissimo, nel famoso pellegrinaggio di Oropa, eran le due

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dopo mezzanotte e ci trovavamo aver perduta la stradanon lungi della Serra, lungo monte, presso Ivrea. Miopadre udi un po’ lontano passar gente, e disse a me e adun altro di noi: «Andate a domandar la strada a quelliche passano.» Io mi misi a correre, ma coloro vedendociarrivare di carriera la diedero a gambe, e per quanto gri-dassi non si vollero mai fermare.

Da questo si vede che nostro padre voleva vederci di-ventar uomini, anche fisicamente parlando.

Per ciò ebbe cura che si attendesse a tutti gli esercizipossibili di destrezza e di forza. Allora non esisteva, co-me oggi, la scuola di ginnastica; ma la sua amorosa pre-mura l’inventò per noi. Prima dei dieci anni mi fu messoin mano il fioretto, insegnato il ballo, più tardi il nuoto,l’equitazione; poi ci fece imparare i salti mortali a terra esul trampolino e il ballo sul canapo teso.

Mio fratello, di poi gesuita, allora era chierico; e me loricordo benissimo a far il detto salto mortale colla suaveste nera lunga quale portano i preti. In quel sacco dicarbone che si rivolgeva sul proprio asse per aria, chiavrebbe veduto e preveduto il padre Taparelli, Direttoredella Civiltà Cattolica, e uno dei barbassori della Com-pagnia di Gesù?

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CAPO OTTAVO

SOMMARIO. – Il mio gesuita. Nostra amicizia – Vita de’ ge-suiti – Qual era mio fratello – Sue abitudini – Gesuiti neri erossi – Gesuiti e Inglesi – Napoleone lo vuole a Saint-Cyr – Na-poleone e Jenner – Roberto uditore al Consiglio di Stato – Pro-spero liberato – Metilde – Muore – Desolazione nostra – Gior-gio Bidone – Suoi affettuosi insegnamenti – Vivere politico dimio padre – Persecuzione contro Pio VII – Sua premura per ipreti imprigionati – Meriti di questi preti – Prime voci della di-sfatta di Mosca – Gioia di tutti, salvo di chi perdeva l’impiego– La débâcle – Stupida specie umana! – Soccorsi ai feriti.

Ogni simile ama il suo simile, è un proverbio che nonsempre esprime il vero. Credo che si troverebbero diffi-cilmente due uomini che in fatto d’opinioni politiche ereligiose fossero più diametralmente opposti di noi due;come se ne troverebbero altrettanto difflcilmente duealtri che si volessero bene più di quello che ce ne siamvoluto, mio fratello gesuita ed io, dall’infanzia fino allasua morte che fu l’anno scorso.

Sin da bambino me la sono intesa meglio con lui checon gli altri miei fratelli. Egli aveva più talento di me e ditutti di casa; ed inoltre una maggior prontezza al sagrifi-cio, unita ad un carattere d’incrollabile fermezza. Ciòche si dice in tre parole: ingegno, virtù e carattere – trebagattelle!

Se fosse rimasto nel mondo, anche prete, la sua fortu-nata e potente natura poteva condurlo Dio sa a quali de-stini. Chi può indovinare in quanti modi avrebbe potutodivenire utile alla patria, alla società, alle sue stesse opi-nioni religiose e filosofiche! Ma nello strettoio d’una re-gola di frati, va’ a far il grand’uomo se ti basta l’animo!

Io lo so bene che ho passate tante e tante ore nella suacella con lui, dove non si stava mai mezz’ora senza unaseccata nuova: pensare un galantuomo che sta scriven-do, verbigrazia, del diritto naturale – dirindindin! una

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scampanellata. Che succede? C’e mezz’ora da insegnarla grammatica francese al ragazzi. Amen. Si va a inse-gnar la grammatica. Poi si ritorna e si riprende l’idea la-sciata a mezzo, del diritto naturale. Passano tre quartid’ora. Dirindindin! Da capo! C’è il triduo, o la novenain chiesa per san Stanislao Kostka o simili. Amen. Si vaalla novena. Poi si torna e si riattacca il diritto naturale.Dopo dieci minuti, tocc, tocc, all’uscio. Deo gratias. Ri-sposto colla voce a strascico e nel naso: Entrate, è un no-vizio che domanda consiglio su una distrazione durantela messa, o uno scolare che non sa se ancora si scrive conl’acca o senza l’acca!... Pensare, dico, che un uomo co-stretto a lavorare su questo spinaio fisico-morale, perquanto potente d’ingegno e di volontà, possa fare nem-meno il quarto di quello che farebbe, libero e sciolto, misembra pazzia. Difatti, i gesuiti contano uomini distintie di gran merito (e Dio sa con quali torture l’avrannoavuto a pagare!), ma uomini di prim’ordine, nessuno.

Se però mio fratello non raggiunse coll’ingegnoquell’altezza alla quale era nato, se non lasciò di sè comeavrebbe potuto, quell’impronta che è l’eredità degli uo-mini sommi, lasciò però grandi e belli esempi di sagrifi-cio e di virtù che valgon meglio e son più utili a chi li sadiscernere ed applicare, di tutte le meraviglie dell’intel-letto.

Si capisce che non intendo che ci abbiamo a far gesui-ti per imitarlo; ma ecco dove tutti lo potremmo e lo do-vremmo imitare.

Egli era giovane di temperamento bollente e di pas-sioni impetuose; era preso talvolta da sfuriate di colleratremende; sentiva ardentemente tutte le aspirazioni, tut-ti i desideri che Iddio diede per attributi alla nostra na-tura. E tutti domò, tutti vinse. Prima dei trent’anni eradiventato d’una dolcezza e serenità di carattere che nonvidi mai più alterarsi in nessuna occasione. La mente edil cuore d’accordo avevano in lui vinta la materia, e qua-

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si potrebbe dirsi distrutta: poichè in quelle continue einesorabili violenze, che usò a sè stesso, ci rimesse la sa-lute e per sempre.

Egli credette, e credette fortemente in religione, in fi-losofia, in politica; e per tutta la vita sagrificò ogni suobene al trionfo di ciò ch’egli credette il vero. Toccò a luiuna fortuna riservata a pochissimi, quella di non conce-pire neppur l’ombra d’una possibilità d’ingannarsi inmateria religiosa: possedè la certezza assoluta di quel ve-ro che vagheggiava. Il suo vero non era sicuramente nè ilmio nè quello di molti in oggi. Ma... diceva Ponzio Pila-to: quid est veritas?

Chi sa rispondere si faccia avanti. E se nessuno sa ri-spondere completamente, impariamo almeno a rispetta-re ogni sincera persuasione, come a sagrificarci a quellache ci venne dato ottenere e che la coscienza ci detta.

E in questo, mio fratello potrà servir d’esempio achicchessia.

Nato in una condizione che gli dava abilità di aspirarea tutto, a tutto rinunciò. Io l’ho veduta da vicino la suavita. Ben posso dire che, salvo quell’intimo e certo gran-dissimo contento di chi sente d’adempiere ad un grandovere, non si prese un piacere in vita sua. Camera sen-za comodi, nè cammino, nè tappeto, poveramente arre-data; uno stramazzo per dormire che si rifaceva da sè;tavola, cibi semplici, vitto conveniente, ma delicatezzeno, perdio; e poi ubbidienza di tutti i minuti, poi studiocontinuo, poi predicare, esercitare il suo ministero, al-zarsi ogni notte, estate e inverno, alle tre... Se non sichiama sagrificio questo, non saprei che nome dargli.

Io certo non son punto gesuita; ho presente tutto ilmale che hanno fatto certi loro principii e certe loro arti;ma tanto più mi meraviglio a vederli uno per uno a cherazza d’abnegazione si condannano! per riuscir poi ache? o a far del male o a far un buco nell’acqua.

Io neppure appartengo all’altro partito, all’estremo

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opposto, che per me e il compagno spaccato, il partito-demagogico rivoluzionario. Ma, se lo lasci dire, se riesceanch’esso o a far del male o a far un buco nell’acqua,concederà che, individuo per individuo, in fatto d’abne-gazione c’e ancora da far qualche passo prima di somi-gliare a mio fratello gesuita ed ai suoi compagni!

A pensarci bene, c’e da far dei curiosi confronti in si-mil genere. Mi contento d’accennar questo, e ne lasciolo sviluppo a chi ama l’analisi delle miserie e delle pazzieumane.

Uno però di tali confronti non lo voglio tacere.In una cosa trovo somiglianza tra i gesuiti e gl’Inglesi.Gli uni e gli altri, presi uno ad uno, sono brave ed

oneste persone, ma prese in massa, ove si tratti odell’Old England o della Compagnia, la farebbero al pa-dre e alla madre.

E siccome in generale si detestano scambievolmente,farò le mie scuse ad ambedue d’averli paragonati insie-me.

Tornando a mio fratello, c’era però mancato pococh’egli facesse ben altro mestiere che il gesuita.

Napoleone l’aveva nominato alla scuola militare diSaint-Cyr, e questa nomina mandata dal Prefetto di To-rino, A. Lameth, a mio padre, era caduta come unabomba sulla nostra famiglia. Si figuri! Un carattere co-me mio padre, sentirsi oltraggiato nel più santo dei suoidiritti, nell’autorità paterna, nella facoltà rispettata datutti in tutti i tempi, di educare e avviare a modo suo ipropri figliuoli, vedersene strappare due (Roberto funominato contemporaneamente uditore al Consiglio diStato) dal nemico del suo paese, dal rapitore di Pio VIIdal Quirinale, da quello che oramai dopo il tradimentodi Baiona, se n’avvedeva ognuno, l’ambizione e l’orgo-glio avevano inebriato e tolto di senno; e non aver difesacontro di lui! Era cosa da fargli scoppiare il cuore nelpetto!

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Io era in età da non sentire gran fatto simili casi: maricordo la tristezza che oppresse tutti in casa per un pez-zo. Ecco l’idea che n’ebbi allora e che me n’è sempre ri-masta: Napoleone era un tiranno; e dieci Austerlitz eventi Wagram non bastano a redimere nè un atto di vio-lenza, nè un diritto di natura calpestato.

Eppure, grazie al buon senso della specie umana, Na-poleone che ha fatto morire, per soddisfarsi, un milioned’uomini, e spezzato il cuore di tanti padri e madri, Na-poleone è famoso ed ammirato persino tra i selvaggi: equegli che ha salvato dalla morte Dio sa quanti milionid’uomini, ed asciugate le lagrime dei loro parenti, l’in-ventore del vaccino; scommetto che il lettore non saneppure come si chiamasse! Si chiamava Edward Jen-ner, nato il 17 maggio 1749 a Berkeley nella contea diGlocester. Ed io stesso, che predico, ho dovuto ora ri-correre al Dictionnaire de la conversation per rammen-tarmelo! Lettore! non scordiamo almeno il suo nome!

Qui mi s’affollano un mondo di riflessioni. Qualcunabisogna che me la lasci dire.

So da me benissimo che ora il mio parallelo fra Napo-leone e Jenner fa, più che altro, l’effetto di un’arguziache neppur da chi la dice sia presa sul serio. Ma qui l’ef-fetto sbaglia, ed io parlo sul serio quanto si può. Io vedoapparire l’aurora d’un’età nella quale parrà incredibileche gli uomini abbiano potuto avere idee diverse daquelle da me espresse; e come l’indovinate? mi si dirà.L’indovino osservando la lenta modificazione di certeidee nel passato, e cavandone per induzione il pronosti-co dell’avvenire.

Ecco in due parole il mio pensiero.Più la società e selvaggia, più adora la forza e la vio-

lenza. Salto a piè pari, per far presto, dallo stato selvag-gio al medio evo. Esempio:

Nel medio evo Ghino di Tacco fattosi forte in Radi-cofani, assaltava alla strada. Prende l’Abate di Cluny e

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gli parla in questo modo: «Voi dovete sapere che l’essergentile uomo e cacciato di casa sua e povero, ed averemolti e possenti nemici, hanno, per potere la sua vita di-fendere e la sua nobiltà, e non malvagità d’animo, con-dotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubato-re di strade, ec. ec.» E l’Abate di Cluny trova che parlacome un libro, e quel che è più, pare che il Boccaccio,neppur lui, ci trovasse da ridire. Ecco qual era alloral’opinion pubblica.

Altro esempio. Carlo e Grifone Baglioni per torre loStato a Gianpaolo e suoi consorti della stessa famiglia, liscannano tutti a tradimento, salvo Giampaolo che scam-pa, ritorna e li vince. Uccide Grifone e caccia Carlo, ilquale si ritira in Nocera. Da questa fortezza mette a sac-co ed a rovina il circostante paese; ed il Materazzo, dellaparte di Giampaolo e quindi nemico di Carlo, si sentecostretto a confessare che «in quest’occasione non puònegarsi non mostrasse di qual casa e di qual sangue eglifosse!» È chiaro che in allora tal modo di vedere era ditutti, e non speciale al cronista. Non s’è forse modificatoil mondo da quel tempo ad oggi? E se si è modificatoquanto ai gentiluomini ed ai conquistatori al minuto,non è egli probabile che si modifichi altresì pei principie pei conquistatori all’ingrosso? E non lo vediamo giàforse modificato dal principio del secolo? Se tornasse almondo Napoleone I, potrebbe egli rifare quello che fe-ce? Non disperiamo dunque del vero progressodell’umanità; il quale non sta nelle macchine a vapore,ma nella crescente potenza del senso morale, del sensodel giusto e del vero. Ha pur da venire quel giorno, nelquale Jenner sarà coté più alto di Napoleone I. Intanto ilmondo, come le vecchie bisce, vien mutando la pelle.Peggio per noi d’esser dovuti vivere durante l’operazio-ne.

Torniamo a casa mia.Mio fratello Roberto aveva diciott’anni quando venne

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costretto d’andare a Parigi per occupare il suo nuovo uf-ficio. Con lui andarono, chiamati all’istesso posto, Cesa-re Balbo, Priè, Guasco e Collegno; il fratello Giacinto fuposto nella scuola militare di Saint-Cyr. Di tutti questiuomini, in varie condizioni, è rimasta onorata e chiaramemoria; e molti di loro ebbero gran parte nelle vicendepolitiche del Piemonte e d’Italia.

Le istanze di mio padre ottennero dal governo che alfiglio Prospero, di appena sedici anni, fosse concesso unaltr’anno prima d’entrare a Saint-Cyr. Roberto però do-vette partir subito e fu dal padre accompagnato a Parigi.

L’anno di tolleranza passò presto e toccò a mio padrecorrere di nuovo sulle uggiose strade di Savoia, Lionesee Borgogna, accompagnando la seconda vittima del de-spotismo di Napoleone. Però,tanto s’adoperò e tanto fe-ce, che aiutato da amici e, se ben mi ricordo, da monsi-gnor della Torre arcivescovo di Torino, uomo di partefrancese, conte dell’impero, ec. ec., giunse pure a ricon-durre a Torino il figliuolo libero e padrone di seguire lesue inclinazioni. Esse lo chiamavano allo stato clericale.Dalle mani dell’arcivescovo suddetto ebbe i primi ordi-ni, si diede agli studi ecclesiastici, e prese quell’indirizzonel quale poi si mantenne costante fin che visse.

Di due sorelle che ebbi, l’una, Melania rimasta a Tori-no colla nonna durante la nostra dimora in Toscana,morì di dodici anni. L’altra, Metilde, sposata al contePallio di Rinco, era una bellezza; e per l’ottima educa-zione e gli ottimi esempi avuti, quanto per angelica in-dole, era riuscita un vero tesoro.

È vecchio tema di tutti i poeti elegiaci il dire: il tale ola tale erano troppo buoni, troppo angioli, il mondo nonera degno di loro, Iddio li rivolle con sè. Eppure in ve-rità, l’esperienza darebbe talvolta ragione a questi poeti.Certe perfezioni, certe nature celestiali paiono quasi ve-nute al mondo per isbaglio; per avere errata la via. Pas-

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sano presto; tutti le piangono, e nessuno si meravigliache siano scomparse.

Così accadde alla povera Metilde, compagna dellamia puerizia. Ho il suo ritratto colle manine atteggiate apregare, col panno azzurro in capo, quali usava CarloDolci dipingere le sue Madonnine, ed in verità le rasso-miglia. Essa finì di mal sottile nel Castello di Rinconell’Astigiano, che non aveva compiti i ventidue anni. Ionon posso ricordarla senza che mi si presenti alla mentela vaga ed eterea sembianza d’uno di quegli angioli difrate Angelico da Fiesole, colla veste a svolazzi che cuo-pre i piedi, e l’ali celesti leggiere ed appuntate!...

Mi comporti il lettore questi sogni del passato. Tutti,salvo pochissimi, l’hanno ormai dimenticata, poverina; el’ho voluta pur rammentare ancora una volta mentre sonvivo.

La sua morte fu un’indicibile desolazione per noi. Mala natura, onde abbia ogni generazione aurora, meriggioe tramonto, rende incapace l’infanzia di quei lunghi edintensi dolori morali, che crollano la virilità ed abbrevia-no l’ultimo stadio alla vecchiaia. In noi, l’età abbreviò edalleggerì la tristezza che ho poi sentita più per remini-scenza nell’età matura: ma i genitori nostri, si può dire,non furono più vivi dopo quel caso.

Molti anni dipoi, rammento che era impossibile ad es-si l’ascoltare la musica dell’Agnese di Paer, e special-mente quel duetto tra il padre fuor di sè ed Agnese:

«Quel sepolcro che racchiudeDi mia figlia i resti esangui,»ed alla povera mia madre questa percossa alterò sem-

pre più l’organismo già scosso da tante vicende e tanteagitazioni.

Con questi fatti siamo giunti al 1813, anno della mor-te di Metilde, d’agosto.

La mia educazione s’era intanto tirata innanzi allastracca all’Università, argomentando in barbara e bara-

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lipton sotto don Barucchi, e scrivendo in latino la fisicasotto la dettatura del noto e stimato Vassalli Eandi. Perla fisica, come per mettermi in capo qualche idea di nu-meri, d’algebra, di geometria, mio padre mi diede in cu-ra al professor Giorgio Bidone, il quale si rese poi chiaronelle matematiche pure e nell’idraulica.

Come si vedrà più avanti, io dovrei baciare la terraove quest’uomo pose i piedi. Dopo mio padre e mia ma-dre, non v’è persona al mondo, alla quale io abbia tantiobblighi quanti n’ho a lui; ma non è ancora il momentodi parlarne.

Egli sudava e s’affannava per cacciarmi in corpo, pri-ma l’aritmetica, poi l’algebra con tutta la sequela; ma erainutile. Il cielo non m’aveva data la facoltà dei numeri. Èperò curioso che mentre il mio intelletto per naturalecostituzione è moltissimo calcolatore nello studio deifatti, delle cause, delle conseguenze, delle probabilità,ec., appena compaiono cifre s’impunta, e non c’è da far-ne altro.

Ma ad onta di quest’inerzia del mio cervello e del po-co frutto che il mio maestro otteneva dalle sue cure, egliperò m’avea posto, a poco a poco, grandissimo amore.Dal suo conversare, piú che dagl’insegnamenti scientifi-ci, io cavavo il maggiore dei profitti; quello che il miopovero prete non aveva potuto procurarmi, e che è pureprimo fondamento d’ogni buona educazione; imparavo,a mano a mano, a pensare, a riflettere, a scartare le ideefalse, e farmene delle esatte. Il Bidone, si potrebbe dire,mi veniva raffazzonando il cervello a somiglianza deichirurghi o delle levatrici, che al fanciullo appena natocercano dar forma regolare alle molli pareti del cranio.Da quel tempo cominciai ad avvezzarmi a valutare gliuomini a misura d’onestà e d’istruzione, e le cose a mi-sura d’utilità vera. Usando questa misura si può, se vi s’èchiamati, far cose nobili, grandi e profittevoli: ma, è be-ne saperlo prima, non fare fortuna.

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Avviso a chi mi volesse poi lagnarsi meco, che collemie idee l’ho messo sulla via di morirsi di fame!

In questi anni trascorsi dal nostro ritorno di Firenze,mio padre avea menata vita ritirata e tutta di famiglia.Venivano in casa pochi, vecchi e provati amici del parti-to, ben inteso, dei così detti Branda (da Branda Lucioni,capobanda realista ai tempi della repubblica) i quali nonhanno ora appellativo corrispondente, essendo scom-parsi affatto dall’arena politica. Per darne un’idea ai gio-vani, i loro codini d’ora sarebbero giudicati tanti Maratda quei Branda d’allora. Mio padre, che non dividevatali scioccherie, ne rideva e noi ragazzi che ci avvedeva-mo benissimo delle loro balordaggini, tanto le dicevanogrosse, si veniva diventando liberali, per non far mentireil contraria contrariis dell’allopatia.

Tutto questo però finiva in parole. Mio padre, e lamaggior parte di quegli amici, avevano giurato di nonnuocere a Napoleone, e non avrebbero voluto vederadempiersi il più ardente dei loro voti, il Piemonte libe-rato dallo straniero, a patto d’uno spergiuro.

Venne l’epoca della persecuzione contro il papa, icardinali, i vescovi, ec. Accaddero i fatti noti a tutti, ed ilPiemonte trovandosi sul passo da Roma a Parigi, vedevaun continuo arrivare e partire d’ogni generazione dimembri del clero, portati qua e là come foglie secche dalturbine di quella mente, alla quale, perduto il giudizio,non era rimasto che il talento.

Napoleone III non avrebbe fatte di queste ragazzate!Occupazione continua e solerte di mio padre era di

giovare in tutti i modi possibili a questi perseguitati; equando, esaurite l’arti, pose mano Napoleone all’argo-mento favorito della violenza; e che varie prigioni, e Fe-nestrelle in ispecie, si popolarono di cardinali e di vesco-vi, mio padre, che aveva giurato non nuocere aNapoleone, ma non d’aiutarlo ad opprimere, si fece atti-

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vissimo istrumento di tutto ciò che poteva recar sollievo,conforto o speranze ai poveri rinchiusi.

Continuamente lo vedevamo in moto, sì in città che invilla; ora compariva, ora spariva; sempre solo (ottima re-gola per non aver spie) con un legnetto a un cavallo (orasono spariti affatto ed allora eran chiamati Padovanelli)correva dove valesse l’opera sua, senza una paura almondo, poichè si trattava della sua fede, alla qualeavrebbe sacrificato sè, noi ed ogni cosa.

Divenne in quell’occasione intimo amico del cardinalDe-Gregorio, prigione a Fenestrelle; potè riuscire a ve-derlo, ed accostarsi ad altri cardinali e preti; i quali tuttisoffrivano per dovere di coscienza e tutti erano quindidegne e rispettabili persone.

A pensare che cos’erano stati questi preti pochi anniaddietro, e che cos’erano ora! a pensare a quell’ignobilemistura di corruzione, di astuzie, che componeva il vec-chio impasto della Curia romana, e vederne ora usciretante nobili e forti e belle nature d’uomini che osavanodir no a Napoleone, tenuto allora immutabile ed eternocome il fato! Che lasciavano i loro bei palazzi nel tepidoambiente romano, ed entravano tranquilli nelle casemat-te d’un forte sul quale nevicava di giugno! Sapevano essise, e quando n’uscirebbero? Chi di loro poteva sognareallora Rostopchine e la Beresina?

Tanta è la potenza del sagrificio per rinnovare e nobi-litare l’anima umana!

Ma un’altra riflessione si presenta immediata.Altrettanto è immutabile quell’arcano decreto che di-

ce: tutto quanto v’è di buono, di grande, di bello almondo, è figlio del dolore.

Ma non ci mettiamo per questa via, chè Dio sa dovefinisce!... e poi ho mezzo paura di diventare un po’ trop-po Geremia colle mie continue riflessioni.

Del resto, siccome le pagine che seccano si possono

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sempre saltare, se il lettore si lascia seccare dalle mie la-mentazioni, peggio per lui.

Ho detto dianzi che nella mente degli uomini d’allo-ra, Napoleone destava l’idea d’un fato al quale non si re-siste. Ed era vero. Si figuri ora quale fu lo sbalordimentodella numerosa classe d’uomini che si sentivano schiac-ciati sotto quell’enorme peso, fuor d’ogni speranza disalute, e sdegnosi pur sempre d’un tanto danno e d’unatanta vergogna, quando sorse il primo barlume d’unapossibile redenzione! Quando si sparse, portata, si puòdir, sul vento, la prima voce: Napoleone è vinto! Napo-leone si ritira!

Io ho assaggiata la reazione, so di che sappia; e seneppur essa è stata capace di farmi mai rimpiangere (be-nedetto regretter che non ha equivalente esatto fra noi!)Napoleone ed il dominio francese in Italia, non è peròmeno vero che si perdeva un governo che in fondo infondo doveva, prima o poi, condurre al trionfo di queiprincipii che sono la vita delle società umane, per torna-re ad un governo di balordi, ignoranti, pieni di fumi e dipregiudizi. Ma a questo nessuno pensava allora; e ci sifosse pur pensato, credo che tutti (mio padre ed io dicerto) avremmo detto: venga il diavolo, ma fuori i Fran-cesi!

E perchè così si sente in Piemonte, i forestieri ci han-no sempre fatta corta vita.

La voce incerta era intanto divenuta certa, indubitata;il famoso bollettino 29 annunziava un immenso disastro,e chi poteva credere che non dicesse meno del vero? Eranelle popolazioni come un ridestarsi, un rivivere, uncommuoversi dal profondo, agitate da speranze, da so-spetti, da gioie insperate come da inaspettati terrori,perchè alla fin fine, era vivo Lui! momenti così ben di-pinti da chi scrisse:

«Un volgo disperso, repente si desta,Protende l’orecchio, solleva la testa.…»

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Ed intanto la piena delle buone nuove ogni giornocresceva. Come l’Italia, si ridestava l’Europa alla granscoperta, che Napoleone poteva esser vinto! I popoli sichiamavano come i soldati in un campo che si risveglia:si tendevan la mano, s’univano per iscagliarsi, tenendosiben stretti tutti insieme, addosso al gran leone ferito.

Il tredici passava nell’ansie di continue alternative.Incominciavano intanto a comparire quei corteggi d’im-piegati, civili e militari, ultimo sfascio d’un potere checade, gente snidata dal nemico che se la caccia a tormedavanti. Comparivano truppe lacere, smunti i visi, fune-sti, e umiliati gli sguardi (deposta l’usata minaccia); ve-nivano ambulanze, carri, carrette di feriti. Si preparava-no nuovi ospedali. Non bastavano i letti. Supplivanostrati di pagli, prima su una fila, poi su due, poi alla rin-fusa, poi non ce ne stava più: rimanevano quali sotto unportone, quali sotto uno sporto qualunque, alla neve, al-la pioggia e morivano di disagio; tanti eran morti per lavia, dopo Dio sa quali agonie di dolori! Scossi su ruvidicarri, oppressi sotto mucchi di compagni, io li vedevo al-lo scaricare questi carri! Quanti poveretti adolescenti,ragazzi, si può dire, presi, sollevati da chi scaricava, tro-vati morti, lasciati ricadere; poi tirati ruvidamente pe’piedi, e buttati là da un canto pel beccamorto. Quantipadri senza conforto in vecchiaia, quante madri senzasostegno, quante vedove derelitte, quante famiglie deso-late o spente, rappresentava una sola di queste carretta-te! e per che? e per chi?...

Io credo che da quelle prime impressioni m’è poi ri-masto fisso, inchiodato e ribadito nell’animo quell’odioprofondo ch’io porto ai conquistatori, agli ambiziosi, atutta quella mala genia, la quale, pazienza, se fosse riu-scita solo talvolta a bersi il sangue di cento, di dugentomila uomini per levarsi un capriccio; pazienza, ripeto, sefinisse qui; ma è riuscita perfino a farsi celebrare, ammi-

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rare, sto per dire, adorare, da tutti i balordi ai quali havuotate le vene!

Si può credere se a mio padre, non certo le miserieche si vedeva d’intorno, ma la gran rovina della più vastae più invincibile delle tirannie, non gli scuotesse tutte lefibre del cuore di una gioia infinita.

Ma si presentava una rara occasione di mettere in noigiovanetti idee vere e principii virtuosi, nè era uomo datrascurarla.

Già in circostanze ordinarie, mio fratello Enrico ed io(i due ultimi) eravamo condotti dal prete a visitare pove-ri ammalati, nelle soffitte ch’essi in Torino sogliono abi-tare. Quest’uso è ottimo. Per diversi motivi è bene che iricchi abbian sott’occhio i poveri, ed i poveri conoscanoi ricchi. A questi disgraziati si portavano aiuti e confor-to.

Chi ha giovanetti da educare, imiti questo sistema dimio padre. Più presto s’impara che non tutti trovano ilpranzo in tavola a suon di campanello, e meglio è.

Ora poi in questa grande calamità, in questo proflu-vio di nuove miserie, egli ci mandava all’ospedal SanGiovanni ed altri ospedali militari, senza tante smorfiedi paure per tifi e febbri nosocomiali che v’erano; ed an-cora rammento il doloroso spettacolo di quei poveri fe-riti gettati su una paglia trita e fetente, ravvolti in sudicicenci, ai quali portavamo quei pochi conforti che si po-teva in tanto numero di disgraziati. Così nostro padrec’insegnava, che in un uomo ferito, abbattuto, miserabi-le, non c’e più nè straniero, nè francese, nè tedesco, nèchinese; c’e un fratello, o meglio, un uomo (questo titolodi fratello mi pare ora moneta calante) che bisogna aiu-tare e soccorrere per amor di Cristo, se siete cristiano; seno, per l’amor di Dio; e se siete ateo, per amor vostro invostra malora.

Grazie a Dio quest’ammaestramento non mi uscì maipiù dal cuore; e quand’ebbi poi in appresso in mano ne-

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mici prigionieri, feriti e malcondotti, credo non ebberoa lagnarsi dei fatti miei.

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CAPO NONO

SOMMARIO. – Cade Napoleone – Tedeschi e Francesi – Votiper la Francia – Amori per l’odiato Tedesco – Guardia urbana– Emancipazione e addio a don Andreis – Divento cacciatore –Quattro parole al prete – La mia prima scomunica – Dura po-co – Pia frode e pie credendum – Ingresso di Vittorio Emanue-le I – La Corte in giro – Mio padre ministro interinale a Roma– Arrivo a Roma – Stato d’Europa e di Roma – Scioccherie del-le ristaurazioni – Despotismo napoleonico-gesuitico – Ci stabi-liamo a Roma – Nostre relazioni – Arti lettere.

Ma finalmente venne pure quel giorno benedetto del-la gran nuova, che Napoleone non era più nostro padro-ne, e che eravamo o stavamo per tornar liberi ed indi-pendenti!

Chi non ha veduto Torino in quel giorno, non sa checosa sia l’allegrezza d’un popolo portata al delirio.

Non lo dico senza rammarico, perchè nessuno sentepiú di me profonda la gratitudine che dobbiamo alla ca-sa di Napoleone; nessuno più di me conosce il valored’ogni stilla di quel generoso sangue francese che vennebevuto dalla terra italiana e ne operò la redenzione; mabisogna lasciarlo dire perchè così è la verità; vedere an-darsene i Francesi fu allora un’immensa, un’ineffabilefelicità.

Ma aggiungo immediatamente, che tra l’armata fran-cese d’allora e quella d’adesso, ci corre come dal giornoalla notte. Non parlo del merito e del valore come eser-cito. Su questo non c’era, come non c’e da discutere;parlo dello spirito, delle abitudini, del sentire, della co-scienza, per dir così, dei due eserciti. E sotto questoaspetto, la bilancia trabocca indubitatamente in favoredell’esercito attuale.

Si dice che i Francesi sanno far conquiste ma non ser-barle: ed è vero. Si dice altresì che i Tedeschi duran fati-

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ca a prender l’altrui, ma una volta agguantato, non gliesce più dall’ugne; ed e altresì vero, in regola generale.Eppure, per bontà di carattere, quale dei due popoli valmeglio? Cento volte i Francesi senza dubbio. Comedunque si spiega il fenomeno?

Si spiega che i Francesi vi fanno portare il peso dellaloro vanità ve la caricano in ispalla come la croce al Cire-neo; i Tedeschi si prendono invece in ispalla loro la vo-stra croce senza difficoltà, pur d’essere padroni in casavostra! E l’uomo in genere e così fatto, che un padroneil quale vi peli con aria modesta, umile, e quasi di chie-dervi perdono dell’ardire, alla fine si tollera più d’un pa-drone che anche vi peli meno, ma vi faccia sempre senti-re colle arole, cogli atti, coi gesti, cogli sguardi, che lui èlui e voi non siete un corno.

Se quella grande, nobile, generosa e simpatica nazio-ne potesse riuscir a barattare la sua vanità in altrettantobuono e bello orgoglio, come quello dei suoi vicini oltreManica, allora sì, sarebbe davvero la prima delle nazionipassate, presenti e future.

Ed ho tanta opinione di quel popolo, che non dubitopunto non si vada disponendo a fare, un giorno o l’altro,il detto baratto. Certo si è, che non solo, come dissi,l’esercito, ma anche gli impiegati civili ed i semplici cit-tadini sono in progresso, dall’epoca della caduta del pri-mo Impero; e tutti sappiamo quali grate memorie abbialasciate in Italia il corpo d’occupazione francese che ri-passò i monti tre anni sono.

Sotto il primo Impero invece si gridava loro dietrocome la botta all’erpice (proverbio toscano) senza ritor-no. Diciamo la parola propria: l’insolenza militare e l’al-terigia civile di quel tempo era intollerabile, e ne ho del-le vive reminiscenze. Non mi scorderò mai d’una scenaaccaduta in casa, appunto quando l’esercito francese erain piena ritirata verso il Mont Cenis.

Un Maggiore o Colonnello aveva avuto il biglietto

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d’alloggio in casa Azeglio. Fin qui andava in regola; intali frangenti tutti devono prestarsi pel loro municipio.Ma la cosa meno in regola fu, che avendo mio padrepreso un quartiere decente a pigione in una locanda pernon aver disturbi in famiglia (mia madre era sempre ma-laticcia e noi ancora più o meno ragazzi), l’uffiziale nonse ne volle contentare, e pretese prender d’assalto il no-stro quartiere dove s’abitava, mettendo la casa a romorecon grida, parolacce e via via.

Quel brav’uomo si capisce che in quei momenti do-vesse sentirsi di malumore; ma qui aveva torto.

Ho presente ancora mio padre, che, articolo pazien-za, non era famoso, uscirgli incontro al sommo della sca-la, e pigliarlo in petto alla prima e farlo tornare indietro.Colui bestemrniava; mio padre, che gli era proprio ve-nuta la mosca al naso, fremeva co’ denti serrati; il pretedi casa, don Andreis, obiurgava; noi, come i cagnuoliche abbaiano se trovano spalla, si veniva dicendo le no-stre brave ingiuriette in francese; e Giacolin, e Pilade, ele cameriere, in serrafila tutti insieme, credo che si feceun tal baccano addosso a quel povero Maggiore o Co-lonnello che fosse, che non ebbe più testa e si mise in fu-ga.

E così tutti appresso in truppa giù per le scale, poi incortile, poi in istrada senza cappello in capo; come è na-turale, si fece uscir la gente dalle botteghe, e radunarsi lafolla della via.

Basta, visto che a questo modo si finiva in un chiasso,tutti di comune accordo chetammo la cosa. Il buon Co-lonnello se n’andò all’albergo, e noi ce ne tornammo acasa a riposarci sui nostri allori.

Ma alla gioia di vedere partire i Francesi, tenne dietroben presto un’altra, non eguale, è vero, ma pur grande:

Quella di veder arrivare i Tedeschi!In verità, lettore, mi vado toccando per sapere se son

proprio io che ho scritto questa frase!

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E trovo che sono io in persona, anima e corpo.Ma il lettore non ha bisogno che gli spieghi che cosa

significavano allora i Tedeschi e che cosa hanno signifi-cato dipoi.

Il momento del mutar padrone è sempre, in ogni tem-po, il carnevale dei birbi d’ogni categoria. Onde salvarsile tasche, fu tosto messa in piedi una specie di guardianazionale, cui fu posto nome: Guardia urbana.

Io ero verso i sedici anni, alto e robusto come n’avessiavuti venti, con una smania di vedere, d’agire, di corre-re,con una vitalità, un diavolo in corpo indicibile, unavoglia di strappar la cavezza irrefrenabile; trovavo le cir-costanze favorevoli; tutto il paese in iscombussolo, in fe-sta; mio padre, si può credere se avesse pensieri, faccen-de, interessi, desiderii, speranze da tenerlo in agitazione,e cavarlo dalle cure, dai pensieri soliti della vita domesti-ca. Non v’era da debellare che il mio povero don An-dreis; e la vittoria fu piena, assoluta, completa.

Ecco giunto il momento di prender congedo da quelbuon prete, che ebbe il solo torto d’essere di corto inge-gno, ma del resto fu una bell’anima e fece per me in co-scienza tutto quanto credette mi potesse giovare. Io gliprofesso riconoscenza, e serbo di lui memoria pienad’affetto e stima sincera. Tanto più, quando penso cheallora le sue seccature m’impedivano di apprezzare lebuone qualità del suo carattere e che ero quindi ingiustocon lui. È incredibile il male che fanno senza volerlo iseccatori!

Qui bisogna risolversi ad una gran confessione e rac-contare un fatto che, se non fu proprio il nostro ultimoaddio, può quasi figurar per tale, e certo precedette dipoco la nostra separazione.

Le vacanze scolastiche si solevano passare in una villasulla collina dietro Moncalieri presso un paese chiamatoRevigliasco. Colà si studiava appena tanto da non di-menticare l’imparato; e del resto si menava esclusiva-

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mente vita fisica di correre, saltare, andare a caccia, ec.Io avevo scoperta in soffitta una vecchia carabina chedoveva aver fatta la guerra della succession di Polonia; ecoll’aiuto di smeriglio, di legno dolce, d’olio e più di tut-to d’olio di gomiti, me l’ero ridotta in stato da poter spa-rare; e di nascosto sul primo, poi trovando tolleranza,mezzo in palese, me n’andavo col prete e coi miei fratel-li a caccia, senza che papà però lo sapesse. Quella bene-detta carabina non so che difetto interno avesse; ma sobene il difetto esterno quale era, di darmi una terribilescopola ogni volta che la sparavo. Ciò mi tradì: perchèebbi presto sulla guancia destra, precisamente sull’arcozigomatico, un livido ostinato che finalmente chiamòl’attenzione di mio padre. Questa scoperta non ebbe perme cattive conseguenze e finì in una semplice paternale.Anzi, mosso a pietà della mia guancia, egli, il giorno del-la mia nascita, mi regalò uno schioppetto abbastanzabuono e pulito, il quale, se non altro, lasciò in pace ilmio arco zigomatico.

In una di queste benedette cacce trovandomi solo colpovero don Andreis, non mi ricordo per qual motivo,certo per un’inezia, cominciai ad attaccar lite con lui ri-scaldandomi a poco a poco. Si viene alzando la voce, poia gridare, poi ad alterarsi, poi, non so in verita chi fosseil primo, probabilmente fui io, sotto a pugni tutti e due,a calci, a adoprar insomma tutte le armi naturali, perfortuna, e non le inventate: e siccome io ero assai alto,forte, esercitato e svelto come un gatto; e di piú ogni miapicchiata rappresentava il rompimento d’una pazienzadurata cinque anni, non domandi che picchiate da or-bo! Proprio avevo perduto il lume degli occhi! Il poveroprete m’uscì di mano pesto, stracciato e sanguinoso, conmezzo labbro scomparso nel battibuglio, e, com’è natu-rale, fece la sua relazione.

Io m’aspettavo d’essere subbissato. La sera stessa,l’arciprete di Revigliasco, certo don Rinaldi, molto do-

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mestico di casa, mi trasse in disparte e mi disse che miopadre era terribilmente in collera, che non mi faceva de-gno della sua presenza; e che, come parroco del luogo,doveva avvertirmi essere io incorso nella scomunica,perchè qui percutiet clericum, suadente diabolo ec. ec.Io l’ascoltavo a testa bassa tutto modesto, ed aspettavoqualche altra conclusione; non vedendola venire alzai latesta, e, umile umile, domandai che cosa mi portavaquesta mia scomunica, per sapermi regolare. «Lei,» dis-se l’arciprete, «è un membro segregato dalla chiesa mili-tante e non può più partecipare a nessun atto del culto,finchè al vescovo non piacerà proscioglierlo dalle censu-re.»

Bisogna sapere che in villa, c’era una cappella oveogni sera si diceva il rosario in comune: un rosario tantorinfoderato di oremus, di litanie e d’altre preghiere, chenon se ne vedeva mai la fine; ed a me, era un vero sup-plizio.

Onde la prima idea mi corse al rosario, e dissi con vo-ce flebile:

«Neppure al rosario?»«Nossignore, già le ho detto, che nessun atto del cul-

to le è più permesso.»Io pensai: tutto il male non vien per nuocere; e credo

che benedicessi davvero questa volta, suadente diabolo,quei santissimi pugni dati al prete.

Da quel giorno non ci furono più nè messe, nè orazio-ni, nè novene, nè moccoli; ed all’ora del rosario me n’an-davo sul prato a caccia de’ grilli. Mi pareva proprio unavita riposata.

Ma l’arcivescovo di Torino mi rovinò.Dopo alcuni giorni, l’arciprete mi chiama in sagrestia,

cava una lettera, e me ne dà lettura. Era un gran crocio-ne fatto dal superiore ordinario sul mio delitto, coll’as-soluzione d’ogni scomunica o censura incorsa, a condi-zione ec., a patto ec. ec., purchè ec. ec. ec.

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Ed io, prendendo l’aria piú consolata che mi fu possi-bile, venni riammesso nel poco ridente grembo di quelrosario vespertino, alla maggior gloria, quiete e soddi-sfazione dei grilli del prato.

Fin d’allora però ebbi il dubbio, mutato dipoi, com’ènaturale, in certezza, che tutta quella scomunica e la let-tera del vescovo, erano pura commedia destinata a pro-durre una profonda impressione sull’animo mio, e levar-mi la voglia di picchiar mai più preti, campassicent’anni.

Fu insomma una pia frode, sorella carnale del pie cre-dendum: e tutte le frodi, pie o non pie che siano, hannoil gran difetto d’esser scopribili, ed in effetto scopertesempre; ed allora si peggiora invece di migliorare i fattipropri.

Paragonerei la frode all’acquavite: pare che sul mo-mento dia forza, ma poi vi lascia più spossato di prima.

Col mio ingresso nella guardia urbana, che ottenni fa-cilmente, e che fu il primo passo che mossi nella carrieramilitare, venne posto fine alla mia educazione; che piùtardi ricominciai poi da capo da me, quando mi tornò omi venne in capo un po’ di giudizio. Mio padre non ve-deva con dispiacere la smania armigera che spiegavo inquei momenti; e per non lasciarmi però colla brigliaproprio sul collo mentre ancora non giungevo ai sedicianni, aveva la pazienza di fare anch’esso il servizio, emontar guardie, far pattuglie, esercizi in piazza d’armiec., con noi.

Il re Vittorio Emanuele I era intanto partito da Ca-gliari e stava per arrivare. Truppe nazionali indigenenon ce n’era; toccava dunque alla Guardia urbana a fareil servizio del suo ingresso in Torino. Si stava quindisempre in faccende, ufficiali e soldati, per imparare al-meno a mettersi in battaglia e rompere in colonna, senzafar tutt’un’insalata.

Il 20 di maggio finalmente arrivò questo re tanto an-

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nunziato e benedetto. Io mi trovavo in rango in PiazzaCastello, ed ho presente benissimo il gruppo del re colsuo stato maggiore. Vestiti all’uso antico colla cipria, ilcodino e certi cappelli alla Federico II, tutt’insieme era-no figure abbastanza buffe; che però a me, come a tutti,parvero bellissime ed in piena regola; ed i soliti cris mil-le fois répétés accolsero questo buon principe in mododa togliergli ogni dubbio sull’affetto e le simpatie deisuoi fedelissimi Torinesi.

La sera, s’intende, grand’illuminazione; e davvero fuspontanea quanto magnifica. La Corte vi andò, cioè ilre, la regina, le figlie, se non erro, senza seguito affatto,proprio in famiglia. Non so se i cavalli e le carrozze delprincipe Borghese fossero sparite; più probabilmente, sepure c’erano, non volle la famiglia reale usarle. So beneche S. M. non avea neppur un legno e un paio di cavalli;onde mio padre gli offrì in dono un carrozzone di galache aveva servito pel suo matrimonio, tutto dorato e acristalli, cogli amorini idropici sugli sportelli.

In questo cocchio il buon re con quella sua faccia, viaDiciamolo, un po’ di babbeo ma altrettanto di galantuo-mo (e si vide nel 21), girò fino al tocco dopo mezzanottepasso passo le vie di Torino, fra gli evviva della folla, di-stribuendo sorrisi e saluti a dritta e a sinistra; il che por-tava, per meccanica conseguenza, un incessante spazzo-lare da sinistra a diritta di quella sua coda, tanto curiosaormai pei giovani della mia età.

Era l’epoca del ritorno di tutt’i principi nelle loro ca-pitali. Si sapeva imminente quello del papa, ed il re volleche gli giungesse quanto più presto si potesse un mi ral-legro del capo della Casa di Savoia, nella quale era tradi-zionale il rispetto al papa, quanto la fermezza nel tenerein riga la Corte romana.

La scelta dell’inviato cadde sulla persona di mio pa-dre; ed era certo impossibile trovare un più vero rappre-

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sentante del principio politico come della fede religiosadei due principi.

Fatta e partecipata la nomina, convenne partir subito.La mia povera madre, malgrado le gioie di questi ulti-

mi eventi, era pur sempre di poca salute, e si spaventòdell’idea che io rimanessi in sua custodia, spiritatocom’ero; onde facilmente persuase mio padre a condur-mi con sè.

Si partì in due carrozze egli, io, e Prospero, il quale,rimettendosi in piedi i gesuiti, aveva deliberato entrarenella Compagnia.

Tutta Italia trovavasi in un mirabile scompiglio. Legenti italiane tornavano: impiegati, soldati, ec. Le gentifrancesi partivano, ed eran tutte le strade, come quelledei formicai, piene di queste due correnti.

Mi ricordo che si trovò, prima dell’Appennino, unpovero giovane romano che tornava mezzo sciancatodall’esercito. Presi a discorrere con lui in un punto dovei cavalli dovettero andare di passo; e fu la sua fortuna.Lo feci salire dietro il legno e, mentre doveva trascinarsia piedi Dio sa quanti giorni, tornò a casa in posta in bre-vissimo tempo.

S’arrivò a Roma a notte tarda, circa a mezzo giugno,trovando ancora in piedi per istrada gli archi di trionfodi tela ingessata eretti a Papagiulio e a Ponte Molle pelritorno di Pio VII, giunto pochi giorni prima. Si smontòa piazza Mignanelli, al palazzo in fondo, allora locanda:e la mattina s’ebbe tosto (segno dell’ambiente romano)una strombettata e stamburata sotto le finestre. Checos’è? La famiglia del papa che dà il ben arrivato a V. E.Cordialità ospitale, alla quale chi ha viscere corrispondetosto con una manata di scudi.

Roma, e si può anzi dire l’Europa, offriva allora lospettacolo che appare verbigrazia, in un tratto di paese,in una contrada sulla quale si sia rovesciato qualche tre-mendo uragano, portato poscia dal vento in altre regio-

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ni. Gli uomini si rivedono in viso, si rallegrano di trovar-si ancora vivi, guardano attoniti le frane, gl’inghiaiamen-ti, le rovine, gli straripamenti, gli alberi sbarbati, i tettirovesciati, i comignoli svelti: ma sono vivi essi; ma il tur-bine è scomparso; dunque, poco male! allegri! è affared’un po’ di spesa e di tempo. Sotto: tutti al lavoro can-tando e rallegrandosi; e chi aggiusta, chi rialza, chi ripa-ra, chi rinnova, chi rifabbrica.… Così era l’Europa, cosìera Roma.

I Romani non avevano ancora assaggiato il Papa netocome il Rey neto degli Spagnuoli. Ognun sa come il Go-verno temporale di prima, per quanto cattivo, era peròtemperato da patti, capitoli, dritti provinciali e comuna-li, da usi, tradizioni: quindi infinitamente meno peggiodi quello che stabilì il cardinale Consalvi e seguito, fa-cendo la scimmia a Napoleone. Questi lasciava all’Euro-pa in regalo, per sua memoria, le macchine e gl’istru-menti più ingegnosi che abbia mai saputo trovare ildespotismo, da quando cominciò ad infierire sulla spe-cie umana: Polizia e Burocrazia.

I Romani, come neppur l’Europa, non potevano pre-vedere allora che i duci e signori, rappresentanti dei ri-composti governi, avessero ad essere tanto balordi danon capire quanto diversi fossero gli uomini del quattor-dici da quelli dell’89: da non persuadersi che a quellaparte di bene, a cui il grande ingegno di Napoleone e levicende dei tempi li avevano avvezzati, essi non vorreb-bero rinunziare certissimamente.

I principi, come i ministri reduci dagli esigli, trovaro-no comodo di accettare l’eredità di Napoleone con be-nefizio d’inventario: tenersi la polizia, la burocrazia; più,le imposte, gli eserciti fuor di proporzione, e via via; mail buon ordine giudiciario ed amministrativo, l’impulsoalle scienze ed al merito, l’uguaglianza delle classi, il mi-glioramento e l’aumento delle comunicazioni, la libertà

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di coscienza e tant’altre ottime parti del governo delgran guerriero se le gettarono dietro le spalle.

In Italia, in ispecie, lo stato politico, il despotismonuovo, potè definirsi: Napoleone vestito da gesuita.

La lancia d’Achille in mano di Tersite.Due paesi si distinsero in quest’avveduta e previdente

politica: Roma e Torino.Di Torino parlerò poi. Di Roma dirò intanto che tut-

to fu rimesso com’era temporibus illis; che vidi tornati ilBargello colla corte, i birri, il cavalletto, la colla, ec. ec.ec., con tutto quel che gli s’assomiglia.

Ma i Romani allora non pensavano a questioni politi-che ed io meno di loro, onde l’aspetto della città era pie-no di vita e di contentezza; ed io godevo di tutte quellemagnifiche novità coll’ardente vivacità dell’adolescenza.

Pio VII diede tosto udienza a mio padre, e lo accolsecome meritava un così costante devoto alla Santa Sede,che aveva di fresco prestata così coraggiosa assistenza aicardinali e vescovi perseguitati, e veniva mandato dalpio e affezionato re di Sardegna.

Le istruzioni di mio padre portavano di compiere,prima di tutto, col papa, l’ufficio delle felicitazioni pelsuo ritorno. Quindi di rimanere a Roma provvisoria-mente ministro, finchè giungesse il marchese di San Sa-turnino, nominato rappresentante stabile della Sardegnapresso la Santa Sede.

Si prese dunque un quartiere nel palazzo Fiano alCorso; provvedendo al necessario per un po’ di rappre-sentanza: ed eccomi, senz’essermene quasi accorto, di-ventato un diplomatico, un mezzo segretario d’amba-sciata, un attaché. In un mese, da studentedell’università, mi trovavo in diplomazia con un’unifor-me di certa guardia istituita all’arrivo del re, e datomiper disimpegno; avendo traversato prima lo stadio dimilite urbano.

Era forse un pronostico delle tante trasformazioni e

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metamorfosi che dovevo subire durante la mia lungacarriera?

In virtù della mia condizione ufficiale, mi trovavo inmezzo a tutta l’alta società romana tanto clericale quan-to civile, non meno che al corpo diplomatico, il qualeappena si stava formando; avendo allora tutt’i governitanto da fare per le mani, da non potersi occupare segui-tamente di veruna cosa. Il conte di Lebzeltern comparvetosto per l’Austria. Un certo abate Sambucy, se la me-moria mi serve, rappresentava l’interim della Francia; al-tri, su quei principii, non rammento. Il cardinal Consal-vi era al congresso di Vienna. I cardinali Pacca,Somaglia, De Gregorio, vivevano in istrette relazionicon mio padre; come pure i monsignori Morozzo mioprozio, Riario, Frosini, Ugolini, tutti dipoi cardinali, emolti altri. Vedevamo frequentemente i Massimo, i Pa-trizi, i Torlonia, i Piccolomini; ed io nel mio particolareche sin d’allora cercavo legarmi con gente simpatica edalla buona, non occupandomi molto del resto di soddi-sfar l’amor proprio con alte relazioni, m’addimesticaicolla famiglia Orengo, d’origine piemontese, ma stabili-ta da cent’anni in Roma, ove esercitava di padre in figliol’uffizio di spedizioniere di Sardegna.

Da questa famiglia, allora e sempre in appresso, vennicolmato d’ogni sorta d’affettuose cortesie, e mi saràsempre cara ogni occasione di far palese la viva gratitu-dine che gliene serbo.

Nelle arti e nelle lettere erano allora a Roma alti e bel-li ingegni: conobbi Canova, Thorwaldsen, Rauch, Ca-muccini, Landi, Chauvin; la Marianna Dionigi, la figliaOrfei, il poeta Ferretti, autore di molti libretti di Rossi-ni, l’abate Coppi, Gherardo De Rossi, autore di comme-die.

Tutta questa società era animata, piena di vita e dimovimento. Alla generazione di quell’epoca, Napoleoneavea fouetté le sang; e non rassomigliava punto a quel ti-

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po lumaca che ha fiorito poi per tanti anni tra noi,all’ombra dei cappelloni dei gesuiti, e dei troni e troninie tronucci dei principotti austro-borbonico-italiani; cheDio conceda pace all’anima loro.

Ed io, in quest’ambiente gaio, bevevo avidamente,come dice non so che poeta, l’aura d’una vita nuova tut-ta immaginosa, e mi pareva finalmente di sentirmi esiste-re.

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CAPO DECIMO

SOMMARIO.– Visitiamo Roma antica e moderna – Visconti –Malvotti – Comincia una brutta epoca – L’uomo lo fa l’onestànon lo coccarda – Comincia l’inclinazione alla pittura – Mioprimo maestro – Riprendo la musica – Violicembalo – La mu-sica è un mistero – Sogni sulla musica – Somiglianza fra lamente umana e un corpo – Diplomazia, Murat – Sono nomina-to sottotenente – Mio fratello entra nei Gesuiti – Mi si vuolefar monsignore – Quale idea serbo di Roma – Fleure du tendre– Canonico Spaziani, donna Teresa Bracucci, monsignor Bran-cadoro – Boccaccio e Giovanni Huss.

Secondo il sistema d’educazione di mio padre, non sidoveva mai perder tempo. Si doveva poi cercare sem-pre, nell’impiegarlo, il modo più opportuno dell’occa-sione presente. Nella nostra condizione, certamente ilpiù opportuno di tutti era imparare a conoscer Roma,profittando dell’occasione. Con questo intendimento sene fece il giro, prima con un antiquario, che fu il signorVisconti, figlio d’Ennio Quirino o suo nipote; posciacon un pittore, il signor Malvotti.

La storia romana era allora accettata da tutti come cel’avevan tramandata gli antichi, senza cercar più in là. Ibei lavori moderni di Niebuhr e di altri tedeschi, del Mi-cali, di Thierry, d’Ampère e di molti altri sulle originiitaliche, non avevano ancora, non dirò trovato il vero,ma dimostrato almeno con quanta riserva sia da ammet-tersi l’antico complesso di quelle istorie. Dagli insegna-menti del signor Visconti non s’ebbe quindi se non laconferma dei fatti da noi già conosciuti; e si passò tuttol’inventario delle antichità, reso lungo e minuto più assaidel bisogno per opera dei servitori di piazza, custodi,guardarobe, vignaroli e simili, al solo scopo di moltipli-care quanto è possibile l’emissione dei tre paoli dalle ta-sche del forestiere; si passò, dico, tutto intero quell’in-ventario senza lasciar indietro un mattone, ed accettanto

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Romolo, e Clelia, e Scevola, ed Orazio al Ponte Sublicio,ec. ec., tutto insomma l’antico personale di quel grandramma con una fede da mussulmani.

L’antiquaria era ed e uno dei pochi studi possibili sot-to il governo dei preti. Ci vorrebbe un bel talento a sco-prirvi tendenze sovversive. Debbo però confessare chequelle venerande reliquie, dalle quali venne fecondata lamente di Gibbon e di Goethe, non produssero sul miopovero cervellino nessuna forte impressione.

Amavo le novità in quel tempo e non le antichità, ed ilsignor Malvotti era appunto l’uomo che ci voleva conqueste mie disposizioni.

Con lui si ricominciò a girare Roma e i contorni sottol’aspetto dell’arte. Si visitarono con lui tutti i musei distatue, tutte le gallerie di quadri, tutte le chiese, i palaz-zi, gli edifici che contenevano cose importanti o cheavrebbero dovuto essere. Questo secondo giro m’inte-ressò più del primo. Bisogna anche dire che la personadel mentore entrava per molto nella preferenza.

Il Visconti era un vecchio dai capelli bianchi, in calzo-ni corti, tutto vestito di nero, con un gran cappello a trepunte che pareva un edifizio; egli non usciva mai dal suoargomento.

Il Malvotti invece era sui trenta, disinvolto, allegro,matto come in genere erano gli artisti prima dell’inven-zione degli uomini seri; e parlava di tutto lo scibile, ditutto il visibile e, quando mio fratello chierico non senti-va, anco di tutto l’appetibile. I birichini s’indovinano al-la prima fra loro, ed il signor Malvotti ed io, c’eravamosubito capiti senza esserci quasi parlati.

Finito questo secondo giro, Prospero cominciò a met-tersi coi suoi gesuiti preparandosi a vestirne l’abito. Edio col giulivo Malvotti, visti i quadri e le statue, si comin-ciò a vedere gli originali.

Qui comincia uno dei più brutti stadi della mia vita;del quale mi vergogno, e che vorrei poter scordare.

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Invece me ne ricordo come fosse adesso; soltanto,pensando a me qual ero allora, mi par proprio di pensa-re ad un altro; a qualche tristo mobile nel quale mi fossiimbattuto e che avessi in seguito abbandonato come cat-tiva compagnia.

Ed e proprio così, grazie a Dio: il Massimo diquell’epoca, l’abbandonai; mi spogliai di lui, comed’un’abito imbrattato, quattro o cinque anni dopo. Sal-terei volentieri a piè pari questi anni. Ma non si può. Bi-sogna che io sia galantuomo, non solo col lettore, ma an-che con me stesso. Altrimenti farei della mia storia comedelle pere che hanno il baco; monderei il fradicio e pre-senterei il sano! E potrei finire coll’imbrogliarmici an-ch’io!

S’io cominciai presto, troppo presto, a sciogliermi, lodebbo al signor Malvotti. Come mai, si dirà, mio padrenon aveva egli scelto un uomo più sicuro? L’uomo gli fuproposto da un monsignore. Ed un monsignore non po-teva errare nè per malizia, nè per ignoranza, nè per ne-gligenza.

La profonda sincerità del senso religioso, la fede in-crollabile di mio padre, lo portavano ad una specied’esaltazione di sentimenti affettuosi verso il papa, pri-ma di tutto; poi verso l’intera gerarchia della Chiesa; ed ibirbi del partito clericale, sia laici che ecclesiastici, abu-sarono della leale e nobile natura sua in molti incontri;nè mi mancherà occasione di parlarne.

Di qui emerge un ammaestramento di grande utilitàpratica.

In tempi di parti, oggi coma allora, c’è il vezzo dichiamare i nostri i buoni, e gli avversari i tristi. Come sefosse tra i possibili che un paese si trovasse diviso in duebrigate: cinque milioni, verbigrazia, di galantuomini diqua, e cinque milioni di birbanti di là! A chi ha tali ideeaccade facilmente, com’è naturale, d’essere corbellato epeggio da un briccone, creduto onesto soltanto perchè

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appartiene al medesimo suo partito. Perchè ciò non ac-cada, guardiamoci dunque dallo scegliere amici e confi-denti in grazia soltanto della loro coccarda; e ricordia-moci che se due opinioni opposte professate da duepartiti non possono essere ambedue egualmente vere,logiche e buone, due uomini appartenenti ai detti partitiopposti possono ambedue essere egualmente due birbimatricolati come due galantuomini.

Durante il mio soggiorno in Roma nel 14 mi si svi-luppò quell’inclinazione decisa per la pittura che m’èpoi costantemente durata sino al giorno d’oggi. Se nonle anticaglie e gli avanzi della grandezza romana, micolpì almeno la maggiore e più durevol grandezza della

«Vuota insalubre regïon che statoSi va nomando.…»tutto verissimo, ma regione però che sarà sempre

l’amore, la poesia, la disperazione degli artisti; come cer-te donne che vi nascono. Non si sa perchè, ma viste epraticate una volta, la loro presenza v’incanta, la loro as-senza vi strugge.

Quella solita lezione di disegno, appendice obbligatadi tutte le educazioni, con la sua solita fricassea d’orec-chie, di nasi, di bocche, ec., m’aveva infastidito comeuna triste pedanteria. È vero che schiccheravo cavalli,paladini e mille cose, imbrattandone i miei quaderni e li-bri di scuola; ma Dio ne scampi dal prendere quest’abi-tudine per un pronostico di futura capacità artistica! Iparenti se la leghino al dito, se non vogliono esporsi aseccanti delusioni.

A Roma invece mi sentii veramente accendere quellavampa interna che è l’annunzio ed il motore delle lotteperseveranti dell’anima con sè stessa e colle difficoltàdella scienza o dell’arte. Mio padre, al quale me ne con-fidai, mi porse ogni aiuto col suo consueto ed intelligen-te amore.

Il mio primo maestro fu un calabrese chiamato don

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Ciccio De Capo. Ma questo don Ciccio, col suo nomeda bambino, aveva ottanta anni, ed era di quella scuolavecchia che Woogd, Verstappen, Bassi, Therlink aveva-no fatta dimenticare durante gli ultimi anni dell’impero.

Gli antichi dipingevano di maniera: i nuovi stavanoscrupolosamente attaccati al vero.

Chi conosce Roma, ricorderà parecchi grandi paesiche ornavano il caffè del Veneziano in piazza di Sciarra;composizioni a larghe masse e di molto effetto. Queipaesi erano del buon vecchio mio maestro che ricordocon simpatia per la sua rara modestia; egli mi dicevaspesse volte quand’io lodavo il suo dipinto: « Ora, lepaesiste nuove, chissi so’ bravi; ma io, poro vecchio,chiù d’accosì no saccio fare.» Sotto la sua scorta comin-ciai a sporcar tela a olio, e prendere un po’ di pratica ditavolozza e di colori, empiendomi di frittelle, come ac-cade le prime volte, e mettendomene fino nella collotto-la.

Oltre la pittura ripresi con maggior piacere la musica,chè anch’essa avevo studiata per sistema d’educazionesotto il maestro Tagliabò di Torino. Egli non aveva peròmai potuto ottenere da me, che gli nominassi le sette no-te senza sbagliarne parecchie. A Roma invece, anche perquesto bel ramo delle arti mi principiai a sentir traspor-to, e mi diedi ad occuparmene con ardore.

Sempre dipoi, e sempre piú ho avuta passione per lamusica. Mio padre la conosceva a fondo; leggeva facil-mente, e siccome allora non usavano riduzioni per ledue chiavi e per piano, accompagnava sulla partitura,cosa molto piú difficile, e per la quale convien conosceretutte le chiavi. La sua voce era di basso, piena ed espres-siva, non agile ma fatta apposta per la musica antica chemolto amava.

Il gesuita era però più innanzi di tutti gli altri di casa.Conosceva il contrappunto ed era compositore. Scrissepezzi di musica sacra; e poteva dirsi eccellente suonato-

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re di piano, per quei tempi ben inteso, chè ora v’è statoprogresso immenso in questa come in cento altre cose.

Egli inventò altresì un nuovo istrumento che nominòviolicembalo. In esso, per mezzo della solita tastiera, simuove un meccanismo pel quale il suono nasce dalla vi-brazione delle corde ottenuta collo strofinare delle seto-le come sul violino. Istrumento a note tenute e perciòd’espressione, e da suonarvisi meglio gli adagi che gli al-legri. L’imperatore di Russia acquistò uno di questiistrumenti.

Quanto a me, non seppi mai a fondo la musica, maebbi dalla natura una voce non ispiacevole, molto agileed un certo gusto di canto, se non m’illudo. Ci fu untempo nel quale non pensavo ad altro che alle semicro-me; ma riflettendo poi che mi facevano perdere troppotempo inutilmente, le mandai al diavolo insieme coll’al-legra compagnia che m’aiutava a passar la vita gorgheg-giando. Fu uno dei miei pochi atti di Virtù.

Eppure, di tutte le opere dell’uomo, la più meravi-gliosa ed insieme la sola, per me inesplicabile, è la musi-ca.

Capisco la poesia, capisco la pittura, la scoltura, le ar-ti d’imitazione insomma. Il loro nome ne svela l’origine.V’era un modello, l’umanità c’impiegò secoli per giun-gere ad imitarlo; e finalmente l’imitò.

Capisco le scienze. Dato il raziocinio, non trovo diffi-coltà a comprendere che, ogni età profittando delle ri-flessioni, e, per dir così, salendo sulle spalle dell’età an-tecedente, l’umanità si sia innalzata al punto al qualeoggi si trova.

Ma dove diamine siamo andati a prendere la musica?questo è quello che non capisco. La musica e un miste-ro. Credo che bisogna dirne quel che si dice delle lin-gue.

Eppure la musica c’è; è nella nostra natura. (Non intutte, e vero.) Mi ricordo che ad un concerto, Cobden

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mi s’inchinò all’orecchio e mi disse: «Non ho mai capitoche cosa significhi quello strepito che chiamano musi-ca.» Le esperienze sul monocordo e sul prisma, la rela-zione che esiste fra le distanze delle note e de’ colori,mostrano che consonanze e dissonanze non sono un fat-to arbitrario nè una convenzione acustica. Ma con que-sti dati che cosa spiego? Lei dirà ch’io vo nelle nuvole onelle nebbie, ma voglio pur parlare.

Non ha mai provato talvolta, a certe melodie, sentirsiumidi gli occhi come ad una cara voce, come ad unadolce memoria sopita che si ridesta? e tal altra, sentirsidiventar migliore, più franco, trovarsi l’anima nobilitataad un tratto? il cuore reso più generoso? la volontà piúonesta?... Come si spiega l’influenza della melodia edell’armonia sul senso morale? Che cosa vi dissero quel-le note, quali ragioni v’esposero per ispirarvi il bello, ilbuono, il grande?

Non sarebbe la musica una lingua perduta? della qua-le abbiamo dimenticato il senso, e serbata soltanto l’ar-monia? Non sarebbe una reminiscenza? La lingua diprima, e forse anche la lingua di dopo?… Scendo dallenuvole e torno sulla terra ferma.

Povera mente umana! star legata ad un punto fisso;avere un ristretto raggio nel quale vivere e raggirarsi; ve-dere e non andare più in là! ecco la sua condanna.

Quest’idea mi si ridestava giorni sono vedendo incampagna una povera capretta legata ad un albero. An-ch’essa aveva tante braccia di fune, anch’essa aveva unpiccol raggio da pascolarvi, anch’essa se ne lagnava conquel belar timido e tremulo che è la sua lingua, anch’es-sa vedeva più oltre e tirava e si affannava per allargare ilsuo raggio, ed anch’essa tirava e si affannava invano!

Cacciamo dunque i rammarichi inutili e torniamo anoi.

Non tutte le mie occupazioni a Roma erano nei campidella poesia e dell’immaginazione. Non si scordi che ero

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un diplomatico; come tale, oltre i doveri di società, ave-vo doveri di cancelleria.

La Santa Alleanza s’era piegata ad accettare la confes-sione ed il pentimento di Murat: non gli aveva negatal’assoluzione, ma siccome si fidava poco del convertito,lo teneva d’occhio, aspettando e sperando, credo io, ve-nisse l’occasione di coronar l’opera dandogli la peniten-za.

La penitenza s’intende di prendergli corona e scettro,e metter lui fuor dell’uscio.

Noi, come tutti gli altri residenti diplomatici, si veni-va a mano a mano informando la nostra Corte di tuttoquanto si poteva sapere, supporre o dubitare dei proget-ti della corte di Napoli; e mi toccava la pittoresca occu-pazione di copiare pagine e pagine di cifre che non capi-vo, per il nascente archivio della legazione.

Tale era la mia vita in quel tempo; e malgrado la cifra,mi ci ero assai facilmente avvezzato. Allora, i pranzid’invito, i balli, le soirées, il mondo elegante non m’ispi-ravano quel sacro orrore che ora me ne tien lontano.Non avevo provato nè goduto mai altrettanto e mi tro-vavo contento. Ma nel meglio, ecco comparire il nostrosuccessore, marchese di San Saturnino, e bisognò pensa-re a far fagotto.

Avevo del resto una consolazione. Ero stato nominatosottotenente in Piemonte Reale Cavalleria; non ne cono-scevo l’uniforme, ma nutrivo una lontana speranza d’es-sere destinato dall’amica fortuna ad avere in capo un el-mo, sogno della mia infanzia; e questo splendidoavvenire m’impediva di pianger troppo le mie conoscen-ze romane.

S’erano intanto rimessi in piedi i gesuiti. Mio fratelloera all’ordine, e stava per vestir l’abito. Profittò dei gior-ni che ancora gli avanzavano prima della funzione perstare a modello perchè Landi gli facesse ritratto.

È questa una delle belle cose di quell’artista, che, po-

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verino, non ne ha fatte troppe; ed ora il detto ritratto èpresso mio nipote Emanuele.

Finalmente giunse il giorno della vestizione, ed andaianch’io al noviziato a Monte Cavallo ove doveva seguire.

Tutti quei gesuiti erano in festa, com’è naturale, pervedersi risorgere; e, com’è altrettanto naturale, eranotutti vecchi, e fra soltanto alcuni novizi giovanissimi.

S’entrò in un oratorio tutto fragrante delle biancheriedi bucato, e dei fiori che ornavano l’altare, pieno d’ar-genti, di santi, di candele accese, colle mortelle in terra ele finestre socchiuse, le tende tirate; essendo un fattocerto se non spiegato, che l’uomo è più devoto allo scu-ro che al chiaro, la notte che il giorno, ad occhi chiusiche ad occhi spalancati.

Il generale d’allora, un vecchio padre Panizzoni, ci ri-cevette. Era piccolo, curvo, cogli occhi foderati di scar-latto, mezzo cieco e credo anche un po’ rimbambito.Piangeva di consolazione, e tutti ce ne stavamo modestie compunti come voleva la circostanza, quando al buonmomento in cui il postulante doveva farsi avanti, ecco ilpadre Panizzoni a braccia aperte che dirige a me le suetenerezze, scambiandomi per mio fratello! Errore cheper un momento rallegrò la gravità dell’adunanza.

Se accettavo l’abbraccio del padre Panizzoni, voleva-mo fare un bel negozio lui ed io!

E non fu questo il solo invito che ebbi allora d’entrarenella carriera sacerdotale. Monsignor Morozzo mio pro-zio e padrino, allora segretario dei vescovi e regolari, midomandò un giorno se volevo entrare in Accademia Ec-clesiastica e andar avanti per la prelatura sotto il suo pa-tronato. Io mi misi a ridere, tanto mi parve buffa l’idea,e non se ne parlò più.

Se avessi detto di sì, potrei, a ragion di tempo, esserecardinale da un pezzo ed anche papa. E se lo fossi, vor-rei farmi venir dietro il mondo come un pecorino col sa-le. Ebbi torto di dire di no!

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È vero che col mio carattere di parlare come penso,sempre, a tutti ed in tutto, stavo fresco! O l’avrei muta-to, o sarei andato ai più in un paio d’anni.

Si partì finalmente da Roma nel cuor dell’inverno, inun legno aperto e viaggiando più la notte che il giorno,come era l’uso di mio padre.

Mentre i cavalli trottano, dirò l’impressione che por-tavo con me, di Roma e del mondo romano.

L’idea più semplice era, che i preti di Roma e la lororeligione non avean molto che fare nè con mio padre nècon don Andreis, nè colla religione loro, e dei preti e de-voti di Torino.

Quello che nel frasario ascetico si chiama, non so per-chè, l’unzione; quel contegno compunto, tristo, lumeg-giato soltanto da qualche rara lepidezza di sacrestia;quell’ambiente che pesa sul cranio come il plumbeus au-ster d’Orazio, di tutto quest’insieme nel quale ero vissu-to e cresciuto sotto la ferula del mio prete, a Roma nonne avevo trovato traccia.

Non un monsignore, non un prete, che non cammi-nasse franco, colla testa ritta, senza caricature, mostran-do la bella gamba, ed una toletta più che pulita; parlan-do poi del più e del meno e d’ogni cosa, e de quibusdamaliis talvolta, tanto che mio padre, me n’avvedevo, sisentiva andare in sudore e proprio stava sulle spine. Hopresente d’un certo prelato, che non nomino, e che cre-do fosse discretamente sciolto, il quale ad un pranzo invilla fuori Porta Pia, raccontava ridendo certi aneddotimatrimoniali ch’io neppure capivo bene allora, e mi ri-cordo che quell’onest’uomo di mio padre stava propriocome sull’eculeo, cercando ogni modo per rompere ilproposito e metter la conversazione su un’altra via.

I prelati e preti che incontravo in compagnie non tan-to ortodosse come quelle frequentate da mio padre, miparevano ancor più sciolti. O nel presente o nel passato,o in teoria o in pratica, o con molto velo o con poco, o

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con nessuno affatto, tutti egualmente navigavano odavean navigato sul dolce fleuve du tendre.

Incontrai, verbigrazia, un vecchio canonico legato dauna vecchia catena in pariglia ad una vecchia dama; in-contrai un giovane prelatino bianco e rosso, schizzandocastità no certo dagli occhi, disperato per il bel sesso,chè a chi dava, a chi prometteva; e, si figuri! questo giu-livo apostolo non mi si mette intorno dicendomi, che nelmonastero di Tor di Specchi c’era una ragazza innamo-rata di me? Io, non volevo altro, abboccai subito, me lafeci insegnare; e qui cominciò un va e vieni di ragazzate,di ambasciate, poi occhiate tenere e cento scioccheriedello stesso genere, tutte troncate poi dalla pariglia diposta che ci messe fuori di Porta del Popolo!

Tutte queste scoperte (e lo erano proprio per me allo-ra) me le ruminavo con molte altre ancora, rincantuccia-to, ravviluppato e stretto nel mantello in fondo al legno,mentre correvamo sulla via di Toscana.

Le idee di mio padre sul clero e sulla curia romanaerano certamente esclusive ed assolute; ma col suo buongiudizio era impossibile non avesse veduto quel che eraperò visibile agli orbi. Durante il viaggio mi venne insi-nuando, senza parere tuttavia di farne un caso grosso,che d’un paese dove eravamo stati così bene accolti, pa-reva convenienza e dovere Darlarne sempre con riguar-di, ancorchè vi si fossero potuti notare abusi e disordini.E tal massima presa con discrezione non è da condan-narsi.

Egli certamente s’affliggeva del nessun contegno diuna parte di quella società, e per usare il gergo d’ora,della sua poca rispettabilità; ma si confortava, appog-giandosi all’idea del giudeo Abraam del Decamerone; lamiglior prova della verita della religione quale la profes-sa Roma, stare appunto nel trovarsi in tali mani, eppurdurare.

Ragione che sussiste fino ad un certo punto; poichè se

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Boccaccio avesse avuto pazienza d’aspettare una qua-rantina d’anni, avrebbe imparato da Giovanni Huss pelprimo e da Lutero e compagni in seguito, che in certemani le cose durano sì, ma durano finchè si strappano.Non dico niente, se Boccaccio e l’ebreo tornassero almondo ora!

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CAPO DECIMOPRIMO

SOMMARIO.– L’elmo è assicurato – Reazione – Curiosa ri-composizione dell’esercito – Mio padre cortigiano poco destro– Cortigiani, veri pericoli pei principi – Fine di don Andreis –Entrata definitiva al reggimento – Ingiustizia della mia promo-zione – Umiltà ragionevole – Imparo bene il mestiere – Scioc-cherie dei nostri maestri – Mia passione per la giustizia – Mioodio contro la nobiltà, e idee buffe sulla democrazia – Mi ven-go guastando – Vivo colla canaglia – Quistione con un compa-gno – Mio padre lo sa – Sua visita – Consiglio ai giovani.

Alle due o alle tre che fossero dopo mezzanotte, mitrovai un giorno finalmente in casa a cercare a tentoni ilmio letto, posto in una medesima camera con quello dimio fratello Enrico, che svegliai.

«Chi è? Chi è?» – «Sono Massimo che torno da Ro-ma;» ed in un lampo fui sotto il coltrone.

La prima questione mia fu: «Piemonte Reale ha l’el-mo?» – «Sì». Respirai. Dopo alcune altre domande, ec-coci ambedue addormentati.

Non passò difatti una settimana, ed una bella dome-nica di splendente sole mi potei finalmente sentire in ca-po quel l’elmo benedetto, vedermelo nello specchio in-sieme all’intero uniforme col quale, a detta delle mieadulatrici, pare che fossi abbastanza un bel ragazzo; po-tei avere l’ineffabil gioia di vedermi presentare l’armedalle sentinelle, e di girare fino all’ora, di pranzo in su ein giù per i portici di via Po, onde nessuno dei Torinesivenisse quel giorno defraudato del bene di contemplar-mi.

Il reggimento era in formazione, e credo che non cifosse in quel momento uno squadrone a cavallo. Si rac-coglievano i reduci dall’esercito francese, si nominavanogli ufficiali rimettendo in piedi tutti gli antichi, fuord’esercizio da tant’anni. E poi è celebre il metodo ches’usò allora per coprire i posti delle varie amministrazio-

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ni, come dello stato militare. Si prese l’Almanacco diCorte e il Palmaverde il suo dell’anno della partenza delre. Ognuno rioccupò impiego d’allora, meno i morti nelfrattempo osservazione che forse poteva lasciarsi alla sa-gacità del lettore. Ma gli antichi, anche senza parlare deimorti, non potevano bastare, e convenne chiamar deigiovani.

Io fui tra questi, e di sbalzo ebbi le spalline. E perqual motivo? Niente altro se non perchè, se il lettorenon l’ha dimenticato, nel 1240, o 60 o 80 (è curiosa chel’ho dimenticato io!) quel tal uomo d’arme dei BrenierCapel venne a prender moglie a Savigliano ed ebbe lafortuna d’essere la causa efficiente di quella lunga cate-na de’ Taparelli, dei quali ho l’onore d’essere io il penul-timo!

Quanto ai reduci dagli eserciti francesi, essi furonoammessi perdendo un grado; il caporale tornò soldato; ilsergente tornò caporale, e su su fino ai capitani o colon-nelli che fossero. Quel che si chiama precisamente ilmondo a rovescio. A noi, cavalierini, dato senza merito;tolto a loro quel che s’erano comprati col loro valore edcol loro sangue.

Vedremo fra poco qual lavorio m’operò nella mentequest’ingiustizia.

Non voglio lasciar di ricordare che a mio padre fu of-ferto di riprendere il servizio attivo al quale s’era sempresentito inclinato. Ma egli rifiutò, adducendo che dopodiciott’anni di disuso, avrebbe creduto addossare un ca-rico e non portare un vantaggio al paese, ritornando nel-le file. Onde rimase generale in ritiro; ebbe la croce dicommendatore di San Maurizio e Lazzaro, che alloraaveva il suo pregio (i due valorosi Tribuni della LegionTebea non erano ancora in quel tempo conduttorid’omnibus, come divennero in seguito); ed un anno do-po venne nominato governatore di Casale.

Ma ad onta della sua condotta passata, ad onta dei

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meriti e delle qualità che il lettore conosce, se non hasaltate troppe di queste pagine, mio padre non incontròmai molto a Corte, e neppure nelle alte regioni governa-tive.

Il Re era un onest’uomo, e neppure i suoi che lo cir-condavano non erano male persone: quei signori che ri-masti in Piemonte aveano più o meno piegata la fronte aNapoleone, ebbero anch’essi cariche ed impieghi senzatroppe difficoltà; e questi altresì, in massa, erano perso-ne educate e d’onore; tutti stimavano mio padre, ne ave-vano in pregio l’ingegno e la coltura, nessuno lo tenevaper nemico, ma…. ad ognuna di queste persone nel suointerno egli era un uomo che non andava.

È inutile; in certi luoghi, certi galantuomini disturba-no. Quel che le risaie sono al corpo, le corti lo sonoall’animo ed al carattere. Aria cattiva; con che non pre-tendo dire una novità, le inique corti essendo passate inmoneta corrente. Una novità invece sarebbe trovarvi ri-medio. Ma siccome questo l’avrebbero in mano i princi-pi, e che essi sono i primi a patire dell’aria suddetta, sia-mo in un circolo vizioso. Eppure, chi ha sempre fattocadere le corone di capo ai re? Non sono già le turbe deiribelli, sono le corti. Sarebbe dunque interesse dei prin-cipi come dei popoli che l’aria in esse fosse purificata;ed il modo lo saprei; ma non lo voglio dire. Non si cre-desse mai, però, che con questa reticenza volessi coprireidee di repubblica! Sarebbe un bel baratto! S’avrebberoi re, i ciamberlani, les marquis de la république! Grazie!

Mio padre che, come tutti gli uomini di carattere ele-vato, non si cacciava avanti, mentre tanti altri facevano aspintoni per mettersi in prima fila, rimase sempre addie-tro, e così accadrà in ogni tempo agli uomini del suo ta-glio.

Il mio reggimento era stato intanto destinato per laVenerìa, antico Castello reale a tre miglia da Torino, sta-to distrutto in parte nelle guerre di Catinat, quindi la-

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sciato dalla casa del re all’esercito per guarnigione di ca-valleria. Fui uno dei primi ufficiali, vestito, provvisto,all’ordine di tutto; e venne fissato il giorno della nostrapartenza da Torino.

Fu questo l’ultimo, definitivo distacco dalla casa Pa-terna come da ogni specie di legame d’educazione. Aquindici anni e mezzo, fu un po’ presto, tanto più conun naturale come il mio! Presi altresì definitivo congedoda don Andreis. Per finire la sua storia, sciolto anche luidall’impegno della mia educazione, e parendogli forseche l’alunno non fosse diventato quel pio signorinoch’egli s’era proposto, s’andò a far cappuccino. Morì,poverino, nel 30 o 31, se non erro, pregando sempre perla mia conversione: io, alla mia volta, prego Dio di cuoreche dia pace a quell’anima sincera e veramente deside-rosa del bene. Chè tale egli era in realtà.

In vita mia ebbi cinque o sei occasioni nelle quali hoprovata una gioia, un’allegrezza talmente completa, tal-mente.… se ardissi, direi fitta, che non avrei parole ondeesprimerla, come non avevo cuore, sto per dire, bastantea contenerla.

Una di queste occasioni, di queste giornate, che avròcura di notare a misura si presenteranno, fu quella nellaquale arrivai al Bastion Verde, allora nostro quartiere, inuniforme, col famoso elmo in capo, montato su un otti-mo cavallo, vispo almeno quanto il padrone, buon dia-volo anche lui e senza cattiveria, che sapevo maneggiarebenissimo. In quei tempi, fra la gioventù, i salti mortali,gli esercizi d’ogni specie, scherma, nuoto, equitazione,ec., ero svelto assai ed a cavallo un vero diavolo.

Siccome io, il primo fra gli ufficiali, mi trovai, comedissi, fornito di tutto, compresa la bardatura, venni ac-colto con lodi e carezze dai superiori e dai compagni.Sonò la tromba, e via per Porta Palazzo verso il mionuovo destino, contento come un papa, ed anche qual-che cosa forse più di lui.

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Era una curiosa maniera la nostra di formare un reg-gimento! I superiori, uomini d’altri tempi, aveano scor-dato tutto; noi giovani non s’era ancora imparato nulla.– Don Andreis non m’aveva date lezioni di teoria, – ed inostri inferiori, i forieri ed i bassi ufficiali e soldati, usci-ti quasi tutti dalla prima scuola del mondo ed avendo ilmestiere sulla punta delle dita, ridevano di noi sotto ibaffi in nostra presenza, e alla scoperta in nostra assen-za.

Mi ricorderò sempre della prima volta che mi trovaicol reggimento in battaglia al mio posto di sottotenente,e dell’impressione che provai, guardando a diritta ed asinistra quei marziali, abbronzati e barbuti visi, resi piùseveri d’aspetto dall’ombra prodotta dalle visiere deglielmi; uomini a tutte prove, che avevano assaggiate le ne-vi di Mosca come gli ardori dell’Andalusia, ed eranousciti vivi da tanti incontri per venire a trovarsi gl’infe-riori d’un ragazzaccio senza pelo in viso, com’ero io! Iomi sentivo così piccino, così umile, così zero, e quel cheè peggio, così ridicolo! Ed il ridicolo diventava uno stra-zio vero quando pensavo: – E tutto questo per qual mo-tivo? perchè sono un cavalierino per la grazia di Dio! –Mi pareva, da ogni voltar d’occhi di quei fieri volti, sen-tirmi dare quasi uno scappellotto, come si dà ai bambiniimportuni per levarseli d’intorno.

E mi faceva poi più rabbia il vedere che, mentre ioprovavo così vivi questi sentimenti da averne la vitaamara, i superiori, che avrebbero dovuto vergognarsi dicomparire, pareva, a vederli, che Napoleone l’avesserovinto loro! Fra i capitani ed i subalterni v’erano tuttaviaparecchi che venivano anch’essi da vari reggimenti fran-cesi. L’aiutante maggiore, marchese Doria Cavaglià, erastato nei corazzieri, veniva diritto di Mosca, aveva passa-ta la Beresina a guado e non sui ponti, ed era musoquanto chiunque: il cavalier Gazelli, ora generale, il ca-valier d’Albrione, un Lombardi, un cavalier Lovera e

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qualche altro, erano freschi di quella grande epopea;non parlavano d’altro, ed io a bocca aperta, con tantod’orecchie, a sentirli e ad empiermi il capo e l’immagina-zione di quei tremendi sagrifici umani, e quelle immensedevastazioni; a imparare avidamente fatti, aneddoti, no-mi, e poi orgie, pazzie, fracassi, insolenze soldatesche,canzoni di taverna e di bivacco, e che so io, ed a formar-mi di tutto quest’insieme un’idea d’un’epoca, d’un mon-do tanto diverso, tanto più splendido, più grande, piùdegno d’uomini e di soldati del nostro; ed a crescermiquindi ogni giorno più l’umiliazione se guardavo a me, amolti miei compagni, e specialmente a quelli che ci co-mandavano.

Certo, ad avere la testa piena di riviste, delle parate,delle manovre di Napoleone, riusciva amaro veder il no-stro maggiore, la domenica, quando il reggimento simetteva in rango per andar a messa, imbrogliarsi perfargli aprir le file! Vedere in Piazza d’Armi il colonnello(avendo poca memoria, si scriveva su un foglietto i mo-vimenti ed i comandi, e lo scordava poi sul suo tavoli-no), vederlo cercarsi per le tasche e poi voltarsi ai vicinie gridare: Padroni, ‘l papè? Chi elo ch’a l’a pià’l papè?

La vergogna del non saper la teoria, quella poi non lavolli avere, e non la vollero la maggior parte dei mieicompagni. Si studiò con furore sotto l’aiutante maggioreche ci faceva scuola, e non era passato un mese, che nesapevamo più del colonnello, del maggiore e di qualchecapitano, e prestissimo fui giudicato capace, non solo dicondurre, ma d’istruire, tanto a piedi tanto a cavallo ilterzo squadrone, al quale appartenevo.

La teoria ed il comando erano i medesimi dell’eserci-to francese: ma i nostri zucconi di Corte, naturalmente,non erano venuti di Sardegna per subire i capriccidell’usurpatore. Volevano far di più e meglio. Compose-ro una nuova teoria col comando in italiano e fin qui, va

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a meraviglia; ma le altre innovazioni o invenzioni biso-gnava vedere! Ne darò un solo esempio.

La posizione della prima fila nella carica era quellad’oggi che tutti sanno. Ma quello che tutti non sanno, èil movimento che ci era prescritto quando s’arrivava suun quadrato. Ecco il ritrovato che doveva darci la vitto-ria – precise parole:

«Ogni cavaliere, arrivando sulla fanteria, darà col suosquadrone un colpo dal basso in alto, per tentare di svel-lere la baionetta dal fucile del fante!!!....»

Non v’è cosa che faccia prendere più in tasca la genteche il vedersi, per causa loro, costretti a fare una cattivafigura. Per tutto questo accumularsi d’ingiustizie e discioccherie, per le piccole vessazioni delle quali eravamosegno, ed erano frutti o d’un esagerato principio monar-chico, ovvero di bigottismo, il mio entusiasmo del gior-no che in piazza Castello vidi comparire il Re, si era infi-nitamente raffreddato, e la mia simpatia per tutto quelsistema, scomparsa interamente. Non basta. La conse-guenza finale fu di concepire un odio profondo per lanobiltà, che nel governo vedevo in prima fila; e sfidotutti i borghesi di Torino d’una volta, ad averne provatola metà. E non solo odiavo la nobiltà, ma mi disperavod’esser nobile io, ne arrossivo, e quando era possibile, lonascondevo. Un giorno a Fossano mi feci passare per fi-glio di Monsù Aragn fattore nostro a Lagnasco, ed erobeato!

Qui bisogna che lo dica: Iddio per sua bonta vollepiantarmi in cuore l’amore della giustizia e l’odio control’ingiustizia e la soverchieria. Egli mi diede l’amor delgiusto, come m’ha dato il temperamento sanguigno-ner-voso, il pelo biondo (quondam) e gli occhi chiari. Nonci ho nessun merito e non potrei essere altrimenti, quan-do lo volessi. Perciò dico liberamente che l’ingiustizial’odio sempre, in ogni occasione, a chiunque giovi, achiunque noccia; l’odio se giova ai nemici; l’odio se gio-

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va agli amici; l’odio se giova a me stesso; l’odierei, se gio-vasse alle persone che ho al mondo più care o all’adem-pimento del mio desiderio più ardente, vedere l’Italiafatta davvero!

Ciò detto, si capirà la mia profonda desolazione d’es-ser nobile, mentre conoscevo benissimo che nessunaforza al mondo poteva mai distruggere questo fatto;quindi la mia sventura non aveva rimedio. Invidiavoquelli che non si trovavano percossi da uguale disgrazia,stimando immensa la loro felicità.

Il lettore forse crederà che mi prendo gusto ed esage-ro. Gli do la mia parola che non aggiungo un et non esa-gero.

Ma allora credevo che la nobiltà venisse giustamenteodiata per le sue soverchierie e che sola ne fosse capace;credevo che, nemmeno ammazzarli, quelli che ne dice-van corna, non avrebbero voluto diventar cavalieri econti! Furbo!

Se avessi saputo allora, come ho scoperto dipoi, chela democrazia è uovo il quale per pulcino produce unconte, non me la sarei presa tanto calda.

Queste mie esagerazioni venivano da un buon senti-mento, l’avversione ad un ingiusto ed immeritato privi-legio: soltanto la mancanza d’esperienza mi faceva cre-dere che il vizio del soverchiare fosse attaccato allanobiltà. Vivendo ho poi imparato che è attaccato allaumanità; e che l’uomo, quando ha il coltello pel manicosenza nessuno che glielo contrasti e lo tenga in cervello,se ne serve per mettersi il suo pari sotto i piedi, e farlodiventar dispari. La conseguenza di ciò si è che nessuno,in un governo ben regolato, dev’essere irresponsabile:nè individui nè classi: quindi non privilegi: quindi egua-glianza perfetta davanti alle leggi.

Ma il re, dirà lei, è, e dev’essere irresponsabile. Vero.Ma direi più esattamente, è inviolabile la sua persona.Poichè suppongo un conflitto della corona cogli altri

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due poteri: all’ultimo, ove questi non cedessero, e sareb-be molto probabile che avessero ragione, che farà il so-vrano? Certamente può mandar un battaglione a chiu-dere il parlamento e mettersi le chiavi in tasca. Ma, edopo? E non è questa una responsabilità?

Se il mio disprezzo pel governo di quel tempo ed ilmio abborrimento per la nobiltà erano prodotti d’unbuon principio, si resero però produttori d’una cattivaconseguenza. Per forza d’antitesi e per quella tendenzaagli estremi, difetto dell’età, mi misi a poco a poco nellepeggio compagnie, e m’affratellai colla canaglia. Non mibastava che uno non fosse nobile, volevo che fosse unmascalzone.

L’ho detto, che questa è l’epoca della mia vita chevorrei scordare e della quale arrossisco! E dire che inappresso, ed ogni giorno più, mi sono invece sentitosempre un’invincibile ripugnanza per il brutto, il laido,il sudicio sia morale, sia materiale! Ed ora debbo perfi-no accusarmi spesso d’intolleranza; che alla fine gli uo-mini non sono angeli, tutti abbiam bisogno di qualcheperdono, ed io più di tutti. Ma allora, non mi spiego ilcome, mi trovavo invece tra la schiuma dei birbi e ci sta-vo come il pesce nell’acqua.

Ciò deve servir d’esempio, onde le madri ed i padrinon disperino dei loro figliuoli che vedessero nella me-desima mia via; ed a chi ci stesse in mezzo, a persuadersiche ogni mala abitudine si può vincere; basta volere.

Del resto ai miei doveri militari non mancavo ed anzili adempievo con zelo, nè mai m’accadde esser messoagli arresti per motivi di servizio. Ma ero spesso punitoper scappate, pazzie, tapages nocturnes, baruffe, birichi-nate d’ogni razza.

Una volta ebbi una quistione con un camerata, s’andòsul terreno, ma io avevo sedici anni non compiti, egli po-co più: onde i padrini, ufficiali vecchi, appena messici inguardia, entrarono in mezzo. Forse volevan vedere se

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questi coscritti ci stavano. Io che non patisco di stizza,nè allora l’avevo quasi mai, quella volta mi venne, e tor-nato a casa e andati ognuno pei fatti suoi, corsi dietro almio compagno e gli dissi: « Andiamo soli, così non sa-rem disturbati.»

Per fortuna, era venuto quel giorno il generale conteRichelmi a passar l’ispezione al reggimento. All’ora delnostro ritrovo io ero libero, e v’andai. Aspetta, aspetta;non vidi nessuno. Il mio avversario era legato dal servi-zio, poi fu subito messo agli arresti e perciò non venne:ripeto per fortuna, perchè tra due ragazzi indispettiti,ognun dei quali voleva far l’omo, poteva accadere qual-che imbroglio serio.

Visto che il campo m’era rimasto, quando fu calato ilsole tornai al quartiere. L’aiutante maggiore mi disse chem’ero portato bene e che andassi agli arresti. Premessa,come ognun vede, seguita dalla sua logica conseguenza.

Mio padre seppe la cosa, e mi fu annunziata la sua vi-sita. Qui cominciava l’imbroglio! Io non supponevo chefosse stato informato del fatto; e pensavo: – Se vien qui emi trova agli arresti, domanderà perchè ci sono. Ed io,che cosa gli rispondo?... Qui non c’è altro che ammalar-si! –

Difatti, quando sentii un legno fermarsi alla mia por-ta, e vidi che era lui, sotto subito alle lenzuola senza nep-pur spogliarmi!

Entrò in camera, ma non aveva niente affatto del bur-bero: venne accanto al letto, gli dissi che mi doleva nonso che; non mi rispose, e dopo un poco se n’andò conmia cognata, che l’aveva accompagnato, e che ridevadella mia malattia.

Se m’ero trovato in cattivi panni per questa visita, ciònasceva soltanto perchè mio padre, quantunque quelbuon soldato che ognun sa, e malgrado che anch’egli ingioventù si fosse trovato in incontri simili, evidentemen-te, date le sue opinioni religiose, non poteva transigere,

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trattandosi di precetto preciso della Chiesa e di scomu-nica. Non aver io compiti i sedici anni, e vedermi già al-la mia seconda scomunica, dovea pensare che principia-vo bene!

Alcuni giorni dopo ebbi una sua lettera nella quale,con quel cuore e con quella limpida ragione che era suapropria, mi esponeva la questione del duello, e le ragionireligiose e filosofiche che militano contro esso. Letterache poteva dirsi un sunto di tutti i discorsi che ci avevatenuti su quest’argomento, ogni volta che l’occasione sen’era offerta. Tanto gl’importava di farcene convinti!

Purtroppo quest’uso, non delle razze greco-latine madelle nazioni nordiche, ha le sue radici nel senso delquale più difficilmente il cuore umano si spoglia: la va-nità. Quante cose anderebbero meglio al mondo se lavanità si mutasse in orgoglio? Questo basta a se stesso.La vanità vuol l’applauso.

È dunque nello spirito pubblico il rimedio. Manchil’applauso, scomparirà il duello. in Inghilterra, dovel’opinione non lo accarezza, disparve.

Senza mettersi nella questione del suo valore morale orazionale, chè troppo ci vorrebbe, v’è ad ogni modo unbuon consiglio pratico da dare ai giovani:

Considerate sempre un duello come cosa molto seria.Potete uccidere o rendere impotente ed infelice per lavita un uomo, e trafiggere insieme con esso molti cuori.Potrebbe venire il tempo in cui questa memoria vi sem-brasse una macina sullo stomaco.

Parlo del duello davvero; il duello per cerimonia è ri-dicolo; onde sotto i due aspetti è un tristo fatto. Evitate-lo quanto potete.

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CAPO DECIMOSECONDO

SOMMARIO. – Dissesto di salute – Ritorna Napoleonedall’Elba – Consigli di Bidone – Riflessioni sulle dolcezze dellastriglia – Pei consigli di Bidone entro nei provinciali – Sconfit-ta di maschere al Carignano – Mio ingresso trionfale in Torino– Vo a Milano e vi vendo i miei antenati – Dispiacere de’ mieiparenti – Consigli ai giovani sul far debiti – Ercole al bivio –Massime di Bidone – Sue citazioni – Gloria, popolarità si pagapiù di quel che vale – A diciassette anni palpitavo per la gloria– Imparar l’arte e metterla da parte – Conversione completa –Eccita bisbiglio fra’ compagni – Sono dichiarato matto.

La formazione d’un reggimento di cavalleria è una ve-ra fatica. Io che, secondo il mio grado, mi ci adoperavocon zelo, e che di più m’accollavo tutte le triste fatichedella vita birichina; io che dopo una giornata d’esercizi,tramontato il sole, salivo a cavallo, e per viottoli scappa-vo a Torino a far il matto tutta la notte, trovandomi peròpuntuale al quartiere alle tre e mezza della mattina, oradella diana; si può credere facilmente che dopo pochimesi mi trovassi in condizioni da dover pensare alla sa-lute.

Cominciavo altresì a sentire quanto sia vuota l’esi-stenza dell’ufficiale di guarnigione in tempo di pace. Suitempi di guerra non pareva oramai da dovercisi calcola-re.

Era accaduto lo sbarco di Napoleone, il sauve quipeut generale dei diplomatici del Congresso di Vienna,ed il nuovo terrore del fatale guerriero, pel quale venivala tremerella a molti dei ristaurati principi. Non a tutti;chè Vittorio Emanuele, benchè vecchio e di poca salute,si mostrò in quell’occasione della Casa onde era nato; epronto a montar cavallo, diede ordine affinchè il nostropiccolo esercito si mettesse in movimento.

Si può figurare l’allegria nostra e mia alla notizia ches’entrava in guerra! Giovane, svelto, avvezzo ormai alle

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male vite, che potevo sperar di meglio? Diceva CesareBalbo, benchè austero uomo: – Ci sono due piaceri almondo, far la guerra e far all’amore. – C’è però da ag-giungere: — Ambedue sono mestieri pei giovani. –

Ma siccome il mondo cammina per dispetto, allorache ero giovane mi toccò restare a casa, e mi convennestar poi alla pioggia ed al vento e far la guerra quandogli anni incominciavano a pesarmi sulle spalle.

Accaduta la rotta di Waterloo e messo finalmente ilgran disturbatore del mondo a Sant’Elena, non ci volevamolto acume a capire che per lungo tempo il mestierdell’arme, tanto più dell’armi comuni avrebbe avutoall’incirca l’importanza ed il diletto d’una Confraternitadi battuti.

Il mio amico Bidone che andavo vedendo ogni tanto,sempre si lasciava uscire qualche parolina, qualche iro-nia, qualche scherzo sul destino al quale mi portava lamia spallina d’officier tout juste com’egli diceva. « Bellacarriera, ove si perde una testa per due braccia!...» Eper essere sincero, in quelle ore ove il mio dovere mi co-mandava di prestare una viva attenzione alla strigliaturadei cavalli, e badare onde la striglia, la brosse ed il torco-lo di paglia s’adoprassero secondo i buoni principii;quando dovevo per ore e ore aver l’occhio ai soldati per-chè non menassero la striglia sulla criniera e lavasserobene le narici e gli occhi dei loro compagni di fatiche;quando mi toccava assistere al pranzo di questi accioc-chè la biada servisse esattamente all’uso voluto dal mini-stero della guerra; quando, dico, la mia mente era tuttaimmersa in queste dotte elucubrazioni, mi balenava trat-to tratto nel cervello quest’idea: – E così si può durare labagatella di trent’anni! Idea sfuggevole dapprima,com’è appunto il baleno, ma a poco a poco più stabile, efinalmente quasi continua, e d’un’efficacia ogni dì piùpotente.

Quando poi vi s’aggiunse il dissesto di salute accen-

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nato Dianzi; quando ogni sera avevo la febbre con unatosse da schiantarmi le tonsille, senza che perció facessimeno pazzie, scappate e birichinate del solito, i miei pa-renti conobbero che così non potevo durare, e deciseromettermi in riguardo.

Mi ottennero un congedo per malattia, e bene o malemi curai in casa.

Intanto l’amico Bidone badava a battere sullo stessoargomento, ed io che mi ricordavo di quel maledettostrigliare, cominciavo a capire che aveva ragione. Manon vedevo nè cosa nè come risolvere. Alla fine, essen-domisi pur sempre, anche al reggimento, mantenuto ilgusto del disegnare e dipingere, tantochè qualche raravolta avevo persino tentato di fare studi sul vero, mo-strai il desìderio d’uscire da Piemonte Reale ed entrarenell’esercito provinciale. Secondo questo sistema s’ave-va quattro mesi di servizio e poi dodici liberi, e perciòmolto maggior tempo d’occuparsi e studiare.

Mio padre, vista la mia salute, ed anco per non farostacolo ad una mezza velleità da me mostrata di mettergiudizio e lavorare, mi volle far contento: chiese ed ot-tenne ch’io passassi nei Provinciali, ed entrai nella Bri-gata Guardie e nella compagnia del capitano Santarosa,quello stesso che presto doveva far parlar tanto di sè neimoti del 21.

Ma la volpe mutò pelo e non vizio. Fui un birichino apiedi invece d’un birichino a cavallo. Sempre più mi mi-si in male compagnie, sia di militari come di borghesi.Bisogna confessare che in quel tempo i reduci dall’eser-cito francese, avvezzi a conquistare il mondo, si portava-no un po’ dovunque come in paese di conquista. Doves’arrivava col reggimento era una calamità: i caffè e letrattorie ove s’andava erano presto vuote d’altri avven-tori, ed i chiassi, i fracassi, il guardar d’alto in basso ilpékin, ci rendeva pesanti ed antipatici; e chi vede gli uf-

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ficiali dell’esercito attuale, vede monachelle a petto diquello che eravam noi.

Una sera, si figuri! ad un ballo in maschera al teatroCarignano dove era venuta pochissima gente, onde la sa-la era, si può dir, vuota, ecco l’inclita guarnigione che simette in capo di cacciar quel poco pubblico che purc’era, spegner i lumi e chiudere il teatro! Programmaeseguito subito ed a puntino. Dica la Musa gli spintoni, ipugni, gli strilli, le ingiurie, gli schiamazzi che produssequesta bell’impresa, la quale mi parve un po’ grossa per-sino a me: e sembrò tale anche più l’indomani ai capi dicorpo, che all’Ordine ci dissero quello che ci si meritavaed avrebbero dovuto farci altrettanto, e più.

Un’altra volta il pubblico torinese fu rallegrato dauno spettacolo, che ebbe però me solo per inventore edattore.

La compagnia nella quale mi deliziavo, compostad’individui dei due sessi, che la grazia moderna chiamagentilmente demi-monde, e che noi, più primitivi, sichiamava allora altrimenti, usava spesso andare a farpranzi (baracche, in lingua di quartiere) in campagna,alle osterie del suburbio, come dicono i pedanti. Io ave-vo allora due cavalli ed un legnetto. Una domenica,mentre era più affollata la passeggiata del dopopranzo,eccoti arrivare di galoppo il detto legno con entro duesignorine molto conosciute per il loro carattere conci-liante, e condotte dal cavalier Massimo alla Daumont!

Quest’apparizione fece chiasso in città e nel parenta-do, e la mia riputazione di birichino ne andò ancor piùsu dell’alto punto al quale già si trovava giunta. E questovolevo. Amavo distinguermi.

Ora, la mia confessione si trova a buon porto, e pre-sto avrò finito. Non voglio però lasciar indietro un’ulti-ma storiella che ebbe pure molto incontro allora. Diròcome Brantôme: encore celle-ci et puis plus!

A me ed a parecchi birbotti era venuto in capo d’an-

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dar a Milano. Ma erano tempi di pecunia oscuri, e fratutti, il capitale da investire in baracche alla cassina d’ijpomm e simili, era di proporzioni veramente lacrimevo-li. Come si fa, come non si fa? Guarda di qua, guarda dilà per casa se c’era da far bottino. Inutile! proprio, comedicevamo nel nostro gergo, – per aria non volava unamosca –. Eppure, a Milano s’aveva da andare.

Un giorno, trovandomi solo in camera tutto immersoin profonde riflessioni sul gran problema, mi venne vol-to lo sguardo a due ritratti a olio che erano attaccati allaparete dirimpetto.

Per mia fortuna, un conte di Lagnasco aveva avutal’ottima idea (come nel secolo XVII era usanza dei gen-tiluomini che non trovavano a far bene in casa loro)d’andar a cercar ventura in Germania. Era stato ai servi-gi del re Augusto III, e comandante la sua guardia inPolonia. Una Wallenstein, della casa del famoso duca diFriedland, l’aveva trovato di suo gusto e sposato; e quelche più faceva al caso mio, s’erano ambedue fatti ritrarreda Rigault, pittore di molta celebrità in quell’epoca, digentile e simpatica maniera.

Le loro due figure (il maschio in corazza colla granparrucca di Luigi XIV, e di più, incipriata; e la femminacoi capelli alla Sévigné, l’abito aperto e scollato del tem-po) chiuse in due cornici ricche e d’antica maniera, tor-navano, come dico, la parete dirimpetto mentre stavonell’accennata meditazione; e, come pur dissi, volto losguardo alla bella testa del mio felice arcibisavo, mi par-ve che mi guardasse con occhio pietoso quasi, non igna-rus mali, m’invitasse a gettarmi nelle sue braccia in unacosì spinosa circostanza.

Io non me lo feci dir due volte, colsi a volo l’idea, edecco come corrisposi al dolce invito.

Due giorni dopo, alla prim’alba, trottava sulla via diMilano un cavallo (non più due) attaccato ad un legno adue ruote,, quindi a due posti; nel quale però eravamo

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cinque persone, cioe: io e due altri, e poi il conte di La-gnasco a diritta e la contessa di LagnascoWallenstein asinistra, come due gran paraventi che c’impedivano, èvero, di godere delle bellezze del paese dai lati, ma ci la-sciavano però veder la strada diritta che ci conduceva alsospirato Milano.

Mi ricordo che si viaggiava un po’ stretti.E perchè quella coppia felice viaggiava con noi? Non

lo dico senza rossore: perchè era destinata ad essere ven-duta ad un mercante di quadri, e così pagare in parte laspesa del viaggio.

I Giorgiani ed i Circassi vendono figlie e figliuoli vivi,giovani e veri; e sarà poi un gran delitto vendere un paiod’antenati vecchi e dipinti?

Non narro le pazzie che si fecero a Milano ove, fra glialtri scherzi, il suo futuro governatore fu arrestato perdifetto di carte; dirò solo che la mia idea di rapire questiantenati parve talmente nuova a tutti, che la scappatavenne perdonata, ed a quella mia gita rimase poi sem-pre, in casa e nel parentado, il distintivo di viaggio cogliantenati.

Essi furono finalmente riportati in casa molti anni do-po, onde il servigio resomi in quell’occasione non costòloro se non un soggiorno d’una dozzina d’anni a Milano.

Questa mia scioperataggine, fatale al fisico quanto almorale d’un giovane, era causa di vive inquietudini amio padre e più a mia madre, ed oggi ancora, scrivendoqueste linee, provo una stretta al cuore pensando ai di-spiaceri che le diedi in quei tempi, Dio volesse fosserostati i soli!

E battevo veramente una trista via; chè non ho dettodi quella mia vita d’allora, nè tutto nè il peggio ch’io po-trei dire. Questo lo avverto perchè, dopo tante protestedi sincerità, se son padrone di non dir tutto, non sonoperò padrone di far credere d’averlo detto quando nonsia vero.

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Mia madre, poverina, andava spesso sola, copertad’un velo, a picchiare all’uscio dell’amico professor Bi-done per sfogarsi sul conto mio, cercar conforti e consi-gli, e talvolta restituirgli qualche piccola somma ch’eglimi veniva imprestando in qualche mia necessità.

Ma, in fatto di debiti, posso rendermi questa testimo-nianza: li ebbi sempre in avversione. Meno male vende-re antenati; ma debiti, no.

Per un giovane, questa ripugnanza è un vero tesoro,ed io l’avevo per natura e senza mio merito. Saper cam-pare del proprio, poco o molto che sia, è la prima gua-rentigia d’una vita onorata e tranquilla. Quando invecesi comincia a vivere dell’altrui, addio tranquillità, e purtroppo non di rado, addio onore. Ci pensino i giovani;ed i signori si ricordino che se don Giovanni tornasse almondo, non potrebbe più metter fuori dell’uscio Mon-sieur Dimanche, burlandosi di lui. Del creditore in ogginon ride più nessuno, e si ride invece del debitore rovi-nato.

L’ottimo Bidone cercava di tranquillare mia madre, lediceva bene di me, le dava buone speranze, sì ch’ellausciva di casa sua più confortata. Egli poi, m’aveva mes-so intorno un vero assedio, non a furia di prediche ed’insistenze, ma col talento e la pratica del mondoch’egli aveva, ordinato in modo di battermi per tutt’i la-ti e con tutti i modi più efficaci, senza disgustarmi.

Io, parte gli sfuggivo – monitoribus asper – parte misentivo, mio malgrado, dominato dalla sua bella e serenaintelligenza, da quell’onestà cordiale che gli trasparivadagli occhi e che rendeva impossibile ogni dubbio sullasincerità delle sue opinioni e delle sue premure.

L’antico mito d’Ercole al bivio, immagine poeticad’un fatto che ogn’uomo, più o meno, ha dovuto prova-re in sè stesso; si riproduceva in me, in tutta la sua forza.Ora, tirato dalla mia compagnia birba, scomparivo; eper qualche tempo il povero Bidone m’aspettava indar-

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no. Poi, tirato da un fascino che combattevo inutilmen-te, ripicchiavo, quasi a mio malgrado, all’uscio dell’ami-co. Entravo in quel quartierino pulito ed altrettantosemplice e severo; esatto poi ed ordinato per l’appuntocome una pagina di calcolo. Non ho mai veduta una ca-sa, più fedel ritratto di quello che l’abitava. Egli sempremi riceveva placido, benevolo, senza smanie di nessungenere, come fa chi conosce, e sa per quali vie si giungaa poter legare le volontà.

Quest’alternativa fra le attrazioni di due centri oppo-sti durò un pezzetto. Ricordo ora con vera e tenera gra-titudine le premure di quell’ottimo amico per far di mequalche cosa. Egli, studioso per propria tendenza edinoltre occupato dai doveri della cattedra, trovava iltempo di cercarmi, d’appostarmi, d’incontrarmi, di ac-compagnarmi in lunghe passeggiate, per aver modo diparlar lungamente e di mettermi in capo buone e retteidee sotto cento forme diverse. Non basterebbe un volu-me a raccoglierle; tutte concorrevano però in quest’ideasemplice: avere l’uomo un valore per quanto è onesto edistruito; per quanto è utile a sè ed agli altri; essere quindida seguirsi tutto quanto conduce a questo fine, come daevitarsi ciò che conduce all’opposto; dovere ognuno or-dinare la sua vita in modo, da mantenere in tutta la loropotenza le facoltà intellettuali e la volontà di far bene;quindi, dei beni materiali essere il primo la salute, senzala quale non v’è grand’uomo possibile; questa, non com-prarsi mai troppo cara: ottenersi colla temperanza intutto, ec. ec.

Per appoggiare ad esempi palpabili queste verità, mimostrava talvolta per le panche dei caffe quegli avanzid’una vita di disordine; quei vecchi dall’occhio spentoed idiota, dalle membra consunte, i quali l’età non con-dusse a sembrare nè ad essere rispettabili, e che finisco-no inutili, abbandonati e sprezzati da tutti. «Ecco, mi di-ceva, come sarà lei fra cinquant’anni, seguitando la sua

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strada d’ora. Si specchi!» Tal altra volta, mi citava qual-che tipo interamente opposto, qualche uomo o qualchegiovane che colla fermezza, colla costanza, e partendoda umili principii era giunto ad operare cose utili e cosebelle. Non sempre però mi biasimava; e non di rado perdarmi animo mi diceva: «La Provvidenza le ha data unabella testa; su coraggio! si risolva a cavarne qualche co-sa.»

Non posso rammentare codesti tempi e l’amicizia delBidone senza che mi si rappresentino alla mente quegliaffettuosi versi di Dante mentre s’incontra con BrunettoLatini; versi che tanto esprimono quello ch’io sento:

«Se fosse tutto pieno ‘l mio dimando,Risposi lui, voi non sareste ancoraDell’umana natura posto in bando:Chè in la mente m’è fitta, e or m’accuora,La cara e buona immagine paternaDi voi, quando nel mondo ad ora ad oraM’insegnavate come l’uom s’eterna:E quanto io l’abbia in grado, mentre io vivo,Convien che ne la mia lingua si scerna.»Così potessi io rendere nella mia lingua onore conde-

gno! Ma Brunetto Latini, tanto inferiore, ebbe Dante, eBidone, tanto superiore, non ha che me! Pensare da checosa dipende il farsi ed il durar celebre come lo scompa-rire nell’oblio! E s’avrebbe a sudare tanto per la gloria?E tanto ciecamente s’avrebbe ad accettar per infallibilela tromba della fama?

Queste idee sono ormai in me dominanti da un pez-zo; e per quanto abbia caro, non lo nego, essere nomina-to con onore, se l’occasione se ne presenta; altrettantovivo felice a meraviglia ancorchè nessuno s’occupi dime. Vivendo, ho imparato che una fra quante approva-zioni può ottener l’uomo, è la vera, la buona, la sola dacercarsi, quella che vi mantien dolce la bocca, e vi fa tro-var soffice il capezzale, ed è l’approvazione del giudice

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che ci portiamo tutti nel cuore, quando ci dice: – hai fat-to il tuo dovere! – M’e accaduto di venir lodato e porta-to a cielo da tutti, mentre il giudice mi diceva – tu non lomeriti, – e sentirmi la bocca amara, e andando a letto laguancia trafitta come da un capezzale di spine, malgra-do tutti gli evviva e tutti i bravo!

Ma a diciassett’anni non avevo provato nulla di nulla,e l’idea della lode, della gloria, della fama mi facea batte-re più rapidi i polsi. Bidone che se n’avvedeva, mi stuz-zicava l’amor proprio, dicendomi che, pur di volere,avrei potuto far molto. Così m’accendevo, mi venival’acqua alla bocca colla speranza d’andar forse.… chisa.... persino per le gazzette (cara, ora, questa delizia!).Cominciavo a ripassare nella mia mente tutte le vie, leforme, i modi d’arrivarvi: cominciavo ad interrogare lemie inclinazioni, i miei desideri, le mie tendenze, a cer-care d’indovinare le possibilità dell’avvenire; deciso poifinalmente a fare, restava da decidere che cosa dovessifare.

Di scienze esatte inutile discorrerne: lo sapeva il po-vero Bidone, che insegnandomi le matematiche, nonaveva ottenuto mai ch’io fossi franco neppure sullequattro operazioni d’aritmetica. Rimaneva però tutto ilresto dello scibile; ed egli, quando gli dicevo «che cosadebbo fare?» mi rispondeva: «faccia! «

Impara l’arte e mettila da parte, era proverbio che pa-reva inventato da lui: come era sua massima che ogniuomo deve avere in sè stesso il modo di guadagnarsi ilpane senza dipendere da entrate, impieghi, ec. ec., nonperò che spingesse la teoria sino a voler che una personaeducata sapesse fare il falegname come l’Emilio.

Così sempre più mi confermai nell’idea di darmi allearti, alle quali già mi sentivo inclinato. Non è certamentela via più sicura di evitare sempre i digiuni – lo sanno icari colleghi; – ma alla fine sono tanti gli usi che si pos-sono fare d’un pennello, che, a non voler traversare il

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deserto di Sahara, alla peggio, in terra di cristiani un pa-ne al giorno è difficile che non troviate modo di farglielopartorire. Fin qui però tutto si risolveva in intenzioni: ela vita scioperata, meno nei rari momenti nei quali Bido-ne riusciva a sorprendermi, e rapirmi ai miei vizi, ap-punto come Socrate faceva con Alcibiade (scusi l’auda-cia del paragone), quella vita, dico, durava e fiorivasempre allo stesso modo, in mezzo a tutta la solita schiu-ma che popola caffè, biliardi, ec. ec.

Ma spuntò pure il giorno benedetto della grande, del-la ferma, dell’assoluta e durevole risoluzione!

Dall’oggi al domani, mutazione completa. Lasciatetutte le compagnie di prima; lasciati amici, lasciate ami-che, lasciati caffe, biliardi, teatri, osterie e tutto quel chesi tace; mutate abitudini, mutato orario, mutati luoghi,passeggi, ec. ec. Mutato tutto. Sparito l’omo vecchio;comparso l’omo nuovo. Cominciai coll’alzarmi la matti-na prima di giorno, e subito a studiare, leggere, disegna-re fino a colazione; dopo colazione, studiare e lavorare,meno un’ora di passeggiata, fino al pranzo; e la sera dac-capo. Tutto ciò da me, senza direzione, con impeto, esoprattutto senz’averne informata punto tutta la mia so-cietà di prima.

Scomparvi, e fu finita.Per un giorno, due giorni non ne fu fatto caso; poi co-

minciò il bisbiglio tra i compagni. E Massimo? – Hai vi-sto Massimo? – Che n’e di Massimo? – Nessuno ne sa-peva nulla. Mi pare, ma non l’ho ben presente, cheavessi dato ordine in casa che non ricevevo visite. Maera forse inutile, chè pochi, per non dire nessuno, diquella razza d’amici avrebbe osato avventurarsi, doveabitava mio padre: e in ciò rendevano piena giustizia asè stessi ed a lui.

Non avendo, come dico, direzione e volendo pur stu-diare il paese a olio, m’ero informato da un nostro pitto-re, il cavalier Bagetti, uomo pieno d’ingegno, acquerelli-

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sta svelto, immaginoso, ardito, rotto al mondo, ai viaggi,alla società. Napoleone l’aveva condotto con sè in molteguerre perchè gli ritraesse i suoi campi di strage; m’eroinformato, dico, da lui in che modo dovessi incomincia-re a dipingere. Egli mi consigliò di copiare due marineche aveva il marchese di Cambiano nella sua galleria. Beiquadri, non so di chi, o non me ne ricordo. Ottenni la li-cenza del Marchese che mi fece portare i due quadri inuna camera ai mezzanini per maggior comodo, e la sera(volendo prima che a olio copiarli a lapis) vi lavoravo.

Qui mi venne a trovare uno de’ miei antichi amici (sa-rebbe più esatto nemici). Entrò sorridente; ma mi accor-si che con un’occhiata mi squadrò da capo a piedi, oc-chiata nella quale la fiducia non era dominante; comequand’uno s’accosta ad un animale sospetto.

«Insomma, non ti si vede più,.... si può sapere.… checosa t’abbiamo fatto?... che è successo?....»

«Non m’avete fatto niente, e non è successo altro» ri-sposi anch’io ridendo, «se non che m’è venuto voglia distudiare la pittura e di copiare questi quadri.»

Questa risposta e niente era lo stesso; e così l’intesel’amico. Dopo qualche altra parola se n’andò; e seppi di-poi, che, tornato col suo rapporto nella compagnia deibirbi; udito, pesato, esaminato l’affare, fu conchiusoall’unanimità che ero diventato matto. E quando rara-mente ancora qualcuno domandava di me, si rispondevainvariabilmente: a j’è viraje la bocia.

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CAPO DECIMOTERZO

SOMMARIO. – Un atto di orgoglio – Ginnastica del sacrificio– Mie applicazioni – Mi ammalo per la fatica – Ho il vizio orga-nico – Smania per andare a Roma – Stanchezza di mia madre esua tolleranza de’ mali – L’abate Natali – Mio metodo di vita –Mie occupazioni – Peccati di poesia – Enea eroe antipatico –Altri peccati di Bidone – Vestri, l’attore, e la mia vocazione pelteatro – Miei furori alfieriani – Alfieri ha scoperto l’Italia –Quel che direi all’Alfieri – Mia madre sottile nella critica lette-raria.

Lo dico sinceramente. Se di tante cose d’allora mivergogno, e vorrei dimenticarmi, di questa un po’ me netengo. Via.... dica la verità, caro lettore! non le pare cheper un giovane che è stato un disperato per qualche an-no, passare detto fatto alla vita, sto per dire, di noviziocappuccino, ci vuole una certa forza di volontà, e che ilcaso non è tanto comune? Dall’essere sempre attaccatoa qualche gonnella, fatto sta, che passai quattr’anni edotto mesi in stretta ed assoluta astinenza da ogni relazio-ne di tal genere; sentendomi talvolta portar per aria, èvero: ma forte! Ho detto no, e se son uomo, no ha da es-sere e no fu.

Ed ecco qui già comparso un frutto dell’educazione,dell’esempio di mio padre e di mia madre; e forse ancodell’essere nato di loro; come pure un frutto dell’amici-zia provvida ed illuminata di Bidone. Egli poi mi avevainsegnato un modo per acquistare fermezza di volontà,modo che puó dirsi ginnastica morale, simile alla ginna-stica materiale che s’usa per dar forza ai muscoli e elasti-cità alla fibra. Egli mi diceva: «Negli atti della vita, s’av-vezzi a fare dei sacrificii ignorati da tutti; s’avvezzi, senzache nessuno lo sappia o possa sapergliene grado o lodar-la, a rinunziare a cosa che le piaccia, come ad accettarecosa che le dispiaccia; cominciando da piccole cose e via

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via affrontandone sempre di maggiori e di più difficili.»Io prego i giovani, li prego in nome di quello che hannodi caro al mondo, li prego in nome della nostra poverapatria, della nostra sfiancata razza latina, che ha tantobisogno, quello di temprarsi, d’acquistare carattere, fer-mezza, forza morale (e che ove l’avesse, sarebbe la primanazione del mondo!) io li prego, ripeto, a meditare que-sto precetto di Bidone, a persuadersi della sua impor-tanza, ed a metterlo in pratica, più e meglio che non lomisi in pratica io.

Non voglio dire con ciò che non lo seguissi punto: es-so in sostanza era omogeneo alla mia natura, era unanuova applicazione d’una antica teoria già udita ed in-culcatami nell’infanzia da mio padre, ed avevo, grazie aDio, abbastanza buon senso per comprenderne l’im-mensa portata.

Mi venivo dunque esercitando in piccole cose; verbi-grazia, rinunziare ad un divertimento, durare in una fati-ca mezz’ora di più ancorchè stanco, alzarmi un’ora pri-ma, differire di bere o mangiare ancorchè affamato edassetato e via via; e sempre senza che lo sapesse altri cheio. Non rida, lettore, di inezie che paiono fanciullaggini:pensi che se non avessi in animo, e non m’ingegnassi discrivere un libro sano ed utile alla gioventù, un libro mi-nutamente pratico, lascerei di durar questa fatica; e ri-fletta altresì che dall’analisi in ogni cosa si giunge allasintesi; che per diventare buon schermidore bisogna ti-rare al muro per ore e ore; per diventar ballerino, biso-gna fare battemens a milioni, e che per farsi un’anima diferro come era mio padre, e come vorrei vedere gli Ita-liani, bisogna temprarsi, ed avvezzarsi a soffrire e sagrifi-care il poco, per giungere in seguito a sacrificare l’assai:– e allora uno può lusingarsi d’appartenere a quella raz-za d’uomini destinata a fondare, come a salvare, come arestaurare le nazioni: prima no.

Io che volli invece far la cosa tutta d’un salto, e co-

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minciare da sagrificii grandi; io che dalla vita attiva edelastica passai alla sedentaria e casalinga; dalla vitaall’aria aperta alla vita di camera; ed in una parola daquella vita che, tolti gli abusi, fa ingrassare i balordi, aquell’altra che fa dimagrare gli uomini volonterosi di farbene (aggiunga che dormivo in mezzo ai colori, gli oli, levernici: odori da far venire le convulsioni ad un mulo); ilfatto si è che, dopo sei mesi di questa lavorare furibon-da, m’ammalai.

Non fu male acuto di febbre, nè da star a letto; ma ungrand’urto di nervi. Prima ero colorito in viso; dopo,bianco color di cera; di più, secco come un uscio,coll’anelito corto che mai potevo andar fino in fondod’un respiro, e tirar il fiato a modo mio; e finalmente unpalpito quasi continuo, che dopo mangiato, in specie,mi pareva sentire il cuore saltarmi fino in gola.

Si può dunque figurare! Addio studio, addio dipinge-re e leggere e scrivere, addio tutto! e condannato a grat-tarmi il corpo tutto il giorno colla smania addosso piùche mai di lavorare! Fu una gran passione!

I miei parenti conoscendo che questa volta, se avevofatto disordini e se ne soffrivo, erano stati virtuosi disor-dini, se la presero a petto, e mi fu messo d’intorno medi-ci e tutto l’occorrente. Ma, primo precetto, non far nien-te! Era un seccarsi feroce. Bidone mi confortava, miteneva compagnia, ed intanto seguitavo a curarmi; macon poco profitto. Col tempo mi rimisi in salute, e poteidi nuovo occuparmi a lavorare; ma dal palpito, comedalla mancanza di respiro non mi liberai che dopo mol-tissimi anni, e qualche volta ne ho dei cenni anche ora.Mi persuasi avere un vizio organico. Stavo tutto il gior-no col polso in mano a contare i battiti. Tutto quest’in-sieme era poco allegro. M’accorsi che mi invadeva lamalinconia, e feci un’altra risoluzione perentoria, fonda-ta su questo ragionamento: o il vizio organico c’e, e nonme lo leverà nessuno; o non c’è, ed è pazzia tormentarsi.

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In ambo i casi la meglio è non pensarci, e non più toc-carsi i polsi, non ascoltarsi, nè affannarsi per tutti i pic-coli incomoducci che si sentono. Così risolsi, così feci, ecosì ho fatto sempre in appresso, e me ne sono trovato ameraviglia.

Ma intanto allora non miglioravo gran fatto, quantun-que avessi mutato aria e seguite tutte le prescrizioni deimedici. L’amore dell’arte sempre più mi cresceva; erostato certo tempo nello studio d’un tal Revelli, mediocreartista, ma rimasto a Roma molti anni, e e di dove aveaportato una serie di studi i quali rammentavano quellamagnifica natura. M’entrava la voglia di tornare a Roma,e si veniva presto mutando in vera smania; ho presented’essermi sentiti empire gli occhi di lacrime, mentrecontemplavo un quadretto di questo Revelli rappresen-tante Monte Sant’Oreste, assai poca cosa, ma che inquel tempo mi pareva l’impossibile in fatto d’arte. Diquesta smania romana ne cominciai a parlare con miamadre, e poi sempre più ad accendermene, e per farlabreve, quella cara e santa donna che per me avrebbe fat-to ogni cosa, ne parlò a mio padre, e parte colla speran-za ch’io potessi riuscire a qualche cosa, parte per rimet-termi in salute, e fors’anche per togliermi ad ogni rischiodi ricaduta morale, decisero che questo viaggio si faces-se.

In pochi giorni i preparativi vennero compiuti, e cimettemmo in via, mia madre, mio fratello Enrico ed io,con una donna ed un servitore, in un legno chiuso, conquattro cavalli di posta.

Mia madre intraprendeva questo viaggio proprio perme. Dio sa se, altrimenti, avrebbe incontrata una faticache colla sua poca salute era veramente un rischio. Manon vi fu al mondo persona che sapesse sopportare ilpatire con serenità eguale alla sua. Ogni piccola cura ches’avesse di lei, ogni occhiata che le si volgesse, era corri-sposta con un sorriso affettuoso; poi mai esigenze, mai

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noie, mai paure, mai lamenti, ed una continua e serenatendenza alla giovialità, che soltanto gli acuti dolori po-tevano talvolta annebbiare.

La prima fermata (Piacenza, mi pare) ci dette qualchepensiero: ella si trovò stanca assai, sfinita, e pareva dubi-tasse di riuscire nell’impresa. Ma il riposo della notte laristorò. La mattina dopo, era un’altra. Vispa ed allegraci disse «L’affare cammina – partiamo».

Monsignor Morozzo aveva fatto cercare d’un quartie-re e vi s’andò a smontare. Era in piazza Colonna dirim-petto a Chigi, al primo piano, in casa di certo abate Na-tali. Era costui un monsignor di mantellone, prepostoall’ufficio de’ pesi e misure, ed era vecchissimo.

Ebbi presto un saggio del nuovo ambiente nel qualeero entrato e della differenza dal nostro. Una notte s’erasentito un po’ di susurro in casa: la mattina ci alziamo:che è successo stanotte? «Sono venuti a prendere l’abateNatali, e l’hanno portato carcerato in Castello:» così ri-spondono i vicini. Diavolo! un prete! un alto impiegato!un vecchio! Pareva impossibile.

Nientemeno, si seppe poi, questo disgraziato avevacommesso un falso in materie d’ufficio!

Questo fatto mi colpì immensamente. Gli alti impie-gati, i preti, i vecchi ne fanno di queste, dissi, a Roma; es’espongono a ottant’anni a finire in galera, o un quid si-mile! Figuratevi gli altri!

Mentre stavo per incominciare i miei studi, m’amma-lai di febbre gastrica. Mi durò quindici giorni, e fu la so-la malattia di carattere che avessi mai sino ad oggi. Que-sta gastrica non minacciò con sintomi gravi; mi lasciòsoltanto una gran debolezza, ed una grandissima fame,che il medico m’impediva di soddisfare, e mi era un verotormento. Quanto bene capii allora la condizione di chinon la può soddisfare neppur da sano! L’inverno chetenne dietro al nostro arrivo in Roma, lo passai lavoran-do con costante assiduità, ma senza buona direzione. La

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mia vita pel resto era regolarissima. Salvo la famigliaOrengo, che allora abitava al palazzo Falconieri a SanMarcello, salvo Gherardo de’ Rossi, e qualche altro, nonfrequentavo società. M’alzavo presto, ed andavo subitoallo studio. N’ebbi uno dapprima ai Due Macelli,sull’angolo della via che va a Capo le Case; poi, lì acco-sto, un secondo accanto al palazzo delli Pupazzi. La seraandavo a letto presto, con gran meraviglia dei Romani edelle Romane, quand’era la bella stagione.

A Roma l’orario sta col calar del sole, come ognun sa.Vi son cose che tutto l’anno si fanno alle medesime oredopo l’avemmaria. Si va in società, verbigrazia, a tre oredi notte. Però l’inverno porta d’andarvi alle otto, el’estate alle undici. E c’era sempre da bisticciarsi: « Co-me, mi dicevano, vai a letto a due ore e mezzo? « Ed io:«No, ma alle dieci e mezzo, come fo tutto l’anno.» – «Ma sono due ore e mezzo.» – «Ma sono le dieci e mez-zo.» e via via.

Questa vita ordinata mi conferì moltissimo per rin-francarmi addosso la sanità, e potei oltre gli studi del di-segno spingermi innanzi anche nella musica, nelle lette-re italiane, nella storia ec. ec.; e siccome poi mi trovavoproprio nell’età più proclive al peccato di poesia, caddianch’io, come tutti gli altri, e fabbricai ottava per ottavaun poema cavalleresco! Anzi, ora che ci ripenso, avevogià fatto parecchi canti d’un altro poema intitolato: Ri-nier d’Aspromonte (curiosa coincidenza garibaldina!)all’età di quattordici anni.

Di questo secondo non ricordo il titolo. So che la sce-na era a Saluzzo, alla corte del Marchese, e v’accadevaun’avventura abbastanza comica. Una damigella dovevaessere ottenuta in isposa da chi vincesse un tal torneo.V’era un negromante nemico della medesima, interessa-to ad impedirne le nozze. S’apre la giostra tenuta daimaggiori paladini, che dapprima vincono e fanno piazzapulita; ma si presenta un cavaliero (cavallo nero, armi

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nere, tutto nero, s’intende); costui comincia a minestra-re, nessuno gli può star contro; e così sempre giungendonuovi guerrieri in favor della damina, la giostra si tiratanto in lungo che batte una tal ora fatale, dopo la quale,addio nozze, addio sposa, non era più permesso pensar-ci.

Scoccata l’ora, quel tal cavaliero nero che prima simoveva, agiva, parlava, si pianta a un tratto immobilecome un piolo, lui e ‘l cavallo.

Sul primo non ci si bada, poi continuando immobile,si comincia ad osservarlo, poi a meravigliarsi, a parlargli,a chiamarlo, e finalmente uno gli dà d’urto; si vede allo-ra scomporsi ad un tratto l’intera armatura, cade l’elmodi qua, la corazza e i bracciali di là, insomma le armi era-no vuote! Uno spirito le laveva animate onde impediregli sponsali, ec. ec. ec.

Che gliene pare, non era bellina l’invenzione?E non basta un poema, feci in quei tempi anche una

commedia, una mezza tragedia, e poi odi e sonetti fre-menti per l’Italia.

La tragedia era Didone. Atto primo: Enea chiama aconsiglio i capi de’ Teucri; dice loro che Anchise gli ècomparso, e gli ha fatta una scena perchè sta a farall’amore, invece d’andar in Italia a compiere i fati, sot-traendosi alla vendetta di Giunone, ec. ec., dunque biso-gna partire; ma i Getuli....ma Iarba.... ma la povera Di-done compromessa... : malgrado tutto questo, si decidedi partire, e si partirà senz’altro. Naturalmente a non vo-ler fare una tragedia d’un atto, bisogna che per altriquattro sia un continuo fare a tira tira fra Enea e Dido-ne, finchè accade quello che già tutti prevedono: Enease ne va, e Didone s’ammazza. E così era difatti il miointreccio, ma a mezzo il lavoro ebbi un raggio che m’il-luminò, e piantai lì la tragedia scrivendo sul mio scarta-faccio: «Un eroe che dalla prima scena dice quel che

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farà all’ultima, è un sorbetto ambulante;» e così mandaial diavolo Enea, Didone, Anna e tutta la compagnia.

Fin d’allora avevo gran tendenza a farmi le idee da mecolla riflessione, e non ad accettarle umilmente bell’efatte da altri. Per quei tempi era certo una mezza ribel-lione il prendere così sotto gamba l’Eroe di Virgilio. Ame però, Virgilio o non Virgilio, Enea non m’era simpa-tico. Quel suo trattare la povera Didone come un ca-priccio da viaggiatore, e soprattutto quell’inutile e scioc-co intenerirsi, quand’incontra poi la sua anima in casa diPlutone, proprio per il gusto di ricevere uno sgarbo, co-me appunto gli succede!… Senza parlare dell’impossi-bilità per noi moderni di appassionarci per i pettegolez-zi dell’antico Olimpo, e le vendette di Venere oGiunone o Nettuno.

In questo raziocinio che mi fece abbandonare la miatragedia, c’era un ottimo principio, che ho sempre cer-cato sviluppare, il principio di cercare il vero e profes-sarlo senza rispetto di nulla nè di nessuno. Bidone batte-va assai su questa ricerca, ed estendeva la teoria a tuttigli atti ed i momenti della vita giornaliera. Egli mi dicevasempre: «Cerchi il vero, e trovato che l’abbia, lo dicaapertamente e liberamente. – Ben inteso, vi sono riguar-di e forme anche nella sincerità più completa. – E so-prattutto, aggiungeva, non mai misurare timidamente leparole dall’uditorio, non star a pesare se la sua opinionepiace o non piace ec. ec.»

Non parlerò d’una mia commedia in un atto, che aveaper argomento un aneddoto della vita di Federico II:scioccheria senza sugo. Eppure – sarà superbia – ho inmente che forse avrei potuto far qualche cosa di non af-fatto cattivo in questo genere. Ma ci fu chi mi tagliò legambe d’un colpo. Indovini chi? Vestri, l’attore; ed eccocome. Fatta la mia commedia e copiata, me la misi in ta-sca, e con un candore arcadico me ne andai diritto alteatro Valle dove appunto recitava la compagnia Vestri.

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Era sul mezzogiorno, e provavano. Riesco ad arrivaresul palco scenico, fo chiamare Vestri che se ne stava collibro in mano badando ai suoi attori; e con molto palpi-to li espongo il mio caso e gli presento il prezioso auto-grafo.

Egli mi gettò un’occhiata, che tradotta in italiano di-rebbe: « Povero lattarino, finisci di venir al mondo, pri-ma di scrivere commedie» e mi voltò le spalle, adducen-domi non so che pretesto d’impresario, per lasciarmi inlibertà. E così non diventai scrittore di commedie.

Però più volte quest’idea m’è venuta bussandoall’uscio, per farsi aprire ed ammettere. Ma l’ho sempremandata a farsi benedire (come Vestri mandò me) ad-ducendole non un pretesto, ma l’ottima ragione che inItalia non essendovi nè lingua, nè attori, nè pubblico, èinutile pensare a scrivere commedie. Qui bisognerebbeentrare in spiegazioni troppo lunghe; che perciò riman-do a più opportuna occasione.

L’età proclive, come dissi, ai peccati di poesia e pro-clive altrettanto ai peccati di politica – e demagogico re-pubblicani. Chi non è stato più o meno cittadino d’Ate-ne o Sparta o almeno di San Marino, quand’erastudente? Chi, fra i quindici ed i vent’anni non ha più omeno ammazzato un tiranno, puro peccato di gola, be-ninteso? Quanto a me, confesso che avrei pagato non soche per trovare un tiranno da ammazzare, ma non lotrovai. Mi sfogavo a recitare le tragedie d’Alfieri, che im-paravo a mente; e chiuso nel mio studio, colla schiumaalla bocca ed arrotando gli rrr, m’innebriavo di tuttiquei furori,che a ripensarci ora di sangue freddo, contutto l’affetto ed il rispetto che sento per la memoriad’Alfieri, in verità non so capire in che diano, nè a checosa possan servire nella società odierna. Quei nappi equei pugnali dopo cinque atti d’arrabbiatura continuaarrivano proprio benedetti, perchè almeno la fanno fini-ta; ma a noi non paiono se non mercanzia da corte d’as-

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sise: e Dio guardi se ci facessero un effetto diverso. Aquesto non pensavo io allora. S’era fatta una compagniaper recitare tra noi queste tragedie, e ogni tanto si davauna serata con invito.

Una sera mi ricordo che Don Carlo, volendo cavar laspada, diede un tal scappellotto in una lampada, che fuun diluvio d’olio su Filippo, Isabella, Perez e sul belmantello di Don Carlo, turchin celeste ricamato d’ar-gento, com’era dovere, essendo egli l’amoroso.

Comunque sia però, se Alfieri ebbe bizzarrie e strava-ganze nei suoi concetti, come n’ebbe nella sua vita, nonè meno vero che egli fu quello che scoperse l’Italia, ed alui si deve il primo respiro della vita nazionale italiana.Per questo dunque, sopra tutto, egli è degno d’ogni piùalto onore, ed è ben dovere che gli Italiani, mantenendoviva la sua memoria, rendano vera la profezia ch’egliracchiuse nel seguente sonetto:

«Giorno verrà, tornerà giorno in cuiRedivivi ornai gli Itali starannoIn campo armati, e non col ferro altrui,In vil difesa, ma dei Galli a danno.… … … … … … … … … …Odo già dimmi, o Vate nostro, in praviSecoli nato, eppur creato hai questeSublimi età che profetando andavi!»Chi avesse detto al Vate nell’orecchio: – I Galli saran-

no la potente ed immediata cagione del trionfo della na-zionalità italiana. Li guiderà il nipote di quello che hafirmata la pace di Campoformio: e la stampa italiana esi-stente nella sublime età che profetando vai, dirà a Lui edalla Francia una filza d’impertinenze, in segno di teneragratitudine! –

Sarei curioso di sapere che cosa avrebbe detto l’one-sto e generoso Alfierì a questa controprofezia! Non soche cosa avrebbe detto lui; ma so bene quello che sareitentato di dirgli io, se avessi l’onore di trovarmi al suo

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cospetto, ora grande quale sono, come mi ci trovai dapiccinino. Gli direi: – Signor Conte, mi permetta un ec-cesso di sincerità; di queste mostruosità (tutti capisconodi che farina siano le sferzate della stampa italiana a Na-poleone) n’è un po’ cagione anche lei; come n’è cagionequel bizzarro impasto di idee pagane, immorali, fuorid’ogni ragionevole applicazione per noi moderni, cheperò è stato il condimento o meglio il succhio fecondan-te della nostra educazione; e si può’ aggiungere altresìdella sua. –

Se almeno c’insegnassero a giudicare ed a capire co-desti fatti! Se ci avessero detto, verbigrazia: niente puòscusare l’assassinio, perchè è tradimento, e perchè e ese-cuzione d’una sentenza emanata da tribunale incompe-tente, e senza processo; tuttavia Alessandro di Fere, Na-bide spartano, Agatocle, Falaride e Dionigi siciliani,Nerone, Commodo ec. ec., erano bestiacce talmente cat-tive, talmente potenti, talmente guardate, che si puòconcedere le circostanze attenuanti a chi in un modo onell’altro potè sbarazzarne il mondo. Ma questi tiranninon s’usano più (non parlo dei terroristi di Francia chestimo eccezione); non si fanno più tori di rame, non sicuciono in un sacco più i vivi coi cadaveri; e per qualchetirannello moderno ci sono molte altre vie d’uscir d’im-paccio: vie tanto più efficaci quanto più sono leali edoneste. Avrebbero dovuto farci osservare quanto fallaceed erroneo riuscì quasi sempre il giudicio dell’assassino:quanto male egli conobbe chi meritasse la morte, anchedato che la forma fosse legale: avrebbero dovuto mo-strarci l’età presente dominata da un bisogno di respon-sabilità universale, bramosa di sicurezza generale, bra-mosa di un Habeas corpus esteso al mondo intero;inclinata alla clemenza in ogni occasione; inimica dellapena capitale, soprattutto per cagioni d’opinione politi-ca, inimicissima poi di giudizi arbitrari senza processo,senza difesa, senza confronti ne testimoni. Quest’era

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l’antidoto col quale doveano almeno rettificare le ideefalse che ci doveano per necessità istillare le letture e glistudi del classicismo pagano: come pure, lo permetta ilconte Alfieri, ce le istilla la recita delle sue tragedie, nel-le quali in sostanza qual è l’idea semplice che ne emer-ge? Qual è l’atto che tocca al superlativo della virtù, del-la gloria, della fama umana? Qual è il rimedio ai malicagionati dai cattivi principi, dai tristi governi? Qual è lavia più breve onde condurre un popolo alla perfetta feli-cita, libertà, prosperità, ec. ec.? Nascondersi dietro unuscio e far la posta al tiranno: quando passa, tonfete!una buona botta sul capo, e tutto si trova fatto, compitoe terminato; tutti sono contenti, tutti sono indipendenti,tutti sono liberi, felici, virtuosi, eguali, fratelli amorosi,insomma tutto un popolo si trova diventato d’un colpoil paese della cuccagna! Ed il mondo va egli così? E tut-to questo è egli vero, e mette forse in capo idee vere?

Proprio, il conte Alfieri se lo lasci dire, (lo so per pro-va) in Italia, della politica che fiorisce nelle università,nelle quinte dei teatri, nei bigliardi, ne’ caffè, nel giorna-lismo in genere, e nelle botteghe di barbiere (questa listapurtroppo prende tre quarti degli Italiani!) n’è un po’responsabile lui; come n’è responsabile l’educazioneclassica all’antica che ci venne data colla scuola di perfe-zionamento delle società segrete. E se nel mio modo discrivere v’è un grano di scherzo, è perchè sono così fat-to; ma è pur troppo maledettamente serio ciò che talvol-ta cova a lungo, e poi scoppia alla fine, in certi cervelli dipoco talento, di poco criterio e pochissima istruzione; difantasia immaginosa di desideri immoderati, ed ambi-zioni sbrigliate; tutto prodotto da antichi esempi mal ap-plicati e meno capiti; tutto prodotto dall’aver visto nellestorie, ne’ drammi, nelle tragedie, glorificate cento col-pevoli e fatali pazzie. E pensare quali immensi interessi,quali incalcolabili conseguenze sono abbandonate al ca-priccio di pazzi o birbi o fanatici, resi più pericolosi,

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grazie a tali pervertimenti! Quando si pensa, noi Italia-ni.… se Orsini riusciva!...

Ma lasciamo questo discorso che mi fa arricciare i pe-li addosso. Ringraziamo Iddio che non sia riuscito, e ve-diamo, se fosse possibile trovar modo onde gli educato-ri, gli scrittori, i poeti, ed eziandio i pulpiti, le cattedre,le scene volessero una volta persuadersi che le idee falseguastano i cervelli, e i cervelli guasti mandano in rovinala società, e quindi ne mettessero avanti di quelle chebene esposte ed ascoltate senza fastidio lasciano l’indivi-duo migliorato e non peggiorato da quello che era pri-ma.

Mia madre che aveva coltura, gusto squisito nelle let-tere, e soprattutto una rettitudine somma di intellettocome di cuore, avrebbe potuto essere il modello deglieducatori che invoco, e rettificare tante false idee che gi-rano pel mondo. Per una fortuna la trovavo a mia porta-ta, e disposta a giovarmi in tutti i modi possibili. A misu-ra che scrivevo, le mostravo i miei parti, ed essa vitrovava argomento di sottili critiche, ed ingegnose osser-vazioni. Allora, come sempre, non seppi nè giovarmi diquesto bene come potevo, nè essergliene grato come do-vevo.

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CAPO DECIMOQUARTO

SOMMARIO. – Viaggio a Napoli – Amici di Napoli – I Car-bonari – Saluto al cardinale Amat e al conte della Margherita –Mi passa addosso il legno di viaggio – Visita di mio padre. Ve-de i miei lavori – M. de Blacas. Miss Knight – Amici inglesi edil mio vergognarmi – Miss Knight e la patria – L’imperatored’Austria in Roma – Sete di tranquillità generale in Europa –Prendo le febbri della mal’aria – Il mio maestro Martino Ver-stappen – Suo carattere – La sua scuola – Eravamo scolari eservitori come i quattrocentisti – Nostre impertinenze al mae-stro – Comincia a maturarsi la mia mente, ma malamente – Sta-dio d’angustie morali – Sogni d’avvenire – Metodo che mi pro-ponevo nello studiare – Voli del mio cervello – Idee politichemodificate – Il cardinale Consalvi – Compare in scena l’amore.

A metà dell’inverno mio fratello Enrico, che aveva uncongedo limitato come ufficiale d’artiglieria, partì perNapoli, per non perdere l’occasione che l’aveva condot-to in tanta vicinanza di quell’interessante paese.

Dopo qualche settimana impiegata a fare il solito girodelle curiosità e dell’anticaglie, egli s’ammalò: e pochigiorni dopo, due signori piemontesi amici di casa, i ca-valieri di Germagnano che erano a Napoli, dovetteroscrivere a mia madre, aggravarsi la malattia ed esservi se-ri timori che volgesse sinistramente.

Si trattava d’urgenza; e mia madre mi spedì immedia-tamente per Napoli. Partii la sera con il nostro legno so-lito in posta. Era il tempo de’ briganti. Mia madre nestava in pensiero, ed alla borsa delle spese di posta ag-giunse il valore della scorta. Io feci il mio conto, chequei soldi m’avrebbero servito molto più piacevolmentea Napoli, e che si poteva tentare la fortuna. La tentai em’andò bene; non vidi briganti, e giunto in Napoli vidiinvece un mucchietto di scudi disposto a prestarmi isuoi servigi. Pur troppo furono in mano a Barbaja, per lalarga via della rollina e fossero bastati!

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Trovai Enrico migliorato, e presto uscì dal letto. Loveniva a trovare un giovane di Macerata col quale aveafatto relazione, e che anch’io cominciai a conoscere. Sioccupava di musica e di disegno ancor esso, ed era ilmarchese Domenico Ricci. Da Napoli in là non ci incon-trammo mai più; nè mai più seppi che cosa fosse di lui;fino ad un giorno del 1852, nel quale mi venne a doman-dare la mano di mia figlia Alessandrina per suo figlioMatteo:parentado che fu felicemente concluso.

Trovai a Napoli trasferito come ministro il marchesedi San Saturnino, quello stesso che subentrò a mio pa-dre nel posto di Roma; suo segretario di legazione eraun mio amico d’infanzia, che molto volentieri rividi e colquale passavo il mio tempo. Io disegnavo dal vero, stu-diavo, e vedevo le bellezze di Napoli (non quelle del re-gno animale, badi!): egli scriveva poesie, faceva tragedie,che poi mi leggeva.

Questo mio amico, questo poeta tragico, fu poi persedici anni ministro di Carlo Alberto. Egli era il conteClemente Solaro della Margherita, col quale sin d’allorami bisticciavo, e non ero d’accordo. Si discuteva di poli-tica, di religione, di cosmogonia, di filosofia, d’un po’ ditutto: ma senza fiele. Cominciava intanto nel regnoquell’intimo fermento che poi scoppiò col moto del 20,ed era noto a tutti l’ordinarsi, il disciplinarsi della so-cietà segreta de’ Carbonari, ed il moltiplicarsi delle ven-dite dei buoni cugini.

Nè io ne lui, benchè giovani, eravamo grandi ammira-tori delle società segrete: e difatti l’Italia, se s’è voluta ri-mettere in piedi, ha dovuto ricorrere ad una societàtutt’altro che segreta; – la società de’ cannoni rigati. Aogni modo era dovere della legazione tenere informato ilproprio governo di quanto si preparava.

Ancora rido rammentando un povero diavolo di car-bonaro, che campava magramente del mestiere di refe-rendario de’ segreti delle Vendite alla legazione di Sar-

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degna. Quando gli cercavano troppo in là, e gli doman-davano delle materie più gelose, egli si scontorceva, nonvoleva parlare; « Nè, vide Eccellenza, chisso non se podì, non è possibele... « E se la insistenza continuava, «ma Eccellenza! « esclamava, «tu capisce bene... aggio ogiuramento... mette almeno n’auto ducato!... «

Col conte La Margherita trovai altresì un altro conna-zionale, il marchese Amat di San Filippo, ottimo e gar-bato giovane, che ora è il cardinale Amat, uno dei mem-bri più distinti del sacro collegio.

Se queste pagine cadono sott’occhio a questi miei duevecchi amici, vogliano scordare un momento la diversitàdella via che ciascun di noi percorse, e rammentare legradite escursioni che facemmo insieme nelle tepide se-re di quel fortunato clima; rammentino quel valentuomodi Federigo, culto ed attento cicerone, che ci era sicurascorta in quel vasto labirinto, e grazie al quale ne potem-mo vagheggiare le bellezze e le rarità.

Tornando a Roma, m’accadde un’avventura da rom-pere il collo, se non fossi stato destinato a passar questa,come altre peggiori, uscendone sempre senza uno sgraf-fio.

Ad una delle poste della lunga e diritta strada dellePaludi Pontine, il legno era fermo e gli si attaccavano icavalli. Il postiglione della posta precedente aveva già ri-cevuto i suoi denari e pronunziati tutti gli accidenti, lemaledizioni e le bestemmie d’uso per ottenere un grossodi mancia di più. Io aveva terminata quella pendenza, eleggevo. La partenza di un legno a quattro cavalli da unadi codeste poste, pare la mossa della tregenda de’ diavo-li e delle versiere, tanti sono gli urli, i salti, gli schizzi, leimpennate di quelle sei bestie, contando i postiglioni, edanzi di quelle otto o dieci, contando gli stallieri, i ragaz-zacci che spingono, frustano ed urlano, i cani che ab-baiano, ec. Pure finalmente... via!... il più delle voltes’infila la strada maestra, ed a slanci, a saltimontoni, o

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per lo meno di carriera serrata s’arriva, se piace a Dio, ese non si fracassa nulla, all’altra posta.

Ma questa volta contò fra le eccezioni. Invece d’infila-re la via diritta, tutto il convoglio infilò il canale scavatoda Pio VI per asciugare le Paludi, e che corre accanto al-la strada in tutta la sua lunghezza. Enrico ed il servitore,che badavano a quel che accadeva, fecero a tempo abuttarsi giù dal legno. Io che leggevo, me n’accorsi piùtardi, e m’imbrogliai nel montatore, tantochè caddi interra: udii una consolante voce che diceva: « PoveroMassimo! «mentre mi vedevo venir sulla schiena la ruo-ta di dietro del legno! Pensai addio spina dorsale! Passòdifatti la clemente ruota sul mio dorso, ma senza rom-permi nulla, e lasciando soltanto un’ammaccatura, nonsenza meraviglia universale.

Io mi rizzai contento, e feci un salto d’allegria; il le-gno con cavalli e postiglioni stava immobile nel canale; ilmaestro di posta, presa una forcina, li voleva ammazzarea ogni modo, e finalmente trattenuto e pregato, seguitòla commedia col cacciar via i postiglioni: ciò che signifi-ca per loro, far un giro dietro il casale della Posta; equando le parti interessate sono partite, ritornare a fareil postiglione come prima.

Basta, in mezzo a questa vicenda la conclusione fuche la sera, nostra madre ci potè rivedere tutti e due sanie liberi, ed Enrico perfettamente rimesso dal suo granmale.

All’aprirsi della primavera si prese un casino a CastelGandolfo, villeggiatura del Papa, da certi contadini be-nestanti del paese, detti gli Albenzi.

Mio padre ci venne a trovare. Vide i miei lavori, e cer-ta mente li pesò per quel che valevano, ma per non di-sgustarmi dallo studio, se ne mostrò abbastanza conten-to, e mi ci fece poche critiche. Non doveva parerglivero, che un birichino scioperato par mio studiasse, e,bene o male, qualche cosa producesse, invece di passar

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la vita ne’ caffè e ne’ bigliardi come prima. È certo, ched’allora insino ad oggi ho sempre più amato e desidera-to vivere co’ galantuomini, ed evitato i birbi.

La compagnia che vedevamo a Castello, era interes-sante. M. de Blacas e sua moglie, con le persone della le-gazione, che abitava villa Cybo; una signora inglese,miss Knight, amica antica de’ miei parenti; e talvolta iTorlonia che venivano alla loro villa. Poi visite che agliuni o agli altri venivano continuamente da Roma.

Miss Knight era stata educatrice della principessa Ca-rolina, figlia del reggente e moglie del re Leopoldo delBelgio. Avea conosciuta tutta quella splendida e pocoonesta generazione. S’era trovata in Italia negli ultimianni del secolo, avea veduta la corte di Napoli, il re Fer-dinando e la regina Carolina, Acton, Nelson,Col-lingwood, Trowbridge , comandante del Centauro, e ca-po fila della squadra ad Aboukir, ove servì d’indizio aivascelli che lo seguivano, colla disgrazia ch’ebbe d’inve-stire, e non poter per ciò prender parte all’azione. Que-sto eccellente ufficiale doveva sposare miss Knight, ma«egli era nato disgraziato» diceva essa. Mandato nelleIndie con un vascello, non si seppe mai più nulla di lui.Corse voce andasse a picco in alto mare nel canale diMozambico.

Questa buona amica, già allora assai vecchia, m’inse-gnava l’inglese, mi parlava di lettere, di scienze, d’arti,poichè non c’era cosa che non sapesse. Mi narrava de’fatti veduti; Nelson era la sua adorazione ed è indicibilela passione che provava parlando della funesta EmmaLiona, della morte di Gravina, e della fede rotta ai capi-tolati di Castel dell’Ovo.

Per suo mezzo conobbi e mi legai con altri Inglesi,lady Dawson, i Fairfax, miss Mackenzie, persone tutteche mi mostrarono vero affetto, che mi colmarono di fi-nezze; ma colle quali provavo pure un senso talmente

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doloroso di umiliazione, che dalla loro familiarità me neveniva piuttosto amarezza che soddisfazione.

Mi vergognavo d’essere Italiano!Non posso dire qual rossore sentissi dello stato politi-

co dell’Italia d’allora. Mi pareva esserne io colpevole,averne scolpita in fronte la vergogna; mi pareva che tut-te le parole vi alludessero, che tutti gli sguardi si fissasse-ro in me. Il freddo contegno degl’Inglesi, l’indifferenzache i più mostravano, com’era in regola, ad un giovinet-to inconcludente par mio, il tranquillo e sicuro orgoglioche sta loro sulla fronte, mi parevano, tutte cose inventa-te apposta per me, per mortificarmi, per farmi sentire lamia inferiorità, per farmi capire che quando una nazioneè da secoli di chi se la prende, quando essa permette chedai quattro venti ci venga chi vuole a rifarvisi, come icacciatori vanno in certe regioni perchè c’è molta sel-vaggina, allora chi appartiene a una nazione simile puòessere tollerato fra gli stranieri, ma trovarsi alla pari conloro, questo no.

Un giorno, mi ricordo, miss Knight mi parlava di pa-tria. Io le risposi col fiele nel cuore: «l’hanno forsegl’Italiani?» Essa mi guardò sorpresa, e mia madre mene fece rimprovero. Io non spiegai il mio pensiero, nonrisposi nulla, mi era intollerabile toccar quel tasto, neprovavo troppo dolore. Dio sa che idea si fece di mequella buona Inglese, nemica certo delle aberrazioni ri-voluzionarie, ma Inglese sempre in fin dei conti, e quin-di amando la libertà, e del proprio paese prima di tutto!

La patria non è la terra soltanto ove siamo nati; losanno da un pezzo gli Italiani.

Questo senso d’umiliazione m’ha tenuta trista compa-gna per quasi tutta la mia vita; è stato in parte cagionedella mia poca inclinazione ai viaggi fuori d’Italia, comea frequentare la società straniera. Riconosco d’esseresempre stato su quest’articolo d’un’impressionabilitàmorbosa: d’aver sempre esageratamente presa ombra di

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parole, d’atti che a tutt’altro forse miravano che a notarela nostra inferiorità (beato Gioberti che se la godevascoprendo negl’Italiani il Primato!); ma io ero e sonofatto così e non posso sentire altrimenti.

Questo penoso pensiero svanì quasi del tutto dal 48 al59. Dal 60 in qua sè in parte ridestato e prende forza dinuovo sull’animo mio: non siamo l’ammirazionedell’Europa, bisogna dirselo. Perciò vivo da me.

L’imperatore d’Austria venne a visitar Roma, e si puòfigurarsi se mi passò pel capo di lasciar Castello per an-dare a godere delle feste! Mi sarei più volentieri cacciatonel folto della macchia della Fajola, vastissima d’Albanoveste il dorso dell’Appennino per centinaia di miglia, eche è quasi una foresta vergine all’uso d’America.

L’accoglienza che ebbe l’Imperatore dal Papa e daiRomani fu invece splendidissima. Questi erano alloraben diversi da quel che sono oggi, e potevano con tuttacordialità dirigere a Francesco imperatore quel verso diDante, che ora soltanto la Curia romana reciterebbe vo-lentieri se potesse:

«Cesare mio, perchè non m’accompagne?»Bisogna poi anche osservare a giustificazione del

mondo, nonchè de’ Romani, che allora l’Europa tutt’in-tera, dopo Venti anni di stragi, desolazioni, invasioni,ruberie repubblicane, ruberie imperiali, ruberie stranie-re, ruberie locali, ruberie francesi, ruberie tedesche, rus-se, cosacche, kirghise, tartare e che so io, ne aveva pro-prio più su de’ capelli, voleva che fosse finita, volevavivere; vivere in pace; fosse sotto un re, fosse sotto unpapa, o un imperatore, o un diavolo, poco importa, purdi poter respirare.

Ma io che di tutti questi malanni poco me n’ero potu-to accorgere, essendo accaduti durante la mia puerizia,non provavo quest’immenso bisogno di stare a sedere;portavo invece in me i prognostici della generazionenuova, e dell’opere sue. Altro che star a sedere!

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Mentre si villeggiava a Castello, io scendevo nella sot-to posta pianura a caccia, ed invece d’uccelli vi presi leterribili febbri maremmane, antico flagello del Lazio.Certo la febbre v’era ai tempi d’Orazio, che se ne lagnacome ognun sa. Non capisco però come si possa credereda parecchi che gli antichi Latini egualmente ne venisse-ro travagliati. Come combinare i numerosi eserciti, quel-lo de’ Rutuli, verbigrazia, che Coriolano condusse alleporte di Roma, coll’esistenza della malaria? Chi è statoad Ardea loro capitale e capitale altrettanto della febbre(ed io ci fui, grazie alla cortese ospitalità dell’ottimo mioamico il duca Sforza, che è padrone dell’antica sua rôc-ca), chi ha veduto il loro territorio non maggiore certa-mente delle 40 o 50 miglia quadrate, giammai crederàche se ne fosse potuto cavare un esercito di quarantami-la uomini, se la febbre di maremma fosse stata loro con-temporanea. Andate oggi a cavare mille uomini atti allearmi dalle Paludi Pontine, se vi basta l’animo!

Quand’io me la presi, non era ancora scoperto il chi-nino. Dunque china pesta a gran bicchieri; ma all’ingres-so della malattia ebbi otto o dieci febbroni, senza inter-mittenze: e colla febbre non si dà la china. Come Diovolle non si mutò in perniciosa, e così non me ne andaiall’altro mondo. Anche sfebbrato, seguitai la china, e inpochi mesi ne presi sette o otto libbre.

Queste febbri me le portai un anno; ma, caso raro,non mi lasciarono ostruzioni. V’e su ciò un proverbio incampagna di Roma: La terzana, il giovane risana, Al vec-chio suona la campana.

Nessuno può aver idea ne del ghiaccio dello stadio al-gido, ne del fuoco dello stadio ardente, caratteri di que-ste febbri, che fanno molto soffrire. Il chinino per lacampagna romana è certo la più benefica delle invenzio-ni: non avendo ne vapore, nè stampa, nè tante altre sco-perte, abbia almeno il chinino, che certo pei campagnolivale tutte l’altre.

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I miei studi in materia d’arte progredivano intanto colmedesimo fervore: a Roma nello studio di mastro Ver-stappen, ed in villa dal vero.

Martino Verstappen d’Anversa era uno de’ migliori epiù interessanti artisti di quell’epoca. Egli dalla nascitamancava della mano diritta; invece della quale ebbe solodue o tre informi dita che pur gli servirono a tenere unatavolozza combinata apposta per lui, e dipingeva collasinistra. Ebbe i meriti come i difetti de’ Fiamminghi: co-lore, esecuzione e poco disegno. – Ma fu tanto il suoamore del vero, e non del vero brutto, ma del vero bello,tanto il suo affaticarsi a studiare in campagna ad onta ditutti i pericoli, gl’incomodi e le fatiche, che giunse a farquadri dotati del primo fra i meriti, quadri simpatici eche incontravano, coi quali radunò tanto da poter vivereconvenientemente.

Quest’uomo dabbene era ottima persona, ma vivevaritirato, fuggendo non solo le compagnie allegre, ma tut-ti in generale: s’alzava col giorno, lavorava fin che ci ve-deva, e poi la sera faceva miglia e miglia per Roma, sem-pre solo, coll’unico fine di scuotersi e far lavorare legambe. La robustezza sua esigeva gran moto, e per nonperdere il giorno, camminava la sera, piovesse o dilu-viasse. A questa sua vita romitica veniva condannato daun carattere diffidente al superlativo grado. Era venutoin Italia Dio sa con quali idee sugl’Italiani: e non dicoche sieno angioli. Ci sono anzi, e v’erano a Roma, inispecie allora, galeotti a iosa d’ogni categoria; ed anchesenza parlar di birbi, gente alla quale un po’ per profit-tarsene, un po’ per gusto, non sarebbe parso vero dimetter in mezzo, e dar delle corbellature (frase tecnica)ad un tufo Tedesco, e farlo Martino: che in gergo vuoldire appunto farlo restar minchione.

Fatto sta che, ragione o non ragione che avesse, nes-suno lo vedeva, non trattava nessuno, neppure i suoiscolari, che si riducevano a due, un giovane romano ed

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io. Il detto giovane era figlio del suo padrone di casa, loscultore cavalier Pacetti, ammesso, credo io, soltantoper la quasi impossibilità di dirgli di no. Io ero stato am-messo per motivi analoghi, ma credo che ci vedesse conquel piacere con che gli occhi vedono il fumo della legnaverde.

Tutto il vantaggio che si ricavava alla sua scuola, eccoqual era. Il quartiere si componeva d’un’anticamera confinestroni da studio, nella quale rimanevano esposti isuoi quadri finiti, finchè fossero mandati al loro destino.Un altro studio nella camera vicina, dove lavorava lui, edal quale si passava in altre camere ignote ai mortali. Ilmastio di Castello è abbastanza ben guardato; ma nonha che far nulla collo studio dove dipingeva il maestro.Era sempre chiuso a catenaccio, e non s’apriva se nonogni tanti giorni, e mai regolarmente. Veniva allora fuoriil buon Martino con una faccia di mela cotta, e due oc-chi bianchi e tondi come due colonnati. Noi si stava co-piando qualche brano de’ suoi quadri. Egli si piantavadietro la nostra sedia, guardava senza fiatare per cinqueminuti, e noi che se ne sapeva poco, che ignoravamometodi, regole, furberie dell’arte – nessuno ce l’insegna-va – s’aspettava come voce d’oracolo qualche buon pre-cetto.

«Un poco turo»: ecco la gran sentenza; e passavaall’altro scolare. Di nuovo cinque minuti di contempla-zione e poi: «Un poco pessante»; e via per i fatti suoi:chè essi e non noi erano cagione che vedesse ogni tanto inostri pasticci.

Egli intendeva le relazioni da maestro a scolare all’in-circa come (salvo l’amorevolezza) l’intendevano gli anti-chi pittori. Se accettava scolari, intendeva che si prestas-sero gentilmente a fargli anche un po’ da servitori.

Quest’idea non mi dispiaceva poi tanto. Ci trovavoun certo che di patriarcale e di bonaccio, che escludevaogni aspetto umiliante. Io non so nulla, egli ne sa assai:

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io ho bisogno di lui, egli non ha bisogno di me; il mio fi-ne non è nè l’interesse nè l’ambizione ma l’arte.… e poi,devo confessarlo, nella mia natura uno spruzzo del DonQuichotte c’è. Nel modo che a questi pareva d’essere uncamerata di Tristano o Lancillotto, a me pareva d’esseruno de’ tanti allievi delle antiche scuole, i quali erano dicasa del maestro, facevano ogni cosa per lui, e lo teneva-no qual padre, ed anche qual padrone.

Per due o tre anni ho quindi, non dico spazzato oportata l’acqua, ma aperto l’uscio di casa quando si pic-chiava, ricevute e fatte ambasciate, portati quadri, e pre-stati in fine tutti quei servigi, che, se erano al di soprad’un servitore d’ultima categoria, potevano però stimar-si al disotto d’un discendente di tanti eroi, come d’unpresidente del Consiglio in erba.

Che ne dice? facevo bene? facevo male, accettando diessere scolare all’uso antico di Giotto, Masaccio e simili;quando i pittori avevano bottega, famigli e fattorini co-me i pizzicagnoli?

A ogni modo v’è un’osservazione che può militare inmio favore. Se ho fatto il servitore per amor dell’arte,non l’ho fatto, vivaddio, mai per essere aiutato a saliresu per quell’albero di cuccagna in cima al quale, invecedi salami e capponi, sono appese croci, gran cordoni, di-plomi di conti e portafogli di ministro. E mi sembra incoscienza che il peccato di servilità non sia quello che mimetterà in guai il giorno del Giudizio.

Per esser fedeli alle tradizioni artistiche, di quando inquando si prendevano poi delle piccole vendette controil selvaggio maestro. Se, per esempio, si desiderava daparecchi giorni la sua comparsa – chè alle volte si scor-dava per un pezzo che si fosse al mondo – veniva decisoin consiglio che bisognava fare un esempio.

Si disponeva allora un catafalco di cavalletti, sedie, te-lai in modo che non potessero però succeder danni; epoi una spinta, e giù tutto per le terre, che pareva rovi-

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nasse la casa. Il povero Martino vedeva già i suoi quadrisfondati; e, le dico io, che sbucava fuori in un lampo!Naturalmente era preparata la risposta al «Cossa è sta-to?» ansioso che lanciava, tirando il catenaccio, nella ca-mera della sua esposizione.

Come vede, se l’istinto birichino non era più il padro-ne di casa mia, neppur però poteva dirsi affatto fuordell’uscio. Già un grano ne’ giovani dà grazia, ed in menon era certamente in dose maggiore. Il mio moraleprincipiava a dare lontani segni di volersi maturare. Iomi sono maturato adagissimo, non mi sono sentito dì-ventare uomo, non sono giunto a formarmi forti persua-sioni, nè a concepire idee nette e fondate circa la mag-gior parte dei fenomeni morali, sociali e politici piùimportanti, se non tardissimo. Questa tardità è forseinerente al mio intelletto: forse essa è nata dal bisognoche naturalmente ho sempre provato di conoscere il ve-ro, per quanto si può, su tutto, senza potermi nè conten-tare della probabilità, nè rassegnare per culto all’auto-rità. A volere da sè rendersi ragione di tutto, ci vuoltempo. A quei giorni questo lungo e spinoso lavoro loincominciavo appena; diciamo inoltre che non era lamia età quella del raziocinio, ma quella dell’affetto e del-la passione.

Io che ero destinato a provarne delle ardentissime inpiù di un genere, mi trovavo allora in un curioso stato:sentivo tutta la forza della passione, ma senza oggettoche le desse corpo, anima e vita. La mattina presto anda-vo spesso a passeggiare ne’ boschetti di villa Borghese;avevo con me carta, album, lapis, tutto l’occorrente siaper disegnare che per scrivere; sedevo solo a qualcheombra, e poi non veniva fuori nè scritto nè disegno.Aspirazioni, desideri, presentimenti, speranze, sognid’amore, di gloria, di sventure, d’atti luminosi, arditi,m’accendevano confusamente l’immaginazione ed ilcuore. Era uno stato penoso appunto, per essere senza

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scopo e senza uscita, ma che destava in me un’intimagioia, per la pienezza di vita di che m’inondava. Sboccia-va nel mio essere quel fiore misterioso che s’aprenell’anima nostra per segnarne la primavera. È questoun gran tesoro, il maggiore di tutti a chi ne sa profittare,perchè messaggero della più potente tra le forze posteda Dio a disposizione dell’uomo. Ma purtroppo dai piùil tesoro si getta alle passioni, la forza si disperde nel va-no, e si conosce il danno quando è troppo tardi!

In quante cose di questo mondo chi sa non ha, e chiha non sa!

Io aveva appunto fatto come i più in quella mia pri-missima gioventù, anticipata dalle circostanze, ma che difatto era adolescenza: il prirno fiore dell’anima e delcuore l’avevo calpestato nel fango; ma grazie agli esempie all’educazione avuta, grazie a Bidone, quella vergo-gnosa pazzia finiva a tempo; non era completo il perver-timento; in me la sola corteccia era intaccata. Forse a ciòcontribuiva la mia natura, dono di Dio e non fatturamia: natura dalla quale difficilmente si cancella quellabella, giovenile impronta che così bene custodisce i ge-nerosi pensieri. Difatti io non mi sono invecchiato tuttod’un pezzo. La giovinezza dell’anima è durata in memoltissimo, mentre invecchiava il corpo, e neppure orala trovo spenta. Dal 60 in qua soltanto mi comincio asentire il cuore invecchiato. La speranza è l’aroma chemeglio lo conserva giovane, e gli anni (è questo il loropiù amaro oltraggio) ne portano con sè parecchie adogni rinnovar di stagione.

Si figuri dunque che cosa dovevo essere nel 1819-20.Cercavo una via che desse corpo e vita a quel risplen-dente avvenire che mi appariva in sogno. Nella pitturaimmaginavo vie nuove, nuovi concetti; non i quadri fatticolla ricetta de’ manieristi del secolo XVIII; non la mi-nuta e scrupolosa imitazione del vero de’ pittori nostridel tempo mio, chè, se tutto stesse in essa, si darebbe la

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palma alla fotografia sulla pittura. Allora non potevomettere in conto l’imitazione, neppure scrupolosa, delbrutto, non avendo ancora il realismo invaso la classede’ paesisti.

Eppure, poichè parlo di ciò, la scuola realista nellapittura del paese è un invenzione che fa onore all’inge-gno umano.

C’era chi non aveva scintilla artistica, non sentiva ilcolore, non aveva voglia di lavorare. Un balordo se nesarebbe rimasto umile umile dicendo: – non ho le qua-lità per diventar pittore; pazienza, e così sia: farò il fale-gname. – L’uomo di talento ha detto invece: – Che cos’èquesto eseguire, questo comporre, questo colorire, que-sta pulizia di tinta, questo lampo di vero? Tutte scioc-cherie dei codini dell’arte vecchia. Ecco l’arte nuova,l’arte dell’avvenire….

E quel che ci ha servito in tavola, chi ha occhi lo vede.E il pubblico se ‘l beve.

Ma lasciamo questo discorso per ora. Troverò luogopiù a proposito per parlare d’arte e d’artisti. Discorsolungo.

Io dunque anche in arte facevo castelli in aria, e mipascevo di fantasie; ma siccome conoscevo dovermi pri-ma di tutto rendere padrone della tavolozza, dell’esecu-zione, della facoltà di colpire il vero, badavo intanto amettere, faticando assai, questo primo fondamento. Misi ravvolgeva però nell’animo l’idea d’aggiungere lo scri-vere al dipingere, e mi rimaneva soltanto a decidere suquale argomento, con quale scopo, con qual lingua econ quale stile: affare di poco! Ne parlavamo soventecon Bidone mentr’ero a Torino.

Anche qui egli mi diceva per solo consiglio: «scriva» –«ma su che?» – «scriva» – «ma con che stile, con quallingua? « – «scriva.» – « Ma dicevo io in ultimo, se nonc’è, si può dire, nè lingua nè prosa leggibile in italiano!»– «Non c’è? se ne inventa una apposta!»

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Era presto detto. Però mi rodevo di non trovar viaper giungere ad una decisione che mi contentasse. –Pensai: studiamo intanto, e pensai bene. Finchè rimasi aRoma, il problema dello scrivere rimase intero. Non do-vevo scioglierlo bene o male se non molti anni dopo, eper allora ne sospesi la discussione, dicendo: – studiardal vero e scrivere, tutt’in una volta non è possibile. – Enon avevo poi tanto torto.

Ma il mio povero cervello batteva le sue alette piccinecome quelle del pileo di Mercurio, anche oltre i campidell’arte e della letteratura.

Beati quelli che venuti al mondo restano dove furonopartoriti, sorridono al cielo, alla terra, agli uomini ed allebestie, inghiottono quello che vien loro messo in boccao nel cervello,e lasciano a suo tempo il mondo comel’hanno trovato!

E poveretti invece quegli altri che appena fuor del gu-scio, come il pulcino mette fuori il suo timido pipipì, co-sì essi, data appena un’occhiata in giro, mettono fuoriquell’insaziabile perchè? E cominciano a dimenarsi, acorrer paese, a pesare, esaminare, confrontare, ricercare,frugare. E poi? Anch’essi lasciano il mondo.…No, no,vivaddio, non sempre lasciano il mondo come l’hannotrovato. L’uomo è dunque nato per muoversi, per scru-tare, per sapere (se può) chi è, che cosa fa, dove va: sel’uomo muore sotto la fatica, egli muore onorato e forseutile agli altri. Dunque non voglio lagnarmi se la naturamia è scrutatrice, come sempre lo sarà.

Fino d’allora, oltre l’arte e le lettere, mi ponevo centoproblemi politici, filosofici, morali, religiosi, tutte coseche mi scaturivano dall’animo, non reminiscenze di let-ture. Che cosa potevo aver letto, io soldato prima de’ se-dici anni?

In politica qualche modificazione l’avevo già subìta.Non sentivo più l’urgente bisogno d’ammazzare un ti-ranno. Creda che mi calmò la Tirannide d’Alfieri colle

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sue esagerazioni. Ma sempre più m’invadeva il desiderioche la mia nazione fosse padrona di sè, come sempre piùsentivo l’oltraggio della nostra umiliazione. Il contegnode’ forestieri in Roma, coi Romani d’ogni classe, nellesocietà, alle feste pubbliche in ispecie, come le cappellepapali, le funzioni della settimana santa; quella loro su-perba sicurtà nel voler dominare, nel disubbidire e svil-laneggiare gli ufficiali, o soldati incaricati di mantenerel’ordine in quelle pompe, mi mettevano in cuore unastizza indicibile. Gli Inglesi erano i più soverchiatori ditutti; e qualcuno di loro giunse persino a metter le maniaddosso per sforzare qualche porta difesa dagli Svizzeri.Ma accadde pur talvolta che questi fanti armati e vestiticome quelli di Giovanni delle Bande Nere, risposero co-gli acuti canti delle loro armature, e coi calci delle ala-barde, ed io benedivo loro le mani, pregando Iddio li li-berasse da quelle del cardinal Consalvi.

Egli era, come è noto, segretario di stato di Pio VII: ese per un verso avea idee più illuminate del resto del sa-cro collegio, voleva dall’altro copiare forme ed accentra-mento napoleonico negli stretti confini del piccolo statopapale; e questa idea mutando affatto le vecchie tradi-zioni, le abitudini delle popolazioni, cancellando antichiaccordi preziosi pel governo quali documenti d’accetta-ta sovranità, fu, secondo me, pel dominio temporale ilvero commencement de la fin.

Egli cercava d’aumentare la ricchezza pubblica tantocolpita dalla passata amministrazione: capiva benissimo,che i rami inariditi di questa ricchezza non è agevole nèbreve impresa il rinverdirli: era dunque suo studio l’al-lettare i forestieri, affinchè si trattenessero in Roma. Purtroppo, in difetto d’altre industrie, l’Italia da Firenze ingiù, ha esercitato per un pezzo quella del locandiere!

Quindi ogni qual volta un povero impiegato romanovoleva opporsi alle soverchierie di un forestiere, questinon mancava mai d’esclamare anderò da Consalvi. E

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purtroppo Consalvi in genere dava torto all’impiegatofedele, e ragione all’impertinente forestiere.

Per questo pregavo Iddio che salvasse gli Svizzeri dal-le eminentissime mani.

Ma se il cuore mi faceva odiare il giogo straniero, l’in-telletto non m’indicava nessun mezzo per ispezzarlo.Anche sui vent’anni, capivo già che i reggimenti austria-ci non si mandavano oltr’alpe colle vendite de’ carbona-ri e molto meno coi loro pugnali. Erano ancora lontani itempi ne’ quali doveva apparirmi la possibilità di unasoluzione a questo gran problema.

Allora invece le ombre di villa Borghese, come tantialtri luoghi, furono le confidenti delle mie tristezze, del-le mie lacrime talvolta, per le nostre onte, che giudicavosempiterne.

E quasi l’arti, le lettere, la politica non bastassero ametternii il cuore e la fantasia a soqquadro, vi s’aggiun-geva l’amore.…

E se lei mi dicesse «era innamorato?» – Io nemmenper ombra», risponderei. E questo era appunto il miotormento, essere innamorato e non saper di chi.

In ogni autobiografia, quando siamo sui venti anni, sipresenta naturalmente l’amore. Non è argomento dauscirne con quattro parole. Ci vuole un capitolo a parte,e sarà il XV.

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CAPO DECIMOQUINTO

SOMMARIO. – Il primo amore – Quanti sono gli amori – Dif-ficoltà d’intenderli – e più, di nominarli – ad eccezione di uno– L’amore nella letteratura di Luigi Filippo – Nel mondo si fapoco all’amore – Silenzio sulle mie avventure galanti – L’amo-re è il padre della bugia – Teorica della fedeltà – Infelice fined’ogni amore – Vie di cavarsela meno male – Conclusione infavore delle donne – È inutile predicar l’astinenza.

Tutti i politeismi posero l’amore fra le divinità. Pressoi Cristiani e in certo modo Iddio stesso e la sua essenzaprima; così c’insegnano.

Ma questo amore è il più inesplicabile degli arcani.«Vous m’aimez, vous êtes roi et je pars!» diceva a LuigiXIV Olimpia Mancini, partendo dalla Corte per voleredello zio cardinal Mazarino.

Voi mi amate, voi siete Iddio, ed io soffro! Questo di-ce purtroppo la povera anima umana. Ma che giova? Lachiave di questo mistero non si trova in terra. Speriamotrovarla in cielo.

L’intelletto, guida inesperta, inutile in simile laberin-to, ci lascia soli in mezzo alle tenebre. Seguiamo piutto-sto il cuore.

Chi concepirebbe coll’intelletto, chi spiegherebbecon le parole quel primo amore innanzi al quale «nonfur cose create?» Iddio si sente e non si concepisce nè sispiega: si sente come l’amore infinito, come il motoredell’universo; si sente come una protezione, come un ri-fugio; si sente buono, si sente autore per noi d’un avve-nire eterno, inesplicato, chiuso ai mortali; ma felice, av-venturato, giusto e ragionevole, degno infine d’avere perautore Iddio.

Dunque fiducia, cuor sincero, e gettarsi animosi inquell’abisso ove scomparvero prima di noi già tante ge-nerazioni.

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Se poi lei mi dicesse: « io non sento questo vostro Id-dio»; risponderei: «me ne dispiace, ma non so che far-ci». Ma codesto amore, l’amor di Dio per la sua creatu-ra, e di questa pel suo creatore, se è il primo, non è ilsolo. Qui i problemi si moltiplicano. Che cosa è nel cuordell’uomo l’amore? L’amore di sè, degli altri, delle idee,delle cose? Qual è l’amor vero, quale il falso? Qual èl’amor virtuoso, quale l’iniquo? Quale il nobile, il gene-roso, quale il turpe, l’abominevole ec. ec. ec.? Di questisimili ce ne sarebbero le centinaia. Ma tutto è confuso,indefinito, illogico, tutto è lotta e contraddizione in que-sto gran regno dell’amore, e perfino la lingua se ne ri-sente.

Quale inconcepibile povertà d’espressioni, quale in-decisione! In francese, in quella lingua che mi sembrapure il più perfetto istrumento inventato dagli uominiper comunicare fra loro; in quella lingua, che e la piùprecisa, la meglio profilata, la più logica di quante neesistono (io ne, parlo poche, purtroppo, ma credo veroil mio asserto); ebbene, in francese per esprimere l’amo-re non v’è che un vocabolo: j’aime Dieu, j’aime ma pa-trie, j’aime ma mère, l’aime ma maîtresse, j’aime la scien-ce, j’aime le vaudeville, o j’aime les épinards au jus, esempre j’aime!

In Italia c’è poco di meglio, come in inglese; ma alme-no posso mettere gli spinaci in una gerarchia diversa daquella della patria e della famiglia, e dire « mi piaccionogli spinaci,» come «I like spinage « ed «amo la patria,»come «I love my country!»

Questa povertà, quest’indefinito della lingua sarà essopure effetto del caso? O sarà invece un difetto che do-minò necessariamente il nascere, il formarsi, l’educarsidella lingua? Sarà quindi un’inconseguenza, un errore dilogica, ovvero l’applicazione invece del suo senso piúsquisito?

Se l’ultima ipotesi fosse la vera, la lingua non avrebbe

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che il vocabolo amore ed il verbo amare, perchè l’amoresarebbe uno solo e le applicazioni sarebbero molte, masin ora mal comprese e mal definite. Quindi incertezzaed oscurità.

V’è bensì un amore compreso, definito chiarissima-mente, e conosciuto da tutti; per il quale la lingua hatrovato, se non il verbo, il sostantivo adattato, anzi n’hatrovati due – l’amor proprio, l’egoismo.

Forse allora si potrebbe dire che l’amore pel caro sestesso avrà il nome ignobile d’egoismo, e l’amore inveceper un oggetto fuori di noi, qualunque sia, porteràesclusivamente quello nobile e bello d’amore.

L’Europa ha grandi obblighi alla Francia; e l’Italiagliene ha poi di grandissimi dopo Solferino. Non v’èdubbio che dalla Francia raggiò quella gran luce chemostrando al mondo la sua deformità, fece che se nevergognasse, e l’indusse a cercare di mostrarsi in migliorarnese. La Francia coll’intelligenza e colla penna otten-ne una reale e benefica vittoria sul mondo; ma io che so-no amico e non adulatore dei Francesi, dico loro: «avetefatto pagar all’Europa i benefizi vostri.» Chi vide mai inaltro tempo una inondazione di libri fatti apposta perpervertir la nostra natura, eguale a quella della letteratu-ra detta di Luigi Filippo…. e seguito?

Quelle opere d’immaginazione, i romanzi più di tutto(ne ho visti de’ tristi esempi) hanno veramente inoculatoumori malsani all’Europa. Unico scopo degli scrittori –le eccezioni son poche – fu il far quattrini – quindi riu-scire, quindi lusingare tutti i brutti istinti delle moltitu-dini: e siccome a commuover queste, la vera e santa de-mocrazia della eguaglianza avanti ad ogni legge servemolto men o a chi vuol farsi ricco e andare in carrozza,di quell’altra democrazia che se ne ride, quando può,d’ogni legge, ed è l’apoteosi del laido e del brutto; gliscrittori, per fare la corte alle moltitudini, hanno ne’ lo-ro libri proclamato il trionfo del turpe. Per un gran pez-

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zo le mantenute (non dico cose nuove), i galeotti, gliomicidi, i birbi d’ogni razza hanno figurato come solicapaci d’atti eroici a fronte de’ galantuomini, dipinti co-me balordi o impotenti; e le idee semplici, che rimaseroin fondo al cuore dopo tali letture, furono e sono che ladistinzione fra il bene ed il male è lo spauracchiodegl’imbecilli; che le passioni violente sono segni di for-za, mentre e precisamente il rovescio; che il segno infal-libile di assoluta superiorità morale è il non sentire ri-spetto per niente, mentre è esattamente il contrario: equanto all’amore, antico e non mai logoro perno sulquale s’aggirano gli scritti destinati a piacere ai più, midica, signor lettore, dove ha mai trovata nei romanzifrancesi del genere, una figura di pudico e grazioso dise-gno come, per esempio, la Lucia di Manzoni; una figuradi brava donna che sia insieme naturale, simpatica egentile? L’autore talvolta (è facile accorgersene) vorreb-be presentare qualche cosa d’angelico, qualche fior d’in-nocenza, qualche essere spirante purezza e candore. –Ma, Dio benedetto, che fatica! che sforzo incessante,quale mancanza di naturalezza, di semplicità vera, dimodi piani, agevoli, scaturiti spontanei dalla narrazionee dai fatti. Si capisce così bene che l’autore volendosi al-zare sopra il proprio livello, è costretto a camminare suitrampoli.

Ma venga invece la scena delle mantenute a cena, lascena degl’intingoli, de’ vini, delle argenterie, de’ lumi,delle toelette scollate; che abbondanza, che verità, chebrio d’immagini, di descrizioni, che ispirazione nello sti-le, che fiume d’eloquenza! Si capisce che all’autore vie-ne l’acqua alla bocca; che egli si trova nel suo elemento,e non vede l’ora d’aver riscosso il prezzo del suo mano-scritto per mettersi a tavola, o forse sotto, anche lui!

Codesta letteratura è una delle cagioni dell’abbassa-mento notevole che ognuno conosce nel termometromorale della società leggente d’Europa. Dalla giovane

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dell’alto mondo, che legge di contrabbando, sino alla fi-glia della portinaia, che ruba al sonno per darle ai ro-manzi le poche ore di riposo concessele dalla modistaper la quale lavora, quanti disordini, quanti inganni,quanti pervertimenti senza riparo! E tutto ciò perchè?Andiamo all’ultima analisi. Perchè il signor tale, scritto-re, voleva avere sei cavalli in stalla, col resto; e perchè sa-peva che il pubblico, il re d’oggi, a somiglianza di moltire d’ieri, paga bene chi adula i suoi istinti ignobili, e pa-ga meglio chi in essi lo serve.

Ora finalmente dopo tanto discorrere ci vuole unaconclusione, e la conclusione sarebbe questa:

Nel mondo si fa all’amore molto meno di quello chegeneralmente si crede.

L’amore il più delle volte è conseguenza della pigriziae dell’ozio: ed è un prodotto artificiale della letteratura.E la letteratura francese ne ha fatto un ignobile capo dispeculazione.

Queste idee, come al solito, sono frutto di mie osser-vazioni e me le sono fatte da me. Non per questo le doper infallibili. Non so che cosa ne penserà il signor letto-re. Probabilmente però mi dirà: – tutto va bene ma cisono persone che non sanno nè leggere nè scrivere, chelavorano come cani, eppure sono innamorate. – Rispon-do.

Prima di tutto fra questi innamoramenti non ce n’èdue della medesima essenza; e bisognerebbe far l’analisichimica di tutti per valutare il pregio di ciascuno. Siamointesi, come lei sa, che, parlando della rarità dell’amore,ho voluto specificare quell’amore che fa preferire al pro-prio il bene della persona amata, altrimenti, come s’è ve-duto, non è più amore, è egoismo. E se facessimo passa-re al lambicco gli innamoramenti in genere, crede lei chene verrebbe fuori un’essenza limpida come acqua difontana?

In secondo luogo, lasciando da parte analisi e lambic-

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chi, la questione si riduce a dire che ogni regola ha le sueeccezioni, e lo concedo. Lo concedo talmente, che senzacercar più lontano, eccomi qua io in persona per servired’eccezione e di conferma alla sua riflessione.

Io in gioventù non lessi, si può dire libri d’amore: la-vorai, e lavoravo al punto d’essermi ammalato più d’unavolta, eppure ebbi una natura così impressionabile, cosìappassionata, che mi sarebbe impossibile l’esprimere laviolenza delle tempeste che in questo genere ho dovutoattraversare. Dieu merci, c’est fini! diceva Richelieu.

Ora dunque parrebbe giunto il momento di princi-piare a narrare le mie passioni d’amore, e raccontarlepoi via via a misura che si presentano.

Ma penso di non farne niente, ed eccone le ragioni.Prima di tutto in questo genere, mutati i nomi, ritor-

nano sempre le istesse storie.In secondo luogo: leggendo le vite autografe degli al-

tri, e trovando descritte le loro conquiste, gli autori misono sempre sembrati un po’ ridicoli. Quelli poi ches’inteneriscono ricordando la strage che menarono neicuori femminili; quelli che trovando, verbigrazia, unadonna in una bottega, , che si misura un par di guantiche li guarda tanto per non farsi pestare il vestito, met-tono anche lei nella lista delle conquiste; quelli final-mente che spargono fiori sulla tomba di qualche angio-letta morta d’amore (o di gastroenterite) per loro; tuttiquesti sfoghi d’un cuore inconsolabile versati nel vastoseno del pubblico m’hanno sempre fatto il senso d’unadelle più allegre mascherate della vanità umana. Dun-que raccontar fortune è ridicolo, raccontar poi fiaschi...parliamoci chiaro, caro lettore, non trova che si può cer-care un argomento più divertente? Perciò la meglio ènon raccontare ne bianco ne nero. Queste sono le ragio-ni del tornaconto: ecco ora le ragioni della convenienzae del cuore.

L’affetto vero, leale, incondizionato, è un gran tesoro;

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è il più grande che esista. Se vi fu donna che ve ne dessetutte le prove possibili, dovete in ricambio gettare il suoamore alla pubblicità? Non si dicono i nomi, lo so. Machi fu conosciuto da molti, può egli velare i fatti, i diver-si periodi della propria vita al punto che i nomi non s’in-dovinino facilmente?

Ho sempre considerata l’ingratitudine come una dellepiù ignobili depravazioni dell’anima umana. Ma l’ingra-titudine verso una donna che v’abbia amato veramente,lealmente, fosse anche per un’ora sola, mi sembrò sem-pre una delle ingratitudini più basse. Che poteva far dipiù, la poverina, qual bene, qual felicità era in lei chenon v’abbia donata coll’amor suo; quanto non arrischiò,quanto non affidò alla vostra lealtà ed all’onor vostro, evoi calpestereste tutto ciò; tradireste la sua fiducia, lamettereste per le bocche di tutti per la più stupida dellevanità?

Siccome è ben raro il caso che un uomo, fosse purepoco aggraziato quanto si vuole, non abbia in vita suatrovato amore, o d’un calibro o d’un altro, la regola mi-gliore per tutti è non parlarne, e meno ancora scriverne.

È verissimo che dal racconto di simili fatti si potrebbeottenere anche un bene ragionandovi su, e cavarne qual-che bussola all’uso di quelle povere navicelle che metto-no alla vela per la prima volta, piene di speranze e d’illu-sioni, in quel mare che davvero può dirsi per eccellenzal’elemento infido. Così per salvare capra e cavoli, mi li-miterò ad esporre fatti in generale, e su questi indicheròalcune riflessioni.

Il maggior danno dell’amore, quale spesso esiste nelleclassi leggenti sta nella necessità della bugia continua.Chi fa all’amore è raro che non sia costretto ogni mo-mento a dire o a fare qualche bugia. Quindi si diventaper abitudine finti. Il carattere si falsa, e presto v’accadecome a coloro che non hanno orecchio in musica: le bu-

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gie, come le note stonate, non vi fanno più nessun sensospiacevole.

Io non caddi mai in quella bugia... altro che bugia!perfidia dell’amore a freddo e per calcolo. Non ho maidetto e cercato persuadere ad una donna che l’amavo, senon era vero. V’è pur troppo, e non è tanto raro, chi ve-de una donna giovane, unita e d’accordo col marito,amante della famiglia, felice in casa, senza misteri, senzafastidi, sempre colla mente allegra ed il cuore sereno,v’è, dico, chi la prende di mira, si figge in capo di deva-stare un così ridente giardino, e renderne miserabili gliabitanti per poter dire poi: – ci sono riuscito! V’è chisenza sentire amore, senza ombra di passione, prende adeseguir l’impresa, con un fingere continuo, col presen-tarsi alla povera vittima qual modello di delicatezza uni-ta ad un amore invincibile. Ordinariamente la donna èbuona, confidente, ignara delle turpitudini umane. Cre-de, s’abbandona, e la felicità, la pace, l’avvenire di moltepersone è spesso perduto per sempre... ed agli autori diquesti disastri ogni casa è generalmente aperta, mentres’impicca invece chi assalta alla strada! E dicono che c’ègiustizia!

In questo non ho rimorsi. Quando m’accadde di pro-nunziare quella fatal parola, io t’amo, e dirla sul serio, enon per barzelletta, era anche troppo vero.…

Nella prima adolescenza vissi da birichino, nè più nèmeno; non m’accostavo se non a birichine colle quali laparola amore non era moneta corrente. Più innanzi ebbiun brutto stadio, che però durò poco, d’avere due o treinnamorate in una volta, più per mattezza, che per altro;venne poi il giorno che m’innamorai davvero con unaviolenza indicibile. La cosa durò molti anni. Intanto iomi andavo maturando col vivere e coll’esperienza; il fin-to, il falso, mi veniva ogni giorno più in uggia; cercavo infatto di bugie di ristringermi, come si fa talvolta nelle fa-miglie per la spesa, al puro necessario; e fui così condot-

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to a formarmi una massima non molto praticata dalmondo giovanile: che si deve dire la verità e mantenerela parola data, a tutti.… persino alle donne! –

Perciò credo d’essere stato uno degli uomini che hapiù praticata la fedeltà: principalmente per il motivo chenon avrei potuto negare l’infedeltà, se fossi stato interro-gato e messo co’ piedi al muro. Più che fedele ero dun-que veritiero. In effetto solevo dire: – in amore la co-stanza è il necessario, la fedeltà è il lusso; – e lo dicevoun po’ per burla, un po’ davvero.

E realmente si può ben odiare molte persone in unavolta; perchè invece non s’hanno da poter amare? Adegual grado no certamente, ma a grado diverso?... Lacostanza e nell’essenza d’ogni passione vera, radicata nelnostro cuore; ma quella fedeltà nelle minuzie, non sa-rebbe per caso da mettersi fra le lambiccature de’ lette-rati?

Certe lettrici che so io, se potessero avermi a tiro, micaverebbero gli occhi, Dio sa con che sapore, per questadottrina rilassata! Il curioso è che, ad onta di tali teoriesulla infedeltà, nella pratica, come dissi, sono stato tuttol’opposto. Ma, ripeto, era più che altro ripugnanza almentire.

Pel motivo medesimo, non ho mai spinto la bugia alpunto di far l’amico ad un marito per addormentarne lavigilanza. M’è sempre sembrato, come è in fatti, unbrutto ed ignobile atto. Questo è il gran male di codestiamori; il carattere vi prende tristissime pieghe, che ri-mangono anche a cose finite. Siccome l’amore ha il suoprincipio, così ha pur troppo (o per fortuna secondo ca-si) il suo fine. Questo fine non si raggiunge mai da dueche si amino, il giorno e l’ora medesima. Mentre unadelle parti dice basta, l’altra direbbe ancora. Una voltasola mi sono trovato a recitare io la parte del basta, edho pensato che la più spiccia era confessarlo, e così hofatto, per economia di bugie, quanto (a dir il vero) per

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economia di noie, di lamenti e rimproveri sempre inutili;poichè degli uomini si dice che ne son risuscitati, manon ho mai inteso dire che sia risuscitato un amore, emolto meno in virtù de’ piagnistei.

Se una volta recitai la parte del basta, due altre peròrecitai quell’altra dolorosa dell’ancora, e fu tale il miosoffrire appunto per non volere scendere alle recrimina-zioni ed ai lamenti, che c’ebbi a lasciar la pelle:

«Le bruit est pour le fat,La plainte est pour le sot,L’honnête homme trompéS’éloigne et ne dit mot.»e questo fu il sistema che adottai.Potrei allungar dell’altro questo capitolo, chè la mate-

ria non verrebbe meno. Ma credo che quello che ho det-to basti a dar conoscenza di me su questo particolare.Scrivendo la mia vita bisognava pure che ne parlassi.

Le conseguenze da cavarne è un affare che spetta allettore. Egli ha in mano il sunto del mio processo. Le ri-flessioni poi che emergono dai fatti esposti, e che forsepotranno servire alla gioventù (per quanto in fatto dipassioni servono precetti e prediche!), ecco quelle chemi sembrano più ovvie. Gli amori illeciti, oltre il maleintrinseco che possono avere, sono una sorgente di guai,dispiaceri e sventure talvolta, dato l’attuale ordinamentodella società. Perciò lo starne lontano, se si può, è tuttoguadagno. Se non si può, due cose almeno sono da av-vertire: di fare agli altri come a sè il minor male possibi-le. A sè, cercando sostenersi contro l’invasione dellamenzogna ridotta a sistema e ad abitudine; agli altri, nonsimulando mai un passione che non si sente e non sacri-ficando mai alla propria vanità la pace, il bene e la feli-cità di chi ebbe la sventura di essersi trovato sulla vostravia.

Queste idee non le do certamente quale espressione

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d’una teoria morale completa ed esatta. Ma le credo pra-tiche e quindi utili.

Per spiegare quello che penso di me, salvo errore,dirò che non credo essere stato cagione di gran male adaltri; ma mi sono fatto molto male a me. Ho dovuto la-vorare assai sul mio carattere per ritornarlo poi, retto,sincero, e limpido come naturalmente l’avevo avuto dal-la natura. Ho tanto sofferto per la sincerità, e per larealtà de’ miei sentimenti, che certamente ho lasciatoper via una porzione di vitalità e di salute che potevomolto meglio impiegare in servizio del mio paese. Ri-pensando al passato, mi par di vedere che per la since-rità appunto del mio cuore, e per l’intero abbandonofatto di me, sono spesso venuto a noia: e pur troppo hofinito per sospettare che poche donne possono vera-mente e lungamente amar d’amore un galantuomo. For-se la colpa è più del galantuomo che di loro.... Malgradotutto questo, l’impressione che serbo di quanto ho pro-vato e veduto, e che generalmente le donne valgonomolto meglio degli uomini. E se ho dovuto molto soffri-re per loro cagione, ho però trovato una volta il com-penso d’un affetto che mai non mi venne meno, e sem-pre si mantenne indipendente da ogni qualsiasi vicenda.Chi può dire altrettanto, si contenti. Non molti lo posso-no.

E con ciò chiudo il capitolo. Non mi fo nessuna illu-sione circa le conversioni che dovrebbero essere il fruttodelle mie sagge riflessioni. In tutto, e in ispecie in amore,chi non vuol provare da sè?

Provate dunque, giovanotti; e così fra cinquant’annipotrete poi far la predica a chi verrà dopo, come la fo ioora a voi... e forse... col medesimo frutto.

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CAPO DECIMOSESTO

SOMMARIO. – Ritorno da Roma a Torino – Francesco IV diModena – Corsa a Venezia – Condizioni della società torinesenel 1820 – Società segrete da me sempre sfuggite, e vantaggiche me ne vengono – Osservazioni sui moti politici del 21 inPiemonte – Le rivoluzione militari peggiori di tutte – La resi-stenza passiva contro i governi ingiusti preferibile generalmen-te alle violenze rivoluzionarie – Esempi tratti dai Lombardi edai Veneti – Conchiusione di questo argomento – La state del1820 e il conte di Benevello – Elogio di questo degno gentiluo-mo – Difficoltà di vivere in pace col mondo torinese d’allora –Persisto nella risoluzione di lasciare definitivamente la milizia,e tornare a Roma a perfezionarmi nell’arte – I miei parenti, do-po molte titubanze, consentono – Critiche del fatto nella città– Dialoghi che dà un’idea dell’alta società torinese nel 1820.

Nella primavera del 1820 i miei parenti lasciaronoRoma, con loro mi ricondussi a Torino. Si tenne la stra-da dell’Umria e della Toscana; da Firenze per Bologna sigiunse a Modena. Qui ci fu fermata. Mio padre dovetteandare a far riverenza al Duca, che allora non aveva ac-quistata quella notorietà di direttore di polizia coronato(e potrei servirmi di frase meno civile) che ebbe in ap-presso. Ma sempre era un arciduca d’Austria, che colmezzo del nome di casa d’Este, cercava farsi accettare;era sempre uno dei sostegni di quella trista genìa cheopprimeva il mio paese. Per fortuna non avevo mecouniforme. Sempre l’ho scordata volentieri come occasio-ne prossima di molti mali. Addussi a mio padre questovittorioso impedimento, ed egli se ne contentò. Ma ilDuca volle esser meco gentile, e mi fece dire d’andarecome mi trovavo; e così lo vidi, e dovetti subire il diver-timento d’un’udienza. Se fu una seccatura per me, il Du-ca credette usarmi cortesia, dunque sia pure FrancescoIV quanto si vuole, o non accettarla o riconoscerla: e co-sì fo.

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Da Modena per Brescello, Mantova, Verona e Pado-va si andò a Venezia. A Verona vidi Pindemonte. A Ve-nezia vidi i due pezzi tedeschi in batteria dinanzi al pa-lazzo Ducale; li vidi di nuovo in quell’Arzanà de’Viniziani «ove bolle d’inverno la tenace pece,» e dovebolliva molto piú a me il sangue nelle vene visitandoque’ grandi spazi coperti, que’ profondi scavi ordinatialla costruzione delle antiche galere, e pensando... Manon son più a scuola e non fo rettorica; dunque, carolettore, se è Italiano, e se sa la storia, quel che pensavo aventun’anni amando l’Italia ed odiando il giogo stranie-ro, se lo può figurare. Oh come mi vergognavo d’essereItaliano! Come smaniavo d’aver un giorno occasionenon dico di battere (mi contentavo d’esserne battutopur di combattere!) i Tedeschi! Ma nel 1820, in maggio,com’era probabile? Perciò vivevo in una tristezza rab-biosa, che sfogavo con sonetti e canzoni, robaccia da farscappare, credo io, anche i Tedeschi se l’avessero uditarecitare.

Un’idea mi confortava: Venezia, Roma, Cartagine so-no state grandi, sono state , forti, sono state prepotentianche loro come Vienna; e verrà il suo giorno per Vien-na come è venuto per loro. Chi m’avesse detto allora chei miei occhi prima di chiudersi per sempre l’avrebberopur veduto! Si passò per Milano, e questa volta non vifeci più la mia entrata «cum fustibus et lanternis» con-dotto in Santa Margherita per mancanza di carte. Ram-mento un aneddoto da nulla, ma che allora mi fece sen-so. Vennero molte persone a trovarci alla locanda, fra glialtri un Monsignore; ma mi è impossibile ora raccapez-zare chi fosse. Parlando del più e del meno, si venne adiscorrere dell’istruzione. Dopo vari ragionamenti, «Iopenso poi,» disse il Monsignore a guisa d’epifonema,«che i popoli ignoranti sono più facili a governare.» Ionon mi meravigliai tanto della massima, quanto di sen-tirgliela spiattellare con quel candore, e pensai tra me

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(ero fresco di Roma) – Monsignore mio, se ti mantienicosì candido farai poca fortuna. – Neppur posso saperpiù se la mia profezia s’è avverata.

A Torino la società era in quello stato d’inquietudinesmaniosa che provano gli ammalati la vigilia d’unaespulsione. Il ventuno, o meglio la famosa Costituzionedi Spagna stava pelle pelle per apparire. Io ero parente,o conoscente almeno, della maggior parte de’ menatori,e molti frequentavano mia cognata. Non ero di nessunacombriccola,non ero carbonaro, non ero di quei mura-tori che non so perchè si chiamano liberi. Se non fosseperchè sono costretti d’ubbidire a due governi inveced’uno. Bisogna dire che la mia fisionomia nin ispirassefiducia come cospiratore, settario e simili: mai e poi maim’è stata fatta la proposizione d’entrare in società segre-te, e perciò non vi sono entrato.

Non ho il coraggio d’affermare che per giudizio pre-coce me ne sia astenuto, poichè a diciotto o venti anni siva a fortuna e non a criterio. Fatto sta che in qualunquemodo fosse, m’è toccato in gran vantaggio di non avermai timore che il mio nome si trovi su una lista di settari;nè che veruno me lo squadri in faccia qual documentodi traditi compagni, o di violata fede; che mai nessuno,mentre ero negli affari, avesse diritto di accostarmisi edirmi in un orecchio: «Ehi signor Massimo, ricordiamo-ci!... ariamo diritto... ec.» e così mi trovassi legato e nelbivio di mancare, o al giuramento fatto al Re come de-putato, ministro, senatore, governatore e che so io; o aquell’altro prestato ad un presidente di vendita di car-bonari: e per terza ed ultima fortuna, siano governi osètte o partiti o chi si vuole, mi potranno voler bene ovoler male, mi potranno lasciare in pace o perseguitare,ed anche ammazzare se occorre, ma darmi del girella,del traditore, li sfido.

Trovandomi dunque allora, come sempre mi sonomantenuto, libero di me, delle mie azioni e perfettamen-

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te indipendente, stavo a veder quel che dovesse uscire ditutto questo guazzabuglio.

I fatti del 21 sono noti, ed anzi quasi scordati oramai.Il mondo ha passate ben altre fortune da allora sino adoggi! Pure esporrò alcune riflessioni che mi si presenta-no a questo proposito.

Per quanta sia la stima e l’amicizia che professo perparecchi capi di quella rivoluzione, dico francamente,che non la posso approvare nè per la sostanza nè per laforma.

Un popolo non si commuove se non per quello checonosce, o almeno desidera. Dunque prima d’iniziarel’azione stabilite l’istruzione, o sappiate almeno destar lapassione, il desiderio.

Le prodigalità di Luigi XIV e successori, i barbariprivilegi del clero e della nobiltà, gli scritti della scuolad’allora, alla quale le vessazioni e le scioccherie del vec-chio sistema, sia politico sia religioso, spianavano cosìdiligentemente la via, istruirono i popoli, accesero in lo-ro il desiderio d’ordinamenti migliori, e la rivoluzionefrancese riuscì! Ma nel 21 in Italia erano troppo freschele memorie della prepotenza militare, del blocco conti-nentale, delle violente annessioni o separazioni di pro-vince e di regni, che avean avuta la loro origine imme-diata nelle ambizioni napoleoniche, e mediata nelle ideee negli atti della prima rivoluzione; memorie che cinqueo sei anni di restaurazione non avean potuto cancellare:però nell’opinione della maggiorità, che per legge di na-tura sono composte sempre dei meno avveduti, le re-staurazioni erano state un ritorno alla vita, un riposo,una felicità, una liberazione d’una tirannia grave edodiata.

Non capivano allora i più che nel ciclo napoleonico latirannia era l’eccezione; mentre nel ciclo delle restaura-zioni era invece la regola. Meglio che tirannia, diremol’assolutismo.

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Quindi la massa era lontana dal desiderare mutazioni.La felicità che la rivoluzione portava alla Spagna non de-stava ancora grande invidia. Onde tutto si ridusse adun’effervescenza isolata, sorta nel seno delle società se-grete; che non s’estese, nè poteva estendersi al resto del-la nazione, perchè erano idee delle quali ancora non ca-piva il sugo e che annunziavano mutazioni che nondesiderava.

Si ebbe un nuovo esempio del buon servizio che ren-dono le sètte: presentarvi la fantasmagoria d’un mondoche non esiste, e quindi gettarvi nell’impossibile. Non ciscordiamo però che le società segrete erano fruttodell’assolutismo sciocco, cieco e retrogrado della restau-razione; onde questa n’era co la vera fonte.

Diceva Cesare Balbo che quel movimento, come ilsuo compagno di Napoli, ritardò di molti anni l’emanci-pazione nostra; e diceva il vero.

V’è poi un altro punto di vista importante. La formadel 21 fu d’una rivoluzione militare, che di tutte è la piùbrutta, la più corruttrice, la più dannosa per cattiviesempi ed interminabili conseguenze. S’io non stimo enon amo un sistema, non lo servo; se ho accettato servir-lo mentre lo amavo e stimavo, e se poi a ragione o a tor-to mi sono mutato, lascio di servirlo. Ma violare la fededata, mai. M’affretto però d’aggiungere che sarebbe in-giusto l’adoperare a priori una logica assoluta per deci-dere del merito o della colpa degli atti umani, in casi diquesto genere.

La vera colpa è l’andare scientemente contro coscien-za: è la coscienza artificiale che io attribuii, come lei for-se sa, alla curia romana, non è però un suo monopolio;l’hanno altrettanto le sètte a lei nemiche; l’hanno e ladanno le passioni, gl’individui stessi.

Chi di noi può vantarsi di non aver mai avuto, fossepure per un giorno solo, la coscienza artificiale?

S’io dunque giudico severamente l’atto della rivolu-

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zione militare, son ben lontano dal giudicare con altret-tanta severità coloro che se ne resero colpevoli allora.

Come esiste il fenomeno dell’allucinazione per i sensicorporei, così esiste l’allucinazione pel senso morale; eda voler pronunciare un giudizio, è elemento del quales’ha a tener gran conto.

Un’ultima riflessione.Anche dopo il 21, per molti anni non si seppe inven-

tar altro per migliorare le cose nostre che società segre-te, colle loro periodiche rivoluzioncine, che duravanoquindici giorni. Fino al 44 o 45, nessuno pensò mai aprender per base l’opinion pubblica e farla sua. La voceautorevole di Napoleone III doveva poi insegnare ai set-tari che il mondo non si commuove colle società segrete;ma colla società pubblica. Ed il suo sistema vediamo cheriesce. Eppure non finiranno per ora le sètte. Andate apersuadere ad un impiegato esser un bene che egli per-da l’impiego!

Tutto ciò si applica alle rivoluzioni condotte colla vio-lenza; in genere esse non hanno la mia simpatia.

Io ho invece sempre ammirato quelle conquiste d’undiritto negato, che s’operarono mediante la resistenzapassiva; e queste conquiste che possono chiamarsi vererivoluzioni mi sono sempre sembrate le più meritorie, lepiù maschie e le meglio assicurate.

La propagazione del cristianesimo fu certamente unadelle maggiori rivoluzioni conosciute.

Essa ottenne che per la prima volta fosse all’uomo ri-conosciuto un diritto, non soltanto perchè cittadino, maperchè uomo. Davanti a Dio l’ultimo schiavo divenneuguale all’imperatore. Quest’idea ha mutato il mondo. Ecome si compiè una tanta rivoluzione? Col saper soffriree morire.

Su una scala minore è pure altrettanto notabile lacondotta dei Quacqueri in Inghilterra, quando l’intolle-ranza della chiesa anglicana perseguitava ogni comunio-

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ne di dissenzienti. Piuttosto che prestare il giuramentoda essi creduto atto colpevole – e se il Vangelo dice noli-te jurare omnino, sembra che, come cristiani, non aves-sero tutti i torti – preferirono andar esuli, o lasciarsi car-cerare; e vi fu un momento nel quale ve n’era in prigionepiù di quindicimila: preferirono soffrire come Cristo,come i primi martiri, e com’essi rimasero alla fine pa-droni del campo.

La resistenza passiva non presenta quelle vicende ani-mate, splendide, appassionate delle aggressioni rivolu-zionarie. Non sarà quindi mai scelta dalla parte giovanedella società, particolarmente presso le nostre razze me-ridionali, perchè appunto esige una tempra inflessibile,e suppone caratteri ne’ quali l’immaginazione sia nulla,o minima almeno. Ma si dica il vero: che cosa è più diffi-cile, dar l’assalto ad un ridotto, ad una barricata, passarefra le palle e le baionette, tra le grida, il fumo ed il fra-casso, e trovarsi presto o dentro o fuori, o sano o steso aterra; ovvero star dieci, cinque, due anni, un anno sol-tanto in un carcere, ove l’animo s’illanguidisce nella tri-stezza del silenzio, della solitudine, del sentirsi obliato;ove il corpo s’accascia per difetto d’aria, di moto, di cibifatti necessari da lunghe abitudini; ove così intensa e lanoia che un passero, un filo d’erba, un ragno furon tal-volta tesori pel povero, carcerato, come fu stimata inau-dita barbarie averglieli voluti rapire?

Di questa fermezza nell’oscuro e lungo patire, ch’iodissi rara tra i meridionali, l’Italia offrì pure nobili esem-pi. Lo sanno le segrete dello Spielberg, come lo ricorda-no con gratitudine, onore, e rispetto quanti hanno uncuore fra noi.

Ma ognuno vede qualdifferenza corra, fra una penache s’incontra per aver aggredito un governo, sia pure il-legale e tirannico, e quella che vi colpisce mentre la vo-stra mano non minacciava veruno, mentre vostro solo

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delitto era non voler rinnegare il proprio diritto, nè farvicomplice della sua violazione.

Nel primo caso v’è sempre per lo meno chi vi tacciad’imprudenza, d’avventatezza; v’è nel cuore umano unsentimento che non permette di condannare interamen-te anche un governo iniquo quando aggredito si difen-de: invece nel secondo caso l’interesse, la pietà, l’onore ètutto per la vittima; l’odio, l’indignazione, l’infamia tuttapel carnefice.

Che cosa disse di fatti la vecchia politica de’ nostri pa-dri? – Non far martiri. – È segno dunque che ad un go-verno ingiusto nuoce più il martire che non il ribelle.

Il diritto vien reso veramente immortale non dallaforza attiva, bensì dalla passiva. Una delle più singolari emeravigliose prove di questa verità l’offre il popoloebreo. Oggi quasi generalmente egli ottiene la ricomi-zione de’ suoi diritti, negatigli dai tempi di Tito in qua.Per diciotto secoli, da un lato stavano due o tre centomilioni di cristiani, e circa cento sessanta di Islamiti;dall’altra, cinque milioni d’Ebrei. Tutti hanno ideadell’accanimento col quale si cercò di sterminarli, di cal-pestare, di spegnere l’ultimo germe di quell’indomabilestirpe di Giacobbe. Chi la vinse alla fine? L’hanno vintai cinque contro i quattrocento sessanta!

La forza passiva venne nobilmente praticata in molteoccasioni dai Milanesi e dai Lombardi. Sono all’attopurtroppo di praticarla i poveri Veneziani. Si confortinoperò pensando alla sua incontrastabile efficacia; e sienocerti che sarà loro l’ultima vittoria. L’istoria poi nonterrà la loro paziente fermezza attuale in minor contodello splendido valore che gli illustrò nell’assedio del 49.Se sarà più lungo il loro soffrire, sarà pure doppia la lorocorona.

Ora dunque recapitoliamo. Se nel 21, invece di quellacieca combriccola di carbonari, che ottenne soltantod’accendere una breve guerra civile, terminata tosto a

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Novara da un corpo austriaco, si fosse dato opera a con-quistare l’opinion pubblica per tutte le vie di pubblicitàpossibili allora, quel mutamento che s’ottenne venti-quattro anni più tardi, quello slancio unanime che inco-minciò nel 1845, e fu ottenuto unicamente colla cospira-zione dell’opinion pubblica, al chiaro sole, poteva forseprodursi prima, e condurci a più pronta e più sana con-clusione.

Ma dinnanzi al campo illimitato delle ipotesi mi fer-mo. Se può essere utile stabilire certi principii, nulla dipiù vano e di più fallace che il ricercare quel che sarebbeaccaduto se si fosse operato così o cosà.

Tutti i gran rivolgimenti, le grandi mutazioni politi-che e sociali si fanno per necessità; si fanno per un com-plesso di cause che nessun intelletto può nè abbracciare,nè dominare; e mentre i pubblicisti si consumano a daredirezioni e precetti, la povera razza umana, simile ad uninfermo nelle sue convulsioni, si abbandona a mille motiincomposti e stravaganti, dai quali la Provvidenza sa poiimpensatamente far scaturire la sua salute, il suo rinno-vamento e la sua tranquillità.

Le rivoluzioni non le facciam noi: le fa Iddio; e perpersuadersene basta riflettere con quali istrumenti rie-scono La nostra, verbigrazia, si vede ch’Egli ha propriovoluto toglierci ogni dubbio che fosse opera nostra.

L’estate del 20 la passai in gran parte in villa seguitan-do i miei studi dal vero. Il conte Benevello col quale vil-leggiavo, ora a Saluzzo, ora al suo castello di Rivalta, eraanch’esso appassionato per l’arte. Pieno d’immaginazio-ne, con squisito senso del colorito, fecondo in idee nuo-ve e spesso bizzarre; d’un’insaziabile curiosità di spiritoche lo spingeva a provarsi in ogni ramo dello scibile,quindi d’un’estesa più che profonda coltura, schietto,semplice, buono nelle relazioni giornaliere, io lo ricordocome uno de’ miei migliori e più simpatici amici.

Egli disegnava, dipingeva, ora figura, ora paese, effet-

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ti di notte, di vapori, di nebbie; non dico che facesse as-sai bene, ma faceva: come in genere nella sua, e possodire quasi nostra generazione, tutti qualche cosa armeg-giavano; tutti provavano un bisogno d’azione, tutti sisentivano spinti a cercare qualche via di distinguersi perquella potente e generale scossa elettrica comunicata al-la sua epoca dall’instancabile attività di Napoleone. Al-lora in Piemonte fiorivano Balbo, Peyron, Plana, Bido-ne, Sauli, Sclopis, Provana, Collegno, Vidua, Santarosa,che tutti corsero più o meno splendide carriere: Bene-vello per gusto d’arte, per desiderio d’istruirsi, e far chealtri s’istruisse, per gli aiuti prestati onde promuovere glistudi, può aver luogo fra loro.

La sua casa era aperta agli uomini di tutte le scienze, etutte le colture. Le prime esposizioni di quadri furonoospitate in una sala ch’egli aveva apposta fabbricata incasa sua e che imprestava gratuitamente. Egli disposestudi per pittori su nell’alto della sua casa. Fatto inaudi-to che un padron di casa torinese combinasse una suasoffitta in modo da offrire luce e spazio per dipingerviun quadro. Benevello s’occupava poi di questi suoi in-quilini, come in genere de’ giovani che si mettevano nel-la lunga e dolorosa via crucis dell’arte. Egli fu de’ primiin Torino che vedesse una differenza fra un artista ed unartigiano, e che aprisse la sua porta ai rozzi seguaci dellemuse. Rozzi certo, ma perchè? Perchè nessuno s’era maidegnato ammetterli in quell’ambiente dove l’uomo si di-rozza, imparando dagli altri ed allargando i limiti delsuo orizzonte.

Il conte Benevello fu in quel tempo iniziatore di mol-to bene pel suo paese. La nostra società d’allora, tutta inriga ed in squadra, ed aliena, come già dissi, dalle novità,si burlava di lui, perchè, infatti aveva talvolta in arte, inarchitettura, in letteratura, idee che davano lauta occa-sione di metterle in burla. Ma solo chi non fa niente ècerto di non errare, di non far dire, e non far pur ridere

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talvolta; e questo era appunto il caso dei più fra coloroche si divertivano alle spalle di quel mio ottimo amico:del resto egli fu buon cittadino, buon capo di casa, mas-saio ed insieme generoso, qualità difficili a combinarsi;fu cortese, ospitale, non passò un’ora della sua vita inquell’ozio che per eufemismo si dice fare il signore.Contemporaneamente (e questo era anzi un difetto dellasua natura) egli lavorava, verbigrazia, ad un quadro d’al-tare, nella camera vicina aveva in azione un’esperienzadi chimica, su un tavolino in un angolo era lo scartafac-cio d’una novella, d’una commedia, d’un progetto d’unachiesa, più in là una macchina cominciata per esperi-mentare un propulsore di sua invenzione, ec. ec. Lei. midomanderà: di tutte queste prove, esperienze, invenzio-ni che cos’è rimasto?

Le rispondo subito. Per l’arte, come per la scienza,poco o nulla. Ma per la vita civile e cittadina, pe’ signorie pe’ ricchi in ispecie, è rimasta una quantità di ottimiesempi. Egli fu molto ricco, e visse, per la persona sua,con una semplicità veramente singolare. Padrone di pa-lazzi, castelli e ville, alle volte capitavo a casa sua, entra-vo nel suo studio, e se poi gli domandavo: « dov’è la tuacamera? » alle volte si trovava consistere in un letto die-tro una scena in una stanza di passo, tal’altra in qualchesgabuzzino nelle soffitte; egli non sentiva bisogni, man-giava ogni cosa, era indifferente al freddo, al caldo, aicomodi, alle eleganze, vestiva a caso, e dormiva poco.

Ecco i belli esempi che rimangono di lui ed onoranola sua memoria. Se troverà imitatori fra i signori, nonsarà stato uomo meno utile alla società che se avesse sco-perto un nuovo sale, un nuovo metallo.

Egli ebbe un figlio, che poco gli sopravvisse, ed eccoun’altra razza di galantuomini che s’estingue. Tuttaviafra le mura della sua casa non si sono smarrite le tradi-zioni della sua intelligente e cortese ospitalità.

Anch’io in quel tempo dovetti avvedermi, quanto fos-

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

se ardua impresa il poter vivere in pace col mondo no-stro torinese, a chi osasse pensare, dire, fare qualche co-sa che uscisse dalle sue idee e dai suoi usi quotidiani.Dio ne guardi! Se uno di noi avesse voluto adoperare ilproprio cervello, cavarne un’idea, lavorarla a punta disillogismi, colla sua maggiore e la sua minore, per met-tersi in tasca qualche nuova conseguenza, onde servirse-ne poi ne’ propri negozi!

Siccome in certi paesi v’è una misura o un peso espo-sto al pubblico, ove verificare se ognuno è in perfetta re-gola; così si sarebbe detto che per la nobiltà di TorinoIddio non avesse voluto fare altra spesa che d’un cervel-lo solo; e collocarlo a Corte, in camera di parata, doveognuno andasse a far provvista delle idee che gli occor-revano.

Ma io a questo cervello sociale non volli proprio ri-correre, e volli, come ho già detto, pensare col mio.

Alla risoluzione presa, grazie a Bidone, di lasciare lavita scioperata e mettermi a far qualche cosa, mio padree mia madre, com’è naturale, avevano applaudito. N’eravenuto il viaggio ed il soggiorno a Roma, durante il qua-le io non avevo punto smentito il mio proposito: avevostudiato, lavorato, non avuto più nulla che spartire concompagnie sospette ( era il tempo nel quale riescii ad in-catenare interamente le più potenti tendenze d’un gio-vane sui vent’anni); ma non per questo mio padre avevavoluto che fossi interamente sciolto da’ miei legami collacarriera militare.

Com’è naturale, egli temeva sempre che quei miei fu-rori artistici fossero un fuoco di paglia, e che mi trovassiun giorno perduta la mia anzianità ed il mio postonell’esercito, senza compenso corrispondente.

Ora però era venuto il momento d’una risoluzionedefinitiva; o riprendere il servizio come carriera, o scio-gliersi affatto da ogni legame, per poter seguir l’altradello studio e del lavoro libero ed indipendente.

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Io persistevo nelle mie risoluzioni. I miei parenti titu-bavano sempre, pensando che alla mia età mandarmi so-lo, senza direzione, senza nulla che mi tenesse in freno,in una città come Roma, a coltivare per l’appuntoquell’arte che mette un giovane nelle più bizzarre, piùallegre, più sbrigliate compagnie, ed altrettanto più peri-colose, fosse un giocar me, la mia salute, il mio morale, ilmio avvenire, come si suol dire, a arma o santo (face oupile). Io allora mi impazientivo di tanti dubbi, di tantepaure. Ora sento al cuore l’ingrata ingiustizia di quellemie impazienze; ora comprendo quanto cotali sospettifossero naturali in chi conosceva la mia natura, e m’ama-va tanto svisceratamente come mio padre e mia madre.

Essa che sempre al marito, ai figli, alla famiglia sacri-ficò sè stessa, inclinava a lasciarmi tentar la prova, e miopadre non disdiceva risolutamente, finchè in ultimoinoltrandosi l’autunno bisognò pur decidersi, e vennedeciso il sì.

Questa risoluzione fu prova di fermezza quanto dibuon giudizio ne’ miei genitori. Ora non sembrerebbese non cosa naturale e che andasse da sè. Ma allora il ca-valier Massimo d’Azeglio che lasciava il suo posto inPiemonte Reale, o nelle Guardie, per andare a Roma afar il pittore!…. queste 24 parole accozzate insieme inun solo periodo, esprimevano per la nostra società il ri-torno del mondo nel caos, e l’abominazione della deso-lazione.

Per dar un’idea completa d’un tempo così fuori ora-mai delle nostre idee, la più sbrigativa e la più esatta sa-rebbe supporsi in una conversazione d’una casa dellavecchia nostra nobiltà, nel 1820. Il male è che se si fa ildialogo in italiano, non c’è più couleur locale, e rimanescipito. Bisognerebbe proprio farlo in piemontese. Nontutti lo capiranno... ? Oh bene!... chi vorrà capirlo, se lofarà spiegare; chi non vorrà, avrà perduto poco. Anzidebbo avvertire il lettore che se io mi ci diverto a far

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questo ritratto d’un mondo che tanto ho conosciuto, alui può riescire poco interessante il quadro. In tal caso èpresto rimediato: si salta.

Ben inteso, presento i tipi non le persone; queste leimmagino. Poichè ci siamo, facciamo un po’ di campoalle figure, e descriviamo la scena.

Palazzo, architettura del 1600, in via ***. Entrata peri legni, portone, atrio, cortile, dal quale si gode la vistadi case vicine, con non meno di dodici lunghe ringhiereterminate da dodici ec. ec., solo genere di pubblicitàpermesso allora dal governo. Di portinaio, ben inteso,non se ne discorre. Non ci sono ora i portinai (o se tal-volta ci sono, avendo il solo incarico di chiudere il por-tone alle undici, abitano talvolta in soffitta); si figuri seci erano quarantatrè anni fa! Scalone a stucchi del tem-po, al quale per compimento ci sarebbe voluto, secondolo stile, un parapetto a colonnette di marmo o almen distucco; ma nel meglio l’avo o il bisavo aveva dovuto an-dar alla guerra, provvedersi cavalli, armi, equipaggio dicampagna, gli eran però mancati i soldi pel palazzo; e loscalone s’era dovuto rendere provvisoriamente pratica-bile mediante una mantegna o stanga di noce, che da-tando dai tempi di Catinat o di Vandôme, ha ora presauna patina scura e lucida, sotto le dita di quattro o cin-que generazioni. La detta stanga non fu mai mutata per-chè i successivi padroni sempre fecero questo ragiona-mento: – siamo saliti così fino ad oggi, potremo salireanche domani.-

La sala d’un palazzo torinese era ancora nel 20 uncomposto così curioso, che chi non l’ha visto non se nefa idea, e merita d’esser descritta. E badi, suppongo unacasa ricca, sala a stucchi, e scompartimenti, dipinti atempera, od occupati da quadri a olio insecchiti, scro-stati, sfondati, bucherati dai proiettili de’ signorini di ca-sa. Un gran cassabanco, che la sera si trasforma in lettoper chi dorme in sala, coperto di un panno verde a fran-

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ge, usato e tempestato di frittelle d’olio; una lucernad’ottone (supponiamo il momento della conversazionedi prima sera) e il lucignolo con tre dita di fungo che fi-la. Accanto, su una tavola, l’esercito schierato delle scar-pe di casa: scarponi di panno o di pelle dante di un vec-chio zio cavalier di Malta, podagroso; stivali allaSuwaroff in forma, cogli sproni ai tacchi dell’uffiziale;scarpe colle fibbie d’argento del prete, scarpette della si-gnora, scarpini delle ragazze e de’ bambini, colle spaz-zole, la boccia, la scodella del lucido ec., e il muro vicinoschizzato a porfido dal lavoro delle spazzole. Più in làLafleur o Alban, un servitore qualunque di Viù in livreadi casa, bigia, non fatta al suo dosso, calzoni corti, calzenon illibate, che cena su un angolo d’un trespolo. È diguardia in sala, quindi non cena in cucina. Poi visibili adocchio nudo in un angolo, le granate, la cassetta dellaspazzatura, un treppiede con catino e secchia di rame;su un’altra tavola (tutti scompagni) candelieri con moc-coli di sego, lucernine per la gente di servizio ec., insom-ma tutto il materiale di confidenza della macchina do-mestica esposto agli occhi del pubblico.

Dalla sala (delle due anticamere si tace per brevità)saltiamo ove sta e riceve la vecchia marchesa Irene d’Crsentin padrona di casa. È cagionevole, e la troviamoin camera da letto. Essa ha passati i settanta. Viso palli-do che par di cera, lineamenti delicati, signorili, espres-sione dolce, mediocremente intelligente. Porta una cuf-fia anfibia tra il vecchio e il nuovo, un abito scuro; hadavanti un tavolinetto antico lavorato di tarsia; fa la cal-za, calze grosse per i poveri, al lume d’una lampada co-perta da un cappello che ravvolge nell’ombra tutta la ca-mera, meno un tondo in alto che mostra la volta astucchi messi a oro ed un altro tondo di luce che illumi-na il tavolino ed un breve spazio del legno lustro del pa-vimento. In quelle tenebre visibili, dell’intonazione d’unquadro di Rembrandt, si vede e non si vede un mondo

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di forme indecise: un letto alla duchesse, cortine e paretiin seta a fiorami. A capo al letto una madonna d’autore;sotto, una popolazione di santini e santine, di cuor diGesù, d’agnus Dei. – Lei s’aspetta che nomini santa Fi-lomena? Ma essa stava ancora in mente de’ ReverendiPadri, perciò non ci poteva essere. Dopo i Santi, a qual-che distanza, i ritratti di parenti e amici. I nonni e i padriin ailes de pigeons; poi i successori in abito dei tempi deldirettorio; più in qua qualcuno in uniforme napoleoni-co. A far corona alla padrona di casa, poltrone e sedieche aspettano i soliti del crocchio e ne presentano l’im-pronta. V’è già il general San Rouman cugino della Mar-chesa, che ancora non s’è saputo spiegare perchè LuigiXVIII abbia data la charte, mentre poteva contentarsi dirimettere i parlamenti.

V’è l’abate Gerando elemosiniere del re. Egli vededappertutto giansenisti imboscati, pronti a gettarsi su unpadre gesuita; la notte sogna che Nicole, Arnaud, Que-snel sono elemosinieri di corte, e che la bolla Unigenitusè stata ritirata.

V’è il capitano marchese d’ Rubiera, già maggiore del18° Dragons, nipote della padrona di casa, e che ha per-duto un grado come tutti i napoleonici. Per poter perde-re questo grado in Piemonte, aveva però dovuto perdereprima mezza spalla in Spagna, e due dita rimaste sullaneve della Lituania; nè aveva mai capito come le dueprime perdite dovessero aver per necessaria conseguen-za la terza. – Quarantatrè anni dopo, non lo capisconeppur io.

Il capitano non è una cima, ma uomo è che ha girato,veduto, e qualche cosa ha imparato. La conversazionelangue; soltanto fra il generale e l’abate, seduti vicino, sicontinua a mezza voce.

GENERALE. Ma sentlou nen? I tournou a dije ch’a l’è

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pousitiv. A s’raduna un congress... a parlou d’Troup-pau….e a pijran d’mësure.

ABATE. Ma mi i vourria ch’ai fërteissou prest. An Spa-gna a ved a che mira ch’i souma; ades ai sauta su Na-pouli.… e Dio veuja.…

GENERALE (guardandolo colla coda dell’occhio e iro-nico). Chiel, abate, ai smija d’ vëdje già an piassa Ca-stel, neh?

ABATE. Dio an dësfenda! I diou pa lo’.… ma....GENERALE. Ch’a viva tranquill; souma pà a Napoli si.

De ste balade a j’e gnun ch’a na veuja për sù da si. Aipensou gnanca.

MARCHESA. Me car abate, për carità, n’alou ancournen prou? Mi ch’i soun veja, e che j’eu vëdù passè tu-ta la lanterna magica…. fouma’l count: souma dëlvint, dl’outateneuv a l’han comenssà.... trant’un anbei e giust.... veullou ancor nen ch’a sia finia?

CAPITANO. Ch’a dia, magna, ma a l’è ch’ la gent a l’acambià.... fussou sempre i stessi, seu d’ co mi ch’a sa-ria finia. E peui, venta d’ co vëde.... s’la gent a bougia,e s’sentirà a fè mal. (Non è impossibile che nel capita-no, fra la perdita del grado e qualche missionario chegli si sia messo attorno, il liberalismo non venga cre-scendo a vista d’occhio ogni giorno.)

MARCHESA. Voui autri na sevi pi ch’ mi: mi soun’ napovra dona, e j’eu nen studià politica.... Ades tuti al’han pia coul vësou d’lamentese!.... sarà!... Mi, lo ch’ipeus dive a l’è, ch’ prima dl’outanteneuv, mi trouvavach’as vivia benissim, mei d’adess d’un bel toch.... tutil’erou countent coum d’ papa.

CAPITANO (sorridendo). Ch’am përdouna, magna….,ciouè, nouj’autri sgnouri già ch’ j’erou countent, maj’autri?...

MARCHESA. Ma no, me car Edouard, ma no... crëdepura (scuotendo il capo e sorridendo); voui avì sërvìl’autr, e se’ stait an mes ai giacoubin tanti ani.… già

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ch’ lour av disiou pa ch’a se stasia mei prima; ma mich’i jera e ch’i j’eu vëdu lò ch’iv diou.… ma crëde!...ch’el popoul e la boursoasìa e i païsan…. Oeuh! Imarcordou quand a l’era viv povr Crsentin, ai vniasouens a disné l’avocat Silveran, ch’a l’era’l cassié d’San Paoul; ai vnia coul povr doutour Araldi, e peui ancampagna... a Bërnasca douv’ j’andasiou, ai vnia tuticoui monssù dël païs….i j’eu mai sentì un get…. maisentì dì ch’ gnun as lamenteissa. No, no, crëde unpo’d’ co a le veje... A l’è ch’dop ch’a l’an coumenssàVoltaire e coumpagnia bela a guasté le teste d’ la gent,tuti s’ lamentou, s’ lamentou, tuti criou....

CAPITANO (sorridendo ironico). Veulla dì magna, ch’a sia la biava ch’ai foura i budei?

MARCHESA. (sorridente e amorevole) Valou ben, ba-rivel, burlesse d’magna?

SERVO (apre la porta e annunzia). Soura countëssa Da-tis. (Donna sulla cinquantina, figlia della Marchesa,ex incroyable (elegante Lionne) dell’Impero; si è bi-sbigliato anzi nel tempo di qualche passione francesealto locata. Figura ben conservata, ancora piacente,vestita con gusto e distinzione, fare disinvolto, talentonaturale. Entra, e va diritto alla madre: s’abbraccia-no.)

MARCHESA. E boundì, Gina! (abbreviativo d’ignotaradice).

CONTESSA. Cerea mamina! general! abate!... CiauEdouard! Oh! iv crëdia d’sërvissi dël Prinssi. (Princi-pe di Carignano, Carlo Alberto.)

CAPITANO. No, a l’è Coulegn. (Intanto la Contessa s’èravviati i ricci allo specchio sopra il camino, s’è messaa sedere accanto alla madre e dà un respiro di soddi-sfazione.)

CONTESSA. Abate.… brav.… darè d’ chiel, ch’a guar-da s’ la cadrega.... coul cavagnett.… brav, giusta lo’.(Riceve il panierino, ne cava un ricamo e si mette a la-

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vorare). Oh! ch’a coumensa a deme d’ soue noeuve(alla madre).

MARCHESA. Eh! i soun pa gnanca staita brillianta dajer seira. Staneuit i j’eu tourna avù me doulour pifort.… e ancheui i soun ben’prou staita stoufia tut ‘ldì.

CONTESSA. Ma, elou vera, mia cara maman, ch’ sta-matin a l’era a San Flip al triduo?

MARCHESA. Già ch’i j’era.CONTESSA. Oh! ma, cara maman, a venta propi ch’i la

cria. Abate.... general.… ch’am agiutou....MARCHESA. Ma, mia cara fia, veustu nen ch’i vada al

triduo për coula povra Mountanera?... E coum’elastaseira?...I j’avia dit al caroussè ch’andeissa a piened’neuve.… Edouard, souna un pò’l ciouchin! (dirin-dindin dirindindin. Capita Alban). Giouan elotournà?

ALBANO. Nossgnoura.MARCHESA. Che mineui ch’ l’è peui mai coul

Giouan? Dunque na sastu quaicosa ti, Gina?CONTESSA. A m’an dime ch’a l’è sempre parei, jer a

l’an faie fè l’oundecima sagnìa; a dviou ciamè Tarelaan counsult. I lou seu da la Zei, ch’a j’a passà la neuit.

MARCHESA. Padre Mellini ch’a l’è so counfessouram’na parlava jer, e am smiava ch’a mastieissa.

GENERALE. Ma a l’è d’ co’na benedeta foumna faita aso meud. Tute le matin, ch’a pieuva, ch’a fioca, chila absogna ch’a sia a Santa Teresa a la mëssa d’ set ou-re…. e.... ouei!... Gabriela a l’a già i so giobia d’ cochila (entra Giovanni).

GIOVANNI. I soun stait da soura countëssa d’ Moun-tanera….tanti coumpliment e ringraziament: a discousì che staseira‘l medic a l’a trouvala moutoubinmei (in coro, parole e segni di soddisfazione); e j’aisentì ch’ai disiou al doumestic ch’andeissa a dì a sou-

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

ra marchesa Zei ch’a fasia pi nen da bsogn ch’a vneis-sa a vièla.

MARCHESA. Oh! là! da part di Dio! Nossgnour fassach’as’na gava.

CONTESSA. A l’a d’ co faie ‘na bela assistenssa.… cou-la brava Coustanssa (marchesa d’Azeglio); a la chitavamai!

GENERALE. Ah! l’è ‘n angel!ABATE. Brava, propi ‘na brava foumna!GENERALE. A proposit d’ la Zei…. seve lò ch’a l’an

dime? Ch’l’ultim, Massimo, a chita’l sërvissi.MARCHESA. L’ultim?... a dëv aveie vint o vint un an....

E përchè?… Elou malavi?GENERALE. Oh! sì ch’a l’è malavi!... sicur.… nouj’ au-

tri i na sentiou nen d’ couste, a vint un an chitè’l sër-vissi!... Salvo esse malavi o strouppià.... Già am disiaQuint, so courounel quand a l’era ant Piemount Real,ch’a l’avia veuja d’ fè nen.

CONTESSA. Però, da lò ch’am diou, i so camrada, aivouliou ben. Sturdì coum’ na sioula, louli sì, i j’eusempre sentilou dì. Ma na! un boun fioulas.

GENERALE. Sempre ai arest.CAPITANO. General, s’am përmett.... l’è vera, a l’era

souens ai arest, ma nen për motiv d’ servissi. Già ch’la seïra, finì so sërvissi, louli.... j’era gnun boun a tni-lou. Magara a caval sensa sela.... Hop!... un temp d’galop.… louli a Turin; j’ lou seu ch’i j’erou noui d’guarnison, e i fasiou’l bas-trein tuta la neuit.

MARCHESA. Bravou, bele cose!.…CAPITANO. Cous’ veulla, magna, militar…. Souma pa

d’ seminarista! Vers la matin peui un autr temp d’ ga-lop, e a quatr’oure an piassa d’Arme a la Veneria afè’’l detai.

GENERALE. Tutt loulì l’è bel e boun, me car Marches,ma cavai e omini, la neuit l’è faita për durmì.... i sou-ma pa d’ ratevouloire, e a butesse s’ le singie, lour e i

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cavai, i seu nen vaire coum’as peussa dì peui d’esse d’boun ufissiai. E peui dop chità Piemount Real, a pas-sa antle Guardie provinsial, e andasia për Turin councoul capel bianc e la crouata a l’enfant; già sempre ancativa coumpagnia, an mes ai pitour, ai cantant, e undì j’erlou pa tacaje ch’a vouliou cantè n’opera al tea-tro Paisana?... Revel l’a mandalou ciamè, e a t’a datieun tousoun!... Na, na.… (scuote la testa in segno cheil cavalier Massimo poco gli va).

CAPITANO. Oh! për lò, a l’a fane d’ bele. Un dì a l’atraversà a sdos, al galop la spassgiada d’ la Veneria.…vestì da angel.…

MARCHESA (interrompendolo). Na, di’n po’ nen d’tam bournarie!...

GENERALE.Già, già, già! Taparei! Taparei! A l’an nentute le grumèle a post!

MAPCHESA.Ma e so pare, cos’ dislou ch’a chita’l sër-vissi?

CONTESSA. Là là, a l’è mei ch’i counta mi la storia, mich’i la sceu. A l’a countame tutt Coustansa. A chita pa‘l sërvissi parei…. a lou chita përchè ch’a veul tournèa Rouma a fè’l pitour.

ABATE. Uh!GENERALE. Uh! (incredulità)MARCHESA. Ul!CAPITANO. Diaou d’idea!CONTESSA. Ma loulì.… fait e finì…. ognidun a l’è pa-

droun d’ sousaì soua cariera.GENERALE. Bela carriera.MARCHESA. Na, va ben.… i soun con voui…. ba-

sta….passiensa. Ma a l’è pà’l tutt ….e iv’ confessou,gnanca mi ch’i j’eu nen d’ pregiudissi, i seu nen vairecapì... Insouma a l’è ch’a veul andè a Rouma a fè l’pi-tour d’mestè.

GENERALE. Uh! Che diaou! Veullou. andè fe’l bian-chin?(ridendo).

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

CONTESSA. No (ridendo), nen ‘l bianchin, ma a veulfè’l pitour, vende i so quader.… saine mi.… (risa ge-nerali).

GENERALE. Am smia ch’ì Taparei a veulou sourpases-se an sta generassion. Ma na…. soussì a passa la mira.Prima a voulia fè l’istrioun, adess a veul fè’l pitour d’mestè. Fussa’l Re, i voudria mandelou mi a dipinge levedute a Fenestrele.... e buteje la sërvela a partì.

MARCHESA. Ma, me cari fieui, mi soun veja, e de ‘stevostre idee d’adess, mi na capisso propri nen.... Spie-gheme ‘n po’. Ma Massimo (sorridendo) veullou fè ‘lmestè d’ coul sirougneta ‘d Vacca ch’a l’a fait la mi-niatura sì d’ Gina?... Guarde li general... FC dare d’coul sirougneta d’Vacca ch’a l’a fait la miniatura sìd’Gina?….Guardè lì general!….l’è darè d’voui. voui.

GENERALE. Mi si ch’i seu!CONTESSA. No, tournou a ripete…. a l’è pa lo’.... là...

piè na cariera o n’autra.... louli…. Ognidun.... I vëdeben, a j’era’n architett Alfer, ades a j’è Brem, coulch’a sta a Milan ch’a pitura; a j’e Canei.… ma a fanloulì da sgnour. Im’arcordou al temp d’i Franseis,quand j’ero d’ co noui a Firense – a j’era giust i Zei, aj’era Proun, a j’era i Balb – e ben, ‘l count Alfer j’eusentilou dì mila volte ch’a l’avia mai gavà ‘n sold dasoue tragedie….a l’a spendune d’j bei a feie stampè,louli sì. Ma mai e peui mai a l’a fane na rsourssa.

CAPITANO. Però.... a l’è nen chì veuja soustnì’l coun-trari.... Però a l’è ‘n fatto, an Inghiltera tuti m’ diouch’i sgnouri, i milord, a scrivo d’ volte për le Arviste,o a fan d’ liber, e ass fan paghè bel e ben.

GENERALE. Bravo Marches! j’avì propri trouvà iboun. Cosa ch’a vendou nen an Inghiltera? A vendofina la foumna!...

CAPITANO (sottovoce al generale). Mi m’è d’ co pi carl’Italia dova un’ j’a për nen.

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GENERALE (sottovoce). S’av sent magna sì ch’av ar-drissa!

CONTESSA. S’i fussa al post d’ so pare seve lo’ chì di-ria? Guarda si, me car fieul, i diria, fa’l pitour s’it veu-le fè’l pitour, ma falou për to piasì, da gentilom. Epeui, i diria: tuta toua gent a l’an sërvì’l Re e’l païs….it manche nen d’moujen…. tute le strà at soun duer-te.... riflett d’ co ch’it peule, fete’na posissioun e rend-te util, e fete ‘n nom d’ n’autra manèra’n po’ mei ch’in piturè.... e loulì a impedis nen ch’it amuse a fè d’quader, s’ loulì a t’amusa, ec. ec1.

E basterà di questa commedia che, se non m’illudel’amor proprio d’autore, mi pare che dipinga propriobenino la società nostra del 1820, colle sue idee, le sueforme, le sue frasi e le sue parole.

Me n’appello a chi l’ha frequentata e se ne ricorda.E basterà di questa commedia che, se non m’illude

l’amor proprio d’autore, mi pare che dipinga propriobenino la società nostra del 1820, colle sue idee, le sueforme, le sue frasi e le sue parole.

Me n’appello a chi l’ha frequentata e se ne ricorda.Finora s’è riso alle spalle de’ nostri signori di Torino, edelle loro idee gotiche. Ma dice il proverbio ride benechi ride l’ultimo. Sentiamo dunque un po’ l’altra campa-na.

Però prima di sentir la campana, senta una mia osser-vazione. Dopo aver messo in burletta la mia classe, misembra che ho il diritto di aggiungere che i tipi, come ilgenerale San Rouman, che preferivano l’antico regime alnuovo, si sono però fatti ammazzare per sostenere ilnuovo (come Passalacqua ed altri alla battaglia di Nova-ra) quando il sostenerlo era diventato loro dovere.

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CAPO DECIMOSETTIMO

SOMMARIO. – Plutarco e la marchesa d’Cresintin d’accordonel giudicare i cultori delle belle arti – Avrei fatto meglio a stu-diare le scienze e l’amministrativa anzichè la pittura – Demo-crazia di rappresaglia e democrazia bene intesa – Esempi – Pa-ragone fra un economista, un generale, un amministratore e unpittore, un ballerino, un cantante – Le professioni che diletta-no è ragionevole che sieno pagate più, ma ingiusto che sianostimate più delle professioni utili – L’idolatria di certe arti se-gno di decadenza – I miei parenti decidono di rimandarmi aRoma – Incontro a Genova con Alberto La Marmora e CesareBalbo – Mi imbarco per Livorno, e per la via di Firenze giungoa Roma – Ordino la vita in proporzione delle finanze – Aborri-mento pei debiti – Lezione di storia e di lingua dal signor Ga-rello prima del levar del sole – Esercizi di equitazione sotto ilcavallerizzo del Rospigliosi – Accademia del nudo tenuta daAntonio – Lavoro proprio di voglia anche per escir di strettez-ze – Curiosi espedienti cui mi spinge il bisogno – Gita a CastelSant’Elia per Verstappen.

Nel proemio alla vita di Pericle, Plutarco dice così:«…. per questo, Antistene sentendo dire che Ismeniaera un assai bravo suonator di flauto, disse ottimamente:– Ma egli però è uomo tristo; altrimenti non sarebbesuonatore così eccellente. – E Filippo al figliuolo suo ilquale ad un banchetto aveva giocondamente e maestre-volmente cantato: – Non ti vergogni tu, disse, di cantarcosì bene? –» Fin qui pei musici. Ai pittori e scultoriora: «….e certo non vi fu bennato giovane alcuno, cheveduto il Giove che è in Pisa o la Giunone che e in Ar-go, abbia desiderato giammai d’essere o Fidia o Policle-to….» Avanti i poeti adesso: «.… nè alcuno che deside-rato abbia d’essere Anacreonte o Filemone, oppureArchiloco quantunque preso avesse diletto delle suepoesie….ec. ec.»

Il qual passo prova che la marchesa d’ Crsentin, il ge-nerale San Rouman, la contessa Gina Datis e l’abate Ge-

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rando elemosiniere di Corte, pensavano nel 1820 quelloche Plutarco già pensava circa l’anno sessanta o ottantadell’èra cristiana. Questa coincidenza poi me ne fa sco-prire un’altra, che non mi piace niente affatto. L’espres-sione di Plutarco: «....e certo non vi fu bennato giovanealcuno, ec. ec. » è un argomento sicuro per provare cheil mondo del suo tempo era tutto di quella opinione.Non c’è scrittore che oggi osasse scrivere: « nessun ben-nato giovane vorrebbe essere Rossini, o De la Roche, oThorwaldsen, o Manzoni» perchè farebbe ridere. Però,mentre Plutarco e tutta la gente di buon senso d’allora,la pensavano così, in quell’epoca medesima troviamoche Nerone faceva quel suo celebre viaggio in Greciaper presentarsi quale privato ai concorsi di poesia e mu-sica, ove riportò, come si poteva prevedere, un’ampiamèsse di palme ed una ricca filza di corone.

Come capirà, trovarmi piuttosto in compagnia di Ne-rone (e servatis servandis) che con Plutarco, la marchesad’Crsentin, il generale San Rouman e compagni, non milusinga niente affatto l’amor proprio.

La cosa merita dunque di essere esaminata con più at-tenzione. Per non allungarci troppo in distinzioni meta-fisiche, andiamo per le corte e veniamo al puro pratico.

Il giorno che uno Stato è minacciato da un esercitostraniero, è meglio aver sotto mano un mediocre genera-le, o Rossini?

Il giorno che uno Stato stia per fallire, è più utile unmediocre contabile, o De La Roche?

Quando uno Stato abbia perduto ogni riputazioneper sciocchezze e pazzie, e che bisogni rimetterlo in isti-ma del mondo, è meglio Thorwaldsen od un mediocrepolitico con un po’ di cervello e di esperienza? Ed in ul-timo vada poi a domandare a Manzoni, se, a voler rior-dinare la marina, o i tribunali, o l’amministrazione, èmeglio sceglier lui o un mediocre capo di divisione in-vecchiato negli uffizi, e sentirà!

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Dunque per la società un generale, un economista, unamministratore anche mediocri ec., sono molto più utiliche un pittore, un musico, un poeta di prim’ordine.

Per conseguenza chi o per circostanze, o per inclina-zione non può farsi esperto in un’arte o scienza più uti-le, piuttosto che non far nulla, coltivi la meno utile; e perun’altra conseguenza, nelle famiglie nelle quali, per lacondizione, le relazioni, l’agiatezza, gli appoggi, è ridot-ta di una metà almeno la difficoltà d’avviare i figliuoliper una carriera più utile, sarà vantaggioso allo Stato checerchino farne de’ buoni contabili, amministratori, sol-dati, economisti, piuttosto che dei violinisti, de’ poeti ede’ pittori.

Se gli anelli del mio ragionamento sono sani ed interi,all’ultimo si troverebbe dunque che la marchesa d’ Cr-sentin e Plutarco, in fondo in fondo, erano più nel veroche non Nerone ed io: lui, volendo fare il musico invecedi fare l’imperatore; io, volendo far il pittore invece difar il soldato.

Quante volte l’ho provata, nelle varie vicende dellamia vita, la profonda realtà di quel vero! Quante volteho pensato: – Oh come mi servirebbe più adesso averestudiato e saper bene, verbigrazia, il servizio di campa-gna, che di saper far uno studio d’una quercia dal vero!Saper il codice, avere idee amministrative, conoscere ilmeccanismo delle finanze, del credito, piuttosto cheaver l’abilità di dipingere un cielo o un lontano; ovverodi scrivere delle fandonie che non sono mai succedute,per far correre una stilla su una bella e fresca guancia!-

In questo caso però l’accusa ch’io muovo contro mestesso non è senza difesa. Invoco le circostanze atte-nuanti.

Presso gli antichi Romani, come presso i Greci, la so-la occupazione degna dell’uomo libero (tanto più se na-to in fortunata condizione) era l’arte dello Stato. Pressogl’ Inglesi domina all’incirca lo stesso sentimento. E per-

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chè? perchè gli uni come gli altri ebbero ed hanno patrienon sempre libere, ma sempre in lotta per la libertà.Perchè i loro cittadini avevano diritti, leggi che li difen-devano, avevano un’arena politica, uditori, aderenti, av-versari, avevano uno scopo contrastato, utile, grande,glorioso da ottenere.

Che cosa invece poteva offrire a me, coi sentimenti el’idee mie, un despotismo pieno di rette ed oneste inten-zioni ( lo crederò ), ma del quale erano rappresentantied arbitri quattro vecchi ciamberlani, quattro vecchiedame d’onore, con un formicaio di frati, monache, preti,gesuiti ? Qual avvenire mi prometteva un posto nella di-plomazia, nell’amministrazione o nell’esercito? L’avve-nire di dovere saper sempre dove va a messa o da chi siconfessa il ministro, il generale, o la dama d’onore; pertrovarsi a dar loro l’acqua santa quand’entrano in chie-sa, e per mettersi in buona vista del padre spirituale. Co-sì facendo, andar avanti nella carriera di buon trotto; ecosì non facendo, esser messo a sedere, e dopo trent’an-ni passare dal cancello dell’impiegato alla panca del giu-bilato al caffè Fiorio.

Io poi, professando allora, come lei sa, un odioprofondo contro l’aristocrazia, e vivendo in quel grandeequivoco de’ nostri tempi, essere cioè la democrazia nonl’ammissione al diritto comune degli antichi esclusi, mabensì una rappresaglia di questi contro gli antichi privi-legiati; non vedendo d’altronde, nè potendo vedere altroche il presente (qual mente umana poteva, nel 20, preve-dere il 48?), com’era possibile ch’io diventassi un umileneofito di quell’insulso, fallace ed ipocrita sistema?Com’era possibile che m’attenessi alla carriera più utile,contro ogni mia inclinazione?

La mia demagogite non era certo più allo stadio flogi-stico di prima. Non mi tenevo più obbligato a vendicarele violenze degli antichi baroni, e le impertinenze dellanobiltà di corte, coll’andare per l’osterie e peggio, in

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compagnia dei Barabba, vestito a bardassa, e procuran-do, per quanto era in me, di portare all’apoteosi ciò chev’e d’ignobile e di maculato nella società. Questo siste-ma, che è frutto dell’equivoco accennato dianzi, non erapiù il mio, o, per dir meglio, s’era elevato, dopo inco-minciata la mia vita nuova, in un ambiente più sano adapplicazioni più ragionevoli. Mi divertiva però l’idea difar arrotare un tantino molti parenti e persone della miaclasse che m’avevano seccato in più modi, rendendoli ziio cugini, o amici almeno, d’un nobil uomo che si facevapagare le sue pennellate.

Se mi pagano onde farmi battere i quarti sulla sella,dicevo io, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmidipingere un quadro? Se non è vergogna il comprare,come sarà vergogna il vendere? Un atto compiuto con-cordemente da due può egli essere vergognoso per l’unoed onorato per l’altro? Questi erano i miei argomenti,ed ora sono all’incirca passati nel criterio comune. Maallora v’era un certo merito a trovarli, ed accettarne leconseguenze. Poichè dico il mio male, non troverà stra-no, che quando la cosa è possibile mi lodi anche un po-chino da me.

Mi torna in mente d’un certo mio acquarello, nel qua-le mi rappresentavo vestito all’artista in maniche di ca-micia nell’atto di dipingere uno studio in vista del castel-lo d’Azeglio; e intanto l’ombre de’ miei antenati vestitida paladini m’apparivano e mi davano una strapazzatach’io ricevevo in atto tutto modesto di scusarmi, e chie-der perdono.

Ora poi colla riflessione e coll’esperienza, credo averdato miglior sesto alle mie idee.

Siccome i ciamberlani, le dame d’onore ed i marche-sini m’avevan guarito dell’aristocrazia; così i tribuni, glieroi di club e gli italiofagi m’hanno poi guarito della de-mocrazia ch’io ho chiamata di rappresaglia.

Su tutto, e su questa questione specialmente, è impor-

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tante ai tempi nostri d’aver idee esatte e vere. Il sensodel rispetto a ciò che è rispettabile (già l’abbiam notato)vien meno oggi nel mondo, e la colpa non è tutta da unlato. È essenziale che la società cerchi di ravvivarlo: eper questo è importante che le classificazioni di ciò chepiù o meno merita rispetto, vengano messe in scala dallospirito pubblico, con precisione.

Dirò come la vedo io: lei poi giudicherà.Prima di tutto, s’intende, vorrei che fosse stimato il

galantuomo, e bisognerebbe che la maggiorità smettessed’ammirare ed applaudire, sia grande sia piccolo, chimanomette o corbella il prossimo a proprio vantaggio,per la sola ragione che è un uomo di genio, e che mano-mette e corbella con talento ed abilità. Vorrei invece chefosse più ammirato chi è più utile agli uomini. Oggidì,per esempio, io stimo ed ammiro molto M. de Lesseps, epreferisco la sua utile, grande e felice impresa, a centocittà e cento battaglie vinte. Io stimo molto NapoleoneIII (oltre la stima, v’è poi la gratitudine), perchè strappòl’Italia dalle mani dell’Austria; perchè tolse i consumato-ri francesi dalle unghie dei produttori; i Messicani dallemani di quattro o cinque mute di ladri, ec. ec. Io stimol’imperatore Alessandro di Russia, non quando fa impic-care e fucilare i poveri Polacchi per serbare il frutto del-la gran rapina del 1773; ma quando libera i servi dellaCorona, e fa liberare tutti quelli che sin ora gemevano inschiavitù nella Russia. Oggi più che mai importa d’im-parare l’imparzialità ed applicarla a tutti e a tutto.

Per conseguenza vorrei mettere in prima linea un eco-nomista, un generale, un amministratore, un educatore,un professore, un maestro, un ingegnere, un autore di li-bri che lascino il lettore migliore di quel che era e nonpeggiorato; ed in questa classe possono entrare anche iletterati, i romanzieri ed i poeti.

Finalmente, ed in seconda linea, metterei gli artisti,fra’ quali mi presenterò modestamente anch’io per la

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parte che mi tocca, i suonatori e i cantanti – colla riservaperò che se l’arte loro sta e deve stare in seconda linea,essi possono individualmente trasportarsi, purchè vo-gliano, nella prima di tutte, quella dei galantuomini.

Ora, da ciò ne segue, che quando si paga un tenore ouna ballerina dieci volte più che un buon amministrato-re o un buon generale, non c’è ingiustizia, e questi nonhanno diritto di lagnarsi – ricordiamoci quel che risposela Banti a Caterina II: qu’elle fasse chanter ses feldmaré-chaux. – La ragione è evidente. Se un individuo è capacedi produrre un dato effetto che può essere contempora-neamente goduto da due mila persone; se queste duemila persone sono tutte felicissime di pagare per goderedi questo dato effetto uno scudo a testa; vorrei saperequale ingiustizia ci sia se un felice mortale può così inpoche ore guadagnare due mila scudi.

Ma quando la gente stacca i cavalli alle ballerine, e so-stituisce bestie bipedi alle bestie quadrupedi; quando sidecretano onori e distinzioni solamente pei trilli e gli en-trechats, allora i generali, gli economisti, gli amministra-tori d’uno Stato hanno diritto di lagnarsi, e allora solov’è ingiustizia.

E non crederà, spero, ch’io abbia in dispregio nè l’ar-te del canto e del ballo, nè chi le professa onoratamente.No; ma ecco appunto un esempio della convenienzad’avere una scala esatta e da tutti accettata dello stimabi-le.

La professione di generale, d’amministratore ec., èpiù stimabile di quella di ballerina, tenore, ec., e per-chè?

In primo luogo perchè è più utile, in secondo luogoperchè il mettersi ad un mestiere molto faticoso e di po-co guadagno per servire i veri ed essenziali interessi delproprio paese, è un atto più nobile e più virtuoso diquello di tenere allegro il pubblico, e l’esporsi a riceverepubblicamente mortificazioni ed oltraggi senza possibi-

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lità di farsi rispettare, unicamente per guadagnarsi moltidenari.

Uno dei segni più certi della decadenza d’un popolo èla stima esagerata per coloro che gli si offrono in spetta-colo e lo divertono: è la moda degli amori, delle adora-zioni sceniche. La depravazione e la sazietà conduconogl’istinti sensuali alla crudeltà e allo scandalo.

La corruzione imperiale conduceva Ippia a fuggirecon Sergio Gladiatore che non era giovane, non era bel-lo, aveva sulla fronte una natta, era mezzo storpiato dal-le ferite.... Sed gladiator erat!

Chi di noi non s’è dovuto meravigliare talvolta nel ve-dere un attore nè giovane nè bello avere a’ suoi piediun’Ippia di prima sfera? Sed gladiator erat!

Chi non ha vedute attrici, veri miracoli di trivialebruttezza, accendere amori che doveano aver sugli occhiinvece d’una benda un coltrone? Sed ludia erat!

Quando in Italia ho sentito sul teatro urlare, stonare enon saper più nè fermar la voce nè modularla, ho pensa-to: l’Italia risorge.

Difatti le smanie per attori ed attrici, i trionfi, le sere-nate, le fiaccole, gl’inni, le adorazioni alle ballerine siproducono, a dir il vero, più altrove che in Italia: in que-sto un qualche progresso c’è. Tuttavia non è inutile an-che in Italia l’indicare quanto importi avere una scalaesatta della rispettabilità. Vi sono teatri, scene, attori eattrici, impresarii, e soprattutto macchinisti, i quali nonhanno che fare nè con San Carlo, nè colla Pergola, nècolla Scala; e anche per questi sarà bene avere alla manola scala della rispettabilità, ed adoperarla per metter tut-ti allo scalino che loro compete. Bene spesso essi sba-gliano scalino, ed il pubblico li lascia fare.

Riprendendo ora il filo del racconto, i miei parentis’adattarono al mio desiderio; rimanendo intanto sospe-sa la questione del vendere. Difatti prima di vender qua-dri bisogna farli e trovar chi li compri. Mio padre mi

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chiamò un giorno, e mi disse che egli acconsentiva aimiei progetti, che ero libero di partir per Roma quandovolevo, ma che soltanto m’avvertiva ch’egli non era di-sposto a darmi nulla. Questo nulla mi parve poco. Glialzai gli occhi in viso con un atto modesto, interrogativoe meravigliato. Egli seguitava, spiegandomi che per nul-la intendeva, nulla di più di quello che mi dava mentreconvivevo in famiglia, per il mio vestiario: 130 o 140franchi al mese, se non erro.

Non era molto certamente; tanto più per un soggior-no in Roma ove tutto era caro più che a Torino. Ma sareiandato con niente; tanto più mi risolsi accettare quelloche voleva fissarmi.

Allora questo magro sussidio mi fece un certo senso.Pensavo tra me che avrebbero potuto mostrare meno le-sina a mio riguardo. Ora coll’esperienza mi sono convin-to che mio padre aveva mille ragioni. Quel sistema di fartrovar la pappa fatta ai giovani, e quello poi che producegli uomini senza nerbo, senza ripiego, senza capacità diresistenza contro gli urti del mondo esterno. E lo bene-dico ogni giorno ch’egli abbia seguito con me il sistemaopposto; oh! egli certamente era lungi dall’esagerare.

Se tutti i giovani che si mettono in carriera avessero135 franchi mensili del loro, il mondo sarebbe meglioprovveduto che non è.

Per me però era una notabile decadenza. Dall’averdue o tre cavalli, un servitore, e, stando al corpo, un sol-dato, stavo per trovarmi a zero cavalli, zero servitori, ecasa, tavola tutto peggiorato…. Ma, ripeto, sarei andatoanche rimettendoci di mio, e partii.

Per mia madre particolarmente fu un dolore il distac-co. Ma con quel suo bravo cuore, che non sentiva cheper gli altri, il sacrifizio si compieva sempre incontrasta-to e indiscusso. Essa m’accompagnò sino alla scala, escese qualche gradino per darmi un’ultima occhiata.

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Quest’occhiata la vedo ancora dopo quarantatrè annicome fosse adesso.

In quel tempo non esisteva la strada pe’Giovi. Passaila Bocchetta e arrivai a Genova. Vi trovai Cesare Balbo,maggiore nel reggimento di Casale: vi trovai Alberto LaMarmora anch’esso al servizio. Non parlavano che dipolitica, delle cose presenti di Napoli, delle future pelPiemonte.

Ancora non ero intimo con Cesare Balbo, come lo di-venni in appresso; ero soltanto suo fratel cugino. Glimanifestai le mie idee, i miei disegni per ordinarmi unavita diversa dalla stampa del cavalierino torinese. Egliamava tutto ciò che sa d’indipendenza, d’audacia giova-nile: gli ero simpatico, mi voleva bene e mi lodò, mi feceanimo, e non mi parlò di politica. Io, come ho detto,n’ero tenuto fuori, ed egli, come già dissi, poco si per-suadeva di quanto si stava apparecchiando, e non neparlava volentieri.

Ci siamo presa la rivincita più tardi.Un brick inglese era in partenza per Livorno; allora

bisognava portar con sè di che mangiare e non si sapevaper quanto tempo. Con un pane fai cento miglia; e concento pani non fai un miglio, dicono le vele. Presi pas-saggio su questo legno e v’arrivai carico di vettovaglie. Sipartì la sera: tutta la notte la passai a dar di stomaco, e lamattina alle otto ero a Livorno. I marinari ereditaronointatti i miei pollastri e le mie bottiglie.

Lascerò nella penna le giornate da Livorno a Firenzee Roma, nelle quali andai avanti ogni miglio a furia dipazienza, dovendo farla coi vetturini. Dirò solo d’unmedico inglese che era con noi. In più occasioni m’ac-corgevo che alle fermate, nel dargli gli spiccioli d’unamoneta barattata, lo mettevano in mezzo; ed io la ri-prendevo per lui fino a farci delle liti. Lui serio e freddomi diceva di non riscaldarmi, perchè L’homme est lemême partout.

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Quest’assioma me lo son legato al dito, e m’ha resoun gran servizio d’allora in poi: quello di risparmiarmi, orendermi meno gravi parecchie centinaia d’arrabbiatu-re.

Arrivai a Roma. Mio padre aveva combinato ch’ioabitassi con quell’amica famiglia che già ho nominata, lafamiglia Orengo. Vi fui accolto come un figliuolo, e to-sto mi diedi a sistemare le cose mie onde cominciare alavorare.

La prima cosa da sistemare era di non fare il passopiù lungo della gamba. Il mio avere non arrivava a venti-cinque scudi romani. Circa quindici se ne andavano perla dozzina, casa, tavola, bucato, ec. La pigione d’unostudio ne inghiottiva altri sei; ne rimanevano due o treper colori, modelli, vestiario, calzatura, teatro, diverti-menti e minuti piaceri.

Penetrato dello stato reale delle mie finanze, feci quelche dovrebbe fare il ministro delle nostre, tagliai nel vi-vo. È vero che io non avevo, come lui, da fare i conti contanti che, fatta l’Italia, se la vorrebbero mangiare; io nonavevo a far conti se non con me solo, e col mio amorproprio.

La prima volta ero venuto in Roma con mio padreMinistro. Avevo un bello ed elegante uniforme, andavoa cavallo ed in carrozza, e vivevo alla pari con tutti i si-gnori e principi romani, con ministri ed ambasciatori,ec. Ora coi miei tre scudi di vestiario, calzatura, teatro,divertimenti, minuti piaceri ec., c’era poco da far il prin-cipe.

Bisogna mutar mondo, pensai. Coelum novum et ter-ram novam. Bisogna scendere tanti scalini della scala so-ciale finchè mi trovi a livello, di quel mondo nel quale imiei suddetti scudi rappresentino un appannaggio nonsolo conveniente, ma invidiabile.

A questo punto, sfodero una superbia da lucifero; e

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senza ricordarmi che esiste la modestia, dico alla nuovagenerazione, cercate d’imitarmi.

Ognuno deve saper vivere del suo; e chi fa debiti vivepiù o meno dell’altrui. Io ebbi, ed ho, debbo dirlo pertemperamento l’orrore dei debiti. Quindi, avendo pocoinvece di farmene imprestare, imparai a vivere con quelche avevo. E così ho sempre fatto in appresso, e fo tutto-ra. In questo caso come in tanti altri, quel che rovina è lavanità: quello che salva è l’orgoglio. La vanità s’umiliadavanti al creditore, pur di comparire e sfoggiare. L’or-goglio va dimesso, e se ne tiene, pensando ch’egli nons’inchina, e non ha obblighi a veruno.

Mi guardai dunque bene di far visite o lasciar bigliettia tutte le mie antiche conoscenze signorili. Mio zio, ilcardinal Morozzo, era andato a risiedere nella sua dioce-si di Novara. Il cardinal De Gregorio, amicissimo di miopadre, fu la sola alta relazione che mantenni.

Trovai uno studio in una casetta in piazza di Monted’Oro, e con qualche soldo portato da Torino per lespese di primo impianto, mi ci accomodai di quantom’occorreva, e diedi subito principio al mio nuovo siste-ma di vita.

Era inverno, perciò non si poteva studiare dal vero.Mi diedi ad altre occupazioni, dividendo così la miagiornata. M’alzavo un paio d’ore avanti giorno, ed anda-vo da un maestro che riceveva ed ammaestrava a lume dicandela molti scolari, i quali a lume di sole aveano altriimpegni. Esso era un genovese, un tal Garello, uomo dimolto acume e che aveva trovate nuove ed utili applica-zioni della mnemonica allo studio della storia e dell’in-glese.

A levata di sole la lezione finiva, ed ognuno se n’anda-va alle sue faccende. Io m’ero fatto amico col cavalleriz-zo del Rospigliosi, e per pochi soldi potevo per un’oratrottare e galoppare nel cortile del palazzo a Monte Ca-vallo.

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Di equitazione, senza darmi un gran vanto, me ne in-tendevo più di lui e della sua scuola. A Roma, non sapreioggidì, ma in quel tempo il codice dei cavallerizzi consi-steva in una sola parola – nerbate: se il cavallo non cam-mina, nerbate; se cammina troppo, nerbate; se non vol-ta, nerbate; se volta troppo, nerbate – e via via. È unavera compassione a vedere quei poveri poledri, che sinoa tre anni vivono sciolti per la campagna, presi al laccio,e per buon ingresso salutati subito con un carico di le-gnate; a veder mettere loro la cavezza, e poi una cinghia,e così farli trottare in tondo alla corda con un ragazzopoco meno da compiangersi di loro, che corre dietrotrafelato in un raggio minore, con una lunga pertica inmano, e giù picchiate ogni volta che ci può arrivare. So-no incredibili i salti, i calci, l’impennate, le disperazionidi quelle povere bestie, che spesso finiscono collo strop-piarsi o rompersi il collo, rompendolo pure talvolta alprimo che dopo molti altri martirii finalmente li cavalca.Ci sarebbero storielle da narrare a questo proposito, mase dovessi dire tutto non la finirei più. Questo solo dirò,che è impossibile tacerlo. Si figuri che quei cavallerizzifacevano sempre galoppare sulla diritta senza mai cam-biare di piede. Domandai: «Perchè?» – « Come per-chè?» (mi risposero) oh bella! perchè i cavalli non ga-loppano a sinistra!!!»

Io gli aiutavo nell’addestrare cavalli; e mi ricordo chementre facevo questo discorso, mi trovavo appunto suun cavallo da carrozza, forse per insegnargli a portare; enon so perchè ero senza sella ed un solo filetto. A questastrana teoria mi misi a ridere, e dissi: – « e io scommettoche così come mi trovo con questo cavallone, lo farò ga-loppare cambiando piede.» – Non c’era un gran merito.

Chi conosce che cos’è cavallo, sa che deve necessaria-mente partire dal piede che gli si fa presentare prima;quindi messomi nella pesta, con una strappata di filettogli feci voltare quella sua testaccia a diritta, e datogli una

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gran scalcagnata da voltargli un po’ la groppa, sfido cheavesse potuto galoppare se non a sinistra! E questagrande operazione portò alle stelle la mia fama di grancavaliere.

Dopo il moto del cavallo, me n’andavo allo studio, elavoravo fino a ora di pranzo, disegnando, dipingendodal modello, studiando anatomia o dell’uomo o del ca-vallo, cominciando dall’osseologia, eseguendo a contor-ni lo scheletro, osso per osso, e poi vestendoli di musco-li con molta diligenza. Dopo pranzo andavoall’accademia del nudo, tenuta da Antonio, modello,che tutti gli artisti non giovani hanno conosciuto. Nonbello di viso, ma bellissimo di forme, vero tipo diquell’antica razza che popola i bassirilievi della ColonnaTraiana. Antonio era un bonissimo uomo, s’interessavaall’arte; ai giovani che studiavano e mancavano di mezzifaceva credito, li aiutava anzi talvolta del suo; mi ricordopersino che un giorno vendette un paio di posate, suosolo tesoro, per un pittoruccio ridotto in secco; e chi sase mai più di que’ denari ne rivide l’impronta! È veroche il sor Antonio, in un momento di vivacità, aveva am-mazzato suo fratello! Non si può esser perfetti!

Il nudo finiva alle nove della sera, ora, per chi si levapresto, d’andare a casa e a letto.

Questo si chiamava lavorare, e lavoravo certo di vo-glia. Ero in un impegno, e bisognava uscirne presto ebene. Dopo aver voluto aver ragione io contro tanti, do-po aver io il primo voluto mutare le tradizioni patrie,non si poteva tardar troppo a dar segno di sè a chi stavacoll’arco teso per trafiggermi se non riescivo nella miaimpresa. Conobbi quindi ch’era indispensabile mettereinsieme un quadro e mandarlo come saggio de’ progres-si fatti, e caparra di progressi da fare.

Mi stillai il cervello per trovare un soggetto ed un par-tito che non esigesse troppa scienza; e valendomi de’miei pochi studi, combinai un quadro con un castello a

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diritta tutto in ombra ed a sinistra uno sfondo col Sorat-te in lontano. Roba di poco valore artistico; ma c’era co-lore, ed un certo effettaccio che tutto insieme a chi noncapiva poteva piacere.

L’amor proprio non era il solo incentivo che mi spin-geva a lavorare; v’era di rinforzo l’altro incentivo del bi-sogno; ed avevo buona speranza di esserne tratto, ovemostrassi presto che non ero andato a Roma per far vitabeata. Non era possibile proprio con quel che avevi dicavar da vestirmi e supplire a molte altre necessità; e miridussi a curiosi espedienti.

La padrona che m’affittava lo studio era vedova d’unarchitetto che s’era chiamato non so come, ma che essachiamava soltanto el pover sur Basili. Essa era un’anticaballerina milanese, brutta e buonissima donna. Rimastasola e con pochi mezzi, s’aiutò a far danari di tutto, e do-vendosi dar fuoco anche alla guardaroba, mi fu accorda-ta la preferenza come inquilino, e potei essere il primoad esaminarla. Siccome il defunto era stato alto comeme, parecchi capi del suo spoglio passarono con pocaspesa del mio corredo. Ma siccome egli era molto piùgrosso, negli stivali suoi c’entravo tre volte. I miei amicivedendomi i piedi in queste barche, ridevano; e per mol-ti anni, quando si voleva ricordarmi que’miei primi esor-di nell’arte, si diceva l’epoca degli stivali del sor Basilio.

Con quella stoffa che a Roma si chiama borgonzone,calda, col pelo, tutta di durata e niente di figura, m’eropoi fatta una muta per uso giornaliero; e così vivevo, ecosì vissi per anni.

In tutto ciò v’era sacrificio. Per molti avrebbe anzipotuto essere sacrificio dolorosissimo; ma non voglio in-gannare il lettore per farmi valere; a me la mia caduta inun’indigenza relativa non cagionava un momento di ma-lumore. Prima di tutto ventun anno, buona salute, e pie-na indipendenza, sfido ad esser di cattivo umore. In se-

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condo luogo mi pare d’averle già detto che nel mio ca-rattere un’ombra del don Quichotte c’è.

Lui quando dormiva alla frasca, a stomaco vuoto, e senon basta colle costole indolenzite per qualche picchia-ta, si godeva tutto, immaginandosi d’essere proprio dav-vero un cavaliere errante.

Ed anch’io mi pareva proprio d’essere un artista sulserio, quando mi trovavo senza quattrini.

E, non si può negarlo, era questo uno dei principalidistintivi de’pittori in quel tempo. Parlo dei pittori ita-liani.

Così, sempre studiando, sempre da me o con qualchepittoretto del mio conio, sempre lontano dalle società,da’ teatri, e da tutti i possibili minuti piaceri, – il perchègià lo sa – passai l’inverno; e cominciando ad aprirsi lastagione, mi trovai aver finito il mio quadro e lo mandaia Torino.

Poi cominciai a cercar luogo e modo dove potessisenza troppa spesa, stabilirmi a tempo lungo, per atten-dere a’ miei studi dal vero.

Sebbene non stessi più con Verstappen, non per que-sto l’avevo abbandonato; e quando potevo penetrare fi-no a lui, cercavo di tenermelo amico. Egli aveva sposata,come dissi, la figlia dello scultore Pacetti; ed io cono-scendo lei, il fratello, la madre, lo zio e la zia, potevo li-beramente praticare per casa. Così venni a sapere cheegli aveva in animo d’andare in maggio a stabilirsi a Ca-stel Sant’Elia fra Nepi e Civita Castellana. Benchè artistaprovetto, ed uomo sui cinquant’anni, egli soleva tuttaviapassare ogni estate tre o quattro mesi a studiare dal verocome un principiante. Per me che davvero lo ero, il van-taggio di essergli vicino, di averne qualche consiglio, e divederlo lavorare, se era possibile, mi decise; e risolsi an-darmene anch’io a piantar la mia tenda a CastelSant’Elia.

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CAPO DECIMOTTAVO

SOMMARIO. – Parte col cognato di Verstappen pel CastelSant’Elia – nottata a Nepi all’osteria di Veleno – Avventura –Descrizione di quelle parti della campagna romana – CastelSant’Elia e il conte Panimolli suo proprietario – Arrivo mio edi Michele Pacetti al castello, e pronta visita a Versatappen – Siprende alloggio in una casaccia saccheggiata a tempo di repub-blica – Si provvede alla meglio alò dormire per noi, e per l’asi-no di Michele – Provvedimenti per la cucina – Studi dal vero echierichetto che mi serve – Osservazioni sull’arte della pittura,e specialmente di paesaggio – Le Accademie di Belle Arti e leSocietà promotrici – ita di Verstappen a Castel Sant’Elia – Stu-dio la nuova società in cui vivo, e vedo che l’homme est le mê-me partout – Sono scoperto pel marchese Massimo d’Azeglio.

Il cognato di Verstappen col quale mi ero trovato pa-recchio tempo nel suo studio a lavorare, scelse anch’essoil medesimo soggiorno per le medesime ragioni. Erava-mo tutti e due candidati paesisti, tutti e due giovani, etutti e due con pochissimi quattrini; abbondavano per-ciò i motivi di far insieme compagnia, e si rimase d’ac-cordo di aspettare che Martino fosse sistemato, avessepreso casa, per arrivargli addosso all’impensata. La no-stra visita non entrava certo nei suoi piani, e senza le in-telligenze che avevamo coi suoi parenti, ci sarebbe statodifficile, una volta uscito dalle porte di Roma, scoprireove fosse. Volevamo quindi lasciarlo posare prima di en-trare in scena, per timore che prevenuto, se la svignassesenza che noi potessimo seguitare le sue tracce.

Venne finalmente per lui il giorno della partenza, edappena si fu ben sicuri ch’egli aveva piantata casa, venneanche per noi. Partiti da Roma la mattina presto, s’andòa dormire a Nepi. L’oste aveva per soprannome Veleno,ed è l’originale dell’oste che introdussi poi nell’EttoreFieramosca. La sua osteria non era meglio tenuta diquella di Barletta; si può giudicarne da quest’incidente.

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S’era andati a letto, e addormentati da un pezzo in unacameraccia su in alto, quando ci sveglia a un tratto unchiasso di cavalli, sonagli, grida, e ci accorgiamo che era-no nuovi forestieri. Mentre si cerca riaddormentarci,picchia all’uscio nostro la serva, gridando pel buco dellachiave: «Dice lo padrone, che ci occorre le materasseper quelli forestieri ». Temo assai che nella nostra rispo-sta non fosse tutto quel rispetto che si deve sempre albel sesso; ma non me ne ricordo. Bene mi ricordo che vifu trattato, circa i materassi, che durò un pezzetto, e chefu rotto soltanto quando divenne evidente che ci sarem-mo difesi sino all’ultimo prima di cedere. Questi eran gliusi in vigore nell’osteria di Veleno.

In uno dei più caldi e più sereni giorni di maggio si fa-ceva il nostro ingresso, dopo mezzogiorno, in CastelSant’Elia. Una delle più belle e pittoresche parti dellacampagna romana è quella che incomincia a Nepi, e sistende fino al Tevere per larghezza; per lunghezza giun-ge sino ad Otricoli ed anco fino a Narni. I forestieri, itouristi, non ne seppero mai nulla sino ad oggi: e tantomeno la conoscevano nel maggio del 1821. Ho sempretrovate belle sopra tutte quelle parti della terra italianasulle quali non rimasero stampate le suole degli stranie-ri. Buona o cattiva, è la terra nostra vergine quale la feceIddio e non guastata da nessuno.

Questa regione veduta in distanza, sembra una pianu-ra leggermente ondulata: chi invece ci si inoltra, si trovaad un tratto sul ciglio di larghi burroni che solcano ilsuolo ed in fondo a’ quali corre un piccolo torrente.Questi rivi nascono nelle colline di Sutri, di Vico, di Vi-terbo e dapprima scendono quasi a fior di terra. A pocoa poco si vengono poi avvallando, e serpeggiano, inmezzo a queste valli profonde, larghe talvolta più d’unmiglio; nè può facilmente concepirsi in qual modo cosìpiccoli rigagnoli abbian potuto scavare letti tanto estesie profondi. Ed al contrario qual altra forza se non l’ac-

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qua può averli formati? Le pareti di queste voragini so-no per lo più grandiosi squarci di rocce a perpendicolo,talvolta scoscendimenti erbosi o vestiti di boscaglie. Ilfondo è fresco e verdeggiante pei grandi alberi ed om-bre opache, le correnti, i filetti d’acqua, i ristagni ovequesta impadula; che ora si vedono e riflettono il verdedella campagna o l’azzurro del cielo, ora rimangonoconfusi o celati sotto le volte d’una robusta e fitta vege-tazione. Non ho mai veduto un più ricco tesoro di bel-lezze naturali per lo studio di paese.

A Nepi comincia a sprofondarsi uno di questi burro-ni, e a due miglia circa, sul ciglio a sinistra siede CastelSant’Elia, paesetto di cinquecento anime, distribuite invecchie case o catapecchie; sulle quali il tempo, la mala-ria ed il vento marino hanno stesa quella patina medesi-ma che colorisce così robustamente le rocce che sosten-gono, e che mal si distinguono da loro.

Venendovi da Nepi s’entra per una strada larga for-mata da due file di case di desolata apparenza. Quelle aman ritta sono proprio sull’orlo del gran burrone, e leloro finestre s’aprono su uno sprofondo d’un centinaiodi metri a filo di piombo. Seguendo la strada, dopo cen-to passi si trovano sul terreno piano le tracce d’un fossoe d’un recinto che contornava l’antico castello, collocatosu una rupe che pel subito voltare della scogliera fa go-mito e s’alza isolata. Questa rocca era il feudo della fa-miglia de’ conti Panimolli, rappresentata allora da un ul-timo e curioso originale. Egli merita pur menzione.

Questo capo d’opera, uomo di società per eccellenza,abitava Roma. Non c’era casa, non c’era signora, ch’eglinon conoscesse, e per la maggior parte non frequentas-se: era di tutte le conversazioni, i balli, le feste; di tutti ipranzi, delle grandi case romane specialmente, ed altresìde’ forestieri e della diplomazia; da tutti ben veduto eben accolto perchè nessuno ebbe mai da fargli un rim-provero; anzi ognuno aveva a lodarsi di lui. Uomo servi-

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zievole, d’aiuto, e di ripiego nelle occasioni; sapendotutti gli affari, i segreti, le nuove, i pettegolezzi, i matri-moni, gli amori, le storielle, ec. ec., e non mutando mainè viso nè umore, e nemmeno, pareva, il vestito, sempretutto nero, e un pò rapato, senza arrivar mai ad essereindecente. Panimolli, dopo terminate le società, i teatri,le cene, quando bisogna pur finirla colla vita in comune,veniva a Piazza Colonna sul canto del Caffè degli Spec-chi, ove trovava ritto il suo servitore che l’aspettava.Sentiva se c’erano lettere per lui, ambasciate, commis-sioni; gli dava gli ordini per l’indomani e poi addio! ilPanimolli spariva, e nessuno al mondo sapeva dove an-dasse a finire, nè mai fu scoperto, ch’io sappia; neppureda questo tal servitore che non comunicava col padronese non una volta al giorno,cioè la notte, alle tre o allequattro al canto del Caffè degli Specchi.

Noi dunque s’entrò nel feudo di questo caro matto aldopo pranzo, come dissi, d’una bella giornata di mag-gio. Io a piedi, e Michele mio associato sull’asino, cheegli possedeva, ch’io invidiavo, e sul quale, senza fretta,era stato portato per le trentadue miglia di strada che ciseparavano da Roma.

La prima visita fu, come è naturale, dedicata a Ver-stappen, il quale credendo ignorata da tutti in Roma lasua villeggiatura a Castel Sant’Elia s’era addormentatonella più supina e felice tranquillità.

Quando la nostra comparsa tutta modesta e ridente locostrinse a destarsi, non ebbe la forza, che distingue lerazze civilizzate, d’esser seccato e di mostrarsi felice;quei suoi occhi tondi di madreperla s’aprirono su noicoll’espressione della sincerità, esprimendoci la noia chegli cagionava il nostro arrivo. Gli si domandò invano sesapeva come si potesse alloggiare, trovar casa, o privatao osteria ec. Lui non sapeva niente di niente, e pregavacerto Iddio in cuor suo che nessun tetto volesse coprirci.La sua preghiera sarebbe stata esaudita, per gente più

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esigente di noi; poichè non c’era in paese nè osteria, nèbettola, nè case, nè quartieri, nè camere a pigione nem-meno per ombra. Quel ch’è peggio, nè un macello nè unpizzicagnolo; appena un fornaio, se ben mi ricordo.

Finita la nostra visita, che non durò un pezzo, ci met-temmo in cerca di case, picchiando a tutti gli usci, of-frendoci per inquilini, ed essendo mandati a spasso datre quarti di paese. Ma non c’è un buco, una soffitta,una cantina disponibile in questo.… (spero d’aver det-to) caro paese? Questa domanda ottenne per rispostadai villani esserci una casaccia che ci fu insegnata pro-prio in bilico sul precipizio, senza porte, o imposte o ve-tri; disabitata e abbandonata fino dai tempi di repubbli-ca. Era allora stata saccheggiata da que’ soldati co’ qualil’Italia fece, senza saperlo, trattato di commercio – nonperò di sua invenzione – in virtù del quale essi importa-rono i principii dell’ottantanove, ed esportarono quantopotettero trovare nelle tasche nostre. Tanto i soldatiquanto gli Italiani allora non sospettavano neppure qua-li dovessero essere gli effetti finali de’ fatti che accadeva-no: ma allora, come sempre, gli uomini credevano dimutar loro il mondo, e invece lo mutava Iddio. Siccomenon c’era da scegliere, e via non si voleva andare, s’ac-cettò la casa saccheggiata: si cercò del padrone, e s’ebbeper pochi paoli l’investitura dello stabile, che si potè ri-cevere senza l’importante funzione della consegna dellechiavi, per la ragione che se l’eran portate via i Francesinel novantotto.

Armati dunque d’un coraggio da leoni, s’andò al pos-sesso, e spinta una portaccia cadente, dopo un andron-cino pieno di ragnateli si riuscì in un cortiletto ridotto aprato, o a macchia d’ortiche e di pruni, colle mura verdipel vellutello e la muffa. Qui si lasciò il somaro nel suoelemento, e più felice di noi. Poi su a perlustrare gli ap-partamenti. Di tutto il mobilio era rimasto solo un ingi-nocchiatoio, che per fortuna aveva un cassetto e la sua

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chiavetta da chiudersi, e un vecchio seggiolone di cuoioa braccioli. Quanto a letti ed ogni altra cosa, è detto inuna parola, niente.

Ma a tutto c’è rimedio fuorchè alla morte. Si trovaro-no due sacchi del rubbio, a nolo, e si comprò tanta paiada empirli; un paio di lenzuola s’erano portate, e messi isacchi in terra, coperti colle lenzuola bianche, la camerada letto ebbe subito un aspetto decente; una tavola, tan-to per non mangiare in terra, s’ebbe. Non mi ricordo co-me, e perciò non lo dico – non voglio dir bugie neppurein questo – e così considerammo come bastantementeprovvisto alle prime nostre necessità, per quella sera.

Rimaneva però pendente un gran problema, quello dimettere il somaro in luogo chiuso per la nottata, non es-sendo Castel Sant’Elia paese di soli galantuomini, ed an-zi dalle facce potendosi sospettare l’estremo opposto.Ma anche a questo si trovò rimedio. Io presi l’asino perla cavezza, ed il suo padrone spingendolo e punzec-chiandolo di dietro lo prese per la coda. Gli si fece salirequella ventina di scalini che conducevano al piano nobi-le. Qui legatolo alla meglio, in sala, gli si lasciò un fasciod’erba, colla felice notte, e ce n’andammo nella cameravicina a dormire su’nostri sacchi anche noi. La porta disala si chiuse con una stanga a traverso raccomandata aduna corda attorcigliata, che pendeva dal buco ove ungiorno era stata la toppa; s’ebbe il sonno della stanchez-za e della gioventù, anche più riposato di quello dell’in-nocenza; se non che un balzo ci fece saltare su’nostrisacchi, ad una esplosione sonora, che tra la veglia e ilsonno ci parve la tromba del dì finale.

C’eravamo scordati d’avere in anticamera il somaro;ma ce lo ricordò lui verso l’alba con un raglio di tantorimbombo, fra l’aria cheta e l’essere in camere vuote, dasembrare il vero giorno del giudizio.

L’indomani si tese alla meglio un po’ di carta quegliavanzi di telai delle finestre tanto di non dormire

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coll’umido della notte addosso; e poi si cercò modo didare ordine all’importante articolo cucina.

La nostra sala d’ingresso aveva un largo cammino col-la cappa sporgente all’antica, perciò rimase destinata aquest’uso. Si fece una gita a Nepi e si tornò cogli attrezzinecessari: due o tre pentole, tegami, mestolini, e qualcheprovvista, ed il secondo giorno eravamo già accomodatitutti e tre, noi due in casa e l’asino in istalla (ridottachiudibile), con tutti gli agi più sibaritici che si possonoragionevolmente desiderare.

Però la chère parve sempre magra, persino a me, ch’ètutto dire. Una volta per uno, ognun di noi dovette an-dar sempre ogni due giorni a Nepi per provviste, col fi-do ciuco. Questa gita bastava per avere pane, un po’ dibrodo, ed annessi. D’erbe, di legumi, frutta, salumi, lat-te, burro, ec., non c’era da discorrerne.

Per variare ogni tanto, si comprava un capretto vivoda que’ pecorai; ma bisognava cominciare dall’ammaz-zarlo, poi gonfiargli la pelle, scorticarlo, vuotarlo e viavia; tanto che l’averlo davanti in tavola colla testicciolafritta, o collo spezzato col brodetto, era l’undecima o laduodecima operazione, tutte pochissimo divertenti; so-prattutto quella di vedersi supplicante quel musinobianco, col nasino color di rosa e quegli occhiolini stupi-di ed innocenti, e dovergli dare una mazzolata sul capo,e tagliargli la carotide. Malesuada fames!

Altra varietà della nostra dispensa erano le rane. Ri-posandoci dal lavorare, le venivamo infilzando per certistagni portandone talvolta a casa delle ricche collane. Lacucina si faceva un poco per uno.

Questo era l’assetto di casa, in perfetta armonia collenostre miserie. Il suo impianto richiese appena un gior-no di cure; perciò il secondo, dopo il nostro arrivo, sipotè a levata di sole avviarci al lavoro. Io non possedevociuco: i miei mezzi non me lo permettevano; presi inveceun ragazzotto di quindici o sedici anni, il quale correndo

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la carriera ecclesiastica, serviva il curato, era sagrestano,ed andava vestito da prete. Cioè, intendiamoci: in queipaesi e con quei caldi tutti vanno sempre in maniche dicamicia, quindi il distintivo in lui erano solo calzoni ecalze nere. Questo chierichetto mi portava gli attrezzi,mi lavava i pennelli, ed era un ottimo ragazzo. Chi sache cosa sia diventato? chi sa che non sia ora un canoni-co o un monsignore? cosa fra i possibili, poichè la car-riera ecclesiastica è aperta agli umili come agli illustri nelsistema curiale romano.

Non mi pare che a questo punto il dire quattro parolesull’arte mia, venga fuor di proposito. Se lei non è pitto-re, e non se n’interessa, c’è il solito rimedio: salti.

Nel secolo XVIII la società era giunta in ogni genereagli ultimi confini dell’artificiale, dell’affettato, delloscontorto, dello stravagante, dell’illogico ec. ec. Si po-trebbe estendere quest’osservazione a sfere più alte edimportanti, ma son cose ormai dette abbastanza. Micontento d’osservare che le aberrazioni del gusto, nellecose appunto di gusto, erano spinte fino all’incredibile.In fatto di mode, quei castelli incipriati che vediamo ne’ritratti di donne, con un cappellino di paglia o una coro-na di rose sulla cima: e in fatto d’arti, li acquarelli, verbi-grazia, di paese, d’una sola tinta, e quale? Lacca rossa, ocinabro puro!!! I giovani che non le hanno vedute, nonmi crederanno, ma le ho ben vedute io, e non avevo letraveggole.

Anche in arte vi fu allora un gran movimento verso ilculto del vero. Nella pittura storica l’influenza delle ideegreco-romane, che servivano o si facevano servire allapolitica del momento, popolò le tele d’Achilli, di Aiaci,di Milziadi, di Orazi e Curiazi, di Gracchi ec. ec. Sicercò col vero dinanzi la forma antica nella sua monoto-na affettazione; si volle vedere il nudo da per tutto, finosotto le vesti; si dipinsero figure che sembrava le avesse-ro indosso bagnate. La mania arrivò al punto che per

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uno scultore classico l’umbilico fu visibile sotto la coraz-za del medio evo, ed un disegnatore dovendo rappre-sentare Napoleone in piedi, segnava la rotula sotto lostivale a tromba!

La pittura di paese viveva invece in un ambiente sca-rico di passioni politiche, e tenne una via più ragionevo-le. Dai chiaroscuri di lacca o cinabro, dai manieristi de’quali rimangono i saggi nei sovrapporti de’ quartieri si-gnorili di quel tempo, si passò all’imitazione esatta, mi-nuta del vero, senza mettervi nè per l’argomento, nè perla forma o per l’effetto, ombra d’immaginativa.

Hackert fu tra’ primi ad applicare quella teoria cosìsemplice in apparenza, ed in sostanza così spesso nega-ta: esser l’arte il ritratto del vero, nè potendosi far ritrat-to veruno senza conoscere l’originale, doversi studiarequesto vero e metterselo in capo quanto è possibile.

Egli morì a Firenze nel 1807. La contessa d’Albanyaveva un suo paese assai grande, rappresentante un bo-sco d’alto fusto con un lontano, ed alcuni cervi sul da-vanti. Io lo ricordo in nube, fra le mie prime impressio-ni, e rammento che lo guardavo ed ammiravolungamente. Il suo talento, l’incontro del suo nuovo sti-le, la sua fama, le ricchezze acquistate, allettarono, comesempre accade, numerosi imitatori.

Per una ventina d’anni e più, fiorì in Roma la suascuola. Woogd, Therlink olandesi, Verstappen fiammin-go, Denis e Chauvin francesi, Bassi bolognese, furono idominatori di una delle più felici epoche artistiche dellequali abbia memoria.

Essi si trovarono artisti provetti e nel vigore dell’età,nel 1814, quando l’Europa non ne voleva più dell’odoredella polvere, nè della vista del sangue, ed anelava di ri-crearsi lo spirito colle benedizioni della pace. Gl’Inglesi,più degli altri, tenuti in quarantena da tanto tempo nellaloro isola, si versarono come una lava sul continente; ese in Italia non ebbero l’intelligenza dell’arte, ne profes-

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sarono però l’idolatria: talchè i pittori sunnominati nonbastavano a contentare tutte le richieste.

Ogni artista aveva un soggetto nel quale era tenutopiù felice. Mi ricordo che la cascata del Velino era il sog-getto di Bassi. Credo che in parecchi anni ne facesse piùdi sessanta; che in fine, per esser sinceri, sembravano unpo’ fatte colla stampiglia.

Io seguivo scrupolosamente i precetti di quella scuo-la, e credo che siano i migliori. Dipingevo dal vero in te-le di bastante grandezza, cercando di terminare lo stu-dio, a quadro, sul posto, senza aggiungere unapennellata a casa. Studiavo in dimensioni minori, pezzistaccati, sempre ingegnandomi di finire più che potevo.Questo era il lavoro della mattina. Dopo pranzo dise-gnavo pure dal vero, terminando con molta cura e stu-diando ogni rilievo. Con questo metodo, il soggiorno diCastel Sant’Elia d’un paio di mesi, mi fece fare i primiveri progressi, e mi cavò fuori dalle difficoltà materialidell’esordiente.

Il finire sul vero, come si finirebbe un quadro nellostudio, serve a cercare lo sfondo coi mezzi semplici dellanatura, e non coi contrapposti forzati d’un’arte maniera-ta: ricordandoci però sempre che i mezzi nostri sono li-mitatissimi, mentre sono infiniti quelli della natura. Essaha la luce sulla sua tavolozza, e noi ci abbiamo la biacca.Siamo dunque costretti d’aiutarci cogli artifizi, e perciòsi dice arte. È facile il procurare lo sfondo ad un lontanovaporoso e cilestrino, con un grosso albero nero che glisi metta davanti, all’uso de’ manieristi; ma è men facileottenere simile sfondo, coi mezzi infiniti usati dalla na-tura, che tante volte è chiara sul davanti e scura in lonta-no. Non solo è men facile ma è impossibile avvicinarse-le, se non s’altera in una data misura la prospettivaaerea, se non si trascura, l’indietro e non si finiscel’avanti un po’ più che nel vero. Anche quest’artificiodeve però stare in certi limiti. E come si fissano? col ta-

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lento e col gusto. La prima, la vera molla dell’arte sta inloro: l’ispirazione è il fervido raggio che solo ne può fe-condare i germi. Nella pittura di paese si possono, sug-gerire precetti, osservazioni ec., ma se non s’opera perispirazione, tutto è inutile. Per questo i grandi paesistisono stati più rari che i grandi in altri rami dell’arte.

Il metodo che accenno, io l’ho seguito per moltissimianni, passando in villa tutta intera la bella stagione. Orainvece si studia meno ed in altro modo dal vero. Qualede’ due metodi è il buono? Il migliore forse sarebbequello che partecipasse d’ambedue.

Gli anni di validità al lavoro sono misurati all’uomo.È bene dividerne l’impiego. Prima di tutto il paesista de-ve imparare a riprodurre il vero, poi a far quadri

Io forse diedi troppo al primo stadio, e troppo pocoal secondo; mentre per far bene, si deve lasciare spazioconveniente ad ognuno di loro.

Ora se ne lascia troppo poco al primo. Ma l’arte ètutt’altra da quello che fu trent’anni sono; essa procededa altri impulsi, vive in altri ambienti, e stretta da altrenecessità. Quella maledetta frase che ha ingannata, e fat-ta morire o vivere di stento tanta gente – proteggere lebelle arti! – frase che si credette ridurre a fatto coll’isti-tuire le Accademie di Belle Arti, porta ora i suoi frutti.

A forza di fabbricare artisti, l’arte è dovuta diventareun’industria; e siccome in essa e assai più l’offerta che ladomanda, s’è dovuto pensare a provvedere a quella mas-sa di lavoranti necessariamente a spasso. A questo effet-to, le buone persone di molte città hanno istituite le so-cietà promotrici, veri luoghi pii: ed i governi concorronoalle spese, ed impiegano i denari dei contribuenti ad ac-quisti, che scampano quella massa d’artisti, i quali se-condo le regole economiche, sarebbero giustamente di-soccupati, dal morire letteralmente di fame. Ed anch’ioquand’ero ministro feci come gli altri: che Dio ed i con-tribuenti perdonino il mio peccato!

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Ma proprio, par impossibile a vedere certe volte co-me gli uomini sono zucconi. Ed il più bello è che ogginon si discorre che di leggi economiche, di libero com-mercio, di valor reale, di domanda e d’offerte! Facciamoun’ipotesi.

Suppongo una città di 50 mila anime: dunque circa25 mila maschi, 15 mila adulti, e perciò circa quindici-mila teste che chiedono un cappello. Ci sono cappellaiche li provvedono; se il lavoro cresce, chiamano altrigarzoni; se cala, li rimandano, e questi cercano nuovocielo. Così tutti campano, e nessuno s’ha da incaricare diloro. Ma viene al mondo un grand’uomo, che diventaMinistro, e si persuade che bisogna proteggere la Cap-pelleria; istituisce un’Accademia, e vi chiama i più di-stinti cappellai del paese, li paga bene, e quelli insegna-no meglio, dimodoche ogni anno si mettono in attivitàtanti cappellai nuovi, de’ quali non c’è bisogno, perchènon ci sono più capi da coprire; questi non avendo pa-ne, stridono, si lagnano, tribolano il pubblico, ed allorale anime buone fondano una società onde comprare icappelli d’avanzo, tanto da dar da vivere ai cappellai al-tresì d’avanzo: ed il ministro presenta alle Camere unadomanda di fondi onde concorrere alla spesa. Ma nonera meglio risparmiare quell’altra spesa, e non mantene-re fabbrica di cappellai pei quali non c’è lavoro?

Questa forma di protezione della Società promotrice,ha poi altri inconvenienti. Primo, quello di stancare ilprossimo a furia di strofinargli sotto il naso queste bene-dette belle arti. Volete che una cosa alletti? fate che sene desti desiderio; e oramai non c’è più angolo da rifu-giarsi, dove non si trovi qualche ramificazione di quelproteggere benedetto. Però non è peccato italiano ilpensiero delle Esposizioni perenni. Di chiunque sia èstato un malaccorto peccato.

Secondo inconveniente. Chi espone, salve pochissimeeccezioni, ha bisogno di vendere, anzi necessità, anzi

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l’hanno più di lui i suoi creditori. Se quel tal quadretto sivende, il sarto, il calzolaio, il coloraio hanno o il saldo, oun acconto, col quale si fonda il credito per un altr’an-no.

Per conseguenza si mettono in moto compari e coma-ri, protettori, amici, si va a far riverenze in ogni senso ed’ogni misura a ministri, impiegati, uscieri, nè si trala-sciano tutti quegl’invisibili fili di sesso femminino chedanno occulto moto ai meccanismi della società.Perconseguenza i caratteri si abbassano, si falsano, e quellatal protezione all’arti belle si muta o in un’opera di mise-ricordia, o in un ignobile e corruttore impulso.

Almeno ci guadagnasse il gusto del pubblico e degliartisti! Ma invece ecco un altro inconveniente. Il biso-gno di vendere conduce logicamente al bisogno di farsiosservare e distinguere dagli altri; quindi al bisognod’esser di moda, e seguire non la coscienza, preziosanell’arte come in ogni altra cosa, ma il capriccio del gior-no. Quindi star sempre all’erta, per scoprire di dove spi-ra il vento, e riprodurre non quel vero e quel bello cheogni artista sente in sè, ma quel tal genere, quel tale stileche ha incontrato, sia qui sia altrove, il suffragio delpubblico e soprattutto de’ compratori.

Perciò non si cerca più di fare arte propria e sentita;ma di copiare quello o quell’altro pittore che è in voga aParigi o a Londra; e l’arte diventa un contraffare più omeno esatto e felice.

Di qui poi ne segue una strana stonatura delle ideeoggidì più generali. S’ama l’indipendenza, si ama la na-zionalità, s’ama l’Italia, anzi in generale i paesisti sonoaccordati al corista di Roma o morte; e poi se prendonoil pennello in mano la sola cosa che non fanno è l’Italia!La magnifica natura italiana, la splendida luce, le ricchetinte del cielo, nessuno la crede degna d’essere ritratta!Si va alle esposizioni, e che cosa si vede? Un paese delnord della Francia, imitazione del tale. Una marina, pre-

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sa a Etretat o a Honfleur, imitazione del tal altro. Unalanda in Fiandra, un bosco a Fontainebleau, imitati daDio sa chi; e tuttociò coi cieli sbiaditi, la luce morta dique’climi, colle tinte impolverate come se un velo colordi terra stesse loro davanti; e se talvolta trattano soggettidel nostro paese, sembra che temano dì mettervi luce everità; che temano l’azzurro del cielo, il verde delle pian-te, e fanno un’Italia ammalata al soffio del vento delnord! Mentre sono nati nella vera patria d’ogni bellezzanaturale, sotto il limpido e potente raggio d’un sole, checolora e pianure e mari e monti ed alberi ed edifizi diquelle tanto mirabili intonazioni, preferiscono un’arteserva d’altrui; un’arte che aspetta da Parigi o da Londrai suoi modelli e le sue ispirazioni, colla pacotille dell’al-tre nouveautès dell’anno; preferiscono una natura senzaanima, senza carattere, fiacca e smorzata, da rassomi-gliarsi ad un istrumento che abbia la sordina; e per essarinnegano l’Italia e quel suo cielo, quelle sue bellezze,che pur troppo chiamarono sul nostro suolo, un tempo,già tanti nemici, ma che graziadio oggi vi chiamano sol-tanto amici che non mai si saziano di magnificarle!

I boschi, i querceti, i castagneti che vestono il lungodorso dell’Appennino, non reggono forse al paragonedella foresta di Fontainebleau? Le marine d’Albenga, diSestri, di Port’Ercole, di Sorrento, d’Amalfi splendonoforse meno di quelle d’Etretat e di Trouville? l’ondagialla dell’Oceano, è forse più poetica che l’azzurro flut-to del Tirreno e del Jonio?

L’indipendenza non vale d’averla sulla lingua se nons’ha nel cuore, ed in tutto: anche nell’arte. Siamo nazio-ne, siamo Italiani, siamo noi una volta in ogni cosa, inogni genere, sotto ogni forma, ovvero, se non si vuol farpiù, gridiamo meno.

Que’ paesisti invece che ho citati del 1814, tutti stra-nieri, salvo Bassi, trovavano pur degna l’Italia d’essereritratta, e tutta l’Europa fu della loro opinione. Ancora

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ho davanti agli occhi le spiagge di Napoli e di Baja diDenis; le Forche caudine di Chauvin: gli orizzonti dellacampagna di Roma di Woogd; le macchie della Nera diVerstappen, e la cascata delle Marmore di Bassi. A Na-poli Vianelli, Gigante, Smargiasso, Carelli e molti altrinon ebbero bisogno di lasciare i loro climi felici per farsinome e ricchezze, e Dio sa che tempi eran quelli nel sen-so politico! Ed ora quando tutto dovrebbe spirare indi-pendenza, azione spontanea, libera ed originale iniziati-va, la mia povera arte del paesista ha da esser servile,piaggiatrice, copia di copia d’una natura che non è lasua e che n’è lontana le mille miglia?

Dopo aver detto quel che penso sulle accademie e leSocietà promotrici, dell’originalità, dell’indipendenzaartistica, sono il primo a riconoscere che sarebbe erroreconsiderarle come fatti isolati. Esse sono frutto dellecondizioni del mondo moderno, e tutti i ragionamentipossibili non servono a mutarlo. Si seguiterà per un granpezzo a proteggere le belle arti, come l’orso della favolaproteggeva l’uomo contro le mosche; si seguiterà a co-piare gli artisti di moda, anzi a contraffarli, come s’usaper medaglie, armature e curiosità antiche; si seguiteràad ubbidire il pubblico ne’ suoi capricci di cattivo gusto,invece di correggerlo e condurlo al bello, al vero ed albuono; si seguiterà a generare artisti superflui, ed a te-nerli vivi, colle Promotrici; io seguiterò a pagare la miaquota per mantenerle in fiore, ed avrò in ultima analisi ildestino di tutti i predicatori. In questo caso l’ostacolonon sta già nel non capire: tutti invece, parlo di chi hasale in zucca, e se n’intende, pensano allo stesso modo,ma sta nella forza d’inerzia. L’abitudine è mezzo padro-na del mondo: così faceva mio padre – anche inquest’èra di rivoluzioni – è sempre una delle grandi for-ze che guidano il mondo.

Forse è un bene; chè altrimenti il nostro pianeta roto-lerebbe troppo in furia.

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Torno a Castel Sant’Elia. Noi che ci eravamo venutiper veder lavorare dal vero Verstappen, vuol crederlo?non fummo mai musi da vedergli dare una pennellata: sipuò dire, nemmeno di vederlo. La sera s’andava in casasua, ma quasi sempre era già a letto. Come giovani si fa-ceva chiasso, si suonava una chitarra, o colascione, tantoda ballare il saltarello, ballo romanesco, compagno dellatarantella. Figuriamoci se ci mandava in quel paese ilpovero Martino! Non era però la sua casa il nostro solorifugio. Dopo i primi tempi, quella popolazione ci avevaaccettati come gente innocua, e che pure qualche cosaspendeva. S’aprì per noi la porta della prima casa delpaese, la famiglia Saetta. V’era un capo di casa maritatoed un prete che ci accordarono da prima un saluto, poisaluto e toccata di cappello, poi toccata di cappello esorriso, poi finalmente parole, ed in ultimo accesso incasa.

Io m’ero offerto per sonar l’organo la domenica, econ ciò m’ero affiatato anche col curato al quale accom-pagnavo la messa cantata. A questo vecchio galantuomoera succeduto un caso non dei più frequenti: quellod’essere stato fucilato dai Francesi una ventina d’anniprima nel giorno medesimo che aveva visto l’eccidio del-la casa da noi abitata. Egli raccontava che l’avevano pre-so, condotto sulla strada di Nepi, fatto metter ginoc-chioni con parecchi altri, poi una salva di schioppettatee via tutti senza guardarsi indietro. Egli s’era buttato interra, benchè non tocco, ed era rimasto zitto e immobilefra que’ morti o morenti finchè vide fatto notte. Allorapiano piano alzò un po’ il capo, esplorò, e trovato scenalibera, se la svignò di siepe in siepe, tantochè si trovò dinuovo la mattina nella sua parrocchia.

Io che in casa mia avevo veduto il mondo e la societàa vista d’uccello, ora lo vedevo a vista di testuggine, o diqual altro animale sta più umilmente attaccato alla pianaterra. Lo studio della società da questa nuova posizione

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m’interessava; mi divertivano le arie maestose e protet-trici dell’abate Saetta e del fratello; paragonavo questeloro degnazioni a quell’altre che avevo potuto osservarein altre classi, e mi si venivano rischiarando le idee, mivenivo accorgendo che l’homme est le même partout,come diceva il mio Inglese; che l’impertinenza, l’albagìach’io credevo un annesso della nobiltà, è semplicementeun annesso dell’umanità; e così mi venivo lavorando dalvero molte nuove idee sugli uomini e le loro pazzie, stu-diandoli non su’ libri ma sulla loro pelle vera e naturale.

Io nascondevo gelosamente la mia origine, che peròqualche circostanza imprevista veniva sempre a scoprirecon mio gran disappunto. E così precisamente m’accad-de a Castel Sant’Elia.

Convien sapere che nell’Italia media e meridionale, aifigli, per quanti sieno, si dà sempre ad ognuno il titolodel padre. Mio padre era marchese, dunque marcheseanch’io. Un giorno avevo scritto a casa Orengo per nonso quali panni, che mi furono mandati in un involto,coll’indirizzo al Marchese Massimo d’Azeglio – Nepi:intanto me ne avvisavano perchè sapessi dove farli ricu-perare. Io ci andai in persona, e mi presentai da non soche vetturino che prendeva incombenze da Roma e perRoma. Non m’ero ricordato di far toaletta, ed avevo lamia solita: maniche di camicia e camiciola gettata su unaspalla, e non calze in gamba pel caldo. Entro, e dico: «Ci ha da essere un fagotto per Azeglio». – «C’è, ma è perel marchese». – « Be’ son qua per prenderlo. Quantoimporta? » – «Eh abbiate pazienza, non ve lo pozzo las-sare; bisogna che venga el sor marchese per lo scarico, laricevuta » – «Ma son io il marchese! » dissi finalmenteimpazientito di dovermi svelare.« Voi siete el marchese?» Ancora rido a ricordarmi l’occhiata di incredulità e disprezzo che mi lanciò il mio interlocutore, a vedere inquest’uomo senza calze una così enorme presunzione.

Non mi ricordo ora se dovetti trovar cauzione sulla

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mia identità, o se finii coll’ottenere fede. Mi ricordo be-ne che ci fu da battagliare assai prima di portarmi a casai miei panni; sparsa la gran nuova del marchesato, ac-cadde a me in Castel Sant’Elia come ad Almavivanell’ultim’atto del Barbiere,

« Almaviva son io, non son Lindoro!»Per fortuna anch’io mi trovavo alla scena finale della

mia villeggiatura. S’era in luglio, cominciava l’aria catti-va e bisognava mutar cielo.

La mia infelice passione per le avventure mi decise apartir per Roma la sera a cavallo, col mio schioppo intracolla e solo. Erano trentadue miglia della parte piùdeserta della campagna romana da traversare di notte.Partii con uno stellato bellissimo, e così sul fresco me nevenni verso Roma per quell’ondulata pianura, ove diquelle ore uomini bonae voluntatis non ne gira che incomitiva; e salvo una carovana di muli al bivacco che pa-scevano staccati accanto ai carretti ne’ quali russavano ivetturali, non incontrai anima viva: d’avventure poinemmeno l’ombra. Per questo ho detto dianzi la miapassione infelice. Per tanti anni sono andato sempre so-lo più la notte che il giorno, in paesi di pessima riputa-zione, e non m’è accaduto mai nulla abbastanza impor-tante da farmi un po’ d’onore con qualche bel racconto.

Mi si fece giorno presso alla Storta all’osteria del Fos-so, famosa per l’ostessa che vi sedeva a tavola con venti-due figli tutti sani e robusti: e prima di mezzogiorno en-travo in Roma.

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CAPO DECIMONONO

SOMMARIO. – Rivoluzione del 1821 in Piemonte – Ordine dimio padre di non accostarmi a Torino – Obbedisco ma senzagran merito – dissapori nella mia famiglia in questa occasione –Mio padre edv altri vecchi nobili, la primo sentore del pericolocorrono a difesa del Re – Fortezza d’animo di mia madre inquesti momenti – Mio giudizio sul moto politico del 21 – Dellerivoluzioni militari e della fedeltà alla propria bandiera – Miofratello Roberto a Parigi, poi di nuovo in famiglia – Dal CastelSant’Elia passò nel luglio del 1821 a Rocca di Papa – Descri-zione del paese circostante – Origine di Rocca di Papa – Ritrat-to fisico e morale delle villane nella campagna di Roma.

Torniamo un passo addietro.Nel marzo di quel medesimo anno era scoppiata la ri-

voluzione di Piemonte, che in un mese fu finita e liqui-data; lasciando però tristi tracce, e più tristi germi nellasocietà come nel paese.

Per quanto io ne fossi fuori, e nel tutt’insieme facessipoco fondamento su quell’impresa, mi sentivo pure cor-rer più veloce il sangue a mano a mano che se ne sparge-vano le nuove per l’Italia, ed insino a Roma se n’udivanoi racconti.

L’amico Bidone mi scrisse d’andare subito, onde ado-perarmi in queste mutazioni. Mio padre invece, mi spe-diva contemporaneamente due o tre lettere, l’una a Ro-ma, l’altra a Firenze, una terza a Genova, pel caso chegià mi fossi mosso, perchè o l’una o l’altra mi capitassein mano, nelle quali mi comandava dì non venire sottoverun pretesto. Io gli ubbidii, e quest’ubbidienza mi fudi poi messa a conto di gran merito nell’animo suo. Maio n’ebbi poco. Anche a ventidue anni, già capivo checolla santa alleanza nel suo bel fiore, volere senza forze,senza alleanze, proclamare per sorpresa la costituzionedi Spagna in uno Stato italiano, era nient’altro che farsiil provveditore del patibolo. E poi perchè proprio quella

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di Spagna? Come se Spagna e Piemonte fossero due ge-melli, che possono scambiarsi panni tagliati ad uno stes-so dosso! Però la ragione c’era. Con quella costituzionesi poteva far meglio la politica in piazza….: sempre lasolita commedia.

Mentre si stava preparando l’invasione del regno diNapoli, decisa a Laybach, io m’era offerto al cavalierMicheroux, ministro di Napoli presso il Papa, doman-dandogli di servire nell’esercito. Egli mi rispose fredda-mente ed evasivamente, nel senso, per quanto mi ricor-do, che non entrava nei disegni del Governo napoletanod’introdurre esteri nelle sue file. Io che aveva mossoquesto passo, senza punto fanatismo, poichè se alla rivo-luzione di Piemonte credevo poco, a questa di Napolicredevo meno, non andai cercando altro: fortuna! mi ri-sparmiai Antrodoco!

Queste perturbazioni pubbliche ebbero però tristiconseguenze nella mia famiglia, come in molte altre.Mio padre tenuto allora fautore dell’assolutismo, in fat-to non lo era. Egli aveva troppa intelligenza per non co-noscerne i danni e l’impossibilità; ma egli era nemicodelle rivoluzioni che per lo più lo cambiano di mano; ein peggio. Sfido a non esser tale dopo aver seguitataquella di Francia dal primo all’ultimo giorno, e vedutoMirabeau mutarsi in Robespierre; Robespierre mutarsiin Napoleone, Napoleone mutarsi in Luigi XVIII coiCosacchi al bivacco in Piazza della Concordia!

Quando il 10 marzo fu dato l’andare al movimentopiemontese fuor di Porta Nuova a Torino, mio padreappena ne fu informato vestì l’uniforme e corse a collo-carsi al fianco del Re che stava al palazzo, ondeggiandofra opposte risoluzioni.

Molti altri signori avevano fatto lo stesso. Erano lamaggior parte attempati fuori di servizio; fra gli altri, mifu citato il marchese di Rodi, vecchio ufficiale, pienod’onore e d’energia, che conoscevo e che mi voleva be-

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ne; ma tutti per l’età, pel disuso, più volenterosi che for-ti.

Il Re si trovava nel bivio, o d’uscire e mettersi alla te-sta della poca truppa che si trovava sotto mano, e com-battere gl’insorti, o cedere alle loro pretese. I pareri era-no divisi. Molti di quei vecchioni aveano ordinati icavalli che li aspettavano in cortile. Temendo, se la riso-luzione d’uscire prevalesse, trovarsi impicciati per met-tersi presto a cavallo, lasciarono il Consiglio a mezzo, escese le scale, si fecero aiutare a salire in sella onde tro-varsi già belli e pronti se si doveva partire.

Invece il buon re Vittorio, leale e onesto ma corto,tenne altra via. Spargere sangue gli ripugnava, ed altret-tanto cedere. Prese un terzo partito: abdicò.

Quei bravi vecchioni dovettero smontare da cavallocome v’erano saliti; e mio padre prese congedo dal Re,che aveva servito anticamente quand’era duca d’Aosta, eche lasciò ora con tristi presentimenti per la Casa di Sa-voia e pel paese. Per fortuna l’avvenire non doveva veri-ficarli. Mi fu narrato poi, che tornato a casa, entrònell’anticamera, e scintasi la spada, la gettò a terra conisdegno, e ritiratosi nelle sue camere vi si serrò.

Mia madre era in letto ammalata da molti mesi. Eccole sue parole circa questi casi, quali le trovo nel mano-scritto:

«..... torno indietro per dire due parole sul fatale annodel 1821. Epoca dolorosissima per tutti i fedeli sudditidel Re, tra’ quali era dei primi don Cesare, per doveresacro di religione, ed altrettanto per l’affetto e dedizionech’egli ben di cuore giurò alla Casa di Savoia.... Cesarepassò quei tre primi giorni d’agonia al suo posto comegrande di Corte, in anticamera del Re, in compagniad’altri signori di settanta, ottanta e più anni d’età, cheaspettavano gli ordini del Re, per seguirlo, e per caderglia’ piedi se occorreva. L’abdicazione e partenza del Retroncò ogni dubbiezza. Non è da tacere che Cesare pri-

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ma di portarsi al suo dovere, abbracciò la sua amatacompagna, inchiodata per ben sei mesi in un letto, e contenera fermezza le disse: i nostri sentimenti furono sem-pre all’unisono: tu non ti muti certo in quest’occasione.Vado, starò al mio posto sin all’ultimo forse non torno,Dio sia con te! Dio fu con me veramente, poichè ebbitanta forza da rispondergli: Và, stà, muori se convienmorire! Troppo sarei indegna di te se tenessi altro lin-guaggio! E partì. »

Specchiatevi in queste anime, uomini e donne italia-ne; e tenete a mente che quando vi sarete resi simili a lo-ro, l’Italia sarà veramente una nazione.

Per resi simili, non intendo che si abbia a pensare co-me loro, e dividere le loro opinioni; ma intendo che ènecessario prima di tutto averne; in secondo luogo aver-ne delle proprie, fondate quanto si può sulla ragione, sulgiusto, e tenute per certe e per vere: in terzo luogo sa-perle sostenere in tutte le circostanze fino a dar per essela vita.

Mio fratello Roberto, quantunque non figurasse tra iprimi autori del movimento, vi s’era però abbastanzacompromesso, perchè fosse prudente sottrarsi alle pri-me ire del Governo di Carlo Felice. Allora, come sem-pre, vi furono gli zelanti, quelli che si fanno merito sullapelle altrui, e fondano bene gli affari propri sulla rovinaanco dei loro amici. Non si può però dire che il governosi mostrasse eccessivamente crudele, ancorchè al Re fos-se dato il titolo di Carlo feroce. Vi fu una sola sentenzacapitale eseguita, quella del capitano Garelli. Di troppocertamente anche codesta; bisogna però riflettere chenon era in quel tempo invalsa nell’opinione la massimaoggi generalmente ammessa: la esclusione assoluta dellapena di morte in materia politica. Gli altri condannati,Collegno, Caraglio, La Cisterna, ec., vennero impiccatiin effigie essendo contumaci. Ma neppur nel 21 nessungoverno aveva più a sua disposizione il marchio dell’in-

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famia, e la mano del boia che appese alle forche gli ono-rati nomi di quei giovani, fu impotente ad imbrattarliimpotente ad imbrattarli. Il pubblico già sapeva che l’in-famia emerge dal delitto e non dalla pena; e se v’era sta-to delitto nel violare il giuramento militare, le intenzioni,il carattere de’ colpevoli, come pure le circostanze limettevano al coperto d’ogni idea di disonore.

Non erano gran teste politiche, ecco il loro delitto;non aveano saputo premettere quell’indispensabile cal-colo delle forze e delle resistenze, senza il quale neppuresi fa girare la macina d’un mulino; altro che voler voltarsottosopra e piegare a nuovi ordini popoli e governi.

Tanto poco avevano saputo far questo calcolo, che es-sendo essi la maggior parte nobili, quindi del partito pri-vilegiato, e mettendosi a questi rischi, col solo fine dipotersi spogliare di loro privilegi, neppur trovarono ap-poggio valido nella folla stessa degli esclusi, pe’quali sifaceva la rivoluzione.

Il dono della libertà somiglia al dono d’un cavallo bel-lo, forte, bizzarro. A molti desta la smania di cavalcare; amolti altri invece aumenta la voglia d’andare a piedi.

Mio fratello s’era intanto ritirato in Isvizzera con suamoglie, e vi rimase qualche tempo. L’altro mio fratello,Enrico, ufficiale d’artiglieria, non si volle impicciare inqueste faccende, non abbandonò la sua bandiera, e fecebene.

Può darsi che l’avvenire veda spuntar quel giorno nelquale, sciolti da un pezzo gli eserciti permanenti non so-lo, ma dimenticata persino la loro esistenza, come purele idee, le tradizioni, il culto dell’antico mestier dell’ar-mi, una bandiera si riduca ad essere un pezzo di curio-sità, un mobile da musei, uno straccio cucito, ad un ba-stone. Può essere come alcuni pretendono che gli Stativengano a non avere più altre forze se non di cittadiniarmati all’occasione, specie di costabili inglesi; e chi saràvivo allora ci avrà a pensare.

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Ma siccome quest’avvenire è ancora molto lontano, egli eserciti, i cannoni rigati, i monitors fioriscono più chemai nel bel giardino della civiltà cristiana, è bene che lanuova generazione s’imprima profondamente nell’ani-mo il rispetto, il culto, l’idolatria, e se si vuole, la super-stizione della propria bandiera. Se questo sentimentonon fosse molto sviluppato in certe province d’Italia,non sarebbe nè da stupirsene nè da vedere in ciò unacolpa! Chi diamine poteva palpitare alla vista della ban-diera estense di Francesco IV, della borbonica del du-chino di Parma, di quella delle Chiavi, ec. ec.?

Ma ora, vivaddio, che c’è la bandiera italiana, sia ope-ra di tutti, giovani e vecchi, grandi e piccoli, di sparger-ne, di fondarne il culto. Sia sentimento di tutti che labandiera rappresenta l’Italia, la patria, la libertà, l’indi-pendenza, la giustizia, la dignità, l’onore di ventidue mi-lioni di concittadini; che per questo la bandiera non siabbassa, non si macchia, non s’abbandona mai, e chepiuttosto si muore.

Questo devono imprimersi nell’animo i giovani, e far-sene una seconda natura.

La rivoluzione militare del 21 fu caso non mai uditoch’io sappia nell’esercito nostro, e poteva essere di fataleesempio. Per fortuna rimase solo, qual trista memoriad’un’aberrazione eccezionale; e così il Piemonte, e certa-mente oramai l’Italia tutta intera sfuggirà al disgraziatodestino d’alcuni paesi resi schiavi e lacerati dalle insur-rezioni militari, e ridotti in brani, disputati poi da volga-ri ambiziosi.

Dio ce ne scampi sempre.Son ben contento che in questa colpa d’aver rotta fe-

de alla bandiera, non sia caduto nessuno dei miei fratel-li. Roberto non era militare; ed Enrico, che era, le rimasefedele.

Ma ciò non bastava a mio padre. Pensare che il suonome dovesse forse rimanere nella storia d’una ribellio-

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ne contro il Re: « pensare (come mi diceva molti annidopo, cupo ancora e doloroso) che il nome mio potevaessere appeso alle forche qual nome di ribelle!...» Que-sta memoria l’ebbe fitta nel cuore sempre, come la pun-ta barbata d’una freccia, che entrata una volta non escepiù.

Egli era il vero ritratto di quelle severe figure storiche,rare pure anche nella storia, che non poterono mai mu-tarsi, nè mutar opinioni, nè mutar propositi, nè aspetto,e neppur lingua e parole, più di quel che possa un pescemutare elemento, levarsi a volo e posarsi sulla cima deglialberi. Quando io ebbi ad ideare il carattere di Niccolòde’ Lapi, se fu trovato in esso qualche verità e qualchebellezza, ne fu cagione l’averlo io ritratto da quel bello eda quel vero che potetti studiare in mio padre. Il suoamore per il figliuolo, le parole di pace di mia madre,l’austerità del suo sentimento religioso, tutto l’inducevaa perdonare, ed egli perdonò, ma scordare e non soffrir-ne era oltre le sue forze.

Mio fratello Roberto sentiva dal canto suo d’avere ildiritto di seguire quelle opinioni politiche che gli pare-van migliori. Aveva forse torto? No certamente; ed il ri-spetto alla memoria paterna non mi deve impedire dinotare, che nostro padre non riconosceva forse abba-stanza quel diritto, senza il quale i Cristiani sarebberoancora pagani, i governi sarebbero si può figurare checosa, e la gran macchina del mondo la sarebbe rimastaferma da secoli come un oriuolo al quale si sia spezzatala molla.

E nonostante anche quella sua inflessibilità era rispet-tabile. Povero vecchio! Vederlo nella sua rassegnata, mainvincibile e muta tristezza, stringeva il cuore!

Le relazioni fra padre, figlio e nuora non potevano ri-diventar piacevoli per molto tempo; troppe occasionid’urtarsi offriva l’intimità domestica a caratteri poco di-sposti al piegare; venne quindi stabilito che Roberto an-

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dasse colla moglie a Parigi. Il marchese Alfieri, suo suo-cero vi era ministro di Sardegna; fu accolto in casa e vipassò parecchi anni.

Pur troppo non bastarono a dissipare le impressionidel 21, e l’armonia di prima non tornò mai più.

Nostro padre, che ci aveva trattati durante l’infanziacon una severità inesorabile, s’era mutato di modi connoi fatti adulti, e ci trattava con delicati riguardi.

Se talvolta, nelle circostanze ordinarie entrava nellecose nostre, e ci suggeriva qualche consiglio, vi adopera-va que’ modi misurati che impiega un amico con un suopari. Così le cose andarono quietamente, anzi bene,quando mio fratello ritornò in famiglia. Da quel giornoquesti attese unicamente all’educazione de’ suoi figliuoli(l’uno Emanuele, ora ministro a Londra, l’altra Melania,sposata al marchese Villamarina, che morì giovane); sidiede a coltivare l’arte e l’erudizione artistica, nella qua-le si fece profondo; ed incominciò quel corso di carità ed’istruzione pe’ figli de’ poveri, che estese e perfezionòpiù tardi, e tanto giovò al popolo minuto di Torino.

Quanto al Piemonte, chetata ogni cosa dagli Ulani diBubna, impiccato il povero Garelli, fuggirono o andaro-no in esiglio i compromessi – solita scena finale delle tra-gicommedie di questo genere. La popolazione si trovòun po’ più umiliata, un po’ più compressa di prima:l’Italia notò un intervento straniero di più ne’ suoi anna-li. I Sanfedisti e i Gesuiti levarono il capo più che mai, eTorino che ora mi pare il paese di tutta Italia dove siapiù libertà e dove più si capisca (per chi vede la libertànel rispetto de’diritti di tutti e non nella facoltà, verbi-grazia, di fracassare i vetri di chi e non non illumina),Torino era diventata la città più noiosa, più insopporta-bile di tutta Italia; io non mi ci potevo vedere, e me nestavo a Roma.

Le opinioni che ho manifestate sulla rivoluzione delventuno non sono forse quelle di molti in Piemonte ed

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in Italia oggidì; ma sono le mie. Il mio programmam’impegna a dir quel che penso io, e non a piaggiare,perchè io non iscrivo per farmi popolarità, ma scrivo pertentare d’esser utile, se mi riesce, e per mantenere la miariputazione di galantuomo: perciò le esprimo chiara-mente.

Tornato a Roma da Castel Sant’Elia, non vi feci lungosoggiorno. In luglio non potevo pensare a mettermi al-tro che ne’ monti; altrove c’è la febbre. Io scelsi quindiper mio soggiorno Rocca di Papa, ed immediatamente vicercai casa per mezzo del mio compagno di studi, chepossedeva una villetta alle falde del monte sul quale sie-de il paese.

Ora la campagna romana comincia ad aprirsi alle fer-rovie. Al tempo della mia gioventù non c’erano di questilussi; perciò una sera, rannicchiate le mie gambe in unadelle solite carrettelle, nelle quali si occupa uno dei seiposti disponibili, arrivai all’ora solita, la calata del sole,sulla piazza fuori la porta di Frascati.

Qui presi un somaro, gli caricai il mio bagaglio, emessomelo avanti lo seguitai a piedi su per la montagna,pe’ viottoli che conducono alla Rocca.

La Rocca è una delle più belle posizioni dell’agro ro-mano.

Per chi non è stato a Roma dirò, che dalla porta SanGiovanni in Laterano guardando a scirocco, si scorgedopo quattordici miglia di una pianura leggermente on-dulata ove non sorge un albero, ma solo sepolcri ed in-franti acquedotti, si scorge, dico nel vapore de’ giornisereni, una linea di monti azzurri di grandiose forme,che, partendo dalla Sabina, si vengono alzando con va-riati e graziosi contorni sino ad una punta più elevata ditutte, detta Monte Cavi. Da questa s’abbassa di nuovo lacatena, e con un declivio moderato ed una lunghissimalinea, scende alla pianura e vi si perde a non gran distan-za dal mare.

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Presso la vetta di Monte Cavi ov’ era il tempio di Gio-ve Laziale, ove tenevansi le feriae latinae, e dove oggi èun convento di Passionisti, una rupe isolata a pan dizucchero interrompe il profilo della montagna. Alessan-dro VI trovò il luogo acconcio per stabilirvi un nido disuoi soldati, per tenere aperto l’artiglio sui Colonnesi diMarina! e la rupe venne presto coronata di mura merla-te.

Tutti sanno che in que’ secoli, a chi era povero e de-bole, si lasciava la scelta fra due modi d’esser assassina-to, ma uno bisognava sceglierlo; o assassinato da ladricasuali vaganti, o dai ladri stabili, fissi nei castelli. Gene-ralmente fu data la preferenza ai secondi; e così intornoai castelli si formò quella timida clientela di casipole ecapanne di contadini, che si mutarono poi più tardi inpaesi, in borghi ed in città.

Preferenza che fa l’elogio di quei poveri baroni delmedio evo tanto calunniati.

Tale era stata l’origine del luogo, nel quale avevo scel-ta la mia dimora, e dove arrivai a notte chiusa, nella casache per fortuna avevo fissata, e che teneva ancora apertala sua porta per accogliermi. Diamo ora un’idea di Roc-ca di Papa.

In alto, la rupe cogli avanzi dell’antica rocca; sulla ru-pe stessa le prime e più antiche casucce appiccicate, nonsi sa come, a uso vespai, alle irregolarità dello scoglio.Dove poi questo, in certo modo, s’incresta al monte ecomincia il declivio più mite, principiano le case piùmoderne, che formano i lati d’una lunga via molto preci-pitosa, la quale scende ad un piccol ripiano fuori delpaese ov’è un convento di Riformati.

Sopra un’altra piazzetta, là dove finisce la rupe e co-mincia il terreno del monte, è la chiesa, la fontana, unpiccolo caffè, ed il meglio del caseggiato.

La casa mia era l’ultima, giù, in fondo alla scesa a ma-

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no manca, e v’era l’intervallo di dugento passi fra essaed il sottoposto convento.

Qui non si trattava più d’una casa saccheggiata comea Castel Sant’Elia. Avevo due camere pulite al primopiano. L’una metteva sulla strada, l’altra sull’aperto, es-sendo, come dissi, l’estremità del paese. Me l’affittavauna vedova di mezz’età, di quella classe di contadini, ocome là si dice, di villani, che è affatto speciale a varieparti d’Italia, e più a’ castelli dell’agro romano, mentre èsconosciuta affatto tra noi.

Se le villane di tutta Italia fossero come codeste, il lo-ro nome di sostantivo ch’egli è, non si sarebbe mai mu-tato in aggettivo.

Ecco in che consiste la loro specialità: fra noi ed inpiù luoghi, la contadina è nè più nè meno, la moglie, an-zi la femmina del contadino; come la gallina è la femmi-na del gallo; col quale, meno il sesso, ha vita, nutrimen-to, abitudini, tutto comune. Quest’uguaglianza anzi, incerti luoghi vien rotta a danno della povera femmina.Qui, per esempio, sul Lago Maggiore dove sto, se c’è daportare da uno de’ paesetti a mezzo monte sin giù alla ri-va, puta, un fascio di legna, od un mazzo di pollastri, illavoro in famiglia si distribuisce così: la moglie si caricadel fascio di legna che peserà mezzo quintale, ed il mari-to prenderà i pollastri che pesano un paio di chili. Inmontagna generalmente è così. La qual cosa prova chela galanteria verso il bel sesso è d’istituzione interamenteumana, i galli ed i piccioni eccettuati.

Invece la villana della montagna di là è, generalmentemoglie d’un villano, che ha del suo la casa dove abita equalche pezzo di vigna o di campo, più o meno lontanodal paese.

Il clima aggrava la fatica della coltivazione, al puntoda renderne incapaci le donne. Oltre di che, non essen-dovi case sparse come altrove, ma tutta la popolazioneriunita ne’ castelli, non fa bel girare a tutte l’ore in cam-

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pagna per le donne; il più delle volte, singolarmente bel-le.

Per conseguenza è invalso l’uso che il marito se neparte dal paese (l’estate a mezzanotte) colla vanga e loschioppo (inseparabili) in ispalla, e va a lavorare la cam-pagna; la moglie non esce mai, si può dire, di casa, atten-de alla famiglia ed alle faccende domestiche. Quindi ilmarito è cotto bruciato dal sole, peloso e nero come uncaprone; ha le mani callose che paiono artigli d’aquila, imuscoli sporgenti per il continuo esercitarsi; mentre lamoglie, riparata dall’intemperie, mostra la carnagionedorata e trasparente de’ quadri di scuola veneta, le maniben formate, pulite, e non isforzate nei nodi e ne’ tendi-ni; è accurata nell’abito e nel panno bianco È curiosoudir talvolta i contadini, mentre si provano a sollevareun peso, ove lo trovino forte, dire deponendolo tosto:lavoro da donna! che le copre il capo, al quale ogni pae-se da foggia diversa, cosicchè facilmente si distingue dalpanno la patria di quella che lo porta.

Nella parte morale non c’è altrettanta differenza fragli individui de’ due sessi. L’ignoranza, i pregiudizi,l’impressionabilità sono all’incirca uguali. Bensì, comesempre, le donne sono un poco migliori degli uomini;non hanno i vizi del vino, delle bestemmie e delle coltel-late; sono caste, o almeno erano, meno rare eccezioni; epoi è in loro una certa gentilezza tutta spontanea, parla-no una lingua rifiorita di graziette amorevoli, come figliomio! core mio! bello mio! pronunziate con un metallodi voce che tocca ed è la più simpatica delle armonie;hanno un vestire pittoresco e che dona; un certo talentonaturale; pronte nelle risposte e sveglie, che con loronon ne casca una in terra. Tutte cose che le mettono inuna categoria molto diversa dalle nostre villane di quas-sù, sformate dalla fatica, sudicie, scapigliate, che riman-gono a bocca aperta a guardarvi, se avete a dire loro ap-pena una parola.

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Con questo non intendo che quelle villane di là sienosempre angiolette di dolcezza e di pace. Le loro passionisono veri turbini talvolta. Lo spillone d’argento col qua-le fermano al capo le loro trecce, che si chiama spadino,non per niente porta questo nome gentilmente belligero.Esso qualche volta è stato ministro di vendette femmini-li, ovvero arme pericolosa per definire questioni. Io nonlo vidi mai splendere in nessuna bianca mano; ma mi ri-cordo un anno di siccità in Genzano, mancando quasil’acqua alla fontana, venne dalle donne disputata persi-no a colpi di spadino.

La mia vedova, che non era non più giovane, dovevaforse averlo adoperato nelle grandi occasioni. Un giornom’entrò in camera cogli occhi fuori della testa dicendo-mi tronco: – Sor Massimo, datemi l’archibuso! – E senzamolte mie istanze, mi confessò che voleva dirigerlo con-tro un tale che le avea fatto non so qual dispiacere. Co-me si può credere, io non le diedi nulla, e la mandai inpace.

Tale è il carattere e l’insieme di quelle villane, dellequali credo d’aver delineato la fisionomia abbastanza fe-delmente. Se le sue labbra, signor lettore, si atteggiasse-ro in questo momento ad un sorriso, e se pensasse che iole abbia studiate abbastanza da vicino per doverle benritrarre, le dirò ch’ella prende errore. Sul mio onore,non ebbi mai con nessuna di loro la minima relazione.In campagna andavo per studiare e non per divertirmi: epoi se una qualche altra persona m’avesse interrogatosui miei portamenti, non mi garbava trovarmi nel biviofra una confessione ed una bugia.

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CAPO VENTESIMO

SOMMARIO – Mi applico alla pittura e ad altri studi trascura-ti in addietro – La Storia del Pignotti e le Vite di Plutarco –Non ho ancora idee giuste di critica storica – Il culto della vio-lenza – Considerazioni sulla grandezza dell’antica Roma – Di-stinzione fra il Diritto giustinianeo e l’antico Diritto romano –L’essenza dell’antica politica romana stava nella ragione delpiù forte – Nonostante i lumi della civiltà moderna seguita purtroppo il culto della forza materiale – Diverso modo di apprez-zare le idee di onore, di giustizia ec., secondochè si riferisconoad individui o a governi – A Rocca di Papa mi lasciavo anch’ioguidar troppo dall’immaginazione nel giudicar certi fatti – De-scrizione del paese circostante – La città eterna – Giustificazio-ne di questo titolo per Roma antica e Roma nuova – Per quan-to strano e misterioso, il fatto è così – Si prova con moltiargomenti, anche di fresca data – Di Roma italiana e libera, einsieme capitale religiosa della cristianità.

Ho vedute in vita mia grandi e belle estensioni di pae-se, in monte, in piano, sui mari, sui laghi, ma una vistacome l’avevo dal balcone della mia camera a Rocca diPapa, e che tanto campo offrisse all’immaginazione, allegrandi memorie, al gusto artistico ed alla poesia, nonl’ho incontrata in nessun luogo, e neppure che le si avvi-cinasse.

In quel tempo oltre lo studio dell’arte continuava altristudi ne’ quali la mia educazione, come già dissi, avevalasciate grandi lacune. M’ero portati libri di storia laquale sempre mi è sembrato il più profittevole degli stu-di, e cercavo così d’informarmi di quel che era stato delnostro globo e della nostra razza dopo i Romani, i Greci,gli Egiziani, i Medi, gli Assiri ec. Come vede, mi restavaun bello spazio da colmare.

Non avendo denari, non potevo aver libri come sa-rebbero bisognati. Mi contentai d’averli come potevo,ed il primo che lessi, comprato su un banchino per po-chi paoli, fu la Storia del Pignotti. Ora sarebbe conside-

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rata un vecchiume, tanti sono i progressi ne’ metodi,nella filosofia della storia, e nella ricerca de’ documentioriginali; ma allora, e per me specialmente, era un teso-ro. Avevo altresì potuto procurarmi le Vite di Plutarco,e così potevo alternare fra la storia antica e quella delmedio evo.

M’era già passato il furore degli eroi d’Alfieri, nonprovavo più nessun desiderio d’ammazzare una Maestàqualunque, le poche notizie che già avevo messe insiemesulle età più vicine a noi mi aprivano un nuovo orizzon-te che cominciava ad allettarmi quanto e più dell’antico:tuttavia non avevo ancora potuto scevrare nel mio giudi-zio quelle vecchie società dal loro prestigio classico-sco-lastico, e sempre le stimavo in tutto superiori alle mo-derne.

Ancora non ero giunto a formarmi quel criterio che èil solo vero, il solo col quale sia possibile il retto giudiciodelle cose di quaggiù; col quale soltanto si stimano al lo-ro valore vero i sistemi filosofici, o politici, o religiosi; levicende della storia, i fatti delle nazioni, de’ governi, de’partiti e delle sètte; le produzioni dell’ingegno nelle let-tere, nelle arti, e gli atti tutti, in una parola, dell’indivi-duo come dell’umanità.

Questo criterio, il più facile ed il più semplice delmondo, ed altrettanto il meno usato, è unicamente il be-ne degli uomini. Su ogni cosa, in ogni questione, misura-te con questo braccio, e domandatevi: – ciò fu un bene oun male per gli uomini? Secondo la risposta accettate orespingete, e non potete sbagliare. Suppongo però che sisia d’accordo sull’idea del bene e sulle sue classificazio-ni: e che si dica bene per gli uomini l’essere prima di tut-to onesti, poi sani, poi sensati ed intelligenti, poi liberi,poi istruiti, poi agiati, poi forti, destri, belli ec. ec.

Se si pesasse il mondo a questa bilancia, quanta mo-neta che corre, che tutti accettano, che tutti pregiano, sitroverebbe calante, e si butterebbe tra gli scarti! Quanti

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popoli, quanti sovrani, quanti governi, quanti eroi,quanti nomi suonanti, che da tutti vennero ammirati sinora, cadrebbero dal loro splendore nella trista categoriade’ pubblici malanni! La vera e sostanziale differenzafra la civiltà e la barbarie consiste, non nel possedere onon possedere la scienza con tutte le sue conseguenze;bensì nell’adoperare o non adoperare il detto criterioquando s’ha a giudicare e pesare gli uomini e le opereloro. Per chi riflette, questo è il vero criterio per ricono-scere il progresso d’un popolo, o di una età. Nel capito-lo ottavo ho già espressa l’opinione che la civiltà cristia-na cammina risolutamente su questa via, ed ho citato gliesempi di Ghino di Tacco e di Carlo Baglioni per mo-strare la differenza dai loro ai presenti tempi. Ora qui loripeto, ed aggiungo che è dovere de’ governi e de’ lorocapi, come è dovere di tutti quelli che in qualche modopongono mano al gran propulsore della pubblicità, ilcooperare a questo movimento impresso al mondo ver-so un criterio migliore.

I principi ed i potenti coll’esempio, i ministri ed i par-lamentari colla parola, gli scrittori colla penna, procla-mino al mondo da’ tetti, dalle torri, dalle cime dei montiche la prima legge è far bene agli uomini; che è buono, èbello, è grande, è onorato, è glorioso ciò che li rende fe-lici; come è cattivo, è brutto, è meschino, è vergognoso,è vituperevole ciò che li rende infelici più che non era-no. Se tale fosse il sentire universale, la violenza spari-rebbe dal mondo. Sembrerebbe dunque che questo do-vesse essere il credo dei deboli e dei piccoli, che viene adire del 99 per cento del mondo!

E invece che cosa s’ammira di più dal genere umano?La violenza! A furia d’essere picchiata, speriamo chequesta nostra specie un giorno o l’altro apra gli occhi;abbia corone per chi la protegge, flagelli per chi la tor-menta.

Poichè siamo a Rocca di Papa sul mio balcone, dal

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quale si domina l’intero Lazio, ove nell’ultima lineadell’orizzonte sorge isolata nel deserto la cupola di SanPietro, mentre le più alte moli di Roma velate dal vaporesi confondono colla pianura, mi pare luogo opportunoper riunire in un fascio molte idee, che mi venivano sind’allora germogliando nella mente, sull’istoria di quelleregioni.

Ero in quell’età in cui domina il bisogno delle indagi-ni, il bisogno d’orientarsi sempre e su tutto, il bisogno divedere se il mondo corrisponde alle idee che ve ne die-dero gli educatori. Gran momento della vita quello nelquale s’osa chiedere ai sistemi, ai principii sin allora in-discussi ragione dell’esser loro! Io mi sentii meravigliatodi me stesso il giorno ch’io dissi: Che cos’era infine que-sta Roma? Se è vera la religione della carità, perchè i cri-stiani venerano i trionfi della violenza? E difatti se stu-diamo dal punto di vista della felicità degli uomini lastoria romana, quanto non si trasforma da quello che cela presentano gli educatori!

Se non altro, mi sembra che a volerla giudicare retta-mente, non sarebbe pretensione esagerata l’esigere co-me elemento del processo, la narrazione fedele bensìdelle battaglie, delle vittorie terrestri e navali, de’ trionfi,delle conquiste e di tutte le grandezze romane; ma altre-sì una non meno fedele relazione di tutte le uccisioni, ditutto il sangue, di tutte le lagrime, di tutti i dolori, di tut-te le miserie, gli sterminii, le desolazioni colle quali lamassa dell’umanità ha dovuto pagare il gusto di aver da-vanti agli occhi e nell’orecchie per secoli queste vittorie,questi trionfi e questa grande fantasmagoria capitolina.

E se è giusto e vero il principio fondamentale dellesocietà moderne, essere la legalità d’un governo dipen-dente dalla volontà del popolo che n’è governato, vorreisapere se l’umanità consultata avrebbe ne’ tempi de’ Ro-mani votato per l’impero romano! E se quindi, secondole idee che crediamo le più vere, e fra l’altre quella che

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un uomo ne val un altro, e che l’ultimo de’ sciaguratiGermani scannato nel circo per divertire il primo fra iRomani, aveva gli stessi diritti di lui; se, dico, c’è ragio-ne, perchè rimaniamo sempre in ginocchio ad occhichiusi dinanzi a quel colossale monumento della prepo-tenza umana che si chiama l’antica Roma!

Come può credere, non è ch’io non veda quel che vifu di singolare e di ammirabile nelle virtù e nelle doti de-gli individui ed anche nel sentire alto e generoso talvoltadel popolo intero; non è ch’io disprezzi la fortezza diRegolo, la severità di Catone, la generosità di CurioDentato, il gran sacrificio de’ Fabii, e via discorrendo.Fra tutti gli Stati dell’antichità, è anzi Roma quello cheho in maggiore stima, fino all’epoca de’ Gracchi, inten-diamoci! Io ammiro que’ tempi durante i quali dominòla legge; durante i quali le più bollenti passioni agitatedai più vitali interessi non cercavano altr’armi nè altrevittorie che un voto ne’ Comizii; quando un’intera plebelogorata dalle guerre, coperta di cicatrici, e jugulata ciònonostante dalle usure de’ grandi (Roma, ognuno lo sa,fu il paradiso degli usurai) invece di gridare abbasso iricchi, o la propriété c’est le vol, invece di prendere asassate, o peggio, i creditori, si limitava a uscire dallacittà, e domandare i tribuni.

A un popolo simile mi levo il cappello. Ma quel po-polo invece che ha per articolo di fede di essere lui il pa-drone della libertà, dell’avere e della vita dell’universo;al quale da bambino il maestro insegna tu regere impe-rio populos, Romane, memento; e che fatto grande con-sidera quindi come suo diritto il ridurre allo stato dischiavitù tutte le nazioni, usando o violenza, od arte, ofrode, secondo gli vien bene; e che in questa secolareprepotenza vagheggia una missione divina, il destino diuna gloria superiore a quella d’ogni altro popolo; sì chela più sfrenata ed implacabile cupidità, la dolcezza di vi-vere ozioso di limosine regolari si viene a presentar al

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mondo come l’adempimento della volontà del cielo;questo popolo e la sua lunga esistenza, io li considerocome il più colossale, forse, di tutti i fatti storici; ma lacieca adorazione che gli vien tributata da moltissimi, pa-re a me la più colossale delle corbellature che abbia maiprocurate a sè stessa l’umanità.

Quando (non mi stanco di ripeterlo) essa cesseràd’ardere incensi a chi la calpesta o l’ha calpestata, dimi-nuiranno forse i calpestatori.

Ma i lavori di Triboniano, il Codice, le Decisioni, ilDigesto, le Novelle, l’intero Corpus juris, non sono for-se, mi dirà lei, il più splendido monumento della sapien-za umana? E questo monumento, eterna base del dirit-to, non è esso opera romana?

Quando su Roma avea già regnato Odoacre, Teodori-co, Teodato, Totila, Teja, quando i rappresentanti diRoma si sbranavano nel circo di Costantinopoli per icocchieri verdi o turchini, e gli imperatori passavano iltempo a discutere oscure questioni dogmatiche, pare unpo’ tardi per parlar di Roma.

Il vero codice antico di Roma metteva la vita dellamoglie e de’ figli in mano al capo di casa; consegnava idebitori insolvibili ai creditori col gentile invito dato intre parole dalle XII tavole: «In partes secanto,» cioè fa-telo a pezzi e divideteli fra voi: era inesorabile coglischiavi. Invece lo slavo Giustiniano portò la luce nelcaos della legislazione romana, ne formò un corpo omo-geneo, e seguitò l’opera di Costantino, sforzandosi d’in-trodurre il nuovo principio cristiano dell’uguaglianzade’ diritti tra gli uomini, in quella giurisprudenza paga-na che non riconosceva uomini se non i suoi concittadi-ni.

Non il sentimento del dritto e del giusto è la vera ere-dità dell’antica Roma: la sua vera e triste eredità, il senti-mento da lei consacrato, e rimasto più o meno latentenella coscienza dell’umanità per quattordici secoli, è in-

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vece la glorificazione della forza a danno del diritto.<foreign lang=»EL»>&Rgr;&ohsagr;&mgr;&eegr;</fo-reign> voleva dir forza, ed era ben nomata. Tutti i capidelle prime invasioni barbariche mendicavano il titolodi patrizio dai deboli imperatori: e perchè cercare daprincipi sprezzati uno sprezzabile titolo? perchè era nel-la coscienza pubblica d’allora l’idea che a Roma era datodal Cielo il privilegio d’opprimere, e che il titolo di pa-trizio procurava una specie di delegazione di questo pri-vilegio, così opportuno alla felicità dell’uman genere.

Senza far qui ora un corso di storia, non l’abbiam udi-to noi medesimi per l’ultima volta l’ultimo eco di Romanel Santo Romano Imperio Germanico? E se tanti impe-ratori, tanti principi serbarono gelosamente questo tito-lo Cesareo, e non vi rinunziarono se non per forza, qualaltro motivo ebbero se non perchè lo consideravano co-me la più salda fra le catene che potessero stringere ipolsi ai popoli che volevano manomettere?

Ed ultimo frutto di questo antico equivoco, non è for-se veder oggi agitata l’Italia dall’idea, che dominò primagli antichi, poi i barbari, poi gl’imperatori germanici,che Roma è il saldo fondamento della potestà civile? E ilcreder di tanti che in essa debba ritemprarsi, farsi forte esapiente, e diventare amato il governo italiano?

Come lei vede, io non mi perito a professare franca-mente le opinioni che credo vere. Ma pur troppo, se loStatuto può dichiarare liberi gli uomini, non può dar lo-ro nè l’intelligenza, nè quell’altiero sentimento della li-bertà che rende i caratteri indipendenti.

Prima s’aveva paura dell’Austria e della polizia; oras’ha paura de’ rivoluzionari, e de’ loro vecchi della mon-tagna. S’è mutato di paura, ecco la differenza. Animeche si sentano libere ed indipendenti, ed agiscano e par-lino in conseguenza, ne vedo poche. Ecco la frase predi-letta de’ più: – Sì, è vero.... ma son cose che non si pos-sono dire! – C’è da fare prima che diventiamo un

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popolo libero! Ma non disperiamo. Un’oppressione cor-ruttrice di molti secoli non si cancella in tre anni. È ri-sorta l’Italia, risorgerà altresì il carattere italiano.

Tutto quanto vengo dicendo su Roma, sui conquista-tori, su gli eroi tribolatori del mondo, non vorrei che locredesse effetto di spirito di contradizione, desiderio didire diversamente dagli altri, gloriola di combattere legrandi cose ed i nomi strepitosi. Le assicuro che ciò nonmi passa nemmeno pel capo.

No: io non tralascio mai occasione di parlare in que-sto senso, perchè mi colpisce vedere quanto le vere e sa-ne idee sull’autorità, sul suo scopo, sul perchè esista, suisuoi doveri, sul suo merito, il suo decoro, la sua gloria,siano falsate: e perchè mi sembra importante che daogni parte si metta in guardia il pubblico contro questevecchie falsificazioni.

Da due secoli in qua non son pur mancati pensatori escrittori liberi, e cercatori del vero e del giusto; uominiche non curavano nè pericoli nè guadagni, e dicevanoarditamente quel che credevano la verità. Son pur com-parse le scuole più arditamente novatrici in materia filo-sofica, politica, giudiciaria, economica; non è certamen-te il rispetto dell’antico, del consueto; non è il giogodella vecchia scolastica che imprigiona il pensiero, ed in-catena i giudizi del mondo.

Eppure qual è il sentimento che si trova a scenderenel fondo de’ fondi della coscienza pubblica? Si trova ilculto della forza materiale! Si stima forse l’autorità perquanto rende felici gli uomini? Si ammira forse sopratutte quella che, individuo per individuo e con egualepremura, li rende migliori, più istruiti, più liberi, più ric-chi? Che cosa è l’onore per l’autorità? Sta esso nella giu-stizia, nella beneficenza, nella moderazione, nella ragio-nevolezza?

L’antica idea pagana, sottomettere, costringere, sfor-zare, occupare, ecco per qual via l’autorità ottiene stima;

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per quanto si ciarli di diritti, d’indipendenza e di libertà.L’onore poi dell’autorità, che parrebbe dovere esseredella stoffa medesima di quello dei privati, vediamo qualviso egli abbia! Esempio. Io, privato, ho delle possessio-ni sulle quali vive gran numero di contadini come colo-ni. Io so che di queste terre erano padroni i contadinistessi, ma che mio padre o mio nonno, profittandod’una epoca d’anarchia, le occuparono colla forza, ovve-ro le ebbero per via di frode. Quindi questa gente di pa-drona è fatta serva, di felice infelice. Essi vengono dame, e con più o meno garbo reclamano contro la viola-zione de’ loro diritti.

Se io sono un uomo d’onore, che cosa fo? Riconoscoche hanno mille ragioni, li rimetto in possesso, li risarci-sco de’ danni; essi se ne vanno contenti, ed io rimangoin concetto d’uom dabbene più di prima.

E se invece i Polacchi dicono: – ci avete svaligiati, as-sassinati, rendeteci il nostro! – Se dicono i Veneti: – ciavete contrattati e comprati da Napoleone a Campofor-mio: eravam forse roba vostra? Rendeteci dunque a noistessi! – Dio ne guardi! Vien fuori l’onore! È una que-stion di onore! Gli uomini di Stato a Pietroburgo e aVienna si sdegnano che si possa crederli capaci di diso-norarsi a tal punto. E la coscienza pubblica, meno pocheeccezioni, in fondo trova che su per giù non hanno poitutti i torti.

Ora la coscienza pubblica, che è sinonimo della opi-nion pubblica, è sicura d’avere la dernière victoire. Se inaltri tempi quando avea la bocca sigillata, poteva accusa-re de’ suoi mali l’autorità; ora che l’ha aperta, e che diserva è diventata padrona, se l’autorità rende infelici ipiù, si dolga invece di sè e della propria sciocchezza.

Dunque, noi opinion pubblica, noi moltitudine, noiamministrati, noi interessati, proviamo un po’ a non piùammirare l’autorità che ci rende infelici, e ad ammirareinvece quella che ci rende felici! Proviamo un po’ a met-

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ter questa nuova moda! Proviamo un po’ colla nostravoce, ora così potente, a dire all’autorità che l’onore stanel non macchiarsi con assassinii e ladrerie, o se si èmacchiati a lavarsene, e non sta nel volerle sostenere.Proviamo a dirle che il suo ufficio è di rendere meno tri-bolati, omo per omo, i più oscuri de’ suoi amministrati:che per questo, Iddio ha destinati i principi, e gli uominili hanno eletti; e domandiamole un poco se un poveroMougik d’Oremburgo, è molto più felice quando un ca-porale, e non la legge domina in Varsavia?

E nella pratica, facciamo una buona riputazione a chici fa del bene, e facciamone una scellerata a chi ci fa delmale.

Io dunque per parte mia metterò quella di Roma anti-ca fra le innumerabili riputazioni usurpate, che sviano icervelli umani dalle idee sane del vero e del giusto. E perprova che la mia idea se non è comune, è però buona,mi dica lei, se augurerebbe al mondo che si rinnovasseper la seconda volta quel gran fatto complesso che sichiama l’Impero Romano. Credo che nè a lei nè a nessu-no passerebbe pel capo un simile desiderio. Dunque horagione.

Queste, come ho detto dianzi, non erano ancora tuttele mie idee quando villeggiavo a Rocca di Papa; esseperò mi venivano già germogliando nella mente, mentrem’ingegnavo di formare da me i miei giudizi, e non ac-cettarli già usati, come panni vecchi.

Ma ad onta di queste riflessioni, avevo 22 anni, fanta-sia vivace, e come potevo non esaltarmi vedendomi stesea’ piedi come su una gran carta topografica, quelle re-gioni dove accaddero i fatti più narrati e più eloquente-mente narrati di quanti ne esistano negli annali della no-stra specie? Que’ fatti che alla fin fine resero gli Italianipadroni della parte più colta e più civile dell’Occiden-te...... ed eccole, caro lettore, il suo servo côlto in fla-grante d’avere anch’esso nascosto in un cantuccio del

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cuore un altare dedicato alla Dea violenza, che ha purrinnegata sin ora!.... Tanto è vero che la devozione aquella santa l’abbiam nel sangue, ed è la parte menocontestata dell’eredità de’ nostri maggiori.

La bellezza della vista, soprattutto nelle sere di lunanuova, quando il suo corno inevitabilmente argenteo stasull’orizzonte ancora un paio d’ore dopo il calar del so-le, m’ha lasciato un’impressione che non scorderò maipiù.

Il panorama dalle mie finestre cominciava a sinistradal dirupo del monte coperto di robuste masse di casta-gni e di noci, e sul quale era fondata la casa che abitavo.Questo manto di verdura copriva da ogni parte il paese,e l’avvallava con ripido e ondeggiante pendio verso lapianura. Le è mai venuto il desiderio, vedendosi a’ piedile molli e fresche forme delle grandi foreste, di potersigettare ed immergere in quel mare di foglie come s’im-mergerebbe nell’acque? Io sempre ho provatoquest’istinto, e lo provavo alla mia finestra in allora.L’ultimo orizzonte era occupato per metà da una strisciaazzurra del mar Tirreno; per metà dalla lontanissimamontagna di Viterbo, dai monti dell’Umbria, della Sabi-na, dinanzi ai quali si presenta isolato l’antico Soratte,ora monte Sant’Oreste, che mi stava dinanzi a poche mi-glia quand’ero a Castel Sant’Elia. Dalla Sabina, sempreandando da sinistra a diritta, vedevo monte Gennaro, imonti di Tivoli, e poi distante soltanto poche miglia illungo declivio delle aride colline del Tusculo, e sott’essele ville ed i giardini di Frascati, le torri di Grottaferrata,e più in qua ancora i tetti dell’antico feudo colonnese,Marino. Lo spazio fra l’ultimo orizzonte e le falde delmonte Albano, sul quale mi trovavo, era la vasta insalu-bre regïon di Vittorio Alfieri, la campagna romana. Nonc’è dubbio che con un po’ di cattiv’umore indosso sipuò non vedere in essa altro che la terzana ed il deserto:ma bisogna pur confessare che ad onta della filosofia,

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della storia, della logica, della morale, dell’amore perl’indipendenza e dell’odio per la conquista, è impossibi-le sottrarsi al senso di rispettoso stupore, che imprimel’aspetto di quella vasta tomba nella quale giace sepoltal’antica prepotenza romana.

Bisogna confessare altresì che la città eterna, perquanto a questo titolo la ragione sorrida, sembra fatal-mente meritare il suo nome. Roma era prima di Romolo.Era città Sicula, Osca, Tirrena, Pelasgica, Etrusca, Sabi-na? Dio lo sa: ma era! Dovette avere un’istoria. Dio saquali virtù, quali glorie, quali grandezze vi si erano mo-strate; ora per sempre chiuse con quelle antiche gentine’ loro sepolcri! Quanti eroi allora creduti, e che si cre-derono immortali, non lasciarono sulla terra nemmenoun nome.

Ed a noi non accadrà forse lo stesso? Fra diecimilaanni si saprà che Londra e Parigi furono? chi lo sa! Chefurono Napoleone, Washington? Chi lo sa! Forse fradiecimila anni la crosta della terra sarà sconvolta affattoda quello che è in oggi: forse il terreno che ci porta saràper qualche cataclisma sprofondato nelle voragini dellaterra; forse i futuri minatori troveranno tracce laggiùdella nostra civiltà moderna, frantumi delle arti nostrecommisti a quelli dell’arte antica; forse il colosso di Na-poleone, di Canova, nudo, col globo ed il lituo, che èora a Milano, confrontato ai frammenti dei colossi diCastore e Polluce del Quirinale, sarà creduto coetaneo.E se verrà trovata la palla di bronzo che corona la cupo-la di San Pietro s’indovinerà a qual uso era destinata?

Dopo la Roma ignota di Saturno, d’Evandro, di Pal-lante, viene la Roma mal nota di Romolo e de’ Re. Quelgrande antro ciclopeo, solo testimonio superstite ed in-tatto di quell’età, che da tre mila anni raccoglie le acquedella città e le scarica in Tevere, ci dice: – se tale era lacloaca, che cosa doveva essere il palazzo, il tempio, lacuria? Ma sappiam forse l’istoria ed i costumi di chi li

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abitava e li difendeva? Tito Livio afferma molto, Nie-buhr dubita spesso. Chi ha ragione? Ma la cloaca massi-ma non mente. Roma era, ed era potente.

Roma repubblicana sino ai Gracchi, come ho accen-nato, è per me grande, rispettabile, veramente gloriosa,per quanto può esserlo umana fattura. Poi viene la Ro-ma atroce degli strazi civili, la Roma cortigiana e crudelede’ Cesari e degli Imperatori, la Roma serva degli Eruli ede’ Goti; ed eccoci alla Roma cristiana.

Fermiamoci qui un momento, e uno sguardo al passa-to.

La stella di Roma sorta fra le nubi d’incerte origininon mai tramonta; e quante non ne vide già tramontare?Tramontò la stella d’Etruria, della Magna Grecia, di Si-cilia, di Cartagine, d’Atene e Sparta, del Ponto, dellaGiudea, dell’Egitto; spuntava la stella di Bisanzio edemulava quella di Roma, che sembrava condannata agettare un ultimo raggio e poi sparire negli sterminiid’Alarico.

In Roma, nella città, di cinque milioni d’abitanti (sot-to Claudio), erravano dopo Alarico tremila spettri fuggi-ti al fuoco, alla fame ed al ferro, fra le rovine e i cadave-ri. Roma non è più, gridano i barbari, gridano i Romani,gridano Cristiani e pagani; ma sant’Agostino ha scoper-to una nuova Roma. La sua voce è udita dal mondo: essamostra che la città di Dio, degli apostoli, de’ martiri vivene’ cuori ardenti di fede; non ne’ portici, nelle basilichee nei palazzi.

La cristianità ritrova un’altra Roma; riprende la spe-ranza, si fa animo, si riunisce, ripopola la città eterna, ed’allora si può dire comincia veramente la Roma cristia-na, poichè è la croce di Cristo che l’ha evocata da mortea nuova vita. L’antica forza della spada era infranta; Ro-ma periva, ma ha trovata una nuova forza, una potenzache diverrà prepotenza non meno inesorabile, non me-no rapace e superba dell’antica; anch’essa con un volger

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di ciglia farà tremare le nazioni e cader lo scettro di ma-no a’ re lontani.

Al cospetto della Roma Cristiana quanto durò la riva-le Costantinopoli? I tempi corrono; nasce, vive e muorel’impero de’ Goti in Italia, de’ Visigoti in Ispagna, de’Burgundi e de’ Franchi: sorgono i Carolingi, Carlo Ma-gno domina col ferro e col nome le nazioni: egli, i suoifigli, i suoi dominii, i palazzi, le pompe di Aquisgrana,tutto cade, tutto muore, tutto è sparito; l’impero francosi è mutato in germanico; nascono e muoiono le case diFranconia e di Svevia. Tutto passa, e Roma sola sta.

De’ brani degli antichi regni si formano nazioni, Statinuovi. I castelli feudali abbandonati dànno vita allecittà. Nascono le grandi e le illustri capitali. L’Italia vedesorgere Venezia, Verona, Milano, Bologna, Firenze, Na-poli. Vidobona diventa Vienna, Lutezia diventa Parigi,l’antica rocca di Cesare sul Tamigi diventa la torre diLondra, ed avrà intorno tre milioni di cittadini.

Un nuovo nemico più forte, più inesorabile di tutti inemici di Roma, si genera nelle viscere delle nazionicommosse all’apparire della nuova luce della civiltà na-scente. Sui nuovi regni, sulle nuove città corre un soffioche presto diventa bufera. È sprigionato sul mondo il li-bero esame!

Roma papale abusò della pazienza del mondo, vollefargli comprare la vita futura coll’oro a difetto di virtù;Lutero disse un basta, che fu ripetuto dalle moltitudini.La Riforma pareva destinata a spiantar Roma: ed inveceRoma sta, e la Riforma dopo le prime conquiste, a pocoa poco si perde, e fra i mille non sa più distinguere il suoCredo.

Le dinastie succedono alle rivoluzioni, le rivoluzionialle dinastie. Nelle antiche reggie europee oggi un prin-cipe di antico sangue, domani un oscuro tribuno. Mal’antica dinastia di san Pietro, sono or ora duemila anni,è sempre in Roma e domina la Cristianità o dalle tenebre

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delle catacombe o dagli splendori del Vaticano. La pri-ma repubblica francese strappa il vecchio e superbopontefice dalla sua sede, lo manda a morire a Valenza didolore e disagio, e sul suo trono rovesciato suscita unarepubblica: Napoleone sbalza il suo successore da unaad un’altra prigione. La seconda repubblica francese,all’opposto della prima, uccide con poca gloria la sorellaromana, e si pone a guardia del pontefice richiamato.

Sono dunque ardenti di fede questi soldati, questiprincipi, queste repubbliche? Fede? non credono a nul-la. Ma che vogliono dunque? Qual fato li spinge? Chevuole il mondo da secoli, ora gittandosi furibondo suRoma per isbranarla, ed ora cadendo a’ suoi piedi, sbi-gottito del suo ardimento ed offrendole il suo sangue edi suoi tesori?

Chi può spiegare questo fatto unico nella storia? Iono certamente; e mi contento di ripetere che Roma me-rita veramente il nome di Città eterna. Roma, ci si credao non ci si creda, esercitò sin qui, ed esercita ancora unfascino sui cuori e sulle immaginazioni di tutta la terra.Se cade Firenze, Napoli, Milano, il mondo appena sivolge, poi riprende la sua via: se cade Roma, l’umanitàse ne turba. Tale è il fatto storico innegabile, ed innega-to da chi conosce il passato.

Questa rapida rivista, colla serie dei ragionamenti chein essa mi servì di guida, non parranno inutili ove iodebba descrivere non solo i fatti della mia vita, ma la fi-gliazione altresì de’ miei pensieri, e la formazione delleopinioni che ho dipoi professate. Io però, se non è trop-po presumere, avrei in animo che anco ad un altro sco-po servisse. A destar cioè qualche dubbio in que’ politiciche sulla questione romana parlano tanto sicuri; onde inverità, sembra l’abbiano studiata meno del necessario.

Ove se ne fossero occupati di più, avrebbero bensì te-nuto il governo temporale per quello che è realmente,cioè un anacronismo, un danno, un lutto per l’Italia;

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un’occasione prossima di peccato per la Chiesa; un con-tinuo pericolo per la fede; un dissolvente del senso reli-gioso; una smentita alla dottrina evangelica per la Cri-stianità: avrebbero potuto, paragonando il passato alpresente, speculare sul futuro; e persuadersi essere ve-nuto il momento di chiudere quella lunga serie di fattiora buoni, ora tristi, ora atroci, ora santi e benefici, masempre grandiosi, sempre mira degli affetti o delle ire,delle maledizioni o dell’adorazioni del mondo, de’ qualisi compose la potenza de’ papi. Ma avrebbero compresoaltresì che a così venerate spoglie, culto di tante età, nonbastava una tomba volgare, e che a tal funerale si com-moveva e voleva aver parte l’intera civiltà moderna.

Avrebbero compreso che se Roma è città italiana, se isuoi abitatori sono cittadini come noi di questo nuovoregno, con diritti, doveri, aspirazioni, desiderii indivisi,essi nacquero però in quelle mura sulle quali o pesa o re-gna un destino eccezionale e misterioso, da tutti accetta-to, da tutti temuto sin da’ primi secoli della storia: cheun vincolo arcano esiste fra Roma ed il mondo, vincolotutelato dapprima dal terrore della spada, di poi dal ter-rore delle vendette celesti: che questo vincolo, si voglia onon si voglia, è un fatto, e che di fatti e non di fantasia sicompone ogni savia politica: che se il diritto su Roma staintero, assoluto per noi, un fatto venti volte secolare nonlo distrugge certamente, ma invita ogni uomo che abbiacervello a considerarlo, a rispettarlo, ed a tenere perprincipale la questione della forma, del tempo e dell’op-portunità. Avrebbero, in una parola, tenute in maggiorconto e non offese e sprezzate le idee del mondo civile;avrebbero soprattutto cercato di mostrarsi in tutto mi-gliori, più giusti, più leali, più degni, più rispettabili de-gli uomini di Roma; e forse allora nell’opinion pubblicasarebbero cessati i timori e i sospetti, e la questione diRoma sarebbe più matura di quello che ora è.

Il mondo cristiano avrebbe forse ammesso Roma ita-

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liana, libera, vivente sotto la legge comune, ed insiemecapitale religiosa della Cristianità: avrebbe forse com-preso il papa difeso da titolo e prerogative, non da auto-rità di principe, capo indipendente della religione.

Ma al modo col quale si condussero le cose, la civiltàmoderna non può ancora accettare l’idea di vedere perle porte spalancate del Vaticano, uscir da una parte ilpapato, ed entrare dall’altra i cortigiani e le cortigianedella rivoluzione!

Ecco perchè ho scritto queste pagine. Ma ho ancoraun altro motivo.

Nessuno potrà dire ch’io abbia mostrato dispregioper le grandi memorie di Roma, ch’io rida delle super-stizioni de’ suoi cultori. Mi sembra d’averne parlato inmodo da contentar i più e i più rigidi, e magnificati isuoi destini e le sue glorie sopra quelle d’ogni altra città.E l’ho fatto, perchè avesse maggior valore e maggioreimportanza la conclusione che intendo cavarne.

Tutte le grandezze e le glorie di Roma, come tutte legrandezze del mondo, non riscattano un atto d’ingiusti-zia, di violenza; e se costarono prezzo di infelicità e didolore agli uomini, furono troppo pagate. Impariamodunque a non lasciarci abbagliare dall’ingegno, dallagloria, da falsi splendori. Lodiamo ed ammiriamo chirende gli uomini felici. Condanniamo sempre e teniamoin dispregio chi invece li fa miseri e sventurati.

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CAPO VENTESIMOPRIMO

SOMMARIO. A Rocca di Papa non fu tradito il mio incognito– Carluccio Castri, il caffettiere, e sua moglie Carolina – Ciarlenel paese intorno a Carolina e me, senza fondamento – Una si-gnora romana viene a villeggiare alla Rocca – Mi fa fare le partidel casto Giuseppe – L’amante legale – Mentre studio dal vero,m’imbatto nei briganti – Ma erano quelli finti – Il sor Jacobelli,e suoi strani modi di voler bene.

La forma del mio ingresso in Rocca di Papa, solo, apiedi, cacciandomi innanzi un ciuco portatore delle miepoche robe, non aveva tradito il mio incognito. General-mente la vista degli attrezzi di pittura, i bastoni, i caval-letti, l’ombrello bianco, la cassetta de’ colori, risvegliavane’ ragazzini de’ paesetti l’idea e la speranza che arrivas-se il burattinaro: e talvolta venni accolto colle festosegrida: Li burattini, ecco li burattini! – Questa volta eraarrivato dopo l’avemmaria, e non ebbi neppure questamodesta ovazione. Cominciai la mia vita di lavoro, mivenni addomesticando con parecchi del paese, i quali micredevano un povero artista (quanto al povero ci azzec-cavano), ed un semplice discendente d’Adamo (e qui mifacevano un torto manifesto).

Sulla piazzetta, in cima alla salita, v’era un piccol caffètenuto da un giovane chiamato Carluccio Castri, e dasua moglie Carolina, una delle più belle fra quelle Roc-chigiane. Qui si riparavano tutti i migliori del paese do-po calato il sole, e fino ad un’ora di notte, come usano lepassere prima di mettere il capo sotto l’ala, anche costo-ro vi facevano una buona sfogata di chiacchiere.

Qui capitavo anch’io, e talvolta colla chitarra cantavotarantelle o canzoncine che mi resero presto la deliziadella Rocca. La mia popolarità s’aumentò quando per lafesta del paese combinai non so che arco sotto il qualepassò la processione, e vi dipinsi una Madonna che non

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poteva davvero, sotto l’aspetto artistico, chiamarsi sinelabe. Ma il pubblico l’accettò come era.

Strinsi amicizia col Carluccio caffettiere. Esso è unodegli uomini ai quali ho voluto più bene.

Povero Carluccio, la mia venuta fu la mala venuta perlui, come presto dovrò dire. Ma chi legge nel futuro?

Egli che non ci leggeva, mi mostrò presto molta sim-patia, a poco a poco si divenne amici; s’era sempre insie-me; alle feste, alle fiere de’ castelli, della montagna, unonon andava senza l’altro: e la Carolina anch’essa senzache nessuno di noi pensasse più in là, mi faceva carezze,e prendeva meco confidenza. Siccome ero biondo, eportavo un collier grec biondo, come si dipinge più omeno il Redentore, mi diceva «Sor Massimo! Tu pari elCor di Gesù!»

La Madonna del Tufo è un piccolo santuario, unacappelletta ad un mezzo miglio dalla Rocca, colla qualecomunica per una strada piana ed ombrosa che è la pas-seggiata del paese. Per uno dei primi studi ch’io feci allaRocca, mi collocai su questa strada. Il primo giornomentre lavoravo vidi comparire la Carolina col graziosovestiario delle Rocchigiane, busto rosso, panno biancoin capo, e spadino d’argento in traverso, terminato daltradizionale emblema d’una mano che chiude il pollicefra l’indice ed il medio, ultimo ricordo di Dio sa qualiculti e quale età dimenticata!

Carolina aveva quel che in francese si dice un port dereine; si fermò un momento a vedere quel che facevo, epoi seguitò la sua strada verso la Madonna. L’indomaniritornò all’istesso modo, e finchè durò lo studio in code-sto luogo, ogni giorno essa visitò la Madonna del Tufo.

Il paese, fosse o non fosse vero, non penò molto apersuadersi che essa avesse decisa simpatia per me.

Un giorno sull’ore calde me la vidi comparire in casa,e mi disse che in paese si ciarlava, che ciò le dispiacevamolto, che se, Dio ne guardi, se n’accorgeva Carluc-

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cio..... ec. ec. Io non mi volli neppure fare l’interrogazio-ne che ogni giovane si sarebbe fatta in simil caso, e mol-to meno risolverla per l’affermativa, ed agire in conse-guenza. Volevo studiare, lavorare e non fare all’amore.Poi Carluccio mi si mostrava amico; io gli volevo bene:di più nel lavorìo morale che si veniva operando in me, isentimenti di giustizia, di lealtà prendevano a poco a po-co il sopravvento; non dissi dunque parola, non feci attoche fosse reprensibile, e Carolina uscì, com’era venuta.

Fin qui non v’era nulla che potesse generare catastro-fi; come non vi fu mai nulla neppure in appresso fraquella buona Carolina e me; ma non serve in certi casiessere impeccabili. Pur troppo come nel mondo mate-riale vi sono le vipere, che nessuna previdenza bastaspesso ad evitare, così vi sono nel mondo morale, animeche sembrano aver l’incarico d’avvelenare ed imbrattarequanto le circonda di bello, di felice e d’onesto.

Una signora romana era venuta a villeggiare alla Roc-ca; viveva sola con un bambino che allattava. L’avevoconosciuta in Roma dove, in quei tempi, la politica eralasciata a dormire, ed invece, da quindici a sessant’anni,uomini e donne non s’occupavano d’altro che di fareall’amore; e la signora Erminia, donna oltre i trenta, nonpoteva su questo particolare meritar rimproveri pertempo perduto o mal impiegato.

Padrone del campo era in questo momento un mioamico. Buon giovane, mezzo pittore, mezzo cantante,che era altresì stato in scena, ma l’aveva abbandonataper un impiego modesto, meno esposto alle tempeste,che però lo teneva legato a Roma, e quindi lontano, ora,dalla signora Erminia.

Grazie a quel facil vivere, che è il distintivo della so-cietà italiana da Firenze in giù, io le ero sempre per casa,senza che mi traversasse il cervello nemmen l’ipotesi chefra lei e me vi potesse mai essere nulla da spartire. Mi ri-cordo che quasi ogni giorno vi facevo un secondo pran-

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zo, grazie ad una facilità di digestione distintiva dell’etàe della carriera artistica. La mia riservatezza non avevad’altronde verun merito. Caso mai, avrei cercato la gra-zia di Carolina e non i favori d’una donna che aveva die-ci anni più di me, e che, in un tempo in cui la pulizia del-le signore romane non era delle più vigilanti, sipresentava nel pittoresco e profumato débraillé dellabalia in attività di servizio.

Da questa signora, non è gran vanto l’avere ottenutouna benigna occhiata. Essa apparteneva a quella catego-ria di donne, per le quali star un mese senza far all’amo-re in qualche modo, o poco o molto, o da lontano o davicino è cosa assolutamente impossibile. Se devo dire laverità, da certe espansioni, da certe confidenze sui pro-pri pregi, credo poter argomentare francamente che,faute de mieux, io fossi stato da lei destinato in petto, ariempire la lacuna che codesta villeggiatura stava per la-sciare nella sua operosa carriera. Ma io, sempre per lesolite ragioni (coll’aggiunta della migliore di tutte, la po-ca simpatia) non ne volli sapere; e senza però dovergiungere all’estremo di lasciarle in mano nessun pezzodel mio vestiario, ottenni il fine medesimo dell’anticomio modello: ma come lui destai nella signora una dosedi dispetto velenoso che ebbe pur troppo esito funesto.

Dopo alcune settimane comparve il suo amante titola-re: cioè, secondo l’uso, quello che è per casa a tuttel’ore, senza il quale il marito si trova perduto; che con-duce a scuola i ragazzi, e li mette in castigo fino alloscappellotto inclusivamente; che malgrado tutto questo,quando la signora va in conversazione, non l’accompa-gna, ma arriva un quarto prima o un quarto dopo lei pernon dar nell’occhio. Frase tecnica.

Egli aveva due o tre giorni di permesso, che però glifecero poco buon pro.

L’allegrezza che mostrò all’arrivo, trovandosi fuoridel suo cancello d’impiegato, in un’aria pura e nel seno

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della sua famiglia, si mutò presto in muso lungo un pal-mo; la sua parola divenne amara e pungente, piena di al-lusioni, di so ben io, di non son già cieco, di esclamazio-ni contro le soverchierie e i dispotismi femminili.

Io, che ero innocente come l’acqua, non volli mostra-re d’applicarmi quelle nebulose giaculatorie, stante l’as-sioma legale excusatio non petita etc. La signora dalcanto suo non sembrava punto alterata per lo sdegno re-presso, e per le sbottonate dell’amico; notavo anzi sulsuo viso, ed in un suo risolino maligno, un’espressioneche pareva più che altro di piacere; ma di que’ piaceriche debbono provare le streghe a rattrappire i bambininelle culle; se pure la leggenda non le calunnia, e se diceproprio la verità.

Sa il diavolo quali calcoli covassero sotto queste appa-renze! Quali cose avesse essa dette, o fatte dire, o lascia-te supporre, o insinuate! Comunque sia, se il suo pro-getto fu di metter male e far nascere quistioni fra il suoamico e me, la trappola scoccò a vuoto. Egli pochi gior-ni dopo se n’andò pe’ fatti suoi, ed io rimasi sempre me-no disposto ad ammirare i pregi fisici e morali della si-gnora Erminia.

Intanto io seguitavo i miei studi con calore. Da Romaricevevo tratto tratto qualche lettera, che mi portava lenuove e le vicende del mondo allegro de’ miei coetanei.Non nego che qualche aspirazione a quella vita saporitanon mi venisse fuori dall’intimo del cuore: a ventitrè an-ni alla fine non s’è un romito; ma vinse e vinse poi sem-pre in appresso il buon principio. Se non mi moveval’amore astratto del bene, mi reggeva e mi guidavaun’intima soddisfazione, parendomi riportare una bellavittoria, e potere credere di valer meglio di molti altri.

In allora erano in piedi quelle compagnie che quattrosecoli fa si sarebbero chiamate di ventura, e le avrebbecomandate il conte Lando, fra Moriale, od il duca Guar-nieri nemico di Dio e della misericordia; nel mio tempo

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invece le comandava Barbone, Spadolino, De Cesari ec.,più tardi Gasparone: eran chiamati i briganti, ed aveva-no i birri ed il bargello alle calcagna. Dal conte Lando aGasparone, come il mondo perde in poesia!

Il Governo papale s’era dato da fare per liberarne ilpaese: ma se, verbigrazia, a bordo d’una fregata ognicorda che si tira restasse in mano, vorrei sapere comes’andrebbe avanti, e come la ciurma la potrebbe dirige-re.

Il Governo del papa era, com’è, e come sarà sempre,in identico caso. Tutte le sue prove per distruggere i bri-ganti erano riuscite vane, perchè gli istrumenti che ado-perava erano fradici. E quindi non riuscì mai a nulla, final giorno in cui conchiuse con essi un trattato, da poten-za a potenza; trattato che i briganti osservarono, e che ilgoverno violò, facendo prigione a tradimento Gasparo-ne e tutta la sua compagnia nel Castello della Riccia.

Ma queste cose accaddero parecchi anni dopo al tem-po del quale scrivo.

Allora si seguitava a provare ora un modo, ora un al-tro; ed il modo del momento era stato il formare bandedi briganti in ritiro, o convertiti o disgustati; dar loro lemedesime armi, il medesimo vestiario, l’ordinamentomedesimo de’ briganti attivi. Quanto allo spirito ed alletendenze non c’era da occuparsene. L’identità era per-fetta.

Ero un giorno in mezzo alla macchia, sotto i così detticampi d’Annibale, i quali messi dal Senato all’incanto,mentre li occupava l’esercito Cartaginese, trovaronocompratori.

Dal non voler patteggiare con Annibale, al venir apatti con Gasparone! Distanza assai lunga che costò aRoma un viaggio di oltre duemila anni.

Mentre disegnavo certi bei tronchi giovani, mi sentoalle spalle lo scoppio di quattro archibusate. Mi volto, evedo uomini che vestivano da briganti.

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Erano gli originali o erano le copie? Siccome il canta-bat vacuus di Giovenale era esattamente la mia condi-zione, così, non avevo motivo di prendermene troppo.M’alzai, e m’avviai alla loro volta.

Erano per fortuna le copie – è sempre meglio. – Do-mandai loro, contro chi avevano sparato. «A segno, con-tro un albero,» risposero; per tenersi la mano in eserci-zio. Ora vuol’ella sapere come lavorano, e come è fatto illoro bersaglio? Fissano nelle rughe d’un tronco una fo-glia, poi si cacciano a correre colla carabina armata (cheessi chiamano cherubina); e dopo cento e più passi, adun segno, girar su un piede, sparare, e riprender la cor-sa: tutto dev’essere istantaneo.

Andai a vedere dov’eran fitte le palle: stavano neltronco non più distanti tra loro delle quattro dita dellamano. Se c’era un petto o un capo d’uomo, era servito.Ma in codesta guerra vince chi tira dritto.

La squadra composta d’uomini rozzi, di tipo volgare,era comandata da un giovane alto, smilzo, bello, di modicortesi, che pareva una persona della società mascheratada brigante. M’accompagnai colla squadra, e venni par-lando con questo tipo eccezionale, pel quale provavosimpatia.

Mi disponevo a cercar di studiarlo, e quindi di farme-lo amico, ma dieci giorni dopo fu ammazzato a tradi-mento da un gobbo nano in un’osteria, framezzo a’ suoi,ed il gobbo riuscì a fuggire. Incontrai un’altra volta lasquadra. Mi raccontarono il fatto mordendosi le dita dirabbia, e giurando di cercare il gobbo finchè l’avesserotrovato, ed inchiodarlo come un falco alla portadell’osteria. Eran musi da non mancar di parola.

In que’ paesi non sono rare simili vicende. La vitascherana de’ secoli scorsi, scomparsa altrove interamen-te, ancora dura colà; e le persone più tranquille e piùtemperate, più o meno ne rimangono tinte.

A questo proposito narrerò d’un mio conoscente,

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d’un tal Jacobelli, nel quale la pietà filiale e la tenerezzaconiugale, prendevano, come si vedrà, una tinta più inarmonia con que’ costumi che co’ nostri.

Jacobelli era un piccol possidente, sulla cinquantina,d’aspetto modesto e mansueto, uno de’ Fabbriceri dellaparrocchia, fratello della Coroncina, tutto quello insom-ma che vi può essere di più regolare e di più rispettabile.Aveva una moglie giovane, bellina, ma pallida e sempremalinconica. Che cosa può avere questa giovane? Il ma-rito vecchio (diceva fra me stesso): ma seppi poi che senon era falso il mio supposto, mi trovavo ancora assailontano da tutta la verità.

Prima di questa moglie, Jacobelli n’aveva avuta un’al-tra che amava svisceratamente. La poverina morì, fuportata e sotterrata in chiesa, secondo l’uso del paese.L’indomani il vedovo scomparve; e mentre si comincia-va a dubitare di qualche sua disperata risoluzione, dopodue giorni ritornò in casa, parve, se non consolato, tran-quillo, e nessuno più pose mente a’ fatti suoi. Dov’eraandato così repentinamente il sor Jacobelli? Era andatoa Roma; e senza informarsi da anima viva di nulla, aveacomprato gran cartocci di quelle spezie che nella suaignoranza stimava atte a disinfettare: pepe, cannella,canfora, sale e simili. Tornato alla Rocca con questaprovvista, riuscì a corrompere il sagrestano e becchino,ch’era tutt’uno; e col suo aiuto, di notte tempo s’era an-dato a prendere e riportare in casa la sua dolce metà.Quivi le si mise attorno, e Dio sa in che strani modi lacucinò: fatto sta che ripiena e ravvolta di quelle spezie-rie, la chiuse in una madia, che teneva in casa e visitavasovente, aspergendola del suo pianto.

Ma siccome tutto finisce a questo mondo, finì anchela fedeltà postuma all’ombra adorata. S’innamoròd’un’altra, la sposò, e la madia contenente l’antica fiam-ma, venne inchiodata e messa in disparte. Mi affermaro-no che l’adoperavano le opere come tavola da pranzo.

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Ma la curiosità femminile della nuova sposa la con-dusse un giorno a voler vedere che cosa stesse in questamadia inchiodata. La schiodò, l’aperse, e trovò quellospettacolo che si può immaginare; come si immagine-ranno gli stupori, e poi le inquisizioni, e poi le scoperte,e la confessione alfine del povero marito, che per primacosa dovè fare un fascio delle care memorie e riportarledove le aveva prese. Si raccomandò pel segreto, ma dicomare in comare la cosa giunse all’orecchio del Vicege-rente, ed in conclusione il Jacobelli un bel giorno sitrovò in prigione accusato di violato sepolcro; e non neuscì se non dopo un tempo che forse sarà sembrato lun-go alla moglie, ma che certamente sembrò più lungo almarito, vecchio geloso e in prigione mentr’essa era gio-vine, bellina e libera.

Questo fatto non era stato solo del suo genere nellavita del sor Jacobelli. Quando gli morì il padre, egli vol-le rimanere la notte alla veglia del corpo. Piangeva e ve-niva dicendo fra i singhiozzi: «Che proprio non t’aggia aveder più, Tata mio!»

Non sapendosi risolvere ad una separazione assoluta,trovò un luminoso espediente: schiodò la cassa e con uncoltello tagliò la testa al genitore; e riposta ogni cosa inordine, ebbe almeno questa memoria di lui, della qualenon mi ricordo, e poco importa, l’esito finale.

Cosiffatto era il cuore del signor Jacobelli, ed il suomodo di voler bene.

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CAPO VENTESIMOSECONDO

SOMMARIO. – La somarata della principessa Trois étoiles ecompagni! – Mi unisco a loro, e vado a stare per qualche tem-po alla villa della principessa – Studio dei costumi romani, spe-cialmente fra’ nobili, in quei tempi – Difetti dell’aristocraziapartecipati anche dalle altre classi sociali – Partenza dalla Roc-ca, e tristi memorie – Carluccio la notte seguente alla mia par-tenza si uccide, e perchè – Vado nell’ottobre a riposarmi ad Al-bano – Consigli ai giovani operativi – Alta borghesia romana, ecerte professioni anonime – Espedienti per viver bene senza fa-tica – Costituzione singolare del patriziato romano – Tornato aRoma nell’inverno, riannodo amicizia col marchese Lascaris diVentimiglia, piemontese – Esso mi compra un quadro – Osser-vazioni sul lavorare per lucro – La marchesa Lascaris – In apri-le vado a Genzano – Mi trovo per l’Infiorata – Che cosa è l’In-fiorata – Il signor Raffaele Attenni – Il castello degli Sforza esua posizione – In casa Attenni faccio letto di una botte, ma ipadroni non lo permettono – Il duca Salvatore mi concede diabitare il suo castello – Descrizione dell’interno di esso – Lun-ga e curiosa collezione di ritratti di famiglia – Non ho pauradegli spiriti – Ripongo il cavallo in un’antica credenza – Oste-ria di Genzano tenuta da un Milanese – Paura morbosa di unodei soliti commensali – I carrettieri del vino, classe delle più ri-spettabili e rispettate del popolo romano – Vado a dormire laprima volta nel castello, e mie precauzioni – Sorci e pipistrelli –Lunghi e faticosi studi dal vero sulla riva del lago – L’anticobirro, maceratore del lino.

Intanto era venuta la rinfrescata; e secondo l’uso mol-to ragionato de’ Romani di passare i gran caldi a Romane’ loro quartieri spaziosi e freschi, di dove escono sol-tanto la notte; mentre se fossero in villa di giorno nonuscirebbero pel caldo, e la notte dove anderebbero? se-condo questo loro costume dunque, i vicini castelli s’an-davano popolando di villeggianti.

Una mattina mi trovavo in casa, quando mi sentiichiamare dalla via da un coro di soprani, tenori e bassi.M’affaccio, e vedo una somarata, cioè una processione

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di ciuchi, portanti ognuno un signore o una signora, e ri-conosco la principessa Trois étoile, colle figlie, gli aman-ti delle figlie, i suoi, i figli, gli amici di casa, i benaffetti, ipiqueurs d’assiettes, insomma tutto il personale d’unavilleggiatura romana d’allora, che componeva una caro-vana d’una ventina di persone.

– Venga! venite! vieni! – mi si gridava, secondo i varigradi d’intimità degli interlocutori.

Io scorgevo il bocchino, il risolino, l’occhiolino ma-gnetico d’una delle signorine che si diceva mi volessebene, e che lo voleva però altresì ad un figuro con mo-glie e figli, che si scoprì poi in seguito ladro a tutta pro-va. Sembrerà strana questa tenerezza in una principessi-na; ma l’adagio d’allora era che il cuore non si comanda,e non è credibile quali facilitazioni portasse questo as-sioma nelle relazioni giovanili.

La seduzione era troppo forte; ed eccomi imbarcatocon tutta questa brigata che doveva salire a Monte Cavi,e ridursi poi la sera alla villa, e che non nomino per po-ter più liberamente descrivere il vivere d’allora.

Le offro, o lettore, uno studio di costumi che mostraquanto il mondo venga migliorando in fretta, se si facciail paragone fra quelli e i tempi presenti. Ecco qual eraquesta brigata.

La principessa, donna oltre i quaranta, stata un tem-po piacevole assai se non bellissima, ma d’aspetto stancoper aver sempre scordato il ne quid nimis. Fu già l’ado-razione d’un principe quasi sovrano; ora bisogna adat-tarsi a molto meno. Il figlio d’un locandiere, giovine diventi anni, di forme e forze d’atleta, stupido e mal edu-cato, è il suo padrone e fa in modo che ognuno lo sap-pia. Le signorine, di varie paternità. L’una è figlia d’uncavalcante ed essa stessa non lo ignora. I figliuoli in ma-no d’un prete, vero vituperio, che tien mano e partecipaalle loro sudice orgie, in certe camere remote del palaz-zo. Poi un vecchio maestro di musica straniero, che si dà

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tono d’uomo necessario, ed è trattato con riguardi dallaprincipessa; se ne ignora il motivo, ma si suppone siapossessore di qualche brutto segreto: e finalmente pa-recchi di que’ tali, che ora prestando un servizio, ora fa-cendo i buffoni, e sempre accettando tutto, a tutto rasse-gnandosi, e adulando senza pietà nè misura i signori,vengono a farsi l’equivalente d’un’entrata, e vivono vil-mente ma grassi, lustri, allegri, e senza faticare. Fra que-sti, ci era quel tale con moglie e figliuoli, che accennaipossedere una buona metà di un cuore del quale pareche toccasse a me il rimanente. Questa era la gustosa co-mitiva colla quale, lasciato il mio tetto solitario, salival’erta che conduce a Monte Cavi.

La principessa m’invitò a passare qualche giorno allavilla che aveva presa a pigione, ed io accettai. Le finanzedi questa buona signora erano rovinate dalla sciopera-taggine sua, de’ suoi e di parecchi altri. Come andasseavanti, lo sa Iddio. È vero però (e questo lo possiamo sa-pere anche noi) che avendo alle coste un nuvolo di cre-ditori, ottenne dal Papa di non pagarli. Mi ricordo aver-le udito dire tornando dal Corso: «Sapete! fermo alcaffè Ruspoli c’era A*** (un povero diavolo che le avan-zava, senza speranza, parecchie migliaia di scudi); figu-ratevi! m’ha guardato con un tono!... un’aria!...» ed essaintendeva dire, – si può dare un’insolenza simile! – Mal’invidiabile facoltà di non pagare i debiti non bastava ametterla in condizioni agiate; pur divertirsi bisognava,quindi trattava senza cerimonie i suoi invitati. Nella vil-letta della quale occupava un piano, era un salotto in ca-po alla scala, che per i pasti s’empiva tutto con una grantavola aiutata al bisogno da appendici d’assi posate sutrespoli: sistema che faceva occupare tutta l’area, e nonc’era da pensare a servitori che circolassero: però non simutavano piatti, non si serviva, e la roba andava a chi pi-glia piglia. Da un lato del salotto dormiva in una camerala principessa colle figlie; dall’altra era il dormitorio de-

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gli amici di casa, ove primeggiava un letto per l’atleta lo-candiere, come voleva giustizia: e per terra una serie dimaterazzi e sacconi, sui quali i villeggianti aveano facoltàla sera di cercare la posizione più comoda ai loro riposi.Tutte cose trovate allora naturalissime, e che non impe-divano punto alla brigata di passarsela allegramente.

Per compire la pittura di questi costumi, aggiungeròalcuni aneddoti.

Fra le numerose passioni che arsero nel cuore dellaprincipessa, una fu per un certo tempo accesa dal suococchiere. Era certo un gran comodo poter tener in casal’amante senza far dire. Anche a Roma non si sarebbesupposto il vero senza segni evidenti. In questo casoperò vi furono e non punto equivoci.

La principessa andava al Corso. Era l’uso fermarsi inpiazza del Popolo, ove i giovani venivano intorno ai le-gni a discorrere colle signore. Se si fermava a quella del-la principessa qualche adoratore, che non desse nel ge-nio al cocchiere, questi di sua iniziativa frustava, e via! Ese il rivale era, come s’usa, appoggiato al legno e co’ pie-di sulla linea delle ruote, peggio per lui!

Un giorno essendo la principessa in un legno scoper-to a due posti, corto, e quindi a portata dell’adorato og-getto; questi per gelosia, o per altro motivo rimastoignoto, si voltò, e in mezzo alla fila delle carrozze e dellagente le dette un gran scappellotto.

A forza di depravarsi, certe nature non sentono più isapori se non v’è scandalo, vergogna e viltà per tornagu-sto.

Questo genere se non comune, era però tutt’altro cheraro nella Roma anteriore alla rivoluzione. Una signorache l’aveva allora lungamente abitata mi diceva: – Eraben rara la dama, che, oltre l’amante in titolo, uomo del-la società, non avesse un cocchiere, un soldato, un qui-dam qualunque, ec. ec.... – Tale era lo stato sociale chele teste guaste son venute a turbare.

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Questo cocchiere era il padre d’una delle principessi-ne, svelta, allegra, carina come un amore. Si maritò, esiccome il sangue non è acqua, anche lei s’innamorò delsuo cocchiere. Il marito sorprese la corrispondenza, chemostrò come curiosità e lasciò ad una sua bella, ch’ioconoscevo. Così la potei leggere, e mi ricordo d’un bi-glietto che diceva: «Peppe mio, son disperata: T*** (ilmarito) non ti ci vuol portare (a una gita in villa), e diceche attacchi Cencio coi cavalli della tenuta, ec. ec....»Questo era un biglietto a lapis scritto in fretta la mattinapresto, mentre si stava in partenza per la scampagna-ta!...

Questa mattarella, quando gli amori non camminava-no a suo genio, si raccomandava niente meno che alprincipe delle tenebre per mezzo d’una maga che le pre-stava il suo terribile ministero. E siccome io me ne ride-vo, mi diceva un giorno: «Tu ridi pure, ma io ti raccon-terò questa. Quando io era innamorata di R***, e che mipiantò, era disperata. Vo dalla mia solita e le dico comemi trovo. Eh signora! dice lei, la cosa si rimedia; ma bi-sogna che v’avverta, io ve lo posso far tornare, ma.... at-tenta.... dopo non ve lo levate più d’attorno. Che vuoi,io non vedevo lume, accettai.» Qui veniva la descrizionedello scongiuro; poi seguitava: «Torno a casa, e la magami dice, non pensate, non passano due giorni che lo ve-drete. Erano mesi e mesi che non era venuto. La serastessa stavo alla finestra sull’avemmaria e guardavo perla strada. Il chiasso delle carrozze non mi lasciava sentiredentro casa. Quando una voce mi dice nell’orecchio An-gelina! era la voce sua! Mi volto. Era lui! Che vuoi, tipuoi figurare, a cavarmi sangue non me n’usciva unagoccia!...»

Andate a non credere alla magia!Questa disgraziata, consumato fra essa ed il marito

quanto avevano, viveva poveramente. Scese ne’ suoiamori tutta intera la scala sociale, ed in ultimo era vedu-

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ta talvolta la sera sul tardi in qualche vicolo in vicinanzad’una caserma in tenerezze con un soldato, che l’amavaper pochi paoli. Credo che ad uno di questi tenesse die-tro nella campagna del 48. La vidi a Bologna, e poi nelVeneto; e la feci comprendere nella disposizione del ge-nerale Durando, che vietava a molte anime tenere di gi-rare il mondo al nostro seguito. Mi faceva male vederlacaduta in quel fango. L’avevo conosciuta bambina,all’ingresso nella vita, che poteva essere onorata e tran-quilla. Ma non v’era più ritorno possibile per lei.

Seppi un pezzo dopo che era morta non so dove, o didisagio, o di malanni che s’era acquistati in quella suaturpe esistenza.

Il resto della famiglia finì meno male, ma non bene, etutt’insieme i suoi componenti lasceranno di sè pocobelle memorie.

Dalle aristocrazie operose è potuto uscire qualche be-ne. La francese, la nostra, la germanica ed altre nellaguerra; l’inglese nell’arte dello stato, produssero uominie cose utili e grandi; ma dall’aristocrazia del non farniente qual è la romana, figlia e serva del Papato per lamaggior parte, che cosa aspettare? Il clericato, che la fe-ce ricca, l’ebbe in sospetto e non la volle potente:l’escluse da ogni ingerenza politica; spense nel lusso, edin ozio forzato, ogni sua virtù: quindi ozio, avvilimento erovina! Ma ritorneremo or ora su questo argomento.

Siffatto vizio non è però specialmente annesso allearistocrazie: può trovarsi in ogni classe alla quale si con-cedono privilegi che la dispensino dall’avere in sè un va-lore, un merito reale, ed un virtuoso scopo alla sua esi-stenza. La plebe romana che per privilegio vivevadell’elemosine regolari degl’imperatori e de’ loro spetta-coli, senza far nulla, diventò il più colossale ammasso dicanaglia che registri la storia.

E pur troppo i donativi antichi, ed i denari dell’indul-genze di Roma papale, hanno tramandato le tristi tradi-

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zioni, vive ancora e potenti nel popolo d’oggi; ed il suoeldorado, del far quattrini senza meritarseli.

Quindi pei mestieri delle anticamere si trova il Roma-no: pei mestieri di fatica si chiama il forestiere. È vera-mente curiosa la ripugnanza del Quirite a lavorare, nontanto forse per pigrizia come per superbia; ed ecco sem-pre il tu regere imperio, ec. In campagna, per tutti igrossi lavori, arrivano colonie di fuori: per vangare e farfossi vengono i burrini (Marchigiani), per mietere gliAquilani, per l’olive i Lucchesi, ec., ed il Quirite pan-neggiato nel suo mantello sta a guardare...

Se i Romani vorranno far di Roma una capitale salu-bre che dia vita forte ed energica al governo italiano, do-vranno cancellare le tradizioni della plebe de’ Cesari ediventare un popolo moderno, che stimi onorato il lavo-ro non l’ozio. Ci pensino; e pensino che vale più un fattodi cento parole.

Tornato alla Rocca dopo pochi giorni, ed avanzando-si la stagione, mi disposi alla partenza. Essa doveva la-sciarmi tristi memorie.

La mia amicizia con Carluccio s’era sempre mantenu-ta uguale. Nessun sospetto aveva mai turbata la suamente. Sarebbero stati ingiusti, chè neppur una parolaavevo a rimproverarmi riguardo alla Carolina.

Ma ci entrò di mezzo l’Erminia; e Carluccio seppeche il paese aveva chiacchierato.

Venne il giorno della mia partenza, ed egli mi volleaccompagnare sino alla pianura: si montò a cavallo, opiuttosto si presero per la briglia, per far più comoda-mente la ripida scesa di quasi un miglio, che conduce,per mezzo a una folta selva, alle vigne di Marino. Quan-do siamo in mezzo alla macchia, mi comincia a parlared’Erminia, e a poco a poco riscaldandosi, dice di lei quelche meritava e anzi un po’ meno; e finisce col piantarsisulle due gambe guardandomi in viso, e mi fa: «E sai

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persino che cosa m’ha voluto far capire?... che tu faceviil caro con mia moglie!...»

In ogni paese una simil parola, in eguali circostanze,può essere foriera immediata di gravi fatti; ma in que’paesi più che altrove è quasi sempre la compagna indivi-sibile d’una ed anche parecchie coltellate: però, ad ognibuon riguardo, gli tenevo gli occhi alle mani. Ognunopuò sentire quanto sia difficile in simil caso non trovareuna risposta quanto trovare un viso, uno sguardo, unsuono di voce che la renda naturale ed efficace.

Ma in fin de’ conti, la Dio grazia, l’usbergo del sentir-si puro è pure un buon usbergo, e la coscienza netta valequalche cosa nel trattare cogli uomini. «Carluccio mio»,gli risposi tranquillamente, «la sor Erminia può direquel che le pare, ma io ti giuro da galantomo, che a tu’moglie non le ho mai detta una parola nè fatto un attoche te ne potessilagnare.»

Questo bravo giovane che voleva sfogarsi e levarsiuna pietra d’in sullo stomaco, e non farmi dispiacere,conobbe ch’io dicevo il vero.

Egli non aveva mai letti romanzi; non mi stese dun-que la mano, non mi disse quelle frasi che s’imparanonella Bibliothèque des chemins de fer. Mi guardò scrol-lando il capo ed alzando le spalle, e disse: «Eh! ti credosenza che ci giuri!... è quella linguaccia d’Erminia....»

È inutile ch’io mandi alla posterità la coroncina chesfilò ad onore e gloria di quella signora. Il lettore per po-ca fantasia che abbia se la potrà immaginare.

Si seguitò la nostra via passando da un discorso ad unaltro, e mi parve che l’animo suo un momento alterato,non avesse però serbate profonde impressioni di quelleprime parole. Ci lasciammo alla fine in ottim’armonia, econ molte scambievoli proferte per l’avvenire. Io spro-nai verso Roma, e lui voltò la briglia verso la Rocca.

Non ho mai potuto saper bene che cosa accadessequella sera tra lui, Erminia, la Carolina e forse altri. Mol-

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to tempo dopo mi fu riferito questo solo: che a nottes’imbattè nell’Erminia, la quale, saputo ch’egli tornavadall’avermi accompagnato, diede in una gran risata, di-cendogli con scherno: «Anche l’accompagno!... ah! ah!ah! Anche l’accompagno!...»

Cieco dalla rabbia, il povero Carluccio andò a casa.La mattina dopo fu trovato morto.

Si giustiziano gli uomini per colpi di spada o di daga,ma i colpi di lingua il codice non li contempla.

Varii supposti furono fatti, tutti più o meno inverosi-mili: nè giammai mi riuscì chiarire nulla su questo tristecaso. Sempre m’è rimasta cara memoria di quell’oscuro,ma onesto ed onorato villano, che mi diede indubbie ecostanti prove d’essermi amico. Altrettanto m’è rimastoun vero rammarico – rimorso non posso dirlo – d’esserestato io causa indiretta della sua morte, e della sventuradi tutta la sua famiglia.

Ritornando a Roma dalla Rocca, io riportavo con meun discreto frutto delle mie fatiche dell’estate: tre oquattro studi grandi, finiti sul vero, una ventina di pic-coli, e molti disegni. Mi sembrava giusto l’accordare ame stesso un mese di riposo e di divertimento, e men’andai a passar l’ottobre in Albano.

Ai giovani che studiano e faticano sul serio, credo po-ter dare un consiglio, ch’io ho trovato eccellente facen-done la prova.

Nelle facoltà operative, sì morali come fisiche, ognu-no ha una misura. Impiegarle tutte, è bene, e conduce airapidi progressi; ma volerle alterare sforzandole, è male,e invece di progresso porta spesso al regresso. Gli sforzidi fatica son cattivi negozi, e il buon senso gli deve farevitare, come un disordine.

Ci sono disordini che hanno una radice virtuosa, co-me altri l’hanno viziosa. Si può disordinare coll’intelli-genza come col senso.

Ma v’è un’altra regola più importante pe’ giovani

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operosi. A un disordine talvolta la natura resiste, a duenell’istesso tempo, no. Dunque, o giovani! Almeno undisordine per volta, se non avete fermezza per astener-vene! Con queste regole, essendo io sano bensì, ma nondi struttura robusta, ho potuto sostenere grandi fatiche.

In Albano era riunita la società che frequentavo an-che in Roma, e che apparteneva alla classe dell’alta bor-ghesia, la quale colà si distingue per condizioni tutteproprie del mondo romano.

Nell’agro, la terra è de’ signori, delle chiese, de’ luo-ghi pii; divisa in que’ latifundia quæ Italiam perdidere,ma che ormai perdono soltanto una piccola parte di es-sa. Alla borghesia rimangono per vivere, gl’impieghi(quei pochi che sono a portata de’ laici), il commercio ele industrie, l’affitto delle grandi tenute (mercanti dicampagna), ed infine, oltre le professioni liberali, moltimestieri anonimi e più o meno anomali, come per dirneuno, sarebbe quello di sbrigatore d’affari arrenati nellecongregazioni o nelle segreterie. Per questo mestiere bi-sogna conoscere tutto e tutti; tutti gl’intrighi, tutti i cu-nicoli, tutti i pasticci segreti, le influenze, gli amori, leire, le gelosie del paese, e saperle far giuocare a tempoper l’interesse che si vuole condurre a buon porto. Malasciamo le posizioni anomale. Anco le regolari (o quasi)sono incerte, ed il più delle volte insufficienti. Un capodi casa deve spesso ricorrere a molti espedienti per venirin fine d’anno. La tendenza, anzi la ferma risoluzioneche è in tutti di godersela, non trovandosi in relazionecoll’entrata nè colla voglia di lavorare, bisogna ricorrerea ripieghi. Così, verbigrazia, un impiegato con famiglia,oltre i 100 scudi al mese che riceve dal governo, ne tro-verà quasi altrettanti la sera al monte o a toppa, giuochine’ quali ha la fortuna fedele; qualche altro ne avrà rac-capezzati acquistando e rivendendo a tempo una partitad’olio; certe casse di cappelli di Francia che passarondietro la dogana di Ripa, invece di passarle davanti,

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avranno fatto pro anch’esse al bilancio dell’anno: e cosìchi apparentemente non ha che 100 scudi al mese, e conmoglie, figliuoli e figliuole da marito dovrebbe abitare aun terzo piano in via Giulia o in Campo di Fiore (ed ilresto in conseguenza), ha invece un bel primo piano inCampo Marzo, o verso il Gesù, carrozza, mezzo palco aTordinona, villeggiatura l’ottobre, con tutti gli accom-pagnamenti di toilette, che sono il vero pozzo di san Pa-trizio delle famiglie senza criterio. E siccome, more ro-mano, si chiama averne molto lo spendere tuttal’entrata, senza metter da parte un quattrino, pur di nonfar debiti, in questa famiglia la dote delle figlie si può di-re è zero.

Appena si dà loro il corredo: il giorno poi che il capodi casa viene a mancare, tutto rovina come un castello dicarte; e dal lusso si passa, senza transizione, alle strettez-ze, e bene spesso alla miseria.

Tale è il felice stato che procurano al tiers le leggi e leesclusioni della politica clericale!

L’influenza di queste condizioni sui caratteri non èmeno infelice. Anche i più galantuomini s’avvezzano abere un po’ grosso in fatto di speculazioni e d’industrie;la rettitudine dell’animo, la delicatezza del sentire sispuntano; il bisogno, l’incertezza dell’avvenire, la mal-leabilità delle leggi e de’ tribunali, a seconda de’ casi edelle persone; gli arbitrii, le prepotenze distruggonol’indipendenza, la dignità de’ caratteri. Il servilismo, laduplicità divengono un istrumento del saper vivere; ed ilvivere alla giornata e di transazioni, diventa la trista einevitabile condanna di una parte così numerosa e ri-spettabile della popolazione, sulla quale pesano quasiegualmente le due classi privilegiate, il clero e l’aristo-crazia. Non la sola borghesia si trova a Roma in condi-zioni speciali; non è meno singolare e fuor del comunela costituzione del patriziato.

Il nepotismo è stato il creatore della maggior parte

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delle famiglie romane di libro d’oro. Mentre nei nostripaesi la nobiltà, come dissi dianzi, guadagnava i suoi ti-toli sul campo di battaglia, la nobiltà romana li acquista-va nelle corti; e quanto a ricchezze, non credo di deni-grarne troppo le origini dicendo, che se le ombre di tuttii cardinali nipoti potessero essere evocate, e ognuna do-vesse pubblicare il suo libro mastro, se ne sentirebberodelle belle.

Da tutto ciò ne nasce che il temperamento, se si puòdir così, di codesta aristocrazia, sia senz’energia, senzagran distinzione o altezza di sentire; ch’essa viva in unacompleta nullità, posta fra l’incudine e il martello dellacasta clericale dominatrice e del popolo sottoposto. Ilpeggio di tutto è, che di una condizione così poco invi-diabile, ella non sembri avvedersene, non cerchi d’uscir-ne, e se ne mostri perfettamente felice.

Non mi fu mai possibile di frequentare molto codestaclasse, e farne la mia società; quantunque, m’affretto adichiararlo, abbia incontrato in essa degne eccezioni ericevute cortesie da parecchi suoi membri. Siccome quise ressemble s’assemble, il saggio intellettuale delle con-versazioni de’ signori, è generalmente al disotto del tol-lerabile. Vi domina il pettegolezzo, l’intrigo, e più o me-no l’elemento parassito; vi si vedono frequenti que’ tipiche anche a Milano, a Napoli s’incontrano in parecchiefamiglie ricche. Esseri anfibi che godono d’un tratta-mento, via di mezzo fra quello del servitore e quellodell’amico; gente che dà dell’Eccellenza al principe o alduca, e che questi tratta di voi; uso che pare incredibilea chi non conosce Roma, e che s’è pure generalizzatonelle relazioni fra nobiltà e borghesia.

Per me che non andavo a caccia di pranzi, e che nonavevo nessun motivo di considerare come una promo-zione di frequentare famigliarmente una casa di librod’oro, era naturale che un simile elemento mi fosse anti-

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patico. Perciò, salve poche eccezioni, me ne tenni lonta-no.

Poichè siamo a dipingere classi e costumi, ecco unpaio d’aneddoti, che credo significanti.

Osservavo una sera col principe A*** un pannod’arazzo di fabbrica fiamminga teso in una delle sue sa-le, che rappresentava la scalata data ad un torrione mer-lato d’una fortezza da soldati armati, in quello stile ro-mano anfibio usato nel secolo XVII nelle fabbriche diFiandra.

«Che fatto rappresenterà mai la presa di questa for-tezza,» dico al principe, che risponde: «Dev’essere labattaglia di Lepanto!!!» Gli do una guardata per vederese il suo viso si mostrava ilare; ma stava serio, e amen.

In una occasione molto diversa ed in tempi molto po-steriori, mi trovavo in Roma in forma semi-officiale. Ungiorno penso di sbrigare molte visite di convenienza;esco e fo fermare il legno al portone del palazzo X***dicendo al servitore: «Sentite se il principe riceve.» Do-po un bel pezzo vien giù un cameriere, si fa allo sportel-lo e: «Dice Sua Eccellenza che torni domani alle 11;» edopo una riverenza, rientra in palazzo!!!

Io risi così di cuore, che non ebbi campo a rimandarl’ambasciatore coll’osservazione che avevo chiesto se ilprincipe riceveva, e non che mi fissasse un’udienza.

Il mio ottobre in Albano passò allegramente; perquanto non dividessi, nè abbia mai diviso i gusti e le abi-tudini romane circa la villeggiatura. In villa ci si va, senon sbaglio, per godere della campagna aperta; e lacampagna si gode col sole e non colle stelle. Ma quandosi passa la notte giocando a toppa, si cena alle 2 e si va aletto alle 4, bisogna per conseguenza logica alzarsi amezzogiorno. Quindi per i villeggianti d’Albano tutta laparte campestre del villeggiare si riduce ad una passeg-giata sul tardi nel bosco di villa Doria. Tale era l’uso inallora; oggi può esser mutato, ma mi par difficile.

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Qualunque fosse, io l’accettavo, e mi ci adattavo, le-gato dal principiare d’una passione che non potevo do-minare, e che mi fu cagione in appresso d’infiniti doloried amare delusioni.

Come già ho dichiarato, non intendo descrivere amo-ri; accenno soltanto a questo, perchè in seguito si possa-no intendere parecchi fatti che altrimenti riescirebberoinesplicabili.

Ritornato in Roma, presi studio verso Sant’Isidoro so-pra piazza Barberini, in casa di due vecchie che m’usa-vano infinite attenzioni; e m’accinsi con ardore a cavarequalche opera presentabile dagli studi e dall’esperienzad’una lunga

stagione di lavoro. Misi insieme un quadro, che rap-presentava un dirupo con una spelonca, preso a CastelSant’Elia, e non mancava d’effetto, unito ad un lampo diverità; primo frutto dell’avere per sei mesi veduta e con-siderata continuamente la natura.

In quell’inverno venne a Roma un signore piemontesemio amico, colla moglie ed una sua unica figlia, che spo-sò in appresso il fratello del conte Cammillo Cavour,marchese Gustavo, morto di recente.

Questo signore era il marchese Lascaris di Ventimi-glia, degli antichi Lascaris d’Oriente, venuti in Italia nelsecolo XV dopo la caduta di Costantinopoli.

Io mi legai più di prima con lui, ottimo galantuomo,perfetto gentiluomo, colto, amorevole, di spirito vivace,allegro, e d’una stampa veramente originale. Egli avevapassione per l’arte e per gli artisti, ed io un po’ gli servi-vo di cicerone, a momenti avanzati. Vide il quadro cheavevo terminato, gli piacque, ovvero, ciò che è più pro-babile, volle usarmi una gentilezza, e mi diede la felicenotizia ch’egli lo comprava.

La gran questione discussa a Torino in casa della mar-chesa d’Crsentin, arrivava alla sua soluzione.

Ma non vi arrivava senza che io stesso non sentissi nel

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mio interno un’impressione difficile a definirsi, che perònon mancava d’analogia colla decisa ripugnanza. Tantoè arduo alla ragione cacciare di posto i pregiudizi dellaprima età; e tanto importa quindi l’imprimere ne’ cer-velli de’ bambini più teneri, non pregiudizi, ma idee ve-re e sane fin dai primi principi!

Però non rifiutai il negozio, come si può credere, edanzi per castigarmi mi prefissi di ricevere i denari dallamano alla mano, guardando in viso chi me li porgeva;evitando insomma tutte quelle ipocrisiette che moltiusano, in certe professioni, all’atto di farsi pagare, comese potessero così mutare o velare la realtà del fatto.

Io ragionavo in questo modo: se un atto è vergogno-so, non si deve farlo in nessun modo; se non è, sarebbeumiliante il compierlo come se uno se ne dovesse vergo-gnare. È lo stesso che dire, io so di fare cosa da arrossir-ne, ma non me ne astengo perchè ci trovo il mio interes-se.

Dunque presi bravamente i miei denari. Non sonperò sicuro d’aver eseguito proprio a puntino il mioproposito, e di non aver abbassato un po’ lo sguardo nelmomento importante.

Fatto sta che per un artista, come per uno scrittore, èuna grand’emozione la prima volta che egli si vede da-vanti un mucchietto d’oro, e che può dire questo me loson guadagnato io col mio cervello e colle mie mani! Enon ci ha che far qui affatto l’amor del denaro. È l’amorproprio che prova la meno discutibile delle sue sodisfa-zioni. Chi loda il vostro lavoro, vi può per qualche moti-vo ingannare; ma chi ve lo paga!... Dove trovare un’am-mirazione più certamente sincera?

Alla soddisfazione dell’amor proprio se ne aggiungepoi un’altra più degna: quella di sentirsi accresciuta l’in-dipendenza; di sentire che all’occasione si ha in sè stessoil modo di campare senza bisogno di piegarsi a nessuno.Il più gran ricco del mondo che perde il suo avere, se

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non sa far nulla, diventa più povero di colui che può e saesercitare un’arte o un mestiere. Per questo, prima diRousseau, il proverbio italiano avea già detto: imparal’arte, e mettila da parte. Tale fu sin da giovine la miamassima, e ne dovetti ringraziare Iddio in una occasionedifficile, molti anni dopo. Quando uscii dal ministero,per circostanze speciali, mi trovai a secco affatto dellamia piccola entrata, e per tre o quattro anni campai uni-camente col mio lavoro; e mi valse davvero l’aver impa-rato un’arte!

Il sentimento dell’indipendenza bisogna averlo per sèprima di tutto: quello che riguarda la nazione ne sarà laconseguenza necessaria.

A’ denari guadagnati l’impiego era già bell’e trovatofin da prima, ed anzi sospirato. Da un pezzo mi trovavoa piedi, con mio gran rammarico. Quantunque la miapensione fosse salita a 40 scudi il mese, non era possibilel’economizzare su essa il costo d’un cavallo. Quello checomprai, di razza romana, aveva l’età del giudizio; pureera un buon animale, un po’ paventoso bensì, ma che miservì bene ne’ miei viaggi artistici, e che intanto cavalca-vo per Roma con immensa delizia. La passione dei ca-valli è stata per me una vera tribolazione. Ogni poco lafortuna mi pose in condizione di dovere e di potere te-nerne, per prendersi poi il diletto di farmeli venderequando mi ero loro affezionato. Come soldato, o mini-stro, o governatore ebbi belli e buoni cavalli, ma uscitoappena d’impiego, addio scuderia! Bisognava vender-li....

Nella classe de’ dispiaceri di second’ordine, è statouno de’ più pungenti che abbia provati: quanto ho capi-to ed invidiato Alfieri! Ma ho sempre sacrificato tuttopiuttosto di far debiti, che molto spesso significano, vi-vere non del proprio ma dell’altrui.

Se fossi rimasto in Roma, avrei dovuto appunto finirea questo modo, o vendere il cavallo per comprargli il fie-

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no: ma era l’inverno in sul finire, e mi venivo disponen-do a riprendere la mia faticosa carovana sul vero. Incampagna la spesa del cavallo diventava sopportabileanco ad una borsa come la mia.

La primavera che suol cacciare di Roma i forestiericome l’anatre dai paduli, e mandarli a voli verso il nord,mi tolse la cara e simpatica compagnia dei Lascaris.

Ho detto di lui: ma non voglio separarmi dalla loromemoria senza dire due parole anco di lei. Era una don-nina piccola, gracile di salute, non certo bella, ma dolcee buona, e per carattere ferma come una torre. Ne diedepiù d’una prova in vita sua, ma d’una sola voglio qui farmenzione.

Essa seppe fare quello che non seppe nè potè per unpezzo l’Europa: far testa a Napoleone.

«Ero dama di palazzo di Maria Luisa (così mi raccon-tava un giorno) e si villeggiava a Saint-Cloud. Un dopopranzo si uscì a spasso in carrozza coll’imperatore el’imperatrice: faceva un tempo umido e freddo, ed io,come sempre, stavo poco bene. Il legno nel quale mi tro-vavo era un landau coperto. L’imperatore mandò a direche tutti si scoprissero. Io non volli lasciar scoprire ilmio. E qui battaglia collo scudiere di servizio, e poi trat-tative, e poi.... e poi.... il landau restò coperto, e prima dilord Wellington vinsi io Napoleone.»

Intanto era venuto aprile. Volevo mutar luoghi perstudiar nuovi punti, e mi ero deciso per Genzano, paesea 18 miglia da Roma sulla strada di Napoli. Posto sul ci-glio d’un poggio, domina da un lato l’aperta pianura edil mare, dalle colline di Cervetri sino a Monte Circello:dall’altro fra balze e dirupi si specchia nel profondod’uno degli antichi crateri del Monte Albano, divenutoora il lago di Nemi. Presto ricorreva l’Infiorata, nè avreipotuto avere miglior occasione per una gita preparato-ria. Giunto il giorno della festa, la mattina all’alba mon-tai a cavallo e via per Genzano.

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Che cos’è l’Infiorata?L’infiorata si fa per l’Ascensione, e serve alla proces-

sione che gira le principali vie del paese. Consiste in unsuolo di fiori che copre totalmente il terreno sulla salitache dalla piazza conduce alla chiesa. Alcuni giorni in-nanzi la festa, le donne e ragazze del paese vanno perprati, per boschi e per giardini, e li spogliano di fiori,che portano a casa a fastelli. Poi sfogliano questi fioriuno ad uno, ed ammucchiano le foglie dello stesso colo-re, onde compongono alla fine una specie di tavolozzapiena di tinte diverse.

Ogni casa che fronteggi la strada, s’incarica di coprirelo spazio che le sta dinnanzi, ed eseguisce un disegno di-verso. Chi fa un ornato, chi un fregio, chi l’arme del du-ca Sforza, antico signore del paese, chi la propria, sel’ha, chi quella del vescovo o del papa e via via. Con unalunga funicella logora e quindi flessibile, che si mette interra a norma del disegno, si fissa prima il contorno chepoi s’empie di foglie de’ varii colori. L’insieme riesce vi-vacissimo; e visto dal piede della salita si mostra comeun tappeto magnifico, che rincresce di veder poi guasta-to da’ piedi della processione.

Io arrivai a Genzano, ove non conoscevo se non unpiccolo proprietario che avevo veduto una volta sola, enon so dove. Rimettere all’albergo il cavallo, colla con-fusione di quel giorno, era poco prudente. Andai dalmio conoscente che aveva nome Raffaele Attenni, e mipermise di chiudere in un suo tinello la mia cavalcatura,che vi lasciai felice in compagnia di due fasci di fieno.

Vidi la festa, la gente, le bellezze veramente rare delpaese, i Romani venuti in folla, i villeggianti de’ vicinicastelli; e poi volli girare ed esaminare i contorni, perfarmi un’idea del profitto che ne potevo cavare.

Il castello degli Sforza mi piacque assai. Egli sta suldosso del monte, in cima ed un po’ fuori dell’abitato.Gode d’una vista immensa verso il mare; e verso i colli,

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dell’austero aspetto di Monte Cavi, di Nemi, della selvadella Fajola, e dello sprofondo, nel quale dormono le ac-que brune del lago. Qui, pensai, vorrei stare, se fossepossibile. Trovai in paese il custode, mi feci aprire, e vi-sitai l’interno del palazzo.

Era disabitato, e si può dir devastato; non come la ca-sa di Castel Sant’Elia, ma poco meno; ma anche qual erami piacque.

In queste perlustrazioni s’era fatto notte e bisognavacercarsi casa, a non voler dormire sotto il padiglionestellato. Nel tinello dove abitava il cavallo avevo osserva-to una botte vuota; paglia ce n’era, e quindi stavo megliodi Diogene.

Mi ci ritirai a notte chiusa e, dato ordine al cavallo, mirannicchiai nella mia botte e chiusi gli occhi. Ma il pa-drone di casa al quale giunse la notizia che il suo ospites’era con tanta discrezione e modestia (me lo dico dame!) provveduto di letto, scese nel tinello col lume, enon ci fu rimedio, convenne alzarsi, e salire nelle stanzedella famiglia, ove trovai le figlie ed un suo figliuolo, chemi sgridavano di non aver ricorso a loro per dormire frale lenzuola, invece d’accucciarmi in un angolo come uncane.

Dopo tanti anni, mi ricordo ancora con compiacenzadelle amorevoli premure di quei cari miei nuovi amici,che neppur sapendo chi fossi, esercitavano meco la veraospitalità de’ patriarchi. Trentadue anni dopo tornai aGenzano, accolto dal mio ottimo amico don Lorenzo,duca attuale. Rividi la famiglia Attenni, che non si sape-va risolvere a riconoscere l’antico ospite della botte nelministro, ora festeggiato ed ospitato in palazzo dal ducapadrone.

Non mi era stato difficile ottenere dal fratello donSalvatore, in allora duca, un ampio permesso d’abitarequel suo rovinato castello quanto mi fosse piaciuto. Perciò non molti giorni dopo, mi presentavo una mattina

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alla porta del suo custode, che abitava giù in paese; echiamatolo, gli consegnavo l’atto d’investitura tempora-ria che avevo ricevuto dal duca. Lo lesse e, tornato in ca-sa, prese un gran mazzo di chiavi, le mise in mano aduna sua villana, ed essa ed io, tirandomi appresso il ca-vallo, si cominciò a salire verso il castello.

Bisognò cominciare dall’aprire il portone con unachiave che potea figurare in un processo d’omicidio co-me istrumento contundente. Poi si trovava uno scalone;poi un’anticamera con un rastrello per armi in asta; poiuna sala con un teatro (stile del 700) che cadeva a pezzi;poi altre stanze in una delle quali era la serie dei ritrattidi casa Sforza.

Da Giacomo Attendolo, fiero, nero, peloso e affumi-cato, si veniva sino ad uno degli ultimi duchi dell’epocaPompadour, bianco e rosa, incipriato, bellino, graziosi-no, in calzoncini celesti, abito tortorella ricamato in ar-gento, e panciotto glacé.

La successiva trasformazione di que’ visi era il fedelritratto della trasformazione delle grandi famiglie italia-ne; salite coll’attività e l’energia, tramontate coll’inerziae colla dappocaggine.

Le stanze accennate erano tutta un’infilata sul davantidel palazzo. Altre ve n’erano sul di dietro, in una dellequali gli avanzi d’un paio di letti, e ciò formava il primopiano. Salii al secondo sempre seguìto dalla villana sot-to-custode. V’era riprodotto il quartiere di sotto suddi-viso da tramezzi, e smobigliato quasi interamente. Risce-si, e deposte le bisacce che avevo levato d’in sul cavallo,nella camera de’ letti, mi diedi a’ preparativi del mio al-loggiamento.

Quella ragazza mi stava guardando, ignorante dellemie intenzioni. Quando le ebbe finalmente indovinate,mi disse con un’indescrivibile espressione di stupore:

«E tu qui vuoi dormire? solo solo?»«Se piace a Dio e alla Madonna», risposi io.

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«Ma non sai che ce stan li spiriti!»«Eh!... quel che Dio vuole e la Madonna.»Questa risposta edificante non ammetteva replica. Si

strinse nelle spalle, mi diede un ultimo sguardo di pietà,e presa con grato animo una mancia in armonia collemie facoltà (un paio di baiocchi probabilmente) sen’andò con Dio, lasciandomi in mano tutto l’arsenaledelle chiavi.

Quando mi trovai solo, e mi sentii unico possessore(la roba non è del padrone ma di chi se la gode) del ca-stellaccio, e tutto insieme suo castellano e sua guarnigio-ne, mi trovai immerso in un tal pelago d’indipendenza edi libertà, che me la passai per cinque minuti ballandoun a solo onde celebrare la mia totale emancipazione.Ma prima di pensare a sè, ogni cavaliere deve pensare alcavallo.

Il mio stava legato ad una inferriata accanto al porto-ne, sferzandosi colla coda più che poteva per difendersidalle mosche.

Ed ora dove si rimette questa povera bestia? pensavoio. Le antiche stalle del duca eran lontane, quindi inco-mode per chi cumulava i due impieghi di padrone e dipalafreniere. Guardai in qua, in là, sotto il portone,dov’era una Madonna, e non vedevo segno di luogo oc-cupabile. Presi però il mazzo delle chiavi per verificaredove mettesse una porta che scoprii in un angolo oscu-ro.

La chiave si trovava nel mazzo, aprii, e da qualchemobile tarlato conobbi che ero entrato nell’antica cre-denza, nella fabbrica de’ dolci, de’ pasticcetti, che sottoil mio regno non poteva rifiorire di certo, e che destinaiquindi all’uso di stalla.

Chiesi aiuto, e con un grosso di chiodi, sconficcandole tavole e gli attrezzi che eran colà allo sbaraglio, formaiin un angolo un recipiente a uso mangiatoia. Mandai perun papetto fra paglia e quattro fasci di fieno, tanto da

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averne per un giorno; ciò fatto, introdussi il povero ca-vallo, lo misi in possesso, e dopo averlo ben governato lolasciai che mangiava felicemente il suo fieno.

Per compir l’opera, avevo intanto mandato un ragaz-zino a tagliarmi un fascio di rami d’olmo. Fra tutti e duein pochi minuti se n’ebbe intrecciata e messa in operasulla finestra un’infrascata onde fare scuro nella stalla.

Se lei capitasse a Genzano, osservi la inferriata bassaaccanto al portone a sinistra, e se la notizia la può inte-ressare, sappia che colà era la mia scuderia.

Allora finalmente mi parve aver diritto di pensare ame.

Il mio bagaglio, i miei attrezzi che non potevo portarcon me, gli avevo spediti da Roma colla carrozza diGenzano. Andai per essi, e fattimeli portare su in castel-lo, cominciai ad accomodarmi.

Cogli avanzi de’ due letti ne composi uno che mi pro-curò poi una serie di veri sonni dell’innocenza, e scelsiper dormire la camera sul di dietro, accanto al palco sce-nico del teatro; le porte di questa camera chiudevanopoco e male, ma le altre chiudevano peggio.

Il parato era stato un coiame lavorato ad arabeschi, ene rimaneva una metà soltanto, staccata in molti punti, ependente a pezzi e bocconi rasente il muro.

C’era pure un vecchio canterano con i suoi cassettoniper la biancheria. Nella gran sala de’ ritratti disposi poile cose di pittura, una dozzina di volumi (il solito Pi-gnotti ed il solito Plutarco), l’occorrente per scrivere, in-somma vi feci il mio gabinetto di lavoro.

Ed ecco messa su casa, e prima di mezzogiorno ordi-nata perfettamente la mia nuova dimora!

Mezzogiorno in quel tempo, e per molti anni, fu perme l’ora di pranzo. V’era a Genzano una osteria tenutada un Milanese, e situata in una dell’ultime case a destrauscendo dal paese verso Velletri. Ci feci una prima sta-

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zione, che doveva essere seguìta poi da tante altre, e nonessendo esigente, me ne trovai benone.

È incredibile come il mondo dappertutto è diventatoassai più esigente che non era allora.

In quest’osteria della quale ognuno si lodava, era unostanzone terreno, ex-granaio, del quale uno de’ capi ve-niva occupato dal camino, un paio di fornelli, ed il ban-co dell’oste. A mezzogiorno s’era sicuri di trovarci cottie lesti una minestra ed un paio di piatti, tre al più, stilecasereccio, e così la carta era presto veduta. V’apparec-chiavano su certi tavoloni stretti e lunghi, con un tova-gliolo largo mezzo metro, un altro per pulirvi la bocca,posate di ferro, un mezzo di vino e due pagnottelle. Fi-nito il pranzo, veniva un villanello del paese facente fun-zione di cameriere, e levato il tovagliolo, appoggiato ilgomito sinistro sulla tavola, con un pezzo di gesso nelladestra scriveva sul fondo lustro ed oscuro del legno ildare dell’avventore. Pagato il conto, colla manica dellacamicia cancellava le cifre, e così la contabilità mantenu-ta in corrente non pativa di veruna incertezza.

I commensali che trovai, erano non tanto gente delpaese, ove generalmente ognuno mangiava in casa sua,quanto gente o d’impiego o di passaggio. Questi com-mensali (ognun da sè e per sè, badiamo! sul suo isolatotovagliolo) presto si mutarono in conoscenti ed infine al-cuni quasi divennero amici. V’era, fra gli altri, il mare-sciallo dei carabinieri (il pezzo grosso di quella società),giovane napoletano, biondo, buon diavolo, e di buonacompagnia; e un suo amico, che presentava uno stranofenomeno. Costui aveva sofferta una lunga e gravissimamalattia, e n’era guarito per vero miracolo. Ora per ri-mettersi, se la passava a Genzano e vi faceva la convale-scenza. Prima d’ammalarsi era stato uomo d’affari e difaccende, attivo, ardito, che aveva assaggiato un po’ ditutto, e d’età non al di là dei quaranta. Dopo il suo male,Dio sa quale imbroglio fosse accaduto nel suo organi-

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smo; fatto sta che s’era ridotto più pauroso d’un bambi-no di due anni. Non poteva stare allo scuro, non potevastar solo, ogni incidente, ogni piccolo strepito, lo altera-va.

Un giorno, mi ricordo, s’andò insieme in Albano ver-so sera. Io avevo non so che faccende da sbrigare, e glidissi: «Se credete che non v’abbia a far disturbo, aspet-tatemi qui nel caffè. Come vedete è pien di gente, e aquest’ora certo non resta vuoto.» Egli mi rispose: «Benebene, andate pure;» ed io: «In quattro salti me la sbrigo,e in un quarto d’ora son da voi.»

Torno dopo un dieci minuti, e da lontano vedo sullaporta del caffè un capannello di gente: – Ci siamo – Di-fatti era lui svenuto su una sedia con tutti intorno perfarlo rinvenire.

E un’altra volta s’andò in compagnia di cinque o seialla festa di Cisterna nella Paludi Pontine, e si dormì aVelletri tutti in una camera, col lume, causa le sue paure.La notte il lume si smorza, lui comincia a smaniare, aognuno pesava l’alzarsi, e gli si dice in coro di star chetoe di non romperci le tasche: lui non fa altro che tanto,s’alza, apre la finestra, e se il più vicino non è svelto aslanciarsi, e non lo riprende per aria, era affar finito, e loripescavamo sul selciato della via. Costui ed un paiod’altri inconcludenti erano i fissi. Gli avventizi erano icarrettieri del vino, classe che conta fra le più rispettabi-li e più rispettate del popolo romano.

E non scherzo, parlo sul serio.Come ognun sa, Roma è stata da secoli il refugium

peccatorum della terra intera; e se non se ne fosse certialtrimenti, basterebbero i casati a provarlo. Ce ne sonod’ogni lingua, d’ogni nazione, nè quelli che li portanomostrano nulla che li faccia apparir forestieri. Ma, ba-diamo, questo accade nel mezzo ceto, ed in parte anchenel patriziato. Ma fra il popolo, in ispecie in Trastevere,alla Regola, ed a’ Monti, non se ne trova esempio. Fra

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questo popolo stesso si distingue poi una specie d’oli-garchia gelosa più dell’altre di mantener puro il sangueromano, e quest’oligarchia sta principalmente ne’ duemestieri di selciarolo2 e di carrettiere del vino.

È raro che nei matrimoni costoro escano dalla loroclasse; e non c’è capitolo di canonichesse tedesche piùconvinto dell’altezza della propria nascita di quel che losiano i membri di queste due umili, ma non vili profes-sioni.

Per legge fisiologica i matrimoni ristretti fra pochi so-no dannosi alla specie. In questo caso però, mènte lalegge fisiologica; o forse la decadenza colpisce soltantole classi oziose e molli, non le forti ed operose. A colpod’occhio s’osserva la differenza che è fra costoro e la ri-manente popolazione. La struttura quadrata de’ lorocorpi, il volume ed il modellato de’ muscoli, le nobili at-taccature, la complessione asciutta, senz’adipe, senzapancia, mentre a Roma ambi i sessi nell’altre classi ten-dono al tondo ed al rilassato, li mostra veri discendentidi que’ legionari, che portando nelle marcie oltre l’armi,oltre i viveri, anche un palo per l’accampamento, ognisera dovevano fortificare questo con fosso e spalto, pri-ma di riposarsi. I bassorilievi ci mostrano, in marmo,com’erano fatti questi antichi uomini di ferro, ed i car-rettieri del vino ce li mostrano oggi di carne e d’ossa.

Sono gente rozza ed ignorante, è verissimo; ma nel lo-ro aspetto, ne’ loro atti, nel modo di stare, d’andare,d’atteggiarsi, è un’espressione altiera, una sicurezza or-gogliosa, che in nessun popolo del mondo m’è accadutod’incontrare: ed è impossibile non rimanere colpiti daicaratteri di superiorità che appaiono in codesta partedella popolazione; la quale, nelle fattezze, nell’espressio-ne, nel modo di vivere, e perfino nei materiali, negli at-trezzi delle loro industrie, mostra un grandioso, affattospeciale a loro; una maestà, un far di padroni, che si cer-ca invano nelle classi elevate.

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A Roma, in verità, pare che per effetto d’una sorpre-sa, i servitori abbian cacciato dai palazzi i padroni, e liabbiano mandati per strada.

Nè questa parte del popolo è punto priva di nobilidoti. È in lei una certa generosità di sentire; non è usaper lo più a grandi stravizi in generale (il carrettiere èmestiere da dover stare in cervello). Sono accusati, è ve-ro, di battezzare i barili che portano; e le fermate loro al-le fontane della campagna non direi veramente che sem-pre fossero soltanto per abbeverare i cavalli; ma chi nonmette un po’ d’acqua nel suo vino a questo mondo? Se litrattate alla pari, vi trattano bene anche loro; ma a volerguardarli d’alto in basso, si ricordano d’essere loro i Ro-mani veri.

Adoperano carretti d’una forma che ha del grandio-so, come dianzi accennavo, ed insieme d’una semplicitàantica. Due lunghe e forti stanghe posano da una partesu due ruote alte, e dall’altra, in linea orizzontale, suldorso d’un cavallo; anche esso d’alta statura, quasi sem-pre nero morato, con un’incollatura, una testa, untutt’insieme che ricorda i cavalli dell’arte antica. Il car-retto non ha parapetti: semplici traverse lo connettonodi sotto, sulle quali posano otto barili. Verso sera i car-rettieri partono da Genzano, e viaggiano tutta la nottedormicchiando, seduti sul barile più vicino alla groppadel cavallo, appoggiandosi da lato alla così detta forcina;che è un ramo d’albero fitto nel carretto, e che dividen-dosi come le dita della mano in rami minori, forma unaspecie di nicchia, che rivestono nell’interno con una pel-le di pecora.

Viaggiano per lo più in parecchi, uno veglia (disposi-zione prudente in campagna di Roma), e una lanterna ditela pendente sotto un carretto serve per l’intera carova-na.

Generalmente a mezzogiorno avevo il gusto di veder-mene dinanzi una tavolata di sette o otto di costoro; ed

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era una vera delizia d’artista vederli, udirli, studiarli.Belle e forti figure, sempre bene atteggiate, sempre mae-stose. Sfido chicchessia a sorprendere uno di costoro inuna mossa ignobile.

V’era un tale che avea nome Pizzetta.Mi ricordo un giorno, dopo mangiato, tempo di gran

caldo, s’era steso boccone sulla tavola medesima ove an-cora sedevano quattro o cinque compagni. Appoggiavail capo a due braccia abbronzate e robuste, e russava. Aun tratto i suoi compagni, non so per qual motivo, leva-rono tutti insieme un grido che lo svegliò! Ancora lo ve-do alzare il capo tutto insonnolito, guardarli bieco e convoce roca – pozziate morì d’accidente! – e poi giù dinuovo a dormire. Racconto questa inezia per mostrarequanto dovessero esser singolarmente artistiche le figuredi costoro, se mi rimasero impresse nella memoria alpunto di vederle ancora dopo quarant’anni come se fos-sero vive e presenti!

Eppure anche il povero Pizzetta a qualche cosa m’haservito. Nel sacco di Roma del Niccolò de’ Lapi, lo di-pinsi e ne feci uno de’ profanatori di San Giovanni de’Fiorentini.

La sera di quella prima giornata cenai alla medesimaosteria e a notte chiusa m’avviai verso il castello, seguen-do l’olmata che vi conduce, col mazzo delle chiavi dauna mano e dall’altra una lanterna da scuderia che avevocomprata come mobile indispensabile.

Ho già detto che a far l’analisi della mia natura unmilligramma del Don Quichotte ci si troverebbe. Eglivedeva un’avventura in ogni fatto, in ogni incontro il piùusuale; ed anch’io, senza prender le cose sul serio quan-to lui, pure mi sentivo lavorar la fantasia all’accostarmi,fra quelle tenebre e quel silenzio, alla mia solitaria edrammatica dimora.

Giunto al portone, scelsi quella tal chiave maestra chegià avevo in pratica, aprii, e poi entrato richiusi: e salito

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per lo scalone, che ripercoteva il rumore dei miei passi,traversai quelle sale che di giorno non m’erano sembratetanto vaste e misteriose, e giunsi in camera dove m’erogià fatto e preparato il letto.

Riflettendo ch’io non avevo nemici in paese, che l’ar-nese nel quale ero comparso, non indicava che io por-tassi con me filze di perle, ovvero somme da indurre intentazione nemmeno un villano; considerando che le ap-parizioni, le streghe ed i folletti, purtroppo non entrava-no nel mio credo (dico purtroppo, perchè il mondo sa-rebbe ben altrimenti divertente se ci fossero), mi parevadi poter calcolare su una nottata tranquilla, senza cheoccorresse prendere nessuna precauzione. Ma siccome aquesto mondo non sempre i fattori vedono con piaceredisprezzati gli spiriti abitanti nella casa del padrone; sic-come a questo mondo ci sono, se non altro, i dilettantidi burle, ora più ora meno discrete; e siccome il vecchioproverbio dice chi si guarda si salva, così presi le dispo-sizioni che sempre ho usate ne’ luoghi sospetti, e checonsiglio come ottime quanto facili.

V’erano certe grandi sedie di cuoio con enormi spal-liere; ne posi una alla porta, alla quale s’appoggiava co’due piedi davanti un poco alzati dal pavimento, perchèrimanesse in bilico, e ad ogni minimo urto dovesse rove-sciarsi indietro. Era uno svegliarino, le prometto, daequivalere ad una cannonata.

Sul mio letto, al posto della sposa, collocai il mioschioppo carico, e soffiato sul moccolo di sego della lan-terna, non passarono cinque minuti che già ero addor-mentato.

Ma il mio sonno fu breve. La quiete profonda dellanotte fa sembrar maggiori tutti i rumori, come ognunopuò aver provato. Il castello, quando mi risentii, parevaabitato a tutti i piani ed in tutte le camere; era un andaree venire generale: sul palco scenico pareva in corso larappresentazione. Mi sentivo poi sventolare non so che

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vicino al viso, che passava, ripassava, girava per aria: unapagnottella che avevo portata con me per la mia colezio-ne del domani, la sentii muoversi, cader per terra dal ta-volino ove l’avevo deposta, e poi seguitare il suo viaggiosul pavimento. M’alzai a sedere sul letto e tesi l’orec-chio, dicendo tra me: – Che diavolo succede! – e pen-sando che un cervello disposto a vedere ombre ed appa-rizioni, avrebbe penato poco in quel tramenìo a vedersialle coste tutte le anime degli Sforza, da Giacomo Atten-dolo a Lodovico il Moro.

Intanto la pagnottella seguitava la sua corsa di piace-re, e confesso che non trovavo così su due piedi la spie-gazione fisica del fenomeno. Ma, secondo la frase mo-derna, la luce si fece tosto.

Doveva essere un sorcio, buon marito e buon padre,che cercava portare il pane alla famiglia; e che solo pernecessità si dovette risolvere a roderlo sul luogo. Giuntaalla porta del palco scenico, eccoti la pagnotta ferma,quantunque dai piccoli urti che percuote nel legno, siconosca ch’esso fa il possibile per andar oltre. Passa unmezzo minuto in queste prove, e poi sento un cric cricprodotto dalla crosta che si stritola, evidentemente sottol’azione d’una dentatura in ottimo stato. Ecco spiegatol’arcano.

Ricaccio il capo sul guanciale dicendo: Domani ci ri-parleremo, – e riprendo l’interrotto sonno.

Per finire questo istruttivo episodio, ad esempio dichi si trovasse a studiare sul vero in condizioni analoghe,ecco quali furono le mie nuove disposizioni.

L’indomani trovai una lastra di sasso, un mezzo scali-no, che portai in camera non senza stento. Con tre bac-chette a cifra 4, la caricai a trappola, e la notte seguenteebbi la consolazione di sentirla scoccare, ed udire l’ulti-mo addio d’una grossa sorca che v’era sotto; e sulla cuilapide sepolcrale ebbi la barbarie di far un ballo, saltan-

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do dal letto in camicia, perchè si riducesse più comple-tamente allo stato di frittella.

Dai pipistrelli che mi sventolavano il viso non trovaimodo a liberarmi. Uscivano di dietro quel parato dicuoio, da irreperibili fessure. Ma sono gli animali più in-nocenti del mondo, e non mi diedero altrimenti noia.

Qui incominciai una delle più faticose studiate cheabbia fatta in vita mia.

La bellezza di Genzano sta alla riva del lago; vi sigiungeva allora (oggi non so) per un ripido ed incomodosentiero. Ogni mattina me n’andavo giù cogli attrezzi incollo; e l’ingiù era nulla, facilis descensus averni; all’insùti voglio, al revocare gradus, sull’ore infocate!... Mac’era la volontà, e per sostenerla un po’ d’amor proprioed un po’ di senso del dovere che cominciava a formarsiin me.

Sulla riva del lago, non lontano dalla capanna d’unuomo che aveva per industria d’affondare il lino (farlomacerare), è il famoso platano del lago di Nemi. Essonon presenta più la scorza chiazzata, ed in continua mu-ta, de’ platani giovani; ma ha fatto un tronco grosso, no-doso e rugoso come fosse un vecchio castagno. Me lostudiai a tutto agio, e per l’intera stagione: finito unostudio ne principiavo un altro, e venni così a metterneinsieme un buon numero; combinando col lavoro delpennello la lettura e rilettura de’ miei pochi libri; e piùdi tutto il lavorío della mente, in quelle lunghe e solitarieore beate che passavo circondato dagli inesauribili tesorid’una bella natura.

L’uomo del lino era un antico birro, e mi veniva rac-contando le vicende della sua vita. Doveva star quasisempre nell’acqua, ed era una compassione a vedere lesue gambe tempestate di sanguisughe, che si venivastrappando a misura che le sentiva pungere.

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CAPO VENTESIMOTERZO

SOMMARIO. – La vita solitaria di Genzano comincia ad an-noiarmi – Si aggiunge l’afflizione di un triste caso – Dogma delpurgatorio – Faccio una gita con un amico nelle Paludi Ponti-ne – Processione e apparizione dei briganti a Cisterna – Ritor-niamo a Genzano, e festa da ballo nel castello – Resto con ottopaoli, e per giunta devo fare gli onori di Genzano a una signora– Mi faccio prestare dieci o dodici scudi dal ministro di Pie-monte, Barbaroux – Nell’ottobre torno, secondo il solito, inAlbano, e m’invischio in un lungo e disperato amore – Fieralotta fra la passione e il dovere – Pio VII e il cardinal Consalvi– Lo scultore Pacetti vittima dell’arbitrio eretto a sistema digoverno – Osservazioni ed esempio – Come s’intendeva l’amo-re e la fedeltà coniugale nella società romana dei miei tempi –Il carnevale di Roma – Il famoso scalino del palazzo Ruspoli –L’amore alla romana preferibile all’amore di moda in altri pae-si – Rossini, Paganini, Liparini ed io combiniamo insieme unamascherata.

Passato certo tempo, la solitudine mi cominciava apesare; come accade a tutti coloro che hanno mobilitàd’immaginazione. Quel ritorno in castello la sera collalanterna ed il mazzo delle chiavi, quegli echi sonori delloscalone e delle vôlte, quelle vecchie figure sforzesche,magistrati in toga, capitani, cardinali coi baffi (alloranon c’era anima che li portasse), quelle faccie severe cheparevano guardarmi d’alto in basso e di mal’occhio,avean finito per seccarmi e mettermi malinconia.

Ebbi altresì in quel tempo l’animo percosso da un tri-ste caso. Una donna che m’aveva dimostrata vera affe-zione, e che partendo da Roma avevo lasciata colla stolaa’ piedi, dopo poco tempo era morta. Si dubitò di vele-no, per opera di tale che sembra non avesse altro motivose non un amor respinto. Non entro in particolari suquesti fatti, non dovendo, secondo il mio disegno, parlardi vicende di tal genere.

La notizia del triste caso mi giunse in quell’isolamen-

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to, le ultime sue parole alle quali non avevo dato il pesoche ebbero fatalmente: «Addio, io esco dal mondo, ed’una cosa sola mi dolgo....» Queste parole mi risalivanodal cuore continuamente all’orecchio; e quantunque ionon avessi, per quanto mi sembra, rimproveri da farmi,mi suonavano come un lamento....

Oh come son terribili i lamenti dei morti! Impassibilia fronte di qualunque pentimento, sordi ad ogni spiega-zione, ad ogni discolpa, che non si stancano mai, nè simutano, nè danno pace! E quanto facilmente chi hacuore si stima colpevole con loro!

Io che non lo ero, quasi mi giudicavo tale, e passaigiorni e nottate di vera ed amara tristezza. Poi, come ac-cade a’ giovani, ed anzi come per legge conservatrice delmondo accade a tutti, le impressioni vennero perdendovivacità, e a poco a poco ritornai nel mio stato di prima.

Quest’inevitabile ritorno alla serenità normale m’èparso sempre un brutto lato della nostra natura, maperò son ben lungi dal credere che la cosa possa andarealtrimenti!

Poveri morti, perchè piangervi oggi; e fra mesi, fra unanno ridere e burlare? Voi non vi siete mutati; l’amoreche ci portaste, il bene che ci faceste in vita, è un fattosempre vero e reale, e perchè dobbiamo mutarci noi?

Per questo il culto de’ trapassati l’ho tenuto semprecome prova d’animo gentile. Comprendo i Cinesi, e lilodo. Lodo i Gesuiti (non m’accade ogni giorno) chenon vollero mutare in peccato i più giusti ed i più soavisentimenti del cuore; e per conseguenza biasimo i Do-menicani opponenti, i quali col loro fanatismo riusciro-no semplicemente a far mettere fuor dell’uscio e loro egli altri tutti. Del resto da gente che per 500 anni aveafatto bruciare uomini per un articolo di credo, non sipoteva aspettar tenerezza per chi più non è.

Per questo m’è cara la comunione d’aspirazioni ed’interessi fra morti e vivi, che viene stabilita dall’idea

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del purgatorio e de’ suffragi: ed ecco uno di que’ casi ne’quali se la ragione dubita ed esamina, il cuore accoglie!

Pur troppo l’aspetto affettuoso e santo di questo dog-ma ha nella pratica un brutto rovescio. Pur troppo v’èchi sta alla posta per sfruttare la facile credenza, compa-gna indivisa dai grandi dolori. È in vigore pur troppoun’industria che specula sulla pietà filiale, sull’amor co-niugale, sugli affetti, sui moti più intimi e sacri del cuoreumano. Io ne feci l’amara prova, come la vidi ripetuta inpiù d’un caso. Con tutto ciò non accuso tutto il clero;m’è anzi grato di riconoscere che in molti preti colti,onesti ed avveduti, sorge oramai e s’estende un princi-pio affatto contrario. Molti riconoscono quali sarebberole vere basi della loro autorità morale, ma ancora sontroppi i seguaci della vecchia pratica; e chi di loro si la-gna che la religione è scordata e depressa, farebbe operapiù utile e più accorta ad esaminare i propri atti ed i mo-di usati da altri suoi pari, cercando di porre in chiaro sedella decadenza religiosa s’abbia proprio a dar tutta lacolpa alla filosofia ed alle passioni impazienti di freno.La religione ed il clero d’oggidì saldano gli arretrati dimolti secoli. Sarebbe tempo per Roma d’accorgersene;sarebbe tempo di riconoscere che gli effetti presenti de-rivano da cause vecchie; ed i suoi amici la servirebberobene, consigliandola a spegnere le dette cause invece divolerle ringiovanire. Del resto è fiato sprecato, ed io mene ritorno a Genzano.

Un mio compagno venne ad interrompere la mia soli-tudine, e divider meco la casa e la vita artistica. Con essofeci una gita nelle Paludi Pontine; quella che dianzi ac-cennai, parlando del convalescente commensale; dicia-mone due parole.

Da Velletri, situata sulle inferiori diramazioni delMonte Artemisio, la via Appia scende in pianura, e do-po una posta si trova Cisterna: antico feudo de’ Gaeta-ni,3 poi de’ Braschi; regione di bufali, di febbri, di padu-

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le e di malandrini. Per la Madonna d’agosto, proprio nelcuore dell’aria cattiva, era la festa del paese; che sta tuttoin poche case attorno ad una gran piazza sterrata, dellaquale il vecchio castello feudale occupa un angolo.

Si dormì a Velletri, ove il compagno volle buttarsidalla finestra, ed a mezza mattina eravamo a Cisterna,quando appunto cominciava messa cantata. Finita lamessa, uscì la processione che impiegò un’ora a far il gi-ro della piazza; ed ancora mi par di veder il prete cheportava la reliquia, venire alla coda fra’ ceri, calvo affat-to, con quel tremendo sole delle paludi che gli cadeva apiombo sulla pelle lucida del cranio, dal quale era rifles-so come farebbe una palla d’avorio ingiallito. Gli occhiserrati, le guancie aggrinzite di quel semimartire mostra-vano in qual mare di delizie nuotasse.

Ma uno spettacolo più inaspettato mi fece prestoscordare il prete. Sento tra gente e gente correre un bi-sbiglio, un sussurro che si comunicava da vicino a vici-no: ed intorno a me si comincia a dire assai chiaramente:– I briganti! ecco i briganti! –

Mi volgo, m’alzo in punta di piedi (precauzione su-perflua col mio grado di longitudine), cerco con losguardo sulle teste, e vedo di fatti non lontani tra gente egente i cappelli a pizzo inghirlandati di nastri a svolazzo,distintivo della rispettabile corporazione.

Erano proprio loro.Per quanto avvezzo agli usi del paese, non mi sarei

mai figurato che il facile vivere italiano giungesse a tan-to.

Fatto sta che i signori Assassini giravano per la fiera,alcuni sotto braccio a’ borghesi, e portavano il lorouniforme carico di galloni, di medaglie o meglio monete,di catene d’oro d’ogni razza. Non vedevo nè cherubine,nè tromboni, nè altre armi apparenti: erano puliti, collatela delle cioce di bucato, ed una faccia serena e clemen-te, come a dire: – Divertitevi, buona gente, non siamo

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già lupi nè orsi, ci vogliamo divertire anche noi. – E i ca-rabinieri pel buon ordine (pareva una fatalità) si trova-vano sempre nell’angolo della piazza diagonalmente op-posto a quello occupato dalla banda. Di fatti l’ordineregnava a Cisterna più che in molti luoghi che so io: nonc’era dunque da affannarsi.

Ella deve sapere, signor lettore, che l’aria cattiva se-duce con dolcezza le sue vittime per impadronirsene educciderle, come appunto facevano le sirene: e chi sa anziche quelle bellezze marine e la loro leggenda non venga-no in origine da qualche regione, che mostrandosi bellae piena di lusinghe, accogliesse gli incauti con miasmipestilenziali; e che quindi la vera difesa contro le sirenefosse, non già la cera d’Ulisse, ma il solfato di chinino!Comunque sia, l’aria delle paludi induce nell’individuoun certo languore non spiacevole, unito ad un’invincibi-le tendenza ad addormentarsi. Ma se dormite un’ora,siete servito.

Vista la festa, visti i briganti e la fiera, viste le bellezzeconcorse da Velletri, Cori, Sezze, Piperno, Sermoneta eda tutti i vicini castelli, mi sentivo presso al momento incui, febbre o non febbre, sarei caduto addormentato inqualche angolo. Mi diedi una scossa, e andato dove erala mia cavalla, la sellai; e montatovi su, m’avviai verso ca-sa, che già cadeva assai bene il sole all’occidente. Riusciinon so come a tenermi desto sin passato Velletri; poitrovandomi all’elevazione dell’aria buona e non poten-done proprio più, mi assettai a cavallo colla gamba drit-ta sull’arcione davanti a uso donna, e m’addormentaiprofondamente, non ricordando che di notte la mia ca-valcatura ombrava spesso e volentieri. Essa però me nefece ricordar presto. Non so che cosa succedesse, so be-ne che mi svegliai nel polverone della strada infarinatocome un mugnaio.

Per fortuna non mi feci nulla, come sempre mi è acca-duto in una lunga serie di capitomboli da me eseguiti in

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varie occasioni; e così verso mezza notte rividi in ottimostato il mio castello.

Nel descriverlo, ho scordato di notare nell’inventariouna serie di cornucopie annesse a placche di specchioper le illuminazioni a cera, che erano intorno alle muradel salone dei ritratti. La loro vista mi suggerì un’idealuminosa (senza calembourg) fondata anche su motivi diconvenienza. Durante il mio soggiorno a Genzano,m’erano state usate molte cortesie da parecchi abitanti.Fino ad un certo punto, dirò modestamente che eranoanche meritate. Non facevo nè dispiaceri nè sprezzi anessuno, ed all’occorrenza, se potevo, mi prestavo pertutti. Di più, il mio compagno suonava il flauto, ed io (laconfessione è dura!) suonavo la chitarra: quattro accor-di s’intende, tanto da accompagnarmi L’alba è ridentein cielo, ovvero la Tarantella degli Dei, ovvero per farballare il Saltarello. Si cominciò a dar saggio della nostraabilità una sera, dopo cena all’osteria, e presto s’ebbe in-torno una fiorita platea di giovanotti e ragazze chiamatidalla dolcezza, o meglio dal gratis del divertimento. Pre-sto si manifestarono timidi desiderii e pudibonde richie-ste onde farci eseguire serenate sotto qualche adoratoMignano:4 noi sempre ci prestammo gentilmente, e si fe-ce furore.

Sebbene fossimo in bilancio di finezze e cortesie; col-la massima del melius abundare, e coll’incentivo dellecornucopie bell’e preparate, si decise prima di lasciarGenzano di dare una festa di ballo. Io son certissimoche il lettore ha nella mia sincerità una fiducia senza li-miti; non voglio tuttavia esporlo a una troppo dura pro-va dicendogli che si preparò un’illuminazione a cera.No: si comprarono varii mazzi di candele di sego; eduna dopo l’altra vennero guarnite tutte le placche.Dall’osteria si portarono in palazzo parecchi boccioni divino, le nostre amiche (honny soit qui mal y pense) am-manirono una canestra di ciambelle, furono diramati

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gl’inviti, ed una sera verso notte cominciò ad arrivare ilbel mondo; che a Genzano non aspettava per ballare iltocco della prim’ora dell’indomani, come s’usa in parec-chie città abitate da oziosi, che dormono tutto il giorno.

I padroni di casa e l’orchestra formavano nel nostrocaso una sola persona morale, e non potevano essere indue luoghi come sant’Antonio; onde, stando a suonare,non ricevevano. L’ingresso fu libero, e la folla a uso de’routs durante la season a Londra.

Per prudenza s’era battezzato il vino. Calcolandol’anteriore battesimo dell’oste, era così di un’innocenzadoppiamente battesimale, incapace di riscaldare troppoi cervelli. Difatti la festa fu allegra, cordiale; fiorironotutte le fasi del Saltarello, fino a quella che, all’apogeodell’entusiasmo, porta ballerino e ballerina a gettar lescarpe per aria e seguitar il ballo a piedi nudi; tutto andòin regola, non vi fu ombra di disordine, e gli invitati seandarono contenti e soddisfatti.

Intanto s’avvicinava l’epoca che dovea ricondurmi aRoma, e fatti e pagati i conti, trovai che le mie magnifi-cenze m’avevano ridotto a non aver più altro che ottopaoli d’attivo disponibile, vale a dire meno d’uno scudoromano e per necessità dovevo ancora trattenermi aGenzano una settimana, onde non lasciare a metà un ul-timo studio.

La posizione s’ottenebrava.E appunto in quelle strettezze ecco che, contempora-

neamente, una mattina sento fermarsi al portone un le-gno co’ sonagli; scendo, e trovo una signora romana conun suo figlio di venticinque anni, che neppur conoscevointimamente, e che veniva a Genzano per un affare e michiedeva l’ospitalità: ciò rappresentava almeno una cola-zione. E pensare che erano otto paoli! non importa;l’ospite è un dono di Dio, dice il codice dei patriarchi,dei beduini e de’ selvaggi pelle rossa. Dunque avanti!

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Non si bada a spendere! colazione in castello, braciole ecaffè e latte; ed a pagare si penserà poi.

Per fortuna la visita durò poco: Iddio, per fortuna, siriprese il suo dono prima dell’ora di pranzo; punto capi-tale. Ma al modesto trattamento non avevano bastato gliotto paoli, onde nel mio bilancio per poter dormiretranquillo sullo zero avere, mancavano cinque o sei pao-li.

Io ho sempre detestato i debiti; ma anche i Romanidetestavano il potere dispotico, eppure ebbero più dit-tatori di quello che abbia io avuto mai creditori dacchèsono al mondo.

Ma questa volta diveniva inevitabile crearne uno.Diedi mentalmente un’occhiata in giro a tutti i miei ami-ci coetanei senza trovarne uno sul quale appoggiarmi.Era per fortuna ministro a Roma il conte Barbaroux, fra’più dotti, più onesti e migliori nostri magistrati, al qualeero raccomandato da mio padre. Gli scrissi, ed a posta,o per esser più esatto, a vetturino corrente, ebbi la som-ma che gli avevo domandata: dieci o dodici scudi, se benmi ricordo, a prova che le mie dissipazioni non eranosfrenate.

Così, carico di studi, quanto di benedizioni dai credi-tori, dai giovani, dalle ragazze e da tutto il paese, lasciaiGenzano ed in principio d’ottobre ritornai a Roma.

Come l’anno innanzi, trovandomi degno d’un mese divacanza e di riposo, diedi sesto agli studi fatti, e poi men’andai in Albano, ove si radunavano parecchi e parec-chie del mio giro abituale.

Questo mio giro di conoscenze era composto di otti-me persone, secondo i luoghi ed i tempi; ma ad un gio-vane faceva purtroppo più mal che bene, come in gene-re tutta la società romana d’allora. A ventitrè oventiquattr’anni giova il trovarsi in un elemento che viregga, v’elevi, vi dia energia: se poi c’entra di mezzol’amore cresce a mille doppi l’importanza d’incontrarsi

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con un’anima di nobil natura, capace e desiderosa delbello morale.

Concederò ai teologi che l’amore illecito è sempre uninconveniente sociale, ma rimarrà pure innegabile, cheun amore illecito può esser molte volte degno e genero-so, e spingere ad opere utili ed a nobili sacrifizi, mentreil tristo errore di lasciarsi cogliere dalla sola bellezza,unita ad un’anima, se non perversa, fiacca e triviale, stra-scina talvolta ad incalcolabili conseguenze, tormento edanno dell’intera vita.

Io mi trovavo appunto in quell’età, nella quale chi ècapace d’ardenti passioni traversa prima o poi questapericolosa burrasca, che sta al morale dell’uomo, comesta il vaiuolo al suo fisico.

Ambedue i mali si vengono preparando alla lontana,e poi scoppiano improvvisi, e lasciano alle volte il pa-ziente malamente segnato. Appunto in quell’ottobre miandavo lentamente disponendo ad una crisi che fu poiviolentissima, tantochè ancora mi meraviglio d’esserneuscito vivo.

Incontrai un’anima che con qualche buona qualitànon aveva ombra d’elevatezza: venuta su secondo laconsuetudine delle famiglie romane d’allora, senza co-noscere neppure l’esistenza della educazione del caratte-re e del cuore, senza che nessuno si fosse mai preso pen-siero d’insegnargliela: quanto all’intelligenza zeroassoluto, al punto di saper appena scrivere, senza di-scorrere d’ortografia. Ma la forma esterna pareva singo-lare, anche nel paese della più frequente e perfetta bel-lezza muliebre; e per un organismo artistico,impressionabile, qual era il mio, la bellezza, come il sole,abbaglia e non si vede più altro.

Da quell’ottobre, non per mesi, ma per anni ed anni,mi consumai in una lotta ostinata fra il dovere ed il cuo-re. Il mio dovere era lavorare, affaticarmi onde diventaruomo e valentuomo, se potevo, utile alla mia patria ed

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agli altri. Il cuore concentrava invece tutte le mie ansie,tutte le mie aspirazioni su un punto solo. Eppure volli evolli vittoriosamente. Fu però una triste, e per qualchetempo una sterile vittoria. Potevo ben comandare a mestesso di stare nello studio o su’ libri quelle tante ore cheimpiegavo prima al lavoro; ma non potevo comandarealla mia povera intelligenza di capire e d’imparare. Pote-vo montar a cavallo, uscir di Roma e stabilirmi in qual-che paesetto per studiare dal vero l’estate, ma non pote-vo ridestarmi in cuore quella scintilla che s’infiammadinnanzi alle bellezze del creato. I cieli, i monti, le fore-ste, le acque mi sembravano morte solitudini; la loro vi-ta, l’anima di tutto, era per me allora una sola, ed era al-trove.

A tanti anni di distanza, ancora provo un brivido pen-sando alle torture che sostenni in quell’epoca funesta.

Esaminando ora la mia condotta in questa vicenda,trovo che ebbi pure un merito del quale l’esperienzam’ha poi mostrato il valore: il merito d’aver conosciutoche il dovere debba inesorabilmente passar innanziall’amore: il quale giova sempre combattere, benchè po-co, e male, e raramente si vinca in questa battaglia. Evuol sapere come finì?

Dopo sett’anni che io non avevo rivolto altrove nep-pur un pensiero, fui messo fuor dell’uscio per un patri-zio spiantato, che parecchi anni dopo ebbe fama d’usu-raio, poi di ladro!... E così vanno le cose del mondo. Perfortuna, mi ricordai del distico «Le bruit est pour le fai,la plainte est pour le sot; l’honnéte homme trompé,s’éloigne et ne dit mot.»

Così feci io.Secondo l’accordo, non entro in altri particolari su

questo romanzo, del quale, non darò che cenni indi-spensabili per l’intelligenza de’ fatti successivi.

In quell’inverno lavorai e feci un quadro rappresen-tante i Trecento alle Termopili; quadro che relativamen-

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te, e per me, non era pessimo. Vi si vedeva un pensieroed un’intonazione accettabile. Nel mio stato d’allora, ditanto sconcerto morale, era miracolo il poter far tanto.

Per le nuove circostanze si venne presto modificandoil mio sistema di vita. Quelle abitudini ordinate de’ pri-mi due anni si vennero rilassando. La sera cominciai adandare in società. Bisognava pur essere dove lei compa-riva. Divenni familiare in parecchie case, conobbi moltagente, e principiai a praticare la Roma moderna e farme-ne un’idea precisa: chè prima d’allora nè la mia antece-dente posizione di mezzo diplomatico, frequentandoprincipi o ministri, nè la successiva di studente artista,vivendo o solo o con pochi spiantati, avevan potuto per-mettermi di farmi l’idea complessa di Roma – governan-ti e governati.

Siccome non credo necessario narrare la lunga seriedi sciocchezze, che, fedele ai doveri d’un innamorato,occuparono in quell’inverno (e non fu il solo pur trop-po) la mia esistenza; verrò raggranellando qualche fattoche possa dar idea di un mondo in tutto diverso dal no-stro, e col quale, però il nostro e le cose avvenute, inparte si spiegano.

Ella sa, signor lettore, ch’io non professo nè odi nèamori per progetto. Cerco la verità, e la dico quandocredo d’averla trovata, senza badare a chi tocchi il doler-si: perciò quanto a sincerità può star coll’animo riposa-to. Correva l’ultimo anno di Pio VII e di Consalvi. Que-sti era uomo di distinto ingegno ed avea cooperatomoltissimo nel congresso di Vienna, come è noto, allarestituzione delle Legazioni al Papa. Allora parve unagran fortuna ottenuta per mezzo d’un gran saper fare.Ora, a vedere come sono andate le cose, a considerare leimplacabili ribellioni da un lato, le implacabili repressio-ni dall’altro: di qua le sètte ed i pugnali, di là le commis-sioni e i patiboli; i sicari carbonari da un lato, i centurio-ni cardinaleschi dall’altro, conseguenza di quel gran

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saper fare di Consalvi, vogliamo dire che, per chi ha salein zucca debba dirsi ancora una gran fortuna?

La gran fortuna si trova col far giustizia alle cose giu-ste: allora si va avanti senza guai; e si va avanti un pezzo,centunesima volta che ripeto la stessa idea.

Ma l’idea della giustizia è troppo semplice perchègl’ignoranti l’adottino. Ci vuol un gran sapere ed unagran testa a capire le verità elementari; e Consalvi se ave-va, come dissi, distinto ingegno, non era tra quegli altiintelletti che abbracciano con un solo sguardo il passatoed il presente, e sanno coordinare a loro il futuro.

Egli non seppe nè mantenere il buono della semi-fe-derazione, semi-anarchico-popolare, degli Stati romaniantichi, nè prendere il buono dell’accentramento rivolu-zionario moderno.

E difatti il Governo romano dopo il 15 fu peggiored’ambedue e giunse di rovina in rovina al punto che orada tutti si vede.

Pio Settimo era una natura buona, semplice, ma pocosveglia; quindi si lasciava guidare. Il senso del dovere, lafermezza contro la persecuzione, di cui è rimasto nobileesempio, gli servirono allorchè, quanto a papa, era chia-ra la via che doveva tenere: ma, nell’esercizio pacificodella sovranità, distinguere il bene ed il male, favorirl’uno e reprimere l’altro, date le influenze d’un sistemache proibisce nel pubblico ogni manifestazione del pen-siero, è possibile soltanto a que’ principi che hanno te-sta, carattere, istruzione, cuor caldo, gioventù, salute; edil povero vecchio non avendo queste qualità, vedeva coisoli occhi di Consalvi, e lasciava fare.

Tra suoi famigliari era amato per la sua semplicità, maaveva nome d’uomo d’incredibile apatía.

Difatti morì vecchissimo coi suoi capelli neri, quasipunto canuti; quantunque ne avesse passate di quelleche una sola basta a farli imbiancare.

A Castel Gandolfo, ove andai con mio padre, ebbi

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l’onore di giocare con lui in una partita di bigliardo; emi ricordo benissimo la sua zazzera staccava in scurosotto il zucchetto e sull’abito bianco.

Già indicai che Consalvi per tirar forestieri (s’intende,i loro quattrini) nello Stato, li favoriva, e permetteva ra-ramente ai Romani d’aver ragione contro le loro insolen-ze. Favoriva poi in genere le alte classi, i ricchi, i potenti.Per circostanze mie personali fui a portata di conoscerene’ suoi particolari un fatto veramente incredibile, cheviene a proposito e dirò brevemente.

È bene aver idee esatte di quel tempo passato, checerte buone anime vorrebbero coniugare al tempo pre-sente.

In via Gregoriana sul Pincio, poco lungi dalla Trinitàdei Monti, vi sono (o v’erano) parecchie piccole casecon studi per artisti, proprietà della famiglia Pacetti, eche s’estendono sino alla via Sistina. È una famiglia d’ar-tisti, ed il nonno de’ viventi era un tal cavalier Pacetti,scultore di sufficiente grido, e che molto bene conosce-va l’arte sua.

Al tempo della Repubblica romana, quella impiantatae non quell’altra spiantata dai Francesi, i signori e possi-denti romani vennero colpiti d’una contribuzione che,data la difficoltà de’ tempi, anco i più ricchi penavano apagare. Ognuno s’ingegnava alla meglio per raggranellardenari; si mettevano in vendita mobilie, gioie, oggettid’arte ed altre cose preziose; e dalla famiglia Barberinifurono esposte in una sala del palazzo alle Quattro Fon-tane parecchie anticaglie, fra le quali il torso d’una figu-ra maschile, opera greca in marmo pentelico, de’ tempimigliori.

Il cavalier Pacetti, andato alla subasta di quelle robe,mediante sette o ottocento scudi, si portò a casa quelframmento, al quale mancavano braccia e gambe quasiper intero, e neppur son certo che avesse la testa.

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Collocatolo nel suo studio in via Sistina, si risolse far-ne il totale ristauro.

Modellò in creta le parti mancanti, e ne cavò quella fi-gura dormiente, che è conosciuta, in arte, sotto nomedel Fauno de’ Barberini.

Oltre la fatica durata, ebbe poi la difficoltà, quantoall’esecuzione, di trovar un marmo compagno di granaperfettamente uguale; e dovette per questo distruggereun’altra statua greca d’un merito secondario onde ado-prarne il marmo.

Così con lunghi lavori e molte spese (la statua riescìmaggior del vero) condusse a fine la sua opera, lodatadal Canova e dai buoni giudici del tempo, come ristau-ro, ove l’antico ed il nuovo erano in perfetta armonia, edi merito, se non pari, almeno non discordante.

Intanto era passata l’epoca napoleonica, cessata l’oc-cupazione francese, tornato il papa, tornata la carità, lagiustizia, la felicità, l’abbondanza, e tutte le tenerezzedelle restaurazioni e del governo pretesco.

Da ogni parte piovevano forestieri a Roma; e non ri-cordo a quale di essi (ad un principe tedesco se non er-ro) il cavalier Pacetti vendè il suo Fauno molte migliaiadi scudi.

Quando siamo all’incassare e spedire la statua, eccotiun fermo. Il Fauno non può uscire dallo Stato.

E perchè ?Perchè gli agenti della casa Barberini, al capo della

quale sarà stato ignoto o trasformato il fatto, avevanoimpetrato un motuproprio, col quale si ordinava al cava-lier Pacetti di restituire la statua come cosa soggetta a fi-decommisso, offrendogli i sette o ottocento scudi dellaprima spesa, più quel prezzo pel suo ristauro che sareb-be fissato per mezzo d’arbitri esperti.

Quel pover uomo ebbe a cader rovescio a vedersi mi-nacciato d’un simile assassinamento; ma era una naturaenergica; non si perse d’animo, ricorse ed espose:

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Aver egli, chiamato dalla pubblicità della vendita,concorso all’asta cogli altri: essere rimasto a lui il fram-mento; averlo pagato a pronti contanti in tempi difficili,mentre il denaro era rarissimo; nessuno averlo avvertitoallora che v’entrassero o no fidecommissi, essere egliperciò giusto e legittimo possessore del torso acquistato;

Avervi faticato su, esso ed i suoi giovani, lungo tem-po, e impiegatovi il marmo d’una statua greca, onde ot-tener un’opera perfetta quale si vedeva;

Delle proprie fatiche lui solo esser giudice, ed altret-tanto del prezzo che meritavano; e non riconoscere inveruno il dritto di fissarlo a capriccio;

Esser quindi sua la statua, e da chi la volesse doversitrattar con lui delle condizioni del contratto, e non ve-nirgli imposte da altri, ec. ec. ec.

E furon baie, come dicevano i quattrocentisti.Sic volo, sic jubeo, stat pro ratione voluntas. Tale fu la

risposta dell’autorità: e Pacetti duro. Passarono parecchigiorni, e visto che non si smoveva, eccoti una mattina uncursore con un’inibitoria che l’avvertiva essere deposita-ti al banco tale i 700 o 800 scudi della prima compra enon so quanto di più pel ristauro, ed ogni giorno che in-dugiasse ad andarli a riscuotere, multa d’una doppiad’oro!

E Pacetti duro.Passato cert’altro tempo, una mattina arrivano per via

Sistina quaranta facchini e carabinieri cum fustibus etlanternis; si fermano alla porta dello studio Pacetti, che,trovato chiuso, sconficcano; ed entrati, sollevano la sta-tua, la mettono su un carro e se ne vanno con Dio.

Il povero scultore assassinato a questo modo, si misea letto con una biliosa; fu perlasciarci la vita; e rimessopoi malamente, strascicò poco più, e poi se n’andò defi-nitivamente all’altro mondo.

S’impiantò una lite in Rota fra i figli Pacetti e la casaBarberini; ora fu vinta, or perduta, ora vinta; e finalmen-

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te con parecchie sentenze, e col videntibus omnibus,vinta definitivamente. Ma.... E furon baie! Il Fauno re-stò a chi se l’era preso, e se non sbaglio fu venduto al Redi Baviera. Credo sia ora a Monaco.

Se veramente non isbaglio, e che la cosa stia così, do-ve se ne va il fidecommisso?

La famiglia Pacetti finì coll’accettare una transazionedella quale non ricordo i termini. Tale era, sotto un ga-lantuomo come Pio VII, ed un uomo illuminato come ilcardinale Consalvi, quel governo che tutto il mondo cre-de necessario conservare, a sostegno, onore e gloria del-la Cristianità, della religione, e del dogma evangelico!

E poi si lagnano che la gente non ci crede.Chi è avvezzo in altri paesi, dura fatica a capire come

l’ottenere una – che dico una? – dieci sentenze favorevo-li, passando per tutti i gradi della giurisdizione esistenti,possa non darvi la causa vinta. Eppure, l’ho visto in mol-te circostanze: dopo tutte le sentenze, non s’è fatto nullase si è deboli contro potenti. La sentenza esecutoria, inquesti casi, trattenuta da forza invisibile, è sempre pro-messa, e mai non compare.

Questa decadenza della magistratura vien deploratada un pezzo dagli uomini onesti più affezionati al papa.Sin dal 20, mi ricordo avere udito dalla bocca del cardi-nale De Gregorio, ottimo uomo ma quel che ora si di-rebbe codino feroce, e grande amico di mio padre, de-plorare amaramente la poca rispettabilità (parola venutaal mondo un trent’anni dopo) de’ tribunali romani.

«Una volta» diceva egli «le cause famose di tutto ilmondo venivano in Vota (gli mancava l’R), tutta l’Euvo-pa s’inchinava ai suoi giudizi; ma evano uomini allova.Ova s’incontva un Monsignovino vagazzo, a piedi, conun misevo domenichino dietvo... chi è costui? È un au-ditov di Vota!»

Questi Uditori ragazzi, o se non ragazzi, poco atti al

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loro ufficio, avevano un segretario esperto che studiavale cause e stendeva loro il voto.

Si osservava poi una strana usanza, prova manifestadello stato dell’opinion pubblica, circa la dignità e leconvenienze della magistratura.

In ogni paese del mondo l’andar a raccomandare unacausa ad un magistrato, può condurre ad esser messofuori dell’uscio con malo modo; o almeno a sentirsi farqualche risposta poco piacevole. A Roma, invece, la vi-gilia del giorno in cui si chiamava una causa in Rota, o inaltro tribunale, i curiali andavano in giro a raccoman-darla ai giudici, talvolta accompagnati dai clienti, e que-sto giro si chiamava andare all’Informazione.

Per questa, si notava nella parcella al cliente una car-rozza a tutta giornata; ed erano sempre certi frulloni ros-si usati, avanzi di eredità prelatizie, che il giovedì si in-contravano ad ogni canto per le strade di Roma.

Ma l’Informazione durava poche ore; e siccome i le-gni eran pagati, per non sprecarli, si vedevano poi al tar-di ritornane in giro; soltanto invece di curiali e di abati,erano pieni di donne e ragazzi; – cosa del resto in perfet-ta regola, poichè gli avvocati, se erano preti per l’abito,erano però secolari in sostanza, spesso maritati, ed ave-vano moglie e figli.

Ho fatto poi osservazione d’un fatto singolare. Il po-polo romano non mostra poi un’eccessiva disapprova-zione per questi abusi: e quantunque accada udire qual-che individuo mandare alla malora un potentesoverchiatore, gli si conosce però in mezzo alla sua col-lera un intimo senso di semi-accettazione, come se il ma-le che impreca fosse in natura ed inevitabile.

A conti fatti, il Romano ha ragione; perchè in ognitempo ed in ogni sistema, passato, presente e futuro, ilpesce grosso più o meno mangia il pesce piccolo. Mam’è sembrato però scorgere in questo sentimento, come

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in parecchi altri caratteri della società romana presente,tracce evidenti del passato.

I grandi (prova il Monte Sacro e Menenio Agrippa)d’allora insino ad oggi, sempre a Roma hanno soverchia-to il popolo. Come non gli sarebbe entrato oramai nelcervello che questo suo malanno è senza rimedio?

Mi ricordo a questo proposito quali furono le idee diun cacciatore di Marino, castello della montagna, dove,come dirò or ora, passai due stagioni a studiare.

Quand’io lo conobbi, era vecchio e mi parlava di fattianteriori alla rivoluzione. Si trattava d’un certo suobracco famoso, il miglior can da caccia dell’Agro roma-no, col quale aveva trionfato di celebri rivali, e compiutecento venatorie bravure. «Che volete?» mi diceva «ungiorno non lo vedo più... me l’avevano rubato... gli vole-vo bene più ch’a un fratello... e proprio mi si levò il lumedagli occhi. Do di mano all’archibuso, e via per campa-gna a tutti i casali, a tutti i procòi, alle tenute...; se trova-vo chi me l’aveva rubato, era certo... l’ammazzavo. Càpi-to a Pantano di Borghese... erano fuori i signorini.Appena mi presento sulla porta del cortile, eccotelolà!... Io vedo tra le gambe de’ guardiani, e lui s’accorse,povero animale, ch’ero io, e diede uno slancio, ma lotennero...; e io voltai strada e tornai a Marino.»

«Ma come?» risposi «non ricorreste al Principe, o alGoverno? » – «Che vuoi ricorrere!» e mi scuoteva il ca-po come dire: da che mondo esci, o imbecille? «L’avevavoluto Borghese, era finita... si sa!... » Quel si sa! o me-glio se sa! ha un grave valore in bocca a un Romano.Può esprimere il fato, la necessità, come la convenienza,la consuetudine, e persino l’equità.

Qui ecco come l’intesi in parafrasi. – Il principe Bor-ghese m’ha preso il mio cane, ed è inutile ch’io mi mettaa contrastare con lui. – Se poi si fosse domandato a que-sto villano: – Amereste meglio riavere il vostro cane, apatto però che Borghese non esistesse ? – Avrebbe ri-

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sposto: – Io posso stare senza il mio cane, in fin de’ con-ti: ma chi potrebbe figurarsi il mondo senza casa Bor-ghese? – Per questo, l’odio che ardeva un tempo, verbi-grazia, in Piemonte tra borghesi e nobili, a Roma nonesiste affatto; mentre ce ne sarebbero ben maggiori ca-gioni.

In quell’inverno lavorai, ma il lavoro fu puro effettodi volontà, e mi costò sforzi incredibili. Non mi sentivopiù gusto per nulla: non pensavo, non miravo che aduna cosa sola, a quel mio malavventurato amore.

M’era per fortuna rimasto vivo in fondo al cuore unpo’ di senso del dovere: e fu la mia salvezza. Ancorchèdistratto, svogliato, divagato, pure non m’abbandonaiinteramente; rattenuto, oltre l’idea del dovere, anco dalrossore di vedermi così vilmente tolto a me stesso da unbel viso, da uno sguardo simpatico.

Però quella mia prima vita riposata di studio era spa-rita, e mi trovavo invece trascinato in un’altra d’ansie, diinquietudini, d’arrabbiature, di speranze, di timori, cheprova la verità del proverbio popolare italiano: Cicisbeie damerini, vita da facchini.

Ora si può dire che questo genere sia sparito dalmondo. Figlio dell’ozio, fu ucciso dall’operosità: in altritermini, frutto del dispotismo, s’inaridiva al raggio dellalibertà. Come si potrebbe oramai far dell’amore l’occu-pazione esclusiva di tutta la vita?

Allora si poteva non solo, ma quasi in certo modo sidoveva; salvo da quelli, sempre eccezioni rare, che si de-dicavano ad una scienza od un’arte, come ero io. QuestoRegno di Pafo aveva i suoi statuti, le sue leggi, i suoi po-teri, le sue guerre, le sue rivoluzioni; e tutto ciò compo-neva un insieme abbastanza curioso per meritar qui unapagina di descrizione.

Prima di ogni cosa, in quella società, non era in istimase non l’amore vero, serio, leale, scrupolosamente fede-le, ed immune d’ogni idea di negozio.

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Il genere roué era considerato come la più abomine-vole delle eresíe. Il genere del darla ad intendere, del farall’amore con parecchie ad un tempo; il genere leggiero,incostante; il genere indifferente, tepido; tutte eresíe digravità diverse, ma tutte passibili di maggiori o minoripene nel Tartaro di quella religione.

Le condanne venivano pronunciate dalla voce pub-blica. Il suffragio universale era già inventato, come ve-de, quando Napoleone III lo proclamava nel 52. Nelleveglie, ne’ crocchi, si narravano casi galanti, se ne som-ministravano le prove; si pesavano, si discutevano, e fi-nalmente s’emanava la sentenza: ed anche allora il suf-fragio universale era in sostanza quello di pochicaporioni, che prendevano il sopravvento.

Ma il curioso era il genere di moralità, di probità,d’onestà, professato da’ fedeli a quel culto. Secondo ilsenso ordinario, ognuno sarà libero di fare quel che cre-de, ma ognuno in fondo professerà sempre l’opinioneche ingannare chicchessia non è atto lodevole: e che an-che un marito dev’essere protetto da quella formola dimorale pubblica. Là invece ingannar un amante, Dio nescampi. Ma un marito... SE SA!

Il senso ordinario insegna che se questo marito ingan-nato fa le viste di non accorgersi e tira là alla meglio, talsia di lui: sono affari suoi, e nessuno ha diritto d’impic-ciarsene. Tuttavia un’ombra di ridicolo, o talvolta dipeggio, lo segue; e proprio netto, difficilmente ne puòuscire.

Là invece, Dio ne guardi a lasciarsi sfuggire unoscherzo, una parola di canzonatura per un tipo tanto in-teressante e tanto utile! Le donne in specie, e più lemezze vecchie vi davano sulla voce: – Chè?... chè?... Èun galantuomo, una brava persona, persona educata! –

Se poi un marito, un po’ meno educato, faceva quelloche il senso ordinario d’ogni paese del mondo trova na-turalissimo; se si liberava in un modo o nell’altro di quel

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tale che si presentava in casa come socio; o se soltantonon gli faceva quell’accoglienza che il medesimo riceve-va dalla moglie, era uno scoppio generale d’indegnazio-ne in tutta la chiesa di Gnido.

Ricordo benissimo il caso d’un giovine, figlio d’unasignora che teneva casa aperta dove correva tutta Roma.Egli s’era innamorato d’una giovane moglie d’un ufficia-le, anch’esso giovane, bell’uomo d’ottima indole, cheaveva la strana pretensione che la sua metà dovesse con-tentarsi di lui.

Ma la metà non si contentava niente affatto; e final-mente un giorno l’ufficiale ebbe l’audacia di dire in vol-gare, ed in chiare note ad ambidue, che non intendevaportare il cimiero d’Atteone; aggiungendo quelle paroleche s’usano in simili occasioni da chi ne ha piene le ta-sche.

La sera mi trovo nella solita società, ed accostandomiad un crocchio ov’era la padrona di casa (madredell’amante) la vedo alterata, la sento che borbotta, spic-cando ogni tanto qualche improperio con maggiore ap-poggiatura, e mi ricordo benissimo della parola: – Co-saccio!... che cosaccio! –

Mi accosto all’orecchio d’un amico«Con chi l’ha Cintiola ? »«Con P***.»« E perchè? »«Perchè ha fatto una sparecchiata alla moglie ed a

lui.... o che ce li abbia acchiappati.... so assai!» Verificaipresto la cosa, che era precisamente come la diceval’amico; e ricordo con piacere ch’io non avevo l’intellet-to nè il cuore corrotto da quella scuola al punto, di nonmeravigliarmi della strana espressione adottata in questacircostanza dall’amor materno.

Quella sera non comparve, com’era solita, la signoraP***, il figlio se ne stette non so dove, ed un velo melan-conico stava sospeso sulla compagnia, sbigottita del

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nuovo quanto funesto esempio, e misurandone con ter-rore le possibili conseguenze.

Ma fu un falso allarme. Le cose ripresero il loro corsoordinario, ed il povero P*** – altro che potersi liberaredi quel primo diadema! – presto dovette o scordare il ri-vale, o confonderlo fra i numerosi suoi successori.

Ciò prova che il mestiere di marito nella Roma d’allo-ra non era tutto rose. Ma v’erano nell’anno ricorrenzeche lo rendevano una vera disperazione.

Non parlerò che del carnevale.Gli ultimi otto giorni soltanto si distinguono colà con

un tal nome. Circa al tocco suona il Campanone dellatorre del Campidoglio, e ciò significa che fino all’Avem-maria è permesso girar per Roma colla maschera sul vi-so.

La descrizione del Corso, de’ confetti, de’ moccolettiè fatta da un pezzo: – e poi queste delizie sono stati og-getti d’importazione fra noi, tutti le conoscono, e beatochi se ne diverte.

Dirò invece tradizioni ed usi men noti.Ab antiquo i poveri Ebrei servivano essi al diverti-

mento de’ Cristiani. Dapprima (si dice) che uno di co-storo era messo in una botte che dal colle Capitolino sifaceva rotolare giù per la scesa, fino al piano. Poi in ap-presso la Sinagoga ottenne di sostituire a questa barba-rie un palio corso a piedi (e in sacco?) da parecchiEbrei. Più tardi ancora, i corridori bipedi si mutarono incorridori quadrupedi, e rimasero a carico del Ghetto gliotto palii (velluti fini di varii colori in pezza) degli ottogiorni del carnevale.

Il primo giorno del carnevale si fa in Campidogliouna funzione che merita d’essere conosciuta. Il Senatos’aduna col Senatore (riduzione in stile geografico da600 ad 1, dell’antico Senato) seduto sul suo trono; ed alui si presenta in ginocchio il Rabbino e la deputazionedi Ghetto, portando un indirizzo con ampie ed umilissi-

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me dichiarazioni di devozione e sudditanza del popoloeletto al Senato romano. Data lettura dell’indirizzo, ilSenatore fa col piede l’atto d’allungare un calcio al Rab-bino, che si ritira pieno di gratitudine, com’è naturale.

I divertimenti del Carnevale sono noti a tutti: ma leguide de’ viaggiatori si scordano il meglio. Cercheròsupplire.

L’uti libertate decembris degli antichi (che i modernidal decembre portarono al febbraio) è segno a tutti i de-siderii, a tutti i progetti, a tutte le combriccole formatedurante il resto dell’anno.

Mi spiego.Chi desidera scoprire un segreto, sciogliere od anno-

dare un intrigo, domandare una spiegazione, far una di-chiarazione, ec., e non trova tempo nè luogo nelle con-dizioni ordinarie della vita, fa i suoi calcoli sul carnevale.

La consuetudine in quell’epoca accorda al sesso, cuisi unisce quell’ipocrita aggettivo di debole, una libertàed un’indipendenza assoluta. Le dico io, che a stare aRoma in quei giorni, si vede se è debole.

Le donne, le amiche si riuniscono fra loro, e non vo-gliono nè assitenti nè sorveglianti. Non parlo de’ mariti,nemmeno a nominarli; ma neppur gli amanti.

I primi si rassegnano completamente; e ne ho vistibuttarsi sul letto nelle ore del corso, e passarle dormen-do.

Per i secondi è il momento invece di non dormire, estar con tanto d’occhi. Ma non è da scordarsi il pocousato secondo titolo del Barbiere di Siviglia.

Le precauzioni più sono giustificate e più sono inutili.Stante il modo col quale sono ordinate (in italiano di

giornale organate) le mascherate, è quasi impossibile sa-pere quello che v’accade.

Generalmente s’ha l’idea che una donna mettendosiin maschera, non trascuri per questo di aggiustarsi me-glio che può. Per non essere riconosciuta non occorre

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avere nè la gobba nè un piede da mandarino. Ma a Ro-ma in carnevale si pensa altrimenti. Una donna si tra-sforma in un fagotto, in uno scalda-panni, e non deveaver più forma umana quando va (o andava) a sederedurante il corso sullo scalino di Palazzo Ruspoli.

Quello scalino, ora scomparso, era un marciapiedelungo il Caffè Nuovo, alto circa 70 centimetri dal pianodel Corso. Su di esso stava una fila di sedie di paglia, chevenivano ad occupare le signore mascherate. La genteche passeggiava davanti allo scalino, si trovava così adaverle ad un’altezza infinitamente comoda, per far con-versazione più o meno intima e segreta, secondo le di-sposizioni delle parti.

È chiaro che v’era un solo ostacolo da superare, a chidesiderasse aver un colloquio con una signora invisibileil resto dell’anno; riconoscerla allo scalino.

Mi ricordo in questo genere aver eseguito in certa oc-casione un vero tour de force di diplomazia. Mi trovavoappunto con un gran desiderio di parlare un po’ con co-modo con una signora, alla quale non ero presentato.Riuscii ad essere informato che volendo il giovedì grassoandare al famoso scalino, cercava un mantello da uomo,tondo, senza maniche come usavano allora; e tantom’andai ingegnando, che riuscii a farle giungere nellemani e scegliere il mio, senza che sapesse di chi fosse.Cosi cadde da sè.

Questo scalino è dunque il terreno neutro sul quales’incontrano, s’imbrogliano, o s’accomodano i mille in-teressi della vita amorosa.

Ma per terminare l’esposizione dei suoi statuti, ag-giungerò che non sempre è permesso agli amanti goderedi questo scalino, come di nessun altro divertimentocarnevalesco.

Se la diva, o per puerperio, o per incomodo, o permotivo di qualsiasi genere, è costretta a star in casa, nep-pure il suo fedele deve divertirsi. Mentre il chiasso è al

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culmine da Piazza del Popolo a quella di Venezia, gli èpermesso andare a spasso a Campo Vaccino, o a SanPietro o a villa Borghese. E la sera in società, se si vien asapere che X*** il quale ha la dama a letto con un po’ diraffreddore, è stato veduto a ora del corso, solo, a caval-lo, fuori di Porta Angelica, verbigrazia, le donne dicono:– Che caro giovane quell’X***, quello davvero è unbuon amico! – E se è presente il loro proprio, e che ab-bia una coscienza un po’ meno illibata, riceve a titolo dirappresaglia un’occhiata nella quale sta scritto: Impara-te!

Altro degli statuti è poi che in caso di disgrazia diqualunque specie caduta sulla famiglia di lei come delmarito, lui deve sacrificar tutto, la vita, se occorresse,per ripararla.

Quest’insieme pare ed è certamente strano, ed altret-tanto lontano mille miglia dagli usi del mondo presente;ma nessuno potrà, credo io, preferire il mondo attuale aquello d’allora.

L’amore che cercando soddisfazioni, accetta però isacrifici; che sostiene indicibili dolori per l’ineffabile fe-licità d’un minuto, è bello e nobile; ha in sè, sto per dire,qualche cosa di virtuoso, come ogni dolore volontariovirilmente portato.

L’amore, invece, al quale si vuol tolta ogni spina, checosa è? un’ignobile decadenza morale, ed un più ignobi-le istinto animalesco. La conseguenza estrema e più co-moda di quest’istinto è la mantenuta….

Parlar di mantenute fra noi in quel tempo, era parlardell’assurdo, dell’incredibile. E quei pochi forestieri checapitavano a Roma con simili compagnie, o che si sape-vano aspirare a tali negozi con donne di teatro, ci pare-vano tipi di stupidità, e non si finiva di riderne e di can-zonarli.

A poter sollevare il velo che cuopriva i misteri dello

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scalino, se ne sarebber vedute delle belle. Qualche se-gno esterno ne traspariva in qua e in là.

Mi ricordo d’un giovane (fui presente al fatto) ches’era trattenuto durante tutto il tempo del corso con duedi questi fagotti; fattosi sera, venne pregato da loro diaccompagnarli a casa: e s’avviarono per San Lorenzo.

Traversando il palazzo Fiano, a metà del cortile, unadelle due mascherine cominciò a suonar a doppio sulgiovane; e l’accompagnò a pugni e scappellotti fino aPiazza di Pietra.

Doveva averla fatta grossa costui.Questo scatenamento del carnevale non mi divertì un

pezzo: a 23 o 24 anni già n’ero sazio e seccato, ed in queigiorni di pazzie fuggivo al polo opposto di Roma. M’ac-cadde però nei primi tempi di prender anche parte amascherate, e ad una fra l’altre che voglio ricordare.

Erano a Roma Paganini e Rossini; cantava la Liparinia Tor di Nona, e la sera mi trovavo spesse volte con loroe con altri matti coetanei. S’avvicinava carnevale e si dis-se una sera: – Combiniamo una mascherata. –

– Che cosa si fa? che cosa non si fa? – si decide alla fi-ne di mascherarsi da ciechi, e cantare, come usano, perdomandar l’elemosina. Si misero insieme subito quattroversacci che dicevano:

«Siamo ciechi,Siamo natiPer camparDi cortesia,In giornata d’allegriaNon si nega carità.»Rossini li mette subito in musica, ce li fa provare e ri-

provare, e finalmente si fissa d’andare in scena il giovedìgrasso. Fu deciso che il vestiario al disotto fosse di tuttaeleganza, e disopra coperto di poveri panni rappezzati.Insomma una miseria apparente e pulita.

Rossini e Paganini doveano poi figurare l’orchestra,

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strimpellando due chitarre e pensarono vestirsi da don-na. Rossini ampliò con molto gusto le sue già abbondan-ti forme con viluppi di stoppa, ed era una cosa inumana!Paganini poi secco come un uscio, e con quel suo visoche pareva il manico del violino, vestito da donna, com-pariva secco e sgroppato il doppio.

Non fo per dire, ma si fece furore; prima in due o trecase dove s’andò a cantare, poi al corso, poi la notte alfestino.

Ma io ne’ divertimenti fui sempre amante del bel gio-co dura poco, ed il festino lo feci a letto.

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CAPO VENTESIMOQUARTO

SOMMARIO. – Nonostante il mio violento amore, lascio Ro-ma a mezzo maggio, e vado a Marino – Torture morali di tuttala settimana, e gioie del sabato – Pagate amaramente dai doloridel lunedì – Questione fra il chinino e la china per la cura dellefebbri romane – Esempio tratto da me stesso – Il sor CheccoTozzi – Compimento di una storiella gia raccontata altrove –Misteriosi origini del sor Checco –La sora Maria sua moglie, ela sora Nina sua figlia – Sposalizio mancato – Ma il sor Checconon si scora, e ne imbastisce subito un altro; il quale riesce – Lapovera zi’Anna – Il signor Mario, fratello minore del sor Virgi-lio, sposo della Nina – Suoi amori contrastati dalla barbarie dipadron Titta – Una serenata messa in scompiglio da un’archi-busata – Osservazioni sui costumi marinesi.

S’avvicinava primavera. Nell’inverno, con quella ma-ledetta passione che non mi lasciava requie, avevo lavo-rato piuttosto che poco, inutilmente. Lo sforzo potevaservire per starmene tante ore nello studio; ma ad impie-garle utilmente non c’è sforzo che valga. Però mi lodo dinon essermi abbandonato del tutto alla corrente, ed’aver sempre tentato di prenderla di petto.

Ora però mi veniva innanzi una più terribile prova.Gli altri anni lasciavo Roma in maggio, fino ai Santi. Ocome si faceva nel mio stato a partire?

Pure decisi, stato o non stato, d’andarmene come ilsolito, e così feci.

Dio solo sa le torture d’inferno che soffersi!M’ero comprata una cavalcatura di campagna assai

competente, coll’armatura (harnachement) de’ vaccari;cioè sella alla vacchereccia cogli arcioni alti, capezzonedi cuojo largo un palmo, e poi tutto il bagaglio in armo-nia: bisacce, cappotto di panno scuro ricamato di setaverde, mazzarella ossia pungolo, e, corrispondente al re-sto, un vestiario di velluto in cotone, ad uso della gentedi campagna.

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Venne pure il giorno che bisognava risolversi. Men’uscii una mattina per Porta San Giovanni solo, a ca-vallo, col mio schioppo all’arcione. E quello stupido vi-scere così pieno di pretensioni, così indiscreto e tantopoco curante dei disturbi che cagiona al suo padrone, ilcuore, infine, provava uno strano senso, che a spiegarlom’occorre un paragone ancor più strano. Mi pareva fos-se come un gomitolo del quale uno de’ capi era rimastoattaccato a Roma, nella strada e nella casa che so io. Erail filo della vita; e mentre m’allontanavo si andava svol-gendo, e ne rimanevo vuoto, spossato, senz’anima, inca-pace di qualsiasi cosa, e senz’altro segno oramai d’esseruomo, fuor di quella mia testarda ed inesorabile risolu-zione.

Giunsi a Marino e m’alloggiai all’albergo situato alsommo del paese, sul crocicchio delle vie che conduco-no, l’una in giù verso la chiesa, e l’altre a Frascati, a Ca-stello ed Albano.

Padroni della locanda era il sor Cesare e la sora Mar-ta, due vecchi amorevoli e buoni, che davano il loro sta-bile in affitto ad un oste giovane, romanesco, gran gioca-tor di morra e gran chiacchierone. Buon omo però.

Mi accomodai assai bene in una camera col mio baga-glio pittorico. Il letto era pulito; quanto al trattamento,la moglie dell’oste cucinava pure pulitamente, alla casa-reccia; il paese era provvisto, c’era un caffè, i contornibellissimi, non mi sarebbe mancato nulla, ma.… mi ca-pisce!

Senza cuor contento non c’è bene che valga, come colcuor contento non c’è male che nuoca in questo mondo.È una gran verità, ed un conforto per chi non si sa darpace della disparità delle fortune fra gli uomini.

Forse a vedere l’interno d’ognuno, si troverebbe chela Provvidenza è molto meno parziale di quello che sem-bra a prima vista. Lo dice meglio di me Metastasio. Essa,nella sua giustizia dispose che non basti trovarsi pieni di

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milioni, di cariche e d’onori per esser felici: essa volleche volle che fosse necessaria la contentezza del cuore; edi questo essa sola ne tiene la chiave.

Certo non la tenevo io in quel tempo, e non posso di-re qual fosse l’amara e profonda tristezza che era mio so-lo pasto ad ogni ora e ad ogni minuto.

Mi levavo, preparavo i miei attrezzi, ed andavo a lavo-rare, a disegnare; concludendo poco, sempre travaglia-to, sempre con quel solo pensiero, con quella immagine;e mentre io mi sentivo stanco e abbattuto, essa sola nonsi stancava mai; non mai si scostava dalla direzione delmio raggio visuale, la vedevo ne’ cieli, nell’acque,nell’ombra de’ burroni, nel folto delle selve.

Sapendo lei in altrui balía, la mia immaginazione,gran maestra di torture, era d’un’inesauribile fecondità atrovare ed a dirmi tutti i possibili, tutte le combinazioni,tutti i casi che dovessero riuscirmi più amari; e certe di-sperate gelosie mi saettavano talvolta come vere stiletta-te da farmi far uno sbalzo materiale, tanto m’arrivavanoal vivo.

Tornavo a casa malcontento; a pranzo le vivande nonm’andavano, le sentivo amare in bocca. Circondato davillani rissosi, con voci ruvide, assordanti, quasi semprele orecchie intronate dalle grida della morra, non potreimai spiegare a qual punto m’offendesse il contrasto frale immagini ed i pensieri miei interni, e quella trista erozza compagnia, che mi faceva parer più desolato ilmio abbandono.

Un po’ lavoricchiando, ma per lo più o buttato sul let-to o girando a caso ne’ contorni, mi strascinavo per tuttala settimana. Venuto il sabato, non essendo l’uso in que’paesi che neppur i pittori lavorino le domeniche, monta-vo a cavallo verso sera, e m’avviavo verso Roma.

Quel tal gomitolo dipanandosi a rovescio mentre mici venivo riaccostando, pareva che a mano a mano mi ri-tornasse nelle vene la vita. Con qual ansia di gioia cre-

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scente venivo trapassando tutti i successivi punti dellavia Appia, che tutti avevo a mente e m’esprimevanoognuno tante miglia di meno da fare! Tor di mezza via,Roma vecchia, il Tavolato – coll’oste padron Camillo,seduto sull’uscio, ed il piede fasciato posato su uno sga-bello (mi sono sempre scordato di domandargli che ma-le ci sentisse) – e poi la casa degli spiriti; e finalmente lostradone diritto, in fondo al quale mi si presentava lamassa bruna e maestosa di San Giovanni in Laterano,spiccato sull’ultima striscia arancia del crepuscolo, chein quei paesi a fatica si spegne quando già il cielo sul ca-po è scintillante di stelle.

Trapassavo l’arco della porta, ove in una gabbia diferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle piogge diun celebre malandrino (l’idea del ritorno mi faceva pa-rer simpatiche persino quelle occhiaje infossate); e poivia via, misurando i passi, le distanze, contando i minuti,giungevo a casa, mi spolveravo, mi rivestivo, e poi corre-vo là...

Ma se mi giova dare un’idea della mia condizione in-terna d’allora, non intendo, come già dissi più volte, rac-contare amori; però al là si cala il sipario, e non lo rialzoche per la partenza.

Questa cadeva nella notte successiva dalla domenicaal lunedì. Secondo l’uso di Roma, stavo in giro per le so-cietà sino al tocco o tocco e mezzo (5 ore o 5 ore e mez-zo di notte); poi cena alla trattoria dell’Armellino o diMonte Citorio; qui mi veniva condotta la mia cavalcatu-ra, e lasciati i guanti gialli, trasformato di nuovo in vac-caro, riprendevo tristo tristo la via di Marino. Sapevobenissimo che la desolazione di ripartire subito miavrebbe lasciato nelle solite malinconie: che a ogni mo-do non avrei conchiuso nulla per lo studio onde tantopoteva valere restar a Roma: ma se mi fossi lasciato vin-cere (e spesso a combattermi congiuravano care e dolci

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preghiere), mi sarei vergognato di me, che è il buono edutile modo di vergognarsi.

Finchè uno si vergogni soltanto degli altri, la questio-ne si riduce tutta a saperla far franca.

Quell’andare avanti e addietro dall’aria de’ montiall’aria di Roma in estate, mi minacciava seriamente lefebbri, al dir di tutti. Ma per fortuna me n’uscii senzadanno, e dopo quelle prime, prese in campagna verso ilmare, non n’ebbi più segno durante il mio lungo sog-giorno in quei luoghi.

È opinione de’ medici vecchi del paese, che se il chi-nino guarisce più presto e più sicuramente, tanto piùnelle perniciose, la china guariva più stabilmente. Io sa-rei una prova della verità di questa teoria. M’è accaduto,viaggiando la notte, scendere per dar riposo al cavallo, eaddormentarmi nel cuore dell’aria cattiva; m’accadde difar nottata a Baccano, ove Alfieri scrisse il sonetto famo-so «Vasta insalubre regïon, ec.,» luogo dove fino i rospi,credo io, hanno la terzana, e tutto ciò non mi portò con-seguenze.

Così avessi presa quartana e perniciosa, e potuto gua-rirmi invece di quel peggior male che avevo addosso!

Ritornato alla mia solitaria locanda il lunedì mattina,e a pensare che sei giorni eterni avevan da passare!.…mi pareva che io non sarei mai vivo per vederne il fine.

Villeggiavano in Marino il marchese Venuti romanoed il conte Roberti e sua moglie, di Bassano nel Veneto,ambedue artisti. Il primo, essendo assai ricco, lavoravapoco o nulla; il secondo invece pittore di caseggiati mol-to stimato, con famiglia, e di ristretta fortuna, lavoravaassai. Tutti poi ottime persone e d’ottima compagnia.

La vicinanza e la solitudine c’ebbe presto messi in re-lazione, e non si tardò molto a lasciare i complimenti,mutare il lei in voi, e diventare intimi. Essi abitavanol’ultima casa a diritta uscendo dal paese per andare aFrascati, detta casa Maldura, dove si poteva stare a doz-

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zina, e con più quiete che alla locanda. Il signor VirginioMaldura era il padrone titolare della casa, ma il vero, as-soluto padrone era il signor Checco Tozzi, suo suocero,ed uno de’ caporioni del paese. E qui mi par bene dipremettere due parole.

Anni sono, il mio amico cavalier Torelli pubblicavaun opuscoletto periodico intitolato Il Cronista, nel qualevennero stampati parecchi miei capitoli sotto il titolo diRacconti, leggende, ec. ec., ove dipingevo il mio soggior-no in casa del sor Checco Tozzi.

Questi capitoli, come molt’altre parti del giornaletto,vennero letti, e mi dicono non dispiacessero (tutta ipo-crisia per fare il modesto, perchè io so invece che fecerofurore): ma con tutto questo mi parrebbe un po’ grossadar per cosa intesa che tutti gli avessero letti.

Non volendo nè potendo andar tanto in là colla pre-sunzione, seguito l’istoria mia fra le mura del sor Chec-co, come cosa non mai detta. Cercherò solo, avendo ri-guardo ai lettori possibili del a Cronista, di nonripetermi troppo, e trovare invece qualcosa di nuovo;chè non ho già vuotato il sacco, e se ne’ Racconti dissimolto, non potei dir tutto.

Ciò premesso, tiriamo avanti.Il sor Checco era, secondo il detto spagnuolo, hijo de

sus obras. Come del mondo de’ panteisti, le sue originirimanevano ignorate ed inesplicabili; ma siccome egliera padrone di case, vigne e canneti; fratello influentedella Coroncina; ammazzasette emerito; e co’ suoi cin-quantacinque anni, alto, svelto, diritto e tutto nerbo,nessuno si curava di domandarne la spiegazione al soloche avrebbe potuto darla, cioè al sor Cbecco in persona.

Era temuto e rispettato in paese, ma piuttosto lasciatostare. Lui che poco si curava di tenerezze, non ne facevacaso. Oderint dum metuant, era il suo motto. Quantun-que ricco, non lasciava però d’andare ogni mattina a la-vorare alle cave del travertino, quando la vigna gli dava

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vacanza. Era sfogo di naturale attività e sete, se nondell’oro, dell’argento. Cinque paoli guadagnati collagrazia di Dio, fanno bene all’anima ed al corpo, dicevalui.

Ai tempi di repubblica, passando Championnet perandare a Napoli (qualcuno a mezza bocca lo lasciava ca-pire), pare che egli avesse ottenuto un non so che somi-gliante alle lettres de marque, colla sola differenza di po-ter esercitare a terra a danno degli aristocratici.

Difatti v’era stata in quei tempi una lunga e totaleeclisse del sor Checco : dopo la quale, un bel giorno iMarinesi se lo rividero tra’ piedi, senza che nessuno sifosse accorto da che parte arrivasse. Essendo l’arte suaquella di scarpellino, si ripiantò alle cave, lavorando agiornata come prima; col fare, col viso, coll’umore e co’panni di prima.

Soltanto nel corso di due o tre anni diventò padronedi terre e case e cantine. È vero che aveva sposata unavedova più vecchia di lui e che si diceva avesse il morto.

Comunque sia, Checco scarpellino era diventato il sorChecco; e chi ci poteva trovar a ridire?

La sora Maria, sua moglie, buona vecchia, un po’sciancata (si bucinava a questo proposito una storiellache ricordava il momento di vivacità che ebbe Neronecon Poppea), aveva una particolarità: in due anni non lavidi mai ridere.

Unico frutto di questo letto, non sempre morbido,era una figliuola chiamata la sora Nina: color di patatelesse, con due occhi sbiaditi come le bolle dell’olio nellapappa: l’essere più apatico della creazione.

L’amore per questa lumaca sotto forma muliebre erala grande, l’unica passione del sor Checco; e l’ardentesuo desiderio, poter un giorno vedere la Nina sotto ilbraccio d’un signore (nel senso di non villano), e suaadorata e legittima consorte.

Per questo il sor Checco, due o tre anni prima della

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mia comparsa sull’orizzonte marinese, aveva messo sot-tosopra cielo e terra, e finalmente trovato a Roma l’uo-mo che faceva per lui; un mezzo signorotto da dozzina.

Devo confessare che ne ho dimenticato il nome; ri-cordo però bene il fatto, che fu questo.

Tutto era stato ammannito e preparato per il matri-monio che doveva contrarsi in Marino. Pronta la funzio-ne in chiesa, pronto il pranzo in cucina, pronta la casa, iltalamo, pronta persino la musa del sor Fumasoni notaioe poeta del paese; altro originale che troveremo piùavanti.

Sorse il giorno del fausto evento. Le gale della soraNina erano inesplicabili; ed i genitori anche essi rimessia novo, non stuonavano troppo co’ suoi splendori. Losposo dovea venire da Roma a mezza mattina, perchè lafunzione permettesse di andar in tavola, come il solito, amezzogiorno.

Passa la mezzamattina, passa l’intera, passa mezzo-giorno,, passa l’avemaria, in conclusione lo sposo l’han-no ancora da vedere ora.

Solo l’immaginazione, e non la penna, può dipingerel’ire del sor Checco, le tristezze della moglie, la perfettatranquillità della sora Nina, la quale s’andò a spogliare;che al pranzo, dovutosi ritardare d’un par d’ore, ebbeun appetito da angelo; e che la notte dormì come il soli-to le sue nove ore tutte d’un fiato. In paese si rise, e stan-te la nota ed innata bontà dell’umana specie, si provògeneralmente una profonda soddisfazione di veder loscudo della gran casa Tozzi spogliato dei suoi raggi daun paino romano. – Gli sta bene (dicevano) si vuol met-tere co’ signori... ci ho gusto! –

E qui veniva citato quel gran proverbio che parla del-la superbia del villan rifatto, con una rima ed una parolache non sbigottì Dante; ma io, che non son Dante, mene sbigottisco e non oso pronunziarla.

Naturalmente lo sposo infido non ebbe mai più in

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eterno il grillo di venire a Marino, e nemmeno a sei mi-glia di raggio in giro; le ire, come le risa, cancellate da’giornalieri colpi d’ala del tempo, si risolsero in nulla, e lecose ripresero il loro andamento normale.

Il sor Checco poi, tenax propositi vir, seguitò la cercadel signore, ma volle prendere tutte le precauzioni ne-cessarie perchè non si rinnovasse un simile scandalo sot-to il suo tetto.

S’informò, consultò, seguì la massima – cento misuree un taglio, – e alla fin de’ fini trovò un secondo sposo, equesto fu il buono e fu davvero.

Aveva nome il signor Virginio Maldura, ometto ma-gro, color terreo, di mezza statura, piuttosto gracile. Ti-po di genero sottomesso: punto di vista importante. Eradi famiglia civile d’artisti, non senza qualche cultura,buoni modi, carattere facile e pieghevole. Portava inol-tre un vestito di panno bleu barbeau, a bottoni gialli, se-gno indelebile dell’elevata sua qualità e condizione, co-me degli alti destini preparati alla signora Nina.

Questa volta il matrimonio si fece felicemente.Il sor Virginio divenne figlio di casa, col solo obbligo

di mangiar e bere e andar a spasso; affinchè a tutti appa-risse manifesto che la figlia del sor Checco non avevasposato un villano.

Gl’Italiani d’oggi pare si vengano persuadendo chefar il signore non è una carriera nè un’occupazione, eche non dev’esserlo nemmeno per chi abbia 100 milascudi l’anno. Ma il signor Virginio, niente affatto guastodall’idee moderne, lo trovava il re de’ mestieri.

Oltre i detti individui, v’era in casa Tozzi una vecchiazittella, sorella della sora Maria, detta zi’ Anna. Avevadato a vitalizio al nipote una sua possessione, facendo-gliene donazione a patto d’essere tenuta e mantenuta incasa, vita natural durante: e quest’ingegnoso ritrovatoper passar tranquilli e senza pensieri gli ultimi suoi anni,

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avea condotto alla conseguenza immancabile, in casi si-mili, di farglieli passare su un letto di spine.

Sempre per la gran bontà dell’umana specie, il sorChecco, il quale esercitava l’assoluto dispotico potere,quando vedeva la pace e l’ordine regnare da un pezzone’ suoi felicissimi dominii, provava, come tutti i despo-ti, il bisogno di gettare uno sguardo rasserenato sui suoifedelissimi e premiare la loro cieca ubbidienza con unalepidezza od un sorriso.

La lepidezza di tavola era dar la tortura dell’acqua al-la disgraziata zi’Anna.

«Bevi, zi’Anna!» e facendo le viste di metter mano alboccale del vino, prendeva invece l’acqua, e gliene em-pieva il bicchiere.

La povera vecchia, che n’avrebbe tanto gradito unodi vin pretto, ripeteva: «So’ beto (ho bevuto), so’ betomo’ propio!.…» Era inutile. L’ho vista cogli occhi umidiche chiedevano un po’ di compassione; ma la lepidezzaconduceva all’economia, e questa era la rovina di zi’An-na. Io però le venivo mezzo di nascosto empiendo il bic-chiere di vino, e per questo posso vantarmi d’essere sta-to il suo ultimo, e (probabilmente) il suo più ardenteamore.

D’un ultimo personaggio mi resta a parlare, del si-gnor Mario, fratello minore del sor Virginio.

Questo ragazzaccio sui diciassett’anni, non posso direa qual titolo o sotto qual forma si fosse introdotto in ca-sa; fatto sta che vi era naturalizzato. E a giudicar dalleapparenze e dall’ozio perfetto nel quale viveva, conclu-do che la voglia di campar a ufo senza lavorare avesse inlui acquistata l’efficacia del genio; e che mediante questarara qualità, avesse o ammaliato o vinto il sor Checco,che in conclusione l’aveva accettato per suddito e lomanteneva.

Otia si tollas, periere Cupidinis artes, disse Ovidio;ma la prima parte del precetto essendo sempre riuscita

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ostica al sor Mario, il dio Cupido rimasto padrone delcampo l’avea sottoposto al giogo d’una bella ragazzotta,che non rifiutava del tutto i suoi ardori. Ma per disgra-zia li rifiutava e detestava padron Titta, barbaro padre,vignarolo comodo, e, come si suol dire a Marino, pezzodi carne cattiva. Chiamava il povero Mario, magro esgroppato, mezzo C...

«Digli che ci venga e che ce lo colga!.…»Tale minaccia generica, e perciò più terribile, gli usci-

va tratto tratto di bocca e gelava l’amante novizio, ilquale non osava neppure fissare da lontano la pentolafessa trasformata in vaso di garofolo, collocata sulla fine-stra dell’adorata Nanna; senonchè, un giorno di festa ildiavolo lo tentò di condurre a notte avanzata la banda,che aveva strombettato tutta la giornata pel paese, aconciliare il sonno dell’amato bene.

Non avevan suonato cinque minuti, quando s’apre lafinestra, e Mario che credeva vedervi apparire (comeRuggero in casa di Alcina) quelle ridenti stelle, vide.... opiuttosto non vide che lucciole, allo scoppio di un’archi-busata che impallinò lui, la banda, e quanto c’era!

Scappa il sor Mario, scappa la banda, scappano glispettatori sottosopra per vicoli oscuri; chi bestemmia,chi si duole, chi grida: – È stato Titta! è stato questo, èstato quest’altro!» – riescono in piazza.

Al largo riprendon fiato, si rivedono in viso, si tasta-no: chi di qua, chi di là! In breve due o tre avevano avu-to sfrizzi di poco conto e sgocciavano sangue; del resto,d’un colpo che poteva ammazzare due o tre persone,Dio misericordioso de’ pazzi, non aveva fatto uscire al-tro danno.

Padron Titta, al quale i carabinieri entratigli in casaavean trovato l’archibuso caldo ed il focone che insudi-ciava le dita, dovette andar carcerato.

Ma in quei paesi c’è l’uso che, contentandosi la parte

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offesa, cade la querela ed il fisco non agisce ex ufficio.Troppo avrebbe da fare!

Quindi riasciutte le ferite, compensate probabilmentecon qualche barile di vino, e messi tutti d’accordo – af-fare d’un paio di giorni, – Titta rivide la sua casa, e tuttoriprese il solito andamento, meno l’amore del sor Mario,rimasto morto sul campo d’onore.

Credo anzi che le sue ceneri vennero da lui rispettateal punto che non gli diede mai più un successore. Guari-gione completa, e vera conversione!

Nei nostri paesi farebbe un certo effetto una schiop-pettata che salutasse così un gruppo di venti o trenta in-dividui, come semplice ammonizione. A Marino inveceparve logica e naturalissima.

Ma bisogna sapere che l’umore de’ Marinesi non so-miglia niente affatto al nostro, nè a quello di molte altrepopolazioni.

Su un mio Album, dove andavo disegnando uomini ebestie così a volo, dal vero, mi volli prendere il diletto dinotare ogni volta che in paese si spargeva sangue. In duemesi contai diciotto fra morti e feriti. E con questo nonintendo conchiudere che Marino sia una trista e corrottapopolazione. Tutt’altro.

La famiglia, il matrimonio, la paternità, vi sono mol-tissimo rispettate: per quello che sia regolarità di vita, ri-servatezza nelle donne, non ho mai visto il minimo di-sordine.

È anche vero – non posso negarlo – che l’argomentousato da padron Titta nella questione musicale, si appli-cherebbe, occorrendo, colla stessa facilità alla coniugale.Ma non per questo voglio tòrre ogni merito alla virtùmarinese.

Di furti non n’intesi mai discorrere. Trovai sempremirabil prontezza in tutti, ad aiutarsi a vicenda ed a farpiacere a chi, ben inteso, trattasse con gentilezza, e nonvolesse alzar arie con loro.

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Parecchie volte m’accadde trovarmi in qualche im-paccio, e veder tutti gettarsi pronti per cavarmene.

V’era poi un giovine povero, che campava lavorandoad opera, un tal Venanzio, il quale m’aveva preso a volerun tanto bene, che sempre mi stava attorno perchè glisvelassi qualche mio nemico.

« Se c’è qualcuno che ti dà fastidio,» mi ripeteva sem-pre, «una parola a Venanzio!.…»

Per fortuna non avevo allora nemici, come non n’ebbimai, e neppur oggi, grazie a Dio, ne ho: quindi mi rima-se inutile un tanto amico.

Fonte di quanto accade di male in que’ paesi, è nontanto la perversità naturale quanto il sangue caldo, alquale il vino ed il clima accrescono fiamma tratto tratto.Oltre a questo vi dominano tristi tradizioni, tristi esem-pi; e l’educazione si può dire che sia quasi nulla.

Ora dirò alcuni fatti ed usi locali; poi le riflessioniche, a parer mio, ne emergono.

Queste mie ciarle, lo ripeto, non hanno per iscopod’istruire il lettore di mille inutilità della mia vita. Non cisprecherei nè l’inchiostro, nè il tempo. Ma a misura chese ne presenta il destro, entra nel disegno di questoscritto esaminare e discutere le questioni dalle quali puòscaturire il miglioramento della nuova generazione ed ilprogresso morale del popol nostro.

Lo scopo è grande, e v’è forse presunzione a propor-selo. Ma a quest’edificio, chi non porta un macigno por-ti un granello, purchè tutti lavorino, e l’edificio si com-pirà.

E ricordiamoci che gli statuti, gli ordini politici, leleggi, son gettate al vento, finchè gli uomini che gli han-no ad esercitare non sono migliori.

L’Europa, la società, le popolazioni, i governi, i capidelle nazioni, non vengono ora a fine di nulla; e sa il per-chè? Perchè individuo per individuo tutti si val poco.

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Se il fil di canapa è marcio, non s’avrà mai corda buo-na.

Se l’oro è di saggio scadente, non s’avrà mai monetabuona.

E se l’individuo è dappoco, ignorante e tristo, nons’avrà nazione buona, e non si riuscirà mai a nulla di so-lido, d’ordinato e di grande.

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CAPO VENTESIMOQUINTO

SOMMARIO. – Seguita la pittura dei costumi marinesi – Fa-mosi banditi trasformati in eroi dalle tradizioni popolari – Bep-pe Mastrilli – Beffe che usano in campagna di Roma similissi-me a quelle raccontate dai novellieri del Trecento – CheccoTozzi si burla crudelmente di un tal Stefanino – Il sor Fumaso-ni improvvisatore – Sua forza d’animo – Battaglie a coltello neicanneti – Baruffe improvvise dentro i paesi – Natale Raparelli eBeppe Rosso, col rispettivo seguito, vengono alle mani sullapiazza di Marino – Beppe Rosso si accompagna meco per forzada Marino a Roma – Fastidiosi incontri – Stando a Marino, incasa Tozzi, cerco rinforzarmi sempre più il carattere – Mio fra-tello Enrico – Sua indole; lotta interna che lo consuma – Si ci-tano parecchi brani di sue Memorie – Muore a Torino di 29anni.

Un frate piemontese, che conobbi molti anni dopo alSacro Speco di San Benedetto sopra Subiaco, parlandodi que’ villani mi diceva: «Non ha idea che anime buonesono, uomini e donne, nel loro stato naturale; ma s’esal-tino o per vino o in altro modo, siamo subito al coltello ealle bestemmie.»

Lo stesso si può dire in genere di tutti i popoli diquelle regioni, compresi i Marinesi.

A sangue caldo si sfragellano di coltellate, o si dannoin testa con qualunque altro istrumento abbiano a ma-no. Vidi una lite, nella quale i due combattenti, l’unocon un chiavone da cantina, l’altro con una grossa lan-terna, si ruppero molto bene la zucca.

Commesso il delitto, si gettano sulla soglia d’unachiesa o d’una cappella, e sono salvi. I parenti portanoloro da mangiare, e costoro passano tutta la santa gior-nata colle mani in mano, o facendo qualche servizio en-tro i confini del loro rifugio.

Mi sovviene che il signor Fumasoni notaio, avendofatto fare un bel Crocifisso di legno dipinto, grande al

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vero, e messolo nella cappella che sta a mezza scesa daMarino alla porta del Parco Colonna, ov’è la fonte, enon gli piacendo lasciar bianco il fondo del muro dietroal detto Crocifisso, mi propose di dipingerglielo, e michiese quanto gli avrei fatto spendere.

Io ne parlai cogli amici, Venuti ed un altro. Si decised’accettare la commissione, fissando il prezzo ad unpranzo sull’erba per la compagnia.

Si cominciò il lavoro la mattina presto, con animo difinirlo per mezzogiorno. Portati colori, pentole e pento-lini, si trovò per macinare e per altri servizi un personaleimprovvisato, non molto artistico, è vero: tre banditi ri-fugiati nella cappella. Ci servirono a meraviglia; a mez-zogiorno l’opera era finita e collaudata, e si sedeva alfresco in un prato a goder le grazie del sor Fumasoni.

Questi rifugiati, com’è credibile, passando talvoltamesi e mesi in ozio, giocano, s’azzuffano tra loro (già so-no al sicuro quanto a carcere), e si guastano a vicendasempre più.

La loro posizione di semi-banditi non ispira nessunaanimavversione contro essi.

Le memorie storiche, quanto le tradizioni popolarispiegano pienamente lo stato presente di quella società.Ho osservato che negli antichi feudi delle grandi fami-glie romane gli abitanti sono più che altrove facili alleprepotenze ed alla violazione delle leggi: violazione chefra il popolo vien giudicata qual prova di superiorità. Ènaturale: non è forse stato il distintivo delle classi supe-riori per molti secoli? V’è poi da aggiungere che in Ro-ma questa prepotenza de’ grandi è durata sino ad oggi, esto per dire dura ancora; o almeno potrebbe durare, sechi è in posizione d’esercitarla non fosse frenatodall’opinione e dallo spirito pubblico.

Le tradizioni popolari, pascolo di uomini rozzi, igno-ranti, e di naturale ferocia, non possono vagheggiareeroi ed uomini grandi delle età passate dei quali ignora-

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no i nomi. Vagheggiano quindi, e scelgono ad eroi ed amodelli famosi banditi, de’ quali odono continuamenteesaltate le gesta dai cantastorie nelle fiere e nelle festede’ paesi.

Fra Diavolo, Spadolino, Peppe Mastrilli e simili, sonoper le menti selvagge de’ giovani, il supremo grado alquale, sapendo fare, possono giungere in questo mondo.

Ma questo saper fare richiede un complesso di qualitànon comuni. Salute di ferro; corpo di leopardo per forzae sveltezza; vista di lince, occhio e mano sicura alla cara-bina come al coltello; d’un coraggio, d’un sangue fred-do, di un’audacia ad ogni prova non se ne discorre – edopo tutto ciò, ci vuol talento. Certo, non può già fare ilbrigante il primo imbecille che passa per via, per quantone abbia desiderio.

E per far contrappeso a quest’influenza delle tradizio-ni, e del canzoniere popolare, che cosa s’è inventato?Niente. Si lascia correre come in tutto il resto. Certa-mente il catechismo racchiuderebbe il migliore degli an-tidoti. Non rubare, non ammazzare, la carità, la mansue-tudine, ec. ec., sono i suoi elementi. Ma il modo colquale s’insegna, le qualità, gli esempi di chi l’insegna, glitolgono ogni efficacia. Beppe Mastrilli, il quale, comedice la canzone,

«.... con una palla di metalloAmmazzò quattro sbirri ed un cavallo.»offre ben altre seduzioni: non si può, è vero, afferma-

re ch’egli fosse un santo; si concede che la sua vita fupiena di peccati, che non tutti i confessori possono as-solvere: ma la tradizione per lo più attribuisce ai suoiidoli una fine esemplare. Secondo le leggende, sembrasempre che quasi per miracolo le cose si combinino inmodo che l’eroe vada poi diritto in paradiso; e sa in checonsiste il segreto? Nell’esser divoto della Madonna, odi Loreto o degli Angeli, o di qualunque altro luogo,averne in petto l’abitino, portarlo sempre, far dir qual-

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che messa o accendere qualche moccolo. Con questeprecauzioni non c’è esempio che la faccenda finisca ma-le.

Tale è il sunto delle dottrine insegnate non dal dogmacattolico, ma da un clero ignorante ed interessato; e talen’è il frutto.

Siccome poi su questi uomini la pressione della ci-viltà, dell’opinione de’ paesi meglio educati è nulla, poi-chè non vi sono nè uomini nè libri che modifichino gliantichi costumi, perciò vi si vive all’incirca come nel me-dio evo.

Chi ha a mente le cronache, le novelle, le vite di tre oquattro secoli addietro, trova qui tutto tale e quale.Quelle così dette beffe che s’usavano un tempo comepiacevolezze, e delle quali sono piene le novelle del Boc-caccio, di Franco Sacchetti, del Lasca, ec., burle da sten-der un pover uomo epilettico per lo spavento, o lasciarlostroppiato per la vita, fioriscono ne’ paesetti simili a Ma-rino, come nella Firenze di Calandrino e del Gonellabuffone.

Mi ricordo d’un villanzone al quale ad un pranzo diallegria attaccarono dietro al laccio de’ calzoni una gros-sa castagnola (pétard), stretta a spaghi raddoppiati.Quando scoppiò, fu un miracolo che non gli si spezzassela spina dorsale, e andò lui e la sedia a gambe all’aria!

Un altro, indotto a nascondersi in un cassone, non miricordo se con speranza di fortune amorose, vi fu chiusoe lasciato tanto che per poco non morì d’asfissia.

Ma la più barbara (moralmente parlando) fu quellainventata dal sor Checco in uno de’ suoi momenti ame-ni, a carico di un garzone che governava le bestie e face-va servizi per casa.

Quest’originale avea nome Stefanino, e dormiva incortile dentro un’antico sarcofago senza coperchio,quindi al sereno. Una volta s’ammalò e vi compì il corsodella sua malattia, come se fosse stato in un buon letto

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ed in una camera ben custodita. E siccome il sarcofagoera alto da terra più di due metri, mi ricordo che il me-dico gli faceva la visita su un pezzo di scala a piuoli, cheserviva per salire in fienile.

Questo poveraccio campava di quel poco che guada-gnava col sor Checco, mentre la sua smania (sulla qualeognuno lo burlava) sarebbe stata di campar del suo.

Un giorno viene in mente al crudel padrone di dargliad intendere che era ad un tratto diventato ricco. Perquesto comincia col regalargli certi numeri del lotto – si-curi – e Stefanino raggranella certi pochi baiocconi ripo-sti per i casi impreveduti, e si decide a fare una gran gio-cata. Passa un giorno, passa un altro di timore, speranzee palpiti; finalmente arriva quello dell’estrazione; ed ec-coti stampati sull’imposta del botteghino per l’appunto icinque numeri giocati da Stefanino, che quando li videl’ebbero a far cascare tramortito.

Corre a casa pazzo affatto, salta addosso al sor Chec-co, alla sora Maria, e a tutti di casa, gridando, ridendo,strepitando, piangendo, abbracciando, baciando dovepiglia piglia, finchè, quando Dio volle che riavesse il fia-to, annunziò che aveva vinto, che era ricco, che volevadiventare lo meglio paino di Marino, ec. ec. Il sor Chec-co gli diceva: «Dunque non vuoi più star con me?» el’altro: «Checco mio, questo non te lo prometto;» e face-va cento castelli in aria per la sua nuova esistenza.

Il lettore ha già capito che il sor Checco s’era accor-dato col prenditore del botteghino del lotto, che il paesesapeva la burla, e vi teneva mano; e già immagina l’ulti-ma scena della commedia. Difatti l’indomani il feliceStefanino, vestito di nuovo (chè già avea debiti in giro),montato sulla cavalla del sor Checco il quale gliel’avevaimprestata, non trovando conveniente che un tal milio-nario andasse a piedi, era corso in Albano capoluogoove gli si doveva pagare la vincita. Ma aveva invece tro-vato dal direttore del lotto un’accoglienza dapprima di

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risate, e poi di strapazzi e spintoni per metterlo fuordell’uscio, mentre egli, persuaso lo volessero assassinare,si dava a strepitare, e far pianti e proteste. Alla fine gliconvenne persuadersi, e se trovò la via di Marino fu me-rito della cavalla; chè egli era certo più di là che di qua.E per bonamano, non solo non potergliela far pagare alsor Checco, ma dover anzi servirlo come prima, e rin-graziarlo che volesse dimenticare la voglia mostrata dirinunziare un tanto onorato servizio!

Queste erano le burle del paese, degne, come ognunvede, di figurare fra quelle del Lasca, del Sacchetti e si-mili.

Passiamo ora ad altre burle anche meno divertenti, edegualmente degne delle cronache del medio evo.

Ho parlato dianzi del sor Fumasoni notaio e poeta.Cominciamo da lui.

Egli era un omaccione grande e grosso, un vero Erco-le per forza, salute, potenza digestiva e vigore di polmo-ni. Non senza istruzione, mezzo letterato e poeta estem-poraneo.

È curioso l’osservare come in codesti paesi sia comu-ne la facoltà d’improvvisare. Robaccia! dirà lei. Verissi-mo; o almeno volgarità e luoghi comuni. Ma pure nonso se molti uomini di alto ingegno sarebbero capaci difar quel che molte volte ho veduto eseguito dal sor Fu-masoni, senza scomporsi, nè impuntare una volta sola.L’ho visto a pranzi di venti o trenta persone in occasionidi feste del paese, del passaggio di qualche monsignore,ec.: dopo aver mangiato e bevuto come un bue, alzarsialle frutta, e dirigere una terzina o una quartina in giroad ogni convitato. Concedo che non saranno stati nèconcetti nè versi sublimi; ma alla fine esprimevano o uncomplimento o uno scherzo od anche una frustata, se-condo la persona cui eran diretti, con senso, colla rima,e spesso con grazia.

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Se la sentirebbe lei che mi legge di fare altrettanto? –No? – Dunque non disprezzi il sor Fumasoni.

Ma aveva in sè qualche cosa di più prezioso della fa-coltà di dire all’improvviso; egli possedeva un coraggioed una fortezza da paragonarsi, per poco, a quella diMuzio Scevola.

Una sera ritornando a casa, gli viene sparato addossoun’arma da fuoco – o non seppe o non volle mai dire dachi – e la palla entratagli per le reni gli uscì dalla parted’avanti.

In casi simili molti hanno l’abitudine di cascare in ter-ra, e di cacciarsi a gridare. Il sor Fumasoni invece si tienritto e zitto il meglio che può, torna a casa, e per nonspaventare la moglie le dice: «Tuta, va’ a chiamare il me-dico, io mi sento gran dolori di corpo, e intanto vado aletto.» La ferita per fortuna non fu mortale, ed il sor Fu-masoni la potè raccontare. Ma spero che non era unepoule mouillée.

Un altro che conosceva, ebbe una coltellata ad unafiera due miglia distante: e nonostante tornò a casa apiedi colle budella mezze in corpo e mezze nel cappello;e anche questo guarì.

Ciò prova che è una razza animosa, e di forte tempra,dalla quale si potrà cavar eccellenti cittadini e soldati,quando sia uscita dell’ugne del governo papale.

E neppure è vero ciò che generalmente si crede fuorie dentro Italia; che sia gente capace soltanto di ferire educcidere a tradimento, e poi fuggire. Non dico che ciònon accada talvolta: ma non accade forse in ogni paese?

Il più delle volte però si tratta di battaglie combinatee volute d’accordo dalle due parti.

Vi si usa, verbigrazia, un duello al coltello che ha uncarattere singolarmente feroce.

Due s’attaccano a parole. L’uno dice all’altro: «Hai ilcoltello?«– «No». – «Vallo a prendere e fra mezz’ora nelcanneto tale.» – «Siamo intesi.»

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I canneti sono grandi e non folti al punto che tra can-na e canna non si trovi il passo. Ma quando ognuno de’combattenti arriva al suo limite, come sapere se il nemi-co già vi sia, e dove sia? Bisogna cercarlo quasi alla cie-ca, poichè la vista non penetra pel folto delle foglie.

Si può immaginare quante peripezìe offra un simileincontro. In generale vi rimangono tutti e due, come èquasi inevitabile.

Accadono altresì sfide di molti; ed una ne vidi in unavigna, nella quale tre contro tre, datosi l’appuntamentos’incontrarono con coltelli e schioppi. Si sflagellaronomolto bene, eppure nessuno morì. Hanno il cuoio cheresiste, costoro.

Talvolta queste baruffe s’accendono casualmente inpaese. Dirò ancora questa e poi basta.

Un giorno verso sera si sentì levar un rumore giù inpiazza; gridi, spari, trambusto. Noi si stava a cena. Virgi-nio ed io ci alziamo, si dà di mano alle nostre armi (inquei paesi allora non s’usciva mai colle mani in mano), ementre ci disponiamo a correre sul campo di battagliaper vedere che succede, il sor Checco, come uomo prati-co e capo di casa, ci sgridava dicendo: « Attenti! Chè chisparte ha la meglio parte.... non v’andate impicciare deifatti d’altri.» Visto poi che non s’ubbidiva, ci lanciavadietro la sua paterna benedizione: «Vorrei che ci arleva-ste (foste picchiati) bene e meglio voi.» E con quest’au-gurio si corse via.

Era una lite cominciata fra un tal Natale Raparelli edun altro (Beppe Rosso se ben mi ricordo), ed a poco apoco diventata una scaramuccia d’una ottantina di per-sone. Natale era uno de’ maggiorenti del paese; Beppedi poco stato bandito, perchè un giorno, dopo vespro,stando la gente a cerchielli per la piazza, gli era venuto ilgrillo di cavar il coltello, far una riga in terra, e poi dire:«Il primo che la passa, gli do una cortellata.« E così fece.

Questa battaglia si sciolse senza danni notabili; e noi

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si ritornò a cena trionfanti del pio desiderio del sorChecco.

Ma l’indomani venne il bello.Io dovetti andare a Roma, e presi una carrettella colla

quale partii sull’ore bruciate, e quando siamo giù versoil fine delle vigne, vedo sbucar fuori d’una siepe uno chesalta svelto a cassetta, e siede accanto al cocchiere. EraPeppe Rosso.

«Che nova, padron Beppe?» – «Eh !...» mi rispondecon aria d’intelligenza e un po’ ridendo «è bene mutararia per qualche giorno» – «Sia pure», rispondo, e pre-sto mi si vien velando l’occhio, e dormicchiavo.

La ritirata di Beppe era prudente, e probabilmenteimposta dalla famiglia, non tanto perchè Natale fosseuno de’ primi bravi di Marino, quanto perchè i Raparel-li erano potenti, ed i Rosso aveano bisogno di loro.

Si fece non so quante miglia al trottarello noiato de’cavalli in quell’ore che sembra proprio arda l’aria. A untratto Peppe butta le gambe dentro, mi si getta addossoe mi si raggomitola dietro perch’io gli serva di scudo.«Che diavol hai?» grido io svegliandomi un tratto. Luizitto; il cocchiere si dava delle mani sul capo esclaman-do: «E ora come si rimedia?» – «Ma insomma si può sa-pere che diavolo avete?»

Il vetturino con aria desolata m’indica col dito nelladirezione della campagna, e vedo un uomo a cavallo checorreva verso noi di carriera di traverso, e mi dicono: «ÈNatale.»

Una bagattella! In questo caso sinonimo di è Natale,era per Beppe essere ammazzato senza misericordia, sal-vo che riuscisse ad ammazzar l’altro. Ma con che? Luiera disarmato, ed io avevo soltanto uno stocco in un ba-stone. Certo, Natale non veniva a questa festa senza ar-me da fuoco.

Passai qualche minuto poco piacevole, perchè l’usodel paese in casi simili è di dire a chi sta di mezzo: –

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Scansati; – e se quello non può o non vuole scansarsi, sispara nel mucchio, com’era accaduto poco tempo primaa Rocca di Papa.

Intanto il cavaliere s’avvicinava; già il vetturino rico-nosceva il cavallo sfacciato (con fronte e muso bianco)di Natale. «Per la Madonna, è lui.... è lui....«

E invece, nossignore, non era lui! Della quale scoper-ta il più felice fu Beppe, che mi sciolse dal dolce amples-so e se ne tornò a cassetta; ma anch’io mi sentii meglio,glielo dico io, ed altrettanto o poco meno il vetturino, ecosì contenti ed allegri ce n’andammo pel nostro cam-mino.

Verso Roma, però, parve che per la strada venisse lacorte.

Girava la squadra di Galante, bargello di Campagna.Altro rimescolo dell’amico Beppe ed egli mi si volgevadicendo che in mia compagnia sperava non sarebberoarditi di toccarlo: speranza fondata sulle antiche tradi-zioni delle immunità baronali. Per fortuna anche qui vifu equivoco, e non s’ebbe a mettere la mia influenza aduna prova che forse non avrebbe potuto superare.

Da tutto quest’insieme di fatti ella può dunque cono-scere di quale stoffa siano codeste popolazioni, le qualicon poche varianti somigliano le altre dell’Italia meri-dionale.

Ad esse non manca se non un buon governo e la buo-na educazione: e non solo quella di saper leggere, scrive-re e far conti, ma quell’altra più importante, che insegnal’ossequio della legge sia morale, che civile e politica. Enon mi stanco di ripetere, che le leggi suddette si rispet-tano e s’osservano dai popoli, quando ne danno ad essil’esempio i principi, i capi degli Stati, le amministrazionie tutti gli individui e le classi poste in alto.

La libertà, l’indipendenza convien cercarle e conqui-starle come condizioni essenziali della vita d’ogni nazio-ne; ma bisogna non dimenticare però che se gl’individui

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non hanno un valore morale proprio, tutt’il resto nonserve a nulla. O non s’ottiene, o si corrompe, o si perde.

Ed invece in Italia, dove è appunto l’individuo che,per la lunga servitù a governi esteri e cattivi, val poco, inItalia a tutto si pensa fuorchè all’educazione!...

Mi sono scordato di dire (ma il lettore l’avrà capito dasè) che dall’osteria ero passato sotto il mite governo delsor Checco Tozzi; nella di cui casa occupavo una buonacamera, m’ero portato i libri, ed avevo la mia posata apranzo e a cena, mediante una pensione tutt’altro cheindiscreta.

In quel tempo incontrai le maggiori fatiche di tutta lamia vita; e a forza d’ostinarmi, finii col vincere anche di-scretamente quella maledetta passione, tanto da lavorarcon profitto.

Bella cosa la gioventù! Età di fede, d’audacia, di sicu-rezza di sè, delle proprie forze, dell’avvenire; età di fidu-cia e d’amore verso gli uomini; età che tanto crede nelbuono, nel bello, nell’onesto! Non che, la Dio grazia, ionon vi creda più ora: ma quello che oggi costa un ragio-namento, allora mi veniva spontaneo. Gran differenza!

In quel tempo vagheggiavo soprattutto l’idea d’acqui-star forza di volontà, e dominio sopra me stesso. L’ami-co Bidone batteva sempre su questo punto; aveva ragio-ne, ed io me n’ero convinto. Senza forte volontà non sigiunge a far nulla di buono.

Lo stare a Marino era la principale e la più difficiledelle vittorie; ma per tenermi in esercizio cercavo conti-nuamente d’ottenerne delle minori. Sulla prima paginadell’Album de’ disegni avevo scritto quest’ottava delTasso:

«Signor, non sotto l’ombre in piaggia molleTra fonti e fior, fra ninfe e fra sirene,Ma in cima all’erto e faticoso colleDella virtù riposto è il nostro bene:Chi non gela, e non suda, e non s’estolle

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Dalle vie del piacer, là non perviene....»Quando, ritornando dal lavoro sotto la sferza del so-

le, salivo l’erto e faticoso colle sul quale (se non la virtù)era però posta casa Tozzi, quest’ottava me la tornavo amente, e vincevo più volentieri il caldo, il sudore e la fa-tica.

Altre volte tornando a casa affamato e trovandomi in-nanzi un fritto, verbigrazia, che in quelle disposizionispandeva una fragranza che imbalsamava l’aria, me lotenevo sotto il naso e stavo cosi un pezzo senza toccarlo.

Questi fervori di novizio paiono e sono in parte pue-rilità, ma hanno pure un lato utile e serio; e li credo se-gno di buone tendenze e di capacità al progresso mora-le. Esercizi di questo genere, che ognuno può variare apiacere, non sono certo fatica buttata.

Io consiglio ai giovani di farne argomento di riflessio-ne.

Badi però, che se mi par utile manifestare i modi ch’iotenevo onde rinforzarmi il carattere, non intendo van-tarmi per questo d’esservi riuscito, nè in allora nè peltempo di poi, quanto avrei dovuto e potuto. Intendosoltanto far conoscere i metodi da me usati, la formapratica ch’io davo al precetto del dominare sè stesso.

È opera più degna, anzi lo scopo della vita umana,non è forse quella di dominare, purificare ed elevare lapropria natura?

Questo lavoro dovrebbe incominciare coll’uso dellaragione, e durare fino alla morte.

Ma alla maggior parte dei giovani, nè i parenti nè glieducatori risvegliano idee di questo genere, perchè nep-pure essi le hanno.

Ci pensino un po’ più e parenti ed educatori.Qui intanto mi vien bene citare un esempio di lotta

morale contro sè stesso, accompagnata da circostanzeche mi paiono istruttive ed interessanti.

Mio fratello Enrico era nato in tristi giorni, che dovet-

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tero influire sul suo organismo quanto sulla sua intelli-genza. Nostra madre era gravida di lui, quando le fu an-nunziato che il marito era stato ammazzato all’affaredelle Acque Rosse sul San Bernardo. Seppe di poi cheera prigione in Francia; ma tuttavia quante ansie, quantispaventi! Regnava il Terrore; e basti dire che fu decreta-to si scannassero i prigionieri. Per fortuna i sentimentid’umanità e di onore calpestati dagli uomini d’allora,non mai abbandonarono l’esercito. L’esercito disubbidì,e i governanti non osarono costringerlo.

Enrico, difatti, era un composto curioso di qualità piùo meno buone, ma dissimili affatto da quelle de’ suoifratelli. Bello, ben costrutto, e forte di membra; naturanervosa, impressionabile, variabile; cuore eccellente; in-telletto più tardo che ottuso, talento sufficiente; facileall’entusiasmo come alla sfiducia, quindi facilmente in-costante e irresoluto. E su tutto quest’insieme un velo dimalinconia, che, secondo occasioni, s’addensava e dive-niva per lui e per chi lo amava un vero tormento.

Nella sua e nostra infanzia, egli si sentiva meno vispo,meno destro, meno pronto de’ suoi fratelli.

Era impossibile che il senso continuo d’un’inferiorità,ch’egli però molto esagerava, non influisse sul suo carat-tere, e non germogliassero quindi nel suo cuore moltide’ tristi semi che divengono poi le spine della vita. Ge-losia, irritazione, invidia, e poi sfiducia e tristezza, amordella solitudine, alternati con sforzi e conati a salti, confervori di lavoro.... tutto questo miscuglio di tendenzepenose e contraddittorie, presenta senz’altre spiegazionil’idea d’un uomo intimamente infelice. E lo era, purtroppo, il povero Enrico! Egli non potè vedere itrent’anni, epoca alla quale aveva annesso una speranzadi calma, di serenità, di riposo dalle dolorose prove del-la prima gioventù. Gli pareva, e lo diceva cogl’intimi,che allora sarebbe giunto ad ottenere a forza di faticheanch’esso il suo posto nel mondo; ad ottenere di potersi

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presentare a fronte alta senza trepidar sempre pel so-spetto d’esser tenuto in poco conto, o dileggiato, o la-sciato da canto. Ma, poveretto, morì di 29 anni e mesi. Èimpossibile a non esser commosso scorrendo uno scrittoche col titolo di Pensées diverses rimane di lui e che mifu dato di rintracciare. È una specie di giornale nel qua-le manifestò le sue idee, le sue riflessioni su se stesso, su-gli altri, sui suoi difetti, sui modi che deve tenere peremendarsi: ora si dirige rimproveri, ora mostra penti-menti, ora spera, ora dispera; o si perde d’animo, o neritrova le forze.

Non so se il cuore mi faccia illusione, ma non mi parsenza profitto citare alcuni brani di quelle Memorie inti-me, che certo egli non sognava potessero mai uscire dal-le tenebre del suo gabinetto di lavoro. Si vedrà senza ve-lo un’anima schietta, inquieta pur cercare il bello ed ilbuono senza poterlo raggiungere; e si vedrà come l’uo-mo deve saper lottare con se stesso.

Egli era stato educato al Liceo ed aveva fatti i suoistudi in francese, e per lo più su’ libri francesi, poichè lasua carriera fu quella delle scienze esatte. Perciò scrissein francese. Egli incomincia dall’esame di sè stesso e di-ce: « Arrivé à 28 ans, mon jugement n’est pas encore raf-fermi, ma constance au travail ne dure souvent que 24heures. À tout moment je change désir. Le temps mepasse très-vite en son ensemble, tandis qu’il pèse surtoutes les parties de mon existence.... C’est à la fermetédans les idées ainsi qu’à la constance dans l’effort, queles génies médiocres (ed egli, ripeto, s’esagerava questamediocrità che era piuttosto tardità) doivent leurssuccès dans des choses où des gens doués d’une plusgrande force d’esprit ont parfois échoué.... Celui donc,qui par tout ce qu’il a fait jusqu’à présent reconnait nepas avoir de grands talents, doit ou abandonner la par-tie, ou (ce qui est bien plus digne de l’homme) s’armer

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d’une longanimité à toute épreuve, se préparer aux en-nuis, etc.»

Qui mancano parecchie pagine. Poi riprende così:«L’idee de la durée d’une vie laborieuse et retirée ac-

croit puissamment ma mélancolie. Je crains qu’elle neme pousse enfin à interrompre mes études. Il est vraiaussi que la constance augmente avec l’âge; que peut-être le nombre d’années où je devrai supporter les plusgrands travaux, est moindre que je ne pense.... Le vraitemps pour les fortes études est entre 27 et 34 ans (que-sta limitazion e un po’ arbitraria, è vero, parrà favolosa acerti ragazzi che a 22 anni stampano la raccolta delle lo-ro opere); je dois donc les employer, en songeant que ceque je sais n’est presque rien, comparé à ce que je doissavoir.... en employant ainsi mon temps je remplis mesdevoirs envers Dieu et envers les hommes.... je dois megarder de l’impatience, mon caractére aussi y gagnera...Il me faudra au moins un an et demi avant que je puisserecueillir quelque fruit de ma nouvelle méthode de vivre(non trovo quale fosse). En l’interrompant, ce sera à re-commencer comme j’ai fait si souvent.... et je seraitoujours plus à la merci de ce défaut de l’inconstance,qui en ce moment porte sur mes moindres actions.»

Più innanzi egli combatte quel benedetto vizio del fu-mare, che è uno dei distintivi del mondo moderno. Aquesto proposito voglio dire una mia idea.

Molte volte mi sono posta la seguente questione, chepotrebbe servire d’argomento per un concorso di qual-che accademia medico-filosofica : – Quale influenza ab-bia, e quali effetti sia per produrre coll’andar del temposull’organismo come sull’intelletto umano l’abuso delfumare? –

Una verità intanto per me è dimostrata; di un’altra hogravi sospetti. Quanto al fisico tengo per innegabile chela continua introduzione d’una soluzione di nicotinanella circolazione è dannosa. Quanto al morale, e su

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questo s’aggirano i gravi sospetti, il tabacco, comeognun sa, è uno stupefacente; sarebbe egli impossibileche il suo abuso rendesse alla lunga gli uomini più stupi-di di quello che lo sarebbero per natura? Se si potesseaccertare questo dubbio, forse parecchi fatti politico-so-ciali d’oggidì troverebbero la loro spiegazione.

Ecco intanto i ragionamenti che Enrico faceva a sèstesso per darsi la forza a vincere un’abitudine di tena-cità così inesplicabile presso i più. Dopo aver detto chene provava alterazione alla salute, aggiunge: «.... Est-ilde la dignité d’un homme raisonnable de ruiner ainsi sa»sante pour un plaisir aussi mince que celui de la pi-pe?... elle »laisse après soi une faiblesse d’estomac quirend incapable d’un »travail tant soit peti prolongé...peu à peu ori s’habitue à »travailler moins, et à trouverun prétexte à la paresse.»

E dopo aver riconosciuto che quest’abuso, irritando ilsistema nervoso, gli aumentava la sfiducia nelle proprieforze; lo gettava in un languore che i migliori ragiona-menti non valevano a guarire, finisce dirigendo a sè stes-so quest’intemerata

« ... ne doit-on pas conclure que je suis un imbécile,et une f... »bête, ne trouvant pas la force de vaincre untel penchant qui, je le »sais parfaitement, me fait un malsi grand et si certain?... Fi donc!»

In un altro luogo cerca di studiare il sentimento dellavanità; vuol vincere quel piccolo amor proprio che desi-dera sentirsi lodare da ognuno senza distinzione, ed os-serva:

«Que le grand amour-propre qui est celui des gens devrai mérite se »soucie peu de paraître grand aux yeux dela foule.... son âme est »tourmentée du désir de se ren-dre digne des regards d’un petit nombre »de personnesjouissant d’une célébrité méritée... »

E questo nobile amor proprio, soggiunge, non puòottenere il suo scopo che a forza di costanza.

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Dio volesse che questa massima fosse seguita nellanostra vita politica! Vi sarebbero meno cacciatori di po-polarità, e più uomini gelosi della loro riputazione.

Per raffermarsi l’animo contro le velleità dell’inco-stanza, suggerisce un’astuzia con sè stesso, che è: ognivolta che senta risvegliarsi la voglia di mutare, di voler-sene prima rendere una ragione valevole, e venire cosìdifferendo di giorno in giorno il cambiamento. Con ilqual metodo, dice egli:

«De jour en jour, de semaine en semaine ori arrive àdes mois et des »années, l’habitude se forme, on se fait àla stabilité; et voilà une »vertu acquise!»

Poco appresso riconosce il vero fondamento del beneoperare; garanzia al tempo stesso di stabilità e di costan-za, ove osserva che:

«Une autre manière de se livrer constamment et ar-demment au travail »serait de renoncer entièrement àtout amour propre, et de n’agir que »par pur sentimentdu devoir.» Questa è certamente l’espressione più eleva-ta della morale, e dell’unico cardine della società.

Le citazioni forse sono già troppe, e non voglio ag-giungerne altre. Quel povero giovane cercava lottarecontro fiacchezze morali ch’egli attribuiva a difetto divirtù, ed erano invece, secondo me, conseguenza delladecadenza e deperimento delle sue forze fisiche.

Egli già aveva sputato sangue in qualche occasione.Aveva voluto celarlo a suo padre onde non dargli in-quietudini; ed a questo proposito trovo espresso un rim-provero ch’egli fa a sè stesso dicendo:

«je n’ai pas parlé d’un crachement de sang... Cela m’aobligé à ne plus être aussi sincère avec mon père. Ce quiest un très-grand mal. Lui qui est si sincère avec moi!»

Due anni dopo che aveva scritto questi appunti, lamalattia di languore che da un pezzo lo consumava,s’aggravò.

Andò a Aix, usò rimedi, ma inutilmente; e si spense

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nella nostra casa di Torino di via d’Angennes, nella ca-mera che è sopra il portone.

La sua memoria, il pensiero del suo lungo combattereper elevarsi il cuore e la mente, que’ suoi generosi sforziverso il bene, che alla fine l’uccisero, l’idea delle sue lun-ghe malinconie, tuttociò mi desta in cuore una mesta te-nerezza che non pretendo certo divisa dal lettore. Maquel povero giovane meritò molto, e morì oscuro. Non èforse giustizia dedicargli una pagina, affinchè il suo mar-tirio non rimanga ignorato?

In questa fiaccona generale della gioventù, che si cre-de forte, perchè non rispetta, presume e grida, è benepresentarle un modello di quella forza, di quella fermez-za vera, che sta nel saper lottare in segreto onde vinceretristi tendenze, coltivarsi la mente, e rendersi atto al sa-grificio per l’adempimento del proprio dovere.

Per quanto brontolare contro la gioventù sia il privi-legio degli anni, non voglio tuttavia essere ingiusto. Igrandi riordinamenti politici non si compiono senzagrandi disordini sociali. Per fortuna essi sono passegge-ri, e dipende dal senno d’un popolo abbreviarne la du-rata. Ma finchè durano, addio educazione! addio istru-zione! Sempre fu e sempre sarà così.

Però la colpa non è tutta della gioventù d’oggidì, mabene potrà essere suo vanto saper presto uscire dal di-sordine inseparabile dalle transizioni.

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CAPO VENTESIMOSESTO

SOMMARIO. – Faccio un quadro rappresentante Leonida alleTermopili; e mio padre l’offre a Carlo Felice – Don Luigi de’principi Spada, bravo giovane ma cervello balzano – Si era la-sciato impacciare dalle società segrete – Le società segrete nel1824 – Nessuno mi propose mai di appartenere a sètte politi-che – Dell’assassinio politico e delle sètte che lo praticano – Al-cune anime nobili forviate tra molti tristi – Montanari, roma-gnuolo, medico condotto a Rocca di Papa – Della razzaromagnuola – Vedo Montanari, e il suo amico Targhini, lascia-re il capo sul patibolo – Osservazioni sulla loro impertinenza –Ancora del principe Spada e del sor Checco Tozzi – Avventuranegromantica, spesso narrata dal sor Checco, in una sua gita aLoreto – Torno a Marino dopo ventun’anno, e non trovo piùviva che la sora Nina – Morte di Pio VII, ed esaltazione di Leo-ne XII – Grande allegria per la caduta del cardinal Consalvi –Mio giudizio su questo personaggio.

La nuova della morte d’Enrico mi venne a Marino, ilsecondo anno del mio soggiorno in casa del sor Checco.Passo d’un salto l’inverno che si trova tramezzo, duranteil quale seguitai a condurre quell’esistenza di miseriemorali, di poche gioie e di molte rabbie, che sono la tri-ste fioritura della vita d’innamorato.

Raccapezzai pure un quadro rappresentante Leonidaalle Termopili. Lo mandai a Torino, e mio padre l’offer-se al re Carlo Felice, che dal canto suo mi offerse unascatola con qualche brillante.

Com’è l’uso, la vendetti per sua memoria al più pre-sto possibile.

Credo che il quadro ancora viva ritirato in un angolodi qualche palazzo reale.

A Marino, durante questo mio secondo soggiorno, lacasa Maldura si trovò più del solito frequentata da vil-leggianti, allettati dall’aria, dalla libertà e dal buon mer-

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cato. Per dar ragione al proverbio, – la molta brigataturbò la vita beata.

Conoscevo a Roma un giovane, guardia nobile, donLuigi de’ principi Spada, che per molte scapatagginis’era ritirato dal servizio. Era giovane d’onore, di cuore,di spiriti più che vivaci, non mancava di talento e di col-tura. Ma un cervello, che Dio ne scampi quanti, avendovoglia di studiare, hanno prima di tutto bisogno di vive-re tranquilli.

Una circostanza stava però in suo favore; sua madreera morta pazza.

Egli si era lasciato impaniare dalle società segrete, eportava un certo pugnale segnato con un numero 3, chedava a supporre già collocati in buone mani il numero 1ed il numero 2 – senza contare quelli che potevano veni-re in seguito. Non conosco le imprese degli altri numeri,ma metterei la mano nel fuoco che il numero 3 non fumai quello d’un assassino. Non era birbante don LuigiSpada, era un cervello spiritato.

Quando meno me l’aspettavo, eccolo comparire aMarino! Mi si presentò seguíto dal sinistro baule, segnod’un lungo soggiorno.

Egli era un bel giovane, alto, smilzo, svelto, ben fatto,pallido, con una criniera biondo-lino che pareva passataall’amido, tanto gli stava ritta sulla fronte, e due occhibigi chiari, sempre spalancati, e non sempre esprimentiuna perfetta lucidità cerebrale.

Dopo le prime accoglienze, m’annunziò che si trova-va in circostanze (affari d’amore, diceva egli) per le qua-li dovea guardarsi la vita, che a Roma gli veniva minac-ciata da rivali, parenti offesi o che so io. Soggiungevache una sera scendendo una scala oscura, era stato cir-condato da nemici invisibili, i quali, menando pugnalateallo scuro, per fortuna non avevano riuscito ad altro chea scalcinare le mura, ed egli s’era potuto salvare illeso.Sarà? Non sarà? a questo non potrei rispondere; ma

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qualche cosa dovette esservi di vero, da quanto seppipiù tardi.

In quel tempo (1824) in Roma l’opposizione politicaera unicamente ristretta in qualche società segreta d’infi-ma categoria. Come ho già detto, nove anni di perfettatranquillità non avevano ancora cancellata la memoriadell’epoca napoleonica, e l’Europa non provava sin quinessun desiderio di entrare in una nuova epopea.

I moti di Napoli e di Torino, repressi così completa-mente, avevano lasciata nelle masse l’impressione, che ilmischiarsi di politica era mestiere da matti o da birbi, enon da persone oneste e di buon senso.

A considerare la serie di modificazioni per le qualisiamo dovuti passare per giungere al punto in cui oggi civediamo non si può a meno d’ammirare la via che seguela natura nelle sue formazioni sia fisiche come morali.Considerando in quali corrotti e sudici pantani si mani-festino sovente i primi germi di certe utili e grandi tra-sformazioni, si sente quanta sia ancora la nostra ignoran-za delle leggi elementari del mondo che abitiamo.

In tutta Roma, chi pensava allora all’Italia, alla sua in-dipendenza, alla sua rigenerazione? Meno poche ecce-zioni, la schiuma sopraffina della canaglia, che si riunivamisteriosamente nelle vendite de’ Carbonari, nelle oste-rie, ec.

Dal letame nasce il bel frumento: dalla corruzione sisprigiona la scintilla della vita. Sarebbe questa la leggegenerale? Vorremmo sperare che se è così, sia soltantonel mondo della materia, e non in quello dello spirito. Inambedue tuttavia, è innegabile, il male ha una missio-ne.... ma non entriamo nella metafisica.

Io conoscevo molti appartenenti a queste sètte, per-chè al mondo artistico ci si mescola un po’ di tutto.

Per fortuna non dovevo aver viso di cospiratore, nes-suno mi propose mai di mettermi nei loro pasticci. Dicoper fortuna, perchè malgrado la mia naturale ripugnan-

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za alla simulazione, alla bugia, al vivere di segretumi e dimisteri, poteva forse accadere che in quell’età di pocogiudizio, invitato accettassi. Però mi par difficile.

Ho benissimo presente che sin d’allora questo farsischiavo in nome della libertà – e pazienza schiavo, comeun soldato, d’un capo ardito, leale, intelligente e cono-sciuto – ma schiavo d’un potere occulto, anonimo, delquale s’ignora i mezzi come il fine, mi pareva, dico, unacontradizione ed una vera duperie.

Allora era più un sentimento che un raziocinio. In se-guito fu l’uno e l’altro; ed ebbe per conseguenza felicel’essermi sempre trovato libero e sciolto da impegni opromesse segrete, nè mai in pensiero che qualcuno me lepotesse con diritto rammentare. Le abitudini di costantefalsità contratte necessariamente nel lungo uso delle sèt-te, sono, secondo me, da porsi fra le cagioni principalidella decadenza del carattere italiano. E di chi la colpa?Degli Italiani? In parte. Ma più de’governi, i quali rese-ro il rifugio nelle sètte inevitabile, date le condizioni or-dinarie dello spirito umano.

Le forze della natura non si distruggono. Se trovanochiuse le vie regolari, si gettano nelle disordinate.

Quando la società è ordinata in modo che la menzo-gna, l’ipocrisia, l’adulazione, la viltà siano le più sicuredifese, come i migliori veicoli verso la fortuna, non è dastupire che le idee morali si confondano e s’oscurino; eche la questione della vita si riduca a cercare d’essere ilpiù forte o almeno il più astuto.

Donde scaturiscono poi tutte le depravazioni: e fraqueste la fatale dottrine dell’assassinio politico; i demen-ti entusiasmi di uomini d’altronde stimabili, per i celebrisicarii; e quell’irrequietezza del pubblico, che quasibrancolando nelle tenebre, cerca rimedio a’suoi mali,come un ammalato, intollerante per lungo soffrire, si ab-bandona agli empirici.

Tuttavia ci vorrebbe coraggio per asserire che l’amor

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patrio, l’amore dell’indipendenza, della libertà, della pa-rità di diritti legali fra cittadini; che il culto, infine, deipiù nobili concetti del genio umano, avessero per unicoloro rifugio la sètta, che a Roma si reclutava allora ingran parte di veri malfattori.

Le più alte idee, i più sacri affetti hanno fra gli uominidi tutte le epoche servito di maschera al delitto: è veritànota ed antica quanto il mondo. I membri di quelle te-nebrose associazioni erano per lo più uomini pieni di vi-zi, incapaci di qualunque sforzo onorevole per farsi unposto nel mondo, quale lo vagheggiava la loro vanità, ela loro sete degli agi e degli splendori della vita. Il farsiapostoli di sètta, usando tutte le jongleries del mestiere,per sedurre, o spaventare secondo i casi, e dominare chiaveva eguali tendenze, ma meno astuzie e meno energiadi loro, procurava una posizione influente, rispettata fragli adepti; pallida immagine, è vero, di quella più altache avrebbero desiderata, ma che aveva pur sempre ilgran merito di non richiedere vere fatiche, e di non esse-re del tutto senza profitti pel loro ben essere materiale.

Qual è l’altare, sia qualsivoglia l’idolo, religioso, poli-tico, sociale, scientifico, che non faccia le spese al suo sa-cerdote?

Credo che questa breve fisiologia delle sètte riprodu-ca assai esattamente la verità, ove però si aggiunga unariserva. Esistono anime appassionate e leali cui manca lasicura guida d’un’intelligenza lucida e pacata. Queste in-felici esistenze spinte da un lato dall’amore d’un belloideale indefinito, mancanti dall’altro d’un sicuro criterioper poter separare le realtà dalle apparenze, il bene dalmale, si gettano sulle tracce di fantasmi e d’illusioni fu-neste; rimanendo vittime della maggiore e più pericolo-sa di tutte, quella di considerare talvolta atto del più su-blime e virtuoso eroismo, ciò che in realtà non è altro senon un esecrabile delitto. Fra gli abissi della corruzionequesto è il più spaventevole.

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Di simili nature ne conobbi parecchie; una fra le altreche merita un ricordo.

Era medico condotto di Rocca di Papa un tal Monta-nari, romagnuolo. L’avevo conosciuto, e l’incontravotalvolta alle feste de’ paesetti, alle fiere, ec. Mi era sim-patico, come in genere mi sono i Romagnuoli. Mi sem-bra che la Romagna è la provincia d’Italia dove l’uomonasce più completo al fisico come al morale.

Come? – dirà lei – e gli scoltellamenti, gli assassini, lesètte, le discordie? – Tutto verissimo; ma mi dica un po’,quand’ella vedesse un uomo condotto giustamente alpatibolo, crederebbe ella che col dire: – Birbante, te lomeriti! – si fosse resa pienamente ragione del fatto? Unadelle questioni più complesse che esistono, è quella del-la colpabilità. E la natura, l’indole, l’educazione, gliesempi, le seduzioni, le illusioni, dove le lascia?

Sarebbe una lunga digressione l’incastrar qui uno stu-dio etnografico-storico della razza romagnuola. Mi limi-to a dire, che io credo nelle differenze di razza fra gli uo-mini, come fra i cani e i cavalli (non seguo, badi,l’opinione che crede l’uomo una bestia perfezionata – alpiù sarà talvolta una perfetta bestia); e mantengo che lastoffa della razza romagnuola è fra le migliori che si co-noscano. Ha nelle vene sangue, e non crema alla vani-glia, come altre che non nomino; e quando c’è sangue sene può cavar del buono.

Montanari era un bel tipo di questa razza. Bruno, al-to, forte di corpo, d’animo ardito ed appassionato. Ungiorno capitai a casa sua. Lo trovo con un volume in ma-no. «Che si legge di bello? « me lo mostra, e vedo il ca-pitolo delle congiure di Machiavelli! Lo lesse, poverogiovane, ma poco gli valse, come dirò or ora.

Mentre me ne vivevo in casa del sor Checco, una seradopo cena si stava per andare a letto. Ecco un rumorelontano d’un legno e di sonagli che si vien accostando, eche dopo un poco si arresta alla porta di strada. Ne

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scende una compagnia di giovani mezzi brilli, de’ qualidue soli conoscevo; ed un di questi era Montanari. Di-cono che sono venuti da me a cena; e mi conviene ar-marmi di pazienza (l’ospite ha de’ noiosi privilegi), ap-parecchiare, e dar loro un piatto di prosciutto e unafrittata, e gran boccali, Dio sa con quanta opportunità.Dopo un’ora, grazie a Dio, partirono.

Era fra essi un tal Targhini, che vedevo per la primavolta; e che un anno dopo, si può dir giorno per giorno,vidi per la seconda in Piazza del Popolo lasciare il caponel paniere della ghigliottina, su quello di Montanariche già v’era caduto.

Targhini era figliuolo del cuoco del papa. Non hoidea che possa esistere una natura più perversa della sua.Fu il cattivo genio della maggior parte di quei suoi com-pagni, e li condusse o al patibolo, o alla carceri, o all’esi-lio. Il povero Montanari fu sua vittima compianta. V’erain lui di che fare un valentuomo; e morì del suppliziodegli assassini. Un tal Pontini aveva tradito, o credevanoavesse tradito, la sètta alla quale tutti appartenevano:condannato a morte, la sorte indicò Montanari comeesecutore, ed egli gli piantò a tradimento fra le due sca-pule un pugnale che gli usciva dal petto.

Si combinò che in quell’attimo, per giuoco del respi-ro, i polmoni fossero vuoti. Il pugnale passò fra essi, fuuna ferita semplice: in poco tempo si trovò sano comeprima.

Data la pena di morte, a Montanari non fu fatto torto.Ma non potei in quel fatto non esser colpito dalla bar-

bara inconseguenza alla quale l’autorità temporale puòspingere l’autorità religiosa. Nessuno dei due si volleconfessare. Giunsero in piazza a mezza mattina, e ven-nero posti in una cappella improvvisata nella casa accan-to alla porta del Popolo; casa che servì poi all’esposizio-ne di pittura. Sino verso sera stettero loro intorno preti,e credo anche monsignori e cardinali per indurli a rice-

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vere i sacramenti. Tutto fu inutile; venne l’ordine ches’eseguisse la sentenza, e morirono.

Secondo la fede cattolica, quali conseguenze dovetteavere una simil fine? E da un altro lato se quel giorno illoro cuore rimaneva chiuso al sentimento religioso, chici dice che non s’aprisse un giorno dopo? Iddio avrebbeconceduto il tempo a costoro; non era ne’ suoi disegniprecipitare quelle anime nel luogo dove il dogma cattoli-co vede morta ogni speranza di perdono; ed era il papa,il quale correggendo la divina clemenza, sì li gettava ine-sorabilmente nell’abisso de’reprobi!

Se qualche cosa potesse far impressione sugli uominidi partito, sembra che casi simili non dovrebbero passa-re inosservati; sembra che dovrebbero svegliare negli in-teressati almeno il dubbio che qualche cosa vi fosse damodificare nel complicato meccanismo della Chiesa ro-mana. Ma la negazione della verità conosciuta è statasempre una delle armi più famigliari all’egoismo, e non èsperabile che esso la voglia gettare oggi per farci piacere.Però tiriamo avanti.

Il principe Spada, compromesso forse da fatti o rive-lazioni del processo di que’ settari, se ne andò, o vennemandato, a Parigi. Ve lo rividi nel 36, ed una secondavolta mi venne a trovare al quartier generale di Bologna,quando si stava per passare il Po nell’aprile 48. Sempreonesto, ma sempre, e più che mai cervello torbido. Miscomparve insalutato hospite, e parecchi anni dopomorì a Parigi.

Non voglio abbandonare Marino ed il sor Checco(questa volta dovrebbe essere per sempre) senza aggiun-gere un fattarello, che mi parve e mi pare ancora caratte-ristico di que’ paesi, ai quali, si può dire, s’è fatto tardinel viaggio verso la civiltà.

Fra i racconti favoriti del sor Checco v’era un certosuo viaggio alla Madonna di Loreto, eseguito molti anniprima, e, sembra, poco dopo quella famosa sua campa-

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gna anonima a tempo di repubblica. Non mi stupirebbeche questa gita presentasse, quanto al movente, grandeanalogia con quell’altre gite più lunghe e più pericoloseche conducevano i nostri padri al Santo Sepolcro. Forsene’due casi la risoluzione nacque dal desiderio di rimet-tere il bilancio nel libro mastro che tutti portiamo connoi. Avrei una gran curiosità, lo confesso, d’avere sottogli occhi per cinque minuti la colonna Dare del libro delsor Checco; curiosità che oramai nessuno si potrà maicavare, però pazienza!

Comunque stia la cosa, ecco quello che egli racconta-va:

«Da un pezzo avevo fantasia d’andare alla Santa Casa.Una sera gli dico al compare Matteo: – Jamo alla Ma-donna di Loreto –.

»E lui mi risponde che è contento. Facciamo unacompagnia. Erimo cinque, e si prende una carrettella.Quattro dentro, uno in serpa.

«C’era un tale (ora è morto) che era matto. Lo presi-mo con noi per provare se la Madonna gli voleva far lagrazia. Si parte, e per strada non se ne poteva far bene:urli, manate; o si buttava addosso, o voleva buttarsi dal-lo sportello. Non aveva paura che di me, e io gli coman-davo: Ora di’ quattro volte il Miserere – e quando avevafinito: – Ora di’ 24 Pater noster – e così lo tenevo quietoalla meglio. Quando siamo passato Foligno, vicino agliAngeli, eccoti che si butta dal legno e si mette a correre,e noi giù, e dagliela a gambe per riprenderlo. Ma che vo-levi riprenderlo? era come voler arrivare un lepre. Poisalta nella campagna, si mette per un granturco, e buonanotte, chi s’è visto s’è visto! Passava una compagnia diciociari (tornavano dal perdono d’Assisi). Glie dico: –Aiuto, ragazzi, a ripigliarlo e ci sarà da bere! – Mi s’ac-costa un ciociaro vecchio di settant’anni, e ghignava.Damme ‘no scudo e te lo ripiglio io! – e non si moveva.– E come lo ripigli, che sei vecchio, quello corre, e nem-

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meno ti movi? – Tu non ci pensare. Me dài uno scudo ete lo ripiglio. – Te darò lo scudo, che sii acciso! Vedia-mo. – Il vecchio va sul capo del solco dove era scompar-so el matto, e vedo che si ferma e borbotta una certaorazione!... Non passa un quarto d’ora, eccoti l’amico!come non fosse fatto suo, rimonta in legno... era comeun agnello!»

«E come aveva fatto?» domandai io.«Eh!» rispose il sor Checco scuotendo il capo con un

risolino misterioso, «Fatto! fatto! Aveva fatto! Eccola lì.Li ciociari ne sanno.... ma di ‘ste cose è meglio non nediscorrere.... e io ci rimessi uno scudo!»

Ometto il resto del pellegrinaggio come poco interes-sante.

Non si deve da questo inferire che vi siano molte su-perstizioni fra le popolazioni agricole, ed anco cittadinedi que’ paesi. Quella di credere che gli abitanti delle ci-me dell’Appennino sono tinti di negromanzia, è una del-le poche e sembra d’antica data.

Benvenuto Cellini narra d’un tal prete mago che vole-va condurlo seco a consecrare un libro magico ne’ mon-ti di Norcia, e che gli assicurava essere que’ villani capa-ci d’aiutarli, perchè di tale cose intendenti.

E neanche di queste magíe alpine non ne sentii maifar parola da persona, salvo quella sola volta dal sorChecco. Quanto poi ad apparizioni, folletti, stregonerieec., ed a tutta quella popolazione fantastica che abita leregioni settentrionali, non ne ho trovata traccia. Questecreazioni, figlie delle lunghe notti e delle nebbie iperbo-ree, non appaiono sotto gli stellati sereni de’ nostri cli-mi. E sempre al solito, nel mondo fisico come nell’intel-lettuale, le tenebre insegnano l’errore, e la luce mostra laverità.

Lasciai dunque Marino e mi separai dal sor Checco,dalle due vecchie, dai giovani; dei quali nessuno, salvo lasora Nina, dovevo più rivedere. Dopo ventun’anno ri-

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tornai di passaggio a Marino, e bussai alla porta dellamia antica dimora. Mentre aspettavo che mi s’aprisse,notai dall’altra parte della strada una donna mezza vec-chia che richiudeva la porta d’una cantina dalla qualeusciva con un boccione di vino.

Era la sora Nina! Me le accostai, e credetti accorger-mi che non mi riconosceva.

«Sora Nina, non mi conoscete?»«Sete el sor Massimo.»«E’l sor Checco?»«È morto».«E la sora Maria?»«È morta.»Nominai tutti di casa, e ad ogni nome rispose col suo

sguardo sereno è morto o è morta, a norma delle con-cordanze.

Poi io a guardarla lei, e lei a guardarmi me, e zitti tut-ti e due. M’accorsi che la reconnaissance non era perpresentare le emozioni che vi sanno trovare i romanzieri.

«Sora Nina, stateve bene.»«Stateve bene, sor Massimo.»Tale fu la chiusa della nostra relazione di venticinque

anni, e me n’andai dicendo maledetta patata, in formad’epifonema.

A Roma intanto, morto Pio VII, era stato eletto Leo-ne XII.

Ad ogni morte di papa la popolazione di Roma è pre-sa in massa da un’indicibile allegrezza. Non sempre perodio contro il defunto, bensì per la dolce prospettivadell’imminente estrazione d’un gran lotto, al quale tuttihanno messo, e che rigurgita di premi d’ogni valore. Ilmaggiore di tutti non può essere vinto che da un cardi-nale; ma ogni cardinale ha una coda che non finisce mai,ed il loro complesso abbraccia tutta la città, ed in partelo Stato. Ogni individuo spera sul suo cardinale e si pa-sce di mille illusioni.

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Come non essere allegri in condizioni simili?Le speranze e le illusioni non procurano forse all’uo-

mo i suoi più felici momenti?Per me ho sempre creduto che sono i soli beni reali.

Alla prima pare un paradosso; a pensarci si trova che èvero.

In quest’occasione l’allegria si raddoppiava nelle altesfere della gerarchia clericale, pel gran motivo che nonfiniva soltanto il regno d’un papa, ma cadeva l’altro piùreale, e più impazientemente sofferto, del Segretario diStato cardinale Consalvi.

Quest’uomo ragguardevole per le sue qualità, pel suocarattere, pe’ servigi importanti resi alla Santa Sede inmomenti gravissimi, figurava anche di più pel contrap-posto colla maggior parte de’ suoi colleghi. La superio-rità, ch’egli poco cercava dissimulare, veniva quindi afarsi più pesante, e chi se ne sentiva oppresso provavaora il senso dell’amor proprio o della lunga invidia ven-dicata, quanto d’una sospirata emancipazione.

Come sempre accade, chi non aveva più nè timore nèbisogno dell’antico ministro, non si rifiutava il piacere difarglielo sentire.

È inutile ricordare che ogni segretario di Stato finiscecol papa che l’ha nominato. In quest’occasione, nessunopoteva supporre che il nuovo papa intendesse derogarealla consuetudine stabilita.

Consalvi e Della Genga non potevano, a detta di tutti,essere amici. Si raccontavano molti aneddoti, ed uno fragli altri, che dirò come fatterello che allora correva; mami guardo bene dal guarentirlo.

Si diceva che, volendo togliere a monsignor DellaGenga non so quale ufficio, gli dicesse asciutto asciutto:– Monsignore, da questo momento sono cessate le suefunzioni, – senza prendersi pensiero di rendere menoamara la pillola.

Vera o non vera la cosa, il giogo del cardinal Consalvi

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non fu nè soave nè lieve, come fu altrettanto appassiona-ta la reazione che gli si dichiarò contro, appena mortoPio VII.

Chi considera imparzialmente il carattere e la vita diquell’uomo, non può chiuder gli occhi alle qualità di fer-mezza, d’onestà, di prudenza che lo fregiavano. I suoierrori erano, più che suoi, del tempo, erano dell’educa-zione, e soprattutto dell’ambiente nel quale avea dovutocontinuamente vivere.

Nel giudicare gli uomini d’ogni età, troppo spesso sitrascurano affatto questi importanti elementi del pro-cesso; e date le passioni di parte, si trascurano più chemai giudicando i membri della Curia romana.

Consalvi, come molti altri, non sospettò neppure lanatura del gran movimento moderno. E questo fu il suovero errore.

Nella rivoluzione non vide che il 93. Nel congresso diVienna non vide che un atto della divina misericordia,mossa a cicatrizzare le piaghe dell’Europa. Come lamaggior parte de’governi d’allora, vide il rimedio nellarinnovazione di quelle cause medesime che avevanoprodotto il male.

E se un senso intimo, un lampo di senno pratico l’av-vertiva non esser però supponibile che un così profondotramutamento d’idee, di cose, di uomini, potesse esserepassato senza lasciare una traccia degna di venir tenuta acalcolo; non ebbe però bastante altezza di mente (ecco ifrutti dell’ambiente!), nè bastante indipendenza di pen-siero per ben giudicare il suo tempo.

Le tracce veramente indelebili della rivoluzione nonle seppe vedere. Imitò invece il concentramento, che ful’arme necessaria del despotismo rivoluzionario e napo-leonico, ma che non poteva essere il perno d’una societàrinnovata.

Ridusse nella sola Roma tutta la vitalità delle provin-ce. Che poi Roma, ne’ pontificati successivi, dovesse

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avere in sè forza, virtù, energia bastante da governarle,egli forse lo potè sperare, ma in tal caso l’istoria degli ul-timi ventisei anni dello Stato papale ha tristamente delu-se le sue speranze.

Malgrado tutto questo, se si considera dove era nato,e come educato e vissuto, si dovrà sempre contarlo fragli uomini notevoli de’ tempi nostri.

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CAPO VENTESIMOSETTIMO

SOMMARIO. – Il cardinal Marozzo, mio zio – Rifiuto le sueofferte di danaro – Gli raccomando un abatino, perchè lo creisuo dapifero nel tempo del conclave – Curioso equivoco – Usiromani, alla morte del papa, in tempo di sede vacante, e dopola creazione del nuovo pontefice – Nell’inverno del 1825 lavo-ro molto, e dipingo la morte di Montmorency – Mi spaventodel giubbileo ordinato da Leone XII, e scappo a Torino daimiei – Vi arriva anche il mio Montmorency; e piace a Torinopiù ancora che a Roma – Mio padre mi propone di farmi nomi-nare gentiluomo di bocca; ma fortunatamente non ne fu altro –Presentazione del mio quadro al re Carlo Felice – Esempio delpoco pensiero che si danno i principi, anche buoni, degli altruifastidi – Faccio nella state del 25 una gita nelle regioni alpine;ma me ne stufo presto – Mio padre afflitto da punture dome-stiche ed esterne – Egli fa parte di una delle molte società cat-toliche allora fiorenti a Torino – Il governo la scioglie con pocogarbo – Ingratitudine del governo, e degli antichi compagni,per mio padre – Lunga lettera di questo a mio fratello Robertosopra questi accidenti.

Io che sempre ebbi l’istinto di studiare gli uomini, leloro passioni, i loro vizi come le loro virtù, e di vederecose nuove, ero venuto a Roma alla morte di Pio VII perosservare da vicino quel gran movimento romano.Un’altra cagione mi muoveva. Il mio prozio, fratello dimio nonno, il cardinal Morozzo, vescovo di Novara,s’era condotto a Roma per assistere al conclave, ed eranaturale che venissi a fargli riverenza.

Lo trovai alloggiato in casa del cardinale De Grego-rio, suo antico ed intimo amico; uomo d’una fermezzaincrollabile, che aveva accettate le prigioni di Napoleo-ne, ma non mai le sue lusinghe, e molto meno tremato aisuoi sdegni. Le sue opinioni politiche avrebbero fattosembrar giacobino l’attuale monsignor De Merode. Lanatura sua, il suo tratto erano di perfetto gentiluomo, enon v’è sorta di gentilezza che non mi abbia usata du-

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rante gli anni che passai in Roma. Ero a pranzo da luiogni settimana una volta; m’invitava a Casal de’ Pazzi,infelice sua creazione a poche miglia fuor di porta Pia, edi queste sue amorevolezze gli serberò sempre viva gra-titudine. La gratitudine non è una questione di politica;ma purtroppo la politica alle volte è comoda per servirdi pretesto all’ingratitudine. Se quell’ottimo vecchioavesse potuto sapere che alla sua tavola sedeva l’autorefuturo degli Ultimi casi di Romagna!...

Mio zio, che di più mi aveva battezzato, mi usavaamorevolezze che nella sua natura poco dimostrativaerano di maggior valore. M’offrì persino di restaurare lemie finanze, ove per caso fossero in posizione spinosa.

Quanto a questo, essa era spinosissima, e ciò nono-stante, ringraziai senza accettare.

I miei amici mi fecero osservare che ero un imbecille!Imbecille, rispondevo io, è quello che, potendo procu-rarsi onestamente un bene, non se lo procura. Ma laquestione sta nell’idea del bene. C’è il bene morale ed ilmateriale, e per conseguenza due specie di piaceri. Seper me il piacere di far buona figura, di mostrarmi di-screto, di carattere delicato, supera quello di avere qual-che scudo di più in tasca, ci rimettete forse qualche cosadel vostro?

Argomento magnifico, che serviva soltanto a farmiconfermare il mio titolo d’imbecille.

Fra i miei amici però si venne così a conoscere tre fat-ti importanti: 1° che mio zio mi voleva bene; 2°che que-sto zio era cardinale; 3° che io potevo per conseguenzaessere più o meno corpo conduttore per le raccomanda-zioni.

La prima mi fu proposta da una signora che aveva unparente sul limitare della carriera ecclesiastica. Mi presea parte una sera in casa sua, ove capitavo spesso e me neparlò.

Qui conviene premettere una spiegazione.

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Nel conclave non s’usan cucine; ma siccome pranzarebisogna, ogni cardinale fa preparare in casa sua le vivan-de per sè e per la sua famiglia – poca gente, s’intende; ilconclavista ed un cameriere o due, se non erro; – e que-sto pranzo viene trasportato dalla casa del cardinale alconclave, in una cassa coperta d’un panno pavonazzo,specie di barella portata da due servitori in gran livrea.Precedono quattro o sei altri servitori in gala, e seguonodue carrozze cardinalizie vuote. Guida di questa proces-sione gastronomica è un chierichetto qualunque che en-tra in carriera, e che così comincia a tentare di procurar-si la protezione d’un cardinale. Si capisce che il posto siaricercato. Siccome l’ufficio consiste unicamente nel por-tare le vivande, e che in latino portare si traduce ferre, evivande si traduce dapes, cosi il suo titolare porta il no-me di dapifero.

Tutta questa erudizione io non l’avevo, non essendo-mi trovato mai a nessun conclave, quando quella signorami raccomandava il suo prediletto abatino: e si può im-maginare la mia meraviglia quando mi sentii dire: «Voi,Azeglio, che avete qui vostro zio, dovreste interessarviper vedere se fosse possibile che Francesco gli facesseda-piffero!»

Io le detti una guardata, e le risposi ridendo:«Oh che volete che ne faccia?»«Come? Tutti i cardinali ne hanno uno per portare il

pranzo in conclave.»«Questa davvero è nuova! E glielo portano col piffe-

ro?»«Ma no.... Che vi viene in mente?.... so assai come li

chiamano in latino.... insomma mi pare d’aver capito da-pi-fero....»

E qui chiamato in soccorso uno degli astanti che nesapeva più di noi, si venne in chiaro di tutto. Io ottenniil sospirato onore per l’abatino; ed è questa una delle

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pochissime volte, dacchè vivo, nelle quali la mia prote-zione non fece fiasco.

In Roma, il bel sesso in ispecie, non avendo studiatonè latino nè greco, cade spesso in curiosi equivoci.Quell’istessa signora mi domandava un giorno notiziedel gran Paramano, che era arrivato da Pariggi, e che leavevano tanto vantato. Io sul primo non potevo capireche cosa mai fosse un Paramano spedito da Parigi. Sitrattava poi d’un Panorama. La differenza era poca.

Le circostanze che accompagnano la morte del papameritano che ne dica due parole. Gli usi, le consuetudi-ni, come gli abusi e le tradizioni semibarbare del medioevo, sono scomparse dappertutto meno che in corte diRoma. È naturale: essa teme il presente, e s’attacca alpassato per istinto di conservazione. Quando il Papa èagli ultimi, e che è evidente l’impossibilità d’un ritornoindietro, tutti i legami che tenevano uniti a lui i suoi fa-migliari più intimi, si spezzano. Gli interessi si scatena-no. Non c’è tempo da perdere. Si tratta d’ore, e forse dimeno. Bisogna profittarne. Quindi ognuno a prendere emettere in salvo quello che è suo, ed anco quello chenon è suo. Carte gelose, gioie, moneta, robe; è un si salvichi può generale, e molte volte l’infelice vecchio muoresolo.

Così accadde a Gregorio XVI. Cito le parole d’unmio amico, che credo veridiche:

«Un povero lavorante del giardino di Belvedere chevoleva bene al papa, il quale, passeggiando, s’era ferma-to più volte a parlare con lui e gli aveva regalato qualchemezzo scudo, seppe che il papa era agli ultimi. Questopover’uomo si mise in cuore di volerlo ancora rivedere.Trova aperta la scaletta segreta, sale, arriva a un gabinet-to. Bussa, nessuno! S’avanza incerto. Trova un’altraporta, entra in una camera. Nessuno! Apre una terzaporta, si trova nella camera del papa, e lo vede che sulcapezzale aveva un monte di guanciali; ma volendosi

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forse aiutare in una soffocazione, s’era piegato tutto suun lato e stava col capo a penzolone fuor della sponda.Il povero giardiniere si slancia per aiutarlo, e alla megliolo rimette nel letto a dovere. Poi lo chiama, lo tasta, e lotrova freddo!... Allora si getta in ginocchio, piangendo,e recita un De profundis per il morto papa. Entra inquella uno de’ suoi famigliari, che doveva tornaredall’aver messo roba in sicuro: si stupisce, lo sgrida, lominaccia se mai parlasse, e lo caccia. Ma il giardiniereparlò.»

Quello poi che è più strano, mentre sono possibili si-mili atrocità nel servizio interno del papa, le anticameredel palazzo rigurgitano di guardie nobili, di Svizzeri, disentinelle, e monsignori e uscieri e servitori, ec. ec. ec.Roma apparente, e Roma vera, sarà sempre il grande ar-cano per chi non l’ha praticata a fondo e per anni ed an-ni, ed il non saperle distinguere è l’origine di tutti gli er-rori di chi tratta ora la questione romana.

Morto il Papa, è avvisato il cardinal camerlengo che sipresenta con altri prelati. Chiama a nome il Papa tre vol-te; e siccome non ottiene risposta, gli vien presentato suun piatto un martello d’argento col manico d’ebano, colquale percuote tre volte la fronte del cadavere. Con ciòs’intende provata la morte del papa, ed è annunziata pri-ma al Senatore di Roma, chiamato dall’anticamera dovestava aspettando. Si rompe l’annulus piscatoris, e il Se-natore allora dice: Io prendo dunque il comando di Ro-ma; ma in effetto non lo prende niente affatto; e si con-tenta, tornato in Campidoglio, di ordinare che si suoni ilcampanone della Torre, al quale fanno eco tutte le cam-pane della città.

Dopo ventiquattr’ore, il cadavere portato in una ca-mera nuda, col pavimento coperto di segatura alta unpalmo, è steso su un tavolato. S’apre, s’estraggono ilcuore e i precordi, che posti in un vaso, son deposti aSant’Anastasia; poi s’imbalsama il corpo, si riveste de’

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paramenti pontificali, e con gran pompa è portato giùper le scale in San Pietro, ed è deposto nella cappella delSacramento.

Alla morte di Leone XII corsero voci sinistre sulla suafine. Ma non mi riuscì formarmi nessuna idea che credapoter dare per vera, o per molto verosimile. Relativa-mente a Pio VII e Pio VIII non si disse nulla.

Quella specie di saccheggio che ho accennato mentreil Papa è in agonía, bisogna dire (per esser giusti, manon per giustificarlo) che è in qualche modo nelle tradi-zioni del medio evo e romane. In certe occasioni era am-messo o tollerato. Per esempio, la casa del cardinalecreato papa era svaligiata: ed un ultimo resto diquest’usanza vive ancora oggidì. Della carrozza del car-dinale eletto se n’impadroniscono gli Svizzeri. Il coc-chiere spezza la frusta e scende di cassetta. Ora però ilpapa nuovo ricompra il tutto mediante 200 scudi.

Le esequie d’un papa presentano quel carattere arti-stico, un po’ teatrale che distingue tutte le cerimonie delculto cattolico: durano nove giorni e sono dette i noven-diali. Per tre dì consecutivi il cadavere sta esposto suuno strato inclinato nella cappella del Sacramento, vesti-to de’ paramenti pontificali col volto scoperto ed i piedia contatto della cancellata che lo separa dalla chiesa. Ilpopolo, curioso o devoto, passa baciandoli. Ogni giornov’è una funzione funebre. Sta in mezzo alla gran navataun grandissimo catafalco, che giunge fino all’altezza delcornicione.

Finiti i novendiali, comincia immediatamente il con-clave, al quale succedono le cerimonie dell’esaltazionedel nuovo papa.

Tutto allora prende un aspetto di festa.I cardinali, le loro corti, i vescovi, i monsignori, i fa-

migliari d’ogni classe, mutano il nero ed il pavonazzonel rosso, nel bianco, nella ricchezza degli ori, de’ rica-mi; compaiono sulle mura delle chiese i più splendidi

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addobbi e i ricchi paramenti destinati a quest’occasionecoprono gli ufficianti. Così il nuovo papa, quand’anchenon gli venisse bruciata dinnanzi la stoppa allegorica,col ricordo sic transit gloria mundi, avrebbe sotto gli oc-chi una lezione abbastanza severa. Egli può esser certoche l’allegrezza medesima scoppierà alla sua morte. Sa-rei curioso di sapere, se a molti papi si presenta in quelmomento alla mente un tal correttivo.

Nel caso che descrivo, doveva venire un momento in-teressante. Io che desideravo esserne spettatore, mi cac-ciai il meglio che potei tra gente e gente, e riescii a met-termi in modo da veder tutto.

In una delle cerimonie, il papa sta seduto in trono infondo alla chiesa, ove si vede la gran cattedra sostenutada quattro colossali vescovi di bronzo.

Il cardinale ufficiante all’altare posto sotto la Confes-sione deve portare al papa non mi rammento precisa-mente che cosa, ch’egli ha fra le mani, coperta d’undrappo d’argento.

In quest’occasione l’ufficiante era il cardinal Consal-vi. La distanza è notabile; di qua e di là seduto il SacroCollegio, cogli sguardi (benevoli!) fissi in lui, studiandola sua fisonomia, il suo contegno, la sicurezza del suopasso. Era veramente un passar per le picche.

Egli n’uscì bene e ad onor suo, ma a me sembrava ve-der sotto il suo viso pallido ed impassibile (se pur nonera immaginazione) i segni di uno sforzo immenso, e mivenivo dicendo: – Basta che non caschi morto primad’arrivare! –

Non mi stupirebbe però che in quel tragitto avesse ri-cevuto il colpo mortale che pochi mesi dopo lo tolse dalmondo.

Chi conosce a qual grado d’intensità possano giunge-re certe passioni ne’ cuori de’ preti, appunto per la vio-lenza continua colla quale debbono venir ripercossesull’interno; chi conosce sotto qual velo di serena man-

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suetudine debbano covare celate le più ardenti ambizio-ni, le ire più tenaci, le più sospirate vendette, forse nonsarà lontano dal dividere la mia opinione.

Pochi mesi dipoi, passando davanti a San Marcello,vidi che si faceva un gran funerale. Entrai e scorsi stesosul suo ultimo letto il cadavere del cardinale Consalvi.

Sembra che per lui sarebbe stato meglio morire unanno prima. Ma chi può scandagliare questi misteri!

L’inverno del 25 lo passai lavorando a tutto potere.Oramai mi trovavo avere un discreto capitale di studio,e di studi dal vero; mi sembrava di potere affrontare legrandi difficoltà senza troppa presunzione, e mi misi inanimo di far qualche opera grande (nel senso della di-mensione, s’intende) e di genere un po’ nuovo. La scuo-la fiamminga, olandese, che regnava allora in Roma, nonpopolava i suoi quadri d’altro che di pastori e bestiami.Io chiamai in mio soccorso una colonia di paladini, ca-valieri e donzelle erranti. In letteratura non era una no-vità; nella pittura di paese lo era.

Scelsi un soggetto del Malek Adel di M.Cottin: – LaMorte di Montmorency; – e cominciai a pensarvi il gior-no, a sognarmelo la notte, mi diedi a fare schizzi, bozzet-ti, prove e controprove, finchè venne a luce un bozzettoche trovai accettabile: e comprata una gran tela, mi posiall’opera con tanto furore, che quasi dimenticai persinoquell’amore maledettissimo.

Fondavo su questo quadro di gran castelli in aria. Erail mio pot au lait.

Uno de’ primi pensieri di papa Leone era stato dipubblicare il gran giubbileo universale per l’anno 25; laqual cosa significava, Roma trasformata per dodici mesiin un gran stabilimento d’esercizi spirituali. Non teatri,non feste; non balli, non ricevimenti, neppure in piazza iburattini; ed invece prediche, missioni, processioni, fun-zioni, ec.

Eh eh! c’era motivo a mature riflessioni! Non ch’io

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fossi portato allora, come non lo fui mai, per quelle sec-cature, che la società chiama divertimenti; ma alla finequella malinconia, e peggio, quell’ipocrisia universaleera un passatempo che poco mi tentava. Bisognava sen-tire i giovani, i militari, gli impiegati, messi al bivio di ri-metterci il posto o cantar misereri, che moccoli attacca-vano in via preventiva. V’era da farsi un’idea di quelloche sarebbero stati all’atto.

In somma era una trista commedia; e non volendoviassistere, risolsi di scegliere quell’anno per far una visitaai miei parenti a Torino, e portar loro un saggio di quelpoco che avevo imparato.

Finito il mio quadro e messolo in mostra (privata-mente però, nel mio studio), ebbe un vero incontro, e fi-no ad un certo punto lo meritava. C’era molta novità,composizione grandiosa, colore, effetto. Lo vennero avedere i giovani dell’arte, ed anche parecchi barbassori;ed insomma nell’insieme piacque.

Fattolo incassare, lo spedii per Genova a Torino; edio mossi per Firenze, in compagnia d’un certo monsi-gnore, mezzo pazzarello, mezzo originale, uomo però digrande ingegno. Egli faceva all’amore nell’istessa fami-glia dove ero impiegato io; s’era quindi stretta fra noiuna specie di società di mutuo soccorso per vegliare suinostri interessi.

S’io avessi da narrare tutte le diavoleríe eroi-comichee semi-tragiche che nacquero da quella nostra partiecarrée, n’avrei per un pezzo. Ma da tutti questi amori,spremi spremi non n’esce nulla; e come già dissi, li rac-contino altriPerò questa la voglio dire. Mentre si viag-giava in poste verso Firenze, una mattina appena l’alba,vidi il mio prete rincantucciato che pareva tenersi un vo-lumetto dinanzi agli occhi.

– Che dica l’uffizio! Diavolo!...-Allungo il collo, e vedo che non era un libro, ma un

portafoglio, col ritratto di madamina!

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A Torino trovai i miei parenti, che m’accolsero conquell’amore e quelle feste che si può immaginare. Com-parve, come a Dio piacque, anche il quadro sano e salvo.Lo rizzai in una camera ad una discreta luce; lo videro imiei e parecchi amici, e se a Roma aveva fatto incontro,a Torino sembrò una meraviglia.

Il mio buon padre si persuadeva che tutti i diamantidi Golconda non valevano il mio quadro.

Egli immaginò tosto di volerlo presentare al re alloraregnante, Carlo Felice, ed intanto ottenne che mi venis-se data una delle sale del palazzo Madama, ove posi inmostra il mio lavoro con tutti quegli aiuti di tele scureche s’usa, accomodate in modo da dare al dipinto il mi-gliore effetto possibile.

Cominciò il concorso del pubblico e la fortuna andòsempre crescendo. Io n’ero felice, più che per me, per laprofonda soddisfazione che scorgevo in mio padre e inmia madre. Oltre a ciò non mi pareva vero di mostrare atutta quella mia parentela, che alla fine anche col pro-prio cervello e col proprio lavoro si poteva riuscire a far-si un po’ di largo, senza necessità d’esser ciamberlano oscudiere.

Con tutto ciò, sfuggire totalmente all’ambiente delpaese e della mia classe era impossibile.

Mio padre era nelle loro idee senza però esagerarle.Sollecito del mio avvenire, egli credeva potesse esser-

mi utile l’attaccarmi in qualche modo alla corte. A vede-re quanti cercano ora di farne parte, non fa meravigliache egli allora lo credesse opportuno.

Fatto sta che un giorno mi propose di procurarmi unposto di gentiluomo di bocca.

Mi cadde il cuore in terra. Io a corte! e gentiluomoproprio di bocca (che ha non so che ufficio sui piatti e levivande), mi pareva una tal desolazione, che non mi cipotevo adattare.

Dall’altra parte dir di no a mio padre, contadire alle

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sue idee, non ne avevo il coraggio; e difatti non l’ebbi, edissi di si. Ma lo dovetti dire con tale evidenza di ripu-gnanza, che la cosa andò fredda, e in appresso venne di-menticata, e non se ne parlò più.

La mia entrata in corte doveva accadere sotto altraforma, e per altre cagioni ventun’anno più tardi.

Quello però che non potei evitare, fu d’andare a cortecol mio quadro, e di presentarlo io stesso al re.

Fra quadro e cornice era un peso discreto; ma sicco-me in fatto di belle arti, la corte nostra era ed è un po’arretrata, nessuno aveva avuta la pellegrina idea di pre-parare un cavalletto per posarvi su il quadro.

Ammessi dov’era Carlo Felice, i due accoliti in abitonero, che non senza fatica portavano il quadro, conven-ne per necessità che rimanessero tenendolo ritto sullebraccia, mentre il re riceveva mio padre e me con qual-che cortese espressione; e poi a poco a poco con tuttocomodo volgeva gli occhi al quadro, e si veniva acco-stando per considerarlo meglio.

Uno dei due portatori era un mio cameriere romano,grasso, di poca fibra; e siccome mai principe al mondo,per quanto buono, s’è incaricato del calcolo delle resi-stenze de’ muscoli umani (degli equini, sì), neppure allo-ra il re se ne dava pensiero. Veniva quindi guardando ilquadro a tutto suo agio; ed io vedevo che il mio poveroRomano, gonfiato e rosso com’un polmone, co’ goccio-loni di sudore per il viso, balenava; e pensavo: – A mo-menti eccoti il quadro in capo al re, ed il re che m’escedall’altra parte come i saltatori co’ cerchi di carta. –Davvero che andò ad un pelo che non finisse propriocosì; ed io dovetti soccorrere le braccia stanche, finchèvennero licenziati i portatori; e poco dopo venni licen-ziato anch’io.

Entrando la state, il mio buon padre, contento assaide’ fatti miei, mi disse che me n’andassi un po’ al fresco;ed io feci un giro a Cormayeur per il San Bernardo, e

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qualche po’ di Svizzera; ma pioveva sempre, faceva fred-do; ed io avvezzo a sentirmi come il pesce nell’acquasotto il sollione della campagna di Roma, mi parevad’esser finito come Ulisse nel paese de’ Cimmèri. Un belgiorno poi mi vennero talmente a noia le pioggie, le neb-bie, i monti e gli Svizzeri, che mi facevano pagare persi-no un respiro, ch’io gli mandai al diavolo di cuore; e pelSempione non mi fermai più, finchè non mi sentii scot-tare il cranio dal sole italiano.

Giunto a Torino, mi vi trattenni qualche tempo. Infin de’ conti ero venuto da Roma per stare coi miei enon per correr le poste.

La morte di mio fratello Enrico, avvenuta un annoprima, stendeva ancora sulla famiglia un velo di tristez-za. Già ho dati alcuni cenni sull’esistenza travagliata diquel bravo giovane. La lotta morale fra il desideriod’una perfezione vagheggiata e la fralezza d’una naturanervosa, impressionabile, e quindi poco capace di co-stanti propositi, l’aveva condotto lentamente alla tomba.Mio padre confidente delle sue ansie, de’ suoi sforzi, de’suoi scoraggiamenti, aveva dovuto assistere alla loroazione distruttiva, senza aver modo di farle contrasto.

Io avevo trovato in esso un fondo di malinconia, eduna riserva ne’ modi che non era sin qui stata nelle sueabitudini.

Mio fratello maggiore, dopo un soggiorno a Parigi dialcuni anni, per dar campo che svanisse intanto l’im-pressione de’ fatti del 21, era ritornato in famiglia.

I due suoi figli fatti grandicelli erano cari ragazzi; ilpadre s’occupava d’istruirli e d’educarli collo zelo co-stante e continuo che ispira il senso del dovere. Le cosedi casa, come si vede, andavano quietamente; ma purtroppo se il tempo, la riflessione, il senso morale consi-gliano la concordia ad opposti caratteri, e se nell’appa-renza spesso l’ottengono, non bastano a creare quelloche si suol dire il buon sangue; e senza questo, la convi-

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venza può bensì esistere e durare; sarà un atto di virtù,sarà un’opera meritoria, utile; ma non sarà mai un piace-re.

Io che sempre fui di carattere quietamente allegro, miconoscevo ottimo elemento per entrare in mezzo a que-ste repulsioni e neutralizzarne l’effetto.

Mio padre poi anche di fuori di casa riceveva immeri-tate punture.

Le sue opinioni ferme sempre ed irremovibili, nonerano per lui semplicemente speculative. Egli ne cercavail trionfo coll’opera, cogli scritti, con tutti i mezzi accet-tabili per un uomo onesto: per esse, come vedemmo,aveva sacrificato tranquillità, sostanze, ed esposta la vita.Parlando d’un par suo, sarebbe ridicolo l’aggiungereche non aveva mai cercato di farsene scala ad onori oprofitti di nessun genere.

Dopo la restaurazione del 1815, molti le professavanoper moda, ed anche più per speculazione. Dalle vicendedel 21 era nata una recrudescenza di zelo; ed io avevotrovato Torino pieno di società cattoliche, ove si pagavaun’inezia, ma che servivano a far popolo e tenere strettoil fascio gesuitico. Mi faceva ridere veder certe delle no-stre dame pagar il loro quattrino, e stare con aria tuttacompunta in società, mentre m’era accaduto vederle inaltri momenti con occhi e visi tutt’altro che mistici.

Mondo!La rettitudine di mio padre era spinta al punto di ren-

dergli impossibile il sospettare in altri doppiezza. Fuquesto nobil difetto uno de’ pochi che in lui si notasse-ro.

Egli s’era venuto formando una compagnia di amici econoscenti che professavano le sue massime; erano co-stituiti in società, tenevano sedute, discutevano degli in-teressi della loro parte, deliberavano risoluzioni, ec. Ipiù di questi zelanti si tenean fortunati di riparareall’ombra della indiscutibile lealtà di mio padre i loro

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giochetti. Ma o questi andassero tropp’oltre, o qual’al-tro ne fosse il motivo, fatto sta che al governo entrò insospetto la società, e senz’altri preamboli la sciolse.

Una simile disposizione, e la sua acerba forma, feriro-no profondamente mio padre. Il suo carattere come isuoi servigi meritavano certamente maggiori riguardi:ma in tutti i governi italiani che si sono succeduti, questanon fu mai la parte brillante.

L’aspettava però un disinganno ancor più amaro,quello di rimaner solo, isolato, e messo da parte da’ suoiamici; i quali, appena accortisi esservi precipizio in ciòch’essi stimavano scala per elevarsi, lo rinnegarono contutto lo zelo che in simili occasioni distingue gli scanna-pagnotte.

Potrei dir il nome di qualcuno di costoro; e citarneuno, reso chiaro da altri che meglio meritava di portarlo:ma che pro? Riuscirei con ciò a distruggere il seme dicodesti vermi?

Questa circostanza era fatta apposta per essere di pa-ragone al carattere di mio padre. Egli non si lagnò nèdella sentenza nè della sua forma; ma non si sentendocolpevole, non discese a cercare assoluzioni, o ritorno ingrazia. Ubbidì e tacque.

Quello che sentisse verso que’ suoi miserabili compa-gni, nessuno potè conoscerlo; ma il suo sangue, caldocome quello d’un giovane, ed il suo animo sdegnosod’ogni viltà, dovettero certamente muovergli terribili as-salti.

Per fortuna ogni atto di virtù trova la sua colonna su-gli eterni registri di Dio.

Il governo (credo averlo già detto) non avea mai tenu-to gran conto di mio padre: o per essere più esatto ne te-neva troppo conto, perchè i ministri e gli altri gros bon-nets amassero averlo tra’ piedi. In ciò monarchici orepubblicani o misti che sieno, tutti i governi si somi-

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gliano. Amano che si sia galantuomini, ma.... ne quid ni-mis.

Negli ordini burocratici moderni regna poi dalla cimaal fondo una massoneria tutta loro, che veglia sugl’inte-ressi comuni, ed è piena di ripieghi. Essa mostra i suoitalenti specialmente in questi casi: quando si tratta di fartrovare tutte le vie, tutte le porte chiuse all’uomo chenon ha altro peccato se non la troppa onestà. Di qui poile meraviglie de’ gonzi. – Par impossibile un galantuomocome X*** non impiegarlo! – Furbi!

Era naturale che questa tacita congiura avesse con-dannato mio padre, e datogli l’ostracismo maggiore la-tae sententiae. I due re Vittorio Emanuele I e Carlo Feli-ce (come tutti i re in genere, e più gli assoluti), ignorantidella gran scienza di conoscere gli uomini, s’eran circon-dati d’inetti, di mediocri o di nemici, tenendo lontani gliamici. E mio padre, che per i Reali di Savoia avrebbe da-to la vita propria e quella de’ figli, era lasciato e viveva indisparte.

In una circostanza, che la mia memoria non riesce aprecisare, mio fratello Roberto, che vedeva da un latol’indifferenza del governo e del re per nostro padre, edall’altro la sua inalterabile devozione a loro, se ne sde-gnava. Ed un giorno gli venne scritto in una sua letterach’egli troppo s’affannava per degli ingrati, ovvero peresser solo pagato d’ingratitudine.

Ecco ciò che gli rispondeva mio padre in una sua del13 dicembre 1817:

«Non hai risposto al mio quesito: in buona logicas’hanno a definire i termini per agevolare la risoluzionedella questione. T’interrogai, chi sono gl’ingrati? checos’è l’ingratitudine? senza queste definizioni sarai fon-dato, e lo sarò io, nel dire ognuno l’opposto.

Poichè la mia testa è meno ritrosa del solito, vogliotentare di dare qualche cenno di luce sul punto da te

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proposto. Per chi mi adopero io? Per la famiglia, perqualche povero, per la patria, che è una cosa col re. Mipare che s’abbia a dire ingrato quegli che conosce il be-ne fattogli, sa esser fatto per giovargli, non essergli que-sto dovuto rigorosamente; e potendo riconoscerlo a pa-role o a fatti nol fa; e sapendo cosa gradita al benefattoree potendola procacciare, lo ommette.

Se ora taluno firmasse in Pietroburgo una donazioneper me di due milioni di rubli annui, son io ingrato nonlo ringraziando in questo punto? Ora applica la teoriaalla pratica. Voi altri mi diceste più volte di conoscerechi aveva fatto e faceva sacrifici per voi oltre lo strettodovere; me ne esprimeste gratitudine: penso che non haiavuto in mente d’esortarmi a non prendermi pensiero divoi. I pochi poveri cui fo qualche carità sono sì poco in-grati, che ti posso dire con precisione di veracità, d’avernome di caritatevole superiore d’assai al vero. La patriae il re, oggetti d’immutabile affetto e di riverenza perme, sono affatto esenti da simili imputazioni. Se vuoi di-sgiungerli, la patria si riduce a quella parte della popola-zione che conosce me e le azioni e gli affetti miei. Essanon ha altro da darmi, se non contrassegni di stima; mipare di goderne quanto ne possono meritare le azioni, isensi che di me son noti. Può taluno aver trovato a ridiread una o ad altra delle dimostrazioni date da me d’amorpatrio. In un tempo che è si scarso, sono da compatirecoloro i quali non lo avendo veduto mai se non larvato,duran fatica a ravvisarlo; ma essi poi non sono il mag-gior numero; ed anzi neppur essi mi negano, credo, quelsenso di buone opinioni, ch’io diceva essere l’unico mo-do di mostrarsi grato che abbia il popolo. E se pensi alrammarico espresso da molti di non vedermi in impiegoimportante, confesserai che il solo amor proprio è ba-stante a farmi contentare di siffatta specie di gratitudinee di stima per parte del pubblico. E bada bene che que-sto messer Pubblico si ristringe indicibilmente, se vo-

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gliam dirla qual è, per ognuno di noi. Quanti sono inTorino stessa, e quanti più nello Stato, cui non è noto ilmio nome! quanti non sanno altro se non il nome!Quelli che ne sanno di più sono dunque non molti, equesti sono quel pubblico, quella patria di cui avrei tan-to a lagnarmi! Mi pare di poter credermi egualmente ri-munerato a Casale, a Vercelli; e ti dico sinceramente chein genere trovo per parte della patria e del pubblico laricompensa maggiore assai del merito. È cosa solitaall’uomo ed agli uomini formarsi un romanzo di benenelle circostanze ideali, per dolersi delle attuali. Traslo-cate le cose viceversa sentirete mille lagni di quelle ri-dotte all’atto, e mille rammarichi per queste, dacchè sisono perdute. Atteso quest’invariabile andamento dellecose umane, dovrebbe, chi mi ama, godere del mio pre-sente stato. Ora si dice: O perchè non lo mettono in luo-go da far valere i suoi mezzi? e qui ora la prevenzioneper chi non è in altezza invidiata, e per qualche bene cheabbia in me posto Iddio, e per la smania di dare torto achi regge, s’infilza una litanía d’elogi che ne disgradereiquasi il giorno della morte: fammi allogar domani in po-sto distinto (poichè sono a tal punto di non poterne ave-re degli oscuri), non sì tosto si sa dal pubblico, ecco per-duti per me gli elogi dei critici; questi si aggiungono agliinvidiosi, ai nemici del re; dirò pure ai viziosi che temo-no la mia influenza, e tutti a cercarmi il pel nell’ovo. Edio son pure ovo siffatto da rinvenirvi setole tanto fatte!Intanto si va avanti, ed il tuo signor padre, discendentein linea retta da certi coniugi Adamo ed Eva, senza chemai in seimila anni, che tanti ne conta la sua linea ascen-dente, si sia imparentato con altri; esso signor padre faràanch’egli, per non degenerare, le sue corbelleríe, ed ec-co un torrente di satire: ed egli farà un bene che offen-derà chi è al bene nemico, ed ecco un nuovo tafferuglio,ed egli poverino sì desiderato da prima, diventa unanoia, un fastidio, un pruno negli occhi, a chi non lo tro-

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va attualmente quale se l’era dipinto nel formarsi il ro-manzo sul conto suo. La conclusione è dunque che, seriuscissi a giovare al pubblico, non m’adopererei per uningrato; mentre mi dà in gran copia quant’è in sua manoe più del merito mio vero. Chè infatti godo della stimapubblica più che non meriterebbe la mia poca appari-scenza politica; e ne nasce in me un obbligo verso la pa-tria, che non avrei in una repubblica, o in un reggimentocostituzionale.

Nella pura monarchia, chi non è in alto favore hasempre modo di consolar l’amor proprio imputandone iraggiri cortigianeschi, e quell’aura pubblica sovraccen-nata lo persuade d’essere amato da’ suoi concittadini.Egli può in tale circostanza (ma in questa sola) disgiun-gerli dal sovrano, e pensare che, se giova alla patria, essanon gli è ingrata e lo rimunera colla stima, coll’affetto.

Quando un certo numero di sudditi concorre nelleoperazioni del governo, cessa distinzione siffatta; e Sci-pione ed Aristide non possono, se sono scartati, assol-verne il popolo interamente. Potrei aggiungere una terzaconclusione; cioè essere un bene sì seducente l’aura po-polare che quasi dovrebbe riconoscenza agli emuli suoichi, per li loro raggiri depresso, la viene ad ottenere. Matutta questa cicalata non può adattarsi a me che nonprovo ingratitudine nel sovrano; nè ho da dolermi nè dilui, nè d’abbandono veruno. A lui nulla ho mai chiesto,nè me ne posso pentire. Sento le ingiurie dell’età (54 an-ni), nè ho mai avuto a dolermi che mancassero urti, otarli morali, ad affrettarmi il logorío: non creder questauna frase d’umiltà: è verità pretta. Io non posso aver im-piego che non porti con sè un carico vero e grave; e sesarebbe in chiunque una presunzione il credersi capacedi guidare, di reggere le provincie e i regni, troppo mag-giore sarebbe in me, che, gli anni di vigore consunti nel-la tristezza e fuor di speranza del riordinamento, mi tro-vo ora scarso di sapere, scarso di pratica e realmente

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impoverito di quell’attezza qualsiasi che potei averedapprima.

Non chiedendo io, anzi avendo espressa più voltequesta mia giustissima opinione di me, non è meravigliase chi regge abbiami creduto meno capace o fors’ancheamante del riposo, così che tali cose io dicessi per poter-melo godere. Per me sono sì pienamente persuaso dellagiustizia di tal modo d’argomentare, che trovo anzi esse-re stato meraviglioso contrassegno d’affetto e di stimal’offerta fattami l’anno scorso d’una carica onorevolissi-ma. Un motivo di scusarmene ebbi, sì vero, sì gagliardoche i pochissimi cui lo confidai, per averne consiglio, elo stesso da cui m’era proposta, ebbero a confessare cheio così dovevo operare! Intanto ho una positiva dimo-strazione di non essere stato scordato. Se poi si pensòrealmente a mandarmi in Sardegna, se le mie rispostefredde e misurate a chi me ne andava parlando mostra-rono un non curante, se forse anche vi fu persona che amia insaputa, e parlando quasi mio interprete, rimossela cosa, è pure da dirsi che mi si dava un gran pegno difiducia, sì; ma s’ha a lodare Iddio d’aver avuto pietà del-le mie spalle fievoli a tanta soma, e di quelli isolani aiquali è necessario un uomo sommo. Par vera la nominadel conte Balbo, che è appunto quel desso.

Ora se tu avessi anche compreso fra gli sconoscenti ilre (cosa non lodevole se dura tuttora il quarto comanda-mento del Decalogo), neppure in questo avresti ragione.Egli d’un carattere ritenuto anzi che no, m’ha cento vol-te usato atti di benevolenza, espressi oltre l’indole sua:avvezzo a tanti postulanti, ha pensato a me che stavo indisparte; e se non mi ha data la gran croce, deesi pensarequanti sono in corte e nel militare avanti a me, che purnon l’hanno; e compatirlo ancora, quando si credesseaver lui dovuto a loro prepormi. Egli non può conoscerecome voi tutta la mia devozione per lui: quanti atti a luinon ne sono noti! Quanti sensi ne ho mostri in seno alla

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mia famiglia, che neppure si può figurare; e quanto me-glio mi posso io figurare tutte le voci ond’egli è assorda-to di persone chiedenti, instanti, molestanti, cui nonpuò tutto dare il richiesto: ed io sono persuasissimo, chee per me e pe’ figli miei avrei ottenuto, se avessi o volutoper me, o potuto per alcun di voi chiedere. Ma per mesaría stata presunzione; per voi non credo vogliate do-lervi se io ristetti.

Dunque posso conchiudere, lui essere affatto esclusoeziandio da ogni sospetto di sconoscenza; e dirò pured’aver trattato a rilento un tal argomento troppo alienodal rispetto che porto al padre di noi tutti. Ma l’ho fattoaltresì, perchè ragione e dovere di carità, di giustizia, esi-gono di parlare per lui quando tanti sì ciecamente lomordono. Ciecamente davvero, poichè ad ogni uomodotato di puro amor di giustizia ed esperto della condi-zione de’ sovrani, dovrebbero i loro errori stessi ingene-rare compassione, e desiderio di giovar loro, potendo;sarebbe un giovar pure alla patria assai più che con la-gnanze per le quali sempre s’indebolisce la buona vo-lontà ne’ sudditi.

E quale ne è il frutto?...Supposto dunque ancora un torto d’ingratitudine per

parte della patria e del sovrano, non ammetterei do-glianze contro di essi; anzi crederei di dover proseguirea giovar loro quanto in me starebbe. Se hai costì Meta-stasio, troverai nell’Attilio Regolo, nel Temistocle ed al-trove espressi i sensi dovuti ad una patria ingrata.… Ah!ah! signor padre, ella si paragona a codesti gran barbas-sori! Eh! l’umiltà è ita sotto il camminetto, e su per lagola di esso s’è sciolta in fumo.– Qui per altro non cre-derei d’offendere sì bella, sì necessaria, sì ragionevolevirtù, e sì il dirai tu ancora se m’intendi. Io non mi para-gono con loro per l’ingegno, per li servigi resi alla patria;soltanto dico: I loro sensi furono d’uomini grandi, senon posso ad essi paragonarmi nel rimanente, almeno li

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voglio emulare nella grandezza dell’animo, nell’amordella patria. Non ho la loro abilità, neppure l’occasioned’adoperare la poca mia: ciò non è in mia mano. Lo èl’assomigliarli nella volontà, nella divozione disinteressa-ta, e il fo. Dico ancora: Essi avean fatte cose sì grandi;quanto più meritavano di me! E se non fosse la patriacreditore tale col quale non mai si può sdebitare intera-mente il cittadino, non più che col padre il figlio, eranoessi sdebitati: tanto più lo erano, per essere quelle lororette a popolo o ad ottimati, e per conseguenza vera-mente ingrate patrie. Io sì poco, anzi un nulla ho fatto;sta dunque intero il debito del cittadino, del sudditoverso la patria e il re. Dunque non mi paragono a que’grandi se non per conchiudere: Se essi con qualche ap-parente ragione non si credettero sciolti, quanto menolo sarò io, tanto ad essi inferiore! V’è di più. Io sono lon-tanissimo dal disprezzare la patria mia; non pochi ne so-no i vanti ed i pregi. Penso che un Piemontese possavantarsi di un tal nome, e penso realmente quanto scris-si e recitai ai nostri studenti premiati. Nel mio affetto al-la patria seguo dunque il costume d’ognuno che pensivolgarmente ancora; di goder d’esser membro d’un tut-to onorato, rispettato e pregevole.

Se non è vasta questa terra, tanto più si mostra forteed accorta, essendosi retta e dilatata in mezzo a continuiurti e contrasti. Non la valuto sull’ampiezza sua; sarebbegiudicar di volgo. Non eran vaste tante contrade cre-sciute a gran fama senza crescer di mole; ed è fors’anchevero che è più vera patria la più ristretta. Certamentedeve stentare il Taurico a credere parte della sua patriala Finlandia: il Provenzale la Brettagna: nè gli Egizi te-nean per paesani i Galli, sotto Traiano o Diocleziano.Ma questo può disputarsi, e lo accenno soltanto. Bensì ècerto che, se oscura interamente fosse questa contrada,la dovrei, la vorrei amare. L’amerei, l’onorerei, perchèsovente, anzi per lo più, lo splendore esterno sta in ra-

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gione inversa della felicità, dell’ordine interno; perchè ildisdegnare una patria oscura, a me pare errore quald’un figlio che arrossisce del padre perchè plebeo edignorante. Perchè se è realmente abbietta e di nessunnome, ed io ho o mi credo d’aver animo, ingegno tali daessere de’ miei concittadini maggiore, oh! concorreran-no a gara l’amore ad essa dovuto pur sempre, ed un nonvizioso amor proprio mio, a volerla innalzare, a trarladalla sua abbiezione, a farla degna di me. Era spregiataTebe fra’ Greci; se Pelopida, se Epaminonda avesseroavuto animo sì poco elevato da arrossirne, da non cre-derla degna che s’impiegassero per essa i loro talenti, iservigi loro, avrebbero tenuti sepolti i ricchi doni avutidal cielo, e loro e la patria sarebbero rimasti nell’anticaoscurità. Che se ad altre genti, perchè più chiare, avesse-ro voluto servire, la luce maggiore ivi già splendenteavrebbe scemato d’assai il risalto della loro personale;che inoltre scemava da sè necessariamente, perchèall’estraneo nè la storia nè il parere de’ saggi non maidanno egual lode per le cose grandi da lui operate comese alla patria le avesse donate; perchè raro è un concorsodi circostanze tali da giustificare il figlio quando volge aigenitori le spalle.

In quanto poi ad Epaminonda, avrebbe perduto unodei maggiori gioielli della sua corona, un pregio tale, cheper esso lo prepongo a tutti gli eroi dell’antichità. Saiche dopo vinti a Leuttre gli Spartani, ebbe dalla sua re-pubblica il premio d’esser preposto a non so quale uffi-cio oscuro di polizia. Ei lo accettò, lo resse diligente-mente, ed anzichè abbietto divenirne, onorò l’ufficiostesso, e mostrossi grande fors’anche più che a Leuttreed a Mantinea.

Poni Epaminonda ad Atene, a Siracusa, in simile con-dizione. Accettare! Eh sicuro! avrian detto gli emuli, sevuol campare questo fuoruscito. Ricusare? Credo conragione: ma addio l’eroismo.

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E dove lascio l’altissima gloria d’aver egli e Pelopidatratta dalla sua nullità la patria, e alzatala sovra la Greciatutta! Gloria, lode verace, somma, quando appunto co-me a loro tocca di sottrarla all’oppressione straniera.Non è oscura la mia patria; nè io sono Epaminonda. Alei oscura, tanto più vorrei consacrare quanto avessi co-me ad una madre inferma più continue, più tenere cureusa un buon figlio: se non varrei un eroe come quello,avrei pur sempre il contento d’avere contribuito conuna, con dieci scintille a diradarne le tenebre; e se colvolger degli anni crescessero quelle scintille a folgorantesplendore, sarebbe pure associato a gloria sì verace ilmio nome.

Se Cimabue avesse sprezzata la pittura, perchè goffasino a lui, ei non avrebbe il nome che ha: pure Cimabuenon era figlio di quell’arte: il cittadino, il suddito haqualità e doveri di figlio. Forse vorrai onorare col nomed’eroismo questo modo d’operare. Non so se s’avesse adir tale in un pagano: nel cristiano no certo. Egli è sol-tanto buon laico. Qual’è la regola sua nell’intero usodella sua esistenza? Operare il bene per piacere a Dio.Questo è il principio della sublime altezza alla quale sor-ge il più infimo di noi, se veramente è cristiano.

Ciò non esclude la magnanimità; anzi la produce. Nenasce bensì, che, essendo tutti quanti soggetti a fallire, imotivi secondari di virtuosamente operare, la virtù uma-na, oltre la naturale fralezza de’ figli d’Adamo, è incertaper sè stessa, non avendo stabil base contro qualunqueurto. La base celeste nostra non può vacillare: sempresarà vero, che avrò da Dio premio di cosa fatta per lui.Aggiungi i pregi d’ogni virtù cristiana, e sarà chiaro esse-re il cristiano il migliore dei sudditi, l’ottimo fra i cittadi-ni. Infatti egli non uscirà in parole sesquipedali contro ilprincipe: crederà compresi nella carità i ministri del re,onde si debba a loro almeno il riguardo comandato ver-so ognuno dei prossimi. Crederà doversi loro eziandio

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maggiore per il danno grande che nasce dall’animositàcontro chi regge, per la difficoltà del loro impiego accre-sciuta a dismisura dalla sètta straziatrice che diffama, in-caglia, e tenta colle dissensioni, coi dispareri, coi rancoridi scavare la fossa sotto i troni, onde ad un urto oppor-tuno rovinino e schiaccino gli amatori tutti nell’onesto.Crederà suo dovere di concorrere alla comune felicità,altrimenti che con parole, tanto più vane quanto è lungi,chi non ha la pratica, dal conoscere la diversità sommatra i sistemi ideali e la possibilità e facilità dell’esegui-mento. Egli non rinuncia ai vantaggi, all’onorevolezze,che sono congiunte col servizio del principe: ma non es-sendo queste l’oggetto suo principale, ne soffre senzaturbamento la privazione. Nè cerca coll’adulazione, colbasso corteggiare d’ottenerle.

Tal suo disinteresse, accoppiato colla riverenza co-mandata dal quarto precetto del Decalogo, lo fermanonel punto medio, ove nè si pieghi a basso strisciare corti-gianesco, nè si volga a torbida alterezza sprezzatrice,oziosa, capitale nemica della società. Non può star la so-cietà senza regola, senza sistema: le case nostre, sì picco-leche sono, come starebbero, se cucinasse il cuoco sol-tanto quando gli piace; se ogni individuo volessestabilire per sè l’ora del sonno, del cibo a suo talento,ec.?

Siano tutti veri cristiani gli uomini, e saranno veri, ot-timi cittadini e sudditi. Bene! ma quando uno o pochioperano cristianamente, essi soffrono e giacciono in di-sparte; trionfa e gode chi non ha moderazione siffatta.Molto v’è da dire, e non finirei sì presto se volessi discu-tere e ridurre al vero tali trionfi e tali patimenti: quantodeboli sono questi per chi non bada alle cose di quag-giù, se non come un di più; per chi trova poi anche nellaquiete un compenso delle onorificenze negategli!

Quanto vane sono le esultazioni ed i godimentidell’ambizioso, sempre anelante ad altro che non ha;

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sempre pavido di perdere l’acquistato; oggetto d’invidiae di critica, legato a continuo lavorío e logorío. Un mini-stro cristiano che per Iddio faccia il suo dovere, meritad’andare sugli altari quanto un solitario di Tebaide.

Al postutto, sia come esser si voglia la cosa quaggiù,non sarà mai da compiangere il cristiano al quale inbrev’ora verrà premio sì grande ed imperdibile. Sarebbegrande sforzo ad alcuno, se trovandosi al Lingotto o aBeinasco(casali presso Torino), si vedesse preposto unqualche servitor di campagna nella distribuzione di po-chi pugni d’arido fieno; quando sapesse che fra menod’una mezz’ora verrà l’esercito d’Italia a gridarlo re ditutta questa vaga, ricca ed illustre contrada?

Sappiam noi se saremo vivi stasera? che sono anchecent’anni all’eternità?

Facciasi pertanto il ritratto del cristiano, che giovaquanto sa e può alla sua patria, nè pretende ricompensestraordinarie, perchè a lui poco montano purchè non glimanchi l’eterna; che si rassegna e si acqueta ancora anon avere le ordinarie, sebbene non le disprezzi orgo-gliosamente; ma sì per essergli noto dalla fede che le pri-vazioni e le contrarietà accertano, aumentano il premioeterno; che eziandio persuaso del dovere per cui è stret-to al suo sovrano, avvezzo a mirare alla perfezione in ge-nere, ed in particolar modo incalzato dalla propria co-scienza a nulla trascurare de’ propri doveri, vi si adoperacontinuamente con diligenza, solerzia; non perdonandonè a fatiche nè a studio, rimproverandosi l’ignoranza piùche l’onest’uomo mondano non si rimprovera l’ingiusti-zia; insomma, che nelle pubbliche brighe s’impiega, nondirò quanto l’ambizioso, ma molto più, poichè fa ognisforzo per bene adempierle sempre, come quegli quan-do ne spera innalzamento, e poi nel punto delle ricom-pense, si ristà nè aggrava lo stato più di chi poco o nullal’aveva servito.

Mettete in contrapposto un faccendiere valutantesi

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colla lente del microscopio, non mai pago ottenendomolto, guastante molte cose, per voler far di tutto; o unosfaccendato sistematico, verbigrazia, come i nostri italo-mani, che sono sì amanti della patria Italia, ma cheaspettano sia una per servirla. È vero che ciò non puòaccadere senza rivolgimenti e calamità moltissime, e congran dubbiezza dell’esito; ma che importa? Intanto si stacolle mani in mano a segno tale che cesserebbe la societàse tutti usassero a quel modo. Si adopera in cambio lalingua; e dopo d’aver tratto da qualche libro ed anco dalproprio fondo una mordente serie di massime triste enotissime, d’applicazioni storte o esagerate, di frizzicontro il nocchiero e i marinai; dopo che s’è fatto così ilpossibile per disturbare il servizio della nave eziandioquando è gonfio il mare, vario il vento, e non lontani gliscogli ed i corsari, si profondono i denari nelle meritrici,o altrimenti in inutili o dannose prodigalità, e si va avan-ti persuasi della propria eccellenza e che il mondo nonpotrebbe trovarsi in mani migliori di quelle d’un sì as-sennato reggitore.

Qual è di tutti costoro il più utile alla società, alla pa-tria? Io replico qui la mia protesta: non sono Epaminon-da, tel dissi; neppure sono quel perfetto uomo cristiano,dianzi delineato. Ma se tento di ritrarne in me qualchetratto, ne ringrazio Dio, che così va assicurando la futu-ra mia quiete, almeno per questo verso, eziandio in unapiù grave età, se a lui piacerà serbarmivi.

Intanto hai potuto conoscere che non sono ingrati ilre e la patria; nè se il fossero, dovrei cessare di servirlicoll’avanzo del mio potere, volendo imitare i gran mae-stri di vero amor della patria; ed infine che mal rispon-derei alla grazia fattami da Dio traendomi nelle sue vie a23 anni, se di 55 mi lasciassi guidare da altra scorta che ildovere nel mio contegno in quanto concerne al sovrano.Fossi io pure fedele ancora nel rimanente alla santa egiusta ed amabile sua legge! Avrai trovata lunga questa

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filastrocca. Se fosse un libro, avrei procurato d’ordinarlae ristringerla; ma sai di colui che diceva: Scrivo in fretta,perchè non ho tempo d’esser breve. Negli ozi tuoi la po-trai regolarizzare nella tua mente. Addio.»

Le opinioni espresse in questa lettera possono essereammesse o respinte, ma io domando ad ogni uomo one-sto e spassionato, se nel leggerla non ha acquistata un’al-ta idea del carattere e della lealtà di chi la scriveva.

Io credo poter dire, senza mancare al rispetto cheprofesso alla sua memoria, che non divido tutte le detteopinioni; ma non temo d’affermare che queste pochepagine da me stesso rilette con venerazione, racchiudo-no il più alto insegnamento che possa desiderarsi per unuomo politico, qualunque sia l’opinione ch’egli profes-sa. L’intero edificio della vita d’un cittadino vi apparefondato sulla gran base della responsabilità morale, ori-gine del principio del dovere, del sacrificio, del disinte-resse, della tolleranza, della persistenza nel ben fare an-co pagato d’ingratitudine, ec.; e questi saranno sempre iveri, i soli fondamenti dell’umano consorzio, qualunquesiano le forme che gli vengano applicate.

Il solo materialista non vedrà motivo veruno di accet-tarle, ed avrà ragione. Un materialista che non pensasseprima di tutto a sè, sarebbe nell’assurdo.

Ad onta della lunghezza della citazione fatta, debbopur chiedere al lettore licenza d’aggiungerne un’altra. Seegli è uomo di cuore, deve comprendere da quanto hogià esposto su mio padre, ch’io non debba nè possa la-sciare incompleto il ritratto d’una così nobil figura. Ilbrano seguente d’una sua lettera mostra s’egli apparte-nesse a quella sètta di ciechi reazionari che avrebberovoluto ricondurre il mondo all’assolutismo del papato edell’impero; sètta che fu il vero artefice delle rivoluzionimoderne e l’origine di tutte le nostre sventure.

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Egli scriveva a mio fratello Roberto, e dopo un breveesordio continuava così:

«L’annunciare che si tende a costituzionalizzare l’Eu-ropa tutta ed anche l’Italia, sarà verissimo. L’effettuazio-ne ha molte probabilità. Il tempo dirà se fondate; equando lo fossero, scioglierà poi (morti noi tutti) il dub-bio, se ne sarà risultato più o meno bene per li viventid’allora. Ciò ha nulla che fare con quanto io scrivevadapprima. Se diventasse costituzionale il Piemonte, co-me accadrebbe? Per ribellione? Non so per quali vicen-de si passerebbe. So bensì quale sarebbe il mio conte-gno. Certamente m’opporrei ai rivoltosi con quantoavrei di senno, di vigore, di credito; e probabilmentenon vedrei gli ultimi eventi che condurrebbero contro ilvolere del re il rivolgimento.

Se poi succedesse per volere regio, fosse questo effet-to di persuasione o di timore di maggior male, ed iom’adatterei al regio ordinamento: e fermato il nuovo si-stema, ne sarei tenace mantenitore. Obbedire a chi reg-ge è dovere, mediante alcune restrizioni: sarebbe quasisenza restrizioni, qualora il Re stesso avesse concedutoun altro modo di monarchia, mista o costituzionale chedir si voglia.»

E qui, dopo alcune linee inutili all’intelligenza dell’in-sieme, continua:

«.... che assai prima d’averne un tuo cenno io m’erarivolto a studi speciali riguardanti in genere l’ammini-strazione, appunto perchè, se accadesse questa trasfor-mazione, non mi vorrei trovare ignorante affatto in talimaterie. Se accadesse per modi quieti, è cosa probabileche in una o in un’altra delle Camere avrei luogo; e gl’in-teressi dello Stato non s’hanno a discutere come le di-spute degli orbi a bastonate (aprite gli orecchi, Senatori

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e Deputati!); o come fanno i medici per lo più, menandoalla cieca un colpo, che se coglie la malattia, l’infermo ri-sana, se è colto l’infermo, terra tegit.…»

Da ciò si vede se, trovandosi vivo all’epoca dei cam-biamenti politici, e prendendo parte alle faccende pub-bliche, egli sarebbe seduto fra quei fedelissimi che si gri-dano ubbidienti ai re assoluti ed al papa, a patto che ilpapa ed i re assoluti ubbidiscano a loro!

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CAPO VENTESIMOTTAVO

SOMMARIO. – All’autunno lascio Torino e vado a passarlo aTivoli – Non trovo i Romani migliorati dal giubileo – Nulla dinotevole nell’inverno del 1826 – A primavera vado alla Riccia –La locanda del sor Martorelli – Del dipinger dal vero – AllaRiccia custodisco da me il mio cavallo – Storiella di un villano– Verso la state mi sento male, e mi consigliano l’aria di Napoli– Viaggio precipitoso – Combatto coraggiosamente i miei inco-modi – Traversata da Napoli a Sorrento col pittore catalanoRomegas – Sorrenti e i suoi contorni – Ritornato a Napoli allarinfrescata, frequento una casa ove si gioca – Un po’ di moralesul vizio del gioco – Do un vale eterno alle carte, e mi metto afar versi – Disegno di un poemetto sulla rovina di Pompei –Mie idee attuali sui versi e i verseggiatori – Verso la fine del 26ritorno a Roma.

Verso l’ottobre lasciai i miei e me ne ritornai a Roma.Non dimenticherò mai i segni di sviscerata tenerezza

che scorsi ne’ miei due genitori al momento della sepa-razione. Mia madre mi accompagnava giù per le scalementre m’avviavo, e l’ultimo sguardo che lasciò caderesu me, lo vedo e lo sento ora come allora, dopo 40 anni!

Mio padre m’accompagnò al corriere sollecito di me,de’ comoducci che potevano occorrermi per viaggio,informandosi se di nulla mancavo, con una delicatezza sipuò dire muliebre, che proprio m’andava al cuore, con-siderata la severa e risoluta natura dell’uomo.

E pensare che pure partivo volentieri! Che mi parevamill’anni (mi costa doverlo confessare!) d’esser in legno,e tutto questo in causa di quel maledettissimo amore!...

Per fortuna, mio padre e mia madre non mi leggeva-no in cuore; ed Iddio che vi leggeva è misericordioso de’pazzi. Ma siccome è altrettanto giusto, fui in ultimo pa-gato della moneta che meritavo; e si vedrà più avanti.

Arrivai a Roma assai bene in quattrini, grazie allabontà de’miei; e per non perdere il buon momento, mi

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presi un cavallo. Questo fu sempre prima e costante im-magine della prosperità delle mie finanze. Quando poiinvece risoffiava vento contrario, vento che in capoall’anno era in sostanza il dominante, primo sintomo delcambiamento di tempo era la scomparsa del generosoanimale.

Quest’alternativa mi è stata compagna indivisibile du-rante tutta la mia carriera. Quando lasciai il ministero, efinalmente quando rinunziai al governo di Milano, rima-si a piedi, ed oramai sarà questo il mio stato definitivo.

Mi posso vantare, in quanto a spese, d’aver semprefatto il passo secondo la gamba, e me ne tengo.

Passai l’autunno a Tivoli, dov’era radunata la societàch’io frequentavo. La descrizione delle mie occupazioniin quella villeggiatura è poco interessante, e però la om-metto. Neppure l’istoria della successiva invernata meri-ta particolare menzione. Lavorai e studiai quanto me lopermise quella sciocca catena che m’ero volontariamen-te attaccata colle mie mani: conclusi poco per la miaistruzione, e pochissimo pel miglioramento morale. Lamalattia faceva il suo corso.

Non mi parve d’accorgermi che il giubileo avesseneppur esso migliorato sensibilmente il morale de’ Ro-mani. I miei amici coetanei, i quali per condizione o perimpiego avevano subite tutte le peripezíe imposte dallacircostanza, collo stomaco ancora pieno di tante predi-che, processioni, funzioni, tutte forzate, eran più di pri-ma arrabbiati contro i preti ed il loro sistema. Si può im-maginare che profitto ne cavasse il vero senso religioso emorale!

Venuta la primavera, mi disposi per andare dal verosecondo il solito, e scelsi per mio soggiorno la Riccia,prima fermata d’Orazio e del suo dotto Eliodoro, avviatia Brindisi.

Ma per quanto le locande moderne de’ paesetti latinio campani non splendano per pulizia e per comodi,

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quella però del signor Martorelli sulla piazza della Ric-cia portava certo il vanto sull’altre mentovate dal poetacesareo della Corte imperiale.

Ho sempre trovato singolare il contrasto che si notafra l’eccessivo lusso della società romana antica e la mi-seria de’ loro mezzi di trasporto, e delle osterie di ferma-ta. Sarebbe, a parer mio, argomento interessante il ricer-care quale delle tante civiltà conosciute ha saputomeglio condurre di fronte il progresso in tutti i rami del-la sua attività.

Io non intendo intraprendere questo studio; osservosoltanto passando, che i nostri cannoni ed i nostri moni-tors danno certamente un’alta idea della nostra civiltàall’articolo lima e martello; ma per l’articolo giustizia eben essere, pare ci sia da insuperbirci un po’ meno...;ma torniamo al sor Martorelli.

Per me egli aveva preso il posto del sor Checco Tozzi.Ma quanta differenza! Il sor Checco avea dell’artistico,del drammatico; la sua vita era un poema, era in com-pendio la storia dell’umanità: virtù, vizi, passioni, trage-die, commedie; se fosse stato contemporaneo di Shake-speare, Dio sa che altra roba scriveva quel grandeartefice di commozioni, lagrime, risa, terrori, gioie, ma-linconie ed allegrezze!

Il sor Martorelli invece era il tipo Trattore.Sua moglie stava al banco del caffè a dar il resto agli

avventori. Avevano una figlia di quindici anni che li me-nava pel naso tutti e due, e li comandava a bacchetta;piuttosto brutta e maleducata. È vero però che un gior-no mi disse (frase romana), che ero lungo e secco comeil malanno, – e potrebbe darsi che questa sua opinionemi rendesse ora ingiusto nei miei giudizi sulle sue attrat-tive.

L’anno 26 la locanda Martorelli, piena da cima a fon-do, avrebbe potuto dirsi l’Albergo delle Quattro Nazio-ni, se non ce ne fossero state assai più.

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Una lunga tavola ci raccoglieva tutti all’ore de’pasti; evi conobbi parecchi, che, giovani in quel tempo, inco-minciavano la loro carriera artistica. Erano in ispecieFrancesi, e mi affiatai con alcuni di costoro, veramentecare persone.

La mattina ognun di noi partiva co’suoi attrezzi intraccia di studi; a ora di pranzo tutti deponevano il lorolavoro in una sala comune, che serviva così ad un’esposi-zione permanente. Cosa utilissima, accendendo l’emula-zione.

(Se la modestia non mi riprendeva a volo, stavo oraper aggiungere che i miei studi passavano per i migliori.Ma è arrivata a tempo.)

Quel tempo fu il più profittevole per me, nè mai ave-vo riuscito a far tanto sul vero.

Diceva un pittore tedesco che questo studio si dividein quattro stadii: 1° si fa adagio e male; 2° adagio e bene;3° presto e male; 4° presto e bene. Credo che io potevodirmi arrivato all’ultimo stadio, per quanto me lo per-mettevano le mie facoltà mentali.

Fra i miei compagni di lavoro d’allora, alcuni sono di-ventati più tardi celebrità, o per lo meno ho veduto i lo-ro nomi citati con elogio negli articoli sulla esposizionedi Parigi. Rimango però con qualche dubbio su questaloro trasformazione in artisti distinti. Allora non ne ave-vano il primo principio. Ma ho costantemente osservato,che se uno stesse alla critica artistica letteraria franceseed ai suoi giudizi, si anderebbe soggetti a strane illusio-ni.

Chi accetta ciecamente le sue sentenze corre rischiodi formarsi un’idea dell’arte francese, che si modificapoi grandemente, quando se ne verificano cogli occhipropri le qualità. Così accadde a me, quando nel 1836andai perla prima volta al Salon. Ci trovai certamentedel bello, ma le parole lette erano state più belle d’assai.

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Nessuno ha spinto più avanti de’ Francesi l’abilitàsull’articolo etiquettes et réclames.

La mia vita alla Riccia fu più faticosa di quella di Ma-rino. Là avevo un modesto somaro; personaggio che co-nosce l’arte difficile di comparire decentemente nelmondo, con pochi mezzi. Chi striglia mai un asino? Glisi dà ogni cent’anni una ripulita all’ingrosso; eppure èben raro che un asino non si presenti pulituccio e rasset-tato. Provate invece a star tre giorni senza strigliare uncavallo! Diventa arruffato, sudicio, una schifenza. AllaRiccia avevo appunto un cavallo; e siccome mi sonosempre dilettato della pulizia, mi toccava trovareun’oretta ogni giorno per menar la striglia, lavare, spaz-zare, rifar la lettiera, portar via il concime, ec. ec. Dun-que mettiamo, prima parecchie ore passate in campagnaa dipingere col caldo, le mosche, i tafani; poi per con-tentino, le suddette operazioni, e si capirà che verso serami sentissi talvolta stracco morto. E se non fosse basta-to, uscì fuori un diavolo d’un messo della comunità afarmi contravvenzione, perchè io per minor fatica depo-nevo giornalmente lo stabbio in un mucchio fuordell’uscio della stalla, ed ogni tanto poi lo facevo levare.Mi toccò rassegnarmi, ubbidire all’autorità, ed ebbiquesta giunta di tribolazione. A tali estremi eran ridottele mani d’un futuro ministro di Stato, governatore diMilano, ec. ec.!…

La compagnia della Riccia era però (non posso na-sconderlo) più ripulita di quella di Marino. Almeno ci sitrovava con chi barattare le parole, e parlare un po’ ditutto. Avevamo una spinetta, o cattivo pianoforte chefosse, e le sere serviva ad accompagnare romances, can-zoni, reminiscenze d’opere, ec. Voglio qui incastrarel’istoria d’un povero villano, che a ripensarci ancora misento stringere il cuore.

Un giorno in campagna m’imbattei in un villano che

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si cacciava innanzi un asino carico, e lo seguitava leggen-do tutto attento un libro.

Lo fermo, e gli dico: «Che, sai leggere? e che leggi?»Mi mostra il libro: era una grammatica francese unta

e bisunta. Questo villano poteva avere 22 o 23 anni:benchè abbronzato, di forme volgari e rozzo parlare, miguardava con occhio intelligente e mesto, diverso affattoda quello sguardo d’animale selvaggio che è comune incampagna di Roma agli uomini della sua struttura. Eglimi narrò come avesse imparato a leggere da sè; poi sifosse messo all’impresa d’educarsi ed istruirsi, ed orastesse imparando il francese. Mi disse amare tanto lamusica, e non aver trovato mai modo d’impararla: esser-si però fabbricato da sè una specie di violino, dal qualecavava poi Dio sa che versi da streghe. Egli aveva avutaoccasione di prendere qualche idea della tastiera; ed iolo invitai perchè venisse a casa, e cercai di aiutarlo.

Non è credibile quanto questo povero giovane mi fos-se grato. Gli prestavo libri, lo lasciavo venire ad eserci-tarsi sulla spinetta; e siccome aveva un padre bestiale,che non intendeva altro che vanga e lavoro, se la svigna-va la sera dopo la fatica del giorno per venire a scuola.Tante volte lo trovai colla fronte caduta sulla spinetta,addormentato per stanchezza.

Un giorno mi venne a trovare tutto afflitto, e mi narròche il padre, trovando che le arti e le lettere lo distoglie-vano dalla zappa, l’aveva maltrattato, e con un’asciaavea messo in pezzi il frutto di tanti sudori, studi, e, tut-ta la sua consolazione, quell’aborto di violino!... Poverogiovane, mi fece una pietà!...

Non so che cosa avrei pagato in quel momento peravere nelle unghie uno di que’ tanti signorini di bellesperanze, che circondati di educatori, di buoni esempi,di tutte le facilità per istruirsi ed educarsi, – inutile! –son nati asini, ed asini vogliono vivere e morire.

Avrei messo il mio villano in casa sua, e lui a vangare!

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Questo povero contadino io dovei presto lasciarlo; ein conclusione temo avergli fatto più male che bene. Gliavevo lasciato balenare sul viso un momento un lampodi luce, che gli avrà poi reso più amare le tenebre allequali era inesorabilmente condannato.

Non ch’io mi faccia illusioni sulle speranze ragionevo-li che si possono concepire in simili casi. Non si trovaogni giorno un Giotto in un pecoraio. Ma dica? Che tri-sto spettacolo vedere gli sforzi impotenti d’un oscuro edignorato contadino verso un’emancipazione morale, chetravede, che desidera, e dalla quale è respinto ciecamen-te da una forza bestiale!...

All’avvicinarsi dell’estate, fossero le fatiche, le angu-stie morali, fosse l’aria poco felice in quella posizione acavaliere della Campagna romana, fatto sta che la miasalute si trovava notabilmente alterata. Già per me il cli-ma di Roma fu sempre una lenta malattia. Siccome peròsono ancor vivo oggi, è evidente che il mio organismonon vi soffriva essenzialmente; ma si può sentirsi moltoammalato senz’esserlo realmente; ed era il caso mio.

Non fo per dire, ma lavorare di testa, di pennello e distriglia, mentre uno sente sfinimenti, affanni, palpitazio-ni che sembra vi mandino il cuore in bocca, ci vuol unacerta costanza. La cosa arrivò al punto che anco gli ami-ci mi consigliarono a consultare un medico e curarmi. ARoma quando si hanno di quei mali che non vi mettonoa letto con la febbre, ma che strascinano senza caratterepreciso, la panacea è sempre: – Provi l’aria di Napoli. –

Io che in vita mia non ho mai avuta gran paura di mo-rire, ma che l’ho avuta sempre grandissima di non esserenè vivo nè morto, mi risolsi subito a curarmi e accettaiNapoli.

Non mi ricordo se il Pactolo fosse fiume o torrente.So bene che per me aveva tutti i caratteri del torrente, equello che alimentava la mia borsa era in quel momentoal massimo magra. Sparito il cavallo: non se ne discorre

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(era un grigio pomellato.... peccato!). Ma ci vuol altro!Dovendo affrontare il viaggio di Napoli, hanno a esserquattrini. Non volendo ricorrere a nessuno, m’ingegnai(non mi ricordo come – vendendo probabilmente –) emisi assieme lo stretto occorrente. E poi ricorsi al granrimedio di chi non ne ha abbastanza, e non può crescerl’entrata: diminuii le uscite. Avviso al Ministro delle Fi-nanze italiane che sarà in seggio quando questi Ricordivedranno la luce!

C’era allora un tal vetturale che aveva ridotto il viag-gio di Napoli ad una rapidità miracolosa. Ci andava fer-mandosi una sola nottata, e cogli stessi cavalli. Un altroentrò in gara, e ci andava nientemeno co’ cavalli medesi-mi, senza neppure la nottata. Pare una burla – circa cen-tottanta miglia! – ma era proprio così. Non già che cam-minasse sempre; ma ogni sei o sette ore di via, due ore difermata e poi avanti. Non si trattava che a biada, badia-mo, e s’arrivava a Napoli coi cavalli vivi. Questo l’ho fat-to io.

Io trovai uno di questi suoi legni in partenza, e partiiserpeggiando (frase romana), vale a dire con un posto inserpa (a cassetta), nel quale ebbi la compagnia d’unostudente, o giovane professore tedesco, che mi pareavesse nome Westphall, o qualche cosa di simile.

Avevamo ambedue pochi quattrini, stato che ispirasentimenti concilianti, e difatti non eravamo a Tor diMezzavia che già ci pareva di esser fratelli.

Arrivai a Napoli, e smontammo dal mio antico amico,il signor Giacomo Rotondo, vico d’Afflitto, all’insegnadella Speranzella. Il sor Giacomo, vecchio gottoso, tuttocuore per la gioventù, aveva sempre la casa piena dispiantati, e per conseguenza d’artisti, de’quali era laprovvidenza. Mi rivide con piacere, e ci stabilimmo ilmio compagno ed io, nella parte meno calda della casa.Con tuttociò il caldo era insoffribile. Un medico checonsultai subito, mi disse che mi bisognava una cura

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lunga ed esatta, ma che con quei calori era impraticabi-le. Tornassi alla rinfrescata. Mille grazie! Due mesi al-meno da star sulle spese a Napoli. Pazienza! dissi, pro-fittiamone per studiare: ed ansando o palpitando,ricominciai ad andare dal vero.

In casa erano parecchi artisti co’ quali feci lega. C’erail fratello del Pére Enfantin, che andò poco dipoi a mo-rir di perniciosa a Pesto; c’era un tal joinville, c’era Sto-relli padre e figlio piemontesi; Romegas pittor di mari-ne, catalano, un buon figliuolo, col quale feci compagniaper andar a studiare. Gran bella cosa la gioventù! Tostosi piega e si confà con tutto, con tutti, e pare sempresembra si trovi nel suo elemento!

Così passavo il tempo, lavorando per la spiaggia diMergellina, e lungo que’ seni così pittoreschi, coi lorogran tagli di tufo, e quelle grotte, antiche cave dalle qua-li uscì Napoli. I miei incomodi però non diminuivano:pareva anzi che crescessero. Mi ricordo un giorno eroandato solo ed assai lontano da Napoli, e dopo lavoratotutta la mattina, ero finito a pranzo in una bettola damarinari, ove non trovai altro che di que’ maccheronineri, sottili e duri come spago. Dopo pranzo m’avviaiverso Napoli co’ miei attrezzi in collo. Dopo mezzo mi-glio, tra la fatica e quel cibo indigesto, mi pareva che ilcuore mi sfondasse le costole, e un momento mi credettispacciato. Tenevo per sicuro d’avere un vizio organico.Ma mi prese un vero furore pensando d’aver 28 anni, enon poter fare poche miglia con una trentina di libbresulle spalle! e dissi: – Ebbene, piuttosto che così megliomorto! – Mi cacciai arrabbiato a passo di carica, e l’ar-rabbiarmi mi riuscì. Arrivai a Napoli senza che l’aneuri-sma si fosse rotto ed anzi sentendomi meno male. Tuttoil segreto era, che intanto quei maledetti maccheroni colmoto s’erano smaltiti.

Accade spesso a’ giovani d’immaginazione, nervosi,impressionabili, credere d’avere un vizio al cuore, od al-

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tro male importante, per causa di sintomi che ne simula-no il carattere, ma che in effetto sono fenomeni nervosi.Se poi mi domandasse, che cosa è il nervoso, le direi chene domandasse al suo medico, e se neppur lui lo sapes-se, è lui l’impari. Ho avuto de’ miei coetanei che a furiadi queste paure non hanno potuto aver bene nè far nullaper anni ed anni. Anch’io, che dopo aver creduto d’es-ser tisico, poi d’aver la pietra, mi credevo alla fine con-dannato per un vizio organico, passai molto tempoascoltandomi, e ad ogni minuto avevo il polso in mano.Mi venni tanto a noia a me medesimo con queste seccag-gini, che un bel giono mi dissi: – O tu hai un aneurisma,o tu non l’hai: se tu l’hai, non te lo leva nemmeno il pa-pa; se non l’hai, fai una vita miserabile per niente. –

Questa logica luminosa mi persuase: cominciai dalnon mai più toccarmi il polso, e poi mi diedi a far discherma, e saltar sui cavalli alla scuola di certi saltatori;insomma alla ginnastica più disperata: e poi non mai fer-marmi col pensiero nè coll’attenzione sui mali che mipareva sentire. In conclusione tutto a poco a pocosfumò, tutto più o meno passò, e se non altro non ci ba-dai, ed eccomi qua non lontano dai 70 anni, col cuoreche ancora se la cammina col suo solito trottarello, senzadarmi motivo di serie lagnanze.

Dunque i giovani che si trovassero nel mio caso sipersuadano che, anche in fatto di salute, il saper prende-re tosto una risoluzione e mantenerla con fermezza è co-sa buona, e vi salva da gravi conseguenze. Qual conse-guenza più terribile che d’esser ridotto al nulla datimori, dubbi e consulti continui? La salute non sarà ilprimo de’ beni, lo concederò; ma è quel bene senza ilquale rimangono inefficaci quasi tutti gli altri. Abbiadunque ogni giovane cura del suo corpo, lo rinforzi, loaddestri, se vuol essere qualche cosa a questo mondo,come chi va alla guerra ha cura d’aver sotto un buon ca-vallo. Lasciamo star la vita, ma un buon cavallo può alle

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volte salvarvi l’onore; ed un corpo sano e robusto puòdarvi modo di diventare un gran benefattore degli uomi-ni e della patria vostra.

Pur troppo io ne so qualche cosa, io che dovetti sem-pre lavorare come quei poveri giumenti cui si mette ilbasto sul guidalesco. Onde credete a me che l’ho prova-to.

Intanto il caldo non finiva, e Romegas ed io risolvem-mo d’andare a Sorrento dove relativamente doveva farfresco. Si partì su una di quelle grandi barche senza co-perta, con una vela latina alta come un palazzo, ed unfiocco ad una specie di bompresso, le quali fanno il ser-vizio de’ paesi del golfo.

Eravamo ottanta o cento persone con ceste, sacchi,polli, bestie d’ogni genere e generazioni.

Quando s’entra in barca, viene il mozzo (o’ guaglio-ne) con un bussolo ornato della solita commovente im-magine di un numero di persone nude, che si mostranodispiacenti di dover vivere in mezzo a molte fette di lin-gua salata: o spiegando la cosa altrimenti, delle animedel purgatorio in mezzo alle fiamme. Il mozzo scuote ilbussolo dicendo ad ogni passeggero: O’ Priatorio! ed ipiù pagano il tributo. Chiesi spiegazione del fatto, e mifu detto che la nostra offerta doveva procurarci in mareil soccorso delle dette anime, ed alla peggio un po’ di re-frigerio alle nostre in caso….Si sa, chi s’imbarca nonpuò mai sapere come sbarcherà. E cosi si partì, Romegased io accanto al padrone, come rappresentanti l’oligar-chia di bordo.

Era uno di quei temporali che non si vedono che aNapoli: un cielo scuro, un vento a fulmine, ed un maregonfio, nero come inchiostro.

Ma piova o fiocchi, le barche del golfo fanno a corre-re. Aspetta che padron Aniello voglia arrivar dopo pa-dron Gennaro!

Dunque appena a cento passi dal lido, Remi in barca

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– Issa la maestra, su la gran vela, e noi giù alla banda asottovento: i canestri, i polli, le robbe si ravvoltolano, ledonne stridono; ma tutti si buttano dalla banda oppostatanto che si schiva il capoficco; la barca si rialza un po-co, e via come una saetta. Io, per motivi miei particolari,guardavo padron Aniello così sott’occhio. Era un vec-chio cotto dal sole e dal vento, che sul viso e sul colloaveva le grinze a matasse: lo vedeva coll’occhio attento,la mano increspata sul timone spiare sulle creste de’ ca-valloni l’arrivo della soffiata per gridar tosto: Molla lascotta! Il marinaro che la teneva, fissi gli occhi al coman-do, lasciava correre la corda; e la barca che ogni tantoimbarcava mare a sotto vento, si rialzava e sempre viaavanti coll’istessa furia. Le donne pregavano e gridavanotutte insieme come un coro ad ogni abbattuta del legno,ed io molto mi pentivo di non aver messo nel bussolodel Priatorio più che un misero grano.

Dovendo scegliere, credo che finirei col prendere larisoluzione del duca di Chiarenza, piuttosto che quella,verbigrazia, del padre di Teseo, il quale preferi alla Mal-vasía l’acqua salsa. Perciò non vidi con molto dispiacere,dopo tre ore, la vela venirsi facendo a poco a poco menotesa, la barca procedere più ritta, e prendere quell’anda-tura che in un cavallo si direbbe il portante. Alla fine do-po una ventina di miglia ci trovammo in bonaccia, i ma-rinai calarono la maestra, armarono i remi; e così sivenne finalmente alla marina grande di Sorrento, ove lanostra barca si fermò solcando l’arena del lido.

Devo far le mie scuse al lettore d’aver impiegate tanteparole per descrivere un fatto così triviale come la tra-versata del Golfo da Napoli con un potente fresco: manon si scordi ch’io fui pure un po’ artista, ch’io amo lanatura, gli alberi, i cieli, le acque; che le amo comes’amano buoni amici che v’abbiano accompagnato in unlungo viaggio, nè mai v’abbiano cagionato un dispiace-re, ma resi invece mille servigi, e date mille ore di feli-

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cità. Se talvolta destandosi nella mia mente vive immagi-ni di quadri veri, che vi restarono addormentate per 40o 50 anni, non posso resistere al piacere di ridipinger-mele con freschi colori, onde rivederle di nuovo qualifurono allora, sarà una colpa, ma non riesco ad astener-mene.

Sorrento, città, è alta sul mare un dugento braccia, ecorona la cima di rupi a perpendicolo. Sorrento, marina,è un piccolo sobborgo di pescatori a riva. C’è la marinapiccola e la grande. A questa eravamo sbarcati. Ciò basticome descrizione. Non voglio levar il pane alle guide de’viaggiatori. Il mio soggiorno colà fu fecondo per me distudi. Ne feci anche a Capri, scoglio che esce dall’acqua,nudo, arsiccio, desolato come una bolgia; eppure.... siail cielo, il sole, la vista, il mare, gli abitanti seminudi, lememorie, le rovine, si finisce per trovarlo bello e poeti-co; anche ricordando quella seconda gran turpitudinedell’epoca imperiale, Tiberio. La prima, la maggiore del-le turpitudini, era il Senato romano che l’adulava.

Quando anche a Napoli fu terminato il caldo intolle-rabile, ci ritornammo: ma mutai casa, e mi posi in unalocanda, ov’erano venute due famiglie romane di mia re-lazione.

Una di queste avea per uso tener gioco; gioco perfet-tamente onorevole, ma alla fine era gioco di resto, ilmonte, e non si può negare ch’esso non getti qualcheombra sul carattere di chi ne fa la sua principale occupa-zione. Io per fortuna mia, non ho mai provato nessunainclinazione al gioco, ma dice un proverbio romano:«Per compagnia, prese moglie un frate,» e per compa-gnia anch’io a poco a poco cominciai a puntare; sicco-me, però, ho l’altra maggior fortuna di non aver fortunacolle carte, cominciai contemporaneamente ad osserva-re che la mia borsa calava a occhio. Il desiderio naturalein casi simili è di vederla ricrescere, e generalmente si ri-corre ad un mezzo che per lo più produce il fenomeno

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contrario. Giocai più forte per rifarmi, ed invece mi di-sfeci: «Non perde chi perde, perde chi si vuol rifare:»gran proverbio!

In questa casa concorreva la prima società di Napoli,si ballava a pianforte in una sala, ed io servivo per lo piùd’orchestra. Nella camera accanto ballavano i ducatisenza accompagnamento di musica, e talvolta si eclissa-vano in un modo poco spiegabile e pochissimo piacevo-le pel puntatore. Più volte m’accadde, trovandomi conventi o trenta giocatori, di mettere la mia posta. Il colpovenendo in favore, mi pareva poco civile gettarmi tostoa raccogliere la vincita: ma m’ero accorto che la civiltànon era molto apprezzata da quei signori: arrivando l’ul-timo, trovavo la raccolta fatta, senza neppur sapere a chidire grazie! A’ tempi di Luigi XIV, secondo le descrizio-ni del Chevalier de Grammont, il genere di moda eraappunto questo. È curioso osservare che il tricher al gio-co, per un gentiluomo non era déroger. E sempre avea-no in bocca l’onore, costoro. Per fortuna le idee sonocambiate; ed a Parigi come a Napoli forse vi sarà ancorachi ruba al gioco, ma almeno speriamo si chiami ladro enon gentiluomo.

Seguitando io intanto in quest’alternativa di vincitesempre più piccole delle perdite, e vedendo venir menole mie finanze, mi cominciai ad angustiare; ci venivopensando alla giornata; la sera mi addormentavo più tar-di, la mattina mi svegliavo più presto, facendo senz’av-vedermene, e così a mente, conti, somme, sottrazioni. Latal sera tanto di vincita; la tal’altra tanto in perdita e poiquest’altra in pari, poi perdita di nuovo, e poi vincita, epoi calcoli, totali, riflessioni sulle probabilità, sulle spesedell’albergo da pagarsi, ec. ec., insomma mi sentivo sem-pre irrequieto, seccato, tormentato.... – Son pure ungran minchione! – dissi finalmente una sera in letto do-po d’aver passeggiato per due ore sul materazzo senzapoter prender sonno. – Giocare non mi diverte mi ci an-

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gustio; sempre mi gira pel capo la vincita e la perdita. Lefacce lunghe de’ giocatori mi seccano; se anche vincessimolto, mi farebbe male di vedere il viso stravolto di chiavesse perduto; e se invece restassi io in camicia, ci avreigusto? E per questo bel diletto ho da passar le nottate auna tavola di monte?

Animo! subito! risoluzione immediata e taglio netto!Non si giochi più! – e non ho mai più giocato. È veroche non è stato un gran sacrificio, nè me ne posso insu-perbire.

Convertirsi è sempre un’opera santa, ma non basta apagare i conti. Io certamente avevo sempre saldate lemie perdite sul fatto, senza far aspettare nessuno un mi-nuto; ma avevo piccoli debiti d’altro genere, che il mioattivo non poteva più coprire.

Fu questa la sola occasione nella quale ricorsi allabontà di mio padre, che provvide amorevolmente a’miei bisogni, e così potei far onore a’ miei affari senz’al-tri pensieri.

Moralizzare sul vizio del gioco è roba troppo rifritta,e non intendo occuparmi di ciò, tanto più che sarebbefiato – dico inchiostro – sprecato. Ma si potrà almenoosservare che in nessun altro caso si fa meglio peccato epenitenza che in questo. Chi ha questa passione rispon-derà : – Ma io farei più penitenza a non giocare.– Per leprime volte lo concedo, e sarà vero; ma metta in bilancioi piaceri ed i dispiaceri che n’avrà cavati in un decennio;le perdite di denaro, di tempo, di salute, di buon nomeche avrà incontrate; e se vuol essere sincero dirà, se inquest’abitudine stia un vero tornaconto. Riconosco chenel numero accade trovare chi alla fine del decennioavrà vinto assai bene; non se la sarà presa affatto veden-do gente alla disperazione per colpa sua; troverà che ilsuo tempo non poteva esser meglio impiegato; di salutestarà come un Cesare, e se il suo solo titolo alla pubblicastima sarà quello un po’ anfibio di giocatore fortunato,

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penserà che questo titolo ne vale un altro: lo so. Si puòincontrare di questi tipi, ma sono rari come le moschebianche. E dica un po’: Vorrebbe lei essere una di que-ste mosche bianche? Io non fo il sentimentale, non fopompa di smanie umanitarie e non conosco cosa più an-tipatica della filantropia artefatta; ma siamo giusti, bastadi aver viscere di galantuomo per fare certe riflessioni. Ame se ne presenta una in tutti gli atti della vita de’ ricchi,che m’assedia come un fantasma. E poichè si sta in di-scorso del gioco, a vedere su quei maledetti panni verdioro ed argento a mucchi rimenato col rastrello versarsida una mano nell’altra a capriccio delle carte, e la genteche attende a questa maledizione co’ visi tristi, le cigliaaggrottate, in un silenzio sinistro; non un sorriso, nonuno sguardo sereno fra tanti, non l’espressione di un belpensiero, d’un buon sentimento; e pensare quanta gentea pochi passi, forse nella casa istessa, piange e sospirainutilmente un soccorso, un’assistenza, che gli procure-rebbe la minore di quelle monete.... A questo bisognapensare; e se non si è un pezzo di legno sarà un sano, unfecondo pensiero per chi gioca e per chi non gioca.

Il vero socialismo, la santa legge agraria è quella delVangelo: – quod superest date pauperibus; se no, si po-trebbe risentire il grido selvaggio d’à bas les riches, et lapropriété c’est le vol. Dunque chi ne ha, sprechi un po’meno, e ne dia. Così non gliene verranno a pigliare!

Temo d’aver fatto un po’ troppo il predicatore, termi-nando anch’io coll’elemosina: ma ho finito, e non ci ri-casco per un pezzo.

Intanto la rinfrescata era venuta, ed io ritornai dalmedico. Non lo nominerò chè se lo meriterebbe, perchèo era un grand’ asino, o era un birbo. Mi sottopose aduna cura lunga, costosa, piena di pasticci, che invece dibene mi fece male, e però tre mesi dopo ritornai a Romapeggio di prima.

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I medici che consultai più tardi mi dissero che di det-ta cura non avevo ombra di bisogno.

Mentre mi curavo, non potendo più andare dal vero,studiavo in casa. M’ero dato a ripassare l’anatomia; e poimi sentivo addosso una specie di ribollimento d’ ideeimperfettamente concette altre volte, ma non mai ab-bandonate, quantunque rimaste allo stato latente sottogli studi dell’arte.

Mi sentivo una gran smania di scrivere; ma scrivereche? prosa, versi, storia, romanzi, poemi, lirica? Neppurio lo sapevo.

Non m’ero ancora accorto in quel tempo che salvoDante, Petrarca, Ariosto, Manzoni e pochi altri i qualihanno fatto bene a scrivere versi (ed anche loro non tut-ti e non sempre); quanto agli altri fanno molto meglio anon scriverne, perchè in fatto di poeti, secondo me, nondeve esistere il second’ordine.

Tutto ciò che non è sublime è intollerabile. C’è chipensa altrimenti, ma io la penso così.

Principiai dunque anch’io dai versi e da questo trava-glio interno vennero fuori certe terzine, per deplorare lemiserie dell’umanità. Se non.nuovo, l’argomento era va-sto. Molti anni dopo mostrai questi versi a Grossi, ilquale dopo averli letti col più vivo interesse, mi disse:Hin propri minga bej! Se allora avessi ancora avuto bi-sogno di guarire dall’affezione poetica, questa brevequanto limpida sentenza d’uno de’ più eletti ingegnid’Italia e de’ miei più cari amici, sarebbe stata una verapanacea. Ma non m’occorrevano più cure quando ci co-noscemmo a Milano, tre o quattr’anni dopo.

N’avrebbe però, a parer mio, ancora bisogno unabuona metà del nostro stivale. È un gran che a pensareche il primo sboccio de’ giovani dell’Italia meridionale èsempre un numero più o meno importante di così dettiversi! i quali in questa nostra civiltà del martello e dellalima fanno proprio una curiosa figura! Anche questo è

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frutto di pessimi Governi, che tennero in sequestroquelle povere popolazioni. Strade, scuole e libertà lega-le; e tutto ciò sparirà presto, compresi i cattivi versi.

Dopo le terzine, mi passò pel capo di far un poemettoromantico-archeologico coll’azione a Pompei, ed il fina-le alla sua distruzione. In cupa notte l’angiolo stermina-tore evocava il demone del Vesuvio, e gli segnava la cittàcondannata all’esterminio: la ragione non me la ricordo,ma sarà stato al solito il secolo corrotto. Sorgeva lo spet-tro rovente dal cratere alla voce dell’angiolo, mostran-dosi dalla cintola in su come Farinata; e mentre collaforcina plutonica solleva le lave del vulcano, coll’altramano sparge di ceneri la città condannata. Questa l’in-troduzione. L’interesse della favola si fondava sull’amorfigliale. Un soldato classario vuole riscattare sua madreschiava. Nel Circo, a chi vincesse un gladiatore famososi prometteva una somma che bastava al riscatto. Il figliolascia la sua coorte, si traveste, vince l’avversario, riceveil premio, libera la madre; ma è scoperto, il suo centu-rione lo mette ai ceppi, per poi giudicarlo. La madre gliè al fianco, lo conforta, lo abbraccia, gli annunzia libertàdopo breve castigo: intanto è notte, comincia lontano unsordo fragore, cresce, si mesce ad ululati e grida; la terrafreme sotto i piedi, le mura si scuotono, una luce sangui-gna illumina il cielo, scoppiano i tuoni, e vien giù tutto ilbataclan, rompendo, abbattendo, sotterrando la città.La povera madre scongiurata, spinta dal figlio a fuggire,lo vorrebbe sciogliere, ma i ceppi sono grosse travi, ognisperanza è perduta, ec. Come potrà facilmente immagi-nare con questa trama c’era da battere la gran cassa sututti i tuoni.

Scrissi a mio padre questi miei progetti letterari, edegli mi confortava a mandarli ad effetto. Ma i posteriaspetteranno invano queste commoventi pagine. Il poe-ma rimase in progetto. Intanto i miei incomodi non di-minuivano; m’era entrato un incomodo peggiore, il mal

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del paese – paese allora per me era Roma – colle sue tri-stezze, che non aiutavano certamente le ricette del miomedico.

Sin allora avevo potuto vivere più o meno tollerabil-mente lontano da lei. Ora non me la sentivo più. Prova-vo sinistri ed oscuri presentimenti; non mi ricordo nècome nè perchè, m’erano sorti nell’animo mille dubbi:mi sembrava scorgere che il tuono delle lettere si venivamutando, mi tormentavo, maledivo me ed il momentoin che m’ero lasciato invescare; ma nonostante rimanevolo stesso, e la mia vita, il mio essere mi sembrava pendes-sero da quel filo, e mai in eterno avrei forse avuta la for-za di spezzarlo; ma ci fu chi s’incaricò d’averla per me.

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CAPO VENTESIMONONO

SOMMARIO.– Una gelosia simulata – Sono tanto corbello dalasciar Roma per far piacere alla Signora – Tornato a Torinodai miei, scopro l’altarino – Rinunzio definitivamente al sog-giorno di Roma – Vita torinese poco divertente a quei tempi –Carlo Felice e i suoi grissini – Vado con il mio amico conte Be-nevello alla Sagra di San Michele – Mi viene la felice idea di oc-cuparmi a illustrare quella famosa Badía – Le cronache e la di-gnità della storia – Alcuni fattarelli calati dalla cronaca dellabadía di San Michele – La mia illustrazione piuttosto piace, equesto favore m’incoraggia – Torno a Roma per lo sgombero;sto per ricadere nel laccio – Mi trovo all’esaltazione di PioVIII; riflessioni – Il pittore piemontese Barne, e i suoi mecena-ti – Ricondottomi a Torino, faccio una gita in Val di Lanzo –Terremoto sulle montagne – Torno in famiglia e mi metto congrande impegno a dipingere la Sfida di Barletta – Lavorando alquadro, mi sorge l’idea di scrivere il Romanzo – Mostro i primicapitoli a Cesare Balbo, che mi fa gran coraggio – Di CesareBalbo – Leggo anche a mio padre qualche parte del mio lavo-ro; ma poco, essendo già malatissimo – Egli soffre e crede, ri-flessioni – Morte di mio padre.

A metà dell’inverno ritornai a Roma. Mi parve di tro-vare tutto allo stato normale, e ripresi la mia vita stupidacon incredibile soddisfazione. Come ho già detto parec-chie volte, io non intendo narrare vicende amorose. Masiccome siamo, grazie a Dio, arrivati all’ultimo capitolodel mio lungo e noioso romanzo, siccome la catastrofefece cambiar direzione alla mia vita, bisogna pure che nedia un breve cenno. La catastrofe accadde in un modo, esotto una forma così poco naturale, così poco plausibile,che non potei allora rendermene conto. Le cose che ac-caddero in appresso mi diedero poi una spiegazione cheporrò sotto gli occhi al lettore, e vedremo che effetto glifarà. Il fatto sta che un bel giorno, senza sapere a cheproposito, s’aprirono le ostilità con una scena di gelosiafurente, ed io che per sei anni non avevo, non dico volu-

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to, ma potuto, purtroppo per me, aver in cuore un’altraimmagine fuor della sua, io che non comprendevo vifosse al mondo altra donna se non lei sola, mi trovai a untratto accusato e convinto d’aver colla mia condottaeclissato don Giovanni Tenorio. Questo furore dege-nerò in una specie di frenesia convulsa. Si può credere –in tali occasioni pochi hanno scrupolo di giurare il falso– se io esaurissi tutte le formule de’ giuramenti, trattan-dosi di giurare il vero. Non descrivo le scene, le smanie,ec.; si possono immaginare.

Sul primo, trattandosi di cosa tanto incredibile, la sti-mavo passeggiera, e non me ne agitavo molto; ma, a po-co a poco, disperando oramai di persuaderla, e cono-scendo verso dove s’avviavano le cose, la presi sul serio,e passai ore, traversai angosce, che prego Dio di nonmandar mai più a nessun’anima umana. La famiglia, iparenti cominciavano a travedere, a sospettare, a infor-marsi qual cosa alterasse l’animo di lei. Tremando che lepotessero suscitar dispiaceri, pronto piuttosto ad ognisacrificio, ricorsi ad una di lei cognata, mettendomi nel-le sue mani; disponesse di me, purchè a lei non succe-dessero nè danni nè disgusti. Era costei donna di cuore,esperta del mondo e mia amica.

S’incaricò di finirla. Vi tornai dopo due giorni, ed ec-co la piacevole comunicazione che ricevetti.

« Essa crede che hai una relazione con G***. Nessu-no glielo può levar di capo. Pensa se gliene ho dette! Saiin conclusione cosa m’ha risposto? Se non è vero me nedia una prova: Parta da Roma subito.» Grazie; obbliga-to!

Io, come dissi, ero tornato da Napoli più rovinato chemai; m’ero presa di giunta una gran tosse, si stava nelcuor dell’inverno, e poi a Roma avevo casa, studio, lemie abitudini, le mie faccende avviate, ec., e con tuttoquesto sa come finì? Finì che due sere dopo uscivo daPorta del Popolo nel corriere di Firenze: ed io che mi ri-

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cordo de’ viaggi fatti a sei o sette anni, da uomo d’onorenon mi ricordo nulla, assolutamente nulla, di quel viag-gio.... se non d’esserearrivato a Torino, mi pare, di not-te, in una diligenza piena di fieno, con un freddo atroce,e la tosse, ad onta di tutto, guarita o quasi.

Mi ricordo altresì che presentandomi a mio padre(pensi se ero stravolto!) mi domandò chi ero. E dopodue o tre mesi sa che notizia ebbi da un mio amico ve-nuto da Roma? Ebbi la notizia che il duca L*** era ilmio molto fortunato successore. E questa fu la chiusadel romanzo! Ora dica lei, caro signor lettore, se que’furori di gelosia erano sinceri, ovvero un ingegnoso ri-trovato per levarmi d’intorno? Se il duca L*** arrivavainteramente nuovo, ovvero se era stato già destinato inpetto alla sua carica? Ella si deciderà per l’opinione chele sembrerà più probabile. Io intanto mi decido perun’altra opinione, anzi per due: la prima, che seMonthyon od altri avessero istituito un premio per lasciocchería eroica, io l’avrei meritato; la seconda, chedelle due parti preferisco la mia. Ho la coscienza d’avercompito un atto di grande abnegazione, e le memorie diquesto genere più si vive e più si tengono care, a costod’essere stato un corbello.

Come si può figurare, tutte le mie idee, tutti i mieiprogetti relativamente a Roma, si trovarono mutati. Cre-do che, andando le cose de plano, non avrei più lasciatonè quelle abitudini, nè quel soggiorno. Probabilmente,un mese dopo l’altro, la mia vita si sarebbe consumata inquell’avvilimento. Iddio me ne tolse ruvidamente, è ve-ro, ma con atto, lo comprendo, di previdente bontà. Ri-solsi dunque di rinunziare definitivamente a Roma, estabilirmi a Torino ritornando a vivere in casa coi miei.Non dico che questo disegno mi sorridesse molto. Il re-gno di Carlo Felice non era nè barbaro nè tirannico nelsenso sinistro de’termini. Era, certamente, un assoluti-smo completo, con tutte le sue conseguenze: ma alla fine

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non era un governo straniero, nè occupato da dinastiastraniera, come quelle di Napoli, Modena, Parma, Fi-renze; e gli usi, le tradizioni, le reciproche relazioni tutteristrette nel paese, addolcivano molte acerbità, spunta-vano molte spine. Ciò è qualche cosa, ma non basta. Bi-sogna confessare che per chi aveva fissi in cuore elemen-ti di libertà – fosse pure limitata, misurata, ordinata,disciplinata quanto si vuole – ma alla fine di libertà e diviver libero; per chi non poteva rassegnarsi a mangiare,bere e dormire senza mai alzar gli occhi dalla via trita,era un ambiente di piombo, una specie di mancanzad’aria respirabile da non potersi descrivere.

Un piccolo aneddoto darà un’idea di questo stato disoffocazione morale, meglio che lunghe spiegazioni. Ilre era amante della musica, e dal primo colpo d’archettostava ogni sera nel suo palco, numero 1, second’ordine adiritta, senza perdere una nota. Ci faceva la sua cenetta(molto sobria) d’alcuni grissini, che con destrezza in-ghiottiva tenendoli per uno de’capi con due dita, e stri-tolando l’altro presto presto co’ denti. I provinciali, checontavano quest’operazione fra i divertimenti della lorogita a Torino, lo stavano ammirando a bocca aperta.Una sera io ero nel punto del teatro più lontano dal re,nel palco di prim’ordine a sinistra accanto alla porta diplatea. V’erano due signore e tre o quattro persone, e sichiacchierava, secondo il principio di quell’individuo,che invitando un amico col quale aveva affari in casasua, diceva: «Mia moglie fa musica e potremo discorre-re.» A un tratto s’apre la porta del palco, si presenta unufficiale delle guardie a piedi, ci saluta e ci dice: «D’in-carico di Sua Maestà li prego a stare zitti!» Noi ci guar-dammo in viso, si scambiò una chinata di capo coll’uffi-ziale, e, come può credere, la conversazione languìimmediatamente!

Questo era il genere del Torino d’allora, e si può cre-dere se fosse fatto per me! Comunque sia, mi vi adattai:

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e d’altronde dovevo prima di tutto pensare a rimettermiin salute, a calmare, se era possibile, le agitazioni delcuore e spegnerne le memorie, ed ottenere finalmenteun po’ di pace da tanti disperati pensieri. Mio padre emia madre che parte sapevano, parte immaginavano lacausa del mio triste stato, non mi tormentarono con pre-cetti o con conforti inopportuni, e neppure con esagera-te premure. Gran prova d’animi gentili ed esperti delcuore umano! Io, però, ne’loro sguardi, nella calma af-fettuosa del tratto, leggevo i loro nascosti pensieri, cono-scevo le intenzioni, e ricordando ora la loro bontà, sentoquanto avrei dovuto mostrarmivi più grato!

Passò l’inverno ed io lentamente mi venivo rimetten-do. La percossa era stata tale che non mi sembra essereritornato mai più quello di prima. Per lo meno ci volleroanni ed anni.

Andai a passar tempo al castello di Rivalta dal mioamico il conte Benevello, che ho già rammentato.

Si combinò una gita per visitare la Badía di San Mi-chele, posta sulla punta d’uno scoglio allo sbocco dellavalle di Susa. Mi parve cosa meravigliosa, e sentii risve-gliarmisi dentro il diavolo dell’arte.

Questa risurrezione mi fece un gran piacere; m’erofatto morto, tanto mi sentivo vecchio (e non avevo 30anni!). Ora m’accorgevo invece ch’ero vivo. Presi foco,come molte volte m’accade: alto! coraggio! e fuori un’Il-lustrazione della Sagra di San Michele, con testo, stam-pe, vedute prese dal vero, ec. Mi ci misi subito con qual-che furore, ed i miei parenti ne furono felici; videro chela natura s’aiutava da sè. M’andai a stabilire ad un pae-setto detto Sant’Ambrogio a fil di squadra sotto la Sa-gra, ed appiè della salita. Stavo in una bettola incredibi-le, ma avevo uno scopo, una cosa da fare, mi sentivorinascere.

La mattina prima di giorno m’alzavo, salivo co’ miei

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attrezzi, e passavo la giornata lassù ritraendo vari punti;a notte riscendevo a Sant’ Ambrogio.

Così raccapezzai un buon numero di vedute esterne,interne, pezzi d’architettura, cornici, colonne, capitelli,ec., e tornato questi studi a Torino, diedi ordine e formaal mio progetto d’edizione, e tosto mi posi al lavoro del-le litografie.

Questa Badía, eretta nel nono o decimo secolo da unbarone francese, Hugues le Décousu, è uno degli edifizipiù originali e pittoreschi che abbia mai veduti. Unmonte o piuttosto rupe che termina con un gran sasso apan di zucchero, scompare sotto molte fabbriche irrego-lari che fasciano la sua cima, sulla quale posa la chiesa.L’aspetto dell’insieme è mezzo religioso, mezzo militare,per merli e bertesche, quale l’avevano i monasteri inquell’età. Di questo luogo si narrano leggende curiose.Hugues le Décousu, verbigrazia, avrebbe cominciato adedificare sul monte in faccia, ma ogni notte gli angioliportavano i materiali dall’altra parte della valle, e così laBadía sorgeva dov’è al presente. Pel primo giorno del la-voro l’operazione si capisce. Le prime pietre collocatenei fondamenti scompaiono: ma in appresso se si deveimpostare basi, colonne, archi, e non si trova più lo stra-to del giorno prima?... dev’esser corso qualche errorenel racconto. Si narra altresì d’una bellezza perseguitatada un tiranno qualunque, su nel monastero, e che glipresenta la solita alternativa di buttarsi da una finestrase non la lascia stare. Il tiranno (si capisce) crede che lodica, ma che non lo farà, e va avanti. Invece la bella Aldaè di parola, e giù nel precipizio! Ma gli angioli la reggo-no, non si fa nessun male, e il tiranno resta con un pal-mo di naso. Alda (si capisce anche questo) s’invanisceun poco del buon esito d’un salto simile e si vanta di ri-peterlo a volontà; ma invece cade giù a Sant’Ambrogio,e, frase del racconto, ‘L toch pi gross a l’è staita l’ourìa5.

Questo monastero godeva di giurisdizioni feudali:

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possedeva terreni per la Lombardia, ed in oggi ancorav’è in Milano la chiesa di San Michele alla Chiusa, anticasua succursale. La Chiusa, ove sorge la Badía, è il puntoove i Longobardi sotto Desiderio chiusero il passo aCarlo Magno. Egli, superando i gioghi meridionali dellavalle di Susa, riuscì nella valle prossima di Giaveno, efattosi alle spalle del nemico lo ruppe. Queste fazioni so-no raccontate da una cronaca, la quale avendo detto lecose come erano con parole semplici, e che si capisconosubito senza bisogno di tornar da capo; e che di più conaneddoti di vita intima vi trasporta in quell’età, e ve la faconoscere così bene, si chiamerebbe la rozza Cronacadella Novalesa, da quei tali che tengono ignorante ilprossimo e lo seccano in nome della dignità della storia.È curioso, verbigrazia, il patto col quale Carlo Magnoottenne di conoscere il passo ignorato che gli diede lavittoria.

All’Imperatore si presentò un certo uomo, e gli offer-se d’insegnargli una via6 per calare alla pianura; chieden-do in guiderdone che, adempiuta per parte sua la pro-messa, potesse salire su un poggetto, e sonandovi ilcorno, divenissero suoi servi quanti l’udissero. CarloMagno che l’aveva per un tozzo di pane, s’accordò tostonel prezzo, e quest’uomo, vinta l’impresa, suonò il suocorno (si può immaginare con che soffiata!) e poi scesodal poggetto, veniva domandando a quanti incontrava:Audistine sonum? – e se l’altro diceva: – Audivi: – Ala-pam tibi dabat dicens: servus meus es. – Altro fattarello.Prima della calata di Carlo Magno, il paese era infettatodi malandrini, ed i monaci della Novalesa non sapevanopiù come salvarsi. Era fra questi un antico Arimanno7

già terribile soldato, ora umile penitente. L’abate lo fe’chiamare, e gl’impose andasse ai masnadieri e li persua-desse a rispettare la Badía. E non solo lo mandò senz’ar-mi, ma gli comandò che se venisse schernito, spogliato,non opponesse resistenza, e tutto tollerasse per l’amor

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di Dio. Il monaco, presa l’ubbidienza, disse: – Ed io cosìfarò, se mi levano la tonaca, la camicia, il cilicio: ma sevolessero levarmi i femoralia? (mutande). – L’abbate,colpito della forza dell’argomento, soggiunse: De femo-ralibus nil tibi praecipiam. Parte il monaco sul suo vec-chio caval di battaglia, che serviva all’uso del convento,e trovati gli scherani, gli avviene appunto che di lui sifanno beffe. E lui zitto. Lo spogliano della tonaca, dellacamicia; e lui zitto. Suppongo che non vedeva l’ora chearrivassero alle mutande: ci arrivarono difatti; e lui chenon aspettava altro, sfibbia, non avendo armi, le staffedi ferro, e comincia a minestrare; e minestra così bene,che tornò al monastero co’ panni suoi, e coi panni e l’ar-me di costoro, che lasciò pel bosco a’ corvi ed ai lupi.

Questo fatto mi diede poi più tardi l’idea di introdur-re Fanfulla in San Marco nel Niccolò de’ Lapi. Ma rico-nosco umilmente che de’ due il monaco val meglio assai.– E chi le dice, grideranno i signori della dignità dellastoria, che il suo suonatore di corno, o il suo monaco,siano neppure esistiti? Com’è possibile introdurre similifavole, in iscritti destinati a tramandare a’ posteri, perquanto è possibile, la memoria esatta e veritiera dei fattiaccaduti? –

Verissimo. Ma se me lo permettono, dirò loro l’uso alquale servono simili favole. Servono a farci conoscerequali fossero gli uomini, le loro idee, i loro costumi, leloro virtù, i loro vizi, le tendenze in certe date epoche,delle quali non sappiam altro se non quello che la di-gnità della storia ha permesso dire; e che consistenell’averci presentate le gesta di imperatori ed impera-trici, di re e regine, di papi e principi e gran signori, aiquali gli storici fanno attraversare la scena in veste e co-rona trionfale, senza degnarsi di informarci dei modi divivere e di sentire de’ loro contemporanei sottoposti,dello stato, in una parola, dell’umanità. Tanto che siamoridotti soventi volte a trasecolare a fronte di vicende sto-

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riche, di vittorie, di sconfitte, d’esaltazioni o di rovineinesplicabili; delle quali il movente e la ragione si trove-rebbe appunto in quelle regioni sociali che la dignitàdella storia credette troppo inferiori al suo grado. Lastoria per un pezzo fu la storia de’ grandi; è tempo chediventi la storia di tutti: e tale è in parte lo scopo del mo-vimento storico moderno.

Ma non ho finito co’ miei fattarelli. Ve n’è un ultimo,e dipinge i tempi, che proprio pare d’esservi. Vinti iLongobardi, la storia dignitosa ci dice che Desiderio siritirò e morì nell’isola del lago d’Orta (?): che Adalgiso,imbarcatosi a Pisa, si rifugiò alla corte di Costantinopo-li.

Ecco invece che cosa narra la rozza cronaca.Carlo Magno, tenendo corte in Pavia, sedeva a mensa

con i suoi fedeli, e da quanto pare, con chi si fosse cac-ciato avanti ed avesse trovato luogo.

Finito il pranzo, l’Imperatore nell’uscire vidde in ter-ra accanto ad un posto delle tavole inferiori un granmucchio d’ossa di cervi, cignali ed altre selvaggine; e do-mandando, chi fra’ suoi ospiti aveva tanto divorato, nes-suno seppe rispondergli, se non che gli venne riferitoche un incognito, miles fortissimus all’aspetto, nel man-giare stritolava co’ denti le ossa come nulla: sicut canna-bina stipula confringebat – ed aveva fatta quella catasta.

Carlo Magno non era tenuto un balordo da’ suoi qua-si contemporanei, quale lo tennero poi i romanzieri ita-liani. Dice il cronista che tosto s’addiede, e disse: – Co-stui non è altri che Adalgiso, – e comandò ad un de’ suoiche ne corresse in traccia; e toltosi i braccialetti d’oro,gl’impose di consegnarglieli invitandolo a ritornare a lui.Il messo lo trovò, che già entrato in un navicello sul Tici-no, appena s’era scostato dalla riva. Lo chiamò, e fatto-gli l’invito del re, gli mostrava i braccialetti, dicendogli siaccostasse alla riva per prenderli, se pure negasse seguir-lo presso Carlo.

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Adalgiso s’accostava, e colui, posti i braccialetti sullapunta della lancia, glieli porgeva. Questo modo di pre-sentar regali non andò a genio al giovane. Prese la suacorazza, se la gettò sul tergo, e tolti anch’esso dalle brac-cia i propri braccialetti, anch’esso li porgeva al messosulla punta della sua lancia, dicendo: Si in dolo mihi do-na regis porrigis, ecce et ego mea dona in lancea tibi do!– Il servo si conobbe scoperto, prese i braccialettid’Adalgiso, e li recò a Carlo; il quale se li volle mettere,ma gli corsero sino alla spalla; onde disse: Non mirum siAdalgisus maximas habeat vires.

Ora dunque analizziamo. Quando la storia dignitosami dice, che Carlo scese in aiuto del Papa, vinse allaChiusa, prese Pavia, distrusse il regno de’ Longobardi,mi narra una serie di fatti che somigliano a tutti gli altridello stesso genere, e che potrebbero essere accadutiprima o dopo, o in altri paesi, nè mi lasciano nella mentenessuna speciale impressione. Quando invece la cronacami racconta i fatti che ho citati (se anche non sono veri,sono però ritratti dal vero), mi porta in mezzo all’epocadi Carlo Magno, che non mai potrò confondere conun’altra: riesco a farmi un’idea delle origini come delleconseguenze de’ fatti storici, perchè conosco quali eranocoloro che ne profittavano o ne soffrivano; ed imparocosì a conoscere non soltanto pochi uomini in condizio-ni eccezionali, bensì la gran massa dell’umanità, e la suavera storia. Mi si perdoni la digressione, e torno nel se-minato.

Il testo che scrissi narrava le origini della Badía, edanche le vicende d’un monaco (romanzetto di mia in-venzione) con varie notizie e particolari.

Fu ricevuto con benigno compatimento. Ma piacqueveramente un lungo brano della cronaca che posi in no-ta, e tradussi col testo a fronte, dal quale ho estratto ifattarelli narrati.

Il pubblico ebbe buon naso. Si figuri che il mio testo

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cominciava così: «Per lungo volger di secoli resse Italialo scettro dell’universo.... »

Capisce in che chiave l’avevo presa? Per fortuna ilmio naturale è talmente opposto a tutto quello che so-miglia all’andar sui trampoli, che me n’accorsi subito,profittai della lezione e non ci son cascato mai più (al-meno così mi pare), nelle cose che ho scritte.

Tutt’insieme, nella ristretta società di Torino, la miaopera ebbe un incontro che non meritava. Il testo, comedico, era d’uno stile poco naturale; pareva quello di cer-ti giornalisti quando vogliono far i signori; e neppur pre-sentava grande interesse per le idee e pe’ fatti.

Le litografie riuscivano d’un certo effetto a forza difatica, ma impronta artistica n’avevano poca.

Il mio lavoro però ebbe per me un immenso valore:servì a distrarmi, a dare una direzione ai miei pensieri edalle mie occupazioni. Mi confermai nella mia risoluzionedi spiantar casa da Roma; e siccome ci avevo studi, libri,disegni, mobili, e piccoli interessi, risolsi di farvi una gi-ta per dar ordine a tutto, e terminarvi ogni mia faccen-da.

Il marchese Crosa, nostro ministro a Roma, ritornavaalla sua residenza. Si fece compagnia insieme, e si partì amezzo febbraio con un freddo che pelava, in legno aper-to.

Vorrei poter dire che, dopo un’assenza d’un anno,informato com’ero delle storielle col Duca, presi con lei,rivedendola, un contegno di fredda e dignitosa civiltà: ese scrivessi un romanzo lo direi per far figurare il mioeroe. Ma scrivo una storia vera, ed ho per le mani tutt’al-tro che un eroe.

Dico dunque che, quando la trovai, bella come un so-le, cogli occhi umidi per l’allegrezza di rivedermi, addiogelosia, addio risoluzioni, addio dignità, addio tutti glieroismi che non reggono quando s’è giovani, ad una vol-tata d’occhi d’una bella donna. Non mi ricordai più di

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nulla, non mi parve (ed a lei, son certo, parve lo stesso)d’averle mai tanto voluto bene, e mi sembrò d’esser piùsu del paradiso.... Ma tutto era fantasmagoria di imma-ginazione e di sensi.

Il mio cuore era un mucchio di ceneri, e cenere rima-se. Passata la prima vertigine, me ne accorsi, e le risolu-zioni prese rimasero incrollate.

Non voglio però che l’ultima mia parola su essa siauna parola amara. Essa ebbe buone doti ma poco intel-letto e pochissimo criterio. Nessuno s’occupò mai diformare il suo cuore o i suoi sentimenti: visse in mezzoad una società ov’era spento ogni senso del vero, del ge-neroso, dell’elevato; che cosa poteva aspettarsene? Spe-riamo che anche a Roma, finalmente, duri o no il gover-no papale, si capisca che esser nati all’ombra delCampidoglio non basta, e che bisogna anche pensareall’istruzione ed alla educazione di chi ci vive.

Trovai Roma nell’allegra confusione della sede vacan-te.

Era morto Leone XII con incredibile gioia de’ fedelis-simi Romani. Marforio e Pasquino ne dissero a sacchi.D’una mi ricordo:

«Tre dispetti ci hai fatto, o Padre Santo:Accettare il Papato, viver tanto,Morir di carneval per esser pianto.»

Difatti la sua morte aveva fatto chiudere tutti i teatri, ifestini, persino i burattini. In marzo fu esaltato il cardi-nale Castiglioni, che si nominò Pio ottavo. Mi trovai vi-cino a lui quando lo portavano su per lo scalone di SanPietro in sedia gestatoria, coi flabelli, e tutte quelle pom-pe bizantine che alla gente spassionata sembrano fare apugni col servus servorum.... (come lo tratterebbero sefosse padrone?). Il nuovo papa, grasso grasso, colle gotecascanti, ringraziava il popolo plaudente, piangendo

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(suppongo) di consolazione; ma alle boccaccie, pareva ilpianto del bambino messo in penitenza. Pensai: – Nonsei muso tu a dirizzar le gambe a questo paese! Ci vuolaltro che pianti! – E difatti ebbe un regno corto, insulso,e non lasciò traccia.

Mentre davo ordine alle cose mie (operazione che pu-re richiese un certo tempo), m’ero messo a lavorare nel-lo studio d’uno de’ nostri pensionati, mio amico, figliod’un fabbro di Torino, ed assai competente pittore. Egliera inoltre buonissimo compagno, ed onesto giovane,tantochè me la passavo benissimo con lui. Egli era, comeho detto, pensionato; e fra que’ pochi che, se non riusci-rono ad emergere (nessuno ci riuscì mai), si mantenneroalmeno in una mediocrità onorevole. Egli aveva nomeBarne.

Il modo col quale si procedeva allora in Torino, inmateria d’arti, era una vera commedia. Non c’è da scia-lare neppur ora, ma siccome le arti sono entrate un poconelle idee del pubblico, posano su una base più larga.Allora, invece, dipendevano unicamente dalla corte,cioè dal Gran Ciamberlano e dal suo sistema planetario,che non ne capiva niente; come ne capirono poco le cor-ti italiane in tutti i tempi: tolte quelle di Milano, Vene-zia, Firenze, Parma, Ferrara, Urbino, Roma, e in parteNapoli nel solo secolo XVI vel circum.

Barne avea mandato a Torino per primo saggio duemezze figure al vero: il Date obolum Belisario; esso conun fanciullo. Quadro molto ragionevole; c’era disegno,modellato, una certa fierezza spagnolesca di pennello, iltutto studiato sul vero ed anche d’un bel colore per chise n’intende; cioè, stando coll’argomento, colore severo,armonico, poco più d’un chiaro scuro: insomma coloresenza colori. Chi è artista mi capirà. Questo quadro fuaccolto a Torino come i cani in chiesa; e arrivò al poveroBarne una gridata: – Se erano quelli i bei profitti che fa-ceva nell’arte, e se erano saggi da mandare, ec. ec.? – Lui

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che s’aspettava tutto l’opposto, poichè a Roma era statolodato, si strinse nelle spalle, e pensò: – Vorranno cosepiù allegre, colori, figure gaie; – e si risolse l’anno dopoper un Apollo, colla sua brava lira ed il mantelletto ros-so; e fece la più disgraziata cosa che abbia mai vista.Tondo tondo, con quel viso a naso dritto, e quella facciascema, che si fa al biondo dio; con un corpo che parevadi manteca alla rosa e non di carne, su un fondo di paeseverdolino, e i raggetti di giallolino intorno al capo, pro-prio faceva rabbia....

A Torino piacque. E di qui imparino i mecenati che aproteggere senza criterio si fa peggio che a non proteg-gere affatto.

Il povero Barne, che era, per il suo buon giudizio, en-trato nella via vera dell’arte, si gettò, com’era naturale,nella falsa, unicamente perchè i suoi mecenati erano asi-ni. Per questo, in alto gli asini sono tremendi: fanno mo-ralmente razza e moltiplicano, togliendo il modo di nonessere asino, a chi pure ci si sforzerebbe.

Mentre ero con lui, aveva per le mani un quadrogrande che doveva essere la sua salute o la sua rovina,secondo l’incontro. Si figuri, se il povero giovane s’erastillato il cervello per imbroccarlo bene. Prima di tuttovolendo piacere coll’argomento, aveva scelta la gran bat-taglia colla quale un duca di Savoia anonimo deve averdebellato un Turco innominato, e liberato così l’isola diRodi. Il bello è, che vive in Piemonte una tradizione, laquale spiega le quattro lettere poste sul gran collare delnostro Ordine dell’Annunziata, dicendo che significanoF ortitudo E jus R hodum T enuit.

Amedeo VI, fondatore dell’ordine, andò in Orientebensì, e liberò l’Imperatore Giovanni Paleologo prigio-ne de’ Bulgari, espugnando Varna; ma nè lui nè alcun al-tro duca di Savoia fu mai a Rodi con un esercito, che sisappia; ed i Cavalieri di San Giovanni, dell’anno 1309nel quale l’occuparono, espulsi dalla Palestina, sino al

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1522 quando la cambiarono con Malta, seppero assaibene difendersi senza il nostro aiuto.

Questo fatto è interessante in quanto ci mostra cometradizioni d’avvenimenti molto più strani poterono a po-co a poco assumere l’autorità storica negli antichi tempi;e ci insegna ad applicare una critica severa a tutti i rac-conti dell’antichità non solo, ma anche delle età moder-ne.

Il povero Barne, che voleva piacere in alto, lasciò lacritica da un lato, e dipinse bravamente Amedeo VI acavallo in riva al mare, colla spada alzata addosso ad unbarbone d’un pascià caduto in terra. Ricordandosi forsepoi del fiasco del Belisario, e dell’incontro dell’Apollo,avea introdotto un giovinetto paggio o figlio del Turco,che con atto tenero alzava una manina bianca a riparodell’enorme spadone del duca di Savoia. Si capiscequanto quest’episodio fosse fedel ritratto delle usanzeguerresche del secolo XIV; ma il mecenate voleva la no-ta dolce, e siccome dal mecenate dipendeva il to dine ornot to dine, bisognava badare a lui e non al buon senso.E daccapo ripeto, meglio nessun mecenate che il mece-nate asino.

Meno questo sproposito, non era un cattivo quadro, eforse poteva essere seguito poi da altri migliori; ma pocodopo che ci fummo lasciati, il povero giovane s’ammalò,e morì. Pace all’anima sua.

La mia partenza da Roma fu questa volta tranquilla, enon drammatica, come l’antecedente. Lasciai lei, gliamici, e que’ luoghi con qualche rammarico; ma un inti-mo senso m’avvertiva che quello non era e non potevaessere più cielo per me.

Ritornato a Torino con tutta la mia provvista di studi,occupai due camere verso Piazza Carlina, che mio padremi aveva fatte ammannire in casa, dov’ero tranquillo,isolato, e potevo lavorare. Mi sentivo pieno di voglia difar finalmente qualche cosa sul serio, a testa e cuore ri-

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posato; e col sentimento oramai tornato in calma, neltrovarmi finalmente liberato da quell’immagine che pertant’anni non m’aveva data un’ora di pace, mi parevaproprio d’essere un altro.

Prima di fissarmi al lavoro, passai, essendo estate, al-cuni mesi a far gite in varie parti. Fui a Viù sopra Lanzo,ed in una passeggiata per quei monti, trovandomi su undorso d’un giogo, ebbi la rara sorte di sentirvi una fortescossa di terremoto. Non s’ha idea quanto esso appaiapiù grandioso e terribile fra le alte montagne. Che siscuotano le case sembra quasi naturale; ma a veder tra-ballare quelle rupi immense sorge l’idea d’una spavento-sa potenza nascosta nelle viscere della terra; ed a me feceil senso d’una manifestazione affatto nuova. Venuto ilnovembre mi ritirai nel mio studio, e cominciai a lavora-re.

Anche a me premeva far qualche cosa che piacesse,lavorandovi solo, da me, in Torino: onde non s’avesse adire che il quadro portato da Roma me l’ero fatto fare.Anch’io venni cercando prima di tutto un bel soggetto,e lo trovai nella storia italiana all’anno 1503 nella disfidadi Barletta. Mi risolsi per il momento in cui si sta com-battendo; co’ giudici, e gli spettatori intenti al fatto; edopo molto schizzare, dopo prove, bozzetti, ec.ec., mifermai a quella composizione, che essendo stata magni-ficamente incisa alla scuola di Toschi in Parma da Bosel-li e Cornacchia, è rimasta in commercio, ed è conosciutada tutti. Quest’argomento ammetteva un bel cielo, unaricca vegetazione (se oggi non vi fossero begli alberi fraAndria e Corato, chi può dire non gli abbiano tagliatidopo il 1503?), ammetteva armi, ricche fogge, popola-zione diversa; e poi aveva per me il gran merito, o piut-tosto la condizione sine qua non di tutto quanto ho fattod’un po’ significante, serviva al pensiero italiano. Lavo-rando colla febbre del bello, del poetico, e soprattuttocolla fede di far bene (beata gioventù! ora di queste feb-

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bri non m’ammalo più), in un mese ebbi portato tantoinnanzi il mio lavoro, che già si mostrava assai bene; edio che modestamente n’ero assai contento, tiravo avantia finirlo con gran diligenza. Un giorno, me ne ricordocome fosse ora, stavo terminando quel gruppo di cavalliazzuffati che sta nel mezzo; e mi venne considerato che,data l’importanza del fatto, e l’opportunità di rammen-tarlo per mettere un po’ di foco in corpo agl’Italiani, sa-rebbe riuscito molto meglio, e molto più efficace, rac-contato che dipinto. –Dunque raccontiamolo! dissi. Ecome? – Un poema? che poema! Prosa, prosa, parlareper esser capito per le vie e per le piazze, e non in Elico-na! –

E qui al calor del dipingere aggiuntosi il calore del’oscrivere, mi gettai a furia nel nuovo lavoro; e dove avreidovuto far ricerche storiche sui tempi, ricerche topogra-fiche artistiche sui luoghi, e, meglio ancora, andarci, ve-derli, farmeli miei per poterli descrivere, ebbi appenatanta pazienza ch’io leggessi le pagine relative del Guic-ciardini; e cominciai subito la scena della piazza di Bar-letta sull’Avemmaria, senza ombra d’idea a che diavolodi pasticcio avessi a riuscire. Che sapevo io di que’ pae-si? Misurai sulla prima carta d’Italia che mi venne framano la distanza da Barletta al Monte Gargano, mi par-ve che si dovesse poter vedere, ed eccolo subito nellamia descrizione come linea di fondo; poi mi feci unaBarletta, una Rocca, un’isola di Sant’Orsola ad uso mio,e via avanti franco come una spada; mettendo al mondooggi l’uno, domani l’altro de’ miei attori, e procreandoanzi, come m’avvidi poi, maggior famiglia che non m’oc-correva Poichè, domando io, a che diavolo m’ha servito,verbigrazia, il personaggio di Zoraide? Però il proverbioper istrada s’aggiusta la soma, non ebbe mai più comple-ta applicazione che nella fattura di quel mio romanzo,qualunque possa essere il suo valore letterario.

Io non potrò mai dire a parole i piaceri intimi, le feli-

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cità interne che provai allora, nel dipingere, nel descri-vere quelle scene, que’ caratteri, nel vivere tutto di quel-la vita cavalleresca, dimenticando affatto il presente...: –Certo fu una dell’epoche più belle della mia vita. Me lapassavo il più bel tempo da me, colle mie figure fantasti-che; la sera andavo a letto presto, e non mi si faceva maigiorno per l’impazienza di ritrovarmi in azione con loro.Non pensavo a divertimenti. Gli ho sempre trovati granseccature (salvo un buon teatro quando si cantava); allo-ra poi!... con Barletta ed i suoi cavalieri!... Si figuri!Molti si stupiscono, alle volte, che non s’amino le feste, iballi, i pranzi, i così detti divertimenti: se costoro potes-sero provare per mezz’ora i piaceri dell’immaginazione,del concepire e creare nel mondo fantastico, non si stu-pirebbero più e vedrebbero qual differenza! Una rifles-sione però mi si presenta: come mai codeste gioie, cheveramente hanno del divino, non producono opereegualmente divine? Che cosa sono, invece, al paragonele opere umane anco le meno imperfette?

Malgrado però tutti i miei entusiasmi, in fondo infondo, udivo nel cuore quella terribile voce che nei piùbei momenti vi schernisce, e vi gela col maledetto dub-bio: – A te ti paion meraviglie, e chi sa invece che scioc-cheríe inventi! – Certi caratteri non dubitano mai. Beatiloro! Certi altri invece guai se all’atto del produrre sonoassaliti dal dubbio: ed io sono fra questi. Per uscirne,dissi a me stesso: – Non c’è altro che mostrare quelloche hai fatto a chi se n’intenda, e non t’inganni. –

Come consigliere e censore scelsi Cesare Balbo, figliod’una sorella di mio padre, quindi mio fratello cugino, esvisceratissimo amico. Egli fu uno dei più belli e genero-si caratteri che già da molt’anni si siano visti in Piemon-te; e se permette, ci fermeremo un momento per dirnedue parole.

I suoi antichi venivano di Chieri, graziosa città a seimiglia da Torino, fra le colline dietro Superga; quondam

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repubblica, nominata al tempo della calata di FederigoBarbarossa. Ab antiquo c’erano tre famiglie dette i tre Bdi Chieri. I Benso di Cavour, de’ quali fu Camillo; i Ber-tone di Sambuy, de’ quali un ramo si stabilì in Francia, ene uscì le brave Crillon; e finalmente i Balbo, de’ qualinacque Cesare, e suo padre Prospero Balbo, anch’essouomo d’alta mente, di vasto sapere e di specchiato ono-re.

Cesare corse una carriera variatissima, come è acca-duto ai più della nostra generazione, cui toccò attraver-sare tutte le fasi che incominciano dal dominio stranierotirannico di Napoleone I, e finiscono al regno nazionalee legale di Vittorio Emanuele II.

Quelli che ora vi si riposano felici, ringrazino Iddio:ma qualche volta pensino a quanto costò ad altri di fati-che, di dolori e di sangue.

Cesare a 18 anni fu strappato alla sua famiglia, e man-dato a Parigi auditore al Consiglio di Stato.

Accaddero i casi di Toscana, poi di Roma; la scalatadel Quirinale, la prigionía del papa, la violenta, ed igno-bilmente eseguita, annessione dello Stato papale all’im-pero francese. In mezzo a questi fatti, Cesare, che già sitrovava a Firenze segretario del governo nuovo della To-scana, venne trasferito a Roma sotto l’amministrazionedi Miollis. E furono questi fatti che hanno restaurato lefondamenta del governo temporale, ed infusa nuova vitaa tutti i suoi abusi, tantochè ancora durano oggidì, e du-reranno probabilmente dell’altro, grazie allo zelo diquelli che gridano Roma o morte...; ma parliamo di Bal-bo.

Egli giovanissimo allora, tutto foco e d’alto cuore do-vette sentire quanto fosse iniquo e turpe l’operato diNapoleone; il quale, senza saperlo, rialzò il papa ed ilclero nella opinione pubblica, e gettò sè stesso nell’igno-minia. Parlo dell’opinione degli uomini retti e di buonsenso, ai quali se si può vietare il parlare, non si vieta il

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pensare. Ben inteso che co’ piú ed in apparenza Napo-leone trionfava: ma il mondo vedendo intorno al suotrono tutte le fronti inchinate, ed alte soltanto quelle delpapa, dei cardinali e del clero, cominciava già a pronun-ziare un giudizio che fu il mal germe per lui.

Cesare partecipò a questo giudizio, ne serbò una im-pressione che non si cancellò mai più, e che fu cagionedel parziale ed appassionato sentire col quale trattòsempre in appresso le cose del papato e del governo ro-mano, sia come uomo politico sia come scrittore. Se fuerrore in lui, ebbe però una generosa radice.

Fu in seguito adoperato a varie missioni in Illiria e inGermania. Dopo i disastri di Russia, si trovò avvoltonelle finali rovine della campagna del tredici; non comemilitare, ma come auditore spedito qual corriere all’Im-peratore, per portargli il portafoglio degli affari corrential Consiglio di Stato. Incontrare l’esercito francese, chesi gettava rotto e disordinato sul Reno dopo la battagliadi Lipsia, vestito da auditore con un portafoglio sottobraccio, era cosa da non piacere a tutti; ma l’intrepiditàdi Balbo era pari a questo e ad altro. Certo che a sentirlonarrare, colla fiamma che metteva in tutto, quelle scenefunebri, durante le quali sembra affatto estinto ognipensiero, ogni senso del bene nelle misere moltitudini;que’ totali sovvertimenti d’ogni ordine materiale e mo-rale, che accompagnano le sconfitte de’ grandi eserciti;que’ fossi pieni di morti o feriti, quelle ambulanze rove-sciate, quegli ammalati che a stento si trascinano, semi-nando di cadaveri le strade e le campagne; quelle frottedi uomini, di cavalieri ancor validi che corrono cometurbini, e passando scalpitano senza pietà sui deboli cheessi rovesciano, sui semivivi che finiscono d’ammazza-re... Mi diceva che in un punto ove la strada si trovò pie-na di morti, dovè passare un lungo traino d’artiglieria edi cassoni: dopo passato, que’ corpi si trovarono tritura-ti e ridotti in una melma sanguigna....

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E se questo si fosse fatto per difendere un diritto, perdifendere la patria dalla rovina, dall’invasione straniera,benedetto quel sangue, benedette quelle miserie! Ma sifaceva perchè Napoleone potesse chiudere allo zucche-ro inglese i mercati di Russia!!! Perchè potesse del pia-cer suo farne la legge del mondo!!!... Forse è per questoche il mondo, grato quanto intelligente, l’ha nominato IlGrande!

In verità a rileggere l’istorie di tante stragi e tantesventure di milioni d’innocenti, sarebbe impossibile an-dar avanti (parlo per me) se non si pensasse a Sant’Ele-na. Anche in terra v’è qualche volta giustizia. Ed io nonimpreco già a Napoleone, come non impreco a nessunode’ vivi o de’ morti; ma sento la pietà di tante vittime.Capisco anzi, fino a un certo punto, la passione, l’egoi-smo indomato d’un uomo, che alla fine agisce nell’eb-brezza della superbia e dell’ambizione; ma mi muove avero sdegno il vedere la fredda e balorda sanzione chedanno di poi gli uomini a chi li calpesta e li sprezza,chiamandoli Grandi.

Io domando scusa al lettore se ho preso fuoco: ma ri-nascerei cento volte, ch’io non potrei mai parlar con cal-ma di un tale argomento. Capisco che potrei ora soppri-mere questa pagina; ma nemmeno per idea! Poichèpenso ciò che ho detto, ci resti. Finchè la gente non lavorrà capire, bisognerà pur seguitare a battere!

Il conte Prospero Balbo dopo la restaurazione andòministro in Ispagna, e vi condusse Cesare. Sorti poi imoti del 21, questi corse la sorte di tutti gli uomini lealied elevati in tempi di partiti. Egli disapprovando gli unie gli altri, fu tolto di mira da tutti; e quantunque nonavesse partecipato al movimento (non era uomo da avermano in una rivolta militare), siccome però era amico daun lato de’ suoi principali autori, e disapprovava aperta-mente dall’altro la stupida cecità della ristaurata monar-chia, quando fu decisa la breve lotta, rimase in sospetto

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principalmente al governo. Nessun galantuomo deve epuò tollerare d’essere sospettato; ond’egli si ritirònell’Astigiano in una sua villa, detta Camerano; e v’atte-se a quegli studi di erudizione storica principalmente,che produssero i libri da lui successivamente pubblicati.Non ne parlo, perchè oramai il merito ed il nome di Ce-sare Balbo è res judicata. Mi basta d’averlo introdottonel mio racconto coi lineamenti principali della sua fiso-nomia e del sua carattere. Lo verremo trovando di nuo-vo più d’una volta in seguito, ed avrò importanti occa-sioni di parlar di lui, e mostrarlo a maggior bisogna chenon fu quella di farsi censore degli esordi dell’EttoreFieramosca.

Lo pregai dunque di ascoltarne i primi capitoli, edegli v’acconsenti con premura. Venuto da me una sera emessici accanto al foco, principiai la lettura un po’ tre-mante, perchè ero nello stadio del dubbio e dello scora-mento: ma egli mi rimise presto il fiato in corpo, e dopouna ventina di pagine che aveva ascoltate impassibile, misi volta dicendo: – Ma questo è molto ben scritto! – Maimusica di Rossini o Bellini mi suonò all’orecchio piùdolce di quelle parole. In conclusione, il principio glipiacque, e siccome mi voleva grandissimo bene, me lodisse con tanto calore che pareva fosse una sua vittoria.L’indomani mi rimisi al lavoro con più furore che mai, emi feci animo di parlarne a mio padre che desiderò ve-dere quello che già avevo fatto. Ma egli cominciava adessere travagliato di quell’infermità che poi, poveretto,l’anno dopo lo tolse di vita; ed ogni piccola tensione dimente l’affaticava, onde poco potei leggergli del mio la-voro.

Quest’uomo raro veramente, logorato prima del tem-po dai dispiaceri e dalle lotte sostenute per pretta virtùcontro un carattere impetuoso, per quanto sentisse ve-nirgli meno le forze, indarno si cercava di persuaderlod’astenersi da certe fatiche. – Il sacrificio di sè era diven-

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tata la sua seconda natura, e seguitò, fino al totale esau-rimento d’ogni vitalità, i suoi lavori in pro di que’ princi-pii ch’egli stimava utili all’Italia e sola base della società.

Venne finalmente il giorno che gli mancarono le forzee dovette mettersi in letto.

Il suo male gli dava di quelle soffocazioni che sono unpenare terribile per chi le sopporta, come per chi n’èspettatore, impotente a recarvi sollievo. Egli era da lun-ga mano usato alle lotte morali e fisiche, la fede di tuttala sua vita gliele mostrava sotto l’aspetto di vie doloroseaperte verso una felicità ineffabile; e perciò le soffrì collaserenità d’un’incrollabile fiducia nell’avvenire.

Coloro che col bel titolo d’aprire gli occhi e mostrarela verità (come se l’avessero in tasca), smuovono la fidu-cia dei poveretti che nel dolore presente vedono il pe-gno d’una gioia futura, se mi diranno: La verità bisognasvelarla ad ogni costo; rispondo così: Mi fissino prima ilcriterio della certezza per conoscerla, e poi strappinol’ultima speranza dal cuore de’ derelitti e vi lascino alsuo posto la disperazione. Saranno barbari e conseguen-ti. Ma finchè non mi fissano codesto criterio, finchè nonsanno rispondere alla terribile interrogazione: Quid estveritas? essi sono barbari ed assurdi. E per questo gli af-flitti, vale a dire i più, preferiscono ancora – barbarieper barbarie, assurdità per assurdità – quelle del gesuiti-smo politico mascherato di cattolicismo, a tutti i pantei-smi, a tutti gli ateismi, a tutte le speculazioni e i sistemidi tanti, che se avessero un po’ meno vanità ed un po’più carità nel cuore, ci penserebbero due volte prima ditogliere a quel loro popolo, per il quale danno in tantetenerezze, il solo vero conforto che abbia: quello di cre-dere le sue miserie presenti prezzo d’un’immensa felicitàavvenire. Persino al povero selvaggio, che con un ritopuerile crede procurarsi nella vita futura sorte miglioreche non ebbe nella presente, io mi guarderei di cancella-re dal cuore questa sua fede, se non fossi sicuro di poter-

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vene sostituire un’altra di conforto maggiore. Qual dirit-to ho io di rendere più miserabile che non volle farlo Id-dio uno spirito immortale?

La malattia di mio padre gli aveva dato un po’ di re-spiro, potè lasciare il letto, ed anzi si ristabilì abbastanzaper accompagnare a Genova mia madre, la quale ci an-dava per fuggire l’aspro inverno torinese. Ebbe qualchegiorno di miglioramento, ma poi si rinnovò più forte ilmale e ci giunse a Torino la notizia che ogni speranzaera spenta. Roberto ed io si partì per Genova: «Allamezzanotte (così mia madre nel suo racconto) arrivaro-no da Torino i suoi figli Roberto e Massimo, li abbracciòteneramente, diede loro qualche ricordo, raccomandò lamadre, la concordia e la pace, li benedì con tutti i senti-menti d’un cuore paterno... » e addì 29 novembre 1831morì d’anni 67, e nove mesi.

Non entrerò in altro su questo argomento. I lutti do-mestici non possono, com’è naturale, incontrare ne’ let-tori altro che tiepide simpatie: ed i segreti del cuore nondebbon aprirsi se non a chi ne può essere veramentepartecipe. Dirò solo che per me fu un dolore grande elungo, e neppur ora non scrivo cogli occhi interamenteasciutti.

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Massimo D’Azeglio - I miei ricordi

CAPO TRENTESIMO

SOMMARIO. – Funerali di mio padre, e tariffa del mortorio –A primavera vado a visitare il castel D’Azeglio – I buoni Aze-gliesi e gli antichi feudatari – Patto di divisione con mio fratel-lo maggiore, e mio primo testamento – Morto il padre, è me-glio che ogni fratello stia da sè – Io mi separo da Roberto, etrasferisco la mia stanza a Milano – Movimento artistico di Mi-lano a quei tempi – Lotta religiosa nel mio animo – Prendomoglie; metto su casa; ma taccio delle cose domestiche ––Il go-verno austriaco e la Lombardia dopo il 1830 – Delle Loggiemassoniche e della Giovine Italia – Presento tre miei quadriall’Esposizione di Brera; e piacciono – Do termine al mio Fie-ramosca; ed entro in dimestichezza coi primi letterati di Mila-no – Il Fieramosca mi procura guadagno ed onore al di làd’ogni mia aspettazione – La vanità timida e la vanità imperti-nente – Meritava proprio il mio romanzo il favore che eb-be?…Risposta e riflessioni – Come capisco l’Imprimatur all’I.e R. Censura.

Finchè padre e madre sono vivi, siamo certi d’averechi ci ama per noi. Quando non sono più, la certezza èsparita, e non rimane che la possibilità. Per questo laperdita de’ genitori segna una delle fasi più gravi dellavita; e soltanto i cervelli incapaci di mai fermarsi in unpensiero serio, od i cuori spogli d’ogni nobiltà, trapassa-no indifferenti questa vicenda. Nelle mie circostanze do-mestiche poi, il caso era ancor più doloroso, la perditapiù irreparabile. Se colle mie parole e meglio colle cita-zioni ho potuto dare al lettore un’idea del padre che nondovevo mai più rivedere, non sarà necessario ch’io entriin molte parole per persuaderlo del senso di solitudine ed’abbandono doloroso che m’invase alla sua morte.

Per quanto non fosse nelle idee del defunto e neppurnelle nostre il volere sfarzi di funerali, pure chi mai puòvedere portare in terra il corpo d’una persona cara, sen-za sentire un desiderio naturale di vederle fatto un pocod’onore?

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Venne dunque quella trista e ripugnante discussionecolla parrocchia per la tariffa, che regola le minime cir-costanze del mortorio. Bisognò sentirsi interrogare, sen-tirsi enumerare i prezzi; e tanto per le campane, tantoper le candele, e per la coperta della bara semplice, e perquella colle trine d’argento.... e tutto ciò coll’evidentestudio di speculare sulla noncuranza e l’arrendevolezzadi chi ha in cuore ben altri pensieri, per ricavar guada-gni de’ quali arrossirebbe un usuraio.

L’onore che rendiamo alla memoria de’ nostri morti,amore così puro d’egoismo che sentiamo ancora per lo-ro, parte dalle fibre più sensibili del nostro cuore, e nes-sun popolo in nessuna dell’epoche conosciute si mostròmai indifferente a tali sentimenti. E noi così civili, inmomenti di tanto strazio, s’ha ad avere lacerato il cuoredall’ugne di quegli uccelli di rapina? Fra le cento rifor-me che dovrà incontrare il culto cattolico, conti anchequella de’ funerali. Essi per ora sono una sua vergogna.

Mio fratello ed io, dopo qualche tempo conceduto allutto comune, ritornammo a Torino. Vi passai l’invernoin una tristezza che non oso paragonare a quell’altra inche caddi per i casi di Roma: mi sembrerebbe irriveren-za ad una troppo più veneranda memoria. Ma posso di-re bensì che il mio presente dolore ebbe conseguenzemorali, state, per così dire, già iniziate da quell’altro, eche questo ridusse a forme più decise e durevoli L’affli-zione che i più tengono un anatema, è invece una bene-dizione di Dio!

Dall’afflizione nascono i regressi sul passato, le rivela-zioni di colpe o dimenticate o ignorate, i salutari rim-proveri della parte buona di noi alla parte cattiva, le ri-soluzioni severe, le mutazioni dolorose ma irrevocabili.

Sentendo che il passo varcato mi aveva trasportato inuno stadio nuovo, venni insensibilmente provando il de-siderio di raffrontare col passato il nuovo orizzonte chemi si apriva sull’avvenire; nacque in me la voglia di met-

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termi sotto gli occhi il concetto generale della mia vita;di definirne le epoche, le fasi; di dividerne, per così dire,i capitoli come s’usa in una biografia. Che cosa avevofatto sin allora? Avevo studiato, è vero, con bastante co-stanza, ero entrato per una via non biasimevole certa-mente, molti alla mia età avevano fatto peggio.... mastringiamo il pugno, alla fin fine avevo fatto all’amore edipinto: avevo 32 anni. Potevo viverne altri 30 o 40; etutto doveva finir lì? Far all’amore e dipingere? Mi pare-va poco o non abbastanza (non potevo sapere allora,che, quanto a mutar mestieri, il destino in appressom’avrebbe servito à souhait); e venivo formando piani eipotesi per far di più, senza trovar nulla che mi conten-tasse. Ero come l’uomo nelle tenebre, che tasta per tro-vare un corpo sodo al quale appoggiarsi, e non incontrache il vuoto. Passai un brutto inverno. Venuta la prima-vera, mi parve bene dare un’occhiata al modesto averelasciatomi da mia padre; e me n’andai al castel d’Azeglioper passarvi qualche tempo. La terra conta circa duemi-la anime e giace ai piedi d’una collinetta sulla cui cimasorge il castello, a cinque miglia ad oriente d’Ivrea, ovesbocca la valle d’Aosta.

La tradizione vuole che all’epoca romana fosse unaspecie di colonia penitenziaria, un luogo immune, unAsylum; quindi Azeglio. Ora è un paese di brava e buo-na gente, di quel sangue (un po’ stizzoso, ma buono) chepretendiamo avere noi Canavesani. Con questo noi iomi vanto un poco; perchè, come dissi, a rigore i miei so-no di Savigliano, centro del Piemonte: ma tante bellememorie mi legano agli Azegliesi, ed essi dal canto loromi vogliono tanto bene, che non potranno aver per males’io mi dico dei loro; quantunque la mia famiglia, per viadi femmine e soltanto da poche generazioni, divenisseproprietaria di quel castello.

Le belle memorie sono che, mentre i miei vecchi viesercitavano l’autorità feudale (lo dico con profonda

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soddisfazione), si fecero amare e benedire da tutti. Maciò che i vecchi del paese ricordavano sempre con com-mozione, era l’erezione della bella chiesa col suo belcampanile, che mio nonno condusse a tutte od a moltesue spese. Mi ricordo che da ragazzo sentivo parlare del-le difficoltà incontrate per farvi giungere certe grossecolonne; e mi sembrava un’impresa tale, che vedevo ildetto nonno a traverso lo stesso prisma che ora mi mo-stra i Faraoni erettori delle Piramidi.

In quell’estate andai vagando pe’ monti, per le villeg-giature de’ miei amici, col mio manoscritto di Fieramo-sca che venivo aumentando, finchè venuto il freddo, ri-tornai anch’io a Torino, ove dovevo con mio fratellofirmare l’istrumento finale di divisione della sostanzapaterna. Mentre il notaio lo stava preparando, io prepa-ravo il mio testamento. In tutti i momenti della vita lamorte è possibile, ed ho sempre creduto che è un atto daonest’uomo il non lasciar imbrogli dopo di noi. Oltre aciò l’orazion funebre che si suol fare dal pubblico a chimorendo intestato lascia la famiglia in guai, non mi ten-tava punto. – Quell’imbecille (si suol dire) credeva che ilfar testamento affrettasse la morte; ed ecco ora liti, avvo-cati, spese!... Che balordo! – Più d’un caso m ‘è occorsovedere di persone cadute in disgrazie per lo sciocco ri-brezzo di un loro maggiore a pronunziare la parola la-scio, e ad ammettere che il mondo non volendo finire,bisognerà pure avere eredi.

Quanto a me, firmato l’atto con mio fratello, avevo intasca il mio testamento; onde in tutta la mia vita, rimasiintestato soltanto quella mezz’ora che penai ad andareda casa mia all’uffizio del notaio, al quale lo consegnai.Io credetti buono per me questo consiglio, e però mipermetta il lettore che lo creda buono anche per lui, semai non ci avesse pensato da sè.

Un altro consiglio che, vivendo e provando, si trovabuono egualmente, è quello di non farsi romanzi dome-

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stici. Finchè il padre vive, la casa è una e può servire pertutti i fratelli. Ma morto il padre, la casa non è più una.Vi sono difatti tante case quanti sono i fratelli. Al mo-mento della perdita, i cuori sono commossi, e si prendo-no partiti che non sempre alla prova riescono: e ciò sen-za taccia o colpa di veruno, ma per semplice forza de’fatti. Basta una differenza di carattere: uno è allegro, di-sinvolto; l’altro è grave, minuto: uno ama camere scalda-te, l’altro le preferisce fresche, ec. Simili inezie bastano,fra eguali, a generare noie, disturbi che possono farsiorigini di serie collisioni. Io non nego che esistano esem-pi di fratelli uniti in convivenza felice. Beati loro! Mal’eccezione non fa regola: ed è prudente non stabilire si-mili convivenze ne’ momenti ove il cuore predomina;ma provarle, concertarle, se si credono opportune, sottola guida della calma ragione.

Io provai la verità di queste osservazioni.Mio fratello e mia cognata erano veri modelli d’ogni

miglior dote morale: il nome che lasciarono di sè fuquello di veri benefattori del popolo. Ambedue teneva-no scuole a proprie spese pe’ figli de’ poveri nelle qualiimpiegavano somme non piccole. Ma la spesa non laconto come un gran merito. Conto per un gran meritol’aver essi in persona passato ore ed ore ogni giorno conquei poveri bambini insegnando ad essi a leggere, ad es-ser puliti, sinceri, buoni; a correggersi finalmente di tut-te le male abitudini che si prendono nelle classi cui nes-suno sinora aveva pensato in altro modo che mandandoin galera quando occorreva...; ed alle quali si era peròdimenticato procurare la possibilità di essere galantuo-mo! Conto per un gran merito, in una parola, la carità dipelle; e merito minore, ne’ ricchi, la carità di borsa.

Io mi ricordo talvolta, d’inverno, d’essermi trovato incasa di mio fratello il dopo pranzo, in quel momento inquel momento che una persona non giovane, grave dimembra, più desidera il riposo. Suonava l’ora della

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scuola; Roberto diceva alla moglie: «È ora d’andare.» Lesi leggeva in viso lo sforzo, poverina; ma s’alzava con unpo’ di sospiro, ed usciva, fosse nebbia, neve, o pioggia,per andarsi a chiudere tutta la serata in quell’ambientepoco fragrante e soffocato della scuola! Qui sta il veromerito. Alla morte d’ambedue, la loro bara fu accompa-gnata al camposanto da un nuvolo di bambini, e da’ loroparenti; tutta povera gente che il cuore, non l’interesse,conduceva a far, secondo le loro forze, onore a chi avevapensato ad essi in vita. Mio fratello e mia cognata ebbe-ro così il più raro de’ premi quaggiù, la gratitudine nonimposta, non pagata, ma spontanea dei beneficati; e spe-riamo n’abbiano ora da Dio un altro maggiore.

E nonostante tutto questo, io dovetti riconoscere es-sere oramai opportuno ch’io facessi casa da me; però mirisolsi trasportare i miei penati a Milano.

A Milano trovavo i Tedeschi: e questo non era sedu-cente; ma lo era forse molto più Carlo Felice, felicissimodi tenere il regno da loro? Volendo io attendere agli stu-di ed all’esercizio dell’arte, a Torino c’era da morir tisi-co: le arti vi erano tollerate come gli Ebrei in ghetto. AMilano invece era nato un movimento artistico prodottodalla riunione di varie circostanze, e di molti uomini di-stinti che v’erano concorsi. Era di moda acquistar qua-dri moderni. I signori ricchi venivano formando gallerie;i non ricchi si condannavano a strane privazioni talvolta,pur d’avere un quadretto del tale o tal altro artista. È ce-lebre il calzolaio Ronchetti, che ai migliori artisti facevastivali e scarpe, prendendo in cambio bozzetti, quadri,statuette, modellini, ec.

Il far quattrini non era, come non fu mai, il mio scopoprincipale. Intendevo tuttavia coltivare l’arte, come pro-fessione, per altri motivi, vendendo i miei quadri: per-chè è il miglior modo di classificarsi; e perchè è la più si-cura prova che la vostra opera piace: finalmente perchèil sentirsi capace di far scaturire dal proprio lavoro di

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che vivere agiatamente, lusinga l’amor proprio e sooddi-sfa quel bisogno d’indipendenza che è la base del miocarattere. Per questo l’ozio avvilisce ed il lavoro nobilita:perchè l’ozio conduce uomini e nazioni alla servitù;mentre il lavoro rende li forti ed indipendenti: questibuoni effetti non sono già i soli. L’abitudine al lavoromodera ogni eccesso, induce il bisogno, il gusto dell’or-dine; dall’ordine materiale si risale al morale: quindi puòconsiderarsi il lavoro come uno de’ migliori ausiliaridell’educazione.

Questo bisogno d’ordine è per me natura: i casi dellamia vita, una serie d’esperienze amare, l’avevano aumen-tato, e le riflessioni fatte nelle ore di tristezza lo rendeva-no oramai irresistibile. Nel decidermi a lasciare il sog-giorno di Torino per stabilirmi a Milano, non era l’artela mia sola mira. Io provavo un vivo desiderio di rendereregolare la mia vita; e ricordando le fasi e le vicende diquei miei benedetti amori, venivo costretto a confessareche, allo stringere, mi ero fatto molto male a me, ne ave-vo fatto molto ad altri, e m’ero procurati in compensopochissimi beni. E questi pensieri non erano conseguen-ze di sentimenti religiosi ravvivati; ma puro effetto d’unsenso d’equità naturale, col quale giudicavo me stessoingiusto e colpevole verso gli altri e verso me, ne prova-vo rammarico, e desideravo mutare abitudini. Capivobenissimo che il senso religioso, anzi una vera e positivafede mi sarebbe stata un valido appoggio in simili risolu-zioni; desideravo averla, non so che cosa non avrei fattoper averla; ma alla spiegazione dell’origine del male datamediante il dogma del peccato originale, la mia menteproprio vi si rifiutava. Quindi cadevano tutte le conse-guenze. Furono giorni d’aspre e dolorose lotte. Ma eracosì forte in me quell’aspirazione ad una vita nuova; era,come fu sempre, così contrario alla mia natura il durarenell’irresolutezza, ch’io mi decisi d’ uscirne, prendendoun partito che parrà strano al lettore: quello di praticare

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un culto prima di essermi potuto ben persuadere dellaverità de’ suoi dommi. Io misi in terra il virgulto, spe-rando le barbe venissero poi: mi diedi a praticare i pre-cetti del culto cattolico, confidando che col tempo lamia mente ne avrebbe poi comprese ed accettate le basi.Non so se sia possibile di dare una prova maggiore dibuona volontà, in questa categoria d’idee.

Si comprende che, volendo dare alla propria vita unimpianto, una direzione affatto nuova, il mutare sog-giorno, se si può, procura grandi facilità, e fu questa ri-flessione, unita ai miei progetti artistici, che mi condussea Milano.

Io mi ci stabilii, vi passai dodici anni, vi comprai casa,vi presi moglie, vi formai una famiglia; e tenevo per mol-to probabile che pel rimanente della mia vita dovesse es-ser quello il mio definitivo stabilimento. Poi sorsero perme imprevedute circostanze: s’aggiunse il turbine chesconvolse l’Europa, e che ancora non ha compita tuttal’opera sua; e venni balestrato di nuovo nel vorticed’una carriera agitata, come dirò più innanzi. Quei do-dici anni furono da me spesi nella vita di casa e di fami-glia. In questo stato, ogni atto, ogni questione, ogni inci-dente perde il carattere prettamente individuale, epresenta invece l’interesse complesso di due o più indi-vidui. Se ad un uomo è lecito aprire il suo cuore e pale-sare i propri sentimenti senza riserva; non deve, comepretendeva quel filosofo, rendere di cristallo per altri lepareti domestiche.

Se si vuole che siano rispettate, conviene essere il pri-mo a darne scrupoloso esempio. Senza entrare in narra-zioni che desterebbero d’altronde pochissimo interesse,io mi limiterò dunque a ricordare que’ lavori che io feciin Milano, sì artistici come letterari, durante quell’epo-ca; e a dar qualche cenno sulle cose, sugli uomini e suitempi d’allora.

Quantunque l’imperatore Francesco I avesse detto ad

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una deputazione di cittadini: – Non poter egli far altrooramai se non cercare che Milano decadesse lentamen-te, – Milano non avea voluto decadere. Certo il Governostraniero e dispotico fa sempre l’ufficio suo: e si vedràqualche anno di Governo libero ed indipendente qualieffetti saprnno produrre sulle città italiane: ma insommaneppure i Tedeschi non poterono riuscire a ridurre atroppo mali termini la Lombardia. Nel momento delmio arrivo, le mutazioni accadute in Francia, la guerrad’indipendenza della Polonia, i moti dello Stato papale,faceano scorrere il sangue più rapido nelle vene di tutti.

Le arti, le lettere, le industrie, l’intera società parteci-pava a questo aumento di vitalità. La fibra molle delpaese si tendeva, si temprava: si respirava meglio, tuttierano più operosi, più volenterosi in ogni cosa.Quest’eccitamento cadde poi di nuovo gradatamente, amisura che in Francia si consolidavano gli Orléans; cheil loro Governo lasciava cadere in mano ai Tedeschi edal papa quegl’Italiani che s’erano potuti illudere perl’occupazione d’Ancona; e che la Polonia, parte per col-pa propria, ma molto più per colpa d’altri, si sentiva an-nunziare dalla tribuna francese che l’ordine regnava aVarsavia. La popolazione lombarda ricorreva allora allasua vecchia consolazione del mangiare e bere e divertir-si; e non rimase in piedi se non il meccanismo delle so-cietà segrete e della Giovine Italia, alla quale, essendogiovine, non si poteva chiedere d’aver giudizio, e certon’ebbe pochissimo.

Le lunghe oppressioni, col rendere la bugía ed il fin-gere una necessità, corrompono profondamente il carat-tere de’ popoli. Purtroppo l’Italia n’è alla prova; pur-troppo v’è nella natura italiana la tendenza a camminaresotterra, l’istinto talpa: e Dio sa quando ce ne potremocorreggere! Errore e colpa anche sotto le tirannidi stra-niere: ma errore, colpa ed assurdità sotto un Governo li-bero come il nostro. Ed a questo proposito dirò, che an-

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che senza parlare di quelle società dalle quali escono gliassassinii, e, si dicè da molti, anche certi furti colossali,io non vorrei in Italia neppure le Logge massoniche.Non ch’io intendessi chiuderle o proibirle, se ne avessila potestà, ma vorrei che da sè si chiudessero, almenoper cinquant’anni. Sono il primo a riconoscere che nonv’è nulla di più innocuo del Grand’Oriente, del ReIram, del Principe Cadoc, del grembiulino e del martel-lino, ec. So benissimo che la perfetta luce, ossia il gransegreto, non è poi cosa tanto spaventevole, come si diceda alcuni: so altresì che in molti paesi da quest’associa-zione si ricava parecchi vantaggi sociali; quantunquequell’affettazione nel mettere sempre avanti la benefi-cenza come scopo dell’istituzione, mi puzzi discreta-mente del Paolotto.Ma in Italia, signori miei, nel paeseclassico delle sètte, delle dissimulazioni politiche, dovetutto degenera in combriccola, in consortería, in lavoroa sottomani, lasciateci un po’ respirare, e portate il vo-stro Grande Oriente, o più all’oriente o più all’occiden-te, se volete, ma non mettete in tentazione di diventaresettari. Poichè con tutte le vostre beneficenze, coi vostrimutui appoggi, i vostri ospedali, tutte cose per sè eccel-lenti, non potete impedire che sul nostro suolo incancre-nito, la vostra società umanitaria non diventi una bell’ebuona sètta o società segreta politica; colle sue simula-zioni, esclusioni, persecuzioni pretine; co’ suoi intrighi,le sue mene per dar impiego all’uno, per toglierlo all’al-tro, per dirigere e comandare, o lusingarlo o spaventarlodalle tenebre: sostituendosi in una parola all’azione lea-le, chiara e pubblica dei poteri politici e della società;nella quale così la natura settaria, invece di correggersi,persiste e diventa più trista, non avendo oramai nè scu-sa, nè pretesto veruno.

E difatti vi domando un poco: Qual’è l’opinione,l’idea, il pensiero che non si possa dire o stampare oggiin Italia, e sul quale non si possa discutere e deliberare?

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Qual’è l’assurdità, o la buffonata, o la sciocchería chenon si possa esporre al rispettabile pubblico in una salao su un palco scenico di qualche teatrino (pur di pagarla pigione, s’intende) col suo accompagnamento di cam-panello, presidente, vice presidente, oratori, seggioloni,candelieri di plaqué, lumi, ec. ec.?

Basta andar d’accordo col codice civile e criminale;del resto potete a piacimento radunarvi, metter fuoriteorie politiche, teologiche, sociali, artistiche, lettera-rie.... chi vi dice niente? Oh perchè dunque tanti segre-tumi? Di qui non s’esce: o per ragazzata, per darvi im-portanza come i bambini a far l’altarino; o perficcargliela al codice, e lavorare di mina sotto la casa chetutti abitiamo; o finalmente per darvi la mano ad averebuoni posti, influenze, quattrini; e perciò osteggiare efavorire, non chi è utile o dannoso al pubblico, ma chi vicontraria o v’aiuta ne’ vostri pasticci! Per questo belguadagno, tanto valeva tenerci i gesuiti!

Un paese libero non vuol misteri; ed in Italia più chealtrove, a voler uscir presto dal pantano, s’ha ad avergran riguardo a fuggire tutto ciò che conduce al simula-re e ad agire nelle tenebre.

Questa nostra malattia morale presenta il fenomenomedesimo di molte epidemie. Dato un paese, verbigra-zia, ove sia il cholera, tutti i disordini degenerano incholera; fra noi tutto degenera in sètta.

La Giovine Italia fu mal esempio e mala scuola all’Ita-lia coll’assurdità de’ suoi principii politici, la sciocchezzade’ suoi propositi, la perversità dei suoi mezzi, e final-mente col tristo esempio dato dalla sua direzione, chestandosene in luogo sicuro mandava alla mannaia i ge-nerosi balordi che non capivano essere il loro capo con-sacrato non all’Italia, ma a rinverdire lo zelo settarioisterilito.

Eppure ancora oggidì si trova chi crede che l’indipen-denza e la libertà presente si devono in gran parte a co-

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deste sètte! È vero che si trova altresì chi stima che sen-za gli orrori del 93, il mondo non sarebbe risorto. Noncapiscono che ed il terrorismo e le sètte de’ sicari e delcoltello, hanno messo negli uomini tanto spavento, cheappena ora dopo lunghi anni cominciano ad aver menopaura della libertà ed a preferirla al dispotismo!

Perciò quelle ribalderie hanno, non affrettata, ma ri-tardata la nostra liberazione.

Durante il mio soggiorno d’allora a Milano, la gio-ventù in generale s’occupava di bere o di ballerine (espesso le sposava!); declamava contro i Tedeschi, tenen-dosene totalmente separata; viveva nell’ozio e nell’igno-ranza più profonda; ed alcuni più arrischiati tenevanomano a tutte le tenebrose quanto inutili operazioni dellaGiovine Italia, che si riducevano a far correre lettere,carte, giornali, passaporti; a trafugare emissari, aiutarcompromessi, comunicare avvisi a prigionieri, ec.; e perfar che poi? Non lo sapevano neppur essi, e sfido a po-terlo sapere!

Io che non dividevo le opinioni della Giovine Italia,che riconoscevo perfettamente inutile tutto il moto chesi davano i suoi fidi, e, di più, che detestavo quelle abitu-dini di continua menzogna (non parlo de’ pugnali), mitenevo affatto all’infuori di tutto. Io pensavo (come an-cora lo penso) che del carattere nazionale bisogna occu-parsi, che bisogna far gli Italiani se si vuol avere l’Italia;e che, una volta fatti, davvero allora l’Italia farà da sè.M’ero in conseguenza formato un piano d’agire suglianimi per mezzo d’una letteratura nazionale, ed il Fiera-mosca era il primo passo mosso in questa direzione. Di-fatti in tutto il tempo che passai a Milano prima del 45,la polizia austriaca non ebbe mai occasione di occuparside’ fatti miei. Se mai avesse immaginato che io ebbi tan-ta accortezza da sfuggire alla sua vigilanza, sarebbe ca-duta in un grave errore.

Nel suo senso io fui incolpabile. È vero ch’io venivo

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ordinando modi per ficcargliela in altre maniere, nellequali forse non fu nessun guadagno per lei, e per questonon ho la minima pretensione alla sua gratitudine.

Questo era lo stato politico del paese. Quanto all’arti-stico, come già accennai, v’era una vitalità tutta nuova,che durò una diecina d’anni e presentò talvolta i caratte-ri d’un vero furore. M’ero portato con me tre o quattroquadri; quello della Disfida di Barletta assai grande;l’Interno d’un bosco d’abeti; e la Battaglia di Legnanodi grandezza minore. A me non parevano cattivi; ma sic-come io patisco, già lo dissi, al superlativo grado di diffi-denza di me, mi sentivo indosso la tremarella pensandoal momento che gli avrei esposti al pubblico nelle sale diBrera. Come accade a chi ha la fantasia elastica, mi pare-va, se chiudevo gli occhi, di vedere i miei poveri tre qua-dri circondati da bei quadroni di paesi vivi e veri, e perpoco non ci vedevo gli alberi muoversi al vento e gli uc-celletti svolazzare pe’ rami.

Prima di parlar di nulla con nessuno (dissi fra me)diamo un po’ un’occhiata prima di tutto, e vediamoquello che sanno fare. – Così cominciai ad andare per glistudi, a far conoscenza cogli artisti e co’ principali dilet-tanti, ad entrare in qualche confidenza con loro. Essi na-turalmente avranno voluto sapere chi ero, si sarannoinformati, e così bel bello venni ad essere accolto e ve-duto volentieri. E a poco a poco mi venivano interro-gando: «E anche lei disegna o dipinge?» Ed io tutto mo-desto: «Eh sì! mi diverto a dipingere un poco.» E questamodestia era ottimo calcolo, che consiglio a tutti ne’ casisimili al mio. Chi non si vanta è stimato un terzo più delvalore, se ha merito. Se non ne ha, non avendo dettod’averne, nessuno gliene vuol male. I giovani che entra-no in carriera se la leghino al dito.

La conseguenza di questa mia perlustrazione fu difarmi riavere un po’ di fiato, e diminuire, non dico ces-sare affatto, la tremarella. Non già che avessi trovato ar-

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tisti di poco valore; ma alla fine m’ero convinto che lefoglie de’ loro alberi non s’agitavano allo zeffiro ed era-no dipinte come le mie. Venne finalmente il gran giorno:si cominciò a portare a Brera le opere degli artisti; ed an-ch’io, presi falegnami, tappezzieri, facchini, vi feci por-tar le mie, nel luogo che m’avevano destinato, ed era,per gentilezza di que’ signori uno de’ migliori.

Non mai come allora ho tanto spiato gli sguardi, i mo-ti de’ visi, le espressioni delle fisonomie, non solodegl’intelligenti, ma de’ bidelli, de’ facchini, de’ fattoriniche aiutavano a metter su il mio altarino, per vedere sefacevo colpo. Ma tutto riusciva sempre ad un non so chetra il sì ed il no, tra la speranza e la paura. Ancorchèun’opera d’arte sia passabile, perchè i più la trovino talee la guardino, bisogna che lo sentano dire da altri. Il vo-to d’un amico però m’induceva a rassicurarmi, equest’amico era il direttore del gabinetto numismaticodi Brera, Cattaneo.

Egli aveva studiata l’arte a Roma prima de’ Francesi,ed era contemporaneo di Bossi, d’Appiani, e di tutti iprimi paesisti d’allora; di Denys, Woogd, Hackert, e si-mili. Di questo valentuomo, che mi voleva bene e nonera adulatore, molto mi fidavo, ed egli mi ripeteva sem-pre che avrei incontrato, e così mi veniva crescendo ilcoraggio.

Al 1° settembre s’apri l’esposizione. Cattaneo era sta-to indovino, ed il mio incontro fu al di là di quanto avreipotuto sperare. Il Bosco d’abeti venne acquistato dal vi-cerè; Barletta dal conte Porro, e Legnano non mi ricor-do da chi. In due o tre giorni trovò collocamento tutta lamia mercanzia. Temevo che quella vittoria de’ Milanesisull’Imperatore mi suscitasse difficoltà. Difatti non c’erada sbagliare sull’intenzione. Il povero Barbarossa, colcavallo inevitabilmente bianco di tutti gli eroi dipinti, sitrovava in terra ai piedi del Carroccio in assai cattive ac-que: e se in effetto si fosse trovato ridotto proprio così,

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dubito che tre giorni dopo avesse potuto ricomparire inPavia, ove l’avean tenuto morto.

A ogni modo la polizia e il governo, sapendo purtroppo che in realtà era il Carroccio in terra e l’Impera-tore in piedi, non vollero turbarmi il mio successo coninutili seccature.

Dopo un tale incontro, le commissioni piovvero datutte le parti, e sempre n’ebbi in quantità durante il miosoggiorno a Milano: tantochè m’accadde fare ventiquat-tro quadri in un inverno, tutti o quasi tutti ordinati.

Mentre mi ingegnavo per prendere una buona posi-zione artistica nella mia nuova sede, ero intanto semprevenuto lavorando al Fieramosca, che si trovava oramaipresso alla sua fine. Le lettere in quel tempo erano rap-presentate in Milano da Alessandro Manzoni, TommasoGrossi, Torti, Pompeo Litta, ec. Vivevano fresche me-morie dell’epoca di Monti, Parini, Foscolo, Porta, Pelli-co, di Verri, di Beccarìa; e per quanto gli eruditi od i let-terati viventi menassero quella vita da sè, trincerata incasa ed un po’ selvaggia, di chi non ama d’esser seccato,pure a volerli, e con un po’ di saper fare, c’erano, e sipoteano vedere. Io mi trovavo portato naturalmente inmezzo a loro come genero di Alessandro Manzoni; co-noscevo tutti, ma mi ero specialmente dimesticato conTomamso Grossi, col quale ebbi stretta ed inalterataamicizia sino alla sua purtroppo precoce morte. A lui eda Manzoni specialmente, desideravo di mostrare il mioscritto e chiedere consigli, ma di nuovo mi era presa latremarella, non più pittorica ma letteraria. Pure biso-gnava risolversi, e mi risolsi: svelai il mio segreto, implo-rando pazienza, consiglio e non indulgenza. Volevo laverità vera. Fischiata per fischiata, meglio quella d’unpaio d’amici che quella del pubblico. Ambidue credoche si aspettavano peggio di quello che trovarono, a ve-dere il viso approvativo, ma un po’ stupito, che mi fece-ro quando lessi loro il mio romanzo.

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Diceva sorridendo Manzoni: «Strano mestiere il no-stro di letterato; lo fa chi vuole dall’oggi al domani! Ec-co qui Massimo: gli salta il grillo di scrivere un romanzo,ed eccolo li che non se la sbriga poi tanto male».

Quest’alta approvazione mi mise in petto un cuor dileone, e mi diedi a lavorare di nuovo con coraggio, tan-tochè nel 1833 potei intraprendere la pubblicazione. Aripensarci ora, mi trovo essere stato d’una bella imperti-nenza, a venirmene fresco fresco, io che non avevo maifatto o scritto nulla, in mezzo a questi barbassori col mioromanzetto, e pubblicarlo franco come una spada.

M’andò bene, e questo risponde a tutto.C’era allora una stamperia in via San Pietro all’Orto,

diretta da un tal Ferrario, omaccione grande e grosso,antico giacobino della Cisalpina, uomo di onesta fama,tanto che in que’ tempi di ladrerie franco-italiane erauscito immune d’ogni sospetto dalla gelosa missioned’andare a Loreto, mandato dal governo a dare una ri-pulita al famoso tesoro della Madonna. Siccome nessu-no mi avrebbe offerto uno scudo del mio manoscritto,se volevo pubblicarlo bisognava metter mano alla borsa.Quest’uom dabbene s’incaricò della stampa a patto dirifarsi delle spese sull’introito; e il di più restasse a me.Ci potevo rimettere, come si dice, l’unguento e le pezze:invece m’andò abbastanza bene; e ricavai 5000 franchid’utile dall’Ettore Fieramosca.

Non per vantarmi, ma se potessi riscuotere l’uno percento di quello che in appresso ne ricavarono altri, po-trei tener carrozza; la quale Salomone, dicendo che tuttoal mondo è vanità, eccettuava sola dall’anatema, essendoanche lui, probabilmente quando lo diceva, vecchio co-me sono io.

II giorno che portai in San Pietro all’Orto il rotolo delmanoscritto, e che, come dice il Berni:

«………………ritrovato

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Un che di stampar opere lavora,Dissi, stampami questa alla malora»

fu una nuova tremarella peggio delle passate. Ma ven-ne poi la maggiore di quante ne ho avute in vita mia, e fuil giorno della pubblicazione: quando uscendo la matti-na vidi il mio riverito nome a gran letteroni su per lecantonate! Mi pareva di vederci tramezzo le lucciole.Qui davvero alea jacta erat, e la mia flotta in cenere

Questa gran paura del pubblico si può, volendo, in-terpretarla per modestia; ma io credo che in fondo siavanità bell’e buona. Naturalmente parlo delle personed’un ingegno e d’un buon senso discreto. Presso i balor-di, la vanità invece prende la forma d’una fiducia imper-tinente. Quindi le tante scioccheríe che si pubblicano, eche darebbero una curiosa idea di noi in Europa, se, perfortuna nostra, essa non ignorasse l’italiano. Per noi poinegli affari di casa, i due eccessi sono dannosi quasiegualmente. Nel parlamento, per esempio, i primi, quel-li della vanità timida, potrebbero dire con vantaggio ditutti il loro parere un po’ più sovente; e se al tempo stes-so gli altri della vanità impertinente non avessero sem-pre la voce per aria, le discussioni sarebbero più sugose,durerebbero meno, e gli affari si sbrigherebbero piùpresto e meglio. La stessa riflessione potrebbe estender-si ad altri rami; al ramo giornalistico, letterario, sociale,ec. ec. Poichè la vanità, pur troppo, è la gramigna cheisterilisce il nostro campo politico; e poichè è pianta afoglia persistente, che fra noi fiorisce tutto l’anno, non èmale metterci in avvertenza.

La vanità timida lavorava terribilmente in me il gior-no che pubblicai il Fieramosca. Per le prime ventiquat-tr’ore non c’era da poter saper nulla: anche ai più zelan-ti, per prendere idea d’un libro, un giorno pure ci vuole.L’indomani, alla prima uscita, m’imbattei in un mioamico giovane allora, oggi uomo maturo, che non ha

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mai sospettato qual colpo fatale mi desse senza volerlo.L’incontrai in piazza San Fedele, dove abitavo, e dopo isaluti, mi dice: – Sicchè? hai pubblicato un romanzo?....Bene, bene; – e via indifferente a parlar di tutt’altro. Io,che a cavarmi sangue non me ne sarebbe uscita una goc-cia, dissi fra me: – Misericordia, aiuto! son servito! nem-meno se ne parla del povero Fieramosca! – Mi parevaimpossibile che colui, membro d’una famiglia numero-sissima, mescolata con tutta la società ricca e signoriledella città, non ne avesse sentito parola, se qualcunol’avesse pur detta.

Essendo poi ottimo giovane ed amico, mi sembravaegualmente impossibile, che detta e udita la parola, nonme la ripetesse. Dunque era fiasco; il peggiore de’ fia-schi, quello del silenzio! Restai colla bocca amara, e nonso dove me n’andassi; ma presto la bocca cambiò sapo-re, e mi si fece buona.

Il Fieramosca riuscì, e riuscì tanto, che ne rimasi, co-me dicono i Francesi, abasourdi. Potevo dire davvero: –Je n’aurais jamais cru être si fort savant. – L’incontroandò sempre crescendo; dai giornali, dalla parte maschi-le della società passò alla parte femminile; si dilatò pergli studi, e dietro le quinte: fui il vade mecum delle pri-me donne, dei tenori, l’ascosa gioia delle educande, pre-si domicilio fra il materazzo ed il saccone dei collegiali,degli accademisti militari; ed ebbi un’apoteosi che ar-rivò al punto di fare scrivere in alcuni giornali essere fa-rina di Manzoni. Inutile d’aggiungere che soltanto a chinon se n’intendeva, poteva venire in capo simile idea.Chi se n’intendeva non prese di questi granchi. Sarebbecome scambiar un Cesare da Sesto con Raffaello.

In conclusione fu un vero furore. Lo meritava o nonlo meritava? Qui sorge una questione curiosa sul destinodei libri; che è il fatto, molte volte, il meno esplicabile edil più anomalo, date le regole ordinarie. Generalmentese si parla, verbigrazia, del Guerrin meschino, di Paris e

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Vienna, del Caloandro fedele, de’ Reali di Francia, dellibro di Bertoldo, si dice, scioccheríe. Scioccheríe finche volete; ma intanto, da tempo immemorabile, vivono,prima manoscritte, poi stampate, ristampate, e sempre sistampano! Dunque hanno presa sui cuori e sugl’intellet-ti; dunque un merito c’è. Si potrà dire che non è meritoletterario, e qui si può avere ragione. Ma dico io, a cheservono le lettere? In certi paesi, ed in certe epoche, anulla o a far male. A che devono servire? A molto ed albene. Dunque un lavoro letterario, se anche val pocosotto l’aspetto artistico, può valere assai sotto un altro;purchè serva ad uno scopo utile: in tal caso avrà un valo-re d’un altro genere, e quindi non si potrà dichiararlosenza merito. Intesa così la questione, credo che il Fiera-mosca abbia un merito reale. E la modestia ripassi un’al-tra volta.

II mio scopo, come dissi, era iniziare un lento lavorodi rigenerazione del carattere nazionale. Io desideravoesclusivamente ridestare alti e nobili sentimenti ne’ cuo-ri; e se tutti i letterati del mondo si fossero riuniti percondannarmi in virtù delle regole, non me n’importavaaffatto, ove senza regole mi riuscisse d’infiammare ilcuore d’un solo individuo.

E poi, aggiungerò ancora: chi può dire che ciò checommuove durevolmente sia fuor delle regole? Saràfuori d’alcune, e d’accordo con altre; e le regole chemuovono i cuori e seducono gl’intelletti, non mi sem-brano le peggiori.

Io ho sempre trovato interessante ed istruttivo l’ana-lizzare l’incontro, la riuscita, ed i suoi perchè. Agire su-gli uomini per guidarli al bene è lo scopo più alto di tut-ti, che non quello d’essere il primo scrittore o poeta delmondo. Il migliore degli studi è dunque scoprire qualisono gli agenti che più commuovono e più persuadono;e questa scoperta si fa talvolta osservando i tipi più tri-viali. Io ho sentito soventi volte rozzi contadini raccon-

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tare una loro disgrazia, qualche povera madre dire dellascioperatezza d’un figlio ovvero della sua pietà, e pene-trarmi nelle viscere come uno strale. Per sino per lepiazze dai ciarlatani c’è da imparare.

Non è da tutti saper mantenersi attenta una udienzadi cento o duecento persone per parecchie ore. Se nonse ne vanno ci ha da essere il perchè, e questo perchè in-teressa scoprirlo. Non insisterò su queste riflessioni, elascio alla curiosità del lettore lo svolgerle; dirò solo chenella società letteraria di Milano s’agitava appunto laquestione, se il romanzo storico fosse una forma lettera-ria accettabile.

Io avevo dato alla luce il Fieramosca, e pochi anni pri-ma Manzoni aveva pubblicato i suoi Promessi Sposi,uno dei più bei libri che abbia prodotti la mente umana;mentre intanto Tommaso Grossi stava scrivendo il Mar-co Visconti. La questione era dunque flagrante; e Man-zoni inclinava a risolverla contro noi e contro sè stesso,con ragionamenti ai quali in linea di buon senso e di gu-sto era difficile rispondere. Ma io penso ad elettrizzare icaratteri, dicevo io, e se ci riesco col romanzo storico,che m’importa se non va colle regole? Questa ragionenessuno l’intendeva e l’accettava più di Manzoni.

In conclusione il Fieramosca a qualche cosa in allorapotè servire, e questo basta.

Non voglio ommettere alcuni fatti relativi al suo pas-saggio alla censura, abbastanza curiosi per coloro chenon hanno mai avuto a spellicciarsi con quel bizzarroanimale. Il problema da risolversi era questo. Data lacensura austriaca, pubblicare un libro destinato ad ecci-tar gl’Italiani a dar addosso agli stranieri. Le par poco?

Era censore un buon cristiano senza malizia, ottimapersona, grassa, pesante, quindi un po’ scappafatica –vero tesoro in un censore, – e si chiamava l’abate Belli-somi. Io me gli misi intorno con pazienza, studiandolo,cercando scoprirne i gusti, le antipatie, le abitudini; mi

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feci amico della serva, m’informavo da lei, volevo saperese aveva dormito, pranzato, digerito bene, se era allegroo tristo, ec. ec. Tutto per scegliere il buon momento divenire a discutere i passi controversi; spiegarli, addolcir-li senza mutarli, e via via; adoperando tutte le virtù teo-logali e cardinali per non uscir dal seminato, impazien-tirmi e rovinar tutto. Come a Dio piacque, portai vial’Imprimatur fino all’ultima pagina, e nell’uscire di casasua dissi: – A te ora a cavartela con Vienna! – Vienna di-fatti capì e la prese maladettamente sul serio. Il poveroBellisomi ebbe una strapazzata co’ fiocchi, e non solodal partito governativo, ma dal bigotto altrettanto, incausa della lettera d’Alessandro VI al Valentino. Ma ri-spondeva egli in sua difesa: – Si tratta di un documentostorico, e come volete proibirlo?

Il buon Bellisomi non sapeva che il documento stori-co era farina mia. E confesso che il suo equivoco mi fecealquanto ringalluzzire. Il fatto sta che egli uscì, o vennetolto dall’ufficio di censore. Ma il libro correva l’Italia.Piglialo per la coda!

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CAPO TRENTESIMOPRIMO

SOMMARIO. – Tommaso Grossi – Il poeta ed il notaio – Miavita di Milano – Delle arti e degli artisti milanesi dei miei tempi– Esposizione di Brera e suoi misteri – Riproduco un mio vec-chio sopra un quadro di Hayez – Mi metto a scrivere con ardo-re i primi capitoli del Nicolò de’Lapi – La Lombardia governa-ta dai Tedeschi col teatro della Scala – Mostro al Grossi unsaggio del mio nuovo romanzo; ed egli m’incuora a proseguire.

Un incontro di questa fatta doveva avere per effettoimmediato di mettermi indosso una gran voglia di pub-blicare un altro romanzo, e così fu difatti.

Come ho detto, m’ero stretto in grande amicizia conGrossi. Le nostre nature, i nostri umori si confacevano,ed egli mi fece animo ad intraprendere il mio nuovo la-voro. Oramai andavo sul velluto, e ci andavo con altraconfidenza che non quando ancora m’avevo a formareun’idea sia di me, sia del pubblico. Presa la risoluzione,cominciai a cercare un argomento, che doveva, s’inten-de, essere tutto nel senso liberale italiano; sempre peròtenendo la trafila della censura austriaca in prospettiva.

Prima d’entrare in altro, due parole di biografia delGrossi, amico raro, e della cui perdita nessuno dei suoiha potuto mai darsi pace, ed io meno degli altri. Dellesue opere, del suo merito letterario non parlo. Le primesono conosciute, il secondo è classificato come merita, enulla oramai lo può oscurare. Ma dell’uomo parlerò, chevaleva assai più de’ suoi versi, per quanto eccellenti.Tommaso Grossi era di Bellano, bello e grosso borgo inriva al Lario, allo sbocco della Val Sassina. Nasceva digente onesta, ma povera. Un suo zio, curato di Treviglio,giansenista della scuola del Tamburini, prese pensierodi lui, lo mantenne a Milano alle scuole, poi a Pavia.

All’Università cominciò ad aprirsegli la vena poetica,ma nel modo come s’apre ai valentuomini anco nell’ado-

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lescenza. Ai futuri corbelli, destinati a riuscire poi inge-gneri, impiegati, speziali e non poeti, la prima idea cheviene coll’esantema poetico, è l’ode a Filli, o le riflessio-ni lacrimose sulla luna, o li sciolti all’amico per infor-marlo della corruzione dell’umanità, ec., insomma rifrig-gere per la milionesima volta la roba fritta. Grossi,invece, natura fiera, tutta verità ed iniziativa, afferrò gliargomenti che vedeva, toccava e sentiva; li trattò collesue idee, col suo discernimento, e di primo tratto fu ori-ginale, fu lui, e fu uomo d’alta portata. V’era a Pavia unprofessor di legge, uomo nuovo, strano, che faceva unacerta sua lezione alla bislacca, un po’ in italiano, un po’in dialetto, un po’ in latino, della quale tutti ridevano.Grossi la ridusse in versi, ma con tanta verità, e così per-fetta imitazione dell’originale, che era un vero gioiello.

Non so a quale età precisamente fu messo nel collegiodegli Oblati, vicino a Lecco. Educazione rozza, quasibrutale, di poco latino e meno pietanze, non senza pic-chiate come codice disciplinare; tantochè il carattere diGrossi, ardito ed irruente, s’era inasprito, ed era sempread azzuffarsi coi compagni. Ma siccome era mingherli-no, ed aveva più cuore che polso, non si può crederequante ne prese. Il suo cranio era una cosa incredibile!Le cicatrici e le tacche una toccava l’altra. Alla fine nonpotendo più soffrire questi Oblati, che per tutta la vitanon potè mai ammettere all’amnistia, un giorno scappòcalandosi da un muro, d’accordo con un compagno, enon si seppe più nuove di loro per un pezzo, finchè li ri-pescarono poi a Magenta.

Mi raccontava un curioso fatto, prova dei teneri senti-menti che nutriva pe’ suoi maestri. Era il tempo in che iFrancesi, non più condotti da Bonaparte, si ritiravanocacciati dagli Austriaci e dai Russi di Souwaroff. « Undopo pranzo d’estate (diceva egli) eravamo nelle scuoleche mettevano sotto il loggiato del cortile d’ingresso. Aun tratto si leva un rumore al portone, che viene aperto,

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ed entra una sfuriata di Cosacchi sui loro cavallucci col-le lance e le barbe, e si spargono pel prato del cortile.Noi ci divertiva, era una cosa nuova, finiva la lezione; epoi non ti dico – altro che divertimento! – la delizia, lagioia, il delirio era vedere quelle facce sicure, dominatri-ci, dei nostri tiranni, confuse, atterrite, inclinarsi, farbuon viso, mezzo raccomandarsi a quelli Sciti; e temen-do che da un momento all’altro mandassero collegio,frati e collegiali a rovina. Loro, i Cosacchi, parevanobuona gente, trovavano curioso il nostro insieme, ride-vano, giravano, profittavano d’una buona merenda chela paura fece tosto scaturire, e che era meglio delle no-stre. Io (diceva Grossi) quando vidi la paura di un certoOblato, che odiavo particolarmente, pensai, profittiamodell’occasione. Presi un di que’ barboni per le falde, ementre colla sinistra gl’indicavo il mio Oblato, colla de-stra tesa tagliavo replicatamente l’aria dall’alto al basso,in atto di calda preghiera che per sua bontà lo picchiasseben bene. Il Cosacco si smascellò dalle risa, ma con miogran dolore lasciò stare il frate.» 8

* Veramente, come aneddoto, è poca cosa, ma l’ho ri-ferito, perchè ricordo che mi ha fornito un pretesto aduna bizzarra osservazione morale. Il Grossi, come hodetto, era una delle anime più buone; ebbene aveva ilticchio di farsi passare per un uomo maligno, e quasicattivo. La prova di ciò che dico è, che il Grossi stesso,messo da me co’ piedi al muro, dovette finir l’aneddotoconfessando, che fu poi preso da un tal rimorso, cheandò egli stesso dall’Oblato a raccontar tutto dichiaran-dosi pentito. L’individuo che ha fatto piangere tutta unagenerazione colla Fuggitiva, pretendeva quasi d’aver ilcuor duro! Il Grossi conobbe nella sua gioventù il Por-ta, e fu con lui in dimestichezza, anzi lavorarono insie-me; e forse per questa via raggiunse quelle qualità d’in-cisiva finezza, di mirabile naturalezza che hanno resoimmortale il poeta milanese. Lasciando sempre in di-

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sparte i Promessi Sposi, io ho creduto e credo ancorache il miglior libro italiano, frutto dell’erudizione e dellafantasia, sia il Marco Visconti. Io ho inteso dalla boccadel Grossi uscire improvvise certe risposte piene di tan-ta acutezza e profondità di discernimento che mi hannostupefatto: mi pareva che a me per trovarle non bastas-sero un paio di settimane, e poi!

* Il Grossi era piuttosto alto e sottile. La sua magnifi-ca fronte offriva delle linee che avevano qualche analo-gia con quelle della fronte di Alessandro Manzoni, mas-sime nella protuberanza sopra gli archi sopracigliari;magro, godeva buona salute. Da un pezzo faceva concoscienza il notaio, e nient’altro. Anzi quando gli si par-lava di letteratura rispondeva a fior di labbra delle bel-lissime cose in onore delle lettere, ma non c’era mezzodi capire se parlava sul serio o se scherzava; conchiude-va per meco un giorno dicendo:

« Sicuro, per chi ha dei denari da spendere le letteresono un bel divertimento. Ma io credo, caro Massimo,che noi siamo nati cinquant’anni troppo presto.

Io, che ora da letterato mi sono voltato in notaio, framezzo secolo correrei il rischio di mandare all’aria gl’istromenti e i testamenti per seguir la professione di let-terato: non sarei ben certo di non sbagliare, e di nonmancare di rispetto a me medesimo; ma sarei certo cheal sole ci sarebbe un discreto posto anche per me.»

* A forza di frugare, trovato infine l’argomento dellamia seconda opera, ne parlai con Grossi, e con qualchealtro amico; n’ebbi incoraggiamenti e mi misi sul sodo afare.

* Qui viene un tratto de’ miei Ricordi, che, stando alproverbio, posso considerarlo come noioso. E se cosìpare a me, non c’è dubbio che lei mi dia torto: non diròdi saltarlo quasi di piè pari, ma di non fermarmici trop-po. Il tratto che a me par noioso, è stato per certi riguar-di il più tranquillo ed il più felice della mia vita.

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* A Milano, si può dire senza che le altre città italianese l’abbiano a male, la vita è (forse era allora anche piùche adesso non sia) assai felice, piacevole, gradita. In ge-nerale si parlava poco di cose serie: e come parlar di co-se serie colla guarnigione che si aveva in casa? C’era unnon so che di abbondante, di ricco, di vivace, di attivo,che metteva buon umore a vederlo. Io posso dire d’avertrovato in Milano un’infinità di porte aperte, a moltedelle quali non avevo neppure bussato; e d’aver vera-mente sperimentato che cosa voglia dire un’ospitalitàcordiale. Fatto ben presto conoscenze nella parte piùeletta della città, e nella classe artistica, non è a direquanto il tempo mi volasse. Guarito dall’antico malemorale di Roma, e quello che più importava, dal male fi-sico al cuore che, come altrove ho detto, a trent’anni mifaceva credermi quasi vecchio, lavoravo assai, e qualchevolta lavoravo, come si suol dire, disperatamente. Intan-to, facendo mostra di non badarci, tenevo sempre l’oc-chio sull’Ettore Fieramosca, sui passi che esso facevaverso il tempio della gloria: e quando, malgrado le mali-gne obbiezioni che non ho mai mancato di fare a mestesso nelle cose che mi riguardano, dovetti proprioconvincermi che non solo era accettato dal pubblico ita-liano, ma che faceva decisamente furore; allora pensaiessere giunto il tempo di por mano al Nicolò de’ Lapi,del quale avevo già scritto alcuni capitoli fin dal 1831 o32. Inoltrandomi in questo lavoro, avevo spesso scrupo-li e dubbi, che nello scrivere il Fieramosca non avevopunto sentito. Era ciò forse l’effetto di quel tal senti-mento, che nelle dottrine democratiche si stenta ad am-mettere, che blasonicamente si traduce in noblesse obli-ge, e che in me invece rassomigliava assai più allatrepidazione del non poter mantenere col secondo libroquanto col primo avevo promesso. È dunque quasi inu-tile ch’io qui ricordi, che in quel mio secondo esperi-mento letterario ho messa assai maggiore attenzione e

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molto più studio nell’esattezza storica. E scrivendo ilNiccolò de’ Lapi, abbandonai la simpatica vita di Mila-no, le mie care compagnie, per correre sui luoghi che fu-rono teatro alla mia narrazione, studiarli, e rendermene,più che potevo informato. Di ciò dirò più appresso.

* Scrivevo dunque, quand’ero a Milano, parecchieore al giorno; parecchie ne spendevo ne’ quadri, de’quali ero diventato un gran venditore: intendiamoci be-ne, venditore sempre cercato e pregato. Tutto m’andavaco’ fiocchi: bene in salute, pochi bisogni, e mezzi relati-vamente abbondanti per farvi fronte. Gentilissima acco-glienza dappertutto. La sera divertimenti variati, massi-me quelle del classico teatro della Scala; o divertimentiancora più simpatici, nella familiare comversazione delManzon, o nella compagnia non meno cara del Grossi edi qualche amico artista.

* A questo proposito confesso che, sebbene io facessivita artistica e per conseguenza in mezzo ad artisti, nonho mai legato vera amicizia che con un piccolissimo nu-mero di loro. I costumi (anche degli artisti) da trent’anniin qua hanno subite molte modificazioni: allora c’erasparsa nella classe degli artisti una passione latente, mache andava serpeggiando in molti cuori – pochissimi la-sciandone sani – una passione che, sebbene nel catechi-smo sia indicata come peccato capitale, pure la si porta-va con disinvoltura, con grazia e talvolta con tantogarbo, che non solo non pareva peccato, ma quasi vesti-va le forme della filantropia. In una parola fra gli artistic’era un po’ l’uso dell’invidia. Io ho assistito a qualchescena che meriterebbe forse di essere ricordata; ma lasocietà artistica d’oggi non ha più nulla da spartire conquella di trent’anni sono, e la coltura e l’educazionehanno tolto di mezzo molti pregiudizi, fra i quali (io spe-ro) anche quello dell’invidia. Imperocchè l’invidia, so-cialmente parlando e in una data cerchia d’idee, che co-sa è se non un pregiudizio? Io, verbigrazia, ho invidia di

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lei: immediatamente si trova una terza persona che con-sidera lei come una vittima, se non fosse altro per faredispetto a me: e appena si ha l’aria di vittima, si è pocolontani dalla vittoria. Quest’è il solito giochetto delleumane passioni. E poi si è sempre tentati di non lasciarescappare un’occasione di mostrar buon cuore a buonmercato. – È perseguitato dagl’invidiosi, poveretto, mifa pena, proprio davvero! –

Alle volte accadeva che alcuni quadri dell’esposizionedi Brera, anche prima che l’esposizione fosse aperta alpubblico, diventavano d’un tratto o bellissimi o bruttis-simi in via pregiudiziale, secondo un gergo che nonamo: se ne parlava nei caffè, nelle famiglie; e i quadrinon erano stati veduti da nessuno, tranne dagli artisti.Un povero artista che fino al dì precedente aveva sem-pre creduto di esporre un bel lavoro, imparava da confi-denze misteriose di amici intimi, che il suo lavoro era undeciso fiasco! Pallido in volto, muto, si metteva a girarpe’ crocchi de’ visitatori di Brera, a raccogliere ciò che sidiceva di lui. Non poteva formarsi un concetto chiaro;non mangiava, non dormiva; e quasi pensava ad un sui-cidio. Quand’ecco, legge invece su per le Riviste che ilsuo quadro è piaciuto assai, anzi apprende che un mece-nate gliel’ha comperato!

* In qualche pasta consimile ho dovuto aver anch’iouna volta le mani. Non mi rammentavo affatto più que-st’aneddoto: ma trovo nelle mie carte un documento cheme ne fa risovvenire.

* Francesco Hayez (è quasi inutile ch’io lo dica) è unode’ grandi artisti di questo secolo: l’ eleganza e purezzadel suo disegno, il gusto squisito della sua maniera diconcepire e di eseguire, e la felicità colla quale sormontale più gravi difficoltà dell’arte, fanno dell’Hayez un verocaposcuola. Ebbene, bisogna che anche all’Hayez siatoccato uno di quei tali inconvenienti pregiudiciali, co-

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me appare dal seguente documento, di cui trovo .fra lemie carte la copia di mio pugno. Eccola:

Il genere di pittura nel quale m’affatico non essendoquello cui appartiene il quadro del signor Hayez, e con-vinto, com’io sono, quanto sia arduo il dar giudizio pon-derato delle cose che non si trattano, non potrei consen-tire di presentare sotto un tal titolo la mia opinione.Tuttavia, essendone richiesto, debbo dichiarare esserverissimo che io ho detto con molte persone e coll’istes-so signor Hayez, che il suddetto quadro mi pareva, co-me difatti mi pare, uno de’ suoi migliori.

Questa mia opinione, vera o falsa ch’ella sia, è fonda-ta sul parermi che il soggetto del quadro è ottimamenteespresso, potendo lo spettatore a prima vista conoscerequal sia l’azione che si è voluta rappresentare: che l’ap-parente disordine della composizione dipinge al vivol’agitazione che, secondo gli storici, regnava in cotaliadunanze: che l’espressione del volto e dell’intera figuradel protagonista Piero è mirabilmente immaginosa, etrovata con rara felicità: che ne’ vari gruppi è una mera-vigliosa varietà d’episodi, trattati con ingenua e commo-vente verità: che in tutto il quadro si trova, come in ognialtro del signor Hayez, un tal gusto di pennello e dise-gno, una tanta bellezza e novità nelle mosse, che non sisaprebbe immaginar di meglio: che alfine la difficoltà dimostrar distinte tante figure, malgrado i molti scorci, ela varietà colla quale le loro membra s’intrecciano a vi-cenda soprapponendosi l’une alle altre, è stata vintacoll’aiuto ora del chiaroscuro, ora della tinta locale, oradel disegno, e vinta in modo che a me è parsa cosa mira-bile.

Ora, per render ragione dell’impressione che possonoaver ricevuta da questo quadro le persone che per il lorostato non debbon conoscere l’intima qualità e la misurade’ mezzi che adopera la pittura, mi pare di dover ag-giungere: che accade talvolta (forse dovrei dir sempre)

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che fra due quadri, de’ quali l’uno mostri un partito dichiaroscuro deciso ed ardito, e minor merito nel resto, el’altro abbia tutti i pregi di composizione, disegno,espressione, ec., e minor effetto nel partito generale, ilprimo sarà veduto con maggior piacere dall’universale;mentre gli artisti, concedendo pure che l’effetto genera-le del secondo è meno lodevole, ciò nonostante lo prefe-riranno, trovando che questo difetto è riccamente com-pensato dall’altre bellezze.

* La mia giornata in Milano non mi lasciava tempod’annoiarmi. Scrivevo con ardore capitoli nuovi del Nic-colò de’ Lapi : mi ci compiacevo, non tanto pei sublimicompensi che, nella creazione, l’intelligenza suol dare achi crea, quanto per la coscienza di seguitare il mio pro-gramma: quello di scuotere gli Italiani, e chiamare la lo-ro attenzione sopra affari un po’ più importanti che nonfossero quelli delle scritture di ballerine e di cantanti.Mi affretto a confessare, che non pensavo nemmeno persogno a far il brutto tiro agl’impresari di render loro de-serto il gran teatro della Scala: io riconoscevo che nonsolo i grandi artisti esercitavano una inevitabile tiranníasugli spiriti de’ Milanesi, ma che tutto ciò che si riferivaal teatro della Scala, perfino il maestoso Gallarate, eraun personaggio, a quei tempi, in Milano, assai più cele-bre e ben voluto che non tutta la caterva di noi artisti oscrittori. In ciò è d’uopo ravvisare quanta fosse la finez-za e l’avvedutezza del governo austriaco. Esso, si può di-re, ha governato per tant’anni la Lombardia per mezzodel teatro della Scala. E bisogna dirlo, fino ad una certaepoca vi è riescito bene.

* Io stesso che ora scrivo, dopo tanti anni, mi ram-mento benissimo il fáscino che esercitava su tutti e an-che su me l’annunzio, per esempio, di una rappresenta-zione della Malibran. Convengo che non mi ci divertivotutta quanta la sera, e che anzi internamente borbottavospesso contro quell’entusiasmo; ma provavo a momenti

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delle sensazioni proprio straordinarie. In poche paroledunque, vivevo un po’ da me, un po’ in compagnia d’ar-tisti, quindi in società. Le relazioni in Milano, come hodetto, sono facili; io ero anzi un po’ guasto dalle infinitecortesie e gentilezze che ricevevo: quindi cresceva il nu-mero delle conoscenze, quindi cresceva anche la lista de’doveri che verso gli altri dovevo adempiere.

* Dopo aver scritto alcune ore, dopo aver lavorato nelmio studio od in quello di Molteni qualche altra ora,avevo delle visite da fare, la lista delle quali era talvoltaenorme, perchè imprudentemente le lasciavo accumula-re. Trovo un piccolo documento nella farragine dellemie carte, un vecchio foglio sul quale è scritta la seguen-te lista: Alari – Cicogna – Dunois – Ponzani – Rovida –Litta – Ulrich – Visconti – Kevenhüller – Trotti – Hayez– Palagi .... (noti che il foglietto in fondo è un po’ bru-ciato, ciò che mi fa supporre che la lista era certamentepiù lunga).

* Quando venne la terribile volta di leggere al Grossii primi capitoli del Nicolò de’ Lapi, sentii che il famosovelluto, del quale più sopra ho parlato, mi scappava disotto: mi trovavo anzi malissimo seduto. Non potevo re-spingere da me la tranquilla, decisiva sentenza che ilGrossi aveva dato del mio saggio poetico. E se finita lalettura dei capitoli mi dicesse: Hin propi minga bej...?9

Così andavo ragionando con una vera tremarella in cor-po.

Grazie a Dio la cosa andò molto meglio. Il Grossi mifece qualche osservazione, ma in complesso, il mio lavo-ro gli piacque: mi disse trovarlo, fino a quel punto, piùmaschio e severo che non fosse il Fieramosca. Con que-sto sprone s’andò di galoppo; e siccome volevo decisa-mente fare il meglio che potevo, anche dal lato storia,paese, color locale, una bella mattina mi decisi a far unviaggio apposta in Toscana per istudiarvi sui luoghi lescene del mio libro. Siccome di questo viaggio ho una

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specie di diario scritto appunto giorno per giorno, credobene di riprodurlo tal quale nella sua semplicità.

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CAPO TRENTESIMOSECONDO

SOMMARIO. – Mio vecchio diario di touriste – Descrizionedel viaggio da Modena a San Marcello – Gita a Gavinana, ememorie storiche di Francesco Ferruccio – Vorrei mettere unalapide commemorative a mie spese, ma non ci riesco – Ospita-lità della famiglia Cini – Andando da San Marcello a Pistoia,mi fermo a Villa Puccini – Descrizione di questa villa – Di unaiscrizione fatta a Firenze in quei tempi da un censore e nonpermessa dalla censura – Gustavo Ferruccio discende da Fran-cesco Ferruccio – Morte di mia madre in quest’anno 1838.

Addì 28 agosto partimmo da Milano. La sera s’arrivòa Piacenza nella locanda della Croce bianca. Ci trattaro-no assai bene alla guisa di san Bartolommeo. Notai duebelle chiese del 2 o 300: anche la piazza col palazzo delComune è bella. Le due statue equestri di bronzod’Alessandro Farnese e del padre si mostran bene comedecorazioni; come sculture, orrori: svolazzi per tutto; ele criniere dei cavalli paion maccheroni o serpi.

29 agosto. – Rinfrescata a Borgo San Donnino, bellachiesa del Trecento. Sotto l’altar maggiore una cappellacon l’arca scolpita delle storie di san Donnino, che va aspasso col capo in mano – la sera a Parma.

30 agosto. – Trovai il mio caro Toschi, buono, inge-gnoso, piacevole al solito, e ci fece mille carezze. S’inge-gna a formare una scuola di pittori che non peschinonelle maniere d’oltre monti, e tengan dietro alla naturaprima, poi a Correggio ed ai nostri sommi antichi: ve-dremo se riuscirà – fummo a San Lazzaro.

2 settembre. – Si venne a Reggio; poi la sera a Mode-na. Si ritrovò gesuiti e pezzenti in quantità.

3 settembre. – Alle undici partimmo con un vetturinoche ci dovea condurre a Pistoia. Per circa otto miglia lastrada è piana, bella, fra campagne ben coltivate; poi co-mincia a salire raggirandosi pe’ fianchi di colline coperte

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di castagni; ed alzandosi a poco a poco, si giunge allasommità d’una prima catena, ov’è posta la Serra. Pochecase ed un’osteria. – Vi dormimmo.

4 settembre. – La strada assai buona: un saliscendicontinuo. Si trova Paullo in una valle fra colline intrec-ciate: si vede sempre innanzi e lontana l’alta catena dellaAbetone. Rinfresco a Lama. Comincia un po’ di parlartoscano. Si sale sul Barigazzo, alto monte pelato, dalquale si scende a Pieve di Pelago. Nottata.

5 settembre. – Partiti prima dell’alba. Si sale otto mi-glia, s’arriva sulla cresta della Abetone; prima si trova lastrada che va a’ Bagni di Lucca; più su la dogana mode-nese; poi due piramidi che segnano il confine toscano.Come a Dio piacque, uscimmo in quel di Modena. Lastrada si fa migliore, e scende fra una pineta, od abetina,che pare la strada d’un parco. A poco a poco compaio-no castagni: non vidi mai i più grossi; nè i più bei luoghiper fare studi.

La strada scende a precipizio e trova presto il lettodella Lima, al quale tien dietro. Ponte della Lima; so-vr’esso due fontane. Salita erta di due miglia per salire aMamiano. Al tocco fummo a San Marcello per rinfresca-re, e andar a Pistoia a dormire. Trovammo così bello ilsito, e tanto pulito albergo, che ci fermammo ivi per ottogiorni, rimandato addietro il vetturino. – La strada daModena è bella, o almeno discreta: poco piacevole finoalla Dogana fiorentina; amenissima fino a Pistoia. Lo-cande sufficienti, ed assai buona gente.

La valle ov’è posto S. Marcello è larga un miglio emezzo. A ponente, lontani, i gioghi di Lucchio; a tra-montana la cresta del Cerreto vestita di folti castagni; amezzodì le Lari, di dove venne Ferruccio; a levanteMonte Crocicchio e Monte Oppio. La Terra siede amezza costa su un rialto che forma un poco di piano.Non stavo nella pelle di veder Gavinana, v’andai subito.Mezzo miglio per la strada maestra di Pistoia: poi si va a

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sinistra su pel monte; il sentiero serpeggia ora pel foltodei castagneti, ora per qualche slargo di prato. Dopo unbuon miglio si scopre Gavinana dall’altra parte d’unburrone profondo, ove scorre un torrente: si varca su unponte, che alla testa di qua ha una fonte con una vascarozza.

Per la Porta Papinia giunsi sulla piazza di Gavinana:mi pareva impossibile, in una Terra di vie strette e tor-tuose ove si giunge per rompicolli, si fosse maneggiata lacavalleria e combattuta una tanta guerra.

Dubitavo di essermi ingannato. Cercai del pievano elo trovai. Conobbi subito non essermi ingannato, e cheera proprio la Gavinana del Ferruccio; chè il prete simostrò informato d’ogni cosa. Mi condusse in piazza;mi mostrò a manca la casa Batistini, alla cui porta si saleper due rami di scale, che si congiungono su in un ripia-no (lo chiamano ballatoio). Qui fu ammazzato il virtuo-so Ferruccio da Maramaldo. Mi mostrò un portico fab-bricato di fresco innanzi alla chiesa; la chiesa;10 sotto ilpilastro più verso piazza è sepolto il Ferruccio. Mi sentiifremere dentro fino alle midolle vedendo questi luogi egonfiarmisi gli occhi; qual cuore rimarrebbe freddo a ta-li memorie!

Seppi dal prete, che nel cavar le fondamenta del pila-stro fu trovato uno scheletro grande; il quale era avvoltoin certi panni, che costoro chiamaron montura di colorturchino, con bottoni tondi e suvvi una crocetta.

Dio sa di chi furono, e le ossa ed i panni! Tuttavia latradizione narra che Ferruccio fosse sepolto sotto lagronda della chiesa. Mi dissero che scavando per la piaz-za, poco sotto il fior di terra, era ossa per tutto.

Trovai i contadini che tutti più o meno sapevano diFerruccio e de’ suoi casi, che Dio ne sia lodato! Mi nac-que tosto la voglia di porre una lapide sulla sua tomba,perchè non rimanesse così inonorata: ne parlai a costorodel paese: tutti si mostrarono pronti a parole. Volli strin-

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gere e combinare perchè la cosa avesse effetto: divenne-ro a un tratto tutti freddi. Ebbi bel dire che avrei pagatodel mio: fu inutile. Credo che avean paura; di che? lo saIddio. In Italia un uomo che dette la vita per la patria,che potendo salvarsi senza infamia, scelse morire pernon veder l’ultima sua ruina; un uomo che in otto mesiseppe fare immortale sè stesso colle sue virtù, seppe ri-tardare l’eccidio di Firenze, e rimanere esempio a’ po-steri di quanto possan riuniti, l’amor patrio, il valore, lacostanza, e l’oblío d’ogni privato interesse, quest’uomonon può, perdio, aver nè croce, nè sasso sulle sue ossa,perchè – si ha paura! Ed alla Ellsler si alzano monumen-ti! che maledette sieno le cortigiane, e i teatri, e le musi-che, e i balli, che hanno spento ogni generosità, ogni va-lore, e non ci fanno oramai aver in pregio altro che ibuffoni e saltimbanchi dei due sessi, che senz’essi ci par-rebbe non aver aria per respirare!

Dalla piazza uscii per la via di Porta Peciana, ove ac-cadde l’ultimo contrasto che decise la giornata: fuor diporta a destra, a un tiro di schioppo è la casa di un talFedeli ove si difese Ferruccio. Accanto, una cappellacon un portico retto da due pilastri, e composto di duearchi. Il principe d’Oranges vi fu deposto appena venneucciso nel vicino luogo detto Selva-reggi. Quella partedi campagna vien detta le Vergini: la regione vicina è an-che detta Secchieto.

A San Marcello, nell’uscir dalla Terra verso Pistoia sitrova la casa Ciampalanti11 a destra; a sinistra, retto daun muro, è un prato di pendío sparso d’alberi di frutta.Nella casa Ferruccio tenne consiglio ed un’iscrizioneposta nel muro lo dice.

Nel prato eran schierate le sue genti, e gli è rimasto ilnome di Campo di ferro.

San Marcello fu arso allora da Ferruccio per servir larabbia d’un tal Melocchi, del capitano Pazzaglia e d’altridi parte cancellieria. Senza l’eccidio di San Marcello,

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forse la vendetta di Dio non avrebbe vibrato i suoi colpiin Gavinana!

Gli abitanti, le donne, fanciulli, ec., di San Marcellofuggirono su per la macchia al castello che era posto sul-la cresta del Cerreto. Mentre Ferruccio era in casa iCiampalanti, un prete dei Mezzalancia fuggì di dietro ilpaese, e corse ad avvisare il principe d’Oranges che eraai Lagoni. I soldati di Ferruccio tentarono segare il cam-panile sul quale eran molti nemici. Dicono ancora rima-nere il segno; io non lo seppi vedere.

Conoscemmo la famiglia Cini; e non vidi mai le piùcortesi, le più care, le più liberali ed ingegnose persone.Mi mostrarono un manoscritto d’un capitano Cini dicento anni fa. Descrive la rotta di Ferruccio; nulla diparticolare; il tutto è raccolto dal Varchi, ec. Nella valledi San Marcello si parla toscano purissimo fino dai piùrozzi contadini. Parlano come scriveva Firenzuolanell’Asino d’oro. Udii dire arcipresso.

Lontano un miglio è un luogo pieno di massi rotolatigiù dal monte ed è detto Macereti.

Mayer vi trovò tre vecchie, che non avevan persone almondo di loro gente, e vivean sole in una specie di grot-ta.

Poco lungi, sul corso della Lima, era un paese dettoLizzano, posto a metà costa; il quale un bel giorno prin-cipiò a franare, e seguitò il moto finchè parte franando,parte affondandosi, scomparve.

La cosa però accadde tanto lentamente che nessunomorì e nulla si perse.

Il campanile depose, per così dire, da sè le sue campa-ne; cioè quando fu tanto affondato chè il castello di essesi trovò a livello del suolo, le campane vennero tolte, edil campanile andò giù al suo destino. Dicesi accadesseropoi liti curiose di possessori di terre, che acquistarono operdettero alberi, vigne ec.

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La locanda di San Marcello eccellente e ad ottimomercato. È detta la Posta, e tenuta dal Begliuomini.

Non resta, Dio grazia, alcun vestigio delle maledetteparti Panciatica e Cancelliera. È vero che i Gavinanesidicono ancora per ischerno a’ Sanmarcellesi Canciugli.Ma questi eran Panciatichi: d’onde verrà un tal nome?

12 settembre. – Partimmo la mattina alle 11. Pianoper due miglia sino alle cartiere de’ Cini, che col lavoríodella carta arricchiscono, e rendon que’ valligiani opero-si ed agiati. Un’altra n’hanno al ponte alla Lima. – Sa-limmo all’Oppio. Poi si seguì la valle del Reno. Un’ulti-ma salitella conduce sulla vetta, di dove si vede la valledell’Arno e Pistoia. Scesi per sei miglia trovammo la vil-la di Niccolò Puccini, detto il Villone, a un miglio di Pi-stoia. Avevamo per lui una lettera di Mayer: ci accolsebenissimo e con un suo uomo ci mandò a visitar la villa.Il giardino gira di molte miglia, ha viali, boschi, prati,acque, ec.; e ogni tanto si trovano statue de’ grandi uo-mini italiani, monumenti, fabbriche: v’è un Panteon,edifizio d’architettura greca con entrovi i busti di Raf-faello, Petrarca, ec. ec. Dal pavimento fatto di legno sor-ge, volendosi, una tavola per pranzarvi. Pieno poi pertutto d’iscrizioni che non in ogni parte d’Italia reggereb-bero all’aria aperta.

Il padrone abita un castello fatto a modo degli anti-chi, con torricelle merlate, ponte levatoio, fosse, ec., e cidorme solo. Presso il suo letto sono molte campanelle.12

Con una apre il cancello più lontano della villa (median-te una combinazione di lenti e di specchi può veder pertutto), coll’altra fa abbassare il ponte; ne ha per chiude-re o aprire porte e finestre; onde se un amico vuol entra-re, dopo aver picchiato all’ingresso principale, si vede,come per incanto aprir le porte, e giunge sin nella came-ra del padrone.

Venne una volta a trovarlo il Granduca; e uno della

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compagnia disse al Puccini: «Queste son cose da Prin-cipe!» – «Eh eh! son cose da chi può spendere.»

Un ponte che passa su una valletta, detto Ponte Na-poleone, con una loggia coperta: vi si vedono gli emble-mi delle sue vittorie, ed un’iscrizione che lo loda, e poilo biasima di non essersi mostrato amatore della patria.

Avvi anche un caffè con trattoria aperta al pubblico.Una scuola di mutuo insegnamento.

L’edifizio principale, detto propriamente la villa, ègrandioso, pieno di mobili di gran prezzo, quadri, ec. Ilpadrone gentilissimo mi regalò un Catullo tradotto dasuo zio, e mi vi scrisse alcune cortesi parole. Mi pregò dilasciar il mio nome sul libro de’ forestieri. Cercai unpezzo colla mente un complimento; oh sì aspettalo!...Scrissi vergognosamente il mio nome asciutto asciutto, eme n’andai colla coda tra le gambe e il mio Catullo in fo-lio sotto il braccio. È vero che avevo una fame!... Sidormì a Pistoia. Che ladri! ma ne dissi quattro.

13 settembre. – Rinfrescata a Prato. Trovai quel caroabate Arcangeli, che mi fece vedere il collegio Cicogni-ni: bell’edifizio gesuitico, cioè grande, arioso, comodo,ben fabbricato.

Peccato, i gesuiti si voglian impicciar in tante cose!Per architetti non c’è chi li arrivi.

Andammo a Monte Murlo. Si rade la falda della colli-na verso Pistoia per quattro miglia; si lascia a destra ilBarone, villa di Baccio Valori: è un gran casamento a unterzo di costa. V’è una villa de’ Pazzi a sinistra. Dalla ca-tena dell’Appennino si stacca quasi un promontorio ver-so il piano, che rialzandosi a un tratto forma un pogget-to tondo; sulla cima è Monte Murlo. Vi si sale a piediper una cordonata assai ripida: presso la vetta è un muroed una porta olim fortificata. Più su, un piano con po-che case ed una chiesa, circa del Trecento, con un porti-co ad architrave ed un campanile.

Il Pievano non c’era, ma c’era sua sorella, e due preti

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che ci diedero una colazione, Dio li benedica, che mai lamigliore. Una frittata così nè cruda nè cotta, con certefettine di presciutto tramezzo; poi a parte, altro pre-sciutto tenero com’un latte, e poi un vin santo!… e chefichi!... Per un’ora non pensai più nè a Cosimo, nè a Fi-lippo Strozzi. La casa ove questi fu preso è quale l’ho di-segnata: l’interno del cortile quadro, con una loggia chegira da tre parti: stile del Cinquecento fin alle tegole. V’èqualche pittura semigrottesca: le mura grosse cinquebraccia, e null’altro di notevole.

* La sera a Firenze e si smontò all’albergo dell’Arno.* Ma il mio umile diario da touriste continua ancora;

e mi ricordo che andai allora facendo molti giri e osser-vazioni in Firenze. Dico la verità, che fra queste osserva-zioni avrei gusto di riportarne alcune che mi sembranooriginali e giuste anche ora che le rileggo, dopo dicias-sette anni che le avevo dimenticate.

* Ma oltrechè ho promesso che l’episodio sarebbebreve (e soglio mantenere la parola), non vorrei che altrisupponesse in me una eccessiva malizia nel riportare sic-come vecchie delle osservazioni che adess’adesso an-drebbero assai a capello. Sotto un altro aspetto nessunmi saprebbe grado, in un libro come questo, trovare,per esempio, una pomposa descrizione del panoramache si gode da San Miniato, cioè le infinite e belle cupo-le di Firenze, la linea ondeggiante delle colline di Fieso-le, mosaici di ville ed oliveti, poi i più alti gioghi dell’Ap-pennino, ec. Son cose che sanno tutti a memoria. E lecose buone da dirsi c’è qualche difficoltà a dirle.

Quando fui all’ottobre del 1838 col Repetti, Mayer,Provana, Torrigiani a far il giro dei luoghi ov’era stato ilcampo imperiale che assediò Firenze nel 1530, il Torri-giani mi disse che in fondo in via Maggio v’era una co-lonna eretta da Cosimo I per la vittoria di Marciano.Questa colonna fu abbattuta, si voleva mettere un’iscri-zione che dicesse essersi così voluto spegnere la memo-

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ria delle antiche discordie fra’ municipi italiani, ed ac-cennasse alla concordia.

* Non fu permessa dalla censura. Dico male: il censo-re stesso aveva fatta l’iscrizione; ma non fu permessa dachi lo pagava.

* Se il lettore è paziente, sopporterà ancora quest’ulti-mo aneddoto.

* Nell’istess’anno e mese venne a trovarmi GustavoFerrucci discendente di Ferruccio, o almeno della fami-glia; che era custode della Marucelliana. Piccolo, magro,umile, pallido e cortese, può servir di mostra di ciò chesono divenuti i Toscani sotto la cura medicea. Francescoserviva di mostra di quel ch’eran prima.

* Il padre di Gustavo era facchino nella bottega delPiatti; ma sentiva altamente dell’onore d’esser nato diquel sangue. Radunò con ispese (per lui gravissime) idocumenti, che mettevano in chiaro la sua discendenzada uno zio di Francesco, che illustravano le gesta di que-sto; e mentre visse, non ebbe altro pensiero che mutarel’umile sua sorte: non vi riuscì mai: s’era perfino fatto fa-re dei biglietti di visita che lasciava alle prime famigliefiorentine, senza ottener ricambio da veruna. S’era pre-parato per presentarsi ad una festa da ballo a Corte, col-la sua carta alla mano: e vi sarebbe andato, ma la festanon si fece!

* Alcuni suoi agnati (d’Ascoli? non so bene) gli do-mandarono i documenti, e furono con lui in corrispon-denza cortese finchè li ebbero ottenuti. Dopo.... non ri-sposero più alle sue lettere. Un giorno il poverofacchino legge in un giornale che costoro avevano otte-nuto dal Granduca d’essere ascritti alla nobiltà fiorenti-na e non so che altra pappolata.

* Il poveretto credette a ciò che lesse: dapprima cascòcome morto: poi morì davvero.

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* Ma di citazioni di me stesso per quanto inedite sia-no, lei ne ha abbastanza, ed io pure.

Ho fretta di ritornare a Milano, ove m’attendonomolte commissioni di quadri; ed ove sto per finire ilNiccolò de’ Lapi, intorno al quale mi pare già di aver ru-minato e studiato in modo da esser ormai tempo di ese-guirlo.

* Mi corre qui obbligo di un religioso tributo di amo-re e venerazione. In questo stesso anno 1838 ho perdutamia madre. Coloro che hanno avuto la bontà di leggerequanto io ne ho scritto precedentemente, sanno chedonna era mia madre. Forse io non ne posso essere unbuon giudice, un esatto apprezzatore: l’amavo, la adora-vo tanto, che l’intelletto può avere smarrita la facoltà difarmene un criterio, che non pecchi di entusiasmo.

* Questa morte mi ha reso per qualche tempo inerte,stupido, senza desiderii: fu uno di quelli strappamenti diviscere, de’ quali al momento del dolore si mormora: –Me ne ricorderò finchè vivo –.

* Con lei è sparito per me dal mondo l’angelo tutela-re, il legame della famiglia: sentivo che morta mia ma-dre, dovevo mutar esistenza, o almeno modificarneprofondamente le forme. Prima c’era chi pensava a me,ed io andavo dritto per la mia via, senza un pensiero almondo; or che non c’era più chi pensasse a me, bisogna-va ci pensassi io. Fu profondissimo il dolore che sentiiper la morte del padre: se non che, dopo il padre restavala madre. Basta; de’ dolori e lutti domestici siamo intesiche poco se ne dica: io li sento con un pudore dilicatez-za che non mi permette di troppo esporli a’ quattro ven-ti.*

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CAPO TRENTESIMOTERZO

SOMMARIO. –Confronto tra la vita milanese e torinese diventitrè anni sono – Lavoro a sbalzi gli ultimi capitoli del Ni-colò, e finalmente lo termino – Il censore Colonnetti mi sor-prende di ragionevolezza e di buon garbo – Anche il mio nuo-vo romanzo ottiene favore in Italia – Fenomeno psicologico;mi ritiro un poco alla mia villetta sul lago di Como – Mia buo-na fortuna nel vender quadri – Nota dei miei dipinti esposti aBrera in un decennio – L’arrivo di una lettera mi richiama intutta fretta a Roma – Avventura misteriosa – Vado, per evitarealtre noie, a Fiumicino – Fiumicino al tempo delle quaglie –Costumi locali studiati su un macellaio – Mio ritorno a Roma, ela signora Clelia Piermarini – La casa della Clelia ritrovo conti-nuo di liberali – Filippo A***, uno dei soliti amici, mi vuol per-suadere a farmi propagatore di una nuova politica liberale enazionale – Ci penso qualche giorno; poi accetto – Partenza daRoma per il mio giro politico nello Stato Pontificio, nell’autun-no del 1845.

* Di ritorno a Milano ripigliai la mia vita di doppio la-voro: pittura e scrittura. Ma mi ci volle un po’ di fatica:qualche mese di vacanza o di distrazione mi rendevasempre pigro e poco atto a fare. Di più dovetti spessodimenticare il Niccolò de’ Lapi per alcune gite fatte aTorino, per affari domestici. Ogni volta ch’io tornavo aTorino sempre più spiccato m’appariva il confronto frala vita torinese e la milanese.

Quell’abuso di regolarità, dì formalità, di distinzionisociali, di gesuitismo; quella mancanza assoluta d’ognisintomo di energia e di vita che m’opprimeva in Torino,non poteva essere compensato nemmeno dal piacere dirivedere tanti amici e parenti che v’avevo, e dall’incantoche più o meno hanno gli oggetti, le mura, l’aria che vihan visto nascere. Mi ci sentivo alla lettera soffocato. Edio, un odiatore di professione dello straniero, lo dicocolla confusione più profonda, se volevo tirar il fiato, bi-sognava tornassi a Milano. E questo, perchè? Per l’arte

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sottile colla quale le autorità austriache, intente esse me-desime, forse, a farsi un buon letto in una città simpati-ca, ricca, grassa e allegra, sapevano ammorzare, ammor-bidire, gli ordini viennesi e lasciare (dai fatti reali infuori, ci s’intende) la più ampia libertà ai Milanesi dibrontolare, pigliare a beffa i pollini, dare le loro definiti-ve sentenze non solo sullo spettacolo della Scala, ma al-tresì sulla politica: bastava solo non gridar troppo forte;ma con prudenza si poteva dir tutto. E al caffè Martini siparlava liberissimamente del governo, della polizia, ec.:ma occorre soggiungere che se nel frattempo comparivanella bottega o il signor Bolza, o il signor Galimberti, al-lora il tenor de’ discorsi era subito radicalmente modifi-cato. Di più il governo austriaco era forzatamente co-stretto fra tanti impiegati ad averne pur di italiani.Taluni di questi hanno, è vero, acquistato una triste ce-lebrità per lo zelo col quale si mostrarono tedeschi. Mav’erano molti altri che, sebbene desiderosi di fare il do-ver loro, lo facevano in modo da favorire più che dan-neggiare i Milanesi: avevan conoscenze, avevano paren-tele, e questi son legami de’ quali è difficile sciogliersidel tutto. Da questo complesso di circostanze scaturì unfatto strano ch’io qui rammento di volo: cioè che dal1840 al 1845 vi furono in Milano taluni mesi di un go-verno così mite, così poco terrorista, che fra tutti i pic-cioli governi d’Italia non ve n’ha uno, che al paragonedell’austriaco non sia stato infinitamente più orrendo.

* Inutile dunque dire altro per farmi perdonare laprestezza colla quale appena toccato Torino, e fatto quelch’avevo da fare, solevo partirne. C’era, ognun vede, an-che la ragione delle mie dilette occupazioni.

* Gli ultimi capitoli del Niccolò de’ Lapi li ho scritti asbalzi, con istenti gravi. Volevo finirlo. Da Torino, daFirenze m’andavano chiedendo quando questo benedet-to Niccolò de’ Lapi sarebbe per comparire. A Milanotutti m’assediavano colle istesse gentili seccature. Mi pa-

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reva d’esser in teatro, quando l’ora indicata è già tra-scorsa di cinque minuti, e la platea incomincia a farchiasso, e a dire – sicchè? suonate! –

* E perciò a qualunque costo mi misi in mente di fi-nirlo nel mese di marzo. Grossi era occupatissimo inquel tempo, e mi doleva d’annoiarlo colle mie seccatureletterarie. Tuttavia potei afferrarlo più d’una volta eaverne buoni consigli, e, quel che più importa, magnificiincoraggiamenti.

* Ai tanti del marzo il Niccolò de’ Lapi era finito.* In que’ giorni non ne capivo più niente: sospettavo

ora d’aver fatto una misera corbellería, ora mi lusingavod’aver fatto qualche cosa di buono. Rileggevo il mio la-voro; non osavo più; anzi non l’avrei nemmeno potuto,perchè in vari tentativi fatti non ne avevo ricavato chespavento e sfiducia: mi pareva che ci fosse tutto da cam-biare e da correggere.

* C’era il così detto precedente dell’Ettore Fieramo-sca. Ma molti anni n’erano corsi! E chi se ne ricordavapiù?

* Quando un pittore presenta al pubblico un suoquadro nel duale conosce molte parti mal eseguite, trovacento modi per soccorrere il suo povero amor proprio inpericolo. Ora il quadro non ha vernice, e s’insinua congarbo che quando l’abbia, farà tutt’altra figura; ora si dàla colpa alla luce che batte a rovescio; ora la cornice nonè adattata; ora è troppo alto, ora troppo basso, o è sbat-tuto dai riflessi degli oggetti circonvicini. Insomma qual-che scusa, o bella o mediocre, almeno si trova sempre.

* Quanto a questo, creda il lettore, che chi scrive nesa qualche cosa.

* Ma quando il quadro invece d’esser stato dipinto, èstato scritto e poi stampato, allora non c’è vernice, nonc’è lume che tenga. Ed io credo d’essere stato abbastan-za avveduto nel far molti (forse troppi!) quadri, enell’avere scritto solo due romanzi storici.

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* La fin di marzo fu dunque per me agitata. Si tratta-va di sapere quale doveva essere il mio revisore o censo-re politico, il buon Bellisomi non essendoci più. Seppiessere un sacerdote molto colto, letterato anch’esso, maserio e classico, il signor Mauro Colonnetti.

* Andai a presentargli il mio manoscritto, in persona.Mi accolse con civiltà fredda, ma non dura: mi disse co-noscere molto il mio nome, aver letto con piacere (?) ilFieramosca: ed esser ora molto fortunato di cogliere leprimizie della mia opera. Tutto questo fu detto senza af-fettazione, senza calore, senza che la voce subisse la mi-nima alterazione, sopra una nota sola. Lo ringraziai conqualche effusione, alla quale egli rispose onestamente,ma colla nota inalterabile. Temetti che il fermarmi più alungo fosse interpretato stortamente, e presi commiato.

* Nel tempo che corse fra la presentazione del mano-scritto e l’operazione che doveva subire, ebbi tempo dicondurre a buon fine le pratiche coi miei editori, co’quali del resto ero già da un pezzo in parola. Stavan essi,e stavo più io di loro, in grande angustia intorno a’ pro-babili tagli che la Censura avrebbe fatti nel manoscritto.Dieci volte volli andar a chiedere novelle dell’affar mioal signor Colonnetti; ma sempre mi vietai un atto che sein sè stesso era naturale ed innocente, tuttavia poteva of-frir materia ad interpretazioni.

*Finalmente ricevetti l’avviso, o per meglio dire l’or-dine, di presentarmi all’I. R. Ufficio della Censura.Quelle due iniziali I. R. stampate sul modulo dell’ordinemi fecero un tristissimo effetto. – Addio Massimo, chi sacome t’hanno accomodato! –

* Entro in una sala grande; ad una tavola, invece delsacerdote che aspettavo di vedere, c’era un vecchio mili-tare, forse un impiegato invalido. Il rumore dell’usciopel quale ero entrato bastò ad avvertire il Colonnetti,ch’era nella camera attigua, del mio arrivo: comparve, emi fe’ segno di seguirlo nell’altra camera.

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* Non so perchè, tra per l’odore di quel luogo, le sca-le che avevo fatte, la vista dell’invalido, e il silenzio, misentii il cuore stretto stretto.

* Il silenzio soprattutto m’infastidiva, tanto mi sem-brava singolare ed inaspettato in mezzo al chiasso di Mi-lano: sentivo solo il lento scricchiolío prodotto dai morsid’un tarlo rannicchiato nella gamba di una seggiola vici-no a me. Entrai nell’altra sala: era più piccola, ma piùpulita. Oltre al Colonnetti, c’era un altro impiegato ve-stito di nero, con una faccia antipatica e smorta, chescriveva, e che non alzò nemmeno gli occhi al mio entra-re.

* Il Colonnetti mi fe’ cenno di sedere vicino a lui, alcapo della tavola opposto a quello ove scriveva l’impie-gato.

* Questa lontananza mi piacque. Gli parlai sotto vocequasi per indurlo a fare altrettanto: mi rispose pacata-mente coll’antica nota che già conoscevo. Allora,senz’altro s’entrò nella gran materia. Io, saltando il fos-so, dissi a dirittura sperare che le cancellature od osser-vazioni non sarebbero tali da obbligarmi a rimpastare eforse rifare il mio lavoro. Mauro Colonnetti mi risposecolla inalterabile sua flemma che anch’egli sperava lostesso; e mi parve afferrare un fuggitivo baleno di sorri-so mentre diceva così. Trasalii per un sentimento chestava fra la gioia e la sorpresa, tanto più che mi sembròche il Colonnetti tratto tratto desse un’occhiata di tra-verso all’impiegato, quasi indicandolo un terzo incomo-do. Finalmente l’impiegato ripiegò le carte che aveva fi-nito di scrivere, chiuse il suo cartolaro di marocchinonero, e fattoci un inchino, uscì.

* Il Colonnetti allora con aria soddisfatta mi disse:* «Signor cavaliere, il suo manoscritto è troppo bello

perchè io osassi toccarlo.»* «Come?» esclamai prendendogli una mano.* «Ecco: c’è qua e là qualche frase che non ho ben

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compreso; non vorrei essere preso in fallo senza saper-lo.»

* Qui mi mostrò una lista ch’egli aveva fatta di alcunipunti oscuri, e di alcuni modi dire che potevano dar luo-go ad equivoco. Gli spiegai tutto, e ne fu persuaso: ed ioalla mia volta mi chiamai fortunato d’essere avvisato dialcun difetto di oscurità o confusione.

*«E la censura è tutta lì?» domandai pressochè inte-nerito.

«Caro signor mio: noi qui siamo giudicati come....co-me Ella sa, e siamo giudicati a torto. Certamente, se ioavessi dovuto, o voluto fare, lo zelante, avrei trovato,senza andar oltre le prime cinquanta pagine, di che vie-tare la pubblicazione del Niccolò de’ Lapi. Ma io credoche si può fare il proprio dovere, senza far uso d’uno ze-lo che torni a danno altrui. Io sono Italiano: se mi fosseprovato che la Lombardia senza Austriaci starebbe me-glio, saprei qual sarebbe il dover mio. Ma ciò non m’èancor provato. Veggo anzi che questo è il miglior gover-no che s’abbia in Italia. Provi un po’ a pubblicare il suomanoscritto fuor di qui, e me ne darà notizie.»

* In questo discorso io vidi una conferma di quantonon ha guari ho scritto intorno all’Austria, e gli altri go-verni d’Italia. Le autorità o erano o divenivano per forzapiù tolleranti, più miti di quello che volesse il Gabinettodi Vienna.

* Stetti ancora un po’ a parlare con quell’uomo, il cuiaspetto serio e buono m’ispirava simpatia e compassio-ne. Lo ringraziai vivamente della sua cortesia verso dime, e via di volo col mio Nicolò sotto l’ascella. Quandofui all’aria libera, mi parve d’aver fatto un sogno: queltal odore, quel tal silenzio mi ritornava nella mente. Mail pacco sotto il braccio c’era. Fu quello un giorno perme di vera, di schietta allegria; fu tra i pochissimi giornidella mia vita, ne’ quali il contento interno non fu adul-

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terato, e a tratti schiacciato, sotto un dispiacere relativa-mente più forte.

* In pochi giorni il libro fu composto, corretto; in al-tri pochi fu stampato in decente formato: non ho più ladata precisa del giorno della sua pubblicazione; madev’essere stato a’ primi dell’aprile 1841.

* Appena fu pubblicato il Niccolò de’ Lapi, e speditele copie a Manzoni, Grossi, Torti, Colonnetti, ec., mimisi a far vita ritirata. Non volevo espormi ad una do-manda come quella di quel tal amico a proposito delFieramosca.

* Nella mia vita so d’essermi bene studiato me stesso;di aver sempre fatto la sentinella contro gli assaltidell’orgoglio (o meglio della vanità); d’aver in ogni occa-sione tentato di sorprendere ciò che nelle mie azioni cipotesse essere di poco nobile, o di leggiero, o di cattivo;e mi son castigato da me in una maniera che fu spessocrudele.

* All’istante di mettermi a tu per tu con un avveni-mento così grande come quello del buono o cattivo esitodel Niccolò, si figuri se quella operazione non l’ho isti-tuita in tutta regola! Il primo amico che me ne diede no-tizia, mi trovò freddo, corazzato; è vero che la notizia,spogliata dei fiori rettorici onde sembravami che l’amici-zia l’avesse adorna, era non cattiva, ma nemmeno otti-ma. Ma la stessa sera, tre, dieci, venti altri amici mi per-suasero che i fiori rettorici da me supposti, erano ilfrutto della mia diffidenza. In breve il Niccolò de’ Lapiebbe anche lui un esito prospero.

* Ebbene: spieghi chi può questo fenomeno, altri-menti che colla teoria di Salomone! Io credevo forse ditrovare Dio sa quale sovrumana sensazione nella certez-za d’avere riscosso ancora le simpatie e gli applausi deimiei concittadini: ma l’orgogliosa speranza di un con-tento maggiore dell’aspettazione fu, come doveva esse-re, delusa. Qualche tempo dopo la pubblicazione del

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Nicolò (fors’anche perchè mi parve che l’esito non nefosse così brillante e rapido come quello del Fieramo-sca), ero quasi annoiato, quasi agitato di tutte le cortesieche tanta gente uguale a me, e in gran parte forse mi-glior di me, mi tributava. M’era dolce però sapere che aFirenze, Bologna, Venezia, Torino, e in molte altre cittàove penetrò a stento, piaceva. Dicevo fra me: – mi fo unnome, e così avrò autorità per le cose più importanti, al-le quali tosto o tardi avevo da un pezzo in animo di ri-volgere i miei pensieri. – Ma, comunque sia, affrettai coimiei voti la stagione buona per recarmi alla solinga miavita di Loveno sul lago di Como.

* Passai alcuni mesi poco allegri senza una ragione almondo, avendone anzi molte per non esser tristo. E senon mi fossi trovato sotto il bel cielo della Tremezzina, esulle rive così amene del lago, avrei potuto forse inten-dere che cos’è la sazietà. Ma questa è una brutta cosache detesto, e che per conto mio continuo ad illudermiche non esiste. E forse non esiste davvero, se penso allasomma facilità colla quale essa vien confusa colla noia.Io ho avuto la buona sorte di non mai annoiarmi mai;dappertutto, in qualunque circostanza, mi son sempreingegnato di bastare moralmente a me stesso. So chequesta non è una qualità molto comune: a chi non sa sta-bilire il proprio orario e attenervisi costantemente, vienpresto il momento dello sbadiglio, ed ecco il principiodella noia. Quand’uno consulta l’orologio, e vedendoche per giungere ad un’ora ch’egli ha fissata, glienemancano due o tre, esclama: – Cosa diamine ho da farein queste tre ore? – Egli è un uomo annoiato. Ma da ciòalla sazietà, al pensiero biblico della vanità, quanto cicorre! O voi che siete giovani in questi tempi, se v’an-noiaste, commettereste un delitto! Non v’annoiate, fatesempre, pensate sempre, adoperatevi sempre.

* M’avveggo che do un po’ nella malinconia; la qualea me non giova, e a lei, signor lettore, può produrre ap-

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punto quel male contro il quale andavo or ora per pre-munire i giovani.

* Torno alla pittura per poco; poichè ho fretta digiungere a cose che diano un po’ di serio valore a’ mieiRicordi.

* Nel mio lungo soggiorno in Milano, posso propriodire di aver lavorato: mi è accaduto in un anno di fareperfino ventiquattro quadri tra grandi e piccoli. Per da-re un’idea al lettore della fortuna veramente fantasticache mi proteggeva, dirò che molti quadri, appena ven-duti, venivano subito ricercati da due, tre, quattro mece-nati nello stesso giorno. Trovandomi a Loveno, ricevettiun giorno una lettera del mio caro Grossi, il quale, cosìdolce, buono per me, si dava più fastidi certo ch’iospontaneamente osassi recargli, conoscendo le sue occu-pazioni.*

« Caro Massimo,il Ferraù13 è venduto; ho qui cinquanta luigi a tua di-

sposizione. È pur venduto il Bellaggio, e fra due o tregiorni me ne sarà pagato il valore. Il compratore del Fer-raù è il conte Tosi. Il Bellaggio non posso dirti da chi siastato acquistato: il consigliere Gironi me ne ha fatto,non so perchè, un mistero. Basta, quel che preme di co-noscere è la faccia del nemico, e questo tra pochi diavrem pur da vederlo! Quest’incognito mecenate volevaanche il Ferraù, ma arrivò tardi: epperò ti prego di fareun altro quadro della dimensione di quello che rappre-senta Bellaggio, che gli faccia accompagnatura: il sogget-to probabilmente sarà lasciato in tuo arbitrio. Se poi chipaga ne vuol uno di sua fantasia, lo farà saper presto.Non ho parlato di prezzo, ma ormai le tariffe del presti-naio Massimo sono così conosciute, che anche una bam-bina può andarvi a far la sua piccola provvigione. IeriHayez mi disse di essere incaricato dal conte Arese dicomperargli il Ferraù! son poi tre. Anche Arese è arriva-

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to tardi. Il Bellaggio mi è pure stato chiesto oggidì dalconte Porro; e anche lui è arrivato troppo tardi! Tu vedich’io sono un bravo uomo; in una piccola lettera ti man-do danari, commissioni, e gloria! Se brama di più, il si-gnorino, favorisca spiegarsi! I saluti a Manzoni, i rispettialla famiglia, a casa Beccaria e alle gentili ospiti di quel-lo.

Il tuo GROSSI.Milano, 3 ottobre 1834.»

* Questa graziosa lettera l’ho voluta citare, sebbenesia d’una data assai anteriore a quella che ora i miei Ri-cordi hanno raggiunto, poichè essa serve senza tantespiegazioni e descrizioni (talune delle quali mi cagione-rebbero un imbarazzo naturalissimo) della grande, diròmeglio, della incredibile bontà colla quale il pubblicomilanese accolse e festeggiò i miei primi lavori, e vennesempre aiutandomi in seguito. Bisogna dire che non homai trascurato la virtù della discrezione. Ne’ primi anniche esposi quadri a Milano, le mie esposizioni furonocopiose; ma poi adagio adagio mi eclissai volontaria-mente; dopo il 1835 mi limitai a produrre da tre a cin-que quadri: sicchè non invadevo, non seccavo. Vi fu sol-tanto un po’ di recrudescenza nel 1837: ma n’era causail cholera dell’anno prima che aveva impedito l’esposi-zione, quindi un po’ di pletora artistica. La lista dellemie esposizioni a Brera dal 1833 al 1843 è così breve,che posso qui trascriverla, se mai ciò potesse tornar gra-dito a qualche amico lettore.

ESPOSIZIONE DEL 1833.Combattimento al Garigliano fra Spagnuoli e Francesi. Vedutadella Cadenabbia sul lago di Como. Idem della Maiolica sullostesso lago. Idem di Cernobbio, come sopra. Battello da pesca-tore. L’imboccatura del Gresio vicino a Cernobbio. Castellod’Azeglio. Veduta di Grianta sul lago di Como. Seno del lagodi Como presso Balbiano. Fontana della Perlasca, pure presso

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Balbiano. Sfida di Barletta. Marina presso Sorrento. San PietrodI Acqua Acetosa. Marina. Porto di Cernobbio. Case alla Per-lasca. Fieramosca che giunge all’isola di Sant’Orsola.

ESPOSIZIONE DEL 1834.Veduta della Tremezzina. Paese d’invenzione, coll’episodiodell’ombra dell’Argalia che appare a Ferraú. Brindisi di Fran-cesco Ferruccio, generale de’ Fiorentini, a’ suoi soldati primadella battaglia di Gavinana, per commissione della signoramarchesa Visconti d’Aragona. Contadina inseguíta dai Pirati,per commissione del conte Mazé. Disfida di Barletta – percommissione del signor cavaliere Paolo Toschi. Battaglia diGavinana – per commissione del signor marchese Antonio Vi-sconti. Combattimento di Diego Garcia di Paredes contromolti Francesi sul ponte di barche del Garigliano – proprietàdel signor Carlo Galli.

ESPOSIZIONE DEL 1835.Bradamante che combatte col mago Atlante per liberar Rugge-ro dal castello incantato. Una vendetta, dono alla chiesa di SanFedele. Un riposo di caccia. Difesa di un ponte – proprietà delsignor Pietro Tron di Torino. Ferraù a cui appare l’ombradell’Argalia. Un combattimento, commissione del signor Bal-dassarre Ferrero di Torino.

ESPOSIZIONE DEL 1837I funerali del duca Amedeo VI (conte Verde). Inondazione inuna valle delle Alpi. Veduta del Castel dell’Ovo. Combatti-mento tra Ferraù ed Orlando. Battaglia fra Rodomonte e Bran-dimarte. Astolfo che insegue le Arpie. Cascata della Dora pres-so Saint Didier. Paesaggio con animali. Veduta dellaCampagna romana. Piccolo paesaggio.

ESPOSIZIONE DEL 1838Grande inondazione. Bradamante, atterrato Atlante, chiede lalibertà di Ruggero. Passaggio di truppe. Napoleone che arringai soldati in Egitto. Macbeth e Banquo che incontrano tre stre-ghe. Ippalca, messaggero di Bradamante a Ruggero.

ESPOSIZIONE DEL 1839Combattimento di Gradasso e Rinaldo. Il duca Amedeo VI ri-

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ceve prigioniero Michele Paleologo. Zerbino ed Isabella. Fer-raù e l’ombra dell’Argalia.

ESPOSIZIONE DEL 1840Sacripante ed Angelica. – Dal canto 1° dell’Ariosto. Mulinopresso S. Pellegrino. La difesa di Nizza contro Barbarossa ed iFrancesi – di commissione di S. M. il Re Carlo Alberto.

ESPOSIZIONE DEL 1841Riposo di caccia. Temporale. La battaglia di Torino. La batta-glia del Col d’Assietta. Paesaggio d’invenzione.

ESPOSIZIONE DEL 1842(Nulla esposi, sebbene non pochi quadri siano stati eseguiti evenduti.)

ESPOSIZIONE DEL 1843Campagna di Roma. Contadinella alla quale è caduto l’asino incattivo passo. G. Sforza nell’atto di gettare su un albero l’accet-ta per trarne pronostico se debba farsi soldato.

* Credo superfluo il dire che ho lavorato ben più dicosì, ma nel mio studio, senza sforzar troppo quella talcorda della tolleranza artistica che alla fine poi si rompe.La tentazione di cedere a’ suggerimenti dell’amor pro-prio era grande; potevo lasciarmi allettare dalla teoriadel tirar giù presto; potevo trinciare, ec. Niente di tuttoquesto. Lo affermo sull’onor mio: non mi stimai pesareun’oncia più di prima: lavorai come se fossi stato ancorapresso Checco Tozzi o il sor Fumasoni.

* Mi sono sempre guardato scrupolosamente di fare ilgiudice ed il saputo; e quella volta che ho dato un parerein un quadro, l’ho dato con delle ragioni e considerazio-ni che toglievano al mio scritto ogni carattere di senten-za. Sono sempre stato cortese con tutti gli artisti, amici ono, e ciò non m’è punto costato mai fatica: m’avrebbebensì costato fatica il contrario, che urta la mia natura.

* I quadri de’ quali sembra che il pubblico abbia re-cato più favorevole giudizio (ed io internamente gli ho

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dato ragione), furono: La vendetta, che ho riveduto conpiacere nel 1860 in casa Poldi-Pezzoli. L’Ombra d’Ar-galia, Il combattimento di Bradamante con Atlante, Lamorte del Montmorency, Contadina alla quale è cadutol’asino in un mal passo, Ippalca e Ruggero..., e qualchealtro. La morte del conte Montmorency non mi pare siastata esposta a Brera.

* L’Ariosto mi fornì la massima parte dei miei primisoggetti, e non avrei saputo trovar meglio altrove.

* Volendo io seguire una pittura, che da un lato mifornisse il modo di valermi de’ miei lunghi e faticosi stu-di co’ quali tentai di avvicinarmi alla verità, e dall’altrolasciasse un campo ampio alla fantasia ed a concetti ele-vati, nessuno più dell’Ariosto poteva aiutarmi.

* Anzi tutto, ciò che principalmente mi guidava era ilsentimento della natura: mai non pensavo all’effetto di-rettamente; ma se l’ottenevo, desideravo ottenerlo no-bilmente, ascoltando con pazienza i consigli che il senti-mento della natura mi suggeriva. Forse in quel tempol’arte non era compresa a questo modo, epperciò io fuiuna novità, una cosa curiosa.

* E anche questo contribuì a farmi una facile cele-brità. Modestia a parte, credo che in quei quadri ed inalcuni altri che ho poi fatti, qualche merito reale ci sia,sopratutto se confronto il metodo allora da me seguítocon quello che adottano ora molti artisti anche rinomati:ho visto de’ paesaggi, l’autore de’ quali mi sembra dices-se allo spettatore: – Volevo fare un bell’albero e dellebelle pecore, ma siccome avevo fretta, e il prezzo era giàcombinato, ho tirato giù quattro segni; i quali però, benriusciti come sono, danno un’idea distintissima dell’al-bero e delle pecore.-

* Mentre me la passavo così gradevolmente a Milano,mi arrivò una lettera da Roma da un mio vecchio amico,il quale mi pregava e scongiurava di partire subito perandare a cavarlo da un brutto pasticcio. Volai infatti su-

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bito a Roma; e trovai che una certa riputazione mi avevaanche colà preceduto: me ne furono fatti de’ compli-menti a sazietà, da signori in nero e da signor in pavo-nazzo. Subito corsi dall’amico; e in pochi giorni poteiriuscire a trarlo d’imbarazzo, massime mercè il graziosoaiuto del cardinale De Gregorio. Nel piccolo cerchiodelle mie antiche conoscenze non tardò a risapersi delmio arrivo in Roma: ricevetti graziosi inviti, che accettaiin parte, in parte no: rividi qualche gentile signora: e,presso una di queste, lei non indovina certo chi ho rive-duto: quella tal signora che fu tanti anni addietro causadi quel mio mal morale così lungo, così insistente! Lapioggia ed il bel tempo sono inventate apposta per simi-li occasioni: e me ne servii con molta destrezza. Il ricon-templare quel viso, temevo (lo confesso) mi conturbas-se: invece, niente affatto! – Bravo sor Massimo! –esclamai internamente. Corsero alcuni giorni, e non cipensavo nemmeno più. Dacchè poi ero a Roma, volevoammirarne un’altra volta le bellezze con un occhio che,senza superbia, potevo supporre più esperto di prima.Presi un quartierino: mi ci annicchiai bene: distribuii alsolito le mie ore, e pensai di passare colà un po’ di tem-po da vero, da esclusivo artista.

* Una mattina la signora Angelina (di cui dirò fra bre-ve) mi presenta un biglietto: non sapeva chi lo mandas-se; l’uomo che l’aveva recato disse ignorarlo: entrai nelmio appartamentino, e apersi il biglietto; se io abbiaprovato sorpresa, la lettura di esso lo indica abbastanza.Eccolo: «Signore! si ha desiderio di dirvi una cosa chetocca più voi che altri. Un uomo fidato – con un fazzo-letto bianco in mano si troverà oggi stesso a mezzogior-no alla porta della vostra abitazione: appena vi vedrà,muoverà verso la via deserta a mano manca; seguitelo, evi dirà che cosa dovete fare ». – Povero me (esclamai,lasciandomi cadere sopra una sedia): che avessi da far ilgiovinetto imberbe ed eroico in qualche grosso dram-

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ma! Ma pensi, signor lettore che io ero oltre iquarant’anni. – Per dirla corta, in meno di cinque minu-ti avevo già preso la sola determinazione possibile e ra-gionevole: quella di bruciar il biglietto, andarmene, enon tornar più che a sera. Detto fatto.

* La sera seppi che l’omo del fazzoletto aveva fatto lasentinella fino al tocco e mezzo: quindi se n’era andatoanch’egli alle sue faccende.

* Passai alcuni giorni visitando studi non ancora dame visti; tra gli altri quello di un Francese, valentissimoe imaginoso artista, che poi è salito in celebrità in Fran-cia; il Couture.

* Questi mi fece conoscere altri suoi compaesani: ingenerale sembravano gente educata, e mi godevo assaiin loro compagnia le prime volte: in seguito poi c’eraqualche cosa da dire; ma non importa, l’educazione èper me il perno d’ogni macchina e d’ogni edifizio.

* Eran passati sei o sette giorni dall’avventura del bi-glietto; ed una sera rientravo un po’ stanco ma tranquil-lo. Trovai un altro biglietto sul mio scrittoio.

* Questo diceva così: «Signor Massimo! Trovateviquesta notte alle ore due e mezzo nella piazza di San Lo-renzo in Lucina, meno che abbiate paura: qualcuno chevi vuol bene, vi avvertirà del grave pericolo che correteper causa d’uno che vi vuol male.» Questo biglietto dap-prima mi seccò, poi m’irritò.

* Quindi l’abbrucciai come l’altro; quindi a pensarechi poteva voler vendetta su di me; quindi a fremere perquell’a meno che abbiate paura.

* Il fatto è, che la deplorabile mia vecchia smania difar sempre il bravo, mi fece rinunziare al programma sìsemplice e piano di coricarmi nel mio letto: ed un altrofatto è, che alle ore due e mezzo, ero nella piazza indica-tami in sentinella. Dopo un po’ d’aspettazione, mi arrivail rumore d’una carrozza: quindi d’una pattuglia, miparve, di gendarmi. – Or son bello e fritto – dissi!

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* Per fortuna invece di rasentare le case, m’ero tenutonel bel mezzo della piazza; era sempre una buona pre-cauzione. La pattuglia passò alla mia diritta, e non mi vi-de. La carrozza mi s’avvicinò; non si fermò; ma ne uscìuna voce sommessa che disse: – Seguitate la carrozza,andremo al passo. – Ah sì? (esclamai dentro di me); va’pure al passo di là: io ti seguiterò di qua. – *

Potevan essere le tre dopo mezzanotte, e mi trovai so-lo, piantato ritto in mezzo alla piazza di San Lorenzo inLucina, tenendo l’orecchio per sentir lo strepito dellacarrozza, che s’allontanava per piazza Borghese al Cle-mentino; e quando fu all’Orso, si perdette ogni suono, erimasi nel profondo silenzio della gran città addormen-tata.

In fretta tornai nel mio quartierino. Ma io valeva po-chi soldi quella notte; e per più dispetto bisognava cheumilmente confessassi, che tutta questa maledizione mel’ero cercata proprio col lanternino da vero corbello.

Basta, per fortuna, le ore, belle o maledette che siano,passano sempre a un modo. Passò anche quella notte, ela mattina dipoi dissi: – Qui qualche cosa bisogna fare, eprima di tutto andarsene. –

Trovai nella giornata il mio compare Michelangelo, efummo presto d’accordo d’andare a far un viaggio aFiumicino.

Il vapore, seppi che partiva la mattina, feci presto fa-gotto, e un par d’ore prima di giorno il compare ed ioeravamo arrivati verso Ripa Grande. Mi pareva un po’curioso che il vapore partisse a quell’ora strana, che cer-to doveva sgomentare più d’un viaggiatore e peggio –viaggiatrice. Ma quando giunsi a Ripa, vidi che, in fattodi comodi, l’impresa non s’agitava gran cosa per alletta-re l’avventore.

Dalla riva, siccome c’era appena un ultimo quarto dilunetta calante che mandava un po’ d’albore, il fiumeera scuro. Badavo a guardare, e non vedevo nulla.

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«Dov’è questo vapore?» domandai, e un marinaio midisse: «Là.» – «Dove là!» – «In mezz’a fiume.» – «E co-me ci si va?» – «Di qua.» Il di qua era un asse stretto elungo venti braccia, che si appoggiava su una barca dicarbone, e poi un altr’asse idem dalla barca al vapore,elastici come molle d’orologio!

Quest’era il bel comodo offerto ai signori viaggiatori.Io che son celebre pel capogiro, mi dovetti metter

avanti un marinaio, prenderlo per le spalle, e pregar Dioche lo tenesse ritto. Per fortuna la preghiera fu ascoltata,e così passo passo s’arrivò a bordo, e ad un par d’ore disole fummo a Fiumicino.

Fiumicino è una linea d’edifizi, posti lungo la drittadel Tevere, che è ivi racchiuso e retto da argini perchè lebarche vi trovin fondo. Presso mare è un torrione diguardia, di quelli antichi che guarnivano le coste peramor de’ Barbareschi. Il litorale intorno è basso, sparsoora di boschi, ora di macchie nane, ora di pascoli; comeall’incirca tutta la maremma da Pietrasanta a Terracina.L’aria è buona il maggio, ed il passo delle quaglie vichiama cacciatori e cacciatrici. Ma alle quaglie pensano iprimi; le seconde pensano a divertirsi; e con quella buo-na volontà che non manca mai alle Romane, alla fine ciriescono anche a Fiumicino. Si lavora a barcate, cavalca-te, scarrozzate, pesche, pranzi, cene, balli; giochi; e, tut-te queste variazioni partendo sempre dal tema immuta-bile del far all’amore. Tutt’insieme la villeggiatura riesceanimata, vivace e piacevole, ben inteso per chi non habisogno nè d’un buon pranzo, nè d’un buon letto, nèd’un buon quartiere per essere felice.

Tutti i Romani e le Romane (bisogna dirlo) portano inquesto mondo, nascendo, una ferma risoluzione di voleressere allegri, e ci riescono alla barba del loro governo,che sembra risoluto precisamente al contrario.

Quest’ottimismo, o spensieratezza che sia, è forse laqualità più attraente in quella società di gente, che spes-

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so non ha nè casa, nè tetto, nè mezzi, nè sicurezza dinulla per l’indomani; e che pure canta, ride, si diverte; èsempre in moto, e alla fin de’ conti va in capo all’annocome la gente che riflette, nè più nè meno; e ci guadagnadi non prendersela di niente, e non s’ammala certo displeen, come gl’Inglesi. Poveri Romani! Dio sa quel chefa a mantenerli spensierati; se no, starebbero freschi!

In mezzo a questa compagnia passai un mese. Vi sitrovavano Beppe Sartori e la sua famiglia: facevo vitacon loro, e un po’ aiutato, un po’ aiutandomi, si campa-va. Ma del mio male morale, era ancora lontana la guari-gione.

Avevo un quadro da fare per Paolo Datti. Si beccava-no quaranta scudi soli; ma, tempo di carestia pan di vec-cia. Lo feci; non c’era male.

A quei giorni mi capitò innanzi un uomo che mi par-ve da studiare, ed io, che ho sempre trovato il mio contoa studiare più sugli uomini che su’ libri, lo volli conosce-re. Era costui il macellaio di Fiumicino, celebre ammaz-zasette, di cui si raccontava una certa diavoleria di ghet-to, della quale volli sapere il certo.

Una sera al caffè, dove tutti più o meno capitavano,me lo feci insegnare; e presolo pel solito verso pel qualesi maneggiano gli uomini grandi e piccoli – la vanità –che proprio sta all’uomo come il manico al canestro,l’ebbi presto condotto a un tavolino con un mezzo caldodavanti, nelle disposizioni più espansive che si potesserodesiderare.

Già gli avevo lasciato capire che lo consideravo comeuna celebrità, e seguitando su questo tema gli dicevo:«Insomma, sor Pietro, dice che quand’eri giovinotto tifumava l’anima.... e ho inteso raccontare d’un certo affa-re di ghetto, dove avesti che dire colli Giudíi... Di’ unpo’ come fu sta b....»

«Che volete che vi dica?... securo, ero un po’ fastidio-so.... si sa.... Insomma fu che ero garzone del macellaro a

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Ponte Sisto.... sapete.... sulla cantonata per andare allaTrinità de’ Pellegrini....»

«Ho capito.»«Bè, ogni giorno portavo la carne in ghetto, e già più

d’una volta c’era stato che dire; chè quel Giudío che vie-ne a far l’ispezione per vedere come s’ammazza l’anima-le, bisogna che avesse avuta la mancia da qualche macel-laro e voleva che mutassero macello: e se era vaccina,diceva che era bestia morta di male; se era bufola, dicevache ci mettevo li quarti di dietro, e insomma mettevamale. Una mattina che avevo portato la carne in ghetto,passando per strada, comincia un Giudío e poi un altroe un altro, e chi mi fa un verso e chi un altro, e a darmi laminchionella, e insino m’arriva una torzata.... Fateviconto! a padron Pietro le torzate! Io non fo altro chetanto: do di mano al cortello grosso di bottega e via a ca-po sotto, a chi piglia piglia.... Che volevi vedere? Io solone feci un’intruppata; e tutti a gambe, e io appresso, euno s’infilava, mi ricordo, in una cantina, e gli arrivòuna cortellata proprio sotto el laccio delli calzoni.... Pro-prio avevo perso il lume degli occhi. Insomma, dopo unpo’ vedo che mi si fanno addosso più di duecento perso-ne, e di queste neppure me ne pigliavo tanto; ma mi par-ve veder venire la squadra di Galante (il bargello), e iosvicola dall’altra parte, e in tre zompi sono a casa. Mi’madre, che mi vede arrivare che parevo una bestia, dice:– Che hai fatto, figlio mio? – Dico io: – Quel che ho fat-to non so, ma qualche cosa ho fatto; – e senza tanti di-scorsi mi dà otto paoli che aveva alla mano. Mi muto,prendo la camiciola e ‘l cortello, e via fuor di Porta SanGiovanni, e per la campagna. Verso sera mi trovai aPantano di Borghese. E qui, digli a Galante che mi ven-ga a prendere!...»

Bisogna sapere, che per quanto le immunità dei prin-cipi romani sieno cessate in diritto, esistono però in fat-to. Almeno esistevano ai tempi in cui padron Pietro, fa-

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cendo il pendant a Sansone, meno la mascella d’asino,faceva come lui, senza sognarselo, le vendette de’ Fili-stei.

La fine della sua avventura l’ho dimenticata, perchèricade nel corso solito di simili faccende. Cioè, mettersisotto qualche protezione, star ritirato finchè la cosa siadimenticata e poi ricomparire un bel giorno, e chi haavuto le sue se le tiene.

Dopo qualche altro giorno, venutomi a noia Fiumici-no, e sentendomi anche più libero e sollevato di mente,feci fagotto e me ne tornai a Roma. Trovai il mio quar-tierino al Corso, libero. Trovai la mia padrona, la signo-ra Angelina, sempre più fedel ritratto della maga Alcina,come la descrive Ariosto, dopo che Melissa per virtùdell’anello fece aprir gli occhi a Ruggero; e ripresi il miosolito tran tran di vita: ma presto mi avvidi che ancoral’affare non camminava.

Mi sentivo íl bisogno d’una grande occupazione d’in-telletto e di cuore. Ma dove trovarla?

Ci pensò la Provvidenza a trovarmela, e fu tale, chemi ha dato da fare più che non immaginavo.

Nell’inverno avevo conosciuto in casa Paris una si-gnora Clelia Piermarini, stata camerista di Cristina diSpagna per molti anni in Madrid. Maltrattata e poi ab-bandonata dal marito, ed uscita dalla casa della Reginaper intrighi d’anticamera, era rimasta senz’aiuto con duefiglie da marito da mantenere. Era uno di quei tipi italia-nissimi, buona, espansiva, immaginosa, pronta sempre acreder tutti galantuomini ed amici; e in politica ammaz-zare il tiranno, cacciare il barbaro, emancipare il popoloe via via, senza curarsi di rendersi ragione per quali viela cosa fosse possibile.

A poco a poco m’ero dimesticato con la Clelia e conle figliuole, veramente ottime persone ed altrettanto di-savventurate; e capitando talvolta a casa loro, ove tuttigli Italianissimi, matti o non matti, birboni o non birbo-

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ni, erano ricevuti a braccia aperte, avevo conosciuti pa-recchi di loro. Due fra gli altri m’erano sembrati uominidi proposito, Adolfo S. di Pesaro e Filippo A. di Cesena,e m’ero affiatato con loro. Mi facevano moltissime ca-rezze: il primo aveva il fratello in Castello per gli affaridel 32, se non erro. Come Dio volle alla fine uscì, e ripa-triarono insieme. Il secondo mi disse un giorno ch’egliavea necessità d’aver con me un abboccamento serio elungo, e fu fissato per la sera dipoi in casa della Clelia.

Capii che si trattava di politica, e ci andai preparato,chè allora non conoscevo ancora Filippo per quel galan-tuomo che è. Trovatici e messici a sedere, cominciai:«Signor Filippo, dovete sapere che da molti anni soffrod’un dolore fisso sotto le costole dal lato manco, accom-pagnato da difficoltà di respiro, e talvolta da palpitazio-ni, ed essendo voi medico intendo consultarvi: ora senti-temi il polso, esaminatemi, palpatemi, e poi ditemi checosa ve ne pare.» Era vero che avevo di tempo in temposofferto di quest’incomodo: ma non n’avevo mai fattocaso, come di cosa nervosa e di poco momento.

Filippo che a codesto discorso poco attendeva ed ave-va altro in capo, mi prendeva il polso mezzo sbadato; eallora mi cacciai a ridere, e ritirando la mano soggiunsi:«Per questa volta terremo il consulto per fatto; ma sic-come può accadere ancor più a voi, come suddito ponti-ficio, che a me, l’esser preso e posto sotto costituto, casomai che questo accadesse, vi ricorderete, come ad un bi-sogno mi ricorderò io, che questa sera in casa della Cle-lia nell’abboccamento avuto insieme in una camera se-parata, io v’ho consultato pel mio dolore, che voi avetegiudicato affar nervoso da non farne caso, e dopo il con-sulto ci siamo lasciati e nient’altro.»

E qui osserverò come fra i tanti tristi effetti che i go-verni simili a quello del papa producono sul caratteredegli uomini, il peggiore forse di tutti è quello di spe-gnere negli animi la sincerità, e rendere la doppiezza e la

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simulazione condizione necessaria del vivere, e costrin-gere chi non vuol a ogni momento rischiar la prigione aridurla ad un sistema.

Filippo sorrise, e poi cominciò a parlare di ciò che piùgli premeva; e non potendomi ricordar le precise parolene dirò il senso, il quale era in sostanza: esser papa Gre-gorio ormai cadente, ed impossibile campasse a lungo;essere, come benissimo conoscevo, la Romagna in pun-telli; ed avere le persone savie ed oneste avuto molto chefare e dire per trattenere i popoli dal rompere in quellesolite imprese mazziniane, sempre pazze e sempre fatali;esser da pensar sul serio al caso della morte del papa, ecercare, per quanto fosse possibile, di prepararvi gli ani-mi; dovere gli uomini influenti impiegare tutta la loroautorità onde persuadere, che neppure alla morte delpapa non si facessero novità; che, intraprese co’ solitimodi violenti e rivoluzionari, non portavano altro fruttose non la comparsa degli Austriaci, colla prigionía, l’esi-lio e la morte di molti, ed un peggioramento nelle condi-zioni di tutti.

Aggiungeva poi: «In Romagna tutte le persone di giu-dizio sono stanche delle sètte, delle congiure della Car-boneria, della Giovine Italia, e si sono convinte che tuttociò non serve se non a mandare poveri giovani in esilio osul patibolo.»

«O non esistono più sètte in Romagna?»«Esistono appena fra la gente ordinaria, fra la quale

anche sono quasi andate in disuso; ma non c’e uomocon due dita di cervello che non ne rida. Ora dunquemolti de’ più influenti hanno immaginato, che essendoimportantissimo d’antivenir pure i guai che senza dub-bio avverranno alla morte di papa Gregorio, ci vorrebbeun uomo nuovo e non logoro come loro, un uomo cheispirasse fiducia e cercasse di rannodare, dirigere e raf-frenare al bisogno tante volontà, tanti desiderii, tanteidee in contrasto e prive d’ogni disciplina; e quest’uomo

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parrebbe loro, caro signor Azeglio, che doveste esservoi.»

Io m’aspettavo cosi poco a questa nomina di genera-lissimo delle (più o meno ex) società segrete dello StatoPontificio (nomina tanto più strana, in quanto, come ènoto, non solo non avevo mai appartenuto a nessuna,ma nemmeno avevo mai incontrato chi mi trovasse ab-bastanza viso di cospiratore da propormi di farne parte),che non trovai altra risposta se non un:

«Io?» pieno di grandissima meraviglia.«Sicuro, voi. Voi siete tenuto per galantuomo da tutti

i partiti, non siete in sospetto....» e poi seguitar con duerighe di panegirico, come s’usa in simili casi; al quale an-ch’io, secondo l’uso, rispondevo con mezze parole, edatti del volto equivalenti al Domine non sum dignus. Al-la fine, dopo un minuto di riflessione, dicevo:

«Ma io non sono, nè fui mai carbonaro, o calderaro, oche so io; di tutte le idee della Giovine Italia, salvo arti-colo indipendenza, non ne divido una: io non credo nel-le congiure, nei moti come quelli che vi divertite a fareogni tanto voi altri Romagnoli. Pensate, se è possibile,che mi diano retta quando parli una lingua che non in-tende nessuno!»

«Il non esser voi settario è meglio; e poi già v’ho dettoche quasi tutti si sono ritirati da queste buffonate: equanto all’aver voi idee opposte a quelle di Mazzini, sumenti stanche del passato ed incerte sul futuro, pro-durrà anzi miglior effetto.»

Così di un discorso in un altro mi venne sempre piùmanifestando questo desiderio de’ caporioni liberalidello Stato, di vedermi prendere una specie di direzionedel partito, e prima di tutto di conoscermi di persona edabboccarsi con me.

Così a prima impressione la cosa non mi dispiacque.Non già perchè ci vedessi fondamento nessuno per gio-vare all’Italia; ma perchè provando il bisogno d’aver

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un’occupazione che sopraffacesse nell’animo mio i pen-sieri che mi tormentavano, non mi parve poterne trovareuna migliore. Contuttociò, seguendo il mio lodevole co-stume di prender sempre tempo a pensare, dissi a Filip-po:

«Io v’ho inteso, non vedo ostacoli assoluti, ma a tuttoci vuol riflessione, ci penserò e vi saprò dir qualche co-sa.» Cosi rimanemmo e lo lasciai.

Ne’ giorni dipoi andai molto ruminando questa fac-cenda, volgendola da tutti i lati e vedendone tutti gliaspetti.

Ora mi pareva principio di qualche cosa d’importan-te, ora una pura ragazzata, ora un mezzo soltanto di co-noscer meglio l’Italia e gl’Italiani, ora un affare da essermesso in mezzo, e finir in prigione senza utile nessuno.Credo che infatti ci fosse un miscuglio di tutto questo.

Alla fine mi decisi pel sì, per più ragioni: la principaleera il desiderio, dovrei dire il senso di dovere che miconsigliava a non tralasciar nulla di fattibile per impedi-re i disordini che senza dubbio sarebbero accaduti allamorte di papa Gregorio, con danno dell’Italia e degliItaliani, e con guadagno certo per la sola Austria; poi ve-niva l’altra ragione, d’aver un modo di passar la malin-conía, e finalmente il mio gusto per la vita di avventure ed’azione. Ritrovato dunque dopo alcuni giorni Filippo,gli dissi che ero disposto a tentare questa prova.

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CAPO TRENTESIMOQUARTO

SOMMARIO. – Ho per compagno di viaggio un certo Pompiljdi Spoleto – Comincio sopra di lui i miei esperimenti, conqualche frutto – Fermata a Baccano; e studio di costumi locali– Domande suggestivi a un cameriere, in Otricoli – A Ternitrovai il primo anello della Trafila – Nello Stato Pontificio tuttifinivano per darmi ragione: in Toscana non fu così – A Spoletomi divido da Pompilj – Proseguo il viaggio per la Marca, incompagnia di uno sbarbatello impertinente – A Camerino mis’offre il destro di dargli una lezione – Arrivo a Loreto – Di Lo-reto, e de’ santuari in generale – Da Loreto ad Ancona ripren-do i miei esperimenti pratici su un Francescano – Finisco lamia propaganda in Romagna; la proseguo in Toscana, e per lavia di Geneva torno a Torino – Domando udienza al re CarloAlberto, e l’ottengo subito – Colloquio politico fra me ed il Re– Mi risolvo a scrivere di politica, consigliandomi con CesareBalbo – Nonostante l’opposizione di molti, pubblico gli ultimicasi di Romagna – Dopo questa pubblicazione non posso piùstare a Milano.

In quell’epoca, non mi ricordo come, avevo conosciu-to un tale dell’Umbria, mezzo letterato, mezzo politico,di quelle nature candide, credenzone, come se ne trovantante in Italia; e siccome egli intendeva partire per il suopaese ne’ contorni di Spoleto, fu deciso che avremmofatto assieme questo primo tratto di strada.

Una mattina dunque di settembre (il primo o il secon-do, se non erro), ce n’uscimmo per porta del Popolo,condotti da uno di quei vetturini marchigiani, che man-tenevano ancora poco tempo fa le vere tradizioni poeti-che del viaggiare; destinati pur troppo ad essere anch’es-si travolti dalla prosaica corruzione delle strade ferrate.

Antonio aveva due di que’ tali cavalli, che a vederli,promettono di non poter muovere le gambe, ma riesco-no poi eccellenti alla prova, coll’andar tutto il giorno co-me demoni. Il legno idem; pareva una conocchia fessa; enel tratto di strada per arrivare a porta del Popolo lavo-

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rava tutto per sghembo, sonando sul selciato come uncarretto di ferraglia; eppure andò come una spada pertutta la via, e non si smosse un dado. Quest’équipage èquello che nello Stato papale porta, non so perchè, il no-me di un Sant’Antonio. Uscimmo dunque tutti allegra-mente da porta del Popolo: Antonio schioccando la fru-sta, e Pompilj, ed io, ed io occupandoci delledisposizioni che prende ogni viaggiatore mettendosi inviaggio, per avere alla mano tutte le piccole felicità dellavita di carrozza.

Il Pompilj era a parte del gran segreto della mia perlu-strazione dello Stato. Nel cominciare a discorrere insie-me, presto m’avvidi d’aver per le mani un saggio del la-voro non facile (allora così credevo) che mi aspettava insu tutta la strada. Pensai, dalla mostra si conosce la bal-la, e dicevo: ci sarà da sudare.

E così cominciai ad eseguire con lui il piano chem’ero fatto, per i miei futuri abboccamenti coi liberaliche m’aspettavano.

Il piano era composto di due operazioni. La prima,distruggere le idee vecchie: la seconda, proporre le nuo-ve, sia relativamente alla questione generale italiana, cherelativamente alla questione speciale dello Stato eccle-siastico.

Le ragioni contro il sistema delle sètte, delle congiure,de’ moti in piazza, ecc., sono state tanto ripetute che èinutile discorrerne; perciò la prima parte, del distrugge-re, non era difficile, ed ognuno immagina di quali argo-menti mi dovessi servire.

Ma la parte del ricostruire era più scabrosa.A gente che soffre in tutti i modi immaginabili le infi-

nite torture fisiche e morali del peggiore di tutti i Gover-ni conosciuti, finchè le si dice: < La via che avete corsasin qui non può condurvi a nessun bene », si potrà più omeno far intender ragione. Ma quando s’arriva all’arti-colo del da farsi, quando vi chiede d’insegnarle la via

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buona, e che si è costretti a rispondere: «Il da farsi perora è niente», ovvero ala via da seguirsi è lo starsene fer-mi», allora c’è il caso che vi mandi a far benedire – e, perdir la verità, chi soffre e non ne può più, se vi ci manda,è scusabile.

È vero che non era nelle mie idee, che non vi fosseproprio da fare nulla affatto; ma a chi non vede moltolungi, a chi ha bisogno di seminar la mattina e mietereprima di sera, non è facile far intendere che certi effetti,in cose politiche specialmente, non riescono se non pre-parati alla lunga da cause, che non hanno con essi unarelazione abbastanza apparente, perchè possa essere af-ferrata da chi non ha un po’ d’intelligenza, di coltura ed’abito di riflettere.

Contuttociò era chiaro che non avrei potuto esercita-re qualche buona influenza, se non riuscendo a far en-trare ne’ cervelli queste verità. Mi ci misi dunque di pro-posito, cominciando dal mio compagno di viaggio, eservendomi più di tutto di paragoni a portata d’ognuno.Ho sempre osservato che non c’è niente che persuada ilcomune de’ cervelli, più che un paragone ben scelto.

Dicevo dunque al mio candido amico:«Parliamoci chiaro: che cosa volete voi altri – ed io

con voi? – Volete metter fuori d’Italia i Tedeschi, e fuordell’uscio il governo de’ preti? A pregarli che se ne va-dano, è probabile che vi diranno di no. Bisognerà dun-que sforzarveli; e per sforzare ci vuol forza, e voi la forzadove l’avete? Se non l’avete voi, bisogna trovare chi l’ab-bia. E in Italia chi l’ha – o per dir meglio – chi ne ha unpoco? Il Piemonte: perchè almeno ha una vita sua indi-pendente; ha denari in riserva (allora li aveva), ha eserci-to, ec.»

A questa parola il Piemonte, il mio interlocutore face-va la smorfia e soggiungeva con ironía:

«Carlo Alberto! In lui volete che speriamo?»Ed io mi stringevo nelle spalle e rispondevo:

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«Se non volete sperare, non sperate; ma bisogneràrassegnarvi a non sperare in nessuno, allora.»

«Ma il 21? Ma il 32?»«Il 21, il 32 non piacciono a me più che a voi – quan-

tunque anche su questi fatti ci sarebbe da dire: – ma am-metto quel peggio che voi vorrete; ripeto però, che o inlui v’è da sperare, o in nessuno. Del resto, consideriamola cosa a mente fredda, e ragioniamo. Se da noi si do-mandasse a Carlo Alberto l’impegno di far cosa contra-ria ai suoi interessi, per puro eroismo, per giovareall’Italia, a voi, a noi tutti, potreste dirmi: – Come vi vo-lete fidare del traditore del 21? del fucilatore del 32? – eforse avreste ragione. Ma alla fine che cosa gli si doman-da? gli si domanda di far del bene a noi, ma più a sè: glisi domanda, venendo l’occasione, di lasciarsi aiutare adiventare più grande, più potente di quello ch’egli è; ev’ha da parer dubbio ch’egli vi s’accordi?» E qui aggiun-gendo un paragone molto irriverente – ma eravamo frala Storta e Baccano, lontano cento miglia dalle Corti, enon mi sentivo punto cortigiano – dicevo: «Se invitateun ladro ad essere galantuomo, e che ve lo prometta, po-trete dubitar che mantenga; ma invitar un ladro a ruba-re, e aver paura che vi manchi di parola, in verità, nonne vedo il perchè!»

Povero Carlo Alberto! II tempo ha mostrato ch’eglinon meritava d’esser giudicato così duramente; e quan-do ripenso al mio paragone, mi sento rimordere. Ma co-sì accade pur troppo ad un principe che non va per lavia piana, che crede trovar una forza nella furbería! Po-vero Carlo Alberto, si credeva furbo!...

A questi discorsi, molto più lunghi e particolareggiatiche non li scrivo, il buon Pompilj si veniva accomodan-do, e si capacitava che la cosa potesse stare come glieladicevo. Ma qui lui come tutti, e come sempre, volevache gli dicessi quando si sarebbe potuto sperare che sivenisse a qualche conclusione. Ed allora s’entrava in

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un’altra difficoltà, quella di persuadere la pazienza a chisoffre, che è la maggiore e la più naturale delle difficoltà,come già ho detto. E bisognava farlo capace che, senzaun gran fatto europeo, era impossibile, al modo col qua-le si vive in oggi nel mondo, che l’Italia potesse muover-si e che Carlo Alberto avesse modo d’aiutarla. «E questofatto europeo quando avverrà?» – «Domandatelo al Si-gnore,» rispondevo io.

Chi m’avesse detto allora, nel quarantacinque, che ilSignore avea deliberato che questo fatto, il maggiorcommovimento di popolo di che vi sia notizia nella sto-ria, s’avesse a verificare non più che tre anni dipoi!

Quanto a me, che non son profeta, confesso che nonme lo credevo vedere prima di morire. Ma la curiosacoincidenza fra le mie parole ed i fatti del quarantotto,ebbero però gran parte nell’influenza che ebbi per qual-che tempo in Italia.

Così discorrendo, il nostro Antonio ci mise a calata disole a Baccano. Bella fermata per passar la notte! Nelcuore dell’aria cattiva e nella peggio stagione! Bisognòfare di necessità virtù, e mi disposi a non dormire: chè insettembre, in quel fondo, hanno la febbre credo io an-che le bôtte.

Non capii mai così bene come quella sera il sonettoche Alfieri vi scrisse, alloggiandovi anch’esso:

«Vuota insalubre region, che StatoTi vai nomando, aridi campi incolti....»Due o tre casali o casacce di qua e di là dalla strada

maestra, che cascano a pezzi, luride, affumicate: collemura scalcinate, e i tetti e le imposte mezze rotte, veroritratto della desolazione, ecco tutto Baccano.

Non vi sta se non il mastro di posta co’ suoi uomini,le loro famiglie, e l’oste. Tutti visi gialli, funesti,d’un’espressione perversa. Gente guasta dal mal gover-no, dalla mal’aria, dal passo de’ forestieri, dalla miseria:putridume fisico e morale.

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Entrai in cucina, che era insieme la sala dell’osteria, eme n’andai vicino al fuoco, per aggiungere una pagina allibro de’ soliti miei studi sugli animali della mia specie,che lì ero certo trovare in circostanze, per fortuna nonreperibili tutti i giorni. L’occasione era da non lasciarsipassar senza frutto.

V’erano postiglioni, vaccari, gente di campagna; e co-minciai, secondo l’uso mio, a attaccar discorsi.

Quantunque mi trovassi a rappresentare l’aristocraziadi quella scelta società, il mio modo di viaggiare mi col-locava però in una regione che, se era alta, non venivaperò stimata inarrivabile dai miei interlocutori.

Di quella sera passata a cenare, bere e fumare con urpostiglione di Baccano, che si era particolarmente dedi-cato a tenermi compagnia, due cose mi rimasero impres-se nelle mente. L’una, la grossezza veramente mostruosadelle zanzare di quel felice luogo; l’altra, l’assenza diogni idea, di ogni sospetto, per così dire, d’onestà, chetrovai nel mio povero compagno d’osteria. Mi racconta-va con un tal candore i vari modi tenuti da lui per cor-bellare i forestieri di pochi paoli, che proprio non mi fupossibile di dargli del birbo neppure in petto; e invecedissi mentalmente una coroncina al governo, al sistema,a’ preti, ec.; e sempre più mi confermai nell’idea, che ilcriterio del fas e del nefas è perduto, spento, morto esotterrato ne’ felici domini papali.

E difatti tutta l’amministrazione non è là, in buonaparte, se non una gran confraternita di ladri. Come dia-volo pretendere che il mio postiglione non rubasse an-che lui, quando gliene veniva l’occasione; e più ancora,non credesse fermamente che tutto sta nel farla franca!

Tirai in lungo più che potetti la mia veglia, per nonesser tentato di dormire; alla fine però ora l’uno ora l’al-tro s’era venuto dileguando; il fuoco s’era spento, e biso-gnava lasciar che l’oste se n’andasse a letto. Salii in unacamera a due letti, su uno dei quali già era disteso Pom-

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pilj. Mi buttai sull’altro e si venne chiacchierando piùche si potè, finchè sopraffatti dal sonno ambidue, febbreo non febbre, ci addormentammo. Ma la passammo li-scia, e la febbre non venne.

Quasi mi persuado, che avendo avuto una volta for-tissime le febbri di mal’aria, la natura mia, stata sempre,se non robusta, sanissima, non fosse più capace di pren-derle. Chè anche altre volte avevo dormito impunemen-te nell’aria cattiva.

La mattina appena giorno Antonio attaccò le sue ca-prette; e via di carriera per le Sette Vene, Monterosi,Nepi, Civita ed Otricoli. Qui si rinfrescò. Io me la fecicol cameriere dell’albergo e lo condussi sul discorso deimoti del 31, quando le bande di Zucchi s erano venutefino ad Otricoli.

«Chi sa che baron f.... erano (dicevo io al cameriere),e quante ne avrete avute a soffrire qui in paese!»

«Nossignore (mi rispose), quant’a questo, per la ve-rità, bisogna dire ch’erano bravi giovanotti, che nessunoebbe che dire.»

Il cameriere rispondendo così ad un incognito, mo-strò più coraggio civile di me, che gli avevo tenuto undiscorso molto governativo per scoprir paese.

In questo modo, e così facevo ogni volta che mi sen’offriva occasione, cercavo farmi un’idea esattadell’opinione d’ogni paese che attraversavo. Non c’è al-tro modo a voler conoscere la materia sulla quale si vuoloperare: invece quelli che pur decidono della sorte de’poveri viventi, vogliono proprio prenderselo l’incomododi saper almeno che cosa desiderino o soffrano, o qualibisogni siano i loro!

La sera all’imbrunire eravamo a Terni.Qui di fatto cominciava il mio viaggio, o vogliam dire

la mia via crucis. Ecco perchè.La corrispondenza liberale dello Stato, stabilita da un

pezzo ad uso delle sètte, anche dopo illanguidite e quasi

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spente le sètte, era rimasta come una gran rete che tene-va lo Stato da un capo all’altro. In ogni paese era un uo-mo fidato che formava uno degli anelli della catena, ed aquesta catena era dato il nome di Trafila. Serviva a man-dar nuove, precetti, direzioni, lettere, e talvolta anchepersone, gente costretta a fuggire, o commis voyageurspolitici, ec.

Tantochè era frase usata mandar questa o quest’altracosa o persona, per Trafila. Questa però, giunta a Terni,non correva oltre verso Roma, ma per gli Abruzzi entra-va in Regno.

In quel tempo Roma e Comarca, Marittima e Campa-gna, eran provincie che, se pur contenevano individuiisolati che attendessero ad imbrogli politici, non n’ave-vano un bastante numero da meritar gli onori ed emolu-menti della Trafila. Si deve anche aggiungere che le pro-vincie dello Stato avevano allora Roma e contorni ingran dispregio; e neppur si sarebbero fidati molto de’Romani. E realmente, un solo anello della Trafila chefosse stato traditore, rovinava un mondo di gente: ed èfatto notabile, che in tanti anni che durò la disfida amorte combattuta fra il papa ed i sudditi suoi, mai e poimai la polizia romana ha avuto il gusto di far conoscenzacon uno di codesti anelli della gran catena, e mai ne fumesso uno prigione.

Povero sangue italiano! Quanta virtù non è ancora inlui, dopo tanto strazio che n’hanno fatto i suoi persecu-tori!

A Terni, dunque, trovavo il primo anello della Trafi-la. Dopo spolverati, e fatto un po’ di pranzetto, s’uscìPompilj ed io che già era notte chiusa, e non senza qual-che difficoltà si rintracciò l’uomo.

Ed ove m’ero aspettato incontrare ostacoli quasi insu-perabili, per passioni ed ire politiche, per ignoranza ocortezza di mente, trovai invece con questo primo, comecon tutti gli altri in appresso, ogni immaginabile agevo-

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lezza a far accettare le mie idee e le deduzioni che ne ve-nivano.

Trovai tutti persuasi che la Giovine Italia era pazzia;pazzia le sètte, pazzie il cospirare, pazzie le rivoluzionci-ne fatte sino a quel giorno, senza capo nè coda. Che bi-sognava pensare a tenere altri modi. A quelli che propo-nevo, tutti sul primo storcevano il muso; ma persuasipoi presto che senza forza non si fa nulla, e che nonavendone essi, era da cercare chi ne avesse, finivano do-po molti scontorcimenti ad accomodarsi all’idea di Car-lo Alberto.

E quel che li fermava era il celebre ed impertinenteparagone del ladro, che a tutti pareva argomento senzareplica.

In tanta unanimità di pensieri, trovai due sole ecce-zioni. E queste (curiosa!) in Toscana: e (più curiosa!) indue uomini, uno dei quali è sommo per ogni verso, e te-nuto per tale da tutta Europa; l’altro, se non gli è eguale,è però persona egregia per cuore, mente e coltura: men-te però un po’ nel mondo delle astrazioni, come si vedràor ora.

Il primo di questi (nessun de’ due aveva che spartirenulla colla Trafila), quando nominai Carlo Alberto, midisse: «Come? Carlo Alberto capo de’ liberali d’Italia?Eh via!...»

E mutò discorso.Il secondo esclamò: «Quel traditore!...»Io gli risposi: «Prima di tutto ci sarebbe da dire sul ti-

tolo; ma lasciamo questo. Traditore o no, egli solo haforza, danari, navi, soldati....»

Qui mi tagliò la parola: «I soldati romani (disse)quando trovarono traditore il tal generale, (non mi ri-cordo chi nominasse), l’ammazzarono! Che soldati pos-sono esser questi di Carlo Alberto che lo sopportano?»

Io volli scusare i poveri soldati piemontesi di non averancora ammazzato Carlo Alberto, adducendo che i tem-

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pi erano diversi, gli usi mutati; fu tutto inutile. E quellamaledetta legione romana col suo ritrovato d’ammazza-re il suo comandante, pose in rotta anche me, e mi toccòandarmene senz’aver fatto nessun profitto con questobuon galantuomo.

La mattina di poi il fido Antonio, schioccando la fru-sta, ci condusse sull’ore fresche per Strettura e Sommaalla longobarda Spoleto. Ricordammo che li Spoletiniuscirono contro Federico Barbarossa, e tutto il suo otti-mo esercito; e furono fatti a pezzi, come doveva accade-re: e riflettei che quando un popolo è in queste disposi-zioni, tosto o tardi riesce. Il sangue può esser perduto,l’esempio non mai.

Pompilj era d’una villa a poche miglia dalla città. Po-teva perciò dirsi arrivato. Io mi trattenni nella città alta,visitai il castello de’ Duchi, il grande acquedotto, operadel cardinal Egidio Albornoz, e ci ritrovammo a pranzo.

Egli era andato intanto a rivedere i suoi amici. Sapevoch’egli aveva in Spoleto un’antica fiamma; gli dissi qual-che parola di scherzo sulla visita che supponevo le aves-se fatta. Egli mi rispose serio, e quasi in tragico: «Sontempi da pensare alla patria, e non a donne: l’ho vista sì,ma non s’è parlato d’amore, bensì delle nostre speranzecomuni.»

Questa, lo so, è un’inezia; ma lo ricordo con piacere,perchè (come notai in mille occasioni dal 45 al 48) eracosa che colpiva il vedere come il primo e magnificomovimento italiano, le prime speranze un po’ fondated’indipendenza e d’onor nazionale, avevano a un trattofatto sbocciare in tutti i cuori sentimenti belli e generosi,de’ quali io, che da tant’anni giravo in su e in giù perl’Italia, rado trovava traccia per l’addietro.

Do ora questo cenno, ma avrò occasione di tornarepiù innanzi sul medesimo argomento, che merita granriflessione.

Qui dunque mi divisi dal Pompilj; il quale m’accom-

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pagnò sino al basso della lunga città di Spoleto; che, bensi vede, fu un giorno ricca, popolata e fiorente; ed oraèmolto diversa.

Montai solo nel mio legnetto; e dato l’addio, Antonioe le caprette mi condussero volando per quella piana ebella strada a Fuligno.

Per strada venni facendo la rassegna de’ miei pensieri,determinando meglio i miei piani, e fissandomi sui modiche materialmente dovevo tenere nella mia peregrina-zione, onde non compromettere nè me nè altri.

E qui dirò come feci poi dappertutto con ottima riu-scita.

Mia prima precauzione, partendo da Roma, era statadi non aver con me servitore. Ero certo così di non averuna spia.

Portavo un po’ di bagaglio pittorico, con che potevofermarmi dovunque volessi senza dar sospetti.

In ogni paese giungevo con un solo nome, datomi nelpaese antecedente, ed era il nome del rappresentante laTrafila in quel paese. Arrivato e smontato all’albergo,non domandavo mai di nessuno. Uscivo, e secondo lecircostanze e le persone che incontravo, mi regolavonell’interrogare a norma delle fisionomie, e finivo colrintracciare l’abitazione di chi cercavo.

A Fuligno giunsi col nome datomi a Terni. Lo trovaipresto. Dopo un giorno di dimora, dovendomi dirigereper la Marca, ma dovendo altresì veder Perugia, vi feciuna gita. Vi trovai Cavalieri, l’esimio professore, miovecchio amico, e mi stetti con lui la sera con grandissimafesta. Con Cavalieri non feci parola di nulla di politica.Egli era impiegato del governo, nè mai credo si sia im-pacciato d’altro che di scienze e d’arte: ed a me, cuigiammai piacquero i traditori nè diretti nè indiretti, nonpoteva venir in capo d’intrometterlo in simili faccende,neppur per semplice conversazione.

L’indomani ripartii per Fuligno, e preso commiato

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dagli amici, nella notte mi mossi per Colfiorito e la Mar-ca.

Ma il fido Antonio m’aveva chiesto di poter dar unposto del legno; ed io avevo acconsentito, e perciò nonero più solo.

Salito in legno (poteva essere il tocco dopo mezzanot-te), e prese le disposizioni per star a mio modo, non po-tei discernere chi fosse il mio compagno. Ognun di noi,come accade, si rincantucciò nel suo angolo e, fantasti-cando o dormendo, aspettò l’alba.

Le rosee dita della ridente aurora tolsero alla fine ilvelo che copriva il compagno: e vidi la figura d’una spe-cie di collegiale, lungo, secco, giallo, con un viso di si-gnorino impertinente, ed una voce di contralto sfogato,il quale certo faceva la sua prima uscita dal collegio o daipenati domestici. Ciò si capiva dall’esser ben in arnese, eprovveduto di quelle cosette che danno le mamme o lezie vecchie al momento del distacco, come promemoriade’loro consigli, e buona misura dell’ultima benedizio-ne. Sacchetto nuovo, berrettino di gusto, non so che atracolla, tutta roba di prima uscita; e perfino un cartoc-cio di confortini (specie di pasta da monache), che il ra-gazzo pose a mia disposizione, e che io rifiutai; perchè ilcuore mi diceva che doveva fra noi sorgere ostilità, enon volevo avere obbligazioni al mio futuro ed ipoteticonemico.

S’attaccò discorso, ed egli senza farsi pregare mi miseal corrente di tutti i suoi affari; dicendomi che, finita lasua educazione dai gesuiti, aveva ottenuto un posto, edera in viaggio per andarlo ad occupare in Ancona, ovedoveva raggiungere il suo corpo.

Corpo! pensai io; dunque ho per le mani un soldatodel papa in erba.

Mi disse poi che era ascritto come cadetto ne’ soldatidi finanza. Con che dovetti diminuire d’un grado la sti-ma che m’aveva ispirata la mia prima supposizione.

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Tuttavia, nulla di meglio avendo da fare, pensai: –Studiamo questo doganiere da latte, e vediamo che ideeha pescato nel suo collegio. – D’una cosa in un’altra lotirai nel campo politico. Sapete con che sistema m’uscìfuori?

Nientemeno, che tutti costoro che volevano novitàerano matti, birbi, ec. ec.; e fin qui poco male, è un’opi-nione come un’altra; ma soggiunse poi aguzzando il suocontralto: «Eh il governo è troppo buono! Teste, teste,voglion esser teste!»

Io alla prima non capivo queste teste; e lui, leggendo-mi negli occhi la mia tarda intelligenza, aggiungeva:

«Sicuro, se il governo, invece d’andar tanto colle dol-ci, facesse qualche testa, vedrebbe come tutto sarebbechetato!»

– Una bagattella, dissi fra me! Chi si sarebbe immagi-nato mai di trovare un Robespierre in questo bambino?– Ma soggiunsi in petto: – Ancora non ci siamo lasciati,bambino mio; e prima che ci lasciamo, in un modo onell’altro me l’hai da pagare queste teste. –

Mi fece stizza vedere tutto quel veleno in questo ra-gazzo: e anche me ne meravigliavo; chè avendomi lascia-to capire esser egli tutta cosa dei gesuiti, non ci trovavopunto del mellifluo in questo suo sistema delle teste.

Le poco buone intenzioni che germogliavano in meverso questo coupe-tête di collegio venivano poi aumen-tate da un certo suo fare dominatore, come se il mondofosse stato inventato per lui e per il suo comodo in tuttoe per tutto.

Siccome però il mio codice penale era meno draco-niano del suo, e che per i suddetti delitti non intendevoapplicargli la pena capitale, ma soltanto dargli una peni-tenza che servisse insieme di lezione, non mi veniva fattotrovarne la via, per quanto mettessi a tortura la mia im-maginativa.

– Basta – diss’io: camminiamo, chè per istrada s’ag-

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giusta la soma; e le occasioni non mancano mai a chi lesa conoscere ed usare. –

L’occasione, difatti, non mancò, ed anzi si presentòprestissimo. Si giunse a Camerino sul mezzogiorno, ches’era annuvolato e cominciava a moschinare un po’ diacqua.

Allo smontare, l’oste mi si fece incontro tutto allegroe mi dette un ben arrivato d’antica conoscenza. Io chegiammai l’avevo veduto, me gli volsi mostrandogli qual-che meraviglia, ed egli come riprendendosi, disse: «Ohscusi, l’avevo preso in scambio.» E non mi disse altro, senon che mi servi in camera pulitissimamente.

A idea mia egli dovea sapere del mio viaggio, e, pen-sando ch’io fossi Dio sa qual Grande Oriente, facevamoltissimo assegnamento sull’opera mia, e quindiquell’accoglienza così piena di premura.

Dissi a Antonio: «A che ora si parte?««Alle tre», rispose.«Sta bene, sii puntuale, chè io non fo mai aspettare.»Il Robespierrino udì anch’esso l’ora della partenza; e

temendo forse non istessi in pena non vedendolonell’osteria, credette bene parteciparmi ch’egli avrebbepassate le ore del rinfresco al convento de’ padri gesuiti.

– Senz’invidia, – dissi fra me, ed entrai in casa.Intanto il tempo s’era venuto serrando, per ogni parte

s’era levato un vento fresco, e la pioggia veniva a ondatee a burrasca.

Pranzai benissimo; e prima delle tre, Antonio, che,dovendo condurci la sera a San Severino, non voleva glisi facesse notte per istrada con quel tempaccio, era giàattaccato ed all’ordine; io al botto delle tre mi trovavo incarrozza; e il signorino? Il signorino non compariva.

Conobbi che il cielo mi presentava gentilmente il ma-nico della disciplina per dar la penitenza al bamboccio,ed insegnargli a vivere; ed io con grandissimo piacerel’afferrai. Passati appena due minuti, cominciai a impa-

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zientirmi, e dir ad Antonio: «Oh insomma, all’ora fissatasono stato pronto, e non son fatto per aspettare il como-do di quel signore».

Antonio guardava da tutte le parti, stava in due, dice-va: «Ma dove sarà?» Chiedeva se fosse stato veduto. Ioche sapevo dove l’avrebbero trovato, serbavo un perfidosilenzio; dopo un poco dissi: «Avviamoci piano piano,chè forse l’incontreremo.»

Antonio ubbidì, e i sonagli delle caprette aprirono lamarcia. Andati scendendo per un cento passi per quellacittà tutta di monte, la coscienza d’Antonio si fece senti-re e si fermò riguardando meglio da ogni lato. Nulla.

Intanto il vento ingagliardiva, ed io dissi: «Antoniomio, a lasciar i cavalli fermi a quest’umido ci faranno po-co profitto, chè ancora non sono ben rasciutti del sudo-re della mattina. Fa’ a modo mio, son presto le tre emezzo, peggio per chi non è esatto, tira via, e se vorràvenire a San Severino stasera, non mancano cavalli a Ca-merino; staccherà un biroccino, e verrà volando.»

Io che so il vetturino marchigiano come l’avessi fatto,avevo colto il suo cuore nel punto più sensibile; ed infatto era vero: cavalli già un po’ stanchi, fermi a quelvento traverso, fanno presto a prender doglie nelle spal-le.

Antonio persuaso, dette un’altra guardata per forma-lità, poi una sgrullata di spalla, borbottò non so cheepifonema fra’ denti, e pronunziò alla fine quell’U, chepe’ cavalli di vettura equivale al marche militare; e per lamia vittima equivalse ad una buona bagnatura, e a setteo otto paoli di maggior spese nel bilancio del suo viaggioal corpo.

La strada, che era quasi tutta a vantaggio, poichè dal-le vette dell’Appennino scende verso l’Adriatico, la fa-cemmo volando; e suonava l’Avemmaria, che già mi tro-vavo a tetto nella locanda di San Severino.

Là era un parapiglia grandissimo per la piena de’ fo-

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restieri, causa la fiera di Loreto che si teneva in que’giorni.

Io non mi sentendo di cenare, tolsi all’ostessa, che giànon sapeva a chi attendere, il pensiero d’occuparsi dime; e non occorrendomi neppure la camera così subito,mi trattenni nella cucina, ciarlando con tutti, e prenden-do una lezione dal mio solito maestro, l’uomo, studiatoin tutte le età, i sessi e le circostanze.

Passarono due ore almeno, era notte chiusa e semprediluviava; quando di verso strada venne lo strepito d’unbiroccino che si fermava alla porta; e un momento dipoientrò in casa come una tempesta il signorino. Trovò perprimo Antonio, e gli cominciò a sfilar la corona, non piùin contralto, ma in soprano deciso, tanto era il suo giu-sto furore. Antonio che poco ne aveva soggezione e sen-tiva d’aver in me un fedele alleato, gli faceva testa moltobene; tantochè il signorino entrò a furia in cucina, e ven-ne diritto alla mia volta col viso d’un padroncino malservito dal suo cameriere. Io allora con quell’occhiatache dice ai ragazzi: È tempo di finirla, risposi a’ suoi la-menti: «Parla con me? Parli col vetturino.» Gli volsi lespalle, e me lo levai d’attorno. Visto che con me non fa-ceva frutto, tornò addosso ad Antonio; ma dopo moltotempestare, non potè far altro che toglier dal legno lasua valigia, rinunziare alla nostra compagnia, e lasciarcicolla sua cordiale maledizione.

Così l’indomani di nuovo solo con mia somma soddi-sfazione, partii a levata di sole per Loreto.

Trovai il paese in festa per la fiera. Visitai il Santuario,e vi passai tutta la giornata. Attaccai discorso con unvecchio caffettiere, e mi venni facendo idea del luogo edegli abitanti: idea, mi duole il dirlo, poco favorevole.

Ho sempre osservato che i paesi e le città ov’è un San-tuario di gran fama valgono assai poco. Cercandone lecagioni, mi son fermato alle seguenti. Perchè il popolos’avvezza di lunga mano a campare non d’un lavoro che

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realmente gli faccia meritare ciò che guadagna colla fati-ca; ma piuttosto a campare sul corbellare più o menol’infinita quantità di persone che visitano il santuario.Perchè in massa la popolazione crede poco alla leggendache tien ritta e fa prosperare la sua vigna. Quindi s’av-vezza a vivere in una continua finzione ed in uno statopiù d’ozio che di lavoro e d’incessante guerra di fur-beríe, d’inganni o peggio, a danno dei forestieri. Final-mente perchè i paesi piccoli, ov’è un’invasione perennedi quest’ultimi, sono sempre i più guasti di tutti.

Il mio caffettiere deplorava ingenuamente, non tantola diminuita divozione alla Santa Casa, quanto il dimi-nuito concorso di pellegrini che, sotto il sanrocchino,avessero le tasche mobiliate di buoni zecchini. Infattinon vidi nella chiesa e ne’ dintorni se non contadini,burrini, ciociari di Regno; e certo con costoro il mionuovo amico non potea far guadagni.

Qui mi separai da Antonio; e fermato un posto perAncona con un altro vetturino, al salire trovai che avevoper compagno di viaggio un bel Francescano.

Siccome codesti frati hanno voce d’esser un po’ libe-rali, forse per tradizione dal loro fondatore mantenutasisino a noi, mi divertii a dirgli un tanto snaturato benedel governo del papa, che alla fine il suo liberalismo sirisentì, e me ne disse in risposta tutto quel male che me-rita. Con questo trastullo arrivai in Ancona.

In questa città, uscendo una mattina dalla mia camerain locanda, trovai ritto accanto alla porta un gendarme;e siccome in quel tempo essi erano miei nemici politici,e non avevo ancora avuta occasione di diventare loro ca-merata, come l’ebbi nel 48 (e me ne tengo), quando siportarono così onoratamente a Vicenza ed altrove, du-bitai d’avere la poco grata sorpresa d’una sua visita, eforse d’una passeggiata in sua compagnia. Ma il sospettosi trovò vano; egli faceva altra posta della mia, e non fualtro.

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Da Ancona seguitai la mia via per le varie città di Ro-magna, colle solite fermate, i soliti discorsi, la solita faci-lità nel persuadere; ma siccome alla fine persuadere tuttiè impossibile, dovetti persuadermi che qualcuna dellesolite imprese si preparava.

Forse riuscii a circoscriverla in un ristretto numerod’incorreggibili, che un mese dopo a Rimini ed alle Frat-te o Grotte che sia, eseguirono quel moto che mandòun’altra infornata di poveri giovani a soffrire senza frut-to in prigione o in esilio.

Girata la Romagna, per la Terra del Sole, Rocca SanCasciano e Dicomano, traversai l’Appennino ed arrivai aFirenze.

In questa città ed in Toscana mi trattenni poco; trovail’amico accennato della legione romana, e dell’opportu-nità che i soldati piemontesi imitassero il suo giudiziosoesempio: e coll’impressione fresca del buon senso chesta di casa in certi cervelli italiani, per Genova mi con-dussi a Torino.

Qui cominciava il buono: ed era giunto il momento,che il sonaglio essendo pronto, bisognava attaccarlo!

La mia parte non era facile. Non avendo avuto dal Renessunissimo incarico di fare quel viaggio e quell’inchie-sta, ed essendo invece stata tutta roba mia; l’essere oraaccolto bene da lui, ovvero posto fuor dell’uscio di ma-lagrazia, tutto dipendeva dal grado di fiducia ch’egli ri-poneva in me, non meno che dalla sua opinione, se fossebene o no lo scoprirsi: e tutto questo io non lo potevosapere.

Domandai un’udienza, e l’ebbi presto, ciò che mi par-ve di buon augurio. L’ebbi, come usava Carlo Alberto,alle sei della mattina, che in quella stagione voleva direprima di giorno; ed all’ora stabilita entrai nel palazzoreale, tutto desto e illuminato, mentre la città ancoradormiva; e ci entrai col cuore che mi batteva. Dopo unminuto d’anticamera, lo scudiere di servizio m’aprì la

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porta; entrai in quella sala che è dopo l’anticamera diparata, e mi trovai alla presenza di Carlo Alberto chestava ritto presso la finestra e che, risposto con un cennocortese del capo alla mia riverenza, m’accennò uno sga-bello nel vano del finestrone: mi vi fece sedere, ed egli sipose in faccia.

Il Re, in quel tempo, era un mistero; e per quanto lasua condotta posteriore sia stata esplicita, rimarrà forsein parte mistero anche per la storia. In allora i fatti prin-cipali della sua vita, il ventuno ed il trentadue, non era-no certo in suo favore nessuno poteva capire qual nessopotesse esistere nella sua mente fra le grandi idee dell’in-dipendenza italiana ed i matrimoni austriaci; fra le ten-denze ad un ingrandimento della Casa di Savoia ed ilcorteggiare i gesuiti, o il tenersi intorno uomini comel’Escarena, Solaro della Margherita, ec.; fra un apparatodi pietà, di penitenze da donnicciuola, e l’altezza di pen-sieri, la fermezza di carattere che suppongono così arditiprogetti.

Perciò nessuno si fidava di Carlo Alberto.Gran danno per un principe che sia nelle sue circo-

stanze; perchè con queste povere astuzie, affine di man-tenersi l’aiuto di due partiti, si termina invece per per-der la grazia degli uni e degli altri.

Il suo aspetto medesimo presentava un non so ched’inesplicabile. Altissimo di statura, smilzo, col viso lun-go, pallido ed abitualmente severo, aveva poi nel parlar-vi dolcissima la guardatura, simpatico il suon di voce,amorevole e familiare la parola. Esercitava un vero fàsci-no sul suo interlocutore; e mi ricordo che, mentre miparlava le prime parole, informandosi di me, che nonaveva veduto da un pezzo, con una cortesia benevolatutta sua, avevo bisogno d’un continuo sforzo, e di ripe-termi continuamente in petto: – Massimo, non ti fidare!– per non lasciarmi vincere dalla seduzione de’ suoi mo-di e delle sue parole.

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Povero signore! Egli aveva del buono e del grande insè; perchè volle credere nella furbería?

Informandosi di me cortesemente, gli venne detto:«Ed ora di dove viene?« che era appunto il filo al qualepotevo appiccare tutto il mio discorso. Non me lo lasciaisfuggire, e gli parlai così (se non ripeto le precise parole,ripeto certo il loro senso): «Maestà, sono stato a girarecittà per città una gran parte d’Italia, e se ho domandatod’essere ammesso alla sua presenza, è appunto perchè,se la M. V. lo volesse permettere, amerei di farle cono-scere lo stato presente d’Italia, quello che ho veduto eparlato con uomini d’ogni paese e d’ogni condizione, re-lativamente alle questioni politiche.

CARLO ALBERTO. Oh anzi dica, mi farà piacere.IO. V. M. conosce tutti i moti, le congiure e le rivolu-

zioncelle, accadute dal 14 in qua; conosce le cagioni chele eccitano, il malcontento che le aiuta, come il pocosenno che le conduce, e le tristi conseguenze che ne de-rivano. L’inefficacia, anzi il danno di questi atti, che nonservono se non ad impoverire il paese de’ migliori carat-teri, ed a rendere più dura l’influenza straniera, ha ora-mai colpito in Italia i più assennati, e si desidera cercaremodo e via nuova. Trovandomi a Roma ne’ mesi addie-tro, ho molto parlato de’ rimedi possibili a questo tristestato. Papa Gregorio è vecchio e cagionevole; alla suamorte certo, se non prima, qualche gran cosa si prepara:la Romagna anderà in fiamma, e finirà come sempre conun’altra occupazione austriaca, un’altra serie di supplizi,d’esilii, un nuovo incrudimento di tutti i malanni che ciopprimono. È dunque urgente trovar rimedio.»

E qui gli narrai in disteso del disgusto degli assennatie degli onesti delle scioccheríe e birberíe mazziniane;della proposta che m’era stata fatta di mettermi all’ope-ra in qualche modo, e cercar di imprimere all’azione de’popoli un miglior indirizzo; del mio viaggio; della dispo-

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sizione ottima che avevo trovata negli animi, salvo pocheeccezioni; e seguitai così:

«Maestà, io non fui mai di nessuna società segreta,non ebbi mai mano nè in combriccole, nè in congiure;ma siccome ho passata infanzia e gioventù sempre orqua or là in Italia, e tutti mi conoscono e sanno che nonsono una spia, e perciò nessuno diffida di me, così hosempre saputo tutto come fossi stato un settario; ed an-che ora mi dicono tutto, e credo poterle assicurare, sen-za timor d’ingannarmi, che i più riconoscono la poca as-sennatezza de’ fatti accaduti sin qui, e desideranomettersi per una via nuova. Tutti si son persuasi che sen-za forza non si fa nulla; che forza in Italia non è che inPiemonte; e che tuttavia, neppur su questa non è da farnessuno assegnamento, finchè dura l’Europa tranquillane’ suoi ordini presenti. Queste sono idee savie, e chedanno segno d’un vero progresso nel giudizio politico.V. M. mi dirà: – Quanto dureranno? – Confesso anch’ioche su questo non v’è sicurezza. Credo che sugli uominiora influenti in quei paesi, io possa dire d’avere moltainfluenza pel momento. Son riuscito a persuaderne lamaggior parte; ma il moto di Rimini, scoppiato due set-timane dopo che avevo lasciato la Romagna, è una provache non tutti erano persuasi: o che se erano persuasi icapi, non lo erano gli uomini in second’ordine. In unasimile gerarchia, dove la disciplina non obbliga e dipen-de unicamente dalla fiducia, l’ubbidienza è sempre ca-suale. E poi entrano di mezzo passioni, interessi di moltigeneri, che talvolta determinano movimenti non gene-ralmente approvati; e finalmente bisogna tener contodelle tristi condizioni che pesano su quelle popolazioni;dove venendo dall’alto l’arbitrio, la violenza, la corru-zione, l’inganno, il sospetto, è naturale che dal basso glisi opponga il sistema medesimo: dove essendo generaleil mal essere materiale e morale, senza un solo mezzoammesso d’ottener nulla di meglio, non si può prevede-

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re fino a qual punto, o fino a qual giorno, la prudenza ela ragione potranno servir di freno alla disperazione edal furore. Chi soffre è il solo giudice della gran questionedel non poterne più. Gli uomini son così fatti; e la politi-ca saggia e previdente deve partire dallo stato reale dellecose, e accettarlo, se non vuol andar fuor di strada. Perquesto appunto, per cercare di far nuovo argine conun’idea nuova all’irrompere di tali disperazioni, ho gira-to parlato come le dico: e qualche frutto, malgrado il ca-so di Rimini, credo averlo cavato. Ora la M. V. mi dirà,se approva o disapprova quel che ho fatto e quello cheho detto.»

Tacqui ed aspettai la risposta, che la fisonomia del Remi prometteva non acerba; ma che, quanto all’impor-tante, m’immaginavo dovesse essere un ibis redibis, dasaperne dopo tanto come prima. Invece, senza puntodubitare, nè sfuggire il mio sguardo, ma fissando invecei suoi occhi ne’ miei, Carlo Alberto disse tranquillo, marisoluto:

«Faccia sapere a que’ Signori che stiano in quiete enon si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; mache siano certi, che, presentandosi l’occasione, la mia vi-ta, la vita de’ miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mioesercito, tutto sarà speso per la causa italiana.»

Io, che tutt’altro m’aspettavo, rimasi un momentosenza trovar una parola da dire, e quasi credei d’aver ca-pito male. Mi rimisi però subito; ma forse non sfuggì alRe l’impressione di meraviglia che avevo provato.

Il progetto che così risolutamente mi aveva manifesta-to, e soprattutto la frase faccia sapere a que’ Signori,m’avevano talmente messo sottosopra che ancora nonmi pareva vero.

E intanto tutta l’importanza era per me d’intendersibene; chè anche allora, come sempre, pensavo che biso-gnava giocare carte in tavola; e che gli equivoci, e peggiole sorprese, non fanno altro che danni.

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Ringraziandolo dunque, e mostrandomi (e lo ero dav-vero) commosso e incantato della sua franchezza, ebbicura di innestare nel mio discorso la sua medesima frase,dicendo: Farò dunque sapere a quei Signori…. M’ac-cennò col capo di sì, per confermare che lo avevo beninteso, e poi mi licenziò: ed alzatici in piedi tutti e due,mi pose le mani sulle spalle ed accostò la sua guancia al-la mia, prima l’una e poi l’altra.

Quest’abbraccio aveva però in sè qualche cosa di stu-diato, di freddo, direi di funebre, che mi gelò; e la voceinterna, quel terribile non ti fidare mi risorse dal cuore:tremenda condanna degli astuti di professione, esser so-spetti anche dicendo il vero.

E l’aveva detto, povero signore! il fatto lo ha dimo-strato.

Ora chi avesse detto a me, mentre sedevamo in quelvano di finestra su que’ due sgabelli dorati e coperti diseta verde e bianca a fiorami (che a rivederli ogni voltami danno un brivido), che offerendo egli per mio mezzoagl’Italiani armi, tesori e vita, io ero ingiusto non restan-done intimamente e subito persuaso! Chi m’avesse det-to che quella grande occasione così lontana d’ogni pre-visione nel 45, e che ambedue dovevamo disperare divedere mai, era da Dio stabilita per tre anni dipoi? E chein quella guerra, tanto impossibile secondo le apparenzed’allora, egli doveva perdervi la corona e poi la patria epoi la vita; e che a me, come primo ministro di suo fi-glio, era serbato il triste ufficio di farlo seppellire, rogan-done l’atto in persona, nelle tombe reali di Superga!!!

Poveri uomini, che si credono di condurre gli eventi!

Come si può credere, uscii dal palazzo con un tumul-to nel cuore, sul quale volava ad ali tese una grande esplendida speranza.

Tornai nella mia cameruccia all’ultimo piano diTrombetta; e mi misi a tavolino per scrivere subito a

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quello de’ miei corrispondenti, che poi doveva comuni-care la risposta a tutti.

Prima di lasciarli, avevo immaginato una cifra d’unafattura affatto estranea a tutte quelle consuete. Cifra si-curissima, e che, a parer mio, può sfidare tutte le indagi-ni, ma faticosa assai a comporsi. Perciò la lettera non lascrissi presto. Essa diceva tutto il preciso tenore della ri-sposta di Carlo Alberto; ma per star nella più scrupolosaesattezza, e non rischiare di dar per certo ciò che fossesoltanto effetto d’una mia impressione, finivo così :Queste le parole; il cuore lo vede Iddio.

Non ho mai voluto, come si suol dire, vendere a nes-suno la gatta in sacco; essendomi sempre sembrato stret-to dovere, quando si conducono gli uomini a dover for-se giocare le sostanze, la libertà, la vita, la pace delle lorofamiglie, tutta insomma la loro esistenza, far che sappia-no e vedano almeno ben chiaro quel che fanno, e perchèlo fanno. Di questo modo di operare non ho avuto mai apentirmene; e lo consiglio con quanto calore posso atutti in questa povera Italia, esposta a tante seduzioni,dove parecchi operano ben altrimenti, e mettono la gen-te invece ad ogni sbaraglio a forza di levar loro il sennocolle illusioni e colle bugíe.

Dirò ora un fatto che, se ci penso bene, mi pare cer-tissimo; ma che però in certi momenti mi lascia qualcheombra di dubbio.

Mi pare che il Re mi dicesse così discorrendo: «Sareb-be bene ora di scrivere qualche cosa;» ed io gli rispon-dessi : «Già ci avevo pensato,» ed era vero.

Andavo ruminando un progetto che si riferiva ad unpiano da eseguirsi generalmente, quanto più si potesse,in tutta l’Italia: una specie di cospirazione al chiaro sole,senza nè nascondersi, nè mascherarsi, nè mettersi al si-curo dai pericoli qualunque fossero, delle polizie o dellesètte.

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Ecco qual’era la mia idea. Idea anche di Balbo, e nonsaprei neppur dire se l’inventore ne fossi io o lui.

L’idea in sostanza era questa.Rivoluzione no. Già ne ebbimo abbastanza. Guerra

no, perchè non abbiamo modo nè forza (eravamo nel45, badiamo). Dunque metter la questione su quel cam-po, ove ogni individuo una forza l’ha sempre, purchènon sia un idiota, e voglia rischiar il collo: il campo dellaopinione e della pubblicità.

Balbo aggiungeva alle altre sue doti una grande spon-taneità di sentimenti e sincerità d’espressioni, senza om-bra di quella circospetta riserva, di quel freddo calcola-to, tanto comune fra noi Piemontesi. Nemico anch’io ditutte queste legature, ed inclinato per natura a dir panepane e vino al vino, ci trovavamo reciprocamente simpa-tici. E quando, dopo le mie lunghe assenze, ritornai piùfrequente ad abitare Torino, la nostra amicizia si vennefacendo sempre più stretta. Certo era furioso di caratte-re, e certe volte mi faceva scene.... ma gli volevo tantobene! E poi era così senza fiele, senza ombra d’un senti-mento basso o brutto! Insomma, io non avevo il miglioramico, ed eravamo cuciti a fil doppio. E poi, dalle mag-giori cose alle più piccole, aveva tanto il senso del bellomorale, del bello materiale, delle arti, delle lettere! Pro-vava estasi così ingenue per ogni idea che fosse nobile,generosa, per ogni atto animoso ed onorato! Povero Ce-sare! Un tutt’insieme com’era lui non c’è al mondo, enon l’ho da vedere mai più!

Si parlava, dunque, continuamente di questa nuovaforma da darsi al lavoro della nostra rigenerazione italia-na, e si facevano ogni giorno discorsi d’ore e d’ore.

Egli era alla sua villetta del Rubatto, sulla riva del Po,in faccia al Valentino, dove m’ero andato a stabilire an-ch’io.

Erano bei giorni quelli! Si sentiva non so che nell’ariache annunziava un’epoca migliore, che ispirava speran-

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ze, presentimenti indefiniti, ma de’ quali il cuore nondubitava. La causa italiana così sbattuta, così invecchia-ta fra le miserie, pareva ringiovanita, rinnovata; aveval’ingenuità, la grazia, le promesse dell’adolescenza cheannunzia una vigorosa virilità.

Le questioni di forma di governo, le esclusività di sèt-ta non pareano interessare nessuno, e tutto svaniva o ta-ceva a fronte dell’altra idea, d’una generale redenzionedei popoli della Penisola dalla signoria de’ stranieri. Ilporro unum est necessarium di Balbo, non era ancorascritto, ma già ardeva in tutti i cuori.

I discorsi nostri si raggiravano per lo più sul bisognodi preparare gli animi ed i caratteri in Italia, prima dipor mano ai fatti (e qui è la chiave di tutto, e finchè nonsi opererà in questo senso si farà poco frutto); sulla for-za, sull’influenza che potesse avere a tale scopo questatal cospirazione pubblica; e la storia ci somministravaesempi degli ottimi effetti ottenuti mediante aperte eperseveranti proteste de’ deboli contro i forti. Però do-po averne molto parlato, fu risoluto di mettersi all’ope-ra.

Prima di tutto bisognava scrivere un libro.Lo scopo del libro era bell’e trovato; ma rimaneva da

trovare l’argomento, e direi quasi l’occasione o il prete-sto. Mi venne in mente di scrivere sull’ultimo moto diRimini; e mettendomi fra i due campi, spiattellare adambedue le loro verità senza nessuna reticenza. Balboapprovò l’idea, e mi misi all’opera.

Siccome però questo mio atto era una mutazione as-soluta nella strategia del partito liberale, non volli farlosenza non dirò chiedere licenza, ma almeno darne avvi-so a quegli amici, coi quali mi trovavo aver fatto compa-gnia da mezz’anno in qua. Ne scrissi a quello col qualecorrispondevo.

Dopo qualche giorno mi venne un grido di disappro-vazione generale. Che sarei stato cacciato, esiliato; che

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mi tagliavo le gambe da me; che sarei diventato inutile,impotente a far più nulla, ec.

A me invece mi pareva che ora appunto mi trovavoinutile, impotente e senza gambe; mentre invece se v’eramodo di spendermi con qualche speranza di bene, eraappunto quello il solo. Balbo anche lui persisteva, e per-ciò scrissi di nuovo, dicendo: «Tant’è: così intendo di fa-re; e vedrete che invece di perdermi, m’avrete con forzeraddoppiate.» Domandai tutti gli appunti che fosse pos-sibile procurarsi sul moto di Rimini; e, dopo un paio dimesi, ricevetti un discreto quaderno, nel quale, non soda chi, era stata stesa tutta la descrizione del fatto. Io nefeci il mio testo. Il guaio fu che era poco esatto; e quindiil mio libretto de’ Casi di Romagna, quanto ad esposi-zione di fatti (intendo quelli relativi unicamente al motodi Rimini, non ai più generali e relativi a tutto lo StatoPontificio e all’Italia), come scoprii in appresso, è inesat-to anch’esso. Ma siccome l’importante stava nelle rifles-sioni, nelle verità dette imparzialmente ai due partiti, esoprattutto nella pubblicazione col mio nome, e me pre-sente ed accettante, questo difetto non guastò nulla.

Il mio libretto, che intitolai Degli ultimi casi di Roma-gna, in poco più d’un mese fu all’ordine. Volevo sentireil parere de’ miei più intimi; onde li pregai di trovarsiuna sera in casa di Balbo, e vennero Lisio, Luigi Prova-na, Sauli, v’era naturalmente Cesare, e non mi ricordod’altri. Lessi il mio lavoro, vi si fecero alcune correzioniche ammisi, e nell’insieme i miei censori approvarono.

Veniva ora la questione del dove stamparlo. Per noi illuogo migliore sarebbe stato Torino, perchè il governopermettendolo, era lo stesso che se ne accettasse i prin-cipii, e si sarebbe definita chiaramente la posizione poli-tica di Carlo Alberto.

Se il Re avesse o no fatto bene a prendere allora deci-samente questo partito, sarebbe discutibile. Fatto stache non erano nella sua natura simili risoluzioni decise.

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Ad ogni buon conto portai il mio lavoro a Promis,14 per-chè lo esaminasse e vedesse se mi si sarebbe permesso distamparlo in Piemonte, e stetti aspettando la sentenza.

Per impiegare quegli otto o dieci giorni che penava avenire, pensai di andarmene a rivedere le cose mie diMilano. Bisognava metterle in sesto in modo da nonaverci da badare per un pezzo; chè una volta pubblicati iCasi di Rimini, sapevo bene che a Milano bisognava far-ci la croce.

Dato ordine a tutto alla meglio che potevo, ritornai aTorino.

Corsi subito da Promis, che mi restituì il mio mano-scritto sorridendo, e spiattellandomi un No tondo comela bocca d’un pozzo. Io già me l’immaginavo; onde an-ch’io ridendo e dicendogli: «M’ingegnerò altrimenti,»intascai le mie carte e me n’andai a far la valigia per av-viarmi a quel gran refugium peccatorum d’allora, che sichiama la Toscana.

Questo caro paese presentava un fenomeno, del qualenon ho mai trovata bene la spiegazione.

La Toscana viveva sotto una legge non scritta in nes-sun codice, disarmata d’ogni forza apparente, eppuretalmente rispettata ed ubbidita, che non lo è egualmentela Costituzione inglese; e poteva veramente dirsi la Ma-gna Charta della Toscana. Le era soggetto, volesse o nonvolesse, anche il granduca; e se questi le voleva disubbi-dire, tutti lo piantavano di fatto e si trovava solo. La for-mola ufficiale di questa legge non esisteva, si sentiva e siseguiva senza darle la forma della parola. Se dovessiesprimerla, lo farei con queste due: lasciar correre.

Le sue applicazioni negl’individui, ne’ privati, nel go-verno erano continue, innumerabili. Se un giovane erascapato, se una ragazza faceva all’amore, se una donnaera civetta, dopo un po’ di tramenìo per la forma.... la-sciamo correre. Se una famiglia si dissestava, se i conta-dini, i fattori rubavano, si gridava un momento.... poi,

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lasciamo correre. Se la polizia faceva una legge e nessu-no le badava, erano 24 ore di qualche rigore, e poi.... la-sciamo correre. Se qualcuno era stimato pericoloso, maperò non avesse sulla coscienza qualche peccato troppogrosso,15 si cacciava bensì; ma se quello non si muoveva,o dopo un giretto si ripiantava in Firenze.... lasciamocorrere. E cosi via via. Ciò viene, si dirà, dalla dolcezzadel carattere toscano. Sta bene. Ma questa dolcezza era-no ben lontani dall’averla tre secoli fa, e c’era anzi qual-che cosa di fiero nel carattere dei Toscani; prova l’ulti-mo assedio del 1530.

* I Casi di Romagna, per tagliar corto, li stampai inToscana. Dell’effetto che quell’opuscolo produsse nontocca a me parlare. Non osando più tornare a Milano,perchè sarebbe stato un’audacia inopportuna, m’aggiu-stai in modo da divider la mia vita tra Firenze, Genova eTorino.*

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1 Per chi non conosce il dialetto Piemontese, l’Editore haprocurato che di quel dialogo fosse fatta una traduzione italia-na.

GENERALE. Ma non capisce? Le ripeto che è positivo. Si ra-duna un congresso.… parlano già di Troppau.... e piglieran-no dei provvedimenti.

ABATE. Ma io vorrei che si picchiassero presto. In Spagna ve-de a che punto siamo; adesso salta su Napoli.... e Dio fac-cia...

GENERALE.(guardandolo colla coda dell’occhio e ironico) Alei, abate, pare proprio di vederli in piazza Castello, non èvero?

ABATE. Dio ce ne guardi! Non dico questo.… ma....GENERALE. Stia tranquillo, non siamo a Napoli qui. Di que-

ste scene non c’è nessuno che ne voglia da noi. Non ci pen-san neanche.

MARCHESA. Ma caro abate, per carità, non ne ha ancora ab-bastanza? Io che sono vecchia, e che ho veduta passare tuttala lanterna magica.…facciamo un po’ i conti: siamo nel ven-ti, nell’ottantanove hanno principiato, trent’un anno in pun-to…. e vuole che non sia ancora finita?

CAPITANO. Ma la dica, zia, il male è che la gente si vien cam-biando….se fossero sempre gli stessi uomini, lo so anch’ioche sarebbe finita. E poi, bisogna vedere…. se qualcuno simuove potrebbe sentirsi scottar la pelle ( Non è impossibileec. ec.)

MARCHESA. Voialtri ne sapete più di me: io sono una poveradonna, e non ho studiato politica.... Adesso tutti hanno lasmania di lamentarsi!….sarà!... Io quel che posso dirvi si è,che prima dell’ottantanove, per me trovavo che si stava be-nissimo, meglio d’adesso di molto... tutti erano contenti co-me tanti papi.

CAPITANO. (sorridendo) Perdoni, zia.... cioè noi altri signorisì che eravamo contenti, ma gli altri?...

MARCHESA. Ma no, mio caro Edoardo, ma no.… credetepure (scuotendo il capo e sorridendo), voi avete servitoquell’altro, e siete stato in mezzo ai giacobini tanti anni....già che loro non vi dicevano mica che si stava meglio prima;ma io che c’ero e che ho veduto ciò che vi dico.… ma crede-te... che anche il popolo e la borghesia e i contadini.... Oh!mi ricordo quando era vivo il povero Crescentino, veniva

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spesso a pranzo da noi l’avvocato Silverani, che era il cassie-re di San Paolo; ci veniva quel povero dottor Araldi, e poi incampagna... a Bernasca dove andavamo, venivano tutti queisignori del paese…. non ho mai sentito un ette…. non homai sentito che nessuno si lamentasse. No, no, credete unpo’ anche alle vecchie…. il fatto vero è che dopo che Voltai-re e compagni han cominciato a guastar la testa alla gente,tutti si lamentano, tutti si lamentano, tutti gridano...

CAPITANO. (sorridendo ironico) Vorrebbe dire, zia, che siail troppo cibo che li la dimagrare?

MARCHESA. ( sorridente e amorevole) Sta bene, bricconcel-lo, burlarsi della zia?

SERVO. (apre la porta e annunzia) La signora contessa Datis.(Donna sulla cinquantina ec. ec. )MARCHESA. Buon giorno, Gina! (abbreviativo ec. )CONTESSA. Buon giorno, mamma! generale! abate!.... Buon

giorno, Edoardo! Oh! vi credevo di servizio col Principe.(Principe di Carignano, Carlo Alberto.)

CAPITANO. No, è Collegno.( Intanto la Contessa ec. )CONTESSA. Abate.… scusi, dietro a lei, guardi là sulla se-

dia.… quel panierino.… bravo, proprio quello.( riceve il pa-nierino ec. ) Oh! ora cominci un poco a darmi sue nuove.(alla madre.)

MARCHESA. Eh! non sono mica stata troppo contenta da iersera in qua. Questa notte ho tornato a sentir più forte il miosolito dolore.… e son rimasta piuttosto spossata tutto ilgiorno.

CONTESSA. Ma è proprio vero, mia cara mamma, che lei erastamattina al triduo a San Filippo?

MARCHESA. Sicuro che c’ero.CONTESSA. Oh! ma cara mamma, bisogna proprio che io la

sgridi. Abate.... generale…. mi aiutino.MARCHESA. Ma, mia cara figlia, non vuoi che io vada al tri-

duo per quella povera Montanera?…. Come sta questa se-ra?.... Io avevo ordinato al cocchiere che andasse a pigliarnele nuove... Edoardo, suona un po’ il campanello! (dirindin-din. Capita Albano) Giovanni è tornato?

ALBANO. Nossignora.MARCHESA. Che tartaruga che è mai quel Giovanni! Ne sai

dunque qualche cosa tu, Gina?CONTESSA. Mi hanno detto che sta sempre al solito: ieri le

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han fatto fare l’undecimo salasso; dovevano chiamar Tarellaper un consulto. Lo so dalla Azeglio, che le ha fatto nottata.

MARCHESA. Il Padre Mellini, che è suo confessore, me neparlava, e mi pareva che masticasse.

GENERALE. Ma è anche una benedetta donna fatta a suomodo. Tutte

le mattine, o piova o nevichi, bisogna lei sia a Santa Teresa allamessa delle sette.… e.... sapete, Gabriella ha i suoi anni an-che lei.

GIOVANNI. Sono stato dalla signora Contessa di Montane-ra... tanti complimenti e ringraziamenti: dice così che questasera il medico l’ha trovata meglio (in coro, parole e segni disoddisfazione), e ho sentito che dicevano al domestico cheandasse a dire alla signora marchesa Azeglio che non c’erapiù bisogno che andasse a vegliarla.

MARCHESA. Oh! là! alla buon’ora! Iddio faccia che se la ca-vi.

CONTESSA. Per dire la verità le ha fatto una grande assisten-za...quella brava Costanza ( marchesa d’Azeglio); non la la-sciava mai.

GENERALE. Ah! è proprio un angelo!ABATE. Brava, proprio una buona donna!GENERALE. A proposito della Azeglio... Sapete che cosa mi

han detto? Che l’ultimo, Massimo, lascia il servizio.MARCHESA. L’ultimo?... Deve avere fra venti e ventun an-

ni…. E perchè?… È forse malato?GENERALE. Oh! sì che è malato!.... Sicuramente .... noialtri

non ne sentivamo di queste, a venti anni lasciare il servizio!.... salvo essere infermi o stroppiati.... Già mi diceva Quinto,il suo colonnello in Piemonte Reale, che non aveva voglia difar niente.

CONTESSA. Però, da quel che mi dicono, i suoi camerata glivolevano bene: stordito come una trottola, questo sì, l’hosempre sentito a dire. Ma via! un buon figliuolo.

GENERALE. Sempre agli arresti.CAPITANO. Generale, mi permetta.... è vero che era spesso

agli arresti, ma non mai per motivi di servizio. Sicuro che lasera, finito il suo servizio, è un fatto.… nissuno era più buo-no a tenerlo. Magari a cavallo senza sella….Hop!... un tem-po di galoppo.… ed eccotelo a Torino; lo so bene io, cheeravamo noi di guarnigione e facevamo il diavolo a quattrotutta la notte.

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MARCHESA. Bravo, belle cose!CAPITANO. Cosa vuol mai, zia, militari.... Non siamo già se-

minaristi! Verso la mattina poi un altro tempo di galoppo, ea quattr’ore in piazza d’Armi alla Venaria a fare il servizio.

GENERALE. Tutto questo sarà bello e buono, mio caro Mar-chese, ma cavalli e uomini.… la notte è fatta per dormire....non siamo pipistrelli; e rovinarsi loro e i cavalli in quella ma-niera, non so quanto possa dirsi che sieno buoni ufficiali. Epoi, dopo lasciato Piemonte Reale passò nella Guardia pro-vinciale, e andava per Torino con quel cappello bianco e lacravatta all’enfant; già sempre in cattive compagnie, in mez-zo ai pittori, ai cantanti, e un giorno non gli è venuto il tic-chio dì cantare un’opera al Paesana?... Revel l’ha mandato achiamare, e gli ha fatto una lavata di capo!…. Via,via….(scuote la testa ec.)

CAPITANO. Oh! per questo, ne ha fatte delle belle! un gior-no ha traversato a bisdosso e al galoppo la passeggiata dellaVeneria angelo…. vestito da angelo.

MARCHESA. (interrompendolo) Via, non dite fandonie.GENERALE. Già, già, già! Taparelli! Taparelli! Non hanno

tutti i loro giorni!MARCHESA. Ma e suo padre, che cosa dice che ha lasciato il

servizio?CONTESSA. Là là, è meglio che racconti io la storia, che la so.

Mi ha detto tutto Costanza. Non lascia già il servizio cosìper lasciarlo: lo lascia perchè vuole tornare a Roma a fare ilpittore.

ABATE.GENERALE. Uh! (incredulità)MARCHESA.CAPITANO. Che razza d’idea!CONTESSA. Per questo.... alla fin dei conti.... ognuno è pa-

drone di scegliere la sua carriera.GENERALE. Bella carriera!MARCHESA. Via, va bene.… son con voi…. Basta.... pazien-

za. Ma non è tutto.… e vi confesso che neppur io, benchènon abbia pregiudizi, non so troppo intendere.… Insommail fatto è che vuole andare a Roma a fare il pittore di mestie-re.

GENERALE. Uh! Che diavolo! Vuole andare a Roma a farel’imbianchino? (ridendo)

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CONTESSA. No (ridendo), non l’imbianchino, ma vuol fare ilpittore, vendere i quadri... so assai...(risa generali).

GENERALE. Mi pare che i Taparelli vogliano sorpassare lorostessi in questa generazione. Ma via.… questo passa proprioil segno. Prima voleva fare l’istrione, adesso vuol fare il pit-tore di mestiere. Se fossi il Re, lo vorrei mandare a dipingerele vedute a Fenestrelle.… e mettergli il cervello a partito.

MARCHESA. Ma, cari miei, io son vecchia, e di queste vostreidee d’ora non ne capisco nulla... Spiegatemi un poco. MaMassimo (sorridendo) vuol fare il mestiere di quel gambe-torte di Vacca che ha fatto la miniatura qui di Gina?...Guardate, generale... è lì dietro a voi.

GENERALE. Che ne so io?CONTESSA. No, torno a ripetere…. la questione non è lì...

prendere una carriera o un’altra.… in quanto a ciò.... ognu-no... Vedete bene, c’era un architetto Alfieri, adesso c’è Bre-me, quello che sta a Milano, che dipinge; c’è anche Canel-la... ma lo fanno da signori. Mi ricordo al tempo deiFrancesi, quando eravamo noi pure a Firenze, c’erano ap-punto gli Azeglio, Perrone, i Balbo – ebbene, ho sentito mil-le volte il conte Alfieri dire che non aveva mai ricavato unsoldo dalle sue tragedie.… ne ha bene spesi molti a farlestampare, questo sì, ma mai e poi mai ne ha fatto un guada-gno.

CAPITANO. Però... non è che io voglia sostenere il contrario.Però è un fatto, in Inghilterra mi dicono tutti che i signori, imilord, scrivono per le riviste o compongono libri e se lifanno pagare bene e meglio.

GENERALE. Bravo Marchese! Li avete proprio trovati i buo-ni. Ma cosa,è che non si vende in Inghilterra? Vendono per-fino le donne!...

CAPITANO.(sottovoce al generale) Quanto a questo preferi-sco l’Italia dove si hanno per niente.

GENERALE.(sottovoce) Se vi sente la zia state fresco!CONTESSA. Se io fossi al posto di suo padre, sapete cosa gli

direi? Vedi, mio caro figlio gli direi, – fa’ pure il pittore, sevuoi, ma fallo per tuo piacere, da gentiluomo. E poi, gli di-rei, – tutta la tua gente ha servito il Re e il paese.... tu nonmanchi di mezzi.… tutte le strade ti sono aperte....pensa an-cora che puoi crearti uno stato nel mondo e renderti utile, efarti un nome in altra maniera migliore che dipingendo.…

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ciò non toglie che tu possa divertirti a far dei quadri, se cosìti piace, ec. ec.-

2 Chi fa il selciato delle vie.3 La famiglia di Bonifazio VIII, che ha ora nel mio amico

Don Michele un onorevole rappresentante.4 Quando Catone il Censore fabbricò la sua curia un tal Me-

nianus cedette una porzione dell’area, a patto di avere un bal-cone che mettesse dalla sua casa nell’interno dell’edifizio, e fuchiamato Menianus quindi Mignano.

5 Il pezzo più grosso fu l’orecchio.6 Fu detta poi Via Francorum.7 Uomo d’arme libero.8 Questo secondo volume dei Ricordi sarebbe pur troppo fi-

nito qui, se uno dei più intimi e cari amici di mio padre, il cava-lier Giusuppe Torelli, non si fosse presa la cura di compirlo.Egli possedeva due preziose monografie che dovevano esserepubblicate nel suo Cronista (ma poi non furono), delle qualimio padre voleva servirsi per formare gli ultimi capitoli delpresente volume. Ma queste monografie non si sarebbero po-tute stampare così di seguito senz’altro; era necessario com-metterle con qualche pagina di congiunzione. Ed anche perqueste, il Torelli assicurava di possedere, dopo tanti anni d’in-tima consuetudine, una tal quantità di note e d’appunti cavatida lettere e da memorie inedite dell’amico Azeglio, che a luinon restava che raccogliere e ordinare. E non posso ricordaresenza tenerezza l’assiduità, l’impegno, il calore incredibile mes-so dal povero Torelli in questo paziente lavero; mentre il male,che poi lo vinse due mesi dopo, faceva tali progressi da non la-sciargli quasi più forza di parlare, non che di scrivere. Si po-trebbe però dubitare se, nelle pagine aggiunte dal Torelli, nonsarebbe stato forse più conveniente l’usare la persona terza in-vece della prima; molto più che i documenti originali, da cuiesso protestava di averle letteralmente ricavate, non eran desti-nati alla pubblicità. Comunque sia, io ho creduto debito dilealtà verso il lettore di contraddistinguere con un asterisconella stampa di questi ultimi capitoli quelle parti, di cui non hoveduto coi miei occhi il testo originale. (Nota dell’Editrice)

9 Non sono proprio belli.10 La chiesa è un quadriluogo di pietre bigie: dicono la fon-

dasse la contessa Matilde. Vi sono due bassorilievi di Luca del-la Robbia, e un acquasantino del Cinquecento, assai bello.

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11 Nel Cinquecento era dei Mezzalancia.12 Cerchietti d’ottone al muro per tirare fili di ferro, cordon-

cini, ec.13 Io l’avevo chiamato l’Ombra d’Argalia.14 Commendatore Domenico Promis, bibliotecario di S. M.,

in allora membro della Censura.15 Me, che questo peccato l’avevo, cacciarono alla fine davve-

ro, come si vedrà.

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